dossier TRIBUTI LOCALI |
maggio 2023 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Motivazione confusa, atto nullo. Anche l'avviso di accertamento
deve essere ragionevole. Un'ordinanza della Corte di cassazione accoglie la
tesi prospettata dal contribuente.
La motivazione dell'avviso di accertamento, come quella di ogni
provvedimento amministrativo, è improntata alla salvaguardia dei principi di
rango costituzionale di ragionevolezza, imparzialità e proporzionalità che
governano l'agire amministrativo, commisurata alle esigenze di razionalità
operativa e non arbitrarietà del potere discrezionale. Peraltro, nell'ottica
del destinatario dell'atto la motivazione è finalizzata alla cognizione del
processo decisionale dell'autorità al fine dell'eventuale opposizione in
aderenza ai dettami costituzionali.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. V civile -
ordinanza 17.05.2023 n. 13620, che ha accolto
la tesi del contribuente che lamentava la motivazione contraddittoria degli
avvisi emessi, disponendo che l'apparato motivazionale assume un aspetto
rilevante anche per l'organo giurisdizionale poiché costituisce il
principale, se non il solo elemento utilizzabile per il relativo vaglio.
Se è verosimile che l'atto rechi motivazioni concorrenti per delimitare la
condotta del contribuente nella fase preliminare del procedimento di
formazione della pretesa, il ricorso a molteplici profili motivazionali non
deve comprimere l'esigenza del rispetto del vincolo funzionale a cui
l'obbligo motivazionale è destinato. Gli ermellini richiamano altri
precedenti conformi (Cass. 18767/2020, 6104/2020 e 22003/2014) che
evidenziano come l'atto non possa recare un impianto motivazionale
contraddittorio, poiché è precluso al contribuente di avere certezza degli
elementi costituenti le ragioni della pretesa.
Siffatto vizio è configurabile anche quando sono esposte motivazioni
concorrenti ma assolutamente discordanti tra di loro e, perciò, inidonee a
rappresentare il fulcro della pretesa. Il fisco non può manifestare una
motivazione incoerente con funzione di riserva, perché l'alternatività delle
ragioni della pretesa, lasciando la parte pubblica arbitro di scegliere nel
corso del contenzioso quella che più le convenga secondo le circostanze,
espone la controparte ad una difesa difficile o talvolta impossibile.
I principi sopra affermati sono stati disattesi da giudici di merito avendo
ritenuto gli atti opposti immuni dai censurati vizi, sebbene caratterizzati
da scarsa rigorosità motivazionale. Orbene, il fatto che i rilievi erariali
si fondavano su plurime ragioni, anche in apparenza contrastanti fra loro,
non comportava la nullità degli atti, sia perché nessuna norma fa discendere
la loro nullità da un vizio di contraddittoria motivazione, sia perché si
trattava di scarsa rigorosità motivazionale più che di contraddittorietà
della motivazione medesima.
Secondo la Corte, posto la scelta del fisco di affidare l'atto a plurime
ragioni tra di loro eterogenee, i giudici di appello avrebbero dovuto
verificare concretamente, se la comprensione dei fattori fondanti la pretesa
era oggettivamente incerta con riguardo alla possibilità del contribuente di
esercitare il diritto di difesa nella sua pienezza
(articolo ItaliaOggi del 11.07.2023). |
aprile 2023 |
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TRIBUTI: Paletti alla esenzione dell'Imu.
Imposta dovuta anche se l'ente non profit non realizza utili. La
Cassazione definisce i requisiti per usufruire del beneficio per attività
non commerciali.
Un ente non profit
è soggetto al pagamento dell'Imu sugli immobili utilizzati per attività
didattica se richiede agli studenti una retta, anche se modesta. L'imposta è
dovuta anche se non vengono realizzati degli utili dallo svolgimento
dell'attività. L'esenzione Imu è compatibile con il divieto di aiuti di
Stato, sancito dalla normativa unionale, solo nel caso in cui gli immobili
siano destinati allo svolgimento di attività non economica, svolta a titolo
gratuito o dietro il versamento di un corrispettivo meramente simbolico.
Secondo la Corte di giustizia europea, infatti, è attività economica
qualsiasi attività che consista nell'offrire beni o servizi su un
determinato mercato con prestazioni che vengono remunerate.
Lo
ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
13.04.2023 n. 9942.
Per la Suprema corte, il giudice d'appello ha accertato lo svolgimento
nell'immobile di un'attività di natura commerciale tenuto conto del
pagamento da parte degli utenti di rette come corrispettivo del servizio
ricevuto.
L'esenzione Imu “presuppone che l'attività didattica esercitata
nell'immobile, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta in concreto
con modalità commerciali, delle quali costituisce un indice rivelatore il
pagamento di una retta scolastica da parte degli studenti, anche se
modesta”.
Il mancato conseguimento di utili “non è indicativo della natura
non commerciale dell'attività”. Del resto, l'agevolazione è compatibile con
il divieto di aiuti di Stato solo se ha a oggetto “immobili destinati allo
svolgimento di attività non economica” e “l'attività sia svolta a titolo
gratuito ovvero dietro il versamento di un corrispettivo simbolico”.
La disciplina dell'esenzione.
L'articolo 1, comma 759, lettera g), della legge di bilancio 2020 (160/2019),
che disciplina la nuova Imu, riconosce agli enti il diritto all'esenzione
alle stesse condizioni fissate dalla vecchia normativa.
In effetti, il comma
759 dispone che sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante
il quale sussistono le condizioni prescritte, gli immobili posseduti e
utilizzati “dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7
del decreto legislativo 30.12.1992, n. 504, e destinati esclusivamente
allo svolgimento con modalità non commerciali delle attività previste nella
medesima lettera i)”.
Quest'ultima disposizione, richiamata nella pronuncia
in esame, prevede che gli immobili sono esonerati dal pagamento dell'imposta
municipale solo se vengono svolte le attività sanitarie, didattiche,
ricreative, sportive, assistenziali, culturali e così via con modalità non
commerciali.
Le attività didattiche, che sono quelle dirette all'istruzione
e alla formazione, si ritengono effettuate con modalità non commerciali se
le stesse sono paritarie rispetto a quella statale, la scuola adotta un
regolamento che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione
degli alunni e viene applicata la contrattazione collettiva al personale
docente e non docente.
L'agevolazione si applica anche nel caso in cui l'unità immobiliare abbia
un'utilizzazione mista, ma solo sulla parte nella quale si svolge l'attività
non commerciale, sempre che sia identificabile. La parte dell'immobile
dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente deve essere iscritta
in catasto, con attribuzione della relativa rendita.
Se non è possibile
accatastarla autonomamente, il beneficio fiscale spetta in proporzione
all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve risultare da
apposita dichiarazione. Altro requisito essenziale per fruire dell'esenzione
è il possesso qualificato da parte dell'ente non profit. Per l'esonero non è
sufficiente il possesso di fatto. Altrimenti l'agevolazione si estenderebbe
al soggetto titolare. L'uso indiretto da parte dell'ente che non ne sia
possessore non consente al proprietario di fruire dell'esenzione.
La Corte
costituzionale (ordinanze 429/2006 e 19/2007) ha chiarito che per fruire
dell'esenzione l'ente non commerciale deve non solo utilizzare, ma anche
possedere direttamente l'immobile. È richiesta una duplice condizione:
l'utilizzazione diretta degli immobili da parte dell'ente possessore e
l'esclusiva loro destinazione a attività peculiari che non siano produttive
di reddito.
Sempre la Cassazione, con la sentenza 27242/2022, ha affermato che non può
essere riconosciuta l'esenzione a un ente non commerciale se l'immobile non
viene effettivamente utilizzato. Se il complesso immobiliare per cui viene
preteso il diritto a fruire del beneficio fiscale ha formato oggetto di
trattative per la sua cessione o di contratti preliminari di vendita, questo
dimostra il venir meno della sua funzione strumentale. Il regime di favore
può essere riconosciuto solo per il periodo dell'anno durante il quale
sussiste la destinazione dell'immobile per l'esercizio delle attività
elencate dalla norma di legge.
L'estensione dell'agevolazione.
Va ricordato che dal 2020 ai comuni è concessa la facoltà di ampliare i
confini dell'esenzione per gli immobili che hanno questa destinazione.
L'amministrazione locale può esentare gli immobili dati in comodato gratuito
al comune, a altro ente territoriale (provincia, regione) o a un ente non
commerciale, purché lo utilizzino esclusivamente per scopi istituzionali o
statutari. È una scelta regolamentare contemplata dall'articolo 1, comma
777, della manovra di bilancio 2020 (legge 160/2019) che disciplina la nuova
Imu.
In passato anche l'Ifel, l'Istituto di finanza locale dell'Anci, ha
predisposto uno schema di regolamento Imu, che contempla questa facoltà. In
particolare, è previsto che le amministrazioni comunali possono esentare dal
pagamento i fabbricati dati in comodato gratuito, registrato, a enti non
commerciali e utilizzati esclusivamente per lo svolgimento con modalità non
commerciali delle attività che possono fruire dell'agevolazione.
In realtà,
la norma di legge non impone l'obbligo di registrazione del contratto, né
alcun obbligo di comunicazione, ma per evitare elusioni della norma o
evasioni del tributo sarebbe opportuno richiedere questi adempimenti. Di
questa opzione, per esempio, si è avvalso il comune di Milano, che ha
apportato modifiche al proprio regolamento Imu, con un ampliamento
dell'esenzione oltre i limiti segnati dalla norma di legge, che esclude dal
beneficio fiscale gli immobili dati in comodato gratuito (articolo ItaliaOggi Sette del 08.05.2023). |
marzo 2023 |
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TRIBUTI:
Imu, pertinenze da dichiarare. Esonero connesso alla
comunicazione sull'area edificabile. L'intervento della Cassazione sugli
adempimenti previsti per la non imponibilità dei terreni
Per l'esonero dal pagamento dell'Imu
delle aree edificabili pertinenziali deve essere presentata la dichiarazione
da parte del titolare. Le aree non devono essere assoggettate all'imposta
municipale se costituiscono di fatto pertinenze dei fabbricati. Ma per avere
diritto all'agevolazione l'interessato deve presentare la dichiarazione,
informando il comune sull'utilizzo dell'immobile come pertinenza.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez.
V civile, con la
sentenza 02.03.2023 n. 6281.
Per i giudici di piazza Cavour, il vincolo di pertinenzialità è collegato a
una precisa scelta del contribuente “che deve essere necessariamente
esplicitata per assumere rilievo”. Va denunciata la “destinazione
durevole di un bene a servizio di un altro”, da parte del proprietario
dell'immobile o di chi abbia un diritto reale sul bene.
Pertanto, ai fini dell'esclusione dell'autonoma imponibilità dell'area, in
quanto pertinenziale, “è necessaria la specifica dichiarazione, da parte
del contribuente, di tale qualifica”.
Dichiarazione ed esonero.
Spetta al contribuente dimostrare che un'area edificabile non deve essere
assoggettata all'imposta municipale perché costituisce pertinenza di un
fabbricato. Non conta il dato catastale e il mancato accorpamento al bene
principale. Quello che assume rilevanza è l'effettiva destinazione dell'area
pertinenziale. Il contribuente è tenuto a provare di trarre un beneficio dal
suo uso, dimostrando anche che la scelta non sia finalizzata a eludere il
pagamento del tributo.
Per avere diritto all'agevolazione, poi, l'interessato deve presentare la
dichiarazione, informando il comune sull'utilizzo dell'immobile come
pertinenza. Inoltre, non deve essere possibile una destinazione diversa
senza una radicale trasformazione del bene pertinenziale. Naturalmente, la
prova dell'asservimento grava sul contribuente. Per la Suprema corte, il
contribuente che non abbia evidenziato nella dichiarazione l'esistenza di
una pertinenza non ha alcun titolo per impugnare l'avviso di accertamento
con cui l'area viene assoggettata a imposizione.
Questa interpretazione degli Ermellini sulla destinazione delle aree
pertinenziali e sul diritto dell'interessato a ottenere l'esonero dal
pagamento del tributo non può trovare più applicazione a partire dal 2020.
Con la nuova Imu, infatti, sono cambiate le regole sulle aree pertinenziali.
Queste aree sono soggette al pagamento se non hanno una specifica
qualificazione ai fini urbanistici e se non sono accorpate catastalmente al
fabbricato. L'articolo 1, comma 741, lettera a), della legge 160/2019 ha
apportato delle modifiche alla disciplina delle aree edificabili che sono al
servizio di un fabbricato.
Le nuove regole.
Dal 2020 non è più applicabile il principio affermato dalla Cassazione, che
ha riconosciuto la non imponibilità delle aree anche se non sono accorpate
in catasto al fabbricato. In base alle nuove disposizioni, per fabbricato
s'intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel
catasto edilizio urbano con attribuzione di rendita catastale,
considerandosi parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla
costruzione e quella che ne costituisce pertinenza ai fini urbanistici, a
condizione che venga accatastata unitariamente.
Quindi, fino al 2019 occorre fare riferimento a quanto sostenuto dai giudici
di legittimità in ordine all'intassabilità, a certe condizioni, delle aree
non accatastate unitariamente ai fabbricati. In generale, per le pertinenze
va fatto riferimento alla definizione fornita dall'articolo 817 del codice
civile, secondo cui sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo
durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa. Per il vincolo
pertinenziale serve sia la durevole destinazione della cosa accessoria a
servizio o ornamento di quella principale, sia la volontà dell'avente
diritto di creare la destinazione.
Al riguardo, l'accatastamento separato dei due immobili non era
d'impedimento alla non imponibilità dell'area come pertinenza del
fabbricato. In particolare, con la sentenza 8367/2016 non ha ritenuto che
fosse necessario l'accatastamento unitario tra area e fabbricato, purché tra
i due immobili vi fosse un vincolo d'asservimento durevole e funzionale. E
la prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale gravava sul contribuente.
Altrimenti, la scelta pertinenziale avrebbe avuto l'unica funzione di
eludere il prelievo, per ottenere un risparmio fiscale, e avrebbe dato luogo
a un abuso del diritto. La Cassazione ha più volte ribadito che quando si
tratta di pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze catastali,
ma la destinazione di fatto.
Un'area pertinenziale e una costruzione, dunque, potevano essere censite
catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere assoggettate a
tassazione come un unico bene. Con la nuova norma sopra citata è invece
richiesto, per fruire del vantaggio fiscale, che fabbricato e area siano
accorpate catastalmente. Per escludere il pagamento conta la qualificazione
urbanistica dell'area e la sua graffatura catastale con il fabbricato. Se
non sussistono i requisiti contenuti nella legge di bilancio 2020, il
contribuente è tenuto a pagare il tributo.
Va ricordato, infine, che per area fabbricabile s'intende quella
utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici
generali o attuativi oppure in base alle possibilità effettive di
edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti delle
indennità di espropriazione per pubblica utilità. Un'area è edificabile
quando è inserita nel piano regolatore generale ed è soggetta all'Imu
indipendentemente dalla successiva lottizzazione del suolo.
È il comune, su richiesta del contribuente, che attesta se un'area sita sul
proprio territorio sia edificabile. Se lo strumento urbanistico è approvato
dal consiglio comunale, l'ente può dal momento dell'approvazione richiedere
il pagamento del tributo. Per il pagamento conta, però, non solo l'edificabilità
di diritto, ma anche quella di fatto. Un'area va qualificata edificabile ed
è soggetta al tributo anche se non è inserita nel piano regolatore generale
o se lo strumento urbanistico viene annullato dal giudice amministrativo.
Per la Suprema corte (ordinanza 30372/2021) la vocazione edificatoria di un
terreno, pur non essendo urbanisticamente qualificato, può essere desunta da
vari fattori, tra i quali la vicinanza al centro abitato, lo sviluppo
edilizio delle zone adiacenti, l'esistenza di servizi pubblici essenziali,
la presenza di opere di urbanizzazione primaria
(articolo
ItaliaOggi Sette del 01.05.2023).
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Le definizioni
Qualificazione giuridica area edificabile
Per area fabbricabile si intende l’area utilizzabile a scopo edificatorio in
base agli strumenti urbanistici generali o attuativi, ovvero in base alle
possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti
agli effetti dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità
Nuova nozione di fabbricato e pertinenza
Per fabbricato s’intende l’unità immobiliare iscritta nel catasto edilizio
urbano con attribuzione di rendita catastale.
Si considera parte integrante del fabbricato l’area occupata dalla
costruzione e quella che ne costituisce pertinenza esclusivamente ai fini
urbanistici, purché accatastata unitariamente |
gennaio 2022 |
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INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - TRIBUTI: Irap negli incentivi per Imu e Tari.
La Corte dei conti Lombardia, nel
parere 13.01.2022 n. 3, ha confermato quanto ormai consolidato in materia di
incentivi per le maggiori riscossioni delle entrate, ovvero che «gli
accantonamenti per la copertura e il pagamento degli incentivi derivanti dal
maggior gettito accertato e riscosso relativo all'Imu e alla Tari previsto
dall'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018 e degli incentivi previsti
dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 da destinare al personale interessato
allo svolgimento delle funzioni tecniche devono essere determinati al lordo
di tutti gli oneri accessori connessi alle erogazioni, ivi comprese le somme
che gravano sull'ente a titolo di Irap»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 10.02.2022). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - TRIBUTI: Accantonamento
degli incentivi al personale al lordo degli oneri accessori dell'erogazione.
Gli accantonamenti per la copertura e il pagamento degli incentivi derivanti
dal maggior gettito accertato e riscosso relativo all'Imu e alla Tari (art.
1, comma 1091, della legge 145/2018) e degli incentivi stabiliti all'art. 113 del Dlgs 50/2016 da destinare al personale interessato allo
svolgimento delle funzioni tecniche devono essere determinati al lordo di
tutti gli oneri accessori connessi alle erogazioni, comprese le somme che
gravano sull'ente a titolo di Irap che non possono non riflettersi sulle
disponibilità delle risorse effettivamente ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, riducendo "a monte" la quota da attribuire a
costoro, la quale andrà calcolata al netto di tali somme.
Questo è il
parere 13.01.2022 n. 3
espresso
dalla Corte dei conti, Sezione Regionale per la Lombardia.
In sostanza, per i magistrati contabili le somme indicate per fronteggiare
in materia di pubblico impiego gli oneri di spesa, inclusi i fondi di
produttività e per i miglioramenti economici, costituiscono le disponibilità
complessive massime e, pertanto, non superabili. Del resto, le stesse
Sezioni Riunite avevano già sottolineato che «l'incremento della
retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche
l'espansione dell'imposta che deve, comunque, trovare copertura nell'ambito
delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l'obiettivo del
contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti
sui bilanci degli enti pubblici» (deliberazione
30.06.2010 n. 33).
La Sezione osserva, infine, che anche la
ordinanza 07.10.2021
n. 27315
della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha confermato l'orientamento della
deliberazione 30.06.2010 n. 33
delle
Sezioni riunite, per concludere che «se l'amministrazione è
tenuta ad erogare il compenso senza trattenere la quota dell'IRAP è
nondimeno obbligata al rispetto della disciplina sulla copertura dei fondi
imposta dall'articolo 81, comma 4 cost., con la conseguenza che è tenuta a
quantificare le somme che gravano sull'ente a titolo di IRAP rendendole
indisponibili e successivamente ripartire l'incentivo, corrispondendo ai
dipendenti lo stesso al netto degli oneri».
In conclusione il collegio ritiene che non vi siano ragioni per discostarsi
dalla giurisprudenza sopra richiamata.
Per quanto concerne gli incentivi da
maggior gettito Imu e Tasi, a tale conclusione si perviene sulla base di una
mera interpretazione letterale dell'articolo 1, comma 1091, della legge
145/2018 che prevede testualmente che i compensi che gli enti locali
ripartiscono a titolo di incentivo devono intendersi «al lordo di tutti gli
oneri accessori alle erogazioni, ivi compresa la quota IRAP».
Quanto agli
incentivi di cui all'articolo 113, comma 3, del Dlgs 50/2016, il collegio
osserva che la disposizione del nuovo codice è sostanzialmente
sovrapponibile alle previsioni già contenute nell'articolo 92, comma 5, del
Dlgs 163/2006 che sono state oggetto di approfondita analisi nel corso della
citata
deliberazione 30.06.2010 n. 33
delle Sezioni riunite cui rinvia.
Di conseguenza, alla luce dei criteri ermeneutici affermati univocamente
dalla giurisprudenza citata, la Sezione ribadisce che anche in tali
fattispecie la copertura degli oneri riflessi e degli oneri fiscali gravanti
sull'ente locale (tra cui l'Irap) non può non riflettersi sulle
disponibilità delle risorse effettivamente ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, riducendo "a monte" la quota da attribuire
a costoro, la quale andrà calcolata al netto di tali somme
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2022). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - TRIBUTI: Incentivi
tributari e per funzioni tecniche.
Gli accantonamenti per la copertura e il pagamento degli incentivi derivanti
dal maggior gettito accertato e riscosso relativo all'Imu e alla Tari (art.
1, comma 1091, della legge 145/2018) e degli incentivi di previsti dall'art. 113 del Dlgs 50/2016 da destinare al personale interessato
allo svolgimento delle funzioni tecniche devono essere determinati al lordo
di tutti gli oneri accessori connessi alle erogazioni, ivi comprese le somme
che gravano sull'ente a titolo di Irap.
Per quanto concerne gli incentivi da
maggior gettito Imu e Tasi, a questa conclusione si perviene sulla base di
una mera interpretazione letterale dell'articolo 1, comma 1091, della legge
145/2018 che prevede testualmente che i compensi che gli enti locali
ripartiscono a titolo di incentivo devono intendersi «al lordo di tutti gli
oneri accessori alle erogazioni, ivi compresa la quota Irap».
Quanto agli
incentivi previsti dall'articolo 113, comma 3, del Dlgs 50/2016, invece, la
disposizione del nuovo Codice è sostanzialmente sovrapponibile alle
previsioni già contenute nell'articolo 92, comma 5, del Dlgs 163/2006 (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.01.2022 n. 3 - articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 04.02.2022).
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PARERE
Il Sindaco del comune di Bagnatica (BG), “VISTA la
deliberazione 30.06.2010 n. 33
della Corte dei Conti Sez. Riunite, i cui principi di necessaria copertura
della spesa pubblica, sono ad oggi ancora espressamente richiamati nella
recente giurisprudenza di legittimità in materia di lavoro (cfr. ad es.
Corte di Cassazione Civile, Sez. Lavoro,
ordinanza 07.10.2021
n. 27315”, chiede di
“sapere come vada correttamente inteso, alla luce delle
disposizioni di legge sopra richiamate, il principio di “necessaria
copertura della spesa pubblica” richiamato in tali sentenze e quale debba
dunque essere il corretto comportamento dell’ente nel momento in cui
accantona nel proprio bilancio i fondi per gli incentivi sopra richiamati
provvedendo poi di seguito alla liquidazione a favore del dipendente”.
In special modo, la richiesta è tesa a “sapere esattamente se
l’accantonamento, calcolato matematicamente a norma di legge (ad esempio
il 2% massimo della base d’asta secondo l’art. 113 del D.lgs.. 50/2016 o il
fondo calcolato secondo l’art. 1, comma 1091, della legge, tenendo conto
anche delle percentuali di cui alla propria disciplina regolamentare):
- debba già prevedere, comprendendola dunque al suo interno, la
copertura per gli oneri riflessi e per l’IRAP;
o se, diversamente
- debba essere considerato quale somma “netta” (che va al
dipendente quale trattamento accessorio) ed alla quale si dovranno dunque
aggiungere gli impegni ulteriori di spesa nel bilancio per l’ente per gli
oneri riflessi ed IRAP. In tal caso tutta la somma accantonata per legge
andrebbe al dipendente dovendo l’ente sostenere oneri ulteriori ed
aggiuntivi appunto per gli oneri riflessi e per l’IRAP”.
...
Ai fini del corretto inquadramento del quesito occorre esaminare
preliminarmente le norme di riferimento.
L’art. 1, c. 1091, l. n. 145/2018 testualmente dispone che “Ferme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni (….) possono, con
proprio regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso,
relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI,
nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal
conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di
qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2,
del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al
personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate”.
L’articolo 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei
contratti pubblici), rubricato “incentivi per funzioni tecniche” al
secondo comma prevede l’accantonamento in un apposito fondo di risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento, modulate sull'importo
dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara per riconoscere uno
specifico compenso per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti
esclusivamente per determinate attività (“programmazione della spesa per
investimenti, valutazione preventiva dei progetti, predisposizione e
controllo delle procedure di gara ed esecuzione dei contratti pubblici, RUP,
direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e collaudo tecnico
amministrativo ovvero verifica di conformità, collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”).
Il successivo terzo comma prevede che una quota, pari all'80 per cento,
delle risorse del fondo costituito ai sensi del comma 2 possa essere
ripartita, “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le
modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al
comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche
degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione.”
In tale contesto normativo, il comune istante chiede di sapere se gli
accantonamenti previsti da tali disposizioni debbano comprendere la
copertura per gli oneri riflessi e per l’IRAP, e se a tali fattispecie
debbano applicarsi i principi espressi dalle Sezioni riunite di questa Corte
con
deliberazione 30.06.2010 n. 33
che si è pronunciata su tale questione in relazione agli incentivi al
personale dipendente per l’assolvimento di funzioni tecniche (allora
disciplinati dall’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006) e ai compensi
professionali degli avvocati “interni” alle pubbliche
amministrazioni, come regolati dall’art. 1, comma 208, della legge
23.12.2005, n. 266.
Al principio di diritto espresso dal Supremo Consesso della Magistratura
contabile si è conformata la giurisprudenza delle Sezioni regionali di
controllo che si è pronunciata sulla materia degli incentivi per la
progettazione tecnica e su fattispecie analoghe come i diritti di rogito dei
segretari comunale e gli onorari degli avvocati (cfr., per questa Sezione,
le deliberazioni n. 73/PAR/2012, n 469/2015/PAR, 40/2018/PAR, n.
267/2018/PAR e n. 407/2019/PAR. Vedi anche le deliberazioni n. 38/2014/PAR
della Sezione regionale per la Liguria; n. 16/2012/PAR della Sezione
regionale per il Piemonte; n. 146/2013/PAR della Sezione regionale per la
Toscana; n. 25/2014/PAR e n. 148/2019/PAR della Sezione regionale per
l’Umbria e n. 400/2018/PAR della Sezione regionale per il Veneto).
Le Sezioni regionali hanno in più occasioni sottolineato che “Il
principio di diritto affermato dalle Sezioni Riunite permette di enucleare
due punti fermi, a livello interpretativo, a cui debbono conformarsi
i pronunciamenti delle Sezioni regionali di controllo” (v.
parere 18.12.2015 n. 469
di questa Sezione).
Da una parte, infatti, è indubbio che il presupposto dell’IRAP
indicato dall'art. 2 del D.lgs. n. 446 del 1997, e successive modifiche, è “costituito
dall'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta
alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”.
(ibidem). Dall’altra, è indiscutibile che le somme destinate al
pagamento dell’IRAP devono trovare preventiva copertura finanziaria in sede
di costituzione dei fondi destinati a compensare l’attività incentivante,
anche in aderenza alla necessità di garantire adeguata copertura ad una
qualunque spesa gravante sulle amministrazioni pubbliche e di rispettare il
principio del pareggio di bilancio posto dall’art. 81 della Costituzione. In
sostanza, come chiaramente affermato nella deliberazione appena richiamata:
“le somme indicate per fronteggiare in materia di pubblico impiego gli
oneri di spesa, ivi inclusi i fondi di produttività e per i miglioramenti
economici, costituiscono le disponibilità complessive massime e, pertanto,
non superabili”.
Del resto, le stesse Sezioni Riunite avevano già sottolineato che “l’incremento
della retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche
l’espansione dell’imposta che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito
delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l’obiettivo del
contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti
sui bilanci degli enti pubblici” (v.
deliberazione 30.06.2010 n. 33).
Questo Collegio osserva, infine, che anche la
ordinanza 07.10.2021
n. 27315 della Corte di
Cassazione, richiamata dal Comune, ha confermato l’orientamento della
deliberazione 30.06.2010 n. 33
delle SSRR, di cui riporta ampi estratti per concludere che “se
l’amministrazione è tenuta ad erogare il compenso senza trattenere la quota
dell’IRAP è nondimeno obbligata al rispetto della disciplina sulla copertura
dei fondi imposta dall’articolo 81, comma 4 cost., con la conseguenza che è
tenuta a quantificare le somme che gravano sull’ente a titolo di IRAP
rendendole indisponibili e successivamente e ripartire l’incentivo
corrispondendo ai dipendenti lo stesso al netto degli oneri”.
Tornando alle fattispecie oggetto della richiesta di parere del Comune di
Bagnatica, il Collegio ritiene che non vi siano ragioni per discostarsi
dalla giurisprudenza sopra richiamata.
Per quanto concerne gli incentivi da maggior gettito IMU e TASI, a tale
conclusione si perviene sulla base di una mera interpretazione letterale
dell’articolo 1, c. 1091, della legge n. 145/2018 che prevede testualmente
che i compensi che gli enti locali ripartiscono a titolo di incentivo devono
intendersi “al lordo di tutti gli oneri accessori alle erogazioni, ivi
compresa la quota IRAP”.
Quanto agli incentivi di cui all’articolo 113, c. 3, del d.lgs. n. 50/2016,
il Collegio osserva che la disposizione del nuovo Codice è sostanzialmente
sovrapponibile alle previsioni già contenute nell’art. 92, c. 5, del d.lgs.
n. 163/2006 che sono state oggetto di approfondita analisi nel corso della
più volte citata
deliberazione 30.06.2010 n. 33 delle Sezioni riunite cui si
rinvia.
Tutto ciò premesso, alla luce dei criteri ermeneutici affermati univocamente
dalla giurisprudenza citata, il Collegio ribadisce che anche in tali
fattispecie la copertura degli oneri riflessi e degli oneri fiscali gravanti
sull’ente locale (tra cui l’Irap) non può non riflettersi sulle
disponibilità delle risorse effettivamente ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, riducendo “a monte” la quota da attribuire
a costoro, la quale andrà calcolata al netto di tali somme.
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo, in riscontro all’istanza di parere
formulata dal Comune di Bagnatica (BG), si pronuncia come segue: “gli
accantonamenti per la copertura e il pagamento degli incentivi derivanti dal
maggior gettito accertato e riscosso relativo all’IMU e alla TARI ex art. 1,
c. 1091, della legge n. 145/2018 e degli incentivi di cui all’art. 113 del
d.lgs. n. 50/2016 da destinare al personale interessato allo svolgimento
delle funzioni tecniche devono essere determinati al lordo di tutti gli
oneri accessori connessi alle erogazioni, ivi comprese le somme che gravano
sull’ente a titolo di Irap”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.01.2022 n. 3). |
dicembre 2021 |
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TRIBUTI: Via
libera agli incentivi Imu-Tari dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti
La Sezione Autonomie della Corte dei conti con la
deliberazione 10.12.2021 n. 19
ha posto fine alla discussione in merito alla possibilità di riconoscere ai
dipendenti addetti al recupero dell'evasione tributaria Imu-Tari l'incentivo
introdotto dal comma 1091 dell'articolo 1 della legge 145/2018, anche nel
caso di approvazione del bilancio di previsione entro il termine
eventualmente differito rispetto a quello del 31 dicembre dell'anno
precedente ordinariamente previsto.
Come è noto, il comma 1091 dell'articolo 1 della legge 145/2018 ha
reintrodotto, dopo alcuni anni di assenza, la possibilità per i Comuni di
destinare una quota delle somme introitate dal recupero dell'evasione Imu e
Tari al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali
preposti alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del
personale dipendente. Tuttavia, questa facoltà, che i Comuni devono
esercitare approvando un'apposita norma regolamentare, è subordinata al
rispetto dei termini stabiliti dal Dlgs 267/2000 per l'approvazione del
bilancio di previsione e del rendiconto della gestione.
Il generico riferimento contenuto nella norma ai «termini stabiliti dal Dlgs
267/2000» ha fatto sorgere il dubbio se, nel caso del bilancio di
previsione, intenda riferirsi alla data del 31 dicembre dell'anno
precedente, stabilita dall'articolo 151, comma 1, prima parte, del Dlgs
267/2000, ovvero anche alla data eventualmente differita con apposito Dm,
come previsto dall'ultima parte del comma 1 dell'articolo 151 citato. La
norma appena richiamata ha stabilito infatti che l'ordinario termine del 31
dicembre possa essere spostato con apposito decreto ministeriale.
Diverse sezioni regionali delle Corte dei conti, quali quelle dell'Emilia
Romagna,
della Lombardia, della Toscana, dell'Abruzzo e del Piemonte, hanno
intrepretato in modo rigoroso la norma, ritenendo che il mancato rispetto
del termine del 31 dicembre impedisse all'ente di dare accesso all'incentivo
ai propri dipendenti impiegati nell'attività di recupero dell'evasione (che
comprende anche lo svolgimento delle attività connesse alla partecipazione
del Comune all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali
non corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 203/2005,
convertito, con modificazioni, dalla legge 248/2005).
In particolare, la
Corte dell'Abruzzo (parere 09.06.2020 n. 120), quella del Piemonte
(parere 07.06.2021 n. 92) e quella della Lombardia (parere 06.11.2019 n. 412)
hanno evidenziato che, in caso di mancata approvazione del bilancio entro il
termine del 31 dicembre ma comunque entro il termine differito da Dm o dalla
legge, l'ente si trova a operare in esercizio provvisorio, la cui stringente
disciplina limiterebbe anche la previsione e l'erogazione delle risorse
incentivanti in favore dei dipendenti.
Inoltre, per la Corte della
Lombardia, una diversa interpretazione frusterebbe lo spirito della
disposizione, finalizzata alla corretta gestione delle risorse pubbliche e
in particolare di quelle relative alla spesa per il personale – precludendo
l'erogazione dell'incentivo solo a quei Comuni che, non avendo approvato il
bilancio neppure entro il termine prorogato, sarebbero incorsi nella
procedura di commissariamento ed eventualmente di scioglimento del Consiglio
comunale. Con riferimento invece al mancato rispetto del termine di
approvazione del rendiconto, la Corte dei conti della Lombardia
(parere 10.09.2020 n. 113) aveva ammesso il riconoscimento dell'incentivo nel
caso di rispetto del termine prorogato dalla legge (come è avvenuto nel 2020
per effetto delle norme del Dl 18/2020).
La Corte dei conti della Liguria, invece, ha proposto una diversa
interpretazione della norma, evidenziando come, in caso di mancata
approvazione del bilancio di previsione entro il 31 dicembre, l'applicazione
dell'esercizio provvisorio incide solamente sulla gestione finanziaria
dell'ente e ha carattere transitorio, venendo meno con l'approvazione del
bilancio. Invece, ha osservato la Corte, come previsto dall'articolo 1,
comma 1091, della legge 145/2018, la destinazione del maggior gettito al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici preposti alla gestione
delle entrate o al riconoscimento di trattamento accessorio avviene sulla
base dei dati risultanti dal conto consuntivo relativo all'esercizio
precedente (e, quindi, necessariamente, in un momento successivo alla
chiusura finanziaria della gestione e rispetto all'approvazione del relativo
rendiconto, consentendo di poter valutare se gli obiettivi di incremento di
accertamenti e riscossioni di Imu e Tari siano stati effettivamente
raggiunti).
La Corte della Liguria ha argomentato come siano altri gli
elementi che rilevano ai fini della corretta applicazione della norma del
comma 1091, quali la quantificazione del gettito destinabile all'incentivo
(incassato e non solo accertato), il rispetto degli equilibri di bilancio e
dei vincoli di finanza pubblica, la corretta predeterminazione degli
obiettivi, da rilevare nel peg-piano della performance e della loro
liquidazione sulla base di entrate certe, rilevabili appunto dal rendiconto.
Peraltro, e questo è forse l'aspetto più importante, la Corte remittente ha
sottolineato come l'attività di accertamento e di riscossione dei tributi
comunali non è incisa dall'approvazione del bilancio di previsione, che ha
solo carattere autorizzatorio delle spese e delle entrate da indebitamento.
In altri termini, l'attività incentivata non è condizionata dal bilancio e
la quantificazione dell'incentivo non lo è neppure dall'eventuale
slittamento del termine di approvazione del rendiconto, basandosi comunque
su fatti avvenuti nell'esercizio precedente e non modificati dalla
circostanza che il consuntivo sia approvato entro il 30 aprile o entro il
diverso termine di legge.
Per la Sezione Autonomie, le riflessioni della Corte dei conti della Liguria
meritano di far rivedere l'interpretazione della norma. Infatti, da un punto
di vista meramente formale, la disposizione del comma 1091 opera un rinvio
al termine di cui all'intero articolo 151 del Dlgs 267/2000 e non solo alla
prima parte dello stesso, dove si specifica che il bilancio va approvato
entro il 31 dicembre dell'anno precedente, ma anche a quella parte di esso
in cui si evidenzia che il termine può essere differito con Dm. Inoltre, la
Sezione Autonomie condivide le considerazioni della Corte dei conti della
Liguria appena sopra evidenziate relative alla non incidenza
dell'approvazione del bilancio sull'attività di accertamento tributario.
Pertanto, la Corte ha concluso che «la locuzione "entro i termini stabiliti
dal testo unico di cui al Dlgs 267/2000" contenuta nell'articolo 1, comma
1091, della legge 145/2018, si riferisce anche al diverso termine prorogato,
per il bilancio di previsione, con legge o con decreto del ministro
dell'Interno (ai sensi dell'articolo 151, comma 1, ultimo periodo, Tuel) e,
per il rendiconto, con legge».
Gli incentivi potranno trovare ora una applicazione generalizzata, fermo
restando comunque che si tratta di una facoltà per gli enti, da esercitare
con regolamento, e che l'applicazione dell'istituto richiede una corretta
disciplina del suo funzionamento. Disciplina che dovrà essere ispirata
all'erogazione degli incentivi sulla base degli obiettivi prefissati e del
loro raggiungimento
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.12.2021). |
TRIBUTI:
Corte dei conti, la scadenza per gli incentivi anti-evasione Imu
e Tari segue quella dei bilanci.
La locuzione «entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al d.lgs.
18.08.2000, n. 267» contenuta nell'articolo 1, comma 1091, della legge di
bilancio 2019, si riferisce anche al diverso termine prorogato, per il
bilancio di previsione, con legge o con decreto del Ministro dell'Interno
(articolo 151, comma 1, ultimo periodo, del Tuel) e, per il rendiconto, con
legge.
Questo il principio di diritto affermato dalla Sezione delle Autonomie della
Corte dei conti con
deliberazione 10.12.2021 n. 19.
Il comma 1091 dell'articolo 1 della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23,
comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Sin da subito l'inciso utilizzato dal legislatore ha alimentati dubbi sul
suo corretto significato: deve considerarsi in modo tassativo il termine
indicato dal Tuel oppure è possibile far riferimento anche al diverso
termine prorogato da legge o da specifico decreto ministeriale?
La giurisprudenza contabile che si è pronunciata in argomento (Emilia
Romagna, Lombardia, Toscana, Abruzzo e Piemonte) ha affermato che il termine
per l'approvazione del bilancio di previsione, a cui il suddetto comma 1091
dell'articolo 1 della legge di bilancio 2019 fa riferimento, è da ritenersi
esclusivamente quello del 31 dicembre dell'anno precedente (articolo 151,
comma 1, del Tuel) a prescindere da eventuali proroghe.
La Corte dei conti della Liguria (deliberazione
05.10.2021 n. 78, si veda NT+ Enti locali & Edilizia del 20
ottobre) ha, invece, ipotizzato una possibile diversa lettura della norma e,
pertanto, ha rimesso al presidente della Corte dei conti la valutazione
dell'opportunità di deferire alla sezione delle Autonomie la questione
interpretativa ai termini di approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto. Così la questione è stata deferita alla Sezione delle autonomie.
Secondo la Sezione autonomie la tesi sostenuta nel summenzionato consolidato
orientamento giurisprudenziale non può essere condivisa poiché si riferisce
esclusivamente al termine del 31 dicembre, e ciò implicherebbe che esso
operi un rinvio alla sola prima parte dell'articolo 151, comma 1, del Tuel,
mentre il dettato normativo non appare frazionabile in mancanza di un
riferimento esplicito della norma che opera il rinvio (principio
interpretativo «ubi lex voluit, dixit»).
Meritevole di attenzione appare, si legge nella deliberazione, il
ragionamento dei magistrati contabili liguri, laddove evidenziano che
sebbene l'approvazione differita del bilancio implichi indubbiamente
l'applicazione della disciplina –più restrittiva– di tale tipologia di
esercizio, la stessa incide solamente sulla gestione finanziaria dell'ente e
ha carattere transitorio, venendo meno con l'approvazione del bilancio.
Invece, come previsto dal comma 1091 dell'articolo 1 della legge di bilancio
2019, la destinazione del maggior gettito al potenziamento delle risorse
strumentali degli uffici preposti alla gestione delle entrate o al
riconoscimento di trattamento accessorio avviene sulla base dei dati
risultanti dal conto consuntivo relativo all'esercizio precedente (e,
quindi, necessariamente, in un momento successivo alla chiusura finanziaria
della gestione e rispetto all'approvazione del relativo rendiconto,
consentendo di poter valutare se gli obiettivi di incremento di accertamenti
e riscossioni di Imu e Tari siano stati effettivamente raggiunti).
Ciò che rileva, in sostanza, ai fini della corretta applicazione della
disposizione in esame è che la destinazione del maggior gettito (da
incassare, oltre che da accertare) avvenga nel rispetto degli equilibri di
bilancio e dei principi di finanza pubblica (e, quindi, sulla base di idonea
programmazione), della corretta e preventiva determinazione degli obiettivi
(che trovano fonte nei documenti annuali di perfomance organizzativa
e individuale), della destinazione dei soli maggiori incassi (o meglio, di
una percentuale di essi) al trattamento accessorio e, infine, della
liquidazione sulla base di entrate certe, la cui puntuale determinazione è
possibile, appunto, solo con l'approvazione del rendiconto
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.12.2021).
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PARERE
La locuzione “entro i termini stabiliti dal testo unico
di cui al d.lgs. 18.08.2000, n. 267” contenuta nell’art. 1, co. 1091, della
legge n. 145/2018, si riferisce anche al diverso termine prorogato, per il
bilancio di previsione, con legge o con decreto del Ministro dell'interno
(ai sensi dell’art. 151, co. 1, ultimo periodo, TUEL) e, per il rendiconto,
con legge.
...
PREMESSO
Con la deliberazione
05.10.2021 n. 78, adottata nella
Camera di Consiglio telematica del 13.09.2021, a seguito di una richiesta
inviata tramite il CAL in data 27.05.2021 dal Sindaco del Comune di Santa
Margherita Ligure (GE), la Sezione regionale di controllo per la Liguria ha
sospeso la pronuncia in merito al seguente quesito «Se il compenso
incentivante ex articolo 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018 possa
essere erogato stante l’approvazione del bilancio di previsione nei termini
così come prorogati più volte a causa della situazione emergenziale dovuta
all’epidemia Covid 19».
La Sezione interpellata, dopo aver richiamato l’orientamento sostanzialmente
uniforme delle Sezioni regionali di controllo in merito all’interpretazione
dell’art. 1, comma 1091, della legge 145/2018, ha individuato ed esposto una
possibile diversa lettura della norma.
Ha ritenuto opportuno, pertanto, sottoporre al Presidente della Corte dei
conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle
autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n.
174, o alle Sezioni Riunite in sede di controllo, ai sensi dell’art. 17,
comma 31, decreto legge 01.07.2009, n. 78, la seguente questione di massima,
ai fini dell’adozione di una pronuncia di orientamento generale: «se la
locuzione “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al d.lgs.
18.08.2000, n. 267” per l’approvazione del bilancio preventivo e del conto
consuntivo contenuta all’art. 1, co. 1091, della legge n. 145/2018 debba
intendersi riferita, per il bilancio di previsione, al termine del 31
dicembre dell’anno precedente (ex art. 151, co. 1, TUEL) e, per il
rendiconto, a quello del 30 aprile dell’anno successivo a quello di
riferimento (ex artt. 151, co. 1, e 227, co. 2, TUEL), ovvero se questa
possa intendersi riferita anche al diverso termine prorogato, per il
bilancio di previsione, con legge o con decreto del Ministro dell'interno,
d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali, in presenza di motivate esigenze
(ai sensi dell’art. 151, co. 1, ultimo periodo, TUEL) e, per il rendiconto,
con legge».
La questione è stata deferita a questa Sezione con ordinanza del Presidente
della Corte dei conti n. 16 del 18.10.2021. CONSIDERATO
1. L’art. 1, co. 1091, della legge n. 145/2018 dispone che i Comuni che
hanno approvato il bilancio di previsione e il rendiconto entro i termini
stabiliti dal Testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
(di seguito: TUEL), possono, con proprio regolamento, prevedere che il
maggior gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti
dell’imposta municipale propria e della TARI, nell’esercizio fiscale
precedente a quello di riferimento, risultante dal conto consuntivo
approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia destinato,
limitatamente all’anno di riferimento, al potenziamento delle risorse
strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al
trattamento accessorio del personale dipendente, impiegato nel
raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, anche di qualifica
dirigenziale, in deroga al limite di cui all’articolo 23, comma 2, del
d.lgs. 25.05.2017, n. 75, mediante contrattazione integrativa.
Poiché la facoltà riconosciuta ai Comuni dalla norma appena richiamata resta
espressamente condizionata all’approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267” e, quindi, nei termini previsti dagli
artt. 151, comma 1 e 227, comma 2, del TUEL, occorre innanzitutto chiarire
se questa condizione possa ritenersi soddisfatta nel solo caso in cui il
bilancio di previsione sia stato deliberato entro il 31 dicembre dell’anno
precedente a quello di riferimento, ovvero anche ove il bilancio di
previsione sia stato approvato entro il diverso termine prorogato da
specifiche disposizioni normative o con decreto ministeriale come previsto
dall’ultimo periodo dell’art. 151, comma 1, del TUEL.
La giurisprudenza delle Sezioni regionali che si sono pronunciate in
argomento (Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Abruzzo e Piemonte) ha
affermato che il termine per l’approvazione del bilancio di previsione, a
cui il suddetto comma 1091, della legge n. 145/2018 fa riferimento, è da
ritenersi esclusivamente quello del 31 dicembre dell’anno precedente, ai
sensi dell’art. 151, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000, a prescindere da
eventuali proroghe.
La richiamata giurisprudenza, pertanto, considera quale condizione di
applicabilità dell’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018, il termine
del 31 dicembre previsto nel primo periodo dell’art. 151, comma 1, del Tuel,
interpretando in tal senso la norma che esplicitamente richiama «i comuni
che hanno approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto entro i
termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.082000,
n. 267».
Inoltre, diverse pronunce hanno messo in luce come l’approvazione del
bilancio di previsione oltre il termine del 31 dicembre determini precise
conseguenze sul piano della gestione finanziaria dell’ente, ossia
l’applicazione, ai sensi dell’art. 163 TUEL e del paragrafo 8 del Principio
contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (contenuto
nell’allegato 4/2 al d.lgs. 23.06.2011, n. 118), della più stringente
disciplina che regola l’esercizio provvisorio, «con riguardo al quale
anche la previsione e l’erogazione di risorse incentivanti, quale
l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse alla partecipazione dell’Ente all'accertamento dei tributi
erariali, non possono considerarsi sottratte ai suddetti limiti» (SRC
Piemonte,
parere 07.06.2021 n. 92, SRC Abruzzo,
parere 09.06.2020 n. 120; SRC Lombardia,
parere 06.11.2019 n. 412).
Infine, si è evidenziato che una diversa interpretazione del comma 1091 in
oggetto priverebbe di significato l’espressa apposizione di un termine da
parte del legislatore -oltre a frustrare lo spirito della disposizione,
finalizzata alla corretta gestione delle risorse pubbliche e in particolare
di quelle relative alla spesa per il personale- precludendo l’erogazione
dell’incentivo solo a quei comuni che, non avendo approvato il bilancio
neppure entro il termine prorogato, sarebbero incorsi nella procedura di
commissariamento ed eventualmente di scioglimento del Consiglio comunale ex
art. 141 TUEL (SRC Lombardia,
parere 06.11.2019 n. 412).
Con riguardo ai termini di approvazione del rendiconto, merita menzione il
parere della Sezione regionale di controllo per la Lombardia espresso nel
parere 10.09.2020 n. 113. Il collegio
lombardo, nel confermare il precedente e sopra riportato orientamento
relativo all’individuazione del termine per l’approvazione del bilancio di
previsione, ha ritenuto che, posta la diversa funzione di tale documento
contabile e del rendiconto -rispettivamente preordinati alla programmazione
degli interventi e all’allocazione delle relative risorse nell’esercizio
finanziario futuro, il primo, e alla rappresentazione delle risultanze della
gestione precedente, il secondo- sarebbe privo di senso logico correlare gli
anzidetti incentivi all’approvazione del rendiconto esclusivamente entro il
termine ordinario del 30 aprile fissato ex art. 151, comma 7, TUEL. Ciò
anche in considerazione del fatto che l’approvazione del rendiconto oltre il
termine fissato dal d.lgs. n. 267/2000, ma entro il termine per legge
differito, non altera i risultati raggiunti nel precedente esercizio
finanziario, né produce alcun effetto sull’avvenuta attività di riscossione
da parte del personale che, avendo raggiunto l’obiettivo assegnato, sarebbe
pregiudicato dalla mancata corresponsione dell’incentivo pianificato nel
bilancio di previsione tempestivamente approvato entro il 31 dicembre.
2. La Sezione remittente, nella sua attenta ricostruzione dei profili
giuridici della questione in esame, ricorda che sia i termini di cui
all’art. 163, comma 1, TUEL (il quale prevede che ove il bilancio di
previsione non sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre, la gestione
finanziaria dell'ente debba svolgersi nel rispetto dei principi applicati
della contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio), sia i
termini di cui all’art. 151, comma 7, e 227, comma 2, del TUEL (che
dispongono che il rendiconto deve essere deliberato dall'organo consiliare
entro il 30 aprile dell'anno successivo a quello cui si riferisce) sono
stati più volte prorogati dal legislatore. Quello di approvazione del
bilancio di previsione è stato costantemente differito a decorrere dal 2001.
Per quanto concerne il bilancio di previsione 2021-2023, il termine è stato
prorogato più volte, a causa dell’emergenza sanitaria, e in particolare:
- al 31.01.2021 dall'art. 107, co. 2, decreto-legge 17.03.2020, n.
18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27, come
ulteriormente modificato dall'art. 106, co. 3-bis, decreto-legge 19.05.2020,
n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17.07.2020, n. 77;
- al 31.03.2021, dall'articolo unico, co. 1, decreto ministeriale
13.01.2021;
- al 30.04.2021, dall'art. 30, co. 4, decreto-legge 22.03.2021, n.
41, convertito, con modificazioni, dalla legge 21.05.2021, n. 69;
- al 31.05.2021, dall'art. 11-quater, co. 2, decreto-legge
22.04.2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17.06.2021, n.
87;
- al 31.07.2021, dall'art. 52, co. 2, lett. b), decreto-legge
25.05.2021, n. 73, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.07.2021, n.
106 per gli enti locali che hanno incassato le anticipazioni di liquidità di
cui al decreto-legge 08.04.2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla
legge 06.06.2013, n. 64, e successivi rifinanziamenti.
Nel riportare l’orientamento consolidato della giurisprudenza
soprarichiamata, la Sezione ligure osserva che, se l’art. 1, comma 1091, si
riferisse esclusivamente al termine del 31 dicembre, ciò implicherebbe
sostenere che esso operi un rinvio alla sola prima parte dell’art. 151,
comma 1, TUEL.
Inoltre, per quanto concerne le criticità evidenziate in merito
all’esercizio provvisorio, la Sezione remittente rileva che, sebbene
l’approvazione differita del bilancio implichi indubbiamente l’applicazione
della disciplina –più restrittiva– di tale tipologia di esercizio, ai sensi
dell’art. 163, comma 1, TUEL, la stessa incide solamente sulla gestione
finanziaria dell’ente e ha carattere transitorio, venendo meno con
l’approvazione del bilancio. Invece, come previsto dall’art. 1, co. 1091,
della legge n. 145/2018, la destinazione del maggior gettito al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici preposti alla gestione
delle entrate o al riconoscimento di trattamento accessorio avviene sulla
base dei dati risultanti dal conto consuntivo relativo all’esercizio
precedente (e, quindi, necessariamente, in un momento successivo alla
chiusura finanziaria della gestione e rispetto all’approvazione del relativo
rendiconto, consentendo di poter valutare se gli obiettivi di incremento di
accertamenti e riscossioni di IMU e TARI siano stati effettivamente
raggiunti).
Quanto alla considerazione che un’interpretazione estensiva dell’art. 1,
comma 1091, rischierebbe di frustrare lo spirito della disposizione, il
Collegio ligure argomenta che, ciò che rileva ai fini della corretta
applicazione della disposizione in esame è che la destinazione del maggior
gettito (da incassare, oltre che da accertare) avvenga nel rispetto degli
equilibri di bilancio e dei principi di finanza pubblica (e, quindi, sulla
base di idonea programmazione), della corretta e preventiva determinazione
degli obiettivi (che trovano fonte nei documenti annuali di perfomance
organizzativa e individuale), della destinazione dei soli maggiori incassi
(o meglio, di una percentuale di essi) al trattamento accessorio e, infine,
della liquidazione sulla base di entrate certe, la cui puntuale
determinazione è possibile, appunto, solo con l’approvazione del rendiconto.
Rileva, infine, la Sezione remittente che le ultime disposizioni citate,
nella quasi totalità dei casi, nulla hanno a che vedere con le azioni
programmate dai Comuni in materia di incremento degli accertamenti di IMU e
TARI, né con l’implementazione delle azioni di miglioramento della
riscossione intervenute in corso d’anno, considerato, infine, che dal punto
di vista giuridico-contabile, l’approvazione del bilancio di previsione, in
un sistema di contabilità finanziaria, costituisce momento di autorizzazione
delle spese e delle sole entrate da indebitamento, mentre non autorizza
l’attività di accertamento e riscossione delle entrate (cfr. art. 164 d.lgs.
n. 267/2000).
3. La soluzione della questione rimessa alla valutazione di questa Sezione
richiede preliminarmente di precisare la portata del rinvio alla norma del
TUEL che prevede, in via generale, i termini di approvazione del bilancio di
previsione (art. 151, comma 1), operato dalla norma di cui all’art. 1, comma
1091, della legge n. 145/2018.
Orbene, l’art. 151, comma 1, TUEL, nel fissare per il bilancio di previsione
il termine ordinario di approvazione al 31 dicembre, contestualmente prevede
la possibilità che questo possa essere differito al ricorrere di
giustificate ragioni.
Al di là della presunzione generale favorevole alla natura formale dei
rinvii normativi generici (la regola che vuole che nella generalità dei casi
il rinvio sia considerato “mobile” è stata affermata anche dalla
Corte costituzionale nella sentenza n. 311/1993), il riferimento
all’interpretazione letterale appare come il criterio orientativo da
adottarsi nel caso specifico.
La tesi secondo la quale l’art. 1, comma 1091, si riferisce esclusivamente
al termine del 31 dicembre –sostenuta dalle pronunce più sopra richiamate-
implicherebbe che esso operi un rinvio alla sola prima parte dell’art. 151,
comma 1, TUEL, secondo un’interpretazione che, ad avviso di questa Sezione,
deve essere rivista nel senso che il dettato normativo non appare
frazionabile in mancanza di un riferimento esplicito della norma che opera
il rinvio.
L’applicabilità alla fattispecie del principio interpretativo “ubi lex
voluit, dixit” sembra, d’altra parte, confermata anche da una diversa
norma, il comma 905 del medesimo art. 1 della legge n. 145/2018, che, pur se
successivamente abrogata, prevede(va) espressamente che alcune specifiche
norme recate in disposizioni di legge precedenti (contenute in leggi
finanziarie, di bilancio, di semplificazione ecc.) a decorrere
dall’esercizio 2019, “…non trovano applicazione…” nei confronti dei “…comuni
(…) che approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio
preventivo dell'esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell'anno
precedente".
Analogamente, tale principio è rinvenibile anche nell’abrogazione esplicita
(operata dal decreto-legge 19.05.2020, n. 34) delle norme che stabilivano,
per il 2020, la proroga dei termini per l’adozione delle delibere con cui
vengono determinate le tariffe e le aliquote dei tributi, e che, ai sensi
dell’art. 1, co. 169, della legge n. 296/2006, devono essere adottate
contestualmente all’approvazione del bilancio di previsione.
Soccorre, per una puntuale interpretazione della fattispecie, anche il
principio di specialità, quale già enucleato anche dalla Sezione Lombardia
nel
parere 10.09.2020 n. 113 a proposito
del termine di approvazione del rendiconto 2019, prorogato dal d.l. n.
18/2020.
Secondo tale approdo ermeneutico, che questo Collegio ritiene di poter
condividere, il criterio di specialità ricorre in presenza di una norma
speciale dettata per regolare una fattispecie che presenta elementi
aggiuntivi rispetto a quella generale, di cui ne ripete tuttavia il nucleo
fondamentale. Il d.l. n. 18 del 2020 (c.d. “Cura Italia”) -e le altre
norme “emergenziali” sopra richiamate- nel dettare misure
straordinarie onde evitare la paralisi degli enti, rappresentano
l’eccezione, il cui elemento di specialità è rappresentato proprio dal
contesto emergenziale e di urgenza da Covid-19, nel quale gli stessi enti
sono tenuti ad operare. Ne deriva la prevalenza della norma speciale su
quella generale, la cui latitudine applicativa verrà ripristinata alla
cessazione di efficacia della prima per il venir meno del profilo di
specialità che ha giustificato l’esigenza del legislatore nel prevederla.
Meritevole di attenzione appare, altresì, il ragionamento della Sezione
ligure remittente, laddove evidenzia che sebbene l’approvazione differita
del bilancio implichi indubbiamente l’applicazione della disciplina –più
restrittiva– di tale tipologia di esercizio, ai sensi dell’art. 163, comma
1, TUEL, la stessa incide solamente sulla gestione finanziaria dell’ente e
ha carattere transitorio, venendo meno con l’approvazione del bilancio.
Invece, come previsto dall’art. 1, comma 1091, legge n. 145/2018, la
destinazione del maggior gettito al potenziamento delle risorse strumentali
degli uffici preposti alla gestione delle entrate o al riconoscimento di
trattamento accessorio avviene sulla base dei dati risultanti dal conto
consuntivo relativo all’esercizio precedente (e, quindi, necessariamente, in
un momento successivo alla chiusura finanziaria della gestione e rispetto
all’approvazione del relativo rendiconto, consentendo di poter valutare se
gli obiettivi di incremento di accertamenti e riscossioni di IMU e TARI
siano stati effettivamente raggiunti).
4. Un punto fermo dell’orientamento consolidato delle Sezioni regionali di
controllo, sul quale vale la pena di soffermarsi, è quello esplicitato dalla
Sezione Toscana con deliberazione n. 46 del 23.04.2020, laddove si afferma
che l’inciso contenuto nell’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018,
riguardante i tempi di approvazione dei documenti di bilancio non può che
essere interpretato in coerenza con lo spirito della norma che lo contiene,
e, dunque, in un’ottica di contenimento e corretta gestione delle risorse
pubbliche, con riferimento alla spesa di personale. In argomento, detta
Sezione regionale ha osservato che «ammettere un’interpretazione
estensiva dell’inciso normativo, tale da ricomprendere anche le ipotesi di
approvazione del bilancio di previsione entro il diverso termine fissato con
decreto ministeriale motivato significherebbe, infatti, frustrare lo spirito
della norma, consentendo l’erogazione dell’incentivo da parte di tutti i
Comuni che abbiano comunque approvato il bilancio, rispettando almeno uno
dei due termini».
In realtà, la ratio della disposizione appare essere quella di destinare
risorse specifiche al fine di potenziare l’attività di acquisizione delle
entrate comunali. Obiettivo che risulta a tal punto rilevante ai fini degli
equilibri di bilancio dell’ente da sottrarre il trattamento accessorio per
il personale, a siffatto fine previsto, al limite indicato dall’art. 23 del
decreto legislativo n. 75 del 2017 (il cui comma 2 prevede che a decorrere
dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente
al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, non
può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016).
Se, dunque, come ben evidenzia la Sezione remittente, lo spirito della norma
è quello di premiare l’effettivo incremento di accertamenti e incassi da IMU
e TARI, non può che condividersi l’assunto che ciò che rileva ai fini della
corretta applicazione della disposizione in esame è che la destinazione del
maggior gettito (da incassare, oltre che da accertare) avvenga nel rispetto
degli equilibri di bilancio e dei principi di finanza pubblica deducibile da
idonea programmazione, della corretta e preventiva determinazione degli
obiettivi (che trovano fonte nei documenti annuali di perfomance
organizzativa e individuale), della destinazione dei soli maggiori incassi
(o meglio, di una percentuale di essi) al trattamento accessorio e, infine,
della liquidazione sulla base di entrate certe risultanti dall’approvazione
del rendiconto del precedente esercizio finanziario.
5. A proposito dei termini di approvazione del rendiconto, appare
logicamente ineccepibile e conforme ai principi contabili quanto evidenziato
dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con il
parere 10.09.2020 n. 113 circa la diversa
funzione del bilancio di previsione e del rendiconto -rispettivamente
preordinati alla programmazione degli interventi e all’allocazione delle
relative risorse nell’esercizio finanziario futuro, il primo, e alla
rappresentazione delle risultanze della gestione precedente, il secondo– per
cui appare incongruo correlare gli incentivi di cui al predetto comma 1091
all’approvazione del rendiconto esclusivamente entro il termine ordinario
del 30 aprile fissato ex art. 151, co. 7, TUEL.
Ciò anche in considerazione del fatto che l’approvazione del rendiconto
oltre il termine fissato dal d.lgs. n. 267/2000, ma entro il termine per
legge differito, non altera i risultati raggiunti nel precedente esercizio
finanziario, né produce alcun effetto sull’avvenuta attività di riscossione
da parte del personale che, avendo raggiunto l’obiettivo assegnato, sarebbe
pregiudicato dalla mancata corresponsione dell’incentivo pianificato nel
bilancio di previsione tempestivamente approvato. Non va dimenticato,
d’altra parte, che, a mente dell’art. 164 del d.lgs. n. 267/2000,
l’approvazione del bilancio di previsione, in un sistema di contabilità
finanziaria, costituisce momento di autorizzazione delle spese e delle sole
entrate da indebitamento, non dell’attività di accertamento e riscossione
delle entrate. P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per la
Liguria con la
deliberazione 05.10.2021 n. 78,
enuncia il seguente principio di diritto:
«La locuzione “entro i termini stabiliti dal testo unico
di cui al d.lgs. 18.08.2000, n. 267” contenuta nell’art. 1, co. 1091, della
legge n. 145/2018, si riferisce anche al diverso termine prorogato, per il
bilancio di previsione, con legge o con decreto del Ministro dell'interno
(ai sensi dell’art. 151, co. 1, ultimo periodo, TUEL) e, per il rendiconto,
con legge». |
novembre 2021 |
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TRIBUTI: Incentivi
antievasione Imu e Tari solo con l'ok del rendiconto 2019 entro il
30.06.2020.
Si consolida l'orientamento dei magistrati contabili sugli incentivi
economici a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse al
recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) in merito alla corretta
corresponsione degli stessi nel caso in cui l'approvazione del rendiconto
2019 sia avvenuta successivamente al 30.04.2020 (termine previsto dal Tuel)
ma entro il termine prorogato dal legislatore con il decreto Cura Italia
(cioè entro il 30.06.2020).
Infatti, dopo la posizione iniziale assunta dalla Corte dei conti della
Lombardia con
parere 10.09.2020 n. 113 (si
veda NT+Enti locali & Edilizia del 16.09.2020), ora anche i magistrati
veneti con il
parere 16.11.2021 n. 186
hanno ribadito che, ai fini della possibilità di riconoscere l'incentivo in
questione, per l'esercizio 2019 deve farsi riferimento al termine di
approvazione del rendiconto differito dal decreto legge 18/2020.
Apriamo un piccola parentesi per segnalare che, su tali incentivi, di
recente la Corte dei conti della Liguria (deliberazione 05.10.2021 n. 78, si veda NT+Enti locali & Edilizia del 20.10.2021), ha
rimesso al presidente della Corte dei conti la valutazione dell'opportunità
di deferire alla sezione delle Autonomie la questione interpretativa ai
termini di approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto (ovvero
se debba considerarsi in modo tassativo il termine indicato dal Tuel oppure
è possibile far riferimento anche al diverso termine prorogato da legge o da
specifico decreto ministeriale).
Il comma 1091 dell'articolo 1 della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23,
comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione c'è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ma come impattano sulla corresponsione di tali incentivi le disposizioni
contenute nel decreto «Cura Italia» che hanno comportato la proroga
della scadenza del 30.04.2020, fissata dall'articolo 151, comma 7, del Tuel,
al 30.06.2020? Questo l'oggetto della richiesta di parere formulata da un
ente locale ai magistrati contabili.
I giudici contabili veneti rammentano come la disposizione che regge
l'impianto degli incentivi in questione pone quale condizione di
applicabilità il rispetto dei termini di approvazione dei documenti
contabili (bilancio e rendiconto) previsti dal Tuel.
Deve però osservarsi che l'inapplicabilità al rendiconto 2019 dell'obbligo
di approvazione entro il 30.04.2020 non è frutto di una tesi interpretativa,
ma da uno specifico intervento operato dal legislatore con il decreto Cura
Italia (che ha spostato, a causa del contesto emergenziale, le lancette
della scadenza al 30 giugno).
Ad avviso dei giudici l'approvazione del rendiconto 2019 avvenuta
successivamente al 30.04.2020 ed entro il termine prorogato dal legislatore
con il decreto Cura Italia (cioè entro il 30.06.2020), consente la legittima
erogazione degli incentivi economici al personale
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.11.2021). |
TRIBUTI:
Ai fini della possibilità di riconoscere l’incentivo di cui
all’art. 1, comma 109, della Legge 30.12.2018, n. 145 “Bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale
per il triennio 2019–2021”, l’obbligo di approvazione del rendiconto entro
il 30/04/2020, termine previsto dal D.lgs. 267/2000, non si applica al
rendiconto dell’esercizio 2019 il cui termine di approvazione è stato
differito dal D.L. 18/2020 al 30.06.2020.
---------------
In data 23.08.2021, il Comune di Padova ha trasmesso a questa Sezione
una richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge
05.06.2013, n. 131.
In particolare, nella citata richiesta il Comune ha posto il quesito di
seguito indicato: “Si chiede, pertanto, ai fini della possibilità di
riconoscere l’incentivo di cui all’art. 1, comma 109, della sopra citata
Legge 30.12.2018, n. 145 “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019–2021”, di
conoscere se è corretta la tesi interpretativa secondo la quale l’obbligo di
approvazione del rendiconto entro il 30/04/2020, termine previsto dal D.lgs.
267/2000, non si applica al rendiconto dell’esercizio 2019 il cui termine di
approvazione è stato spostato dal legislatore in considerazione di
condizioni oggettivamente inedite e gravissime”.
...
Nel merito si premette che l’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018
(legge di bilancio 2019), riconoscendo ai comuni la possibilità di
prevedere, con proprio regolamento, che “il maggiore gettito accertato e
riscosso, relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della
TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante
dal conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente”, pone, quale
condizione alla regolamentazione comunale, l’approvazione del bilancio di
previsione e del rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di
cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”.
La menzionata disposizione postula dunque, quale condizione di applicabilità
dell’incentivo in questione, il rispetto dei termini di cui al D.Lgs. n.
267/2000 (TUEL).
Quest’ultimo, all’art. 151, comma 7, prevede che il rendiconto deve essere “deliberato
dall’organo consiliare entro il 30 aprile dell’anno successivo” a quello
di riferimento.
Il D.L. n. 18 del 2020, c.d. “Cura Italia” (convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27) ha successivamente differito
il termine di approvazione del rendiconto 2019, prevedendo la proroga della
scadenza dal 30 aprile al 30.06.2020.
In relazione alla richiesta avanzata, deve dunque osservarsi che
l’inapplicabilità al rendiconto 2019 dell’obbligo di approvazione entro il
30/04/2020 non è frutto di una tesi interpretativa (come dalla stessa
sembrerebbe dedursi), ma della predetta disposizione legislativa.
Il parere richiesto è in realtà sostanzialmente volto a chiarire i dubbi
interpretativi sul rispetto della condizione di applicabilità (e dunque
sulla possibilità di erogazione) dell’incentivo al personale, previsto dal
citato art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018, a seguito
dell’intervento della menzionata norma del c.d. decreto “Cura Italia”,
in relazione all’ipotesi in cui:
- il bilancio 2019 sia stato approvato entro i termini previsti dal
TUEL;
- il rendiconto 2019 sia stato approvato oltre il termine
ordinariamente previsto dal TUEL, ma entro quello prorogato dal citato
decreto legge.
In altri termini, la richiesta comporta l’individuazione del termine entro
il quale l’Ente doveva approvare il rendiconto 2019, al fine di poter
procedere all’erogazione dell’incentivo al personale, alla luce della
menzionata sopravvenienza normativa, che ha comportato la proroga della
scadenza del 30.04.2020.
Va al riguardo osservato che la norma esaminata (art. 1, comma 1091, della
legge n. 145/2018) prevede essenzialmente, quale condizione di applicabilità
degli incentivi disciplinati, il tempestivo adempimento contabile da parte
del comune.
Tale adempimento avviene, in generale, con il rispetto dei termini previsti
dal TUEL, cui la predetta norma rinvia.
Detto espresso rinvio ai termini del TUEL non preclude tuttavia la
possibilità di ritenere soddisfatta la condizione di applicabilità degli
stessi incentivi a fronte di un rendiconto (2019) che sia stato approvato
nei termini previsti dal D.L. n. 18 del 2020.
La richiamata disposizione ha infatti previsto misure straordinarie, il cui
elemento peculiare è rappresentato dal contesto emergenziale, nel quale gli
enti sono tenuti ad operare; la stessa si configura dunque quale norma
speciale, avendo regolato una fattispecie che presenta elementi aggiuntivi
rispetto a quella generale del TUEL, di cui ripete tuttavia il nucleo
fondamentale.
La previsione in essa dettata deroga pertanto al termine ordinariamente
indicato nel TUEL, configurando quale tempestiva l’approvazione del
rendiconto 2019 avvenuta successivamente al 30.04.2020 ed entro il termine
prorogato dal legislatore (cioè entro il 30.06.2020), consentendo
l’applicazione dei menzionati incentivi economici al personale, in caso di
avvenuto conseguimento degli obiettivi assegnati nelle attività di
accertamento dei tributi erariali, di cui all’art. 1, comma 1091, della
legge n. 145/2018 entro il 30.06.2020.
Tale orientamento risulta peraltro in linea con l’art. 12 delle preleggi e
con i principi giuridici che disciplinano il rapporto tra norme regolatrici
di una determinata fattispecie, secondo i quali, ove vi siano dubbi in
merito al significato da attribuire alla disposizione normativa, si ricorre
alla c.d. interpretazione correttiva, che ne estende il significato oltre il
dato letterale (interpretazione estensiva) o esclude dall’ambito applicativo
della disposizione medesima fattispecie che, in base al criterio letterale,
potrebbero esservi ricomprese (interpretazione restrittiva).
In conclusione, ai fini della possibilità di riconoscere
l’incentivo considerato, per l’esercizio 2019 deve farsi riferimento al
termine di approvazione del rendiconto differito dal D.L. n. 18/2020
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 16.11.2021 n. 186). |
ottobre 2021 |
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TRIBUTI: Incentivi
per il recupero dell'evasione IMU-TARI: possibile intervento della Sezione
Autonomie della Corte dei Conti.
Torna in gioco la possibilità per i Comuni di erogare l'incentivo per il
recupero dell'evasione tributaria Imu e Tari, anche se non approvano il
bilancio di previsione entro il 31 dicembre, in caso di proroga dei termini.
La Corte dei conti della Liguria, con la recente
deliberazione 05.10.2021 n. 78, ha rimesso al presidente della Corte
dei conti la valutazione dell'opportunità di deferire la questione alla
Sezione delle autonomie.
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza,
ha reintrodotto la possibilità per i Comuni di destinare una quota del
maggior gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti Imu e Tari,
al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti
alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale
dipendente. Tuttavia, questa facoltà è stata riservata ai Comuni che hanno
approvato il bilancio di previsione e il rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Come è noto, mentre il termine per approvare il rendiconto è fissato dalla
legge al 30 aprile dell'anno successivo, quello per l'approvazione del
bilancio di previsione è individuato, dall'articolo 151 del Dlgs 267/2000,
nel 31 dicembre dell'anno precedente, il quale stabilisce tuttavia che il
termine può essere differito con decreto del ministero dell'Interno. Cosa
che è puntualmente avvenuta ogni anno, in considerazione del permanente
quadro di incertezza della finanza comunale.
La formulazione della norma ha spinto diverse Sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti (Emilia Romagna
parere 18.09.2019 n. 52;
Lombardia
parere 06.11.2019 n. 412,
parere 23.03.2020 n. 40 e
parere 10.09.2020 n. 113; Toscana
parere 23.04.2020 n. 46; Abruzzo
parere 09.06.2020 n.
120; Piemonte
parere 07.06.2021 n. 92 e
parere 02.07.2021 n. 96) a
ritenere che il termine per l'approvazione del bilancio di previsione a cui
fa riferimento il comma 1091 sopra citato è quello del 31 dicembre dell'anno
precedente e non quello eventualmente differito con decreto ministeriale o
legge. Ciò in quanto l'approvazione del bilancio oltre il 31 dicembre
comporta l'applicazione delle regole dell'esercizio provvisorio, che
limiterebbero la possibilità di erogare risorse incentivanti e poiché, una
diversa interpretazione, frustrerebbe lo spirito della disposizione, volta
alla corretta gestione delle risorse pubbliche.
Invece, con riferimento all'obbligo di rispetto del termine del 30 aprile,
in caso di proroga della scadenza per l'approvazione del rendiconto disposta
dalla legge (come è avvenuto lo scorso anno per effetto dell'emergenza
sanitaria Covid-19), la Corte dei conti della Lombardia (parere 10.09.2020 n. 113), pur ritenendo obbligatorio il rispetto del termine del 31
dicembre per il bilancio di previsione, ha aperto alla possibilità di
considerare rispettata la previsione della norma del comma 1091 anche nel
caso di approvazione del rendiconto entro il termine prorogato. Ciò per la
diversa funzione che ha il rendiconto rispetto al bilancio di previsione, in
quanto il primo è volto a rappresentare le risultanze della gestione e il
secondo, invece, a programmare gli interventi e allocare le risorse
nell'esercizio. Peraltro, osserva la Corte lombarda, l'approvazione del
rendiconto oltre il termine del 30 aprile, pur sempre entro quello prorogato
dalla legge, non altera in alcun modo i risultati dell'esercizio finanziario
precedente, né tanto meno le riscossioni effettuate dall'attività di
accertamento.
La Corte dei conti della Liguria, con la deliberazione sopra citata, ha
rimesso invece in discussione l'interpretazione rigorosa in merito al
rispetto del termine del 31 dicembre, ai fini dell'erogazione dell'incentivo
al personale.
La prima considerazione posta dalla Corte è il dato testuale del comma 1091
il quale, rinviando genericamente al termine previsto dal Tuel, fa
riferimento non solo al termine del 31 dicembre, ma anche a quello
eventualmente differito, in quanto ipotesi contemplata espressamente
dall'articolo 151. La norma del comma 1091 non rinvia solo alla prima parte
dell'articolo 151, quella che fissa il termine al 31 dicembre, ma a tutto
l'articolo, e quindi anche a quella che contempla la possibilità di
differimento del termine.
Peraltro, già Anutel da tempo aveva evidenziato come, ai sensi del Tuel, non
esistano più termini per approvare il bilancio di previsione, ma uno solo,
dato dal 31 dicembre o da quello differito dal decreto ministeriale.
Pertanto, il rinvio ai termini del medesimo Tuel operato dal comma 1091 non
poteva che riferirsi a quello eventualmente differito.
Anche le criticità evidenziate in merito all'esercizio provvisorio non
reggono per la Corte della Liguria, in quanto queste incidono solo sulla
gestione finanziaria dell'ente e non anche sulla destinazione del maggior
gettito al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici entrate o al
trattamento accessorio del personale addetto al recupero, in quanto questa
avviene sulla base dei risultati del rendiconto dell'esercizio precedente.
In altri termini, si può ritenere che le risorse che alimentano il fondo per
il trattamento incentivante o il potenziamento delle risorse strumentali
provengono dal maggior gettito accertato e riscosso nell'anno precedente.
Ciò che è importante, per la corretta applicazione della norma, sono, oltre
al rispetto degli equilibri di bilancio, la corretta programmazione con la
fissazione degli obiettivi nell'ambito dei documenti di performance
organizzativa e individuale, con i quali si stabiliscono i target di
recupero dell'evasione che si vogliono raggiungere o le attività prefissate
e si individuano i soggetti coinvolti; la destinazione solo dei maggiori
incassi, nel limite massimo del 5 per cento; la liquidazione delle risorse
solo sulla base di entrate certe, verificate dopo l'approvazione del
rendiconto. In altre parole, l'erogazione dell'incentivo presuppone una
preventiva attività programmatoria nell'ambito dei documenti della
performance, volta a definire gli obiettivi di recupero dell'evasione e il
personale addetto al recupero delle entrate.
Inoltre, la stessa richiede la verifica consuntiva dei risultati raggiunti,
rispetto agli obiettivi prefissati, la definitiva quantificazione delle
risorse incassate dal maggior recupero dell'evasione Imu e Tari, di cui una
percentuale determina l'ammontare massimo del fondo, e la liquidazione dei
compensi incentivanti ai soggetti coinvolti, sulla base del grado di
raggiungimento degli obiettivi e dell'apporto individuale da ciascuno
fornito, secondo le regole definite dal Comune.
La palla potrebbe ora passare alla Sezione Autonomie, che dovrà dirimere una
volta per tutte la questione, stabilendo se i termini per l'approvazione del
rendiconto e del bilancio di previsione a cui fa riferimento il comma 1091,
debbano intendersi rispettivamente il 30 aprile dell'anno successivo e il 31
dicembre dell'anno precedente, ovvero si possa far riferimento anche al
diverso termine prorogato, per il bilancio, con Dm o legge e, per il
rendiconto, dalla legge.
Si tratta di una questione in relazione alla quale Anutel ha ripetutamente
chiesto un intervento normativo chiarificatore, al fine di evitare che il
ripristino dell'incentivo per il recupero dell'evasione, scomparso con la
fine dell'Ici, si tramuti in una beffa per gli addetti al settore tributi, i
quali pur svolgendo anche importanti attività di recupero dell'evasione, si
vedono pregiudicati dal mancato rispetto di un termine, quello del bilancio,
non dipendente in alcun modo dalla loro volontà. Pur quando lo stesso
Ministero o il legislatore hanno differito il medesimo proprio in
considerazione delle difficoltà incontrate dagli enti locali a causa
dell'incerto quadro di finanzia pubblica
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 20.10.2021).
----------------
DELIBERAZIONE
Con la nota in epigrafe, il Sindaco del Comune di Santa Margherita Ligure
(GE), per il tramite del Consiglio delle Autonomie, ha posto un quesito
riguardante l’art. 1, c. 1091, della legge 30.12.2018, n. 145 (legge di
bilancio 2019).
La citata disposizione prevede la facoltà per i comuni di destinare una
quota del maggior gettito IMU e TARI accertato e riscosso al potenziamento
delle risorse strumentali degli uffici preposti alla gestione delle entrate
e all’erogazione di un compenso incentivante a favore del personale
impegnato nell’attività di accertamento dell’evasione tributaria,
subordinandola all’approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto
“entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al d.lgs. 18.08.2000,
n. 267” (Testo unico degli enti locali, TUEL).
Il Comune, rilevando che il termine per l’approvazione del bilancio di
previsione è stato differito, da ultimo, al 31.05.2021 dall’art. 3 del
decreto legge 30.04.2021, n. 56, convertito, con modificazioni, con legge
17.06.2021, n. 87, ha formulato il seguente quesito “Se il compenso
incentivante ex articolo 1, comma 1091 della legge n. 145 del 2018 possa
essere erogato stante l’approvazione del bilancio di previsione nei termini
così come prorogati più volte a causa della situazione emergenziale dovuta
all’epidemia Covid 19”.
...
Tanto considerato, la richiesta di parere verte, in termini astratti,
sull’interpretazione dell’art. 1, comma 1091, l. n. 145/2018, insistendo
inter alia su una materia –quella degli incentivi al personale- che,
alla luce di quanto fin qui riportato nonché della consistente
giurisprudenza consultiva di questa Corte (cfr. SRC Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52; SRC Lombardia,
parere 06.11.2019 n. 412,
parere 23.03.2020 n. 40
e
parere 10.09.2020 n. 113; SRC Toscana,
parere 23.04.2020 n. 46 e SRC Abruzzo,
parere 09.06.2020 n.
120; SRC Piemonte,
parere 07.06.2021 n. 92 e
parere 02.07.2021 n. 96),
è da ritenersi riconducibile alla materia della contabilità pubblica.
2. Passando ad esaminare il merito della questione, l’art. 1, c. 1091, l. n.
145/2018 testualmente dispone che “Ferme restando le facoltà di
regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo
15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il bilancio di previsione
ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio regolamento, prevedere
che il maggiore gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti
dell'imposta municipale propria e della TARI, nell'esercizio fiscale
precedente a quello di riferimento risultante dal conto consuntivo
approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia destinato,
limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle risorse
strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al
trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica
dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2, del
decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al
personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate,
anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune
all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005,
n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il
beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento
tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica
qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione”.
La possibilità di destinare quota parte del maggior gettito IMU e TARI al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente
è, pertanto, espressamente condizionata all’approvazione del bilancio di
previsione e del rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di
cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”.
La questione interpretativa richiede di scrutinare se questa condizione
possa ritenersi soddisfatta nel solo caso in cui il bilancio di previsione
sia stato deliberato entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello di
riferimento (come prevede l’art. 151, c. 1, TUEL) ovvero anche ove il
bilancio di previsione sia stato approvato entro il diverso termine
prorogato da specifiche disposizioni normative o con decreto ministeriale ai
sensi dell’art. 151, c. 1, ultimo periodo, TUEL.
L’art. 151, c. 1, TUEL, difatti, individua il 31 dicembre come termine per
la deliberazione del bilancio di previsione, disponendo, tuttavia, che la
detta scadenza possa essere differita con decreto ministeriale al ricorrere
di particolari esigenze (“Gli enti locali (…) deliberano il bilancio di
previsione finanziario entro il 31 dicembre (…).I termini possono essere
differiti con decreto del Ministro dell'interno, d'intesa con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed
autonomie locali, in presenza di motivate esigenze”).
L’art. 163, c. 1, TUEL prevede, poi, che ove il bilancio di previsione non
sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre, la gestione finanziaria
dell'ente debba svolgersi nel rispetto dei principi applicati della
contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio.
Per quanto concerne il rendiconto, l’art. 151, c. 7, e l’art. 227, c. 2,
TUEL, prevedono che deve essere deliberato dall'organo consiliare entro il
30 aprile dell'anno successivo a quello cui si riferisce.
Entrambi i termini in argomento sono stati più volte prorogati dal
legislatore. Quello di approvazione del bilancio di previsione –oggetto del
quesito– è stato costantemente differito a decorrere dal 2001.
Per quanto concerne il bilancio di previsione 2021-2023, il termine è stato
prorogato più volte, a causa dell’emergenza sanitaria, ed in particolare:
- al 31.01.2021 dall'art. 107, c. 2, decreto legge 17.03.2020, n.
18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27, come
modificato dall'art. 106, c. 3-bis, decreto legge 19.05.2020, n. 34,
convertito, con modificazioni, dalla legge 17.07.2020, n. 77;
- al 31.03.2021, dall'articolo unico, c. 1, decreto ministeriale
13.01.2021;
- al 30.04.2021, dall'art. 30, c. 4, decreto legge 22.03.2021, n.
41, convertito, con modificazioni, dalla legge 21.05.2021, n. 69;
- al 31.05.2021, dall'art. 11-quater, c. 2, decreto legge
22.04.2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17.06.2021, n.
87;
- al 31.07.2021, dall'art. 52, c. 2, lett. b), decreto legge
25.05.2021, n. 73, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.07.2021, n.
106 per gli enti locali che hanno incassato le anticipazioni di liquidità di
cui al decreto legge 08.04.2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla
legge 06.06.2013, n. 64, e successivi rifinanziamenti.
2.1 A seguito dell’approvazione dell’art. 1, c. 1091, l. n. 145/2018, la
questione in esame è stata in più occasioni portata all’attenzione della
magistratura contabile, che si è espressa concordemente, ritenendo che il
termine per l’approvazione del bilancio a cui la ridetta norma fa
riferimento è quello del 31 dicembre dell’anno precedente, ai sensi
dell’art. 151, c. 1, d.lgs. n. 267/2000, a prescindere da eventuali proroghe
(SRC Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52; SRC
Lombardia
parere 06.11.2019 n. 412,
parere 23.03.2020 n. 40 e
parere 10.09.2020 n. 113;
SRC Toscana,
parere 23.04.2020 n. 46; SRC Abruzzo,
parere 09.06.2020 n.
120; SRC Piemonte
parere 07.06.2021 n. 92 e
parere 02.07.2021 n. 96).
Nella maggior parte dei casi, i quesiti proposti alle Sezioni regionali
erano formulati con riferimento al termine prorogato con decreto
ministeriale di cui all’art. 151 TUEL; tuttavia, l’interpretazione è stata
ribadita anche con riferimento alla proroga del termine operata con legge (es.,
nel caso della legislazione emergenziale relativa all’epidemia da Covid-19,
cfr. SRC Abruzzo,
parere 09.06.2020 n.
120).
L’orientamento consolidato delle Sezioni regionali è basato su una
prospettata interpretazione letterale della disposizione più volte citata,
che espressamente rimanda ai termini previsti dal TUEL.
In aggiunta, le medesime Sezioni regionali hanno messo in luce come
l’approvazione del bilancio di previsione oltre il termine del 31 dicembre
determini conseguenze sul piano della gestione finanziaria dell’ente, ossia
l’applicazione, ai sensi dell’art. 163 TUEL e del paragrafo 8 del Principio
contabile applicato concernente la contabilità finanziaria, di cui all. 4/2
al d.lgs. 23.06.2011, n. 118, della più stringente disciplina che regola
l’esercizio provvisorio, “con riguardo al quale anche la previsione e
l’erogazione di risorse incentivanti, quale l’incentivo economico a favore
dei dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione
dell’Ente all'accertamento dei tributi erariali, non possono considerarsi
sottratte ai suddetti limiti” (SRC Piemonte
parere 07.06.2021 n. 92, cfr. anche SRC Abruzzo,
parere 09.06.2020 n.
120; SRC Lombardia,
parere 06.11.2019 n. 412).
Inoltre, è stato ritenuto che una diversa interpretazione dell’art. 1, c.
1091, l. n. 145/2018, priverebbe di significato l’espressa apposizione di un
termine da parte del legislatore, nonché frustrerebbe lo spirito della
disposizione, finalizzata alla corretta gestione delle risorse pubbliche e
in particolare di quelle relative alla spesa per il personale, precludendo
l’erogazione dell’incentivo solo a quei comuni che, non avendo approvato il
bilancio nemmeno entro il termine prorogato, sarebbero incorsi nella
procedura di commissariamento ed eventualmente di scioglimento del Consiglio
comunale ex art. 141 TUEL (SRC Lombardia,
parere 06.11.2019 n. 412).
Va, poi, dato atto di un recente orientamento formatosi sul termine
rilevante, ai fini dell’applicazione dell’art. 1, c. 1091, l. n. 145/2018,
per l’approvazione del rendiconto.
Con il
parere 10.09.2020 n. 113, la
Sezione regionale di controllo per la Lombardia, nel confermare il
precedente e sopra riportato orientamento relativo all’individuazione del
termine per l’approvazione del bilancio di previsione, ha, difatti, ritenuto
che, posta la diversa funzione di tale documento contabile e del rendiconto
-rispettivamente preordinati alla programmazione degli interventi e
all’allocazione delle relative risorse nell’esercizio finanziario futuro, il
primo, e alla rappresentazione delle risultanze della gestione precedente,
il secondo- sarebbe privo di senso logico correlare gli anzidetti incentivi
all’approvazione del rendiconto esclusivamente entro il termine ordinario
del 30 aprile fissato ex art. 151, c. 7, TUEL.
Ciò anche in considerazione del fatto che l’approvazione del rendiconto
oltre il termine fissato dal d.lgs. n. 267/2000, ma entro il termine per
legge differito, non altera i risultati raggiunti nel precedente esercizio
finanziario, né produce alcun effetto sull’avvenuta attività di riscossione
da parte del personale che, avendo raggiunto l’obiettivo assegnato, sarebbe
pregiudicato dalla mancata corresponsione dell’incentivo pianificato nel
bilancio di previsione tempestivamente approvato entro il 31 dicembre.
L’orientamento della Sezione Lombardia si fonda, altresì, sul fatto che la
richiesta di parere verteva, in particolare, sul termine di approvazione del
rendiconto 2019, prorogato dal d.l. 17.03.2020, n. 18, convertito con legge
24.04.2020 n. 27, che, in quanto norma speciale rispetto al TUEL, deroga al
termine fisiologicamente in quest’ultimo indicato.
2.2 Con riferimento al termine rilevante per l’approvazione del bilancio di
previsione, il Collegio ritiene possibile una differente interpretazione ai
fini dell’applicazione dell’art. 1, c. 1091, l. n. 145/2018.
In primo luogo, a parere della Sezione, andrebbe valorizzato il fatto che
l’art. 1, c. 1091, opera un rinvio generico ai termini stabiliti dal TUEL
che, per esplicita previsione dello stesso Testo unico, per quanto riguarda
il bilancio di previsione possono essere differiti con decreto del Ministro
dell'interno, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze,
sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, in presenza di
motivate esigenze. In altre parole, lo stesso art. 151, c. 1, TUEL, nel
fissare per il bilancio di previsione il termine ordinario di approvazione
al 31 dicembre, contestualmente prevede la possibilità che questo possa
essere differito al ricorrere di giustificate ragioni.
Considerare che l’art. 1, c. 1091, si riferisca esclusivamente al termine
del 31 dicembre implicherebbe sostenere che esso operi un rinvio alla sola
prima parte dell’art. 151, c. 1, TUEL, mentre il Collegio reputa che il
rinvio in esame debba ritenersi esteso anche ai termini stabiliti dagli
eventuali decreti ministeriali di proroga dei termini stessi.
Laddove, poi, la data del 31 dicembre (ovvero quella del 30 aprile nel caso
del rendiconto), sia prorogata con legge, la successiva disposizione, di
pari rango, che concede un nuovo termine opera una deroga, temporalmente
limitata, rispetto al termine ordinario del TUEL (sul punto si rimanda anche
al ragionamento descritto dalla Sez. Lombardia ne citato
parere 10.09.2020 n. 113 in relazione al
criterio di specialità). Pertanto, anche nel caso di proroga del termine
intervenuta con legge, il rinvio effettuato dall’art. 1, c. 1091, può essere
riferito al diverso termine previsto con la successiva –derogatoria e
speciale- disposizione.
Inoltre, per quanto concerne le criticità evidenziate in merito
all’esercizio provvisorio, si osserva che, sebbene l’approvazione differita
del bilancio implichi indubbiamente l’applicazione della disciplina –più
restrittiva– di tale tipologia di esercizio, ai sensi dell’art. 163, c. 1,
TUEL, va rilevato che la stessa incide solamente sulla gestione finanziaria
dell’ente e ha carattere transitorio, venendo meno con l’approvazione del
bilancio. Invece, come previsto dall’art. 1, comma 1091, legge n. 145/2018,
la destinazione del maggior gettito al potenziamento delle risorse
strumentali degli uffici preposti alla gestione delle entrate o al
riconoscimento di trattamento accessorio avviene sulla base dei dati
risultanti dal conto consuntivo relativo all’esercizio precedente (e,
quindi, necessariamente, in un momento successivo alla chiusura finanziaria
della gestione e rispetto all’approvazione del relativo rendiconto,
consentendo di poter valutare se gli obiettivi di incremento di accertamenti
e riscossioni di IMU e TARI siano stati effettivamente raggiunti).
Infine, con riferimento alla considerazione che un’interpretazione estensiva
dell’art. 1, c. 1091, rischierebbe di frustrare lo spirito della
disposizione, il Collegio ritiene che ciò che rileva ai fini della corretta
applicazione della disposizione in esame è che la destinazione del maggior
gettito (da incassare, oltre che da accertare) avvenga nel rispetto degli
equilibri di bilancio e dei principi di finanza pubblica (e, quindi, sulla
base di idonea programmazione), della corretta e preventiva determinazione
degli obiettivi (che trovano fonte nei documenti annuali di perfomance
organizzativa e individuale), della destinazione dei soli maggiori incassi
(o meglio, di una percentuale di essi) al trattamento accessorio e, infine,
della liquidazione sulla base di entrate certe – la cui puntuale
determinazione è possibile, appunto, solo con l’approvazione del rendiconto.
Ciò considerato, se tali elementi ricorrono, non si ritiene che
l’approvazione del bilancio o del rendiconto entro i termini prorogati dal
legislatore o dal Ministero dell’interno possa frustrare lo spirito della
norma (tesa a premiare l’effettivo incremento di accertamenti e incassi da
IMU e TARI).
Piuttosto, considerare come termini rilevanti di approvazione dei documenti
contabili unicamente quelli “ordinari” rischia di vanificare le
particolari e spesso eccezionali esigenze poste alla base del loro
differimento (si rimanda, ad esempio, alle sopra richiamate disposizioni che
hanno differito i termini di approvazione del bilancio 2021, contenute in
leggi specificatamente emanate per fronteggiare le conseguenze dell’epidemia
da Covid-19 nonché, all’art. 106, c. 3-bis, d.l. n. 34/2020 recante il
differimento dei termini di approvazione dei bilanci 2020 e 2021 alla luce “delle
condizioni di incertezza sulla quantità delle risorse disponibili per gli
enti locali”).
Le ultime disposizioni citate, inoltre, nella quasi totalità dei casi, nulla
hanno a che vedere con le azioni programmate dai comuni in materia di
incremento degli accertamenti di IMU e TARI, né con l’implementazione delle
azioni di miglioramento della riscossione
intervenute in corso d’anno, considerato, infine, che dal punto di vista
giuridico-contabile, l’approvazione del bilancio di previsione, in un
sistema di contabilità finanziaria, costituisce momento di autorizzazione
delle spese e delle sole entrate da indebitamento, mentre non autorizza
l’attività di accertamento e riscossione delle entrate (cfr. art. 164 d.lgs.
n. 267/2000).
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Liguria, sospende
la pronuncia nel merito e, alla luce delle considerazioni riportate nella
parte motiva, delibera di sottoporre al Presidente della Corte dei conti la
valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle Autonomie, ai
sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, o alle
Sezioni Riunite in sede di controllo, ai sensi dell’art. 17, comma 31,
decreto legge 01.07.2009, n. 78, la seguente questione di massima ai fini
dell’adozione di una pronuncia di orientamento generale: “se
la locuzione “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al d.lgs.
18.08.2000, n. 267” per l’approvazione del bilancio preventivo e del conto
consuntivo contenuta all’art. 1, c. 1091, della legge n. 145/2018 debba
intendersi riferita, per il bilancio di previsione, al termine del 31
dicembre dell’anno precedente (ex art. 151, c. 1, TUEL) e, per il
rendiconto, a quello del 30 aprile dell’anno successivo a quello di
riferimento (ex artt. 151, c. 1, e 227, c. 2, TUEL) ovvero se questa possa
intendersi riferita anche al diverso termine prorogato, per il bilancio di
previsione, con legge o con decreto del Ministro dell'interno, d'intesa con
il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città
ed autonomie locali, in presenza di motivate esigenze (ai sensi dell’art.
151, c. 1, ultimo periodo TUEL) e, per il rendiconto, con legge”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
deliberazione 05.10.2021 n. 78). |
luglio 2021 |
|
TRIBUTI: La
possibilità di utilizzare quota parte del gettito della riscossione
dell’imposta municipale propria e della TARI ai sensi dell’art. 1, comma
1091, della legge n. 145 del 2018 per il potenziamento degli uffici di
gestione delle entrate (anche sotto forma di trattamento accessorio per il
personale ivi impiegato) è condizionato all’approvazione del bilancio di
previsione entro il 31 dicembre, non rilevando a tal fine la proroga che può
essere concessa con apposito decreto ministeriale ai sensi dell’art. 151 del
D.Lgs. n. 267 del 2000.
---------------
... il Sindaco del Comune di Pianezza (TO) ha formulato un quesito
riguardante l’interpretazione dell’art. 1, comma 1091, della legge n. 145
del 2018, chiedendo se, nel caso di tardiva approvazione del bilancio di
previsione, sia possibile erogare il compenso incentivante al personale che
ha svolto attività di accertamento dell’evasione tributaria.
In particolare, viene specificato che “anche sulla base degli
orientamenti espressi, l’applicazione della suddetta norma pare possibile
solo nei confronti dei Comuni che hanno approvato il bilancio di previsione
entro il 31 dicembre dell’anno precedente ed il rendiconto entro il 30
aprile dell’anno successivo, così come disposto dall’art. 151 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267 e dall’art. 1, comma 1091 della legge di bilancio
145/2018”.
Sulla base di tali argomentazioni, viene richiesto se “ai fini di
poter riconoscere l’incentivo in argomento al personale dell’ufficio
tributi, possa considerarsi valido anche l’eventuale termine successivamente
stabilito con Decreto del Ministero dell’Interno in presenza di motivate
esigenze, così come previsto dall’art. 151, comma 1, terzo periodo del D.Lgs.
267/2000”.
...
Ciò posto, si evidenzia che il quesito formulato dal Comune di Pianezza
riguarda l’interpretazione dell’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del
2018 per il quale si chiede se, nel caso di tardiva approvazione del
bilancio di previsione, sia possibile erogare il compenso incentivante al
personale che ha svolto attività di accertamento dell’evasione tributaria
Detto comma 1091, nello specifico, nella sua prima parte prevede che “[f]erme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio
regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso,
relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI,
nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal
conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di
qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2,
del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75”.
Sul punto si evidenzia che tale quota di maggiore gettito può essere
impiegata, oltre che per il trattamento accessorio del personale, anche per
il potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti
alla gestione delle entrate. La norma, pertanto, è volta ad incentivare gli
enti ad impiegare risorse per il potenziamento della riscossione non solo in
termini di incentivi economici per il personale impiegato negli uffici
preposti alla gestione delle entrate, ma anche per potenziare le dotazioni
strumentali di tali uffici.
Per i termini di approvazione del bilancio di previsione, le norme di
riferimento del D.Lgs. n. 267 del 2000 sono contenute nell’art. 151.
In particolare, il primo comma di tale articolo prevede che gli enti locali
“deliberano il bilancio di previsione finanziario entro il 31 dicembre”.
L’ultimo periodo del medesimo comma specifica che “[i] termini possono
essere differiti con decreto del Ministro dell'interno, d'intesa con il
Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed
autonomie locali, in presenza di motivate esigenze”.
Sulla base del delineato quadro normativo deve trovare soluzione il quesito
posto dal Comune di Pianezza.
2. In ordine a tale tematica questa Sezione si è recentemente espressa con
il
parere 07.06.2021 n. 92
con la quale ha ritenuto che la possibilità di utilizzare il maggiore
gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti dell’imposta
municipale propria e della TARI per il potenziamento dell’attività di
riscossione sia condizionata all’approvazione del bilancio di previsione
entro il 31 dicembre e non anche entro il termine eventualmente prorogato
con decreto ministeriale ai sensi dell’art. 151, comma 1, del D.Lgs. n. 267
del 2000.
Con tale deliberazione la Sezione si è uniformata ad un’ormai consolidato
orientamento espresso da diverse Sezioni regionali di controllo, a partire
dal
parere 18.09.2019 n. 52
della Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna con cui è stato
posto in evidenza che “l’inciso di cui alla norma citata consente la
facoltà di destinare risorse per incentivi al personale per l’accertamento
di imposte municipali alla condizione dell’approvazione del bilancio di
previsione e del rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di
cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti
dall’art. 163, comma 1, Tuel, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di
previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno
precedente”.
Tale orientamento è stato poi ripreso dalla Sezione regionale di controllo
per la Lombardia che, con
parere 06.11.2019 n. 412 (in senso conforme anche la
deliberazione n. 40 del 18.03.2020 della stessa Sezione), ha tra l’altro
osservato che “ove si optasse per una diversa interpretazione della
norma, vale a dire quella di considerare, ai fini dell’applicazione della
stessa, il termine di approvazione del bilancio di previsione prorogato (il
31.03.2019), si finirebbe per privare di significato l’espressa apposizione
di un termine da parte del legislatore (“... i comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267...”), considerato che
la disposizione normativa sarebbe applicabile praticamente a tutti gli enti
che hanno approvato il bilancio di previsione (entro il 31.03.2019),
rimanendone esclusi solo ed esclusivamente quelli che, non avendolo
approvato neanche nel termine prorogato, incorrerebbero nella procedura di
commissariamento ed eventualmente di scioglimento del Consiglio comunale di
cui all’art. 141 del Tuel; evenienza, quest’ultima, che sarebbe, comunque,
ostativa a qualsivoglia atto di gestione o di disposizione delle risorse di
bilancio da parte dell’ente”.
La Sezione regionale di controllo per la Toscana, a sua volta, con
parere 23.04.2020 n. 46,
ha ritenuto che l’inciso contenuto nell’art. 1, comma 1091, della legge n.
145 del 2018 riguardante i tempi di approvazione dei documenti di bilancio “non
può che essere interpretato in coerenza con lo spirito della norma che lo
contiene, e, dunque, in un’ottica di contenimento e corretta gestione delle
risorse pubbliche, con riferimento alla spesa di personale”. In
argomento detta Sezione regionale ha osservato che “[a]mmettere
un’interpretazione estensiva dell’inciso normativo, tale da ricomprendere
anche le ipotesi di approvazione del bilancio di previsione entro il diverso
termine fissato con decreto ministeriale motivato significherebbe, infatti,
frustrare lo spirito della norma, consentendo l’erogazione dell’incentivo da
parte di tutti i Comuni che abbiano comunque approvato il bilancio,
rispettando almeno uno dei due termini”.
In senso conforme si è pronunciata anche la Sezione regionale per l’Abruzzo
con il
parere 09.06.2020 n.
120.
Per quanto esposto, questa Sezione conferma l’orientamento già espresso con
il richiamato
parere 07.06.2021 n. 92,
uniformandosi al consolidato orientamento espresso dalle diverse Sezioni
regionali di controllo.
Nello specifico, si ritiene che la possibilità di utilizzare quota parte del
gettito della riscossione dell’imposta municipale propria e della TARI ai
sensi dell’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018 per il
potenziamento degli uffici di gestione delle entrate (anche sotto forma di
trattamento accessorio per personale ivi impiegato) è condizionato
all’approvazione del bilancio di previsione entro il 31 dicembre, non
rilevando a tal fine la proroga che può essere concessa con apposito decreto
ministeriale. Ammettere che si possa riconoscere, ai fini dell’applicazione
della norma in commento, la possibilità di approvare il bilancio di
previsione entro l’ulteriore termine indicato dal decreto ministeriale
previsto dall’art. 151, primo comma, comporterebbe un improprio ampliamento
dell’indicazione data dal legislatore avendo fatto lo stesso riferimento “ai
termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267”.
3. In conclusione, la Sezione, sulla base delle predette argomentazioni e
tenendo conto della giurisprudenza menzionata, ritiene che la possibilità di
utilizzare quota parte del gettito della riscossione dell’imposta municipale
propria e della TARI ai sensi dell’art. 1, comma 1091, della legge n. 145
del 2018 per il potenziamento degli uffici di gestione delle entrate (anche
sotto forma di trattamento accessorio per personale ivi impiegato) è
condizionato all’approvazione del bilancio di previsione entro il 31
dicembre, non rilevando a tal fine la proroga che può essere concessa con
apposito decreto ministeriale ai sensi dell’art. 151 del D.Lgs. n. 267 del
2000 (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 02.07.2021 n. 96). |
giugno 2021 |
|
TRIBUTI: In
tema di erogazione degli incentivi economici al personale per il
conseguimento degli obiettivi assegnati nelle attività di accertamento dei
tributi erariali, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1091, della
Legge 30.12.2018, n. 145 (“Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021”).
La facoltà di accantonare una quota di gettito
tributario per destinarla al “trattamento accessorio del personale
dipendente” non è riconosciuta indistintamente a favore di tutti i Comuni,
bensì a favore dei soli Comuni che abbiano adottato il bilancio di
previsione ed il consuntivo “entro i termini stabiliti dal testo unico di
cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”.
Tale inciso, infatti, non può che essere interpretato in coerenza con lo
spirito della norma che lo prevede, e, dunque, in un’ottica di contenimento
e corretta gestione delle risorse pubbliche, con riferimento alla spesa di
personale; con la conseguenza che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 1,
comma 1091, della L. n. 145/2019, “i termini stabiliti dal testo unico”
specificatamente per l’approvazione del bilancio di previsione sono i
termini di cui all’art. 151, comma 1, prima parte, TUEL, cioè il 31 dicembre
dell’anno precedente, termini per così dire “ordinari” per l’approvazione
del bilancio di previsione: un’interpretazione estensiva dell’inciso
normativo, tale da ricomprendere anche l’ipotesi di approvazione del
bilancio di previsione entro il diverso termine fissato con decreto
ministeriale motivato in base all’ultima parte del citato art. 151, comma 1,
TUEL, significherebbe, infatti, frustrare lo spirito della norma,
consentendo l’erogazione dell’incentivo da parte di tutti i Comuni che
abbiano comunque approvato il bilancio, rispettando almeno uno dei due
termini.
E, del resto, l’adozione del bilancio di previsione oltre il termine
fisiologicamente indicato del 31 dicembre determina conseguenze ben precise
sul piano della gestione finanziaria dell’Ente, come previsto dall’art. 163
TUEL e dallo stesso D.Lgs. n. 118 del 2011, al punto 8 dell’allegato 4/2.
---------------
Con nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Trecate (NO)
ha formulato una richiesta di parere in tema di erogazione degli incentivi
economici al personale per il conseguimento degli obiettivi assegnati nelle
attività di accertamento dei tributi erariali, secondo quanto previsto
dall’art. 1, comma 1091, della Legge 30.12.2018, n. 145 (“Bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale
per il triennio 2019-2021”).
In particolare, in argomento, l’istante chiede alla Sezione “di
esprimere un’interpretazione in merito alla possibilità di prevedere nel
redigendo regolamento degli incentivi economici per i dipendenti derivante
dall’attività di accertamento delle entrate, una disposizione che subordini
l’erogazione dei compensi all’avvenuta approvazione del bilancio di
previsione nei termini stabiliti dall’art. 151, comma I, del D.lgs. n.
267/2000 e s.m.i., senza operare alcuna distinzione tra il termine generale
stabilito dalla parte I del comma citato e l’ulteriore termine, differito
per legge o per decreto, previsto nella seconda parte del medesimo comma”.
...
Ciò premesso, con riguardo all’esame del quesito posto dal Comune di Trecate
la trattazione nel merito, nei limiti sopra espressamente indicati, prende
le mosse dall’inquadramento normativo della materia oggetto del medesimo, in
base alla disposizione già richiamata.
In particolare, l’art. 1, comma 1091, della Legge n. 145/2018, cit., dispone
che: “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui
all' articolo 52 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che
hanno approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
possono, con proprio regolamento, prevedere che il maggiore gettito
accertato e riscosso, relativo agli accertamenti dell'imposta municipale
propria e della TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello di
riferimento risultante dal conto consuntivo approvato, nella misura massima
del 5 per cento, sia destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all' articolo
23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata
al trattamento economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP
a carico dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione
integrativa, al personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del
settore entrate, anche con riferimento alle attività connesse alla
partecipazione del comune all'accertamento dei tributi erariali e dei
contributi sociali non corrisposti, in applicazione dell' articolo 1 del
decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge
02.12.2005, n. 248. Il beneficio attribuito non può superare il 15 per cento
del trattamento tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione
non si applica qualora il servizio di accertamento sia affidato in
concessione”.
Il testo di legge prevede, dunque, la possibilità per i Comuni di
accantonare una quota di gettito tributario per destinarla al “potenziamento
delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente”.
Tuttavia, appare evidente dallo stesso tenore letterale della norma in
parola che la facoltà di erogare il trattamento accessorio anzidetto non è
riconosciuta indistintamente a favore di tutti i Comuni, bensì a favore dei
soli Comuni che abbiano adottato il bilancio di previsione ed il consuntivo
“entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo
18.08.2000, n. 267”.
Tale inciso, peraltro, non può che essere interpretato in coerenza con lo
spirito della norma che lo prevede, e, dunque, in un’ottica di contenimento
e corretta gestione delle risorse pubbliche, con riferimento alla spesa di
personale; con la conseguenza che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 1,
comma 1091, della L. n. 145/2019 citata, “i termini stabiliti dal testo
unico” specificatamente per l’approvazione del bilancio di previsione
sono i termini di cui all’art. 151, comma 1, prima parte, TUEL, cioè il 31
dicembre dell’anno precedente, termini per così dire “ordinari” per
l’approvazione del bilancio di previsione: un’interpretazione estensiva
dell’inciso normativo, tale da ricomprendere anche l’ipotesi di approvazione
del bilancio di previsione entro il diverso termine fissato con decreto
ministeriale motivato in base all’ultima parte del citato art. 151, comma 1,
TUEL, significherebbe, infatti, frustrare lo spirito della norma,
consentendo l’erogazione dell’incentivo da parte di tutti i Comuni che
abbiano comunque approvato il bilancio, rispettando almeno uno dei due
termini (cfr., in tal senso, la deliberazione della Sezione regionale di
controllo per la Toscana
parere 23.04.2020 n. 46;
nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza contabile consolidata, e,
in particolare: la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna
parere 18.09.2019 n. 52;
la Sezione regionale di controllo per la Lombardia
parere 06.11.2019 n. 412
e
parere 23.03.2020 n. 40, e la Sezione regionale di controllo per
l’Abruzzo
parere 09.06.2020 n.
120).
Infatti, tale diversa opzione ermeneutica, quella cioè che considerasse, ai
fini dell’applicazione della disposizione di cui all’art. 1, comma 1091,
della L. n. 145/2018, il termine di approvazione del bilancio di previsione
prorogato (il 31 marzo), finirebbe per privare di significato l’espressa
apposizione di un termine da parte del legislatore (“… i comuni che hanno
approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267…”),
posto che “la disposizione normativa sarebbe applicabile praticamente a
tutti gli enti che hanno approvato il bilancio di previsione (entro il
31.03.2019), rimanendone esclusi solo ed esclusivamente quelli che, non
avendolo approvato neanche nel termine prorogato, incorrerebbero nella
procedura di commissariamento ed eventualmente di scioglimento del Consiglio
comunale di cui all’art. 141 del Tuel; evenienza, quest’ultima, che sarebbe,
comunque, ostativa a qualsivoglia atto di gestione o di disposizione delle
risorse di bilancio da parte dell’Ente” (v., in questi termini, la
deliberazione della Sezione regionale di controllo per la Lombardia
parere 06.11.2019 n. 412
cit.).
D’altra parte, l’adozione del bilancio di previsione oltre il termine
fisiologicamente indicato del 31 dicembre determina conseguenze ben precise
sul piano della gestione finanziaria dell’Ente; in tal caso, infatti, il
legislatore, all’art. 163 TUEL, “limita l’attività gestionale dell’ente
ad una serie di attività tassativamente indicate e tra esse non può
rientrarvi quella della destinazione di incentivi al personale; e ciò in
base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità in cui
versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al fondamentale
obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di previsione, dal che
discende, ex lege, una gestione di tipo provvisorio dell’ente e limitata a
specifiche attività” (cfr., così, la deliberazione della Sezione
regionale di controllo per l’Emilia Romagna
parere 18.09.2019 n. 52
cit.).
E, del resto, anche il D.Lgs. n. 118 del 2011, al punto 8 dell’allegato 4/2
denominato “principio contabile applicato concernente la contabilità
finanziaria”, sostanzialmente conferma la disciplina limitativa
dell’art. 163, comma 3 e seguenti, Tuel, con la conseguenza che il Comune si
troverà ad operare in un regime restrittivo, in cui l’attività gestionale è
limitata ad una serie di attività tassativamente indicate e con riguardo al
quale anche la previsione e l’erogazione di risorse incentivanti, quale
l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse alla partecipazione dell’Ente all'accertamento dei tributi
erariali, non possono considerarsi sottratte ai suddetti limiti (v., così,
la deliberazione della Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo
parere 09.06.2020 n.
120 cit.).
Il Collegio, pertanto, non ha ragione di discostarsi dalle esaustive e
condivisibili considerazioni formulate nelle deliberazioni di questa Corte
sopra richiamate, concludendo nel senso di considerare, quale condizione di
applicabilità dell’art. 1, comma 1091, della L. n. 145/2018, il termine del
31 dicembre ai sensi dell’art. 151, comma 1, prima parte, Tuel, alla luce,
peraltro, della perentoria lettera della norma che esplicitamente si
riferisce ai “comuni che hanno approvato il bilancio di previsione ed il
rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267”, fermo che in caso di autorizzazione al
differimento dei termini ordinari l’Ente prosegue la propria attività in
regime finanziario di esercizio provvisorio con le limitazioni alla gestione
finanziaria di cui all’art. 163 Tuel e al D.Lgs. n. 118/2011, che,
certamente, impediscono anche l’erogazione degli incentivi in esame (Corte
dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 07.06.2021 n. 92). |
settembre 2020 |
|
TRIBUTI: La
modifica di aliquote e tariffe di tributi per gli enti che hanno gia’
approvato il bilancio di previsione 2020-2022.
Domanda
Il mio comune ha già approvato il bilancio di previsione 2020-2022 lo scorso
13 febbraio. E’ ancora possibile intervenire sulle aliquote tributarie?
Risposta
Come è ormai noto, la crisi da Covid-19 ha comportato l’ulteriore
differimento del termine per l’approvazione del bilancio di previsione
2020-2022 al 30 settembre prossimo. A farlo, da ultimo, è stato l’art. 106,
comma 3-bis, del d.l. 34/2020 aggiunto dalla legge di conversione n. 77 del
17.07.2020.
Il dubbio del lettore è condiviso –oggi come in passato– da molti
amministratori locali e responsabili finanziari. Su di esso è intervenuta
incidentalmente Ifel con propria nota del 7 agosto scorso (qui
il testo integrale della nota). Dopo aver analizzato nel
dettaglio gli effetti del differimento di detto termine sulla scadenza dei
termini per l’approvazione di regolamenti, tariffe e aliquote dei tributi
locali, la nota ha affrontato proprio il tema oggetto del quesito.
Ifel conferma il proprio orientamento ormai consolidato da anni secondo il
quale la proroga dei termini di legge per l’approvazione del bilancio di
previsione consente ai comuni, anche laddove la sua approvazione sia già
avvenuta, di modificare la propria disciplina tributaria. Ciò, a maggior
ragione nel caso di variazioni dettate da sopravvenute modifiche del quadro
normativo di riferimento o da situazioni di emergenza quale è proprio quella
derivante dal Covid-19.
La variazione di gettito conseguente alla determinazione di diverse aliquote
tributarie, rispetto a quelle a suo tempo approvate unitamente al bilancio
di previsione, dovrà essere accompagnata o seguita da una coerente
variazione di bilancio, debitamente motivata, senza che vi sia “alcun
obbligo di procedere alla ripetizione ex novo del processo di formazione del
bilancio”. Ricorda poi Ifel che allo stesso modo si è espresso a suo
tempo il MEF con propria risoluzione n. 1/DF del 02/05/2011 (qui
il testo integrale).
In quell’occasione il MEF, pur rilevando che le delibere di approvazione
delle tariffe ed aliquote costituiscono un allegato al bilancio di
previsione, dà atto che nel caso in cui questo sia già stato approvato,
l’ente può legittimamente approvare o modificare le delibere tariffarie,
unitamente alla contestuale variazione del bilancio di previsione medesimo,
senza necessità, appunto, di una sua riapprovazione integrale.
Sul tema, ricorda infine la nota IFEL, era intervenuta anche la VI
Commissione Finanze, con la risoluzione del 21.11.2013, nella quale si
afferma “(…) come il competente Ministero dell’Interno esprima l’avviso
che le eventuali modifiche da apportare al bilancio di previsione da parte
degli enti, che tengano conto delle intervenute novità introdotte nei
regolamenti riguardanti le entrate tributarie dell’ente, possano essere
recepite attraverso successive apposite variazioni al documento contabile
già approvato da parte dei comuni, senza che sia indispensabile l’integrale
approvazione di nuovo bilancio”.
Quindi, in conclusione: piena libertà per tutti gli enti (con bilancio già
approvato ovvero ancora da approvare) di intervenire sulle proprie aliquote
e tariffe tributarie entro il prossimo 30 settembre, naturalmente nel
rispetto degli equilibri di bilancio, ad esclusione di Icp e Dpa che devono
essere deliberate entro il 31 marzo. In caso di mancata adozione della
deliberazione, si intendono prorogate le tariffe vigenti (14.09.2020
- link a www.publika.it). |
TRIBUTI: Gli
incentivi per il recupero dell'evasione tributaria spettano anche se il
rendiconto è approvato entro il 30.06.2020.
La Corte dei conti della Lombardia torna ad affrontare la questione della
spettanza degli Incentivi previsti per il recupero dell'evasione Imu e Tari
nel caso di mancata approvazione dei termini ordinariamente stabiliti dal
testo unico degli enti locali, giungendo tuttavia, per il rendiconto, a una
conclusione diversa da quella sostenuta per il bilancio di previsione.
L'incentivo al recupero dell'evasione
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018 ha dopo alcuni anni
reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere degli Incentivi in
favore del personale addetto al recupero dell'evasione tributaria,
destinando a questo fine una parte del maggior gettito accertato e riscosso
riferito all'Imu e alla Tari, nell'anno precedente a quello di riferimento,
risultante dal rendiconto.
La disposizione tuttavia subordina la possibilità di operare la destinazione
delle somme (nel limite massimo del 5 per cento) all'avvenuta approvazione
del bilancio di previsione e del rendiconto della gestione entro i termini
previsti dal testo unico degli enti locali.
L'interpretazione della Corte dei conti
La questione ha da subito ingenerato dei dubbi interpretativi, in
particolare nel caso in cui i Comuni abbiano approvato il bilancio di
previsione oltre il termine del 31 dicembre dell'anno precedente, previsto
dall'articolo 151 del Tuel, ma comunque entro il termine differito dal
decreto ministeriale (o dalla norma di legge nel caso dell'anno 2020).
Diverse sezioni regionali della Corte dei conti, (Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52; Lombardia,
deliberazioni
parere 06.11.2019 n. 412 e
parere 23.03.2020 n. 40; Toscana,
parere 23.04.2020 n. 46; Abruzzo,
parere 09.06.2020 n.
120), hanno sostenuto che la mancata
approvazione del bilancio di previsione dell'anno di riferimento entro il
termine del 31 dicembre dell'anno precedente, precluda la destinazione delle
somme all'incentivazione del recupero delle entrate, anche se l'approvazione
avvenga entro il maggior termine stabilito dall'apposito decreto
ministeriale.
Ciò in quanto una diversa interpretazione della norma frustrerebbe lo
spirito della stessa, dettata in un'ottica di contenimento e di corretta
gestione delle spese pubbliche, con particolare riferimento alle spese del
personale. Diversamente opinando la norma sarebbe applicabile praticamente a
tutti gli enti, escludendo solo quelli che approvano il bilancio in ritardo
rispetto alla legge. Peraltro, ricorda la Corte, nell'evenienza
dell'approvazione del bilancio oltre il 31 dicembre, anche se nel termine di
legge, l'ente si troverebbe ad operare per il suddetto periodo in esercizio
provvisorio, riducendosi la sua attività a quelle tassativamente previste
dalla legge, tra le quali non vi rientra la destinazione di Incentivi al
personale.
L'approvazione del rendiconto entro il 30.06.2020
Per la Corte lombarda (parere
10.09.2020 n. 113)
tuttavia una siffatta interpretazione restrittiva non sarebbe da applicarsi
alla mancata approvazione del rendiconto entro il termine del 30 aprile,
purché lo stesso sia approvato entro il termine differito dalla legge. Come
è noto, infatti, il termine per approvare il rendiconto dell'anno 2019 è
stato differito, per la situazione emergenziale derivante dalla diffusione
del virus Covid-19, al 30.06.2020 (articolo 107 del Dl 18/2020).
Questo perché, ha evidenziato la Corte, "l'approvazione del rendiconto
entro il 30.06.2020, termine fissato per effetto di proroga legislativa dal
Dl 18/2020 onde consentire all'ente locale gli adempimenti contabili non
perfezionati a causa della situazione emergenziale da Covid-2019, non altera
di per sé i risultati raggiunti nel precedente esercizio finanziario, di cui
si rende conto, e non produce alcun effetto sull'avvenuta attività di
riscossione, nel medesimo esercizio, da parte del personale; quest'ultimo,
avendo raggiunto l'obiettivo assegnato, sarebbe pregiudicato dalla mancata
corresponsione dell'incentivo pianificato nel bilancio di previsione
tempestivamente approvato entro il 31 dicembre".
Stante la diversa funzione dei documenti contabili, preordinato alla
programmazione degli interventi e all'allocazione delle risorse, il bilancio
di previsione, e alla rappresentazione delle risultanze della gestione, il
rendiconto, non ha senso logico correlare gli Incentivi all'approvazione del
rendiconto entro il 30 aprile dell'anno successivo, perché l'approvazione
del rendiconto 2019 entro il 30.06.2020 si atteggia ugualmente a tempestiva
adempienza contabile del Comune, richiesta dalla norma in commento quale
condizione di applicabilità degli incentivi, vale a dire il rendere conto
tempestivamente e certi i risultati della gestione dell'esercizio
finanziario ormai passato.
Inoltre, deve prevalere nella situazione emergenziale, la specialità della
norma del Dl 18/2020 che ha derogato all'ordinario termine di approvazione
del rendiconto.
In conclusione, le previsioni del comma 1091 sono applicabili se l'ente ha
approvato il bilancio di previsione entro il 31 dicembre precedente ed ha
approvato il rendiconto entro il termine differito del 30.06.2020.
Resta invece precluso il ricorso all'istituto per i Comuni che non hanno
approvato il bilancio di previsione entro il 31 dicembre dell'anno
precedente, secondo la rigorosa interpretazione della Corte dei conti,
posizione che, a questo punto, può superarsi solo con un intervento
chiarificatore del legislatore, più volte sollecitato anche dall'Anutel.
Specie in questo anno di emergenza in cui molti Comuni devono ancora
approvare il bilancio, pur impegnando comunque il personale nella delicata
operazione di recupero delle entrate specie tributarie, in alcuni casi
ancora più necessaria per preservare i delicati equilibri del bilancio degli
enti
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.09.2020). |
TRIBUTI: Incentivi
antievasione IMU e TARI ai dipendenti anche con il rendiconto approvato dopo
il 30 aprile.
Possono essere corrisposti gli incentivi economici a favore dei dipendenti
comunali per le attività connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e
Tari) anche nell'ipotesi in cui l'approvazione del rendiconto è intervenuta
successivamente al 30 aprile (ma comunque entro il termine prorogato dal
legislatore con norma di carattere eccezionale), purché il bilancio di
previsione sia stato approvato entro il 31 dicembre.
È questa l'importante
indicazione fornita dalla sezione regionale di controllo della Corte dei
conti della Lombardia col
parere 10.09.2020 n. 113.
Il comma 1091 dell'articolo 1 della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite stabilito dall'articolo
23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ma come impattano sulla corresponsione di questi incentivi le disposizioni
contenute nel decreto «Cura Italia» che hanno comportato la proroga della
scadenza del 30.04.2020, fissata dall'articolo 151, comma 7, del Tuel, al
30.06.2020?
Questo l'oggetto della richiesta di parere formulata alla Corte dei conti
territorialmente competente da un ente locale.
I giudici contabili lombardi ricordano come si sia consolidato
l'orientamento restrittivo nella lettura della norma secondo il quale gli
incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere
corrisposti solo se l'ente approva il bilancio di previsione entro il 31
dicembre dell'anno precedente e non anche il termine differito con decreto
ministeriale o con legge a norma dell'articolo 163, comma 3, del Dlgs
267/2000 (si veda Enti locali & Edilizia del 27.11.2019).
A diversa conclusione sembra giungersi nel caso dell'approvazione del
rendiconto, il cui termine fissato al 30.06.2020 per effetto di proroga
legislativa dal decreto «Cura Italia» onde consentire all'ente locale gli
adempimenti contabili non perfezionati a causa della situazione emergenziale
da Covid-2019.
Ad avviso dei giudici, infatti, l'approvazione del rendiconto entro il 30.06.2020 non altera di per sé i risultati raggiunti nel precedente
esercizio finanziario, di cui si rende conto, e non produce alcun effetto
sull'avvenuta attività di riscossione, nel medesimo esercizio, da parte del
personale; quest'ultimo, avendo raggiunto l'obiettivo assegnato, sarebbe
pregiudicato dalla mancata corresponsione dell'incentivo pianificato nel
bilancio di previsione tempestivamente approvato entro il 31 dicembre.
In conclusione, laddove il bilancio di previsione è approvato entro il 31
dicembre, l'approvazione del rendiconto intervenuta successivamente al 30.04.2020 ed entro il termine prorogato (al 30.06.2020) dal
legislatore con norma di carattere eccezionale (qual è il Dl 18/2020 che ha
carattere di specialità dettato dal contesto emergenziale e di urgenza da
Covid-19, nel quale gli enti sono tenuti ad operare) consente la
corresponsione degli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali
per le attività connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari)
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 16.09.2020).
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MASSIMA
Laddove il bilancio di previsione sia approvato entro il
31 dicembre, l’approvazione del rendiconto intervenuta successivamente al
30.04.2020 ed entro il termine prorogato dal legislatore con norma di
carattere eccezionale consente l’applicazione delle previsioni di cui
all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018, in tema di incentivi
economici al personale per il conseguimento degli obiettivi assegnati nelle
attività di accertamento dei tributi erariali.
PARERE
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Sermide e
Felonica (MN) ha presentato una richiesta di parere volta a superare i dubbi
interpretativi relativi alle condizioni di applicabilità della previsione
recata dall’art. 1, comma 1091 della legge n. 145 del 2018, nella parte in
cui subordina all’avvenuta approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267,” la possibilità per i comuni di
riconoscere, con proprio regolamento, l’erogazione di un compenso
incentivante al personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del
settore entrate, anche con riferimento alle attività correlate
all'accertamento dei tributi erariali non riscossi.
Premesso che con deliberazione dell’organo esecutivo dell’ente n. 73 del
01/08/2019 è stato approvato il “Regolamento gestione incentivi entrate”
e che sono stati assegnati al servizio tributi obiettivi in tema di “attività
di controllo dichiarazioni e versamento IMU, al fine di ridurre gli insoluti”,
l’istante evidenzia l’avvenuta approvazione del bilancio di previsione
2020–2022 entro i termini previsti dal D.Lgs. n. 267/2000, avvalendosi, di
contro, della proroga straordinaria prevista dal D.L. n. 18 del 2000,
dettata dall’emergenza epidemiologica da COVID–2019, ai fini
dell’approvazione del rendiconto 2019, avvenuta con delibera consiliare n.
15 del 18.06.2020.
Premesso ed evidenziato quanto sopra, il rappresentante legale dell’ente
“chiede di conoscere se l’obbligo dell’approvazione del rendiconto entro
il 30/04/2020, termine previsto dal D.Lgs. n. 267/2000, si applichi anche al
rendiconto dell’esercizio 2019”.
...
La richiesta di parere sopra riportata si incentra sull’individuazione del
termine entro il quale l’Ente deve approvare il rendiconto 2019 al fine di
poter procedere all’erogazione dell’incentivo al personale, previsto
dall’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018; ciò alla luce della
sopravvenienza normativa (D.L. n. 18 del 2020 c.d. “Cura Italia”
convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 24.04.2020, n. 27)
che ha comportato la proroga della scadenza del 30.04.2020, fissata
dall’art. 151, comma 7, del D.Lgs. n. 267/2000, al 30.06.2020.
Il comma 1091 dell’art. 1, sopra citato, nel riconoscere ai comuni la
possibilità di prevedere, con proprio regolamento, che “il maggiore
gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti dell'imposta
municipale propria e della TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello
di riferimento risultante dal conto consuntivo approvato, nella misura
massima del 5 per cento sia destinato, limitatamente all'anno di
riferimento, al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici
comunali preposti alla gestione delle entrate”, pone, quale condizione alla
regolamentazione comunale, l’approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267”.
Il parere richiesto, volto a chiarire i dubbi interpretativi sul rispetto di
tale condizione di applicabilità degli incentivi alla luce dei sopravvenuti
mutamenti legislativi che differiscono il termine di approvazione del
rendiconto 2019, postula un’attività interpretativa del già menzionato
enunciato normativo (art. 1, comma 1091, l. n. 145/2018) entro le coordinate
fissate dall’art. 12 delle preleggi e dai principi giuridici che regolano il
rapporto tra norme regolatrici di una determinata fattispecie.
Ai sensi di tale ultimo disposto, al dato normativo non va attribuito altro
senso che il significato letterale, ossia quello proprio delle parole che lo
enunciano, secondo la connessione tra le stesse (interpretazione letterale),
e quello rispondente allo scopo obiettivo perseguito dal legislatore
(interpretazione teleologica).
Laddove, tuttavia, la lettera della legge dia adito a ragionevoli dubbi in
merito al significato da attribuire alla disposizione normativa soccorre la
c.d. interpretazione correttiva, che ne estende il significato oltre il dato
letterale (interpretazione estensiva) o esclude dall’ambito applicativo
della disposizione medesima fattispecie che in base al criterio letterale
potrebbero esservi ricomprese (interpretazione restrittiva).
Trasponendo tali brevi riflessioni in punto di diritto al disposto ex art.
1, comma 1091, della legge di bilancio 2019, nella parte in cui postula,
quale condizione di applicabilità degli incentivi in parola, il rispetto dei
termini di cui al D.Lgs. n. 267/2000, è bene sottolineare come ormai sia
consolidato l’orientamento della giurisprudenza contabile nel riconoscere
soddisfatta la condizione medesima, con riferimento all’approvazione del
bilancio di previsione, solo se l’ente locale lo approvi entro il 31
dicembre e non entro i termini prorogati in conseguenza di modifiche
normative.
Nel dettaglio, plurime deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti subordinano gli incentivi economici in esame al
rispetto del termine ordinario stabilito dal Tuel nel comma 1 dell’art. 151,
ossia il 31 dicembre, e non di quello eventualmente differito con decreto
del Ministro dell'interno, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle
finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, in presenza
di motivate esigenze, giusta previsione del medesimo comma dell’articolo
citato, u. c.
Ricomprendere anche tale ultima ipotesi nell’alveo applicativo dell’inciso
normativo di cui al comma 1091 dell’art. 1 della legge 145/2018 frusterebbe
lo spirito della norma, dettata in un’ottica di contenimento e di corretta
gestione delle risorse pubbliche, con riferimento alla spesa del personale.
Come rilevato da questa Sezione nel parere reso con
parere 06.11.2019 n. 412,
e ribadito dalla stessa nel successivo
parere 23.03.2020 n. 40, una
simile lettura della disposizione in esame comporterebbe che la stessa
sarebbe applicabile praticamente a tutti gli enti che hanno approvato il
bilancio di previsione, entro il termine ordinario o differito, “rimanendone
esclusi solo ed esclusivamente quelli che, non avendolo approvato neanche
nel termine prorogato, incorrerebbero nella procedura di commissariamento ed
eventualmente di scioglimento del Consiglio comunale di cui all’art. 141 del
Tuel; evenienza, quest’ultima, che sarebbe, comunque, ostativa a
qualsivoglia atto di gestione o di disposizione delle risorse di bilancio da
parte dell’ente”.
A suggellare la restrittiva ricostruzione esegetica operata dal giudice
contabile concorre altresì il regime limitativo, sostanzialmente confermato
dal D.Lgs. n. 118 del 2011, in cui incorre l’ente nel corso dell’esercizio
provvisorio per effetto dell’approvazione del bilancio di previsione entro
il termine differito con decreto ministeriale o con legge (art. 163, comma
3, Tuel); regime che riduce l’attività gestionale ad una serie di attività
tassativamente indicate nella quale non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
Di converso, argomentazioni differenti sorreggono una lettura meno
restrittiva della norma in commento, con riferimento al rispetto del termine
per l’approvazione del rendiconto, fissato dall’art. 151, comma 7, Tuel al
30 aprile dell’esercizio n+1, quale condizione di applicabilità
dell’incentivo economico al personale dell’ente locale in caso di positivo
riscontro del raggiungimento degli obiettivi assegnati del “settore
entrate”.
L’approvazione del rendiconto entro il 30.06.2020, termine fissato per
effetto di proroga legislativa dal D.L. n. 18/2020 onde consentire all’ente
locale gli adempimenti contabili non perfezionati a causa della situazione
emergenziale da Covid 2019, non altera di per sé i risultati raggiunti nel
precedente esercizio finanziario, di cui si rende conto, e non produce alcun
effetto sull’avvenuta attività di riscossione, nel medesimo esercizio, da
parte del personale; quest’ultimo, avendo raggiunto l’obiettivo assegnato,
sarebbe pregiudicato dalla mancata corresponsione dell’incentivo pianificato
nel bilancio di previsione tempestivamente approvato entro il 31 dicembre.
Posta la diversa funzione dei documenti contabili richiamati dal comma 1091
dell’art. 1, citato, ossia il bilancio di previsione e il rendiconto
dell’ente, rispettivamente preordinati alla programmazione degli interventi
e all’allocazione delle relative risorse nell’esercizio finanziario futuro,
il primo, e alla rappresentazione delle risultanze della gestione
precedente, il secondo, sarebbe privo di senso logico correlare gli
anzidetti incentivi all’approvazione del rendiconto 2019 esclusivamente
entro il termine ordinario del 30 aprile fissato ex art. 157 del D.Lgs.
267/2000.
Per effetto del sopravvenuto mutamento legislativo di proroga, preordinato a
consentire agli enti gli adempimenti contabili cui sono tenuti per legge,
l’approvazione del rendiconto 2019 entro il 30.06.2020 si atteggia
ugualmente a tempestiva adempienza contabile del comune, richiesta dalla
norma in commento quale condizione di applicabilità degli incentivi, vale a
dire il rendere conto tempestivamente e certi i risultati della gestione
dell’esercizio finanziario ormai passato.
Orienta l’interprete nella soluzione indicata anche il criterio di
specialità, il quale ricorre in presenza di una norma speciale dettata per
regolare una fattispecie che presenta elementi aggiuntivi rispetto a quella
generale, di cui ne ripete tuttavia il nucleo fondamentale.
Il D.L. n. 18 del 2020 (c.d. “Cura Italia”), per quanto ci occupa in
tale sede, nel dettare misure straordinarie onde evitare la paralisi degli
enti, rappresenta l’eccezione, il cui elemento di specialità è rappresentato
proprio dal contesto emergenziale e di urgenza da Covid–2019, nel quale gli
stessi sono tenuti ad operare.
Ne deriva che la previsione in esso dettata, relativamente al riferimento
temporale per l’approvazione del rendiconto 2019, deroga al termine
fisiologicamente indicato nel D.Lgs. n. 267/2000 cui rinvia l’art. 1, comma
1091, della legge di bilancio 2019; effetto tipico, questo, della prevalenza
della norma speciale su quella generale, la cui latitudine applicativa verrà
ripristinata alla cessazione di efficacia della prima per il venir meno del
profilo di specialità che ha giustificato l’esigenza del legislatore nel
prevederla.
In via conclusiva, laddove il bilancio di previsione sia
approvato entro il 31 dicembre, l’approvazione del rendiconto intervenuta
successivamente al 30.04.2020 ed entro il termine prorogato dal legislatore
con norma di carattere eccezionale consente l’applicazione delle previsioni
di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018, in tema di incentivi
economici al personale per il conseguimento degli obiettivi assegnati nelle
attività di accertamento dei tributi erariali
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 10.09.2020 n. 113). |
TRIBUTI: Questo
Comune, ha confermato, nel proprio regolamento IMU aggiornato alla L.
27.12.2019, n. 160 appena approvato, la riduzione del 50% del tributo per
gli immobili concessi in comodato d'uso ai parenti in linea retta entro il
primo grado (come previsto dalla Legge di Stabilità 2016 - art. 1, comma 10,
L. 28.12.2015, n. 208).
Si chiede se, in base alla nuova normativa introdotta dal 01.01.2020, tale
agevolazione sia riconoscibile al dichiarante anche senza la registrazione
del contratto di comodato.
Per rispondere al quesito proposto non possiamo che riprendere testualmente
la previsione di cui all'art. 1, comma 747, Legge di Bilancio per il 2020 (L.
27.12.2019, n. 160) che ha istituito la c.d. "Nuova IMU" a decorrere
dal 01.01.2020 abrogando le previgenti disposizioni in materia di componente
IMU dell'Imposta Unica Comunale (IUC).
La richiamata disposizione infatti prevede che "la base imponibile è
ridotta del 50 per cento nei seguenti casi ….. c) per le unità immobiliari,
fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e
A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta
entro il primo grado che le utilizzano come abitazione principale, a
condizione che il contratto sia registrato e che il comodante possieda una
sola abitazione in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori
abitualmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in
comodato".
Pertanto, anche a seguito delle precisazioni offerte dal Dipartimento delle
finanze con propria Ris. 17.02.2016, n. 1/DF emanata sull'impianto normativo
della "vecchia IMU" (che sostanzialmente è ripreso dalla nuova
normativa), non possiamo che affermare che tale beneficio può essere
concesso, in materia di IMU, solamente nel caso in cui l'immobile venga
concesso in comodato d'uso tra parenti in linea retta entro il primo grado,
alle condizioni stabilite, soltanto previa stipula e registrazione di
apposito contratto di comodato, escludendo, al momento, altre possibilità di
riconoscere l'agevolazione di cui trattasi.
----------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Ris. 17.02.2016, n. 1/DF -
Art. 1, comma 747, L. 27.12.2019, n. 160
(09.09.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
luglio 2020 |
|
TRIBUTI: C.
Montanari,
Incentivi al personale per il recupero
dell’evasione tributaria (Azienditalia Enti Locali n. 7/2020).
---------------
Lo scritto intende approfondire le condizioni alle quali è possibile
l’erogazione degli incentivi al personale previsti dall’art. 1, comma 1091,
Legge n. 145/20018, per il recupero dell’evasione tributaria IMU e TARI. |
giugno 2020 |
|
TRIBUTI:
L'ufficio Tributi di questo Comune intende procedere alla
notifica dei c.d. "accertamenti esecutivi" durante il periodo di sospensione
"Covid".
Quale è l'attuale disciplina con riferimento al termine attuale fissato al
31 agosto?
Per rispondere al quesito proposto occorre innanzitutto ripercorrere le
tappe fondamentali della normativa di cui trattasi.
In primis, fu il comma 1 dell'art. 67, D.L. 17.03.2020, n. 18,
convertito, con modificazioni, dalla L. 24.04.2020, n. 27 a stabilire la
sospensione, dall'8 marzo al 31.05.2020, dei termini relativi alle attività
di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di
contenzioso, da parte degli uffici degli enti impositori, ivi compresi
quelli degli enti locali. È bene sottolineare che comunque questa
disposizione non sospende l'attività degli enti impositori ma prevede
esclusivamente la sospensione dei termini di prescrizione e decadenza delle
predette attività nel periodo individuato.
Il comma 1 dell'art. 68 dello stesso D.L. 17.03.2020, n. 18 dispone invece,
con riferimento alle entrate tributarie e non tributarie, la sospensione dei
termini dei versamenti, scadenti nel periodo dall'08.03. al 31.08.2020,
derivanti da cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione,
nonché dagli avvisi previsti dagli artt. 29 e 30, D.L. 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla L. 30.07.2010, n. 122 (avvisi di
accertamento e riscossione emessi rispettivamente dall'Agenzia delle Entrate
e dall'Inps).
Il successivo comma 2, poi, stabilisce che la sospensione in discorso si
applica anche alle ingiunzioni di cui al R.D. 14.04.1910, n. 639, emesse
dagli enti territoriali, nonché agli atti di accertamento esecutivo di cui
all'art. 1, comma 792, L. 27.12.2019, n. 160.
Per completezza di analisi bisogna citare in ultimo anche la norma di cui
all'art. 12, D.Lgs. 24.09.2015, n. 159 ("Sospensione dei termini per
eventi eccezionali"), richiamata nel comma 1 dell'art. 68: nel periodo
di sospensione in parola l'agente della riscossione non procede alla
notifica delle cartelle di pagamento, come disposto dal comma 3 del medesimo
art. 12. A chiarire però la portata di tali disposizioni, che a prima
lettura sembrerebbero includere "nella scure" della sospensione anche
la nuova fattispecie dell'accertamento esecutivo, è intervenuto, nei giorni
scorsi, il Ministero dell'Economia e delle Finanze - Dipartimento delle
finanze con la propria Ris. 15.06.2020, n. 6/DF.
Tale documento, per ciò che concerne la fattispecie tributaria che si sta
analizzando, ovvero quella dell'accertamento esecutivo, sottolinea che tale
atto, di cui all’art. 1, comma 792, L. 27.12.2019, n. 160, racchiude in sé
due distinti atti che prima della riforma caratterizzavano la riscossione,
vale a dire l'avviso di accertamento o l'atto finalizzato alla riscossione
delle entrate patrimoniali e la cartella di pagamento o l'ingiunzione
fiscale.
Sulla scorta di ciò, il Ministero ritiene che, nell'ambito dell'applicazione
del richiamato art. 68, D.L. 17.03.2020, n. 18, tale atto possa rientrare
solo dopo che lo stesso sia divenuto esecutivo ai sensi della lett. b),
dello stesso comma 792, con la conseguenza che gli enti locali e i soggetti
affidatari non possono attivare procedure di recupero coattivo né adottare
misure cautelari, in accordo a quanto disposto dal comma 3 dell'art. 12,
D.Lgs. 24.09.2015, n. 159, mentre, al contempo e per effetto dello stesso
art. 68, per il contribuente è prevista la sospensione dei versamenti.
Pertanto, sulla scorta di quanto specificato dal MEF nella propria
risoluzione, l'ufficio tributi è legittimato a procedere alla notifica degli
atti di accertamento esecutivo anche durante il periodo di sospensione,
individuato dall'art. 68, D.L. 17.03.2020, n. 18, che termina il 31.08.2020,
in quanto tali atti racchiudono al loro interno sia l'atto di accertamento
sia quello esecutivo.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 24.09.2015, n. 159, art. 12 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma
792 - D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 67 - D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 68 -
D.L. 17.03.2020, n. 18 - R.D. 14.04.910, n. 639 - L. 24.04.2020, n. 27 - Ris.
15.06.2020, n. 6/DF del Ministero dell'Economia e delle Finanze -
Dipartimento delle finanze (24.06.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
TRIBUTI:
Incentivo per il recupero dell'evasione IMU, il vincolo
dell'approvazione del bilancio frena gli Enti.
Neanche la pandemia Convid-19 riesce a scalfire la
rigida interpretazione fornita da alcune Corti dei conti in tema di
incentivo per il recupero dell'evasione Imu.
Si ricorderà che la normativa Ici prevedeva la possibilità per i Comuni di
destinare parte del gettito da recupero dell'evasione all'incentivazione del
personale. Questa possibilità non era stata replicata all'inizio nell'Imu,
ma è stata successivamente introdotta con l'articolo 1, comma 1091, della
legge 145/2018 (legge di bilancio 2019).
Occorre premettere che uno dei mali peggiori che affligge gli enti locali è
la difficoltà di accertare l'evasione e di riscuotere le proprie entrate. La
Corte dei conti ripete sistematicamente che una delle principali cause di
dissesto dei Comuni va proprio ricercata nella diffusa inefficienza della
capacità di riscossione delle proprie entrate, a iniziare da quelle
tributarie.
Negli ultimi anni il legislatore ha finalmente fornito strumenti più
efficaci per incrementare il tasso di riscossione. Da ultimo, con
l'accertamento esecutivo e con le nuove regole sulla riscossione coattiva,
che sono intervenute risolvendo annose problematiche, come quelle relative
alla figura del funzionario responsabile della riscossione e agli oneri
ripetibili dal debitore.
Ma per incrementare il recupero dell'evasione, che in Italia raggiunge
livelli elevatissimi anche nell'ambito dei tributi comunali, occorrono non
solo norme chiare ma anche personale.
Dall'analisi sul patrimonio immobiliare in Italia del Mef e dell'agenzia
dell'Entrate, si stima solo per l'Imu un'evasione annuale di 5,2 miliardi,
con un percentuale media di evasione del 27%, con punte del 45% nel
meridione e tassi che non scendono comunque sotto il 10% neanche al Nord.
Conti alla mano, quindi, i Comuni hanno un bacino di recupero nei cinque
anni accertabili di ben 26 miliardi di euro. E allora si comprende
l'esigenza del legislatore di dare una sferzata anche agli uffici tributi
del Comune, ugualmente a quanto avviene per i dipendenti dell'agenzia
dell'Entrate, destinatari anche loro di Incentivi sul recupero
dell'evasione.
Ma la scrittura del comma 1091 è risultata criptica in più punti. Uno di
questi attiene al vincolo dell'approvazione del bilancio preventivo e del
rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico, ovvero 31 dicembre e
30 aprile.
Ma se il termine del 31 dicembre viene prorogato, come poi è sempre
avvenuto, l'approvazione entro il nuovo termine è tardiva? Approvare il
bilancio di previsione entro il 31.07.2020 vuol dire approvare il bilancio
entro i termini stabiliti dal Tuel?
La risposta è ovviamente sì. Le proroghe non vengono disposte così, ma
sempre in conseguenza di modifiche normative che richiedono un recepimento
nell'ordinamento comunale. Non approvare il bilancio entro il 31 dicembre
perché la legge di bilancio ha stravolto il quadro normativo di riferimento
non è sintomo di inefficienza, come pure qualche Corte ha sostenuto.
Nel 2020 praticamente l'incentivo spetterà solo a qualche isolato Comune,
che è riuscito ad approvare il bilancio preventivo a dicembre e il
rendiconto entro il 30 aprile, nonostante la pandemia.
Ma ci si chiede, qual è la correlazione logica che esiste tra incentivo al
recupero dell'evasione dei tributi e termine di approvazione del bilancio:
nessuna.
Peraltro, nell'organizzazione comunale questi sono adempimenti posti a capo
di uffici diversi. il personale del servizio tributi deve subire le
conseguenze delle attività svolte dal personale del servizio ragioneria?
Sarebbe totalmente illogico.
L'incentivo del comma 1091 mira a potenziare l'attività di recupero
dell'evasione e della riscossione dei tributi comunali, non mira a far
rispettare i termini di approvazione dei bilanci preventivi e consuntivi.
A questo punto non resta che sperare nel buon senso di una modifica
normativa
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.06.2020). |
TRIBUTI: Depuratore
acqua non funzionante: rimborsato l’utente.
La quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è una componente
della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, configurato come
corrispettivo di una prestazione commerciale complessa.
Ne consegue che,
qualora il servizio di depurazione non sia stato fornito, ma quella quota di
tariffa sia stata comunque versata, l’utente deve essere rimborsato dalla
società con cui ha il contratto per la fornitura di acqua, anche se poi il
proprietario dell’impianto di depurazione è un altro soggetto.
Infatti, ai
fini del rapporto con l’utente conta solo colui con cui quest’ultimo ha
firmato il contratto (massima
tratta da www.tuttoambiente.it).
---------------
8.1. Il primo motivo del ricorso principale è fondato.
8.1.1. Sul punto, occorre muovere dalla constatazione, ancora di recente
ribadita da questa Corte, che -mentre fino al 03.10.2000- il canone o
diritto di cui alla legge 10.05.1976, n. 319 "doveva essere considerato
un tributo, conformemente al costante orientamento espresso dalle Sezioni
Unite della Corte di legittimità", a partire da questa data, per effetto
del d.lgs. 18.08.2000, n. 258, art. 24, che, nel sopprimere il d.lgs.
11.05.1999, n. 152, art. 62, commi 5 e 6, ha fatto venire meno, per il
futuro, il differimento dell'abrogazione della previgente disciplina, "si
è passati all'applicazione della tariffa del servizio idrico integrato di
cui alla legge 05.01.1994 n. 36, art. 13 e ss.".
Orbene, in rapporto "alla tariffa di fognatura e di depurazione soggetta
alla innovata disciplina", questa Corte di legittimità ha affermato "che
i Comuni non possono chiedere il pagamento dell'apposita tariffa ove non
diano prova di esser forniti di impianti di depurazione delle acque reflue".
Invero, "la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è
divenuta, appunto, una componente della complessiva tariffa del servizio
idrico integrato, configurato come corrispettivo di una prestazione
commerciale complessa che, per quanto determinata nel suo ammontare in base
alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente
sul patrimonio dell'utente, bensì nel contratto di utenza. Sicché, tenuto
conto della declaratoria di incostituzionalità della legge 05.01.1994, n.
36, art. 14, comma 1 -sia nel testo originario, sia nel testo modificato
dalla legge 31.07.2002, n. 179, art. 28 (Disposizioni in materia
ambientale)- nella parte in cui prevedeva che la quota di tariffa riferita
al servizio di depurazione fosse dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui
la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o
questi siano temporaneamente inattivi» (v. C. Cost. n. 335/2008), va
affermato il principio secondo il quale, in caso di mancata fruizione, da
parte dell'utente, del servizio di depurazione, per fatto a lui non
imputabile, è irragionevole, per mancanza della controprestazione,
l'imposizione dell'obbligo del pagamento della quota riferita a detto
servizio" (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. 18.04.2018, n.
9500, Rv. 647829-01).
8.1.2. Invero, una volta ricostruita la pretesa fatta valere, anche nel
presente giudizio, come derivante dall'inadempimento di una prestazione che
ha fonte negoziale, e segnatamente nel contratto di utenza, il soggetto
tenuto alla restituzione non può che individuarsi in quello che, in forza
del predetto contratto, ha richiesto (e conseguito) il pagamento.
Difatti, se è vero che "la quota di tariffa riferita al servizio di
depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del servizio
idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo
contrattuale, il cui ammontare è inserito automaticamente nel contratto",
ne consegue che, ove il servizio di depurazione non sia stato fornito, ma
quella quota di tariffa sia stata comunque versata, è nei confronti della
controparte del contratto di utenza che la pretesa restitutoria va azionata,
in quanto è alla "effettiva fruizione del servizio di depurazione"
che, "per la rilevata natura sinallagmatica del rapporto", risulta "condizionato
l'accoglimento della pretesa di pagamento" (cfr. Cass. Sez. 3, sent.
04.06.2013, n. 14042, Rv. 626790-01).
In altri termini, la titolarità di ABC -dal lato passivo- del rapporto
controverso originato dalla pretesa restitutoria degli utenti, trova il suo
fondamento nella posizione di parte negoziale del contratto di utenza, ciò
che del resto, fino al riconoscimento della non debenza della quota della
tariffa relativa alla depurazione acque (per effetto dell'intervento
caducatorio del Giudice delle leggi), aveva legittimato la predetta azienda
municipalizzata a pretendere la riscossione dell'intero corrispettivo del
servizio idrico.
8.2. Quanto al secondo motivo di ricorso principale, anch'esso è
fondato, nei termini di seguito precisati.
8.2.1. La decisione del Tribunale di Napoli di riformare quella del primo
giudice, sul rilievo che era onere degli utenti provare che l'impianto di
depurazione di Cuma era "inattivo", risulta effettivamente assunta,
come lamentano i ricorrenti, in violazione dell'art. 2697 cod. civ.
Sul punto, in via preliminare, va osservato che la "violazione del
precetto di cui all'art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi
dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., è configurabile soltanto
nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una
parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di
scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti
costitutivi ed eccezioni" (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord.
29.05.2018, n. 13395, Rv. 649038-01).
Tale evenienza ricorre nel caso di specie.
Infatti, costituisce principio generale quello secondo cui il creditore di
una prestazione contrattuale -nella specie, l'utente del servizio idrico- "deve
provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine
di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell'inadempimento
della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto
estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento" (da
ultimo, tra le molte, Cass. Sez. 3, sent. 20.01.2015,. n. 826, Rv.
634361-01).
D'altra parte, proprio con riferimento specifico alla presente fattispecie,
si è ritenuto che, configurandosi "la tariffa del servizio idrico
integrato, in tutte le sue componenti, come il corrispettivo di una
prestazione commerciale complessa, è il soggetto esercente detto servizio,
il quale pretenda il pagamento anche degli oneri relativi al servizio di
depurazione delle acque reflue domestiche, ad essere tenuto a dimostrare
l'esistenza di un impianto di depurazione funzionante nel periodo oggetto
della fatturazione, in relazione al quale esso pretenda la riscossione"
(Cass. Sez. 3, sent. n. 14042 del 2013, cit.)
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 12.06.2020 n. 11270). |
marzo 2020 |
|
TRIBUTI: La
Sezione ribadisce il principio di diritto già enunciato nella deliberazione
n. 412/2019/PAR, le cui argomentazione si intendono in questa sede
richiamate e confermate, per cui, ai fini della possibilità di attribuire
l’incentivo di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018, la data
entro la quale deve essere approvato il bilancio di previsione è il 31
dicembre dell’anno precedente ai sensi dell’art. 151, comma 1, del d.lgs. n.
267/2000 (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere 23.03.2020 n. 40). |
novembre 2019 |
|
TRIBUTI: Incentivi
antievasione IMU-TARI solo con ok al bilancio entro il 31 dicembre. Ancora
un «sì» dalla Corte dei conti.
Si consolida l'orientamento dei magistrati contabili sugli incentivi
economici a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse al
recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) e sul fatto che possano essere
corrisposti solo se l'ente approva il bilancio di previsione entro il 31
dicembre dell'anno precedente.
Infatti, dopo la posizione iniziale assunta dalla Corte dei conti
dell'Emilia Romagna con
parere 18.09.2019 n. 52
(si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 2 ottobre), ora
anche i magistrati della Corte dei conti della Lombardia, con
parere 06.11.2019 n. 412, hanno ribadito che il
termine di approvazione del bilancio da considerare quale condizione di
applicabilità dell'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018 «…è da
intendersi il 31/12 dell'anno di riferimento di cui all'art. 163, comma 1,
del d.lgs. n. 267/2000 e non anche il termine differito di cui all'art. 163,
comma 3, del d.lgs. n. 267/2000…».
La richiesta di parere
Il comma 1091 dell'articolo 1 della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite stabilito dall'articolo
23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel». Ciò premesso, un ente
locale lombardo ha evidenziato come attorno al concetto «entro i termini
stabiliti dal Tuel» si siano sviluppate contrapposte letture interpretative.
Da una parte la magistratura contabile, con
parere 18.09.2019 n. 52 della Corte dei
conti dell'Emilia Romagna secondo cui il termine per
l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell'anno di
riferimento e non anche il termine differito. Dall'altra quella dell'Ifel
(Fondazione Anci), con la
nota di approfondimento
28.02.2019 al comma 1091 della legge
di bilancio 2019 (si veda Il Quotidiano degli enti
locali e della Pa del 4 marzo), secondo cui è soddisfatta la condizione
imposta dalla legge anche quando l'ente approvi il bilancio di previsione
entro i termini prorogati dal decreto ministeriale.
La risposta
Per la Corte dei conti della Lombardia l'interpretazione fornita dai
colleghi emiliani è quella più corretta. Nella deliberazione in esame si
precisa che, ove si optasse per una diversa interpretazione della norma,
vale a dire quella proposta dall'Ifel, si finirebbe per privare di
significato l'espressa apposizione di un termine da parte del legislatore,
considerato che la disposizione normativa sarebbe applicabile praticamente a
tutti gli enti che hanno approvato il bilancio di previsione, rimanendone
esclusi solo ed esclusivamente quelli che, non avendolo approvato neanche
nel termine prorogato, incorrerebbero nella procedura di commissariamento ed
eventualmente di scioglimento del consiglio comunale secondo l'articolo 141
del Tuel.
Inoltre, quanto asserito dall'Ifel si contraddice con l'intento del
legislatore il quale ha inteso specificare che alcune norme precedenti alla
legge di bilancio 2019 (e ordinariamente applicabili agli enti locali) non
si applicano più a decorrere dal 2019 proprio nei confronti degli enti più
virtuosi, ovvero quelli che, appunto, hanno rispettato il termine di
approvazione del bilancio di previsione del 31 dicembre e del conto
consuntivo del 30 aprile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.11.2019). |
TRIBUTI: Il
termine di approvazione del bilancio da considerare quale condizione di
applicabilità dell’art. 1, comma 1091, della Legge n. 145/2018 “…è da
intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento di cui all’art. 163, comma 1,
del d.lgs. n. 267/2000 e non anche il termine differito di cui all’art. 163,
comma 3, del d.lgs. n. 267/2000…”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cornaredo (MI) ha formulato una richiesta di
parere volta a conoscere le modalità di applicazione dell’art. 1, comma
1091, della Legge n. 145/2018, con il quale è stata riconosciuta agli enti
locali la possibilità, previa adozione di uno specifico regolamento, di
destinare il maggiore gettito (accertato e riscosso) derivante dagli
accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI, al potenziamento
delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente.
Nello specifico, il rappresentante legale, nell’evidenziare che
l’applicazione della suddetta norma è possibile, per espressa indicazione
del legislatore, solo nei confronti dei comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ha chiesto “…se
ai fini della possibilità di attribuire l’incentivo al settore entrate la
data entro la quale deve essere approvato il bilancio di previsione sia il
31/12 dell’anno precedente, ai sensi dell’art. 151, c. 1, del D.Lgs. n.
267/2000, oppure se a tale scopo possa considerarsi valido anche l’eventuale
termine successivo al 31/12 stabilito con Decreto del Ministro dell’Interno
in presenza di motivate esigenze, come previsto nell’ultima parte del
medesimo art. 151…”.
A tal proposito, l’ente istante ha rappresentato che recentemente si è
pronunciata la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna (cfr.
parere 18.09.2019 n. 52),
la quale ha considerato, ai fini dell’applicazione della suddetta norma, il
termine di approvazione del bilancio entro il 31 dicembre; a differenti
conclusioni, invece, è giunta l’IFEL (Fondazione ANCI) nella “Nota di
approfondimento del comma 1091 della Legge di bilancio 2019”, nella
quale è stata prospettata l’applicazione del comma de quo anche nel caso in
cui l’approvazione del bilancio di previsione sia avvenuta nei termini “…prorogati
dal decreto ministeriale (…) previsto al comma 1, ultimo periodo, dell’art.
151 del Tuel e, quindi, per il 2019 occorre far riferimento alla data del 31
marzo. D’altro canto, se il legislatore avesse voluto far espresso
riferimento ai termini non prorogati ordinariamente previsti dal Tuel lo
avrebbe fatto in modo esplicito, indicando il termine del 31 dicembre per il
bilancio di previsione, modalità peraltro adottata dal comma 905 della
stessa legge di bilancio 2019…”.
Conclusivamente il Sindaco del Comune di Cornaredo ha formulato la
seguente istanza di parere: “…Stante le letture contrapposte della norma
di legge e la necessità da parte del Comune di non incorrere nel rischio di
riconoscere indebiti incentivi retributivi al personale dipendente, si
chiede a codesta Sezione della Corte dei Conti di voler fornire il proprio
autorevole parere in merito alla questione sottoposta…”.
...
Così come chiaramente esplicitato nel parere reso dalla Sezione regionale
dell’Emilia Romagna (cfr.
parere 18.09.2019 n. 52),
richiamato dal medesimo ente istante, il termine di approvazione del
bilancio da considerare quale condizione di applicabilità dell’art. 1 comma
1091 della Legge n. 145/2018 “…è da intendersi il 31/12 dell’anno di
riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non anche
il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000…”.
Il Collegio non ha motivo di discostarsi dalle esaurienti e condivisibili
considerazioni formulate nel parere su indicato, le quali sono volte
precipuamente ad evidenziare come la possibilità riconosciuta dal
legislatore di differire con Decreto ministeriale (oltre il termine del 31
dicembre) l’approvazione del bilancio di previsione “…in presenza di
motivate esigenze…” -contemplata dall’art. 163 comma 3 del D.Lgs. n.
267/2000 (Tuel)-, è tutt’altro che priva di effetti sulla gestione del
bilancio, operando, nel caso di specie, il regime restrittivo previsto per
l’esercizio provvisorio di cui al medesimo art. 163, commi 4, 5, 6 e 7. Né
la previsione e l’erogazione di risorse incentivanti, quali quelle previste
dall’art. 1, comma 1092, della Legge n. 145/2018, possono ritenersi
sottratte ai suddetti limiti.
Occorre, inoltre, precisare che ove si optasse per una diversa
interpretazione della norma, vale a dire quella di considerare, ai fini
dell’applicazione della stessa, il termine di approvazione del bilancio di
previsione prorogato (il 31.03.2019), si finirebbe per privare di
significato l’espressa apposizione di un termine da parte del legislatore (“…
i comuni che hanno approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto
entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo
18.08.2000, n. 267…”), considerato che la disposizione normativa sarebbe
applicabile praticamente a tutti gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione (entro il 31.03.2019), rimanendone esclusi solo ed esclusivamente
quelli che, non avendolo approvato neanche nel termine prorogato,
incorrerebbero nella procedura di commissariamento ed eventualmente di
scioglimento del Consiglio comunale di cui all’art. 141 del Tuel; evenienza,
quest’ultima, che sarebbe, comunque, ostativa a qualsivoglia atto di
gestione o di disposizione delle risorse di bilancio da parte dell’ente.
Infine, ad avviso del Collegio, risulta essere priva di pregio,
l’affermazione contenuta nella “Nota dell’IFEL” e riportata
nell’istanza di parere secondo la quale il legislatore se “…avesse voluto
far espresso riferimento ai termini non prorogati ordinariamente previsti
dal Tuel lo avrebbe fatto in modo esplicito, indicando il termine del 31
dicembre per il bilancio di previsione, modalità peraltro adottata dal comma
905 della stessa legge di bilancio 2019…”, infatti, è appena il caso di
precisare che la norma richiamata prevede espressamente che alcune
specifiche norme recate in disposizioni di legge precedenti (contenute in
leggi finanziarie, di bilancio, di semplificazione ecc.) a decorrere
dall’esercizio 2019, “…non trovano applicazione…” nei confronti dei “…comuni
(…) che approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio
preventivo dell'esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell'anno
precedente…”.
In altri termini, il legislatore ha inteso specificare che alcune norme
precedenti alla Legge di bilancio 2019 ed ordinariamente applicabili agli
enti locali, non si applicano più “…a decorrere dal 2019…”, proprio
nei confronti degli enti più virtuosi (che hanno rispettato il termine di
approvazione del bilancio di previsione del 31 dicembre e del conto
consuntivo del 30 aprile), quindi si tratta, all’evidenza, contrariamente a
quanto asserito dall’IFEL, di fattispecie legislativa assolutamente non
sovrapponibile, neanche sotto il profilo meramente esegetico, a quella che
qui ne occupa, sia in quanto il citato comma 1091 è contenuto nella medesima
legge di bilancio, sia in quanto è indubbiamente (ed esclusivamente)
applicabile agli enti che hanno rispettato il termine legale di approvazione
del bilancio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 06.11.2019 n. 412). |
ottobre 2019 |
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TRIBUTI: L'ufficio
tributi di questo Ente pubblico si trova spesso a ricevere scritti difensivi
con richieste di annullamento o rettifica di accertamenti basati sul
principio che l'onere della prova dell'esistenza del tributo è a carico
dell'Amministrazione. E' realmente così ed in base a quali norme?
In linea di principio le obiezioni formulate dagli interessati fanno
riferimento ad un principio immanente nel nostro ordinamento, in base al
quale spetta all'Amministrazione dimostrare le ragioni a fondamento della
propria pretesa impositiva (tributaria e non). Si tratta dei principi di
legalità ricavabili da disposizioni costituzionali (art. 23, 53, 97) e
meglio esplicitati in varie disposizioni della L. 27.07.2000, n. 212 "Disposizioni
in materia di statuto dei diritti del contribuente" quali ad esempio:
- Art. 11, comma 1, "Il contribuente può interpellare
l'amministrazione per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete
e personali relativamente a: a) l'applicazione delle disposizioni
tributarie, quando vi sono condizioni di obiettiva incertezza sulla corretta
interpretazione di tali disposizioni e la corretta qualificazione di
fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie applicabili alle
medesime, ove ricorrano condizioni di obiettiva incertezza".
- Art. 6, comma 2, "L'amministrazione deve informare il
contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa
derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l'irrogazione di una
sanzione, richiedendogli di integrare o correggere gli atti prodotti che
impediscono il riconoscimento, seppure parziale, di un credito".
- Art. 6, comma 4, "Al contribuente non possono, in ogni caso,
essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso
dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche
indicate dal contribuente. Tali documenti ed informazioni sono acquisiti ai
sensi dell'articolo 18, commi 2 e 3, della legge 07.08.1990, n. 241,
relativi ai casi di accertamento d'ufficio di fatti, stati e qualità del
soggetto interessato dalla azione amministrativa".
Questi principi e queste disposizioni però non determinano un onere di
ricerca degli elementi della fattispecie tributaria talmente onerosi da
formare una "prova" dell'esistenza del presupposto, potendo
l'amministrazione finanziaria in molti contesti (ma la valutazione va fatta
con riferimento alla singola disposizione) operare mediante elementi
indiziari gravi, precisi e concordati.
Recentemente ad esempio, in relazione all'applicazione dell'art. 63, comma
3, primo periodo, D.Lgs. n. 446 del 1997 che recita "Il canone è
determinato sulla base della tariffa di cui al comma 2, con riferimento alla
durata dell'occupazione e può essere maggiorato di eventuali effettivi e
comprovati oneri di manutenzione in concreto derivanti dall'occupazione del
suolo e del sottosuolo, che non siano, a qualsiasi titolo, già posti a
carico delle aziende che eseguono i lavori" il Consiglio di Stato ha
ritenuto che "L'onere della prova ricadente sull'amministrazione [...]
ben può essere assolto con il ricorso a criteri presuntivi, ferma ovviamente
la possibilità, per la parte controinteressata, di dimostrare l'erroneità o
l'implausibilità di quanto sostenuto dalla parte pubblica".
Alla luce del quadro esposto, ferma restando la necessità di verificare la
singola disposizione impositiva, l'amministrazione potrà assolvere al
proprio onere probatorio anche mediante indizi ed in tal senso rimettere al
contribuente la dimostrazione di eventuali esclusioni, esimenti o altri
elementi che, nel caso concreto, dimostrino l'infondatezza della pretesa
tributaria.
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Riferimenti normativi e contrattuali
Art. 23 Cost. - Art. 53 Cost. - Art. 97 Cost. -
L. 07.08.1990, n. 241, art. 1 -
L. 27.07.2000, n. 212 -
L. 01.08.2002, n. 166, art. 10
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 11.10.2018, n. 5862
(23.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
TRIBUTI - URBANISTICA: Omessa
comunicazione: sanzioni dovute.
In caso di omessa comunicazione dell’amministrazione comunale delle
variazioni apportate allo strumento urbanistico, e del cambio di
destinazione di un terreno, il contribuente è tenuto a pagare non solo il
tributo sull’area edificabile, ma anche sanzioni e interessi. L’omessa
comunicazione non fa venir meno le penalità.
Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V civile, con
la
sentenza 16.10.2019 n. 26169.
Per i giudici di legittimità, la mancata comunicazione prevista dalla legge
per informare il contribuente sulle modifiche apportate allo strumento
urbanistico e sui cambi di destinazione, da terreno a area edificabile, «non
esclude l’obbligo dichiarativo».
«Né la mancata comunicazione può riverberare effetti sull’applicazione di
sanzioni e interessi in caso di mancato adempimento da parte del
contribuente».
Le omesse comunicazioni non possono essere opposte come causa di
giustificazione delle violazioni commesse. In effetti, quando i comuni
attribuiscono a un terreno la natura di area fabbricabile, sono obbligati a
darne comunicazione al contribuente. Il mancato rispetto di questo
adempimento, però, non comporta alcuna conseguenza in ordine agli obblighi
che incombono sul contribuente (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2020).
---------------
SENTENZA
10. Passando all'esame della seconda censura, l'art. 31 della legge
289/2002 non condiziona la produttività di effetti ai fini tributari
dell'avvenuta destinazione edificatoria dell'area alla notifica della
comunicazione prevista dalla stessa norma.
Peraltro, l'articolo 36, comma 2, del Dl 223/2006 stabilisce che in base al
Dlgs 30.12.1992 n. 504, un'area è da considerare fabbricabile se
utilizzabile a scopo edificatorio secondo lo strumento urbanistico generale
adottato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione della Regione e
dall'adozione di strumenti attuativi.
Pertanto, la mera previsione dello strumento urbanistico generale
semplicemente adottato dal Comune fa sorgere l'obbligo di corrispondere l'Ici
(e oggi l'Imu e la TAasi) sull'area edificabile.
Circostanza non subordinata a nessuno specifico adempimento di comunicazione
o di notifica. Inoltre, la mancanza della comunicazione non esclude
l'obbligo dichiarativo, previsto dall'articolo 10 del Dlgs 504/1992 (ma
anche nell'Imu, articolo 13, comma 12-ter, DI 201/2011; v. Cass. n.
15558/2009; n. 12308/2017).
Né la mancata comunicazione può riverberare effetti sull'applicazione di
sanzioni e interessi in caso di mancato adempimento da parte del
contribuente.
Il ministero dell'Economia e delle finanze, nella circolare n. 3DF/2012, ha
ritenuto che in tale ipotesi si applichi l'articolo 10, comma 2, della legge
212/2000, che esclude l'applicazione di sanzioni e interessi nel caso in cui
il contribuente si sia conformato a indicazioni contenute in atti
dell'amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate, o
qualora il suo comportamento risulti posto in essere in seguito a fatti
direttamente conseguenti a ritardi, omissioni o errori dell'amministrazione
stessa.
Sennonché, la circolare dell'Agenzia delle Entrate interpretativa di una
norma tributaria, anche ove contenga una direttiva agli uffici
gerarchicamente subordinati, esprime esclusivamente un parere, non
vincolante per il contribuente (oltre che per gli uffici), per il giudice e
per la stessa autorità che l'ha emanata, in quanto priva di efficacia
normativa (ex plurimus: Cass. 6699/2014). |
settembre 2019 |
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PATRIMONIO - TRIBUTI:
Pubblicità
su rotatorie.
Domanda
È possibile utilizzare le rotatorie per collocare dei cartelli pubblicitari
della ditta che si occupa della manutenzione della stessa; inoltre è
possibile posizionare dei manifesti o striscioni al fine di pubblicizzare
manifestazioni, eventi di varia natura o sagre paesane?
Risposta
Spesso le amministrazioni comunali optano per la collocazione nelle aiuole
all’interno delle rotatorie stradali di supporti di vario genere che
pubblicizzano aziende, generalmente florovivaistiche, le quali, in cambio di
tale pubblicità, si fanno carico della manutenzione delle aiuole stesse.
Durante il periodo primaverile ed estivo è aperta anche la stagione delle
manifestazioni locali.
La rotatoria diventa spazio per pubblicizzare gli eventi, spesso con
striscioni o cartelli che, per forma, dimensioni e posizionamento, non
garantiscono la sicurezza stradale.
Tecnicamente la rotonda è assimilabile ad un incrocio (intersezioni a raso):
ai sensi dell’art. 23, comma 1 e dell’art. 51, commi 3 e 4, del Regolamento
di esecuzione e attuazione del Codice della strada, l’installazione di
cartelli, insegne d’esercizio e di altri mezzi pubblicitari è vietata, con
sanzioni pecuniarie elevate, oltre alla rimozione, in caso di inosservanza.
L’ente proprietario potrà quindi essere chiamato a rispondere nel caso di
eventuali sinistri: tali cartelli pubblicitari sono di per sé motivo di
distrazione e reale pericolo per la sicurezza stradale.
Si rimanda, per completezza, alla circolare del Ministero delle
infrastrutture e dei Trasporti del 18.04.2012, n. 1699.
C’è da segnalare però, in conclusione, che, tra le modifiche al Codice della
strada in discussione in queste settimane alla Camera dei Deputati, c’è una
norma che consentirebbe la possibilità di derogare a tale divieto assoluto.
Il comma 7-bis dell’art. 23 del Codice della strada, che con ogni
probabilità verrà inserito, avrà infatti il seguente tenore: “In deroga
al comma 1, ultimo periodo, al centro delle rotatorie nelle quali vi sia
un’area verde, la cui manutenzione è affidata a titolo gratuito a società
private o ad altri enti, è consentita l’installazione di un’insegna di
esercizio dell’impresa o ente affidatario, fissata al suolo. Per
l’istallazione dell’insegna di cui al presente comma si applicano in ogni
caso le disposizioni di cui al comma 4.” (20.09.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
antievasione IMU e TARI solo se il bilancio è approvato entro il 31
dicembre.
Gli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere
corrisposti solo se l'ente approva tassativamente il bilancio di previsione
entro il 31 dicembre dell'anno precedente.
È questa l'importante indicazione contenuta nel
parere 18.09.2019 n. 52 della sezione regionale di controllo della
Corte dei conti dell'Emilia Romagna.
Il quesito
Il comma 1091, articolo 1, della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, derogando al limite previsto dall'articolo
23, comma 2, del Dlgs 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ciò premesso un ente locale
ha chiesto alla Corte dei conti dell'Emilia Romagna se il termine per
l'approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31
dicembre dell'anno di riferimento (così come indicato nell'articolo 163,
comma 1, del Tuel) o può essere correttamente riferito al termine differito
(come previsto dal successivo comma 3, dell'articolo 163 del Tuel), con
specifica legge e/o decreti ministeriali.
La risposta
Per i giudici contabili la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre
dell'anno di riferimento e non anche il termine differito.
D'altronde «nell'ipotesi in cui il bilancio di previsione dell'ente non sia
approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all'articolo 163 limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale. E ciò in base alla sottesa
considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell'ente che
non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva
approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una
gestione di tipo provvisorio dell'ente e limitata a specifiche attività».
Conclusioni
La posizione assunta dalla magistratura contabile emiliana spiazza molti
enti locali che hanno seguito l'indicazione fornita dall'Ifel nella nota di
approfondimento al comma 1091 della legge di bilancio 2019 dello scorso 28
febbraio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.03.2019).
L'istituto, infatti, aveva ritenuto soddisfatta la condizione imposta dalla
legge anche con l'approvazione del bilancio di previsione entro i termini
prorogati dal decreto ministeriale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
Imu solo con bilancio entro il 31 dicembre.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti
dell'Emilia Romagna mette in seria crisi l'erogazione dell'incentivo Imu e
Tari introdotto dall'ultima legge di bilancio.
Il
parere 18.09.2019 n. 52
ha stabilito infatti che solo gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione entro il 31 dicembre possono stanziare le somme previste per
l'incentivazione del personale.
La norma della legge di bilancio
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza,
aveva reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere somme
incentivanti in favore del personale addetto al raggiungimento degli
obiettivi del settore entrate. Subordinando tuttavia questa facoltà ad
alcune condizioni. In primo luogo, si tratta di una scelta facoltativa,
rimessa alla discrezione degli enti locali interessati.
Inoltre, la destinazione di una somma non superiore al 5 per cento del
maggior gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti Imu e Tari
dell'esercizio fiscale precedente al potenziamento delle risorse comunali
degli uffici entrate e al trattamento accessorio del personale impiegato nel
raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, è subordinata
all'approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Il rispetto del termine di approvazione del bilancio
La norma aveva ingenerato dei dubbi sull'individuazione dei suddetti
termini. In particolare per il bilancio di previsione, poiché l'articolo 151
del Dlgs 267/2000 stabilisce che il bilancio di previsione deve essere
approvato entro il 31 dicembre dell'anno precedente, prevedendo tuttavia che
«i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell'Interno,
d'intesa con il ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la
conferenza Stato-città e autonomie locali, in presenza di motivate esigenze.
L'Ifel, nella nota del 28.02.2019, ritiene che la condizione richiesta dalla
norma è comunque soddisfatta laddove l'ente approvi il bilancio entro i
termini stabiliti dal decreto ministeriale di proroga.
La Corte dei conti dell'Emilia Romagna, con la deliberazione sopra
richiamata, ha invece ritenuto che il termine per l'approvazione del
bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento di cui
all'articolo 163, comma 1, del Dlgs 267/2000 e non anche il termine
differito di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ciò in quanto l'articolo
163 del Tuel limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività
tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
La Corte sostiene, infatti, che l'ente, nel caso di mancata approvazione del
bilancio nel termine, versa in una fase di criticità in quanto non è in
grado di corrispondere al fondamentale obiettivo dell'approvazione del
bilancio di previsione, dal che discende ex lege una gestione di tipo
provvisorio e limitata a specifiche attività.
La conclusione è tranchant. L'ente che non ha rispettato il termine del 31
dicembre, pur rispettando il termine fissato dal decreto di proroga, non può
stanziare per quell'anno (l'esercizio di riferimento) il fondo calcolato
sugli accertamenti Imu e Tari. Mettendo fuori gioco la maggior parte dei
Comuni italiani.
Considerazioni
Questa conclusione, a modesto parere di chi scrive, non tiene tuttavia conto
che laddove il legislatore, per consentire agli enti di beneficiare di
eventuali norme agevolative, ha voluto vincolare l'approvazione del bilancio
di previsione alla data del 31 dicembre, lo ha fatto espressamente. Si
pensi, ad esempio, al comma 905 dell'articolo 1 della medesima legge di
bilancio, che ha concesso agli enti che approvano il bilancio entro il 31
dicembre di non applicare alcuni limiti di spesa e di essere dispensati da
alcuni adempimenti, oppure all'analoga norma contenuta nell'articolo 21-bis,
comma 2, del Dl 50/2017.
L'aver fatto riferimento genericamente al termine previsto dal Tuel è indice
della volontà della norma di tenere conto di eventuali differimenti del
termine, sovente dovuti peraltro a cause non imputabili agli enti locali.
Inoltre, seppure è vero che l'ente che non approva il bilancio entro il 31
dicembre si trova a operare nei primi mesi dell'anno successivo in esercizio
provvisorio, tuttavia non si comprende come questa circostanza possa
impedire all'ente di stanziare le somme relative al fondo con l'approvazione
del bilancio di previsione (o meglio dopo l'approvazione del rendiconto
dell'esercizio precedente), incidendo i vincoli dell'esercizio provvisorio
sull'ente solo fino all'approvazione del documento contabile previsionale.
Una siffatta interpretazione appare molto penalizzante, considerando che
spesso i Comuni sono costretti ad approvare il bilancio dopo il termine
ordinario del 31 dicembre (peraltro sempre storicamente prorogato) a causa
delle mancate certezze sulle risorse disponibili, definite solitamente dallo
Stato a ridosso della fine dell'anno, con l'approvazione della legge di
bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO -
TRIBUTI: Con
riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei
dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune
all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della
legge n. 145 del 2018, il termine per l’approvazione del bilancio deve
intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000.
---------------
Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula
seguente richiesta di parere: con riferimento alla possibilità di istituire
l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi
erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del
disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se
il termine per l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con
riferimento al 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000 o può essere correttamente riferito al termine
differito, ai sensi dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con
apposita legge e/o decreti ministeriali”.
...
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno
di riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non
anche il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n.
267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1,
comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio
regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso,
relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI,
nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal
conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di
qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2,
del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al
personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate,
anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune
all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005,
n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il
beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento
tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica
qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare
risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali
alla condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti dall’art.
163, comma 1, Tuel1, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di
previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno
precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non
sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all’art. 163 citato, limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità
in cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al
fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di
previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo
provvisorio dell’ente e limitata a specifiche attività.
---------------
11. Se il bilancio di previsione non è approvato
dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione
finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della
contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione
provvisoria. Nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti
nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione
o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti
determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e
degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato.
2. Nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro
il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il
bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma
3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei
corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per
l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria. Nel corso della
gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da
provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate
dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni
patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria
l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già
assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali
esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le
spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte
e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare
che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente.
3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto
del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151,
primo comma, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa
con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. Nel corso
dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e
gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate
riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri
interventi di somma urgenza. Nel corso dell'esercizio provvisorio è
consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.
4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria l'ente trasmette al tesoriere l'elenco dei residui presunti alla
data del 1° gennaio e gli stanziamenti di competenza riguardanti l'anno a
cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria previsti
nell'ultimo bilancio di previsione approvato, aggiornati alle variazioni
deliberate nel corso dell'esercizio precedente, indicanti -per ciascuna
missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e l'importo del fondo
pluriennale vincolato.
5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare
mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi
precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3, per importi
non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del
bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già
impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo
pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) tassativamente
regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in
dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il
mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti,
impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti.
6. I pagamenti riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi
di cui al comma 5 sono individuati nel mandato attraverso l'indicatore di
cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
7. Nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le
variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle
riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie
alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni
riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi
in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento
delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della
gestione dei dodicesimi (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52). |
TRIBUTI:
Con riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo
economico a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse alla
partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi erariali e dei
contributi sociali, il termine per l’approvazione del bilancio è da
intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento di cui all’art. 163, comma 1,
del d.lgs. n. 267/2000 e non anche
il
termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000.
----------------
Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula seguente richiesta di
parere: con riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico
a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse alla
partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi erariali e dei
contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del disposto di cui
all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se il termine per
l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31/12
dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma 1, del d.lgs. n.
267/2000 o può essere correttamente riferito al termine differito, ai sensi
dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con apposita legge e/o
decreti ministeriali”.
...
2. Merito
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno
di
riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non anche
il
termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1,
comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto
legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il
bilancio di
previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico di cui
al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio regolamento,
prevedere
che il maggiore gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti
dell'imposta
municipale propria e della TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello
di
riferimento risultante dal conto consuntivo approvato, nella misura massima
del
5 per cento, sia destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al
potenziamento
delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate
e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica
dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2, del
decreto
legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico
accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è
attribuita, mediante contrattazione integrativa, al personale impiegato nel
raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, anche con riferimento
alle
attività connesse alla partecipazione del comune all'accertamento dei
tributi
erariali e dei contributi sociali non corrisposti, in applicazione
dell'articolo 1 del
decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla
legge 02.12.2005, n. 248. Il beneficio attribuito non può superare il
15 per
cento del trattamento tabellare annuo lordo individuale. La presente
disposizione
non si applica qualora il servizio di accertamento sia affidato in
concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare
risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali
alla
condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto
“entro i
termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n.
267”, e cioè nei termini previsti dall’art. 163, comma 1, Tuel[1],
e dunque solo nel caso in cui il bilancio di previsione sia approvato dal
Consiglio entro il 31 dicembre
dell'anno precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non
sia
approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore, all’art.
163 citato,
limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di attività
tassativamente indicate
e tra esse non può rientrarvi quella della destinazione di incentivi al
personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità
in
cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al fondamentale
obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di previsione, dal che
discende, ex lege, una gestione di tipo provvisorio dell’ente e
limitata a specifiche
attività (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52).
---------------
[1] 1. Se il
bilancio di previsione non è approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre
dell'anno precedente,
la gestione finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi
applicati della contabilità finanziaria
riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria. Nel corso
dell'esercizio provvisorio o della
gestione provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza
previsti nell'ultimo bilancio
approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione o l'esercizio
provvisorio, ed effettuano i pagamenti
entro i limiti determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno
precedente e degli
stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato.
2. Nel caso in cui il bilancio di
esercizio non sia approvato entro il 31 dicembre e non sia stato autorizzato
l'esercizio provvisorio, o
il bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del
comma 3, è consentita
esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei corrispondenti
stanziamenti di spesa dell'ultimo
bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria.
Nel corso della gestione
provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da provvedimenti
giurisdizionali esecutivi,
quelle tassativamente regolate dalla legge e quelle necessarie ad evitare
che siano arrecati danni
patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria
l'ente può disporre pagamenti
solo per l'assolvimento delle obbligazioni già assunte, delle obbligazioni
derivanti da provvedimenti
giurisdizionali esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati
dalla legge, per le spese di
personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte e tasse,
ed, in particolare, per le
sole operazioni necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali
certi e gravi all'ente.
3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto del
Ministro dell'interno che, ai sensi di
quanto previsto dall'art. 151, primo comma, differisce il termine di
approvazione del bilancio, d'intesa
con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomia locale, in
presenza di motivate esigenze. Nel corso dell'esercizio provvisorio non è
consentito il ricorso
all'indebitamento e gli enti possono impegnare solo spese correnti, le
eventuali spese correlate
riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri
interventi di somma urgenza.
Nel corso dell'esercizio provvisorio è consentito il ricorso
all'anticipazione di tesoreria di cui all'art.
222.
4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione provvisoria l'ente
trasmette al tesoriere
l'elenco dei residui presunti alla data del 1° gennaio e gli stanziamenti di
competenza riguardanti
l'anno a cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria
previsti nell'ultimo bilancio di
previsione approvato, aggiornati alle variazioni deliberate nel corso
dell'esercizio precedente, indicanti
-per ciascuna missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e
l'importo del fondo pluriennale
vincolato.
5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare
mensilmente, unitamente
alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti, per ciascun
programma, le spese di cui
al comma 3, per importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti
del secondo esercizio del
bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già
impegnate negli esercizi
precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato, con
l'esclusione delle spese: a)
tassativamente regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento
frazionato in dodicesimi; c) a
carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello
qualitativo e quantitativo
dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi
contratti.
6. I pagamenti
riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi di cui al comma 5 sono
individuati nel mandato
attraverso l'indicatore di cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
7. Nel corso dell'esercizio provvisorio,
sono consentite le variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma
3-quinquies, quelle riguardanti
le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie alla
reimputazione agli esercizi in cui
sono esigibili, di obbligazioni riguardanti entrate vincolate già assunte, e
delle spese correlate, nei
casi in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale
aggiornamento delle spese già
impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della gestione dei
dodicesimi. |
luglio 2019 |
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TRIBUTI: I
Comuni di questa Unione lamentano che molti titolari di
esercizi non sono in regola con i pagamenti di tasse e
tributi locali e vorrebbero condizionare l'efficacia delle
autorizzazioni alla regolarizzazione, analogamente a quanto
effettuato per il DURC in altri settori.
E' possibile e legittima una delibera di questo genere?
Una risposta positiva è stata data a tale quesito, che
rappresenta una problematica diffusissima a livello
nazionale, con la L. 28.06.2019, n. 58 "Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 30.04.2019, n.
34, recante misure urgenti di crescita economica e per la
risoluzione di specifiche situazioni di crisi"
(cosiddetto Decreto Crescita).
La norma introdotta dispone "Gli enti locali competenti
al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei
relativi rinnovi, alla ricezione di segnalazioni certificate
di inizio attività, uniche o condizionate, concernenti
attività commerciali o produttive possono disporre, con
norma regolamentare, che il rilascio o il rinnovo e la
permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica
della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte
dei soggetti richiedenti".
L'art. 15-ter in questione, inserito durante l'esame presso
la Camera dei deputati, consente agli enti locali di
subordinare alla verifica della regolarità del pagamento dei
tributi locali da parte dei soggetti richiedenti il rilascio
di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi
rinnovi, inerenti attività commerciali o produttive.
Tale previsione, per essere applicabile, deve passare da una
approvazione mediante delibera consiliare nella forma del
regolamento comunale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34
L. 28.06.2019, n. 58, art. 1
(10.07.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
TRIBUTI:
La salvaguardia degli equilibri di bilancio e la modifica
delle tariffe ed aliquote dei tributi comunali.
Domanda
In vista dell’ormai prossima salvaguardia degli equilibri di
bilancio (art. 193 del TUEL) entro il mese di luglio, è
possibile deliberare una riduzione delle aliquote dei
tributi comunali?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento al comma 3 dell’art.
193 del TUEL. Esso prevede che ai fini della salvaguardia
degli equilibri di bilancio, fermo restando quanto stabilito
dal successivo art. 194, comma 2, in materia di
rateizzazione dei debiti fuori bilancio riconosciuti come
legittimi, per l’anno in corso e per i due successivi
possono essere utilizzate le seguenti risorse:
a) le possibili economie di spesa;
b) tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti
dall’assunzione di prestiti e di quelle con specifico
vincolo di destinazione;
c) i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali
disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento
a squilibri di parte capitale.
Solo in ultima battuta, qualora non vi si possa provvedere
con le modalità sopra elencate è possibile impiegare la
quota libera del risultato di amministrazione.
Per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga
all’art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n. 296,
l’ente può infine modificare le tariffe e le aliquote
relative ai tributi di propria competenza entro la data
ultima del 31 luglio di ogni anno, contestualmente
all’adozione del provvedimento consiliare di salvaguardia
degli equilibri di bilancio. Il suddetto comma 169 della L.
296/2006 prevede che le tariffe e le aliquote relative ai
tributi siano deliberate entro la data fissata da norme
statali per la deliberazione del bilancio di previsione.
Se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio,
purché entro il suddetto termine, esse hanno comunque
effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento. In caso di
mancata approvazione entro detto termine, si intendono
prorogate di anno in anno le tariffe e le aliquote già
vigenti. La leva fiscale è pertanto uno degli strumenti che
il Legislatore ha messo a disposizione degli enti locali per
fronteggiare situazioni di squilibrio del proprio bilancio
che dovessero emergere in sede di salvaguardia.
In merito alla possibilità di ridurre le tariffe e le
aliquote relative ai propri tributi la risposta al quesito
del lettore è negativa. In tale senso si è infatti espresso
il Mef con risoluzione n. 1/DF del 29/05/2017, nella quale
si afferma che: “(…) la variazione delle aliquote e delle
tariffe contemplata da tale ultima disposizione –in quanto
costituisce una delle misure preordinate al ripristino del
pareggio di bilancio, da esperire laddove “i dati della
gestione finanziaria facciano prevedere un disavanzo”– deve
necessariamente consistere in un aumento delle aliquote o
tariffe medesime, non potendosi invocare l’esigenza di
salvaguardare gli equilibri di bilancio al fine di procedere
ad una modifica in diminuzione oltre il termine del bilancio
di previsione. (…)”.
Lo stesso orientamento era già stato formulato dalla Corte
dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Calabria,
nella deliberazione n. 5 del 30.01.2014, nella quale si
precisava come, in virtù dell’art. 193, comma 3, del TUEL, “(…)
nel solo caso in cui risulti necessario per il ripristino
degli equilibri di bilancio, l’ente locale può modificare
(evidentemente in aumento) le tariffe e le aliquote relative
ai tributi di propria competenza” entro il termine
previsto dalla norma stessa.
Quindi, concludendo: un eventuale manovra sulle tariffe e
aliquote tributarie può essere, in sede di salvaguardia,
solo in aumento. Fino allo scorso anno ciò poteva essere
fatto solo per i tributi esclusi dal blocco disposto
dall’art. 1, comma 26 della L. 208/2015 (ovvero: TARI e
contributo di sbarco).
In tal senso si era espressa la Corte dei Conti, Sezione
regionale di controllo per la Lombardia, con parere n. 133
del 27.04.2016. Da quest’anno l’aumento può invece avvenire
su tutti i tributi locali, essendo venuto meno il suddetto
blocco a partire dal 01/01/2019 (01.07.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
aprile 2019 |
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APPALTI - TRIBUTI: Compensazione
fra debiti per prestazioni rese a favore del comune e crediti tributari.
Domanda
Il mio ufficio ragioneria deve pagare la fattura di una ditta fornitrice per
una prestazione resa a favore del comune. La ditta, tuttavia, è destinataria
di un avviso di accertamento IMU già notificato dall’ufficio tributi e
divenuto definitivo, ad oggi ancora impagato.
E’ possibile procedere alla loro compensazione?
Risposta
Il quesito del lettore propone un caso non certo infrequente per gli enti
locali, in cui il comune si trova ad essere contemporaneamente debitore e
creditore verso il medesimo soggetto. Come noto gli uffici ragioneria, prima
di procedere all’emissione dei mandati di pagamento di importo superiore a
cinquemila euro già devono procedere alle verifiche previste dall’art.
48-bis del dPR 602/1973.
Quest’ultimo infatti stabilisce che le amministrazioni pubbliche di cui all’
articolo 1, comma 2, del dlgs. 30.03.2001, n. 165, e le società a prevalente
partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il
pagamento di un importo superiore a cinquemila euro, verifichino, anche in
via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento
derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare
complessivo pari almeno a tale importo. In caso affermativo, non procedono
al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione
competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di
riscossione delle somme iscritte a ruolo.
Nell’ipotesi prospettata dal lettore, dove il comune stesso è soggetto
creditore, si ritiene che debba trovare applicazione, per analogia, l’art.
23 del dlgs. 472/1997. Questo, al comma 1, prevede infatti che “Nei casi
in cui l’autore della violazione o i soggetti obbligati in solido, vantano
un credito nei confronti dell’amministrazione finanziaria, il pagamento può
essere sospeso se è stato notificato atto di contestazione o di irrogazione
della sanzione o provvedimento con il quale vengono accertati maggiori
tributi, ancorché non definitivi. La sospensione opera nei limiti di tutti
gli importi dovuti in base all’atto o alla decisione della commissione
tributaria ovvero dalla decisione di altro organo”. Il successivo comma
2 stabilisce che “In presenza di provvedimento definitivo, l’ufficio
competente per il rimborso pronuncia la compensazione del debito.”.
Si ritiene che detta procedura (ovvero la compensazione fra il debito del
comune con la ditta per la prestazione resa, ed il credito tributario
vantato dal comune stesso verso quest’ultima) non sia una semplice facoltà,
bensì un vero e proprio obbligo. La tesi è altresì confermata anche
dall’art. 8, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, di cui
alla L. 212/2000, laddove si stabilisce che “L’obbligazione
tributaria può essere estinta anche per compensazione”.
Si ritiene infine opportuno che tale previsione trovi adeguata conferma
anche all’interno del regolamento comunale delle entrate tributarie
dell’ente stesso, con la previsione di un articolo ad hoc.
Dal punto di vista contabile, infine, la compensazione dovrà essere
rispettosa del principio di bilancio dell’integrità, come previsto dall’art.
162, comma 4, del TUEL. Sarà necessario pertanto che l’ufficio ragioneria
emetta l’ordinativo di pagamento a valere sul relativo capitolo di spesa e
l’ordinativo di incasso sul corrispondente capitolo di entrata. L’operazione
non darà luogo ad alcun movimento monetario in caso di compensazione
integrale.
Viceversa, in caso di compensazione parziale, ovvero nell’ipotesi in cui
l’importo del debito dell’ente sia superiore all’importo del credito
tributario vantato, il movimento monetario in uscita riguarderà la sola
differenza a debito dell’ente (29.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
TRIBUTI: Impianti
elettrici accatastabili. E tassabili. Comuni a
caccia di nuove basi imponibili.
La crisi economica oramai decennale,
insieme ai sempre minori trasferimenti da parte dello Stato, spinge gli enti
locali, al fine di non aggravare il carico impositivo con maggiori aliquote
nei confronti dei soggetti già stabilmente accertati quali contribuenti, a
verificare la correttezza nei confronti di questi ultimi delle loro basi
imponibili ma, soprattutto, a ricercarne di nuove.
Un esempio, al riguardo, è rappresentato dai soggetti proprietari di
impianti, costituiti da cabine e reti per la distribuzione dell'energia
elettrica i quali avrebbero dovuto includere nella stima di detti impianti
gli elementi caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio,
tale da realizzare un unico bene complesso, prescindendo dalla transitorietà
di detta connessione (per esempio le ciminiere, le pompe, i ventilatori, le
caldaie, le turbine).
Tali soggetti, approfittando di un contrasto giurisprudenziale (poi risolto
dal dl 44/2005) e di prassi (risolto dalla circolare dell'Agenzia del
Territorio n° 6/T del 30/11/2012), hanno spesso ritenuto di non essere
tenuti a presentare alcuna dichiarazione di aggiornamento catastale al fine
di includere nel classamento già accettato dall'Agenzia del Territorio gli
elementi, sui quali non vi era la citata uniformità di prassi e di
giudicato.
Già da alcuni anni, però, diversi enti locali hanno cercato di tradurre in
base imponibile la rilevanza dell'insistenza su un'area di detti impianti
(caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio accatastato)
applicando un concetto già presente nel Regio decreto 652 del 1939, secondo
il quale si considera unità immobiliare urbana ogni parte dell'immobile che
di per sé stessa è utile a produrre un reddito proprio (autonomia funzionale
e reddituale).
Questo ha portato alla formulazione di ricorsi contro le pretese impositive
degli enti locali: dopo giudizi ondivaghi da parte dei magistrati tributari,
un punto fermo sembra sia stato conseguito attraverso la
sentenza 11.04.2019 n. 10125 della Corte di
Cassazione, Sez. V civile, la quale ha stabilito che «il mancato
accatastamento determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto
irragionevole) esenzione dall'Ici, in contraddizione con il principio
costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva
capacità contributiva».
Pertanto bene ha fatto il comune, una volta constatata la rilevanza
catastale degli impianti, a procedere con l'emissione degli avvisi di
accertamento. E' comunque da sottolineare il fatto che i giudici hanno
riconosciuto l'incertezza normativa: ciò ha comportato la non applicazione
delle sanzioni.
Prima che si formasse tale orientamento da parte della Cassazione, tuttavia,
è intervenuto il legislatore a ridurre l'impatto economico sugli operatori
con la legge 208/2015 (cosiddetta «svuotaimpianti»), la quale prevede
che la rendita degli opifici non debba comprendere gli impianti stabilmente
infissi al suolo (cosiddetti «imbullonati»): in tal modo tale rendita
viene significativamente ridotta.
Analogo contrasto in giurisprudenza e nella prassi, si ritrova a proposito
della classificazione catastale di cave, miniere, saline, laghi, stagni da
pesca e tonnare, che l'articolo 18 del Regio decreto 08.10.1931 n. 1572
esclude dalla stima fondiaria e che l'Agenzia del territorio, con nota prot.
75779 del 04.11.2008, ritiene debbano essere iscritte al catasto fabbricati
in base a quanto disposto dall'articolo 2 del decreto ministeriale 28/1998:
in esso si precisa che l'unità immobiliare è costituita da una porzione di
fabbricato, o da un fabbricato, o da un insieme di fabbricati ovvero da “un'area”,
che, nello stato in cui si trova e secondo l'uso locale, presenta
potenzialità di autonomia funzionale e reddituale.
Appare pertanto utile che gli enti locali tentino di recuperare attraverso
gli accertamenti tributari il gettito sinora non accertato su tutte queste
fattispecie (articolo ItaliaOggi del 29.06.2019).
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MASSIMA
4. Il motivo è privo di pregio.
Occorre premettere che, come emerge dagli scritti difensivi
e dalla stessa sentenza impugnata, la società Enel presentò la
dichiarazione Docfa con riferimento ai soli edifici che contengono
la centrale di produzione idroelettrica e, sulla base della rendita
allora proposta, la società ricorrente versò l'imposta comunale per
l'anno 2005, omettendo di versare l'imposta comunale per gli
impianti e gli immobili serventi la centrale, non denunciati con la
menzionata procedura.
In assenza di rendita attribuita sia pure provvisoriamente a
detti impianti (sbarramento del Ba., area serbatoio
Ba., canale di raccolta e area esterna), il criterio utilizzabile
per determinare la base imponibile dell'Ici con riferimento a detti beni era
quello fondato sul valore di bilancio alla stregua del
disposto dell'art. 5 cit., secondo il quale la base imponibile Ici di
immobili ad uso industriale, appartenenti al gruppo D, deve
essere determinata attraverso il criterio del valore contabile ossia
sull'ammontare al lordo delle quote di ammortamento che risulta
dalle scritture contabili.
Sennonché, in mancanza della dedotta produzione da parte
dell'Enel della documentazione contabile richiesta
dall'amministrazione comunale, quest'ultima ha provveduto alla
determinazione della rendita sulla base di una stima redatta da
un professionista incaricato da Bim che ha determinato il valore
adottando il criterio comparativo con immobili similari agli
impianti non dichiarati, come consentito dal quarto comma
dell'art. 5 cit., che è stato abrogato solo con la legge finanziaria
n. 296/2006.
L'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504,
stabilisce che, per i fabbricati non iscritti in catasto (diversi da
quelli di cui al precedente comma 3), il valore va determinato
"con riferimento alla rendita dei fabbricati similari già iscritti".
Per la determinazione del valore degli immobili classificati in
cat. D non iscritti e privi di rendita la mancanza della "distinta
contabilizzazione in bilancio" non permette, difatti, il calcolo del
valore secondo la previsione di cui all'art. 5, terzo comma, del
d.lgs. n. 504 del 1992, ma consente solo l'applicazione della
regola residuale ivi contenuta nell'art. 5, quarto comma, secondo
la quale il valore ai fini I.C.I. deve essere stabilito con riferimento
a fabbricati "similari" già iscritti in catasto (Cass. n. 6609/2013;
Cass. n. 16916 del 2009).
Ed invero -quando trattasi di immobili classificati in cat. D non
iscritti privi di rendita- deve esser riaffermato il principio per cui
deve ritenersi che il legislatore abbia inteso prevedere due criteri tra di
loro subordinati. E cioè dapprima
viene il cosiddetto criterio contabile ex art. 5, comma 3, d.lgs. n.
504 del 1992 e secondariamente il più generale criterio di cui
all'art. 5, comma 4, stesso d.lgs. del calcolo della rendita a mezzo
del confronto con immobili "similari" già censiti.
5. Quanto alla dedotta insussistenza del potere impositivo
dell'ente comunale, in virtù dei commi 335 e 336 della l. n. 311
del 2004 e della l. n. 662 del 1996, art. 3, comma 58, alla
stregua dei quali il comune richiede agli interessati la
presentazione di atti di aggiornamento e se i soggetti interessati
non ottemperano alla richiesta, gli uffici dell'Agenzia del territorio
provvedono alla iscrizione in catasto dell'immobile non
accatastato, si osserva quanto segue.
Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. nn.
5784, 10489 e 21532 del 2013; n. 11477/2018) dalla quale non
vi sono ragioni per discostarsi, il classamento può avvenire
alternativamente o in forza della I. n. 662 del 1996, art. 3, comma
58, oppure ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, commi 335 e
336.
L'opposta interpretazione fa leva sulle disposizioni normative
introdotte dall'art. 1, commi 337 e 336, della legge
30.12.2014 nr. 311 (finanziaria 2005) che avrebbero
«definitivamente sancito la configurazione del sistema dei
rapporti tra contribuente ed amministrazioni preposte alla
determinazione delle rendite catastali nel senso che la deroga alla
efficacia ex nunc degli atti di attribuzione e modificazioni delle
rendite decorrente solo dalla loro notificazione, a cura dell'ufficio
del territorio competente, ai soggetti intestatari della partita, ai
sensi dell'art 74 - è prevista ai fine di sanzionare la renitenza
all'obbligo di presentazione della denuncia catastale».
In realtà le norme citate consentono ai Comuni di avvalersi motu
proprio di uno strumento procedurale per promuovere
l'adeguamento catastale alla reale situazione del patrimonio
immobiliare al fine di garantire maggiore equità fiscale e
contrastare fenomeni di evasione fiscale.
Ne consegue che, come insegna questa Corte (cfr. Cass.
4336/2015), la disciplina di cui all'art. 1, commi 336 e 337, l. 311
del 2004 si applica nel caso in cui sia il Comune a richiedere ai
titolari dei diritti reali la presentazione di atti di
aggiornamento per immobili non dichiarati in catasto.
Nella fattispecie in esame non si verte nella suesposta ipotesi in
quanto l'attribuzione catastale agli immobili di proprietà della
società Enel non è avvenuta su richiesta del Comune secondo la
procedura disciplinata dall'art. 1, comma 336, legge citata.
Nel caso di specie, come in quello considerato nella sentenza n.
19196 del 2006, il Comune «non si è affatto sostituito all'Ufficio
competente nel potere a questi spettante di attribuzione della
nuova rendita all'immobile», ma, constatata la rilevanza catastale
degli impianti, si è mantenuto nell'esercizio dei suoi poteri di
liquidazione e di accertamento dell'imposta, limitandosi a non
riconoscere l'esenzione dei beni in questione (cfr. anche Cass. n.
1706/2016).
La disposizione che impone al comune l'obbligo di richiedere
all'ufficio competente l'attribuzione della rendita nell'ipotesi di
negligenza del contribuente, non esclude il potere del Comune di
provvedere alla determinazione della rendita provvisoria ex art. 5
cit.
L'omessa dichiarazione di taluni beni e il mancato accatastamento
determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto
irragionevole) esenzione dall'ICI, in contraddizione con il principio
costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva
capacità contributiva.
Alla luce del doveroso rispetto di
siffatto principio, l'omessa dichiarazione non può (e non poteva
nemmeno prima del 2006) costituire un impedimento al
riconoscimento della sua imponibilità, in particolare ove tale
mancato accatastamento sia stato determinato da un'omissione
del contribuente, che non abbia provveduto a denunciare al
Catasto i cespiti (Cass. n. 19196 del 2006).
Nelle ipotesi di debenza dell'ICI a seguito di omessa
presentazione della dichiarazione relativamente a immobili non
iscritti in catasto, il Comune può procedere ad accertamento
senza dover preventivamente chiedere l'atto di classamento
all'Agenzia del Territorio (Cass. n. 15534 del 2010): né risulta, o
viene dedotto, che vi sia stata una richiesta da parte della società
contribuente di un accatastamento diverso da quello (o di una
variazione di quello) sulla cui base agisce il Comune ai fini della
determinazione della base imponibile. Sotto questo profilo non
sussiste un difetto di legittimazione passiva del Comune.
Per tali ragioni anche detto motivo è infondato.
Per quanto attiene alla censura specifica relativa all'assenza di
redditualità degli impianti, vale osservare che con l'articolo 1-quinquies del DL n. 44/2005 è stato disposto che "ai sensi e per
gli effetti dell'art. 1, comma 2, della Legge n. 212/2000, l'art. 4
del regio decreto n. 652/1939, convertito con modificazioni dalla
Legge 1249/1939, limitatamente alle centrali elettriche, si
interpreta nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono
costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse,
anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi
mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico
bene complesso. Pertanto, concorrono alla determinazione della
rendita catastale, ai sensi dell'art. 10 del citato regio decreto
legge, gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili
costruiti per le speciali esigenze dell'attività industriale di cui al
periodo precedente anche se fisicamente non incorporati al
suolo".
Tanto precisato, i giudici di legittimità hanno affermato che, in
virtù di quanto disposto dal sopra menzionato articolo 1-quinquies
(norma di natura strettamente interpretativa), le centrali
elettriche non possono escludere gli impianti mobili dal computo
della rendita catastale ai fini dell'Ici, in quanto esse costituiscono
una parte essenziale dell'impianto fisso, senza le quali verrebbe
meno la classificabilità dell'unità immobiliare come centrale
elettrica.
In buona sostanza, questa Corte ha ritenuto che i serbatoi, le
ciminiere, le pompe, i ventilatori, le caldaie, i canali sono elementi
essenziali costitutivi del bene "centrale elettrica", ovvero impianti
necessari al ciclo di produzione dell'energia elettrica, in quanto è
"impossibile separare l'uno dall'altro senza la sostanziale
alterazione del bene complesso... che non sarebbe più nel caso di
specie, una centrale elettrica" (Cass. n. 24060/2006; n.
4030/2012), poiché anch'essi costituiscono una componente
strutturale ed essenziale della centrale stessa, sicché questa
senza quelle non potrebbe più essere qualificata tale, restando
diminuita nella sua funzione complessiva ed unitaria ed
incompleta nella sua struttura (v. Cass. n. 3354 del 2015).
Precisando, altresì, che "In tema di classamento di immobili e
con riferimento all'attribuzione della rendita catastale alle centrali idroelettriche, il D.L. 31.03.2005, n. 44, art.
1-quinquies
convertito in L. 31.05.2005, n. 88, includendo nella stima gli
elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili caratterizzati
da una connessione strutturale con l'edificio, tale da realizzare un
unico bene complesso, e prescindendo dalla transitorietà di detta
connessione nonché dai mezzi di unione a tal fine utilizzati, impone di
tener conto, nel calcolo della rendita, anche del valore
delle turbine, le quali si configurano come elementi essenziali
della centrale, incorporati alla stessa e non separabili senza una
sostanziale alterazione del bene complesso".
Tale disposizione, in quanto volta a dirimere un contrasto
ermeneutico insorto relativamente alla situazione specifica delle centrali elettriche, non appare irragionevole né introduce
un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri beni
classificabili nel gruppo catastale D, tenuto conto della
disomogeneità degl'immobili inclusi in tale categoria, né infine
contrasta con il principio della capacità contributiva, la cui
violazione non è prospettabile in riferimento alla determinazione
della rendita catastale, che non costituisce un'imposta né un
presupposto d'imposta (Cass. n. 13319 del 2006).
Questa
impostazione ermeneutica è stata sostanzialmente seguita anche
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2008,
allorché è stata investita della questione dì legittimità
costituzionale del ricordato del D.L. 31.03.2005, n. 44, art.
1-quinquies.
In proposito, il giudice delle leggi ha affermato che "il
legislatore ha inteso risolvere il contrasto interpretativo con
riferimento alle centrali elettriche (che si era determinato nella
giurisprudenza della Corte di Cassazione), senza innovare il
concetto di immobile per incorporazione, quale emergente dalla
normativa esistente ed evidenziato dalla giurisprudenza in
precedenza richiamata. L'unico effetto (del D.L. 31.03.2005,
n. 44, art. 1-quinquies) è quello di considerare immobili le centrali
elettriche, senza alcuna possibilità per il giudice di fornire una
diversa interpretazione, ma non anche quello di escludere dal
novero degli immobili per incorporazione le altre costruzioni pure
se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che
naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo.
Tutte le infrastrutture diverse dai fabbricati delle centrali, come
gallerie, pozzi, laghi, dighe, turbine, condotte etc., che non
costituivano pertinenze delle stesse, sono beni da sottoporre ad
imposizione".
6. Con la seconda censura, si lamenta violazione degli artt. 1 e 25
del R.D. 1775/1933 e dell'art. 18 del R.D. 08.10.1931, ex art. 360
n. 3 c.p.c., per avere i giudici territoriali escluso la rilevanza, ai
fini impositivi, della gestione in concessione delle opere
idrauliche, in quanto le norme citate escludono dalla stima
fondiaria i laghi con superficie stabilmente occupata per la relativa
industria, ragion per cui le opere idrauliche in questione non sono
suscettibili di attribuzione di rendita catastale.
Deduce la
ricorrente che le sorgenti, fluenti e lacuali, anche se
artificialmente estratte dal suolo acquistano attitudine ad usi di
pubblico interesse e quindi inglobati nelle acque pubbliche, il che
consente il ritorno allo stato, al temine della concessione, delle
opere di raccolta e di derivazione delle acque, degli adduttori delle
acque.
7. Anche detta censura è priva di pregio.
Nel caso di specie, le aree cd. "scoperte", lo sbarramento e il
canale, risultano indispensabili al concessionario del bene
demaniale per svolgere la propria attività imprenditoriale; ciò che
conta ai fini ICI è che ogni area sia suscettibile di costituire
un'autonoma unità immobiliare, potenzialmente produttiva di
reddito.
In particolare, la censura riguarda l'insussistenza dei presupposti per l'imposizione tributaria ai fini ICI ex artt. 1 e 3
della legge 504 del 1992 perché i beni per i quali è stata rilevata
l'omessa presentazione della dichiarazione ICI, in particolare gli
impianti (sbarramento e area serbatoio Baghetto, canale
raccolta e area esterna), attraverso i quali l'ente sfrutta in concessione
le risorse idriche, appartengono al demanio dello
Stato e non alla società concessionaria che non sarebbe quindi
soggetto passivo di imposta.
9. Sennonché, con la l. 1643/1962 le acque pubbliche sono
state affidate ex lege in concessione all'Enel e secondo l'art. 18
legge 23/12/2000 nr. 388 in caso di concessioni su aree demaniali
il concessionario di un bene è soggetto passivo ai fini del
pagamento dell'imposta comunale sugli immobili, come
espressamente prevede la norma. Pertanto appare corretto e
dovuto il recupero dell'imposta ICI da parte del Comune
sussistendone i presupposti impositivi.
Del resto, la CTR ha accertato, con valutazione di fatto, non
censurabile in sede di legittimità, che la concessione per derivare
acqua non ha alcuna attinenza con le opere in questione. |
marzo 2019 |
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TRIBUTI: Incentivi
per il recupero delle entrate comunali. Interessate
anche poste non tributarie, precisa Ifel. Le premialità introdotte
dall’ultima manovra possono remunerare anche obiettivi afferenti a poste non
tributarie. Per la relativa quantificazione, occorre adottare un criterio di
cassa, senza necessità di confronti intertemporali.
Incentivi a tutto campo per il recupero delle entrate
comunali: le premialità introdotte dall'ultima manovra possono remunerare
anche obiettivi afferenti a poste non tributarie. Per la relativa
quantificazione, occorre adottare un criterio di cassa, senza necessità di
confronti intertemporali.
Sono alcune delle precisazioni contenute nella nota predisposta dall'Ifel
per illustrare la disciplina dettata dal comma 1091 della legge 145/2018.
In base a tale disposizione, i comuni che approvano il bilancio e il
rendiconto entro i termini previsti dal Tuel possono, con proprio
regolamento, stabilire che il maggior gettito accertato e riscosso
relativamente all'Imu e alla Tari nell'esercizio fiscale precedente sia
destinato, nella misura massima del 5%, al potenziamento delle risorse
strumentali degli uffici competenti, nonché al trattamento accessorio del
personale ad essi preposto, anche in deroga al tetto imposto dall'art. 23
del dlgs 75/2017.
Secondo Ifel, potranno essere premiate tutte le risorse umane impegnate a
stanare gli evasori, non solo, quindi, quelle direttamente adibite
all'ufficio tributi, ma anche il personale degli altri uffici che in vario
modo concorrono al raggiungimento degli obiettivi del «settore entrate».
Il documento (corredato da uno schema di regolamento e di delibera di
approvazione) si sofferma diffusamente anche sui meccanismi di alimentazione
del fondo incentivante, precisando che la nozione di «maggior gettito»
non può che riferirsi al gettito aggiuntivo rispetto a quello che risulta
ordinariamente acquisito sui due tributi menzionati, nelle forme proprie di
ciascuno: l'autoliquidazione a scadenze predeterminate dalla legge, nel caso
dell'Imu, la richiesta comunale o del diverso soggetto preposto,
generalmente mediante avviso bonario, nel caso della Tari.
Pertanto, non c'è alcun confronto intertemporale da effettuare, bensì
dovranno essere considerate tutte le riscossioni diverse da quelle
ordinarie, generate da attività di verifica e controllo poste in essere dal
comune. A monte, però, deve esserci atto di accertamento emesso dall'ente,
anche se poi l'incasso è stato operato da terzi. Inoltre, quello che rileva
è quanto riscosso in un determinato anno, indipendentemente dal periodo di
emissione dell'atto.
Infine, Ifel conferma che la condizione di applicabilità legata alla
tempistica di approvazione dei documenti contabili è da intendersi
realizzata purché l'ente rispetti i termini di legge, anche se eventualmente
prorogati. Il meccanismo è attivabile fin dal corrente anno avendo riguardo
alle riscossioni realizzate nel 2018; l'erogazione dell'incentivo avverrà
nel 2020, nella misura in cui saranno stati realizzati gli obiettivi di
recupero
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2019). |
febbraio 2019 |
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TRIBUTI:
Il nuovo strumento di sostegno alle attività di
gestione delle entrate comunali. Nota di approfondimento sul comma 1091
della Legge di bilancio per il 2019 (IFEL, 28.02.2019).
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Sommario: 1. Premessa - 2. L’articolazione e la ratio della norma -
3. Alimentazione ed utilizzo del Fondo - 4. Le condizioni di applicabilità. |
gennaio 2019 |
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TRIBUTI:
TOSAP, tocca alle Sezioni unite sciogliere il rebus sul soggetto
passivo.
Riguardo il contrasto sorto su estensione e attribuzione della soggettività
passiva della tassa sull'occupazione di suolo pubblico (Tosap), cioè
sull'interpretazione dell'articolo 39 del Dlgs 507/1993, con l'ordinanza
interlocutoria 24.01.2019 n. 2008 la Sez. V civile della Corte di
Cassazione ha rimesso gli atti al primo presidente della stessa.
La vicenda
La commissione tributaria di prima istanza riteneva corretto l'operato della
società di riscossione che per conto del Comune azionava la pretesa
impositiva nei confronti del concessionario per la gestione delle reti
idriche, applicando l'articolo 39 del Dlgs 507/1993, in forza del contratto
di affitto di ramo di azienda della gestione della rete idrica che aveva col
proprietario della rete.
Viceversa, il contribuente opponeva alla propria legittimazione passiva
tributaria il non essere né il proprietario della rete idrica né il titolare
della concessione di occupazione del suolo pubblico, qualità sussistenti in
capo alla società proprietaria della rete.
A parere della Cassazione, i
giudici tributari hanno indebitamente attribuito qualità soggettiva
individuabile in capo alla titolare della concessione di gestione della rete
idrica comunale, a seguito di contratto di affitto di ramo di azienda,
quando esso, tuttavia, non è idoneo a trasferire anche la diversa
concessione o autorizzazione già rilasciata alla proprietaria della rete
idrica per l'occupazione del suolo pubblico.
La concessione Tosap è contenuta in un atto amministrativo, emesso da un
ente locale a favore di un soggetto ben determinato, il proprietario della
rete, il cui trasferimento in capo a un soggetto diverso non presuppone
l'espletamento di un'attività negoziale, ma funzione provvedimentale della
pubblica amministrazione, esternata previa verifica dei presupposti di
legge, individuando altro soggetto titolare della concessione o
autorizzazione occupativa.
È da censurare, pertanto, a parere del giudice di legittimità, la
conclusione raggiunta dalla commissione tributaria, che identifica proprio
nel contratto di fitto di ramo di azienda, la legittimazione passiva al
tributo, equiparabile al concessionario dell'occupazione di suolo pubblico
di cui all'articolo 39.
Ponendosi, piuttosto, il dubbio se tenuta al pagamento fosse ugualmente la
società quale concessionaria della gestione della rete idrica, in qualità di
occupante di fatto del suolo pubblico di insistenza della rete idrica.
Esistono almeno tre orientamenti, comunque, che non consentono una chiara
individuazione del soggetto passivo obbligato al pagamento del tributo.
Primo orientamento...
Deve attribuirsi valore alla sussistenza di concessione o autorizzazione,
essendo rilevante l'occupazione di fatto soltanto quando sia constatato che
l'occupazione del suolo sia avvenuta in assenza di titolo abilitativo in via
di mero fatto e quindi abusivamente.
...secondo...
La Tosap deve essere pagata da chi occupa il suolo pubblico,
indipendentemente dell'esistenza della concessione o autorizzazione.
...e terzo
Tenuto al tributo è il soggetto titolare di concessione o autorizzazione
occupativa, salvo ammettere l'eventualità di una responsabilità solidale
anche in capo all'occupante di fatto. In realtà, la solidarietà passiva non
è prevista dall'articolo 39, mentre la regola generale stabilita
dall'articolo 1294 del codice civile presuppone una fattispecie co-debitoria
originaria.
In conclusione
La risoluzione della questione interpretativa è dirimente anche per le
implicazioni di sistema e le interferenze di principio in rapporto alle
caratteristiche di necessaria tassatività e determinatezza che la norma
impositiva deve necessariamente avere e che non può consentire di colpire
soggetti non precisamente ed espressamente individuati.
Per di più, casi come quelli che vedono, da parte di una medesima
infrastruttura l'occupazione di suolo o sottosuolo pubblico della società
proprietaria della rete, solitamente anche concessionaria, affidata alla
simultanea gestione di plurime società erogatrici-occupanti di fatto (come
trasporti, telecomunicazioni, energia) non è disciplinata né con riferimento
al quantum dovuto da ogni singolo operatore, né in ordine all'imputazione
soggettiva della Tosap.
Pertanto, vista la presenza di orientamenti tra loro opposti che coinvolgono
la tassatività e determinatezza della norma impositiva, sussistono i
presupposti per un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sull'esatta
interpretazione dell'articolo 39 Dlgs 507/1993 e, segnatamente,
sull'estensione della soggettività passiva Tosap, a seconda che l'occupante
di fatto di suolo pubblico possa essere chiamato a rispondere del tributo
anche in presenza, ovvero solo in mancanza, di un soggetto titolare di
concessione o autorizzazione all'occupazione, chiarendo, poi, se tale
responsabilità operi in via esclusiva, assorbente o solidale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nell'ambito
della manovra dell'approvazione del bilancio di previsione, nella seduta del
consiglio comunale, posto che prima dell'approvazione del bilancio, nella
sequenza dell'ordine del giorno, si intende approvare una modifica ad un
regolamento tributario, questa delibera di modifica di regolamento che va ad
incidere sul bilancio stesso, può essere dichiarata immediatamente
eseguibile o le modifiche dei regolamenti non lo possono essere?
Il quesito in esame riguarda la declaratoria di "immediata eseguibilità",
relativa alle deliberazioni degli organi collegiali: Giunta e Consiglio.
Precisamente, si chiede di sapere se le deliberazioni consiliari di
modificazione di regolamenti in materia tributaria possano essere oggetto
dell'indicata declaratoria.
In via preliminare, occorre chiarire il concetto di "eseguibilità" e
ben distinguerlo da quello di "esecutività". Orbene, per "esecutività",
si intende la formale idoneità di un provvedimento a produrre effetti.
Viceversa, per "eseguibilità", si intende la concreta idoneità di un
provvedimento a produrre effetti. In altri termini, il provvedimento, seppur
non esecutivo, può essere attuato (posto in esecuzione) mediante la
dichiarazione di eseguibilità, che impone una precisa assunzione di
responsabilità. L'eseguibilità costituisce, quindi, un'anticipazione
dell'esecuzione, sulla base di una dichiarazione di assunzione di
responsabilità.
Chiarito il concetto, procediamo alla lettura dell'art. 134, comma 4, D.Lgs
18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce quanto segue: "Nel caso di
urgenza le deliberazioni del consiglio o della giunta possono essere
dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza
dei componenti".
Il tenore letterale della disposizione normativa pone in essere un generico
riferimento alle deliberazioni del consiglio o della giunta, senza operare
alcuna limitazione. Dunque, in base ad un'interpretazione meramente
letterale appare facile desumere che, non sussistendo limitazioni espresse,
anche le deliberazioni modificative di regolamenti in materia tributaria
possono essere dichiarate immediatamente eseguibili.
Ed, infatti, la giurisprudenza, che si è più volte occupata dell'istituto,
non ha mai evidenziato limitazioni di "categorie" di provvedimenti
deliberativi o di "materia" eventualmente oggetto di declaratoria.
Precisamente, la giurisprudenza ha evidenziato quanto segue:
- La funzione della dichiarazione di immediata eseguibilità è
quella di garantire l'effettività delle decisioni assunte, nelle more della
pubblicazione dell'atto deliberativo: "Si tratta di una norma che tende a
salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more
della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale (dal
giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione), che
potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per
il pubblico interesse di volta in volta perseguito, così eliminando
l'"effetto annuncio" connaturato all'ordinaria regola di cui al terzo comma
dell'art. 134 (in base alla quale la delibera diventa ordinariamente
esecutiva solo trascorsi dieci giorni dalla sua pubblicazione)" (TAR
Piemonte Torino Sez. II, 14.03.2014, n. 460);
- Conseguentemente, la dichiarazione di immediata eseguibilità
accede alla deliberazione principale, ma non si identifica con essa, ed è
proprio la necessità di una votazione separata a rivelarne l'autonomia sotto
il profilo strutturale e funzionale (in tal senso: TAR Liguria Genova Sez.
II, 09.01.2007, n. 2);
- La dichiarazione di immediata eseguibilità costituendo una scelta
discrezionale dell'Amministrazione, deve essere ben motivata: "La
clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale
dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito
dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello
stesso atto" (TAR Liguria Genova Sez. II, 09.01.2007, n. 2).
- Non occorre la previa pubblicazione della deliberazione: "L'immediata
eseguibilità di una deliberazione consiliare o giuntale non presuppone la
previa pubblicazione dell'atto. In caso contrario il comma 4 dell'art. 134
avrebbe dovuto essere diversamente formulato, non potendosi lasciare nel
vago un profilo così rilevante" (TAR Marche Ancona Sez. I, 23.07.2014,
n. 713).
Orbene, in base ai riportati indirizzi giurisprudenziali, appare ben chiaro
che la dichiarazione di immediata eseguibilità non incontra alcun limite di
"categorie" o di "materia" e può anche trovare applicazione in
relazione alle deliberazioni consiliari di modifica di regolamenti
tributari. Ad ogni modo, occorre prestare la massima attenzione al profilo
motivazionale, corredando la dichiarazione di un'adeguata giustificazione,
esplicativa delle ragioni di urgenza. Ed, infatti, l'evidente necessità di
una congrua motivazione è ribadita anche da un parere reso dal Ministero
dell'interno: "La clausola di immediata eseguibilità dipende da una
scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al
requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito
dello stesso atto" (parere 17.02.2017).
Ovviamente, la concreta ed effettiva produzione di effetti giuridici deve
essere coordinata con le vigenti disposizioni in materia di tributi locali,
tenendo conto, soprattutto, dell'art. 1, comma 169, L. 27.12.2006, n. 296,
il quale stabilisce che: "gli enti locali deliberano le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da
norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione. Dette
deliberazioni, anche se approvate successivamente all'inizio dell'esercizio
purché entro il termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio
dell'anno di riferimento. In caso di mancata approvazione entro il suddetto
termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs 18.08.2000, n. 267, art. 134
- L. 27.12.2006, n. 296, art. 1, comma 169
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Liguria Sez. II, 09.01.2007, n. 2 - TAR Piemonte Sez. II, 14.03.2014, n.
460 - TAR Marche Sez. I, 23.07.2014, n. 713
Documenti allegati
Parere 17.02.2017 del Ministero dell'Interno
(10.01.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
dicembre 2018 |
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TRIBUTI:
Esonero
TOSAP passi carrai.
Domanda
Questo ente applica la tassa per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche
(TOSAP) e vorrebbe abolire il tributo sui passi carrabili. E’ possibile?
Risposta
Prima di rispondere al quesito è opportuno premettere che tra le occupazioni
permanenti una posizione del tutto specifica è assunta dai passi carrabili,
la cui disciplina originaria (art. 44 del d.lgs. 507/1993) è stata in buona
parte riscritta con la l. 549/1995 (collegata alla finanziaria 1996).
In particolare, la determinazione della superficie da assoggettare ad
imposizione avviene con criteri in parte forfettari, assumendo l’apertura
del passo carrabile per la profondità convenzionale di un metro lineare.
L’ammontare della tassa per metro quadrato, applicabile ai passi carrabili,
è pari a quella ordinaria, stabilita per le altre occupazioni permanenti,
ridotta alla metà. Tale riduzione peraltro non dipende dalla discrezionalità
degli enti impositori, ma è dovuta in base alla legge.
I comuni hanno, invece, la facoltà di applicare il COSAP (canone per
l’occupazione di spazi ed aree pubbliche: art. 63 del d.lgs. 446/1997) in
alternativa alla TOSAP, oppure rimanere in TOSAP ma non applicare la tassa
sui passi carrabili (esonero, peraltro, estensibile ad altre fattispecie,
tra cui le autovetture adibite a trasporto pubblico o privato nelle aree
pubbliche e le condutture idriche necessarie per l’attività agricola nei
comuni classificati montani).
Invero, per quanto riguarda il quesito sull’esonero dei passi carrabili, non
si rinviene nel d.lgs. 507/1993 alcuna previsione specifica ma occorre fare
riferimento a norme contenute in altri provvedimenti legislativi e, in
particolare, nell’art. 6, comma 63, lett. a), della l. 549/1995, e nell’art.
6-quater, comma 4, della l. 410/1997 (che ha introdotto il comma 63-bis
all’art. 6 della l. 549/1995).
In particolare, l’art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995 stabilisce
che i comuni, anche in deroga agli artt. 44 e seguenti del d.lgs. 507/1993,
possono con apposite deliberazioni “stabilire la non applicazione della
tassa sui passi carrabili”.
Inoltre, l’art. 6-quater, comma, 3 della l. 410/97 (di conversione del d.l.
29/9/1997 n. 328) consente ai comuni di attribuire alla relativa delibera
effetto retroattivo.
I comuni hanno pertanto la facoltà, con propria deliberazione, alla quale
può essere attribuita efficacia retroattiva, di esonerare dalla TOSAP le
occupazioni realizzate con passi carrabili per gli anni nei quali non sia
stata applicata la tassa (art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995;
art. 6-quater, comma 3, della l. 410/1997; Ministero Finanze risoluzione
10/02/1999 n. 19/E).
Si evidenzia, infine, che il Ministero delle Finanze ha ritenuto legittimo
il comportamento dell’ente che abbia disciplinato in sede regolamentare
l’applicazione del beneficio dell’esenzione ai soli passi carrabili di uso
agricolo (Risoluzione n. 101/E del 04/07/2000), vale a dire i passi
carrabili utilizzati da veicoli agricoli o da mezzi comunque impiegati
nell’esercizio normale delle attività di cui all’art. 2135 c.c. (17.12.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
settembre 2018 |
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TRIBUTI: Notifiche
avvisi accertamento PEC.
Domanda
È possibile effettuare, da parte dell’ufficio tributi, la notifica degli
avvisi di accertamento a mezzo posta elettronica certificata (PEC)?
Risposta
Occorre premettere che nel nostro ordinamento giuridico ci sono diverse
disposizioni che consentono di effettuare la notifica a mezzo posta
elettronica certificata (PEC).
La prima, di carattere generale, è contenuta nel codice di procedura civile.
Si tratta dell’art. 149-bis del c.p.c. (disposizione introdotta nel 2010)
che consente di effettuare la notifica a mezzo PEC, ma impone l’utilizzo
dell’agente notificatore, quindi l’ufficio non può procedere direttamente
nei confronti del contribuente.
La seconda, di carattere settoriale, è contenuta nell’art. 26 del Dpr
602/1973 e riguarda la notifica a mezzo PEC o con raccomandata AR della
cartella di pagamento (la c.d. cartella esattoriale emessa da Equitalia, ora
Agenzia delle Entrate-Riscossione).
Una terza disposizione, anch’essa di carattere settoriale, riguarda la
notifica a mezzo PEC dei verbali al codice della strada ed è contenuta
nell’art. 20 del d.l. 69/2013 conv. L. 98/2013, la cui attuazione è rimessa
ad un decreto ministeriale, adottato solo recentemente (si veda il DM
Interno del 20/2/2018).
Per quanto riguarda i tributi locali, il comma 161 della legge n. 296/2006
consente di effettuare la notifica degli avvisi di accertamento “anche a
mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento”. E’ quindi
possibile notificare gli avvisi di accertamento dei tributi comunali con
semplice raccomandata a.r. (busta bianca), in alternativa alla notifica a
mezzo posta prevista per gli atti giudiziari (ex legge 20/11/1982 n. 890)
effettuata con la busta verde.
Per quanto riguarda la notifica degli avvisi di accertamento a mezzo PEC,
inizialmente la giurisprudenza si è mostrata piuttosto oscillante, in parte
contraria (cfr. CTP di Milano n. 6087/2014), in parte favorevole (cfr. CTP
Matera n. 447/2015, CTP Bergamo n. 16672016).
Poi nel 2016 è stata introdotta una disposizione che consente di effettuare
la notifica degli atti tributari a mezzo PEC, a partire dal 01.07.2017. Si
tratta dell’art. 7-quater commi da 6 a 8 del D.L. 193/2016 conv. L.
225/2016, norma tuttavia non riferita espressamente ai tributi locali
trattandosi di un’integrazione all’art. 60 del DPR 600/1973, riguardante la
notifica degli atti di accertamento delle imposte sui redditi. Risulta
quindi dubbia la possibilità di effettuare la notifica a mezzo PEC per gli
avvisi di accertamento dei tributi locali.
La questione è stata recentemente risolta dal d.lgs. n. 217 del 13/12/2017
(art. 7, comma 1-quater), in vigore dal 27.01.2018, secondo cui “I
soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, notificano direttamente presso i
domicili digitali di cui all’articolo 3-bis i propri atti, compresi i
verbali relativi alle sanzioni amministrative, gli atti impositivi di
accertamento e di riscossione e le ingiunzioni di cui all’articolo 2 del
regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, fatte salve le specifiche disposizioni
in ambito tributario. La conformità della copia informatica del documento
notificato all’originale è attestata dal responsabile del procedimento in
conformità a quanto disposto agli articoli 22 e 23-bis”.
La norma consente pertanto di notificare gli atti di accertamento e le
ingiunzioni fiscali a mezzo PEC e quindi la risposta al quesito è positiva.
In ordine al procedimento da seguire, va evidenziato in particolare che la
relata di notifica, creata con word, open office, ecc., deve essere
trasformata, senza scansione, direttamente in PDF testo e firmata
digitalmente. Un’altra regola da osservare riguarda la questione degli
allegati al messaggio.
Per essere valido, l’allegato deve essere firmato digitalmente e avere
un’estensione del file p7m. Infine, la notifica via PEC può dirsi
perfezionata per il soggetto notificante nel momento in cui viene generata
la ricevuta di accettazione prevista dall’articolo 6, comma 1, del D.P.R.
11.02.2005, n. 68, mentre, per il destinatario, nel momento in cui viene
generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 6, comma 2,
del D.P.R. n. 68/2005 (art. 3-bis, comma 3, della L. 53/1994)
(24.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
agosto 2018 |
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TRIBUTI: Canone
per interramento di condutture di pubblici
servizi
E' illegittimo
l’assoggettamento al canone non ricognitorio,
previsto dall’art. 27 del codice della
strada, nelle ipotesi di utilizzo del
sottosuolo della sede stradale che -come nel
caso di condutture elettriche- non
impediscano o limitino in alcun modo la
fruizione pubblica della sede viaria, ferma
restando la legittima imposizione del canone
per il tratto di tempo durante il quale le
lavorazioni di posa e realizzazione
dell’infrastruttura a rete impediscono la
piena fruizione della sede stradale.
Il codice della strada ha assoggettato a
canone unicamente le occupazioni idonee a
sottrarre il bene all’uso pubblico (id est:
peso imposto al bene pubblico) ciò che non
accade nell’ipotesi di occupazioni che si
sostanzino nell’interramento di condutture
finalizzate all’esercizio di pubblici
servizi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.08.2018 n. 2030 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Oggetto della domanda di annullamento
proposta con il ricorso in epigrafe sono il
regolamento con il quale il Comune di
Carnate ha disciplinato l’applicazione del
canone non ricognitorio previsto dall’art.
27 del d.lgs. n. 285 del 1992 nonché il
conseguente atto applicativo.
Parte ricorrente ritiene che detto
regolamento contrasti con il parametro
normativo di riferimento avendo
illegittimamente assoggettato al canone di
cui trattasi gli «impianti elettrici
insistenti sia sul suolo sia nel sottosuolo
di proprietà comunale» in violazione
disposizioni di carattere «speciale»
(art. 120 r.d. M. 1775/1933, art. 1, c. 6,
l. n. 239 del 2004, art. 4 l. n. 1501/1961 e
art. 6 d.m. n. 258/1998). Osserva, altresì,
che ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. n. 285
del 1992 il canone deve essere, in tesi,
determinato sulla base sia del peso imposto
al bene pubblico, sia del lucro che il
concessionario trae dall’utilizzazione del
bene stesso.
Con nota del 28.10.2013, in applicazione di
siffatta disciplina, il Comune ha chiesto il
pagamento delle relative somme previa
trasmissione, da parte della Società, di
taluni dati inerenti all’impianto.
...
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di
difetto di interesse sollevata da parte
resistente sul rilievo che la nota del
28.10.2013, pur nella sua configurazione di
elemento istruttorio e malgrado non sia
stata impugnata, in realtà costituisce atto
rilevante che esprime la valutazione
dell’Amministrazione di ritenere la
particolare fattispecie compresa nella
previsione regolamentare come tale
assoggettabile al canone patrimoniale (TAR
Lombardia, Milano, n. 265 del 2018).
Sul punto deve essere evidenziato che, a
differenza del precedente di questo
Tribunale dato dalla sentenza n. 1078/2018
riguardante un caso in cui il Comune aveva
trasmesso una mera comunicazione di avvenuta
adozione del regolamento, nella vicenda per
cui è causa l’Amministrazione ha evidenziato
i criteri da applicarsi per la
quantificazione delle somme ed ha richiesto
alla ricorrente la conferma dei dati
contenuti nelle cartografie in possesso
dello stesso Comune, circostanza, questa,
che dà atto della ‘soggettività passiva’
della ricorrente.
Nel merito il ricorso è meritevole di
accoglimento.
Come si è detto, parte ricorrente ha
evidenziato che in realtà il d. lgs. n. 285
del 1992 ha assoggettato a canone unicamente
le occupazioni idonee a sottrarre il bene
all’uso pubblico (id est: peso
imposto al bene pubblico) ciò che non accade
nell’ipotesi di condutture elettriche quali
quelle nel caso di specie installate dalla
ricorrente.
La questione, in relazione ad analoghe
controversie, è stata già solcata dalla
giurisprudenza la quale ha, in modo del
tutto condivisibile, ritenuto che, in
realtà, nessuna norma primaria autorizzi le
amministrazioni locali ad applicare il
canone non ricognitorio di cui all’art. 27
del Codice della Strada ad occupazioni che
si sostanzino nell’interramento di
condutture finalizzate all’esercizio di
pubblici servizi.
Sul punto ritiene il Collegio di non dovere
discostarsi dall’approdo interpretativo del
Giudice d’appello secondo cui,
valorizzando una lettura del Codice
della Strada «come corpo normativo inteso
alla sicurezza delle persone nella
circolazione stradale, e rispetto al quale
interesse generale le sue norme sono
evidentemente serventi», è stata esclusa
la legittima esigibilità del canone non
ricognitorio nelle ipotesi di utilizzo del
sottosuolo della sede stradale le quali
-come nel caso che qui rileva- non
impediscano o limitino in alcun modo la
fruizione pubblica della sede viaria, ferma
restando la legittima imposizione del canone
per il tratto di tempo durante il quale le
lavorazioni di posa e realizzazione
dell’infrastruttura a rete impediscono la
piena fruizione della sede stradale.
Ne discende l’accoglimento della domanda di
annullamento del Regolamento impugnato. |
giugno 2018 |
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TRIBUTI: I
bassi consumi svelano la prima casa fittizia. Lo scarso uso di elettricità
cancella l’esenzione Ici/Imu per l’abitazione principale.
La Corte di Cassazione (Sez.
VI civile -
ordinanza 07.06.2018 n. 14793) giudica decisivo per il
disconoscimento dell'abitazione principale ai fini Ici i bassi consumi
elettrici. Decisione importante anche per l’Imu, soprattutto per le case
turistiche.
La norma Ici qualificava come abitazione principale quella dove il soggetto
passivo avesse la residenza anagrafica. Precisava poi che l’abitazione
principale è quella in cui c’è la dimora abituale di contribuente e
famiglia. Quindi, in Ici poteva esserci un’abitazione principale anche senza
di residenza anagrafica.
Nell'Imu l’abitazione principale è quella in cui proprietario e famiglia «dimorano
abitualmente e risiedono anagraficamente». Non basta la residenza, serve
la dimora abituale. Se i famigliari hanno stabilito dimora abituale e
residenza in immobili diversi nel Comune, le agevolazioni si applicano per
un solo immobile.
Per le Finanze (circolare
18.05.2012 n. 3/DF),
se i componenti del nucleo hanno stabilito residenza e dimora abituale in
due abitazioni in due Comuni diversi, è possibile considerale entrambe
abitazioni principali.
La Cassazione conferma la sentenza di secondo grado che ha «ritenuto che
l'elemento presuntivo dei bassi consumi elettrici nel triennio fosse una
sufficiente fonte di convincimento per ritenere superata la presunzione di
residenza effettiva nel Comune di Rio dell’Elba, fondata sulle risultanze
anagrafiche, in quanto, elemento sintomatico di una presenza nell'abitazione
oggetto d'imposizione non abituale».
La sentenza è importante perché individua indici presuntivi sulla
sussistenza della dimora abituale, quindi rilevanti anche ai fini Imu, utili
per intercettare quei casi di “spacchettamento” tipico delle case
turistiche. Oltre ai consumi ridotti e all'assenza del medico curante,
rileva il lavoro o la frequenza scolastica dei figli in altro Comune.
Contrariamente a quanto sostenuto nella circolare n. 3/2012, anche la sola
circostanza che componenti dello stesso nucleo abbiano la residenza in
Comuni diversi è determinante, perché anche la norma Imu qualifica come
abitazione principale quella dove il soggetto passivo «e il suo nucleo
familiare» dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2018).
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MASSIMA
Con ricorso in Cassazione affidato a un unico motivo, nei cui
confronti il comune di Rio nell'Elba ha resistito con controricorso, i
ricorrenti impugnavano la sentenza della CTR della Toscana, sezione di
Livorno, relativa ad alcuni avvisi d'accertamento ICI per il 2008-2010, per
il mancato riconoscimento dell'agevolazione riferita all'immobile adibito ad
abitazione principale.
I ricorrenti deducono il vizio di violazione di legge, in particolare,
dell'art. 2729 c.c. e dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504/1992, in
relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., in quanto, i giudici
d'appello avevano ritenuto bastevole un solo elemento presuntivo, quello
relativo alla esiguità dei consumi elettrici, per non riconoscere ai fini
ICI il diritto all'agevolazione prevista per l'abitazione principale, pur in
presenza di residenza anagrafica presso l'immobile oggetto di controversia.
Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma
semplificata.
Il motivo di ricorso è infondato.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello che "In
tema di ICI, ai fini del riconoscimento dell'agevolazione prevista dall'art.
8 del d.lgs. n. 504 del 1992 per l'immobile adibito ad abitazione
principale, le risultanze anagrafiche rivestono un valore presuntivo circa
il luogo di residenza effettiva e possono essere superate da prova
contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento e suscettibile di
apprezzamento riservato alla valutazione del giudice di merito"
(Cass.
ordinanza
17.05.2017 n. 12299,
ordinanza 24.05.2017 n. 13062).
Nel caso di specie, premesso che il ricorso rispetta i criteri di cui agli
artt. 360 e 366 c.p.c., i giudici d'appello,
con accertamento di fatto sufficientemente motivato, hanno
ritenuto, in disparte la scelta
del medico curante effettuata dai ricorrenti presso altro comune,
che l'elemento presuntivo dei bassi consumi elettrici nel triennio,
fosse una sufficiente fonte di convincimento, per ritenere superata la
presunzione di residenza effettiva nel comune di Rio dell'Elba, fondata
sulle risultanze anagrafiche, in quanto, elemento sintomatico di una
presenza nell'abitazione oggetto d'imposizione non abituale.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in
dispositivo. |
maggio 2018 |
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TRIBUTI: Dimore
diverse, esenzione Ici ko. Coniugi non separati legalmente.
Dimore diverse, esenzione Ici ko Se marito e moglie dimorano abitualmente in
due immobili diversi, e non sono separati legalmente, nessuno dei coniugi ha
diritto a fruire dell'esenzione Ici riconosciuta dalla legge per
l'abitazione principale.
È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
17.05.2018 n. 12050.
Per la Cassazione, un'abitazione può essere ritenuta principale soltanto se
nella stessa dimorano sia il contribuente che i suoi familiari, con la
conseguenza che «per il sorgere del diritto alla detrazione non è
sufficiente che il contribuente dimori abitualmente nell'unità immobiliare
se il coniuge, non separato legalmente, dimori altrove». L'articolo 8
decreto legislativo 504/1992, che disciplinava l'esenzione Ici, riconosceva
l'esenzione per l'immobile adibito a dimora del contribuente e dei suoi
familiari.
Sulla questione si sono espressi in maniera diversa giudici di legittimità e
di merito. Per esempio, la Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo,
IV Sez., con la sentenza 692/2017, ha stabilito che se uno dei
coniugi risiede per motivi di lavoro in un comune diverso da quello in cui
dimorano i propri familiari, non perde il diritto all'esenzione Ici per
l'immobile adibito ad abitazione principale. Gli impegni di lavoro, infatti,
giustificano una frattura della convivenza abituale all'interno della stessa
casa, ma non fanno venir meno la destinazione ad abitazione principale della
famiglia dell'unità immobiliare.
Va posto in rilievo che la nozione di prima casa per l'Imu è un po' diversa
rispetto a quella prevista per l'Ici dal citato articolo 8. In base a quanto
disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale si
intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come
unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare
dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
Tuttavia, nel caso in cui
i componenti del nucleo familiare abbiano fissato la dimora abituale e la
residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le
agevolazioni per l'abitazione principale e per le relative pertinenze in
relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile. Per
pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle
classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima
di una per ciascuna categoria, anche se iscritte in catasto unitamente
all'immobile adibito ad abitazione.
In presenza delle condizioni di legge gli immobili adibiti ad abitazione
principale sono esenti, tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1,
A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il
trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione (articolo
ItaliaOggi del 04.07.2018).
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MASSIMA
Con ricorso in Cassazione affidato a due motivi, illustrati da
memoria, nei cui confronti il comune di Bologna non ha spiegato difese
scritte, i ricorrenti -coniugi separati di fatto- impugnavano la sentenza
della CTR dell'Emilia Romagna, relativa a due avvisi d'accertamento ICI 2004
per il mancato riconoscimento dell'agevolazione riferita all'immobile
adibito ad abitazione principale.
Con un primo motivo denunciano il vizio di violazione di legge, in
particolare, dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504/1992 anche in rapporto
al combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost. in quanto, erroneamente, i
giudici d'appello avevano negato ai fini ICI il diritto all'agevolazione
prevista per l'abitazione principale ai coniugi separati di fatto solo
perché non separati giudizialmente.
Con un secondo motivo, i medesimi ricorrenti denunciano il vizio di
violazione di legge, in particolare, dell'art. 1, comma 161, della legge
296/2006, in quanto, erroneamente, i giudici d'appello, avevano ritenuto
tempestivi gli avvisi d'accertamento ICI riguardanti l'anno d'imposta 2004,
notificati il 24.12.2010, benché il termine di decadenza fosse spirato il
31.12.2009.
Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma
semplificata.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello che "In
tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della
detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi,
salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del
d.lgs. n. 504 del 1992 (come modificato dall'art. 1, comma 173, lett. b),
della l. n. 296 del 2006, con decorrenza dall'01.01.2007), occorre che il
contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo
propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla
detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo (in
applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata,
che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che l'immobile
"de quo" costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non della di lui
moglie)" (Cass.
ordinanza
21.06.2017 n. 15444, Cass.
ordinanza
17.05.2017 n. 12299,
ordinanza 24.05.2017 n. 13062,
ordinanza 12050/2010).
Nel caso di specie, per affermazione degli stessi ricorrenti, le distinte
abitazioni oggetto degli atti impositivi non costituivano, nell'anno in
contestazione, dimora abituale non solo propria ma neppure del proprio
nucleo familiare.
Anche il secondo motivo appare infondato, dal momento che gli avvisi
avevano ad oggetto non già la rettifica di dichiarazioni o denunce infedeli,
incomplete o inesatte, bensì proprio l'omessa presentazione della
dichiarazione ICI; con conseguente applicabilità del termine del 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o la denuncia
dovevano essere presentate (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2), in
quanto, i coniugi erano tenuti a denunciare ai fini ICI fin dal 2004 (con
termine per l'adempimento entro il 31.07.2005) la cessazione della
situazione di dimora di entrambi nello stesso immobile.
Pertanto, alla data di notifica degli atti impositivi, il 24.12.2010, l'ente
impositore non era decaduto dalla potestà impositiva, essendo l'accertamento
intervenuto entro il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo
dalla scadenza dell'obbligo di dichiarazione.
Va, infine, disattesa l'eccezione di giudicato sollevata dai ricorrenti in
memoria con riferimento alla sentenza della Commissione tributaria regionale
dell'Emilia Romagna n. 763/8/16 del 21.03.2016, passata in giudicato, che,
per le annualità 2005 e 2006 e previo accertamento della separazione di
fatto tra i coniugi Gi.Ge. e Pa.Sa., ha riconosciuto spettare ad entrambi i
nominati contribuenti l'agevolazione per l'abitazione principale.
Infatti nel presente giudizio il giudice di appello non ha compiuto nessun
accertamento sulla separazione di fatto tra i suddetti coniugi, limitandosi
su tale punto a richiamare le deduzioni degli appellanti, ma ha soltanto
statuito in diritto,
affermando il principio generale che un'abitazione può
essere ritenuta principale soltanto se nella stessa dimorano sia il
contribuente che i suoi familiari, con la conseguenza che «per il sorgere
del diritto alla detrazione...non è sufficiente che il contribuente dimori
abitualmente nell'unità immobiliare se...il coniuge, non separato
legalmente, dimori altrove», per giungere alla conclusione «che
nessuno dei due immobili, abitati in via esclusiva uno dalla Sa. e
l'altro dal Ge., può essere considerato abitazione principale ai sensi
della norma in commento».
Pertanto, essendo diversi i presupposti in fatto accertati nella sentenza di
appello del presente giudizio (abitazione in due differenti immobili da
parte di coniugi non separati legalmente) e quelli oggetto dell'accertamento
effettuato nella sentenza n. 763/8/16 (trasferimento della dimora abituale «per
la frattura del rapporto di convivenza, cioè di una situazione di fatto
consistente nella inconciliabilità della prosecuzione della coesistenza,
sotto lo stesso tetto, delle persone legate dal rapporto coniugale», con
conseguente superamento della presunzione di coincidenza tra "casa
coniugale" e "abitazione principale"), deve concludersi che il
giudicato formatosi sulla sentenza n. 763/8/16 non ha efficacia vincolante
nel presente giudizio.
Infatti, il principio di diritto affermato nella sentenza n. 763/8/16 è
riferito ad una fattispecie concreta fondata sull'accertamento della
separazione di fatto dei coniugi contribuenti, ossia della frattura del
rapporto di convivenza per la inconciliabilità della prosecuzione della
coesistenza, mentre i principio di diritto affermato al giudice di appello
nel presente giudizio ha riguardato il differente presupposto di fatto
dell'abitazione dei due coniugi non separati legalmente in due differenti
immobili.
La mancata predisposizione di difese scritte da parte dell'ente impositore,
esonera il Collegio dal provvedere sulle spese Va dato atto della
sussistenza dei presupposti, per il versamento, da parte del ricorrente,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso. |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Il diritto di accesso è riconosciuto come diritto
soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del
quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a
divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale
vincolata.
Le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione”
ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”.
Dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso.
L’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso”.
Va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel
senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura
di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in
senso ampio in termini di utilità per la difesa di un
interesse giuridicamente rilevante.
La “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla
L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di
accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo.
In definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante.
---------------
In via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi.
Deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale.
La L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
L’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma.
---------------
Come ha statuito Consiglio di Stato, ferma, in linea di
principio, l’esclusione del diritto di accesso nei
procedimenti tributari sancita dalla legge [art. 24, co. 1,
lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241], vale comunque il
comma 7, primo periodo, del medesimo art. 24, secondo il
quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti
l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici”.
La pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto
occasione di rilevare la Sezione, svolgendo considerazioni
dalle quali non vi è motivo per discostarsi in questa sede,
una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 24
conduce alle seguenti conclusioni:
I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario è
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza
nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo
e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che
sono inaccessibili i documenti relativi all’attività
investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia
di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio
alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori
di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della
conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed
operative);
II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei limiti di
legge, garantisce l’accesso a quei documenti amministrativi
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere
i propri interessi giuridici e pone come unico limite il
fatto che i documenti contengano dati sensibili o
giudiziari;
III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione
soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una
concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato>>.
Invero, si registra un orientamento giurisprudenziale oramai
costante ad avviso del quale “l'art. 24 della legge n.
241/1990, nella parte in cui esclude il diritto di accesso
con riferimento ai procedimenti tributari –per i quali
restano ferme le particolari norme che li regolano– va
interpretato nel senso che l'inaccessibilità agli atti
relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla
fase di mera "pendenza" del procedimento tributario, in
quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che
segue la conclusione del procedimento con l'adozione del
provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta
dovuta, sulla base degli elementi reddituali, che conducono
alla quantificazione del tributo”.
---------------
L'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua
proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve
qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la
documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un
rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica
soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari
consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza
a quei giudizi.
Peraltro, questo TAR ha sostenuto che il diritto di accesso
non può essere neppure subordinato all’avvio di una
controversia sulla pretesa di merito, al fine di provocare
l’ordine del giudice rivolto a un terzo o a una pubblica
amministrazione per l’esibizione di documenti ex art.
210-213 cpc.
Non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il
principio di proporzionalità, e neppure rispettoso del
principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere
che il diritto di accesso sia esercitato in prima battuta
attraverso la via giurisdizionale e attivando la
controversia di merito (in definitiva con uno scopo
esplorativo).
La sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice.
---------------
Rilevato:
- che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto,
costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati
procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati
in apposito elenco;
- che non si profila, dunque, un controllo generalizzato
sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale
indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere
l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle
medesime;
- che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di
riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di
conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel
rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel
trattamento;
- che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni relative a
persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non
necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che risultino comunque
sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente
destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla
richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le
modalità meno pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato;
- che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati
sensibili e super-sensibili;
- che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti
ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art.
4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se
effettivamente un documento contenesse un’informazione di
natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria
la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per
chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di
un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella
specifica informazione;
- che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di
proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo
ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto
professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto
di accesso risulta comunque prevalente una volta che si
accerti la necessità di disporre della documentazione per la
difesa in giudizio;
- che, su una tematica affine, questa Sezione ha affermato che “I
modelli 770 sono in effetti dichiarazioni di soggetti
privati, o di amministrazioni che agiscono come datori di
lavoro, tuttavia diventano documenti amministrativi nel
momento in cui sono acquisiti alla banca dati fiscale.
L’acquisizione determina il passaggio di tali documenti
dalla sfera privata del rapporto di lavoro alla sfera
pubblica del controllo sull’adempimento delle obbligazioni
tributarie …. Una volta entrate nella sfera pubblica, le
informazioni contenute nelle dichiarazioni inviate
all’Agenzia delle Entrate sono trattate per finalità
pubblicistiche di natura tributaria, e dunque non sono più
nella disponibilità dei soggetti tra cui è intercorso il
rapporto di lavoro. Ne consegue che i documenti contenenti i
dati fiscali possono essere oggetto di accesso da parte di
terzi, quando questi ultimi dimostrino di avere un interesse
prevalente rispetto al diritto alla riservatezza delle parti
del sottostante rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di
accesso l’unico contraddittore è l’amministrazione
tributaria, e non sussistono controinteressati da
coinvolgere necessariamente nella procedura”;
- che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che
possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti
deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione
amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le
ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un
interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti.
---------------
Evidenziato:
- che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo
ad un’informazione qualificata, a fronte del quale
l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare
gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
- che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione”
ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”;
- che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso;
- che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso”;
- che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel
senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura
di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada
intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di
un interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V – 01/08/2017 n. 3831);
- che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata
dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto
di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo
(Consiglio di Stato, sez. VI – 30/03/2017 n. 1453);
- che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante;
Atteso:
- che la Società Agricola ricorrente, che svolge attività di
allevamento di bovini e produzione di latte negli immobili
di proprietà in località “Cascina Valle” riferisce di aver
instaurato numerosi contenziosi tributari con il Comune di
Caravaggio, sugli avvisi di accertamento relativi alla tassa
rifiuti (TARSU – TARES - TARI);
- che espone di avere da ultimo notificato, in data 04/01/2018 e
innanzi alla Commissione Tributaria competente, un ulteriore
ricorso avverso l’avviso di accertamento TARI relativo
all’annualità 2016;
- che, con nota del 22/12/2017, la ricorrente ha chiesto al Comune
intimato “copia delle denunce/autocertificazioni ai fini
TARSU/TARES/TARI, verbali di sopralluogo e verifiche, Docfa,
avvisi di pagamento e/o accertamento TARSU/TARES/TARI quanto
meno per il periodo 2012/2017 e relativi alle imprese che
svolgono nel Comune di Caravaggio attività analoga a quella
della mia assistita”;
- che l’istanza è stata accompagnata dall’indicazione di 37 Società
che si troverebbero in condizioni analoghe a quelle in cui
versa la Società esponente, la quale ha addotto la necessità
di espletare attività difensiva in ambito tributario;
- che il Comune di Caravaggio, nella risposta del 22/01/2018 (doc.
1) ha accolto solo parzialmente la pretesa ostensiva,
mettendo a disposizione i documenti di interesse con
cancellazione dei dati identificativi delle Società ossia
denominazione, ubicazione, riferimenti catastali (doc. 5);
- che la difesa comunale ha precisato come, nello specifico, sia
stata fornita copia di tutta la documentazione richiesta
–ossia importi, denunce e accertamenti TARES/TARI con
eccezione dei DOCFA (non detenuti dall’Ente locale)–
oscurando i dati relativi alla ragione sociale delle Società
agricole interessate dagli avvisi, nonché i dati catastali
delle stesse;
- che ha puntualizzato come la maggior parte delle Società agricole
oggetto della richiesta, ritualmente sollecitate dal Comune,
abbiano comunicato il proprio dissenso all’accesso;
- che l’esponente lamenta che la documentazione fornita, non
permettendo di risalire all’intestatario degli avvisi e
all’ubicazione delle Società agricole indicate nell’istanza,
impedirebbe di verificare il corretto operato
dell’amministrazione comunale e l’insussistenza di eventuali
disparità di trattamento tra operatori attivi nel medesimo
settore economico;
- che non sarebbe possibile il raffronto con la realtà fattuale,
per cui verrebbe precluso il sindacato di legittimità
dell’azione amministrativa;
- che l’ulteriore tentativo di interlocuzione non ha avuto esito;
Considerato:
- che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di Stato, ad.
plenaria – 04/02/1997 n. 5);
- che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale;
- che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
- che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma
(Consiglio di Stato, sez. VI – 09/04/2018 n. 2158);
Dato atto:
- che la difesa del Comune ha affermato che i documenti richiesti
sarebbero del tutto irrilevanti per l’avvio dell’azione
giudiziaria;
- che gli stessi non sarebbero direttamente lesivi delle posizioni
giuridiche della ricorrente, non sarebbero idonei a spiegare
effetti diretti o indiretti nei suoi confronti e non
rivestirebbero influenza alcuna nel contenzioso tributario
pendente (per l’inconfigurabilità della denunciata disparità
di trattamento);
- che l’istanza si porrebbe altresì in contrasto con il disposto
dell'art. 24, comma 3, della L. 241/1990, integrando un
controllo generalizzato sull'operato della pubblica
amministrazione;
- che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede
di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a
valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse
palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento
al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
- che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra
l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva
sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento
funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del
documento richiesto (cfr. in proposito TAR Campania Napoli,
sez. VI – 29/06/2016 n. 3287);
- che, infatti, la divulgazione degli atti identificativi delle
Aziende agricole del territorio soddisfa una concreta
aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare
dell’interesse a prenderne cognizione al fine di raffrontare
le situazioni di fatto e orientare le proprie scelte
successive, anche in sede giurisdizionale;
Rilevato:
- che, come ha statuito Consiglio di Stato, sez. IV – 06/11/2017 n.
5128, ferma, in linea di principio, l’esclusione del diritto
di accesso nei procedimenti tributari sancita dalla legge
[art. 24, co. 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241],
vale comunque il comma 7, primo periodo, del medesimo art.
24, secondo il quale “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”;
- che la pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto
occasione di rilevare la Sezione (11.02.2011, n. 925;
26.09.2013, n. 4821; 13.03.2014, n. 1211), svolgendo
considerazioni dalle quali non vi è motivo per discostarsi
in questa sede, una lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 24 conduce alle seguenti conclusioni:
I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario
è temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza
nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo
e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che
sono inaccessibili i documenti relativi all’attività
investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia
di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio
alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori
di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della
conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed
operative: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2002, n. 1977);
II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei
limiti di legge, garantisce l’accesso a quei documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici e pone come unico
limite il fatto che i documenti contengano dati sensibili o
giudiziari;
III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione
soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una
concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007, n.
55; sez. V, sez. IV, 29.01.2014, n. 461; sez. V, 23.03.2015,
n. 1545)>>;
- che si registra un orientamento giurisprudenziale oramai
costante, al quale aderisce TAR Puglia Lecce, sez. II –
22/12/2017 n. 2021, che ha richiamato TAR Lombardia Brescia,
sez. II – 02/05/2017 n. 573 ad avviso del quale “l'art.
24 della legge n. 241/1990, nella parte in cui esclude il
diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari
–per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano– va interpretato nel senso che l'inaccessibilità
agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente
limitata alla fase di mera "pendenza" del procedimento
tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza
nella fase che segue la conclusione del procedimento con
l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento
dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali,
che conducono alla quantificazione del tributo (TAR Lazio,
II-ter, 3260/2017, TAR Catanzaro, sez. II, 08/03/2016, n.
469; TAR Napoli, sez. VI, 14/01/2016, n. 171; Consiglio di
Stato, sez. IV, 13/11/2014, n. 5588)” (si veda anche TAR
Sicilia Catania, sez. III – 31/07/2017 n. 1983);
Evidenziato:
- che, nel caso che occupa il Collegio, la ricorrente sostiene che
dall’istanza di accesso emerge la prova della consistenza
dell’interesse ad utilizzare nel procedimento tributario i
documenti richiesti, e che è stato rappresentato l’intento
di verificare un’eventuale disparità di trattamento ai fini
TARSU, TARI e TASI tra imprese agricole operanti nella
stessa zona;
- che i plurimi ricorsi tributari proposti attestano la sussistenza
di un effettivo legame “tra la finalità dichiarata ed il
documento richiesto” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V –
05/02/2014 n. 556);
- che l'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua
proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve
qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la
documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un
rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica
soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari
consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza
a quei giudizi;
- che, peraltro, questo TAR (cfr. sentenza sez. I – 20/05/2014 n.
535) ha sostenuto che il diritto di accesso non può essere
neppure subordinato all’avvio di una controversia sulla
pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice
rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per
l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc;
- che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio
di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di
ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto
di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via
giurisdizionale e attivando la controversia di merito (in
definitiva con uno scopo esplorativo);
- che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice.
Rilevato:
- che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto,
costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati
procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati
in apposito elenco;
- che non si profila, dunque, un controllo generalizzato
sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale
indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere
l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle
medesime;
- che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di
riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di
conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel
rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel
trattamento;
- che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni relative a
persone fisiche (e in quanto tali «dati personali»)
non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che risultino comunque
sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente
destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla
richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le
modalità meno pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato;
- che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati
sensibili e super-sensibili;
- che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti
ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art.
4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se
effettivamente un documento contenesse un’informazione di
natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria
la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per
chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di
un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella
specifica informazione;
- che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di
proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo
ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto
professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto
di accesso risulta comunque prevalente una volta che si
accerti la necessità di disporre della documentazione per la
difesa in giudizio;
- che, su una tematica affine, questa Sezione (cfr. sentenza
20/05/2014 n. 535) ha affermato che “I modelli 770 sono
in effetti dichiarazioni di soggetti privati, o di
amministrazioni che agiscono come datori di lavoro, tuttavia
diventano documenti amministrativi nel momento in cui sono
acquisiti alla banca dati fiscale. L’acquisizione determina
il passaggio di tali documenti dalla sfera privata del
rapporto di lavoro alla sfera pubblica del controllo
sull’adempimento delle obbligazioni tributarie …. Una volta
entrate nella sfera pubblica, le informazioni contenute
nelle dichiarazioni inviate all’Agenzia delle Entrate sono
trattate per finalità pubblicistiche di natura tributaria, e
dunque non sono più nella disponibilità dei soggetti tra cui
è intercorso il rapporto di lavoro. Ne consegue che i
documenti contenenti i dati fiscali possono essere oggetto
di accesso da parte di terzi, quando questi ultimi
dimostrino di avere un interesse prevalente rispetto al
diritto alla riservatezza delle parti del sottostante
rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di accesso l’unico
contraddittore è l’amministrazione tributaria, e non
sussistono controinteressati da coinvolgere necessariamente
nella procedura”;
- che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che
possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti
deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione
amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le
ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un
interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti
(Consiglio di Stato, sez. III – 05/06/2015 n. 2768) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2018 n. 479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2018 |
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TRIBUTI: Aree
di atterraggio non confermate esenti.
La potenzialità edificatoria di un'area che abbia perso l'edificabilità può
essere trasferita su altre aree individuate dall'amministrazione o su altre
possedute dallo stesso proprietario (così dette aree di atterraggio);
tuttavia, per poter esercitare una pretesa impositiva il diritto di
trasferimento della capacità edificatoria dovrà essere contrattualmente
concluso tra le parti.
Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza
27.04.2018 n. 2745/1/2018 emessa dalla Sez. I della Commissione
tributaria regionale del Lazio.
La ricorrente aveva impugnato un accertamento relativo a Ici per l'anno
d'imposta 2008; l'accertamento riguardava una maggiore imposta per un'area
situata nel comune di Roma e ricadente nel comprensorio di Tor Marancia. La
ricorrente aveva riferito che le volumetrie erano state individuate in un
comprensorio destinato a parco pubblico e quindi non suscettibile di
utilizzo edificatorio; il comune di Roma aveva replicato che l'area
riguardante il comprensorio di Tor Marancia, originariamente individuata
come edificabile, era stata dichiarata di interesse archeologico, con
conseguente cancellazione della stessa dalle zone a destinazione
urbanistica.
Tuttavia, era stato avviato un procedimento di perequazione
urbanistica con il trasferimento della capacità edificatoria su determinate
aree di atterraggio. Si trattava, quindi, di stabilire se a seguito di detta
perequazione, nel senso del trasferimento della potenzialità edificatoria su
di un'area diversa da quella originariamente individuata (cosiddetta di
atterraggio), fosse dovuta l'Ici relativa a questa area, in base alla
capacità edificatoria trasferita.
La Ctp di Roma ha accolto il ricorso. La
Commissione regionale del Lazio ha confermato la decisione annullando
l'accertamento del comune capitolino. I giudici regionali hanno infatti
rilevato come, nella fattispecie in esame, non veniva portato a termine il
procedimento in base al quale l'area in questione cosiddetta di atterraggio
sarebbe dunque risultata effettivamente edificabile e attribuita alla
ricorrente.
Il collegio ha rilevato come in mancanza della sottoscrizione di
un'apposita convenzione tra il comune e la società ricorrente, potesse
configurarsi soltanto un'aspettativa di edificabilità da imputare a un'altra
area, detta appunto di «atterraggio». Il collegio regionale ha concluso
ritenendo che la particolarità della situazione dedotta ammetteva la
compensazione delle spese di lite.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) La ricorrente ne aveva eccepita l'illegittimità, sostenendo che le aree
di proprietà non erano più edificabili e che le volumetrie erano state
individuate nel comprensorio di Tor Marancia che non risulta area
edificabile nel Piano regolatore, a seguito del divieto assoluto di
edificabilità nel frattempo imposto, per destinazione a parco pubblico.
Con
la sentenza impugnata, la Ctp ha accolto il ricorso, rilevando la fondatezza
dei motivi di gravame, in quanto ( ) presupposti per l'Ici sono: il possesso
di un'area edificabile, l'individualità e l'identificabilità dell'area
posseduta, la sua utilizzabilità a scopo edificatorio, il collegamento
dell'imposta con un diritto reale; ( ) Eccepisce l'appellante comune
l'illegittimità della sentenza impugnata, sostenendo: 1) l'illegittimità
della decisione in merito alla ritenuta inedificabilità dell'area
(comprensorio Tor Marancia) e della mancata assegnazione del sito di
atterraggio. L'appello proposto dal Comune di Roma Capitale è da ritenersi
infondato e va quindi respinto per i motivi di seguito esposti. ( )
Pur non essendo del tutto priva di pregio, la prospettazione dell'ente
locale non appare condivisibile, perché difetta di concretezza, valorizzando
la situazione soprattutto sotto l'aspetto teorico, quanto meno in parte
disconnesso dalla realtà effettiva, nella quale i tempi di realizzazione
della compensazione urbanistica si sono dilatati in maniera indiscutibile, a
causa della lentezza della complessa procedura amministrativa in materia,
che se si fosse conclusa in termini più tempestivi, avrebbe probabilmente
evitato l'insorgere dell'attuale controversia.
Appare decisiva la circostanza, evidenziata dalla Società ( ) che, ai fini
che qui interessano, la procedura di compensazione può dirsi essersi
conclusa, tuttalpiù (essendo in pratica ancora incompiuta), al momento
dell'adozione della delibera consiliare del comune n. 18 del 12.02.2008 e quindi in epoca successiva all'annualità di imposta contestata.
Poiché tale fatto è pacifico in atti, va ritenuto che al momento del
pagamento dell'imposta 2007 non sussisteva il presupposto per considerare la
società in possesso di un'area edificatoria ( )
In altri termini, il sorgere
del diritto del proprietario, da un lato, e la correlata pretesa impositiva
dell'ente locale, dall'altro, devono coincidere nello stesso momento. Rebus
sic stantibus, invece, la singolare situazione di limbo del diritto di
edificazione, in cui si versava ancora nell'annualità di imposta
considerata, non giustifica la pretesa impositiva, nei termini in cui è
stata contestata, rendendo non corretta la richiesta integrazione.
P.Q.M.
Rigetta l'appello. Spese compensate (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.07.2018). |
TRIBUTI: Tributi locali, per l'accertamento fa fede il timbro di spedizione.
L'avviso di accertamento Ici è legittimo se notificato entro il termine di
decadenza di 5 anni certificato dal timbro postale di spedizione, anche se
ricevuto dal destinatario oltre il termine di legge.
È quanto ha affermato
la ctr di Roma, III Sez., con la sentenza
24.04.2018 n. 2657/3/2018. La stessa regola vale anche per gli altri tributi
locali.
Si tratta di una questione che forma spesso oggetto di contenzioso,
nonostante la Corte costituzionale (sentenza 477/2002) abbia già da tempo
chiarito che i termini operano in maniera diversa per il notificante e il
destinatario. Mentre per il primo conta la data di spedizione dell'atto
impositivo, per il contribuente i termini per l'impugnazione decorrono dalla
ricezione.
Per il giudice d'appello, infatti, «al fine del perfezionarsi della notifica
per il soggetto notificante, ciò che fa fede è il termine entro cui l'avviso
di accertamento viene consegnato all'ufficio di posta». In questo senso si è
espressa la Consulta, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del
combinato disposto dell'articolo 149 del codice di procedura civile e
dell'articolo 4, comma 3, della legge 890/1982, nella parte in cui
prevedevano che la notificazione si perfezionasse per il notificante alla
data di ricezione dell'atto da parte del destinatario. Secondo la
Commissione regionale, il principio generale affermato dalla Corte
costituzionale è «riferibile ad ogni tipo di notificazione ed in particolare
a quella eseguita a mezzo del servizio postale».
Va ricordato che la Finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha fissato in modo
chiaro i termini per l'accertamento dei tributi locali e per il recupero
delle somme non versate o versate in ritardo, rispetto a quanto stabilito
dalla precedente disciplina. Anche per la riscossione coattiva è stato
imposto un termine, a pena di decadenza, per la notifica del titolo
esecutivo.
Gli enti locali, in base all'articolo unico, comma 161 della
legge 296/2006, possono accertare la mancata presentazione delle
dichiarazioni e gli omessi versamenti entro il 31 dicembre del quinto anno
successivo a quello in cui i relativi obblighi avrebbero dovuto essere
assolti dal contribuente. Entro lo stesso termine possono, inoltre,
rettificare le dichiarazioni incomplete o infedeli e irrogare le relative
sanzioni.
Per la riscossione coattiva, a mezzo cartella o ingiunzione,
l'articolo 1, comma 163, della suddetta legge ha previsto che debba essere
effettuata entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui
l'accertamento sia divenuto definitivo (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
marzo 2018 |
|
TRIBUTI: Ancora
un «no» agli incentivi IMU.
Dalla Corte dei conti ancora una volta una delibera negativa rispetto alla
possibilità di prevedere incentivi per i dipendenti degli uffici tributi dei
Comuni per il recupero dell'evasione Imu, non essendo ammissibili sul tema
interventi regolamentari da parte degli enti locali.
La pronuncia
Con il
parere 29.03.2018 n. 72 la Corte dei
conti della Sicilia ha affrontato la questione degli incentivi ai dipendenti
degli uffici tributi degli enti locali per il recupero dell’evasione
tributaria.
La corte ha escluso la possibilità di prevedere tali incentivi, rammentando
che in base al principio dell’onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici, previsto dall’articolo 2, comma 3, e dall’articolo 24,
comma 3, del Dlgs 165/2001, e dall'articolo 45 del medesimo decreto, solo la
legge può prevedere qualunque forma di incentivo, insieme al Ccnl. Ciò è
quanto è disciplinato ai tempi dell’Ici con l’articolo 3, comma 57, della
legge 662/1996 e con l’articolo 59, lettera p), del Dlgs 446/1997.
In
particolare, il primo consentiva ai Comuni di destinare una quota del
gettito Ici al potenziamento dell’ufficio tributi, mentre la seconda norma
ha permesso loro di utilizzare una parte di tale gettito per incentivare gli
addetti degli uffici tributi. Il Ccnl del 01.04.1999 aveva previsto
l’erogazione ai dipendenti di incentivi stabiliti da specifiche norme di
legge (articolo 15, comma 1, lettera k).
La Corte dei conti Sicilia, riprendendo un orientamento già evidenziato
dalla Sezione regionale di controllo del Veneto (22/2013), della Lombardia
(577/2011) e della Sardegna (127/2011), ribadisce che la deroga al principio
di onnicomprensività della retribuzione non è stato previsto dalla legge
sull’Imu e non può essere introdotto da una norma regolamentare del Comune.
Le norme
In effetti, l’articolo 13 del Dl 201/2011 non richiama le norme contenute
nell’articolo 59 del Dlgs 446/1997, riferite espressamente all’imposta
comunale sugli immobili.
Sulla questione lo schema di contratto dei dipendenti degli enti locali
prevede all’articolo 18 che ai titolari di posizione organizzativa, in
aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, possono essere
erogati anche, tra l’altro, i trattamenti accessori riferiti ai compensi che
specifiche disposizioni di legge espressamente stabiliscono a favore del
personale, in coerenza con le medesime. Trattamenti tra cui la norma include
i compensi incentivanti connessi alle attività di recupero dell’evasione dei
tributi locali, in base all’articolo 3, comma 57, della legge 662/1996 e
dall’articolo 59, comma 1, lettera p), del Dlgs 446/1997.
La norma contrattuale richiama le disposizioni di legge che consentivano
l'erogazione di incentivi per il recupero dell'evasione Ici, ma non può
estendere l’applicazione degli stessi a un tributo per i quali non sono
previsti.
Anche se certo desta qualche perplessità una tale previsione riferita a un
tributo ormai abrogato da oltre 6 anni, per il quale sono anche scaduti i
termini di accertamento. Pur se va rammentato che l’Aran, con parere 1949,
ha ritenuto che «solo a conclusione dei progetti di recupero presi in
considerazione nell'anno di riferimento del contratto integrativo, sarà
certa l'entità delle risorse effettivamente riscosse e, quindi, anche
l’ammontare delle stesse, che può essere erogato sotto forma di incentivi e
secondo le regole fissate in sede di contrattazione integrativa, al
personale impegnato nei progetti stessi.
Nella determinazione di tali
risorse, evidentemente, rientreranno anche quelle che, pure oggetto delle
attività di recupero dell’evasione dell’anno di riferimento, saranno
effettivamente riscosse solo nell'anno successivo. Infatti, si tratta sempre
degli effetti delle attività poste in essere dal personale interessato dai
progetti nell'anno di riferimento e, quindi, rappresentano anche la misura
del grado di raggiungimento degli obiettivi dei progetti stessi e
dell’entità degli incentivi da riconoscere allo stesso».
Tale situazione, come più volte richiesto dall’Anutel anche a livello
ufficiale, sta generando un effetto disincentivante nei confronti dei
dipendenti degli uffici tributi degli enti locali e sta spingendo sempre di
più verso l’esternalizzazione delle attività di accertamento tributario,
esternalizzazione che se in alcuni casi può fornire un reale supporto agli
enti, comporta comunque un depauperamento di conoscenze e di capacità
specifiche all’interno dei Comuni che rischia di essere difficilmente
recuperabile in futuro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.04.2018).
---------------
MASSIMA
In conclusione, la Sezione, in riferimento al quesito, ritiene, nel
merito, che in assenza di uno specifico intervento
legislativo di deroga al richiamato principio di onnicomprensività della
retribuzione dei dipendenti pubblici, non è legittimo riconoscere un
compenso incentivante aggiuntivo in favore del personale impiegato in
progetti di recupero dell’evasione ed elusione IMU. |
TRIBUTI:
Se il fabbricato è accatastato come unità collabente F/2, ai
fini ICI/IMU non può essere tassato quale fabbricato e
neppure come area edificabile.
Il fabbricato accatastato come unità
collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile
come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile
neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al
subentro della imposta sul fabbricato ricostruito.
---------------
Considerato:
- che il motivo di ricorso è fondato;
- che infatti un fabbricato "collabente"
(cioè in rovina, dall'etimo latino collabi,
collapsus, ossia in collasso) come quello di specie è
privo di ogni potenzialità funzionale e reddituale;
- che infatti mentre un'area libera da cascami
edilizi versa in condizione di pronta edificabilità, un'area
impegnata da rovine come quella di specie esige interventi
di demolizione e bonifica necessari a reintegrare in
concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non
potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche
sotto il profilo della capacità contributiva del
proprietario;
- che quindi il fabbricato accatastato come unità
collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile
come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile
neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al
subentro della imposta sul fabbricato ricostruito
(art. 5, comma 6, d.lgs. n. 504 del 1992: Cass. 19.07.2017,
n. 23801);
- che inoltre la sottrazione ad imposizione del
fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria
catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base
imponibile, non può essere recuperata prendendo a
riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree
edificabili, costituita dal valore venale del terreno sul
quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede
l'imposizione ICI per le aree edificabili, e non per quelle
già edificate
(Cass. 19.07.2017, n. 17815);
- che infine l'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504
consente al contribuente, in presenza di variazioni
permanenti intervenute sull'unità immobiliare ed aventi
rilevanza sull'ammontare della rendita catastale, di
determinare l'imponibile sulla base di una rendita presunta,
costituita da quella dei fabbricati similari, fino a quando,
su richiesta del contribuente medesimo, non sia intervenuto
un nuovo accatastamento (Cass. 23.02.2010, n. 4308);
- che pertanto, nel caso di un fabbricato divenuto
inagibile, l'imponibile, fino al nuovo accatastamento, non
può essere determinato sulla base del valore dell'area
edificabile, risultante dalla demolizione del rudere
medesimo, essendo "area" e "fabbricato"
distinte categorie
(Cass. 23.02.2010, n. 4308);
- che pertanto, assorbiti gli altri motivi di ricorso, il ricorso
va accolto, entrambe le sentenze impugnate vanno cassate e,
non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve
essere decisa nel merito, con l'annullamento sia dell'avviso
di accertamento relativo all'ICI per il 2005 (r.g.n.
3551/2014) che quello relativo all'ICI per il 2006 (r.g.n.
3548/2014);
- che solo in "tempi recenti si è consolidata
una specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità
collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione
sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia
dell'area d'insistenza perché già edificata"
(Cass. 30.10.2017, n. 25774; Cass. 19.07.2017, n. 23801;
Cass. 19.07.2017, n. 17815) e che pertanto ciò impone di
compensare le spese processuali di ogni fase e grado (Corte
di Cassazione, Sez. V civile,
ordinanza 28.03.2018 n. 7653). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Istanza di rimborso di
imposte - Ufficio non competente - Trasmissione dell'istanza
all'ufficio competente - Collaborazione tra uffici della
pubblica amministrazione e tra questa ed il contribuente -
Art. 12 d.lgs. n. 347/1990 - Statuto dei diritti del
contribuente - Art. 111 Cost. - Impugnazione del
silenzio-rifiuto dell'amministrazione finanziaria -
Decadenza del contribuente dal diritto al rimborso -
Interruzione.
In tema di rimborso delle imposte sui redditi, disciplinato
dall'art. 38, secondo comma, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602,
la presentazione di un'istanza di rimborso ad un organo
diverso da quello territorialmente competente a provvedere
costituisce atto idoneo non solo ad impedire la decadenza
del contribuente dal diritto al rimborso, ma anche a
determinare la formazione del silenzio-rifiuto impugnabile
dinanzi al giudice tributario, sia perché l'ufficio non
competente (quando non estraneo all'Amministrazione
finanziaria e, nella specie, coincidente con una diversa
direzione regionale) è tenuto a trasmettere l'istanza
all'ufficio competente, in conformità delle regole di
collaborazione tra organi della stessa Amministrazione, sia
alla luce dell'esigenza di una sollecita definizione dei
diritti delle parti, ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n.
4773 del 2009; conf. n. 15180/2009, n. 2810/2009, n.
27117/2016) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 06.03.2018 n. 5203 - link a
www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Aree
edificabili, valori sanabili. Possibile rettificare l'importo determinato
dal comune.
I comuni hanno il potere di accertare i valori delle aree edificabili in
misura superiore a quelli fissati dallo stesso ente, con delibera del
consiglio comunale o della giunta, se questi valori risultino inferiori a
quelli indicati in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in
possesso o a conoscenza. La ratio della norma di legge che consente ai
comuni di fissare dei valori predeterminati ha la finalità di ridurre il
contenzioso con i contribuenti, ma non può impedire la rettifica dei valori
dichiarati che non sono in linea con i valori di mercato degli immobili.
Questo importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione,
Sez. V civile, con
l'ordinanza 02.03.2018 n. 4969.
Per la Cassazione, la fissazione dei valori delle aree fabbricabili non può
avere altro effetto che quello di autolimitare il potere di accertamento
Ici, ma la stessa regola vale per Imu e Tasi, poiché il comune si obbliga a
ritenere congruo il valore delle aree fabbricabili qualora sia stato
dichiarato dal contribuente in misura non inferiore a quella stabilita nel
regolamento comunale. I giudici di legittimità hanno posto in evidenza che
«il valore minimo delle aree edificabili integra un elemento presuntivo
suscettibile di doverosa riconsiderazione nel caso in cui il valore venale
del bene così determinato risulti contraddetto da quello, maggiore, indicato
in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in possesso o a
conoscenza».
Valori delle aree e presupposti per l'imposizione. Per Ici, Imu e Tasi il
valore di un'area edificabile deve essere determinato in base ai criteri
fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre
stabilire il valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio
dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato.
La norma
prevede che occorra fare riferimento a zona territoriale di ubicazione
dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per
eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e,
infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse
caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta
comunale, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico, ma non
sono vincolanti nella determinazione del quantum.
Possono essere anche
determinati con delibera del consiglio comunale, come nel caso in esame, ma
secondo la Cassazione non può essere un ostacolo l'indicazione preventiva se
il loro valore di mercato, risultante da atti di compravendita di beni
aventi analoghe caratteristiche, dovesse risultare di importo più elevato.
Del resto la norma sopra citata prevede un parametro ad hoc, che è il valore
di mercato delle aree.
Non è cambiato nulla per l'imposizione delle aree edificabili con la
disciplina Imu rispetto all'Ici. Così come per la Tasi, che ha la stessa
base imponibile dell'Imu. Il legislatore, infatti, richiama espressamente le
disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo
504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta
sia per la determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla
normativa Ici.
Per la qualificazione delle aree è necessario fare
riferimento al piano regolatore generale. In base all'articolo 2 del decreto
legislativo 504/1992, per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a
scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici «generali o attuativi»
oppure in base alle possibilità effettive di edificazione determinate
secondo i criteri previsti agli effetti delle indennità di espropriazione
per pubblica utilità.
Nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato, la
base imponibile Ici è data dal valore dell'area (non viene computato il
valore del fabbricato in corso d'opera), dalla data di inizio dei lavori di
costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino al momento in cui il
fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello
di ultimazione del fabbricato. In base alla finzione giuridica prevista
nella disciplina dell'imposta (art. 5, comma 6, del decreto legislativo
504/1992) durante il periodo dell'effettiva utilizzazione edificatoria anche
per demolizione e per esecuzione di lavori di recupero edilizio, il suolo va
considerato area fabbricabile, indipendentemente dal fatto che sia tale o
meno in base agli strumenti urbanistici.
Pertanto, un'area è edificabile
quando è inserita nel piano regolatore generale ed è soggetta alle imposte
locali indipendentemente dalla successiva lottizzazione del suolo. È il
comune, su richiesta del contribuente, che attesta se un'area sita nel
proprio territorio sia edificabile. Se lo strumento urbanistico è approvato
dal consiglio comunale, l'ente può dal momento dell'approvazione richiedere
il pagamento del tributo.
Cambi di destinazione.
Se il comune non comunica ai contribuenti le variazioni urbanistiche e i
cambi di destinazione dei terreni in aree edificabili, l'omissione non rende
nulli gli avvisi di accertamento pur essendo un obbligo imposto dalla legge
all'amministrazione comunale (Commissione tributaria regionale di Palermo,
sezione XXV, sentenza 4071/2016). Pertanto, l'omessa comunicazione prevista
dall'articolo 31, comma 20, della legge 289/2002 non comporta alcuna
nullità.
I titolari dei terreni divenuti edificabili sono tenuti a pagare le
imposte su un'area edificabile anche se il comune non li abbiano informati
delle variazioni apportate allo strumento urbanistico e non abbia comunicato
il cambio di destinazione del terreno (Cassazione, sentenza 15558/2009).
Tuttavia, nei casi in cui il comune non abbia provveduto a comunicare
formalmente il cambio di destinazione, e il contribuente violi l'obbligo di
dichiarazione e di versamento, si può ritenere che ricorra una causa di non
punibilità (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2018). |
febbraio 2018 |
|
TRIBUTI: Tassa rifiuti, le variazioni non hanno effetto retroattivo.
Le variazioni dichiarate dai contribuenti all'amministrazione comunale non
hanno effetto retroattivo. La riduzione della superficie dell'immobile, per
pagare un importo minore a titolo di tassa sui rifiuti, deve essere
dichiarata tempestivamente. Non è possibile ottenere la riduzione della
superficie da assoggettare a tassazione, in caso d'inabitabilità parziale
dell'immobile, per il periodo precedente alla presentazione della
dichiarazione di variazione. Solo dopo la presentazione della denuncia,
infatti, l'amministrazione comunale può accertare e valutare la fondatezza
delle richieste avanzate dall'interessato.
Lo ha stabilito la Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
28.02.2018 n. 4602.
Per i giudici di piazza Cavour, la ratio è quella di «indurre il
contribuente alla sollecita presentazione della comunicazione di variazione
e, al contempo, di preservare all'ente impositore la concreta possibilità di
verificare tempestivamente, e sulla base dell'attualità di stato, il
fondamento della variazione comunicata».
Peraltro, il principio comunitario
«chi inquina paga» verrebbe meno nell'ipotesi «in cui si consentisse alla
dichiarazione di riduzione di esplicare effetto anche con riguardo ad
annualità pregresse, in ordine alle quali non sarebbe più possibile alcun
controllo di debenza da parte dell'ente impositore», in presenza di
un'asserita «pregressa non abitabilità di una porzione di locali». La
sentenza fa riferimento alla Tia, alla quale si applicano le disposizioni
sulla Tarsu. Ma gli stessi adempimenti sono imposti per la Tari.
Il principio affermato dalla Cassazione non è proprio in linea con quanto
sostenuto di recente dalla stessa Corte (sentenza 453/2018), secondo cui il
contribuente può rettificare in qualsiasi momento la dichiarazione
presentata al comune relativa ai tributi locali, per correggere errori o
omissioni, e può contestare la pretesa tributaria dell'amministrazione che
non abbia tenuto conto delle variazioni dichiarate.
In effetti, è stata
ritenuta emendabile la dichiarazione anche in sede contenziosa, perché non
ha valore confessorio né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria. Se
la modifica ha luogo prima della notifica dell'avviso di accertamento,
l'amministrazione locale ne deve tenere conto, altrimenti è obbligata a
fornire la prova contraria. Mentre, se la rettifica dell'errore avviene dopo
la notifica dell'atto impositivo, spetta al contribuente l'onere di
dimostrare la correttezza della modifica proposta, anche in sede
contenziosa.
Nella pronuncia è stata richiamata la regola già applicata alla
dichiarazione dei redditi, qualificata «una mera esternazione di scienza o
di giudizio» e quindi «emendabile e ritrattabile». La rettifica può
intervenire su tutti gli errori commessi dal contribuente, «anche non
meramente materiali o di calcolo», considerato che «non ha valore
confessorio, né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria».
Naturalmente queste diverse prese di posizione, a breve distanza di tempo,
generano confusione.
Va ricordato che per Imu, Tasi e Tari ormai c'è un termine unico per
assolvere all'obbligo di presentazione delle dichiarazioni. Devono essere
presentate entro il 30 giugno dell'anno successivo alla data di inizio del
possesso o della detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in
comune di un immobile, la dichiarazione Tari può essere presentata solo da
uno degli obbligati. Sono esonerati dall'adempimento coloro che hanno già
denunciato le superfici per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares (articolo
ItaliaOggi del 10.03.2018). |
gennaio 2018 |
|
TRIBUTI: Copertura
ponteggio. Resta la pubblicità.
Il comune che autorizza dei pannelli artistici a copertura di un ponteggio
avallando anche una implicita autorizzazione alla sostituzione della
scenografia con messaggi pubblicitari non può fare marcia indietro ordinando
la rimozione degli impianti commerciali senza un preventivo annullamento in
autotutela.
Lo ha chiarito il TAR Valle d'Aosta con la
sentenza
16.01.2018 n. 4.
Il comune di Courmayeur ha autorizzato sia dal punto di vista
edilizio che paesaggistico l'installazione di pannelli a copertura di un
ponteggio edilizio.
Al momento della sostituzione dei pannelli scenografici con pannelli
pubblicitari l'amministrazione ha ordinato la rimozione degli impianti.
Contro questa decisione l'interessato ha proposto con successo ricorso al
Tar.
Siccome nella relazione tecnico-illustrativa allegata alla licenza comunale
era specificamente prevista la possibilità di sostituire i pannelli
artistici con impianti pubblicitari il comune che voleva rivedere questa
determinazione doveva esercitare il proprio potere in sede di autotutela.
Non ordinare alla ditta di rimuovere impianti pubblicitari in precedenza
implicitamente autorizzati (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.03.2018). |
TRIBUTI: Azioni
civilistiche escluse per i rimborsi
tributari.
Se un comune si rifiuta di restituire l'Ici
o altro tributo versato dal contribuente, in
seguito alla presentazione di un'istanza di
rimborso tardiva, non pone in essere un
comportamento illecito e non dà luogo a un
ingiustificato arricchimento. In questi casi
l'interessato non può proporre un'azione
civilistica di risarcimento danni, di
indebito oggettivo o di arricchimento senza
causa innanzi al giudice ordinario nel più
ampio termine di prescrizione decennale. La
competenza esclusiva a decidere spetta al
giudice tributario, sempre che l'istanza di
rimborso venga presentata nei termini di
legge.
È quanto ha affermato il TRIBUNALE civile di
Bologna, III Sez., con sentenza
12.01.2018.
Per il tribunale, non può essere invocato
dal contribuente un comportamento illecito
dell'amministrazione comunale, ex articolo
2043 del codice civile, con richiesta di
danni, o in alternativa un ingiustificato
arricchimento, solo perché ha pagato l'Ici
in misura maggiorata, rispetto a quella
dovuta, ritenendo illegittimo il rifiuto di
restituzione opposto dall'ente. Secondo il
giudice civile i comportamenti attribuiti
all'ente convenuto «costituiscono tutti
legittimo esercizio del diritto/dovere della
potestà autoritativa correttamente
esercitata». Infatti «non sussiste in
radice un comportamento illecito e men che
meno un atteggiamento anti-doveroso della
volontà».
Quindi, non c'è spazio neppure «per
l'esperita subordinata azione
d'arricchimento senza causa, disciplinata
dall'art. 2041 c.c.». Peraltro, il
contribuente ha fatto rientrare «con meri
artifici retorici» nell'ambito della
giurisdizione ordinaria, ciò che è tutelato
da quella tributaria. Il diritto al rimborso
dell'Ici o di altro tributo «non può
svolgersi secondo il modello dell'indebito
di diritto comune». È invece necessario
osservare le regole di riparto della
giurisdizione e la speciale disciplina
prevista dalle singole leggi d'imposta.
In effetti, per richiedere il rimborso di un
tributo versato e non dovuto, non è ammessa
in via alternativa l'azione di indebito
oggettivo esercitatile dal contribuente nel
termine decennale previsto dal codice
civile. Non esistono rimedi alternativi o
concorrenti alla tutela giudiziale
azionabile dal contribuente innanzi al
giudice tributario, sempre che l'istanza di
rimborso sia stata presentata entro il
termine di decadenza.
Ciò porta a escludere che, decorso il
termine di legge, il contribuente possa
esperire un'azione giudiziale davanti al
giudice tributario o ordinario per
recuperare il maggior tributo versato.
L'intervento del giudice ordinario per
ottenere il rimborso delle imposte non
dovute è ammesso, in base a quanto deciso
dalla Cassazione (sezioni unite, ordinanza
10725/2002), solo quando l'amministrazione
ha già riconosciuto il relativo diritto, ma
non ha provveduto a effettuare il rimborso.
È fondamentale, poi, il rispetto del termine
di decadenza per la presentazione
dell'istanza, previsto dalle singole leggi
d'imposta, per richiedere la tutela
giudiziale del diritto al rimborso. Per
l'Ici e gli altri tributi comunali il
termine di decadenza è cinque anni,
decorrenti dall'eseguito versamento. In caso
contrario, non si forma il silenzio-rifiuto
e si determina l'inammissibilità del ricorso
al giudice tributario, per difetto del
provvedimento impugnabile. Se l'istanza
invece è prodotta nei termini, la tutela del
diritto al rimborso può essere chiesta entro
il termine di prescrizione decennale.
Va ricordato che l'articolo 21 del decreto
legislativo 546/1992, che vale per tutti i
tributi per i quali la legge non fissa un
apposito termine (ad esempio per l'Iva),
prevede che la domanda di restituzione, in
mancanza di disposizioni specifiche, non può
essere presentata dopo due anni dal
pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno
in cui si è verificato il presupposto per la
restituzione
(articolo ItaliaOggi del
17.02.2018). |
dicembre 2017 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Accertamenti
anonimi. Bastano il timbro e le iniziali del
dirigente. CASSAZIONE/ La firma è valida
anche se non risulta leggibile.
È legittimo l'accertamento anche se non
riporta la firma del dirigente ma solo sigla
e timbro. Ma non solo. L'atto può essere
emesso sulla base dei dati raccolti dalla
Guardia di finanza nell'indagine penale
nonostante siano stati trasmessi alle
Entrate senza l'autorizzazione dell'autorità
giudiziaria.
Sono questi, in sintesi, i principi
affermati dalla Corte di Cassazione, Sez. V
civile, con la
sentenza
20.12.2017 n. 30560.
È stato quindi integralmente respinto il
ricorso di una società che lamentava
l'invalidità dell'accertamento privo della
firma leggibile e per esteso del dirigente e
motivato sui dai raccolti nell'ambito
dell'inchiesta penale.
Con riguardo al primo
aspetto gli Ermellini hanno infatti
precisato che la nullità di un atto non
dipende dalla illeggibilità della firma di
chi si qualifichi come titolare di un
pubblico ufficio, ma dall'impossibilità
oggettiva di individuare l'identità del
firmatario dell'atto, con la precisazione
che l'autografia della sottoscrizione non è
configurabile come requisito di esistenza
giuridica degli atti amministrativi.
Sul
secondo fronte il Collegio di legittimità ha
invece ribadito l'autorizzazione
dell'autorità giudiziaria, richiesta dalle
norme per la trasmissione, agli Uffici delle
imposte, dei documenti, dati e notizie
acquisiti dalla Guardia di finanza
nell'ambito di un procedimento penale, è
posta a tutela della riservatezza delle
indagini penali, e non dei soggetti
coinvolti nel procedimento medesimo o di
terzi
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2017).
---------------
MASSIMA
2.4. Il motivo, relativamente alla
censura supra sub a), non pone una
questione motivazionale, ma di
interpretazione della norma, in particolare
se il timbro del titolare dell'Ufficio,
apposto sull'avviso di accertamento,
equivalga al requisito della sottoscrizione,
richiesto dalla norma stessa.
La censura è infondata, tenuto conto delle
caratteristiche formali degli avvisi, che
recano tutti non solo il timbro ma anche la
sigla (come riscontrato dalla Corte mediante
esame dei documenti), ed «avuto
riguardo al consolidato indirizzo della
giurisprudenza di legittimità secondo cui la
nullità di un atto non dipende dalla
illeggibilità della firma di chi si
qualifichi come titolare di un pubblico
ufficio, ma dall'impossibilità oggettiva di
individuare l'identità del firmatario
dell'atto, con la precisazione che
l'autografia della sottoscrizione non è
configurabile come requisito di esistenza
giuridica degli atti amministrativi, quanto
meno quando i dati esplicitati nello stesso
contesto documentativo dell'atto consentano
di accertare la sicura attribuibilítà dello
stesso a chi deve esserne l'autore secondo
le norme positive, come è confermato dal
D.Lgs. 12.02.1993, n. 39, art. 3 il quale,
prevedendo, nel caso di emanazione di atti
amministrativi attraverso sistemi
informatici e telematici, che la firma
autografa sia sostituita dall'indicazione a
stampa, sul documento prodotto dal sistema
automatizzato, del nominativo del soggetto
responsabile, ribadisce sul piano positivo
l'inessenzialità ontologica della
sottoscrizione autografa ai fini della
validità degli atti amministrativi
(cfr. Cass. 1^ sez. 07.08.1996 n. 7234; Id.
I sez. 24.09.1997 n. 9394; id. 3^ sez.
10.02.2000 n. 1458; id. 1^ sez. 28.12.2000
n. 16204; id. 1^ sez. 22.11.2004 n. 21954,
tutte con riferimento ad
ordinanza-ingiunzione. Con specifico
riferimento alla materia tributaria: Cass.
5^ sez. 27.02.2009 n. 4757, secondo cui la
nullità della cartella di pagamento deve
essere esclusa anche in mancanza di
sottoscrizione del funzionario competente se
gli altri elementi formali consentano
inequivocabilmente di riferire l'atto
all'organo amministrativo titolare del
potere di emetterlo; id. 5^ sez. 23.02.2010
n. 4283 secondo cui "l'avviso
di mora emesso dal concessionario del
servizio di riscossione è valido, pur se
privo della sottoscrizione da parte del
funzionario competente, in quanto la carenza
di tale elemento formale non implica alcuna
menomazione né del potere del
concessionario, che dipende da rapporto "a
monte" con l'ente impositore, né della
responsabilità in ordine all'emissione del
singolo alto impositivo, sempre riferibile
nei confronti dei terzi all'ente che lo
emette, a prescindere dall'identità del
funzionario che materialmente lo esegue, né,
a fortiori, delle prerogative e del diritto
di difesa de/soggetto destinatario dell'atto"
(Cass. n. 26176/2011)». |
TRIBUTI: Uffici
postali, niente imposta sulle insegne.
Le insegne degli uffici pubblici di Poste Italiane non avendo la valenza di
messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del
bene o alla fruizione del servizio in vendita, ma limitandosi a fornire agli
interessati le informazioni per l'individuazione del luogo in cui è
possibile fruire del servizio, non scontano l'imposta sulla pubblicità se
sono al di sotto delle dimensioni che la normativa in materia prescrive per
dette installazioni.
Sono queste le precisazioni con cui la Ctp di Pavia, con la
sentenza 13.12.2017 n. 353/2/2017, accoglieva
il ricorso della società Poste Italiane contro l'avviso di accertamento con
cui le veniva contestato l'omesso versamento dell'imposta sulla pubblicità
da parte del comune di Mortara. La ricorrente fondava il ricorso proprio
sulla non corretta applicazione della disciplina relativa all'imposta
comunale sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni introdotta con dlgs
507/1993.
La stessa considera rilevanti ai fini dell'assoggettamento tutti
quei messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica che abbiano
lo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero che siano
finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato. La
ricorrente aggiungeva, inoltre, che le insegne, anche per dimensioni, non
superavano i limiti fissati dalla legge oltre i quali l'imposta era dovuta.
Pertanto la Ctp di Pavia esaminava la documentazione allegata che illustrava
funzione e dimensioni delle suddette insegne pubblicitarie. Le stesse, da
intendersi come ogni scritta in caratteri alfanumerici, completata
eventualmente da simboli o da marchi installata nella sede dell'attività,
non solo si limitavano a contraddistinguere il luogo in cui i servizi sono
resi, ma erano di superficie complessiva inferiore a 5 mq.
Il comma 1-bis
dell'art. 17 del dlgs 507/1993 istitutivo del canone sulla pubblicità,
introdotto dall'art. 10 della legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce infatti
che il canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle attività
commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede
ove si svolge l'attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva
sino a cinque metri quadrati».
Nel caso di specie la società delegata
all'accertamento e alla riscossione dal comune di Mortara utilizzava un
errato sistema di misurazione delle affissioni dell'ufficio pubblico che,
comunque, non superavano le soglie metriche fissate dalla legge ai fini
dell'assoggettamento all'imposta. La Ctp Pavia, pertanto, accoglieva il
ricorso, annullando l'atto di accertamento.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(Omissis) Con l'avviso di accertamento di cui in epigrafe, il Concessionario
del servizio I. srl, addetto al servizio accertamento e riscossione
dell'imposta comunale sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni
del comune di Mortara, accertava a carico della ricorrente
Società Poste italiane spa ( ) ai fini dell'imposta sulla pubblicità per
l'anno 2016, la somma complessiva di € 153,00 per imposta dovuta, interessi
moratori, sanzioni e spese.
Motivi dell'impugnazione.
La società Poste italiane spa proponeva ricorso contestando l'avviso in
epigrafe ed eccependo: in via preliminare e assorbente la violazione e falsa
applicazione dell'art. 17, comma 1-bis, dlgs 507/1993 e della risoluzione del
ministero dell'economia e delle finanze 24/04/2009, n. 2F. La società contesta
infatti di aver omesso il versamento dell'imposta di pubblicità in quanto
questo non era dovuto: la I. srl avrebbe infatti effettuato un calcolo
errato della superficie delle insegne recanti la scritta Poste italiane e
Mortara
( )
Motivi della decisione.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Dalla disamina della
documentazione allegata risulta evidente che le insegne non hanno valenza di
messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del
bene o alla fruizione del servizio in vendita, bensì vanno inquadrate nella
categoria degli avvisi al pubblico e svolgono la mera funzione di fornire
agli interessati le informazioni atte a facilitare e individuare la
fruizione dei servizi resi e la loro sede. ( )
A ciò si deve aggiungere che
nessuna di esse, oltre che anche complessivamente, supera le superfici
minime esenti previste dal legislatore. Il dlgs 507 del 1993, innovato
dall'art. 10, comma 1, lett. C legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce che
l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e
di produzione di beni e di servizi, che contraddistinguono la sede ove si
svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 mq.
( ) nella fattispecie, non viene superato il limite massimo di esenzione dei
5 mq. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.
Le stesse si liquidano a
favore di Poste Italiane in complessivi 200,00, oltre accessori di legge
dovuti.
P.Q.M. Accoglie il ricorso e condanna il comune di Mortara alla rifusione
delle spese del grado liquidate in complessivi 200,00, oltre accessori di
legge dovuti
(articolo
ItaliaOggi Sette del 03.04.2018). |
novembre 2017 |
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TRIBUTI: Locali
agricoli, tassa sui rifiuti assimilati.
I rifiuti prodotti nei fabbricati destinati
all'attività agricola non possono essere
considerati rifiuti solidi urbani. In
mancanza di assimilazione dei rifiuti
agricoli ai rifiuti urbani, industriali o
artigianali, quindi, la richiesta della
tassa è illegittima.
Lo ha stabilito la sezione seconda della Ctp
di Pavia, nella sentenza 16.11.2017 n.
307/2/2017.
Nel caso specifico, il comune di Travacò
Siccomario (comune della provincia di Pavia
posto a 2 chilometri a Sud dal capoluogo,
tra il Ticino e il Po) notificava un avviso
di accertamento a un coltivatore diretto.
L'Ufficio del comune, nell'atto, richiedeva
la Tarsu per l'anno 2011 sui locali
destinati a residenza ed esercizio
dell'attività agricola. L'applicazione della
tassa rifiuti alle superfici produttive di
rifiuti agricoli e ai fabbricati rurali
coincide con quella relativa ai rifiuti
speciali delle attività industriali.
Pertanto, il comune potrà applicare la tassa
alle superfici ove si producono i rifiuti
assimilati, e quindi anche i locali
destinati a capannone o a magazzino
agricolo, solo se avrà provveduto ad
assimilare i rifiuti speciali provenienti
dalle attività economiche, e dunque anche
quelli provenienti dall'attività agricola;
il tutto, sempre che non venga dimostrato
che si tratta di locali inidonei a produrre
rifiuti, a norma dell'art. 62, comma 2, del
dlgs n. 507/1993.
Occorre ricordare che l'art. 66, comma 4,
del dlgs n. 507/1993, ha disposto la facoltà
per i comuni di prevedere nel regolamento la
riduzione della tassa rifiuti in misura non
superiore al 30% per gli agricoltori che
occupano la parte abitativa della
costruzione rurale. In seguito, l'art.
12-bis del dl 20.06.1996, n. 323, convertito
dalla legge 28.12.1995, n. 425, ha stabilito
che i comuni possono prevedere l'esenzione
dalla tassa rifiuti dei fabbricati rurali,
utilizzati come abitazione da produttori e
lavoratori agricoli, sia in attività che in
pensione, e che siano situati in zone
agricole. La portata della norma è stata
ampiamente chiarita con la risoluzione del
Ministero dell'economia e delle finanze n.
272/E del 30/12/1996.
Tuttavia, nel caso specifico, i rifiuti
prodotti nell'esercizio di una attività
agricola, stante la loro specifica e
intrinseca natura (i rifiuti vengono
dispersi in campagna e utilizzati come
concime) non possono essere considerati
rifiuti solidi urbani. Peraltro la loro
assimilazione ai rifiuti urbani o a quelli
industriali o artigianali non era neanche
rinvenibile nel regolamento Tarsu del Comune
accertatore.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA
SENTENZA
[omissis] La contribuente ha presentato
ricorso avverso l'avviso di accertamento n.
1/2016 emesso per l'anno 2011 dal comune di
Travacò Siccomario in materia di Tarsu
(tassa smaltimento rifiuti urbani).
Poiché la ricorrente è coltivatrice diretta,
conduce un fondo rustico con annessi
fabbricati destinati a residenza ed
esercizio della propria attività agricola. È
da precisare che poiché i rifiuti prodotti
nei fabbricati destinati all'esercizio
dell'attività agricola sono qualificati
(materia fecale e altre sostanze naturali
non pericolose utilizzate nell'attività
agricola) vengono smaltiti direttamente
dall'opponente mediante dispersione in
campagna.
OSSERVA
la Commissione che i rifiuti, prodotti nei
fabbricati destinati all'esercizio
dell'attività agricola, non possono
considerarsi rifiuti solidi urbani, stante
la loro specifica e intrinseca natura, la
quale appunto per questo fa sì che essi
vengano dispersi in campagna.
Peraltro la loro assimilazione ai rifiuti
urbani o a quelli industriali o artigianali
non è neanche rinvenibile nel Regolamento
Tarsu del Comune accertatore.
PQM annulla l'atto impugnato. Spese
compensate
(articolo ItaliaOggi
Sette del
22.01.2018). |
TRIBUTI:
Tosap - Esenzioni.
Fermo restando che l’articolo 49, d.lgs.
507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è
prevista l’esenzione dal pagamento della tosap, l’articolo
82 del d.lgs. 117/2017, contenente il Codice del Terzo
settore, consente agli enti locali di introdurre, nel
proprio regolamento, un’ulteriore ipotesi di esenzione,
oltre che di riduzione, dal pagamento della tassa in esame,
che si aggiunge a quelle già contemplate dal summenzionato
d.lgs. 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per
l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il
d.lgs. 460/1997, art. 21, a vantaggio esclusivo delle Onlus,
è stata ora estesa a beneficio di tutti gli enti
appartenenti al cosiddetto Terzo settore che soddisfino i
seguenti requisiti:
- abbiano la veste giuridica di cui all’art. 4, d.lgs. 117/2017
(associazioni di promozione sociale, organizzazioni di
volontariato, associazioni riconosciute o non riconosciute,
eccetera);
- svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico
e sociale di cui all’art. 5 e, quindi, non abbiano per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale;
- siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del
Terzo settore.
L’Ente domanda se, alla luce dell’attuale normativa, sia
legittimo inserire, nel proprio regolamento tosap,
l’esenzione dal pagamento della tassa per manifestazioni
patrocinate dal Comune stesso e organizzate da associazioni
locali di promozione sociale, culturale e ricreativa (ad
esempio, Pro Loco).
Si svolgono, in merito al summenzionato quesito, le seguenti
osservazioni, sentito il Servizio volontariato e lingue
minoritarie della Direzione centrale cultura, sport e
solidarietà.
Fino allo scorso mese di luglio, la normativa di riferimento
al fine dell’inquadramento dell’odierno quesito era
rappresentata principalmente dal decreto legislativo
15.11.1993, n. 507 [1]
e in particolare dagli articoli 49 e 45, comma 7
[2].
Nello specifico, l’articolo 49 del decreto legislativo
507/1993 disciplina le ipotesi di esenzione dal tributo in
esame, tra le quali non rientra la fattispecie delineata
dall’ente instante [3].
L’articolo 45, comma 7, del medesimo decreto stabilisce,
invece, la riduzione della tariffa ordinaria, nella misura
dell’80 per cento, per le occupazioni temporanee realizzate
in occasioni di manifestazioni culturali oltre che politiche
e sportive. Ai sensi della disposizione da ultimo
richiamata, per le manifestazioni culturali, sportive o
politiche (ma non ricreative), la tariffa è, pertanto, pari
al 20 per cento di quella ordinaria, senza alcun potere di
modifica da parte degli enti impositori [4].
Il quadro normativo delineato era poi completato dalla
disposizione di cui all’articolo 23 della legge 07.12.2000,
n. 383 –Disciplina della associazioni di promozione sociale-
che prevedeva la possibilità, per gli enti locali, di
deliberare, a favore delle associazioni regolarmente
registrate, riduzioni -ma non esenzioni- sui tributi di
propria competenza.
In base all’articolo 21, decreto legislativo 04.12.1997, n.
460 [5],
gli enti locali potevano, inoltre, prevedere la possibilità
di riconoscere agevolazioni ed esenzioni in favore dei
soggetti qualificabili come Onlus [6].
Il contesto normativo sopra illustrato è stato parzialmente
riscritto in seguito all’emanazione del decreto legislativo
03.07.2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore
[7], che,
con l’articolo 102, rispettivamente comma 1, lettera a) e
comma 2 lettera a), ha abrogato, tra gli altri, l’articolo
23 della legge 383/2000 e l’articolo 21 del decreto
legislativo 460/1997 [8].
L’articolo 82, comma 7, del decreto legislativo 117/2017
stabilisce la possibilità, per i Comuni, di “deliberare
nei confronti degli enti del Terzo settore che non hanno per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei
tributi di loro competenza e dai connessi adempimenti”
[9] [10].
È necessario, ora, richiamare le particolari disposizioni
che segnano l’entrata in vigore dell’articolo 82, comma 7.
Poiché la summenzionata disposizione prevede, per gli enti
locali, la possibilità di deliberare esenzioni o riduzioni
tributarie, la norma stessa potrebbe dare luogo, seppure
indirettamente, a delle forme di aiuti di stato. Il
legislatore del Codice ha, così, previsto che l’articolo 82
non entri in vigore insieme alla maggior parte delle
disposizioni del decreto legislativo, ma ne ha previsto
un’applicazione differita: o in via transitoria dal
01.01.2018 (soltanto a beneficio di Onlus, organizzazioni di
volontariato e associazioni di promozione sociale) o,
comunque, subordinatamente all’autorizzazione della
Commissione europea, chiamata a verificare la compatibilità
di alcune delle disposizioni del Codice stesso con il
Trattato comunitario ed i principi di quest’ultimo posti a
tutela del mercato unico europeo [11].
Ed invero, ai sensi dell’articolo 104, comma 2, del decreto
legislativo 117/2017, salvo quanto previsto dal comma 1, le
disposizioni del titolo X, che disciplinano il “Regime
fiscale degli enti del terzo settore”, tra cui quella
dell’articolo 82, comma 7 “si applicano agli enti
iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore a
decorrere dal periodo di imposta successivo
all'autorizzazione della Commissione europea di cui
all'articolo 101, comma 10, e, comunque, non prima del
periodo di imposta successivo di operatività del predetto
Registro”.
Ai sensi del medesimo articolo 104, comma 1, tra gli altri,
l’articolo 82, comma 7, si applica, sebbene in via
transitoria, a decorrere dal 01.01.2018 e fino al periodo di
imposta di entrata in vigore delle disposizioni di cui al
titolo X, secondo quanto indicato dal già richiamato comma
2, a favore delle Onlus iscritte negli appositi registri,
delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri
di cui alla legge 11.08.1991, n. 266, nonché alle
associazioni di promozione sociale iscritte nei registi
nazionali e regionali di cui alla legge 383/2000
[12].
Si rammenta che, per l’articolo 4 del Codice del Terzo
settore, sono, tra gli altri, “enti del Terzo settore le
organizzazioni di volontariato, le associazioni di
promozione sociale … le associazioni, riconosciute o non
riconosciute, … gli altri enti di carattere privato diversi
dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo
di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di
interesse generale in forma di azione volontaria o di
erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di
mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed
iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del summenzionato decreto
legislativo 117/2017: “Gli enti del Terzo settore …
esercitano in via esclusiva o principale una o più attività
di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di
lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in
conformità alle norme particolari che ne disciplinano
l'esercizio, le attività aventi ad oggetto: … d) … le
attività culturali di interesse sociale con finalità
educativa; … f) interventi di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive
modificazioni; … i) organizzazione e gestione di attività
culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale,
incluse attività, anche editoriali, di promozione e
diffusione della cultura e della pratica del volontariato e
delle attività di interesse generale di cui al presente
articolo; … k) organizzazione e gestione di attività
turistiche di interesse sociale, culturale o religioso; … t)
organizzazione e gestione di attività sportive
dilettantistiche”.
Richiamata la normativa di riferimento per la fattispecie in
esame, si espongono le seguenti riflessioni.
Fermo restando che l’articolo 49, decreto legislativo
507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è
prevista l’esenzione dal pagamento del tributo, a decorrere
dal periodo di imposta successivo alla predetta
autorizzazione della Commissione europea e, comunque, non
prima del periodo di imposta successivo all’operatività del
Registro unico nazionale del terzo settore, ma, in via
transitoria, a decorrere dal 01.01.2018, a favore di Onlus,
organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione
sociale, purché iscritte negli appositi registri, l’articolo
82 del Codice del Terzo settore consente agli enti locali di
introdurre, nel proprio regolamento tosap, un’ulteriore
ipotesi di esenzione, oltre che di riduzione, dal pagamento
della tassa in esame che si aggiunge a quelle già
contemplate dal summenzionato decreto legislativo 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per
l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il
decreto legislativo 460/1997, articolo 21, a vantaggio
esclusivo delle Onlus, è stata ora estesa a beneficio di
tutti gli enti appartenenti al cosiddetto Terzo settore che
soddisfino i seguenti requisiti:
- abbiano la veste giuridica di cui all’articolo 4, decreto
legislativo 117/2017 (associazioni di promozione sociale,
organizzazioni di volontariato, associazioni riconosciute o
non riconosciute, eccetera);
- svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico
e sociale di cui all’articolo 5 e, quindi, non abbiano per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale;
- siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del
Terzo settore.
In attesa del pronunciamento della Commissione europea su
alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo
117/2017, tra le quali, per quanto qui di interesse,
l’articolo 82, comma 7, che prevede la possibilità, per
tutti gli enti locali, di introdurre, nei propri
regolamenti, ipotesi di esenzione dal pagamento dei tributi
di propria competenza ed in attesa dell’istituzione ed
operatività del Registro unico nazionale per gli enti del
Terzo settore, la disposizione di riferimento rimane,
comunque, l’articolo 49, decreto legislativo 507/1993; e
soltanto per le organizzazioni di promozione sociale, le
Onlus, e le organizzazioni di volontariato anche l’articolo
82, comma 7, decreto legislativo 117/2017, che troverà
applicazione, in via transitoria, a decorrere dal 01.01.2018
(secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1, decreto
legislativo 117/2017).
Conservano, inoltre, valore tutte le osservazioni che questo
Servizio ha già espresso in precedenti pareri in merito alle
esenzioni dal pagamento della tosap, al carattere tassativo
dei casi di dispensa dal pagamento dei tributi ed in merito
all’impossibilità di applicare istituti quali
l’interpretazione analogica ed estensiva alle norme di
natura eccezionale [13].
In conclusione, conformemente alle argomentazioni sopra
esposte, si evidenzia, quanto all’interrogativo sottoposto
all’attenzione dello scrivente, che la fattispecie di
esenzione delineata dall’ente locale –esenzione a favore
delle associazioni locali di promozione sociale culturale e
ricreativa– ferma restando l’applicazione dell’articolo 49,
decreto legislativo 507/1993 e dei suoi limiti, potrebbe
essere ricondotta nel campo di applicazione dell’articolo
82, comma 7, e degli articoli 4 e 5, decreto legislativo
117/2017, con i vincoli temporali di entrata in vigore della
disposizione in materia di tributi locali (articolo 82,
decreto legislativo 117/2017), come sanciti dagli articoli
104, commi 1 e 2 e 101, comma 10, medesimo decreto.
L’ipotesi di occupazione, descritta dall’ente instante, non
può, quindi, essere esonerata dal pagamento della tassa in
esame ai sensi dell'articolo 49 del decreto legislativo
507/1993, in quanto non riconducibile nel suo ambito di
applicazione, riferibile alle sole occupazioni espressamente
e tassativamente individuate dalla medesima norma. La
fattispecie illustrata dal Comune potrebbe, tuttavia, essere
dispensata dal pagamento del tributo, a titolo facoltativo
e, quindi, per volontà del medesimo ente, con apposito atto
deliberativo, in conformità alle previsioni di cui
all’articolo 82, comma 7, decreto legislativo 117/2017,
secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1: e cioè,
in via transitoria, dal 01.01.2018 fino al periodo di
imposta successivo all’autorizzazione della Commissione
europea ed, in ogni caso, fino al periodo di imposta
successivo all’operatività del Registro unico nazionale
degli enti del terzo settore, soltanto a beneficio delle
organizzazioni di volontariato, delle associazioni di
promozione sociale e delle Onlus, purché iscritte negli
apposti registri disciplinati dalle rispettive leggi di
settore.
Ottenuta l’autorizzazione della Commissione europea ed
intervenuta l’operatività del summenzionato Registro, l’ente
locale potrà, invece, deliberare l’esenzione dalla tosap a
beneficio di enti del terzo settore, diversi da quelli
appena richiamati ed in via definitiva anche a beneficio di
questi ultimi, purché regolarmente iscritti nel relativo
Registro unico nazionale, quando entreranno pienamente in
vigore le disposizioni del titolo X, tra cui quella
dell’articolo 82, comma 7, nel rispetto dei termini, già
ampiamente illustrati, di cui all’articolo 104, comma 2 e
101, comma 10; fermi, in tutti i casi, i requisiti di cui
agli articoli 4 e 5 del medesimo decreto.
L’esenzione ipotizzata dall’ente potrà, quindi, essere
conforme alle previsioni del legislatore statale (articolo
82, comma 7, decreto legislativo 117/2017), detentore
esclusivo, nel nostro ordinamento giuridico, della potestà
legislativa primaria in materia di tributi locali
[14] ed
essere, conseguentemente, inserita, con apposito atto
deliberativo, nel regolamento dell’ente locale in materia di
tosap.
---------------
[1] La legge citata si intitola “Revisione
ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e
del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle
province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti
solidi urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n.
421, concernente il riordino della finanza territoriale”.
[2] Si rammenta come la tosap sia regolamentata dalla legge dello
Stato solo per ciò che concerne le disposizioni generali
(articoli 38-57 del decreto legislativo 507/1993). Per le
norme di applicazione è fatto, invece, rinvio ai regolamenti
comunali (si legga “Memento Pratico Fiscale anno 2008”,
Francis Lefebvre, Ipsoa, pagg. 1154-1155 e “Guida operativa
ai tributi locali”, Il Sole 24 Ore, seconda edizione, pag.
141, 147). Nella specifica e puntuale applicazione della
tosap, oltre alla legge statale, i Comuni devono, quindi,
utilizzare lo strumento regolamentare. L’articolo 40 del
decreto legislativo 507/1993 prescrive, invero, agli enti
impositori, di approvare il regolamento per l’applicazione
della tassa in esame, individuando anche un contenuto minimo
che deve essere sempre assicurato all’interno dell’atto
deliberativo in discorso. Esiste, quindi, una parte del
regolamento che l’ente locale deve necessariamente
sviluppare, a fronte di una solamente eventuale. Il
contenuto eventuale sarà regolato in base alla particolare
realtà ed alle specifiche esigenze del Comune, in accordo
con il principio di legalità sancito dall’articolo 23 della
Costituzione e con i limiti espressamente contenuti
nell’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo
15.12.1997, n. 446. L’ente locale deve, quindi,
obbligatoriamente prevedere, all’interno del proprio
regolamento, la disciplina generale delle occupazioni
permanenti e temporanee, con la determinazione di eventuali
aumenti o riduzioni di tariffa, in corrispondenza delle
varie fattispecie individuate dalla legge. L’articolo 52 del
decreto legislativo 446/1997 contiene una norma fondamentale
per la disciplina della potestà regolamentare generale dei
Comuni e ne ha rafforzato l’autonomia già loro attribuita.
Con l’emanazione del decreto legislativo 446/1997, sono,
invero, intervenute importanti modifiche in materia di
gestione del tributo in esame, proprio perché con l’articolo
52 del suddetto decreto, è stata attribuita agli enti locali
un’ampia autonomia regolamentare, relativamente alla
disciplina delle proprie entrate. In tal senso, si legga “La
tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche: i
lineamenti generali del tributo” di Luca Bonadonna, in
“Tributi locali e regionali”, n. 5/2006, pag. 714. Sul
potere regolamentare del Comune in materia di tosap, si
legga anche il parere datato 12.11.2014, protocollo n.
29322, emesso dallo scrivente e consultabile nella relativa
banca dati.
[3] L’articolo 3, comma 67, della legge 28.12.1995, n. 549 apporta
una deroga all’applicazione del decreto legislativo
507/1993, in materia di tosap, ma tale deroga, non
contemplata per le occupazioni in esame, prevede l’esonero
dall’obbligo del pagamento della tassa per manifestazioni o
iniziative a carattere politico, nelle sole circostanze in
cui l’area occupata non sia superiore ai 10 metri quadrati.
Sono politiche quelle manifestazioni poste in essere da
partiti, gruppi politici riconosciuti o da organizzazioni
sindacali dirette al raggiungimento di tale specifica
finalità (Ministero delle finanze, circolare del 25.03.1994,
n. 13/E). Si legga “Guida operativa ai tributi locali”,
cit., pag. 146. Va rilevato, quindi, che, ex articolo 3,
comma 67, legge 549/1995, nei soli confronti dei soggetti
promotori di iniziative a carattere esclusivamente politico,
è disposta l’esenzione dalla tosap, se la superficie
occupata non supera i dieci metri quadrati. Si legga, al
riguardo, “Manuale dei tributi locali”, Maggioli editore, V
edizione, pag. 337.
[4] Si legga, al riguardo, “Manuale dei tributi locali”, cit., pag.
337.
[5] Intitolato “Riordino della disciplina tributaria degli enti non
commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità
sociale”.
[6] L’articolo 21, del decreto legislativo in discorso stabiliva,
infatti, che i Comuni “possono deliberare nei confronti
delle Onlus la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei
tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti”.
[7] Il testo normativo ora richiamato è stato pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 02.08.2017 ed è entrato il vigore il
giorno successivo.
[8] Ai sensi dell’articolo 102, comma 2, lettera a), del decreto
legislativo 117/2017, l’articolo 21 della legge 460/1997 è
abrogato a decorrere dal termine di cui all’articolo 104,
comma 2, medesimo decreto, ovverosia a decorrere dal periodo
di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione
europea di cui all’articolo 101, comma 10, su alcune
disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore,
autorizzazione da richiedere a cura del Ministero del lavoro
e delle politiche sociali. L’abrogazione, comunque, non sarà
efficace prima del periodo di imposta successivo
all’operatività del Registro unico nazionale del Terzo
settore.
[9] Tale possibilità è contemplata in relazione a tutti i tributi
locali diversi dall’imposta municipale propria e dal tributo
per i servizi indivisibili, per i quali l’esenzione dal
pagamento è prevista alle condizioni e nei limiti di cui
comma 6 del medesimo articolo 82.
[10] La disposizione ora richiamata riprende, parzialmente,
estendendone la previsione non solo alle riduzioni ma anche
alle esenzioni, quella contenuta, in relazione alle
associazioni di promozione sociale, nell’articolo 23 della
legge 383/2000, abrogata dall’articolo 102, comma 1, lettera
a) del decreto legislativo 117/2017 e conferma, per le
Onlus, quella contenuta nell’articolo 21 della legge
460/1997, parimenti abrogato dal decreto legislativo
117/2017, nei termini di cui dall’articolo 102, comma 2,
lettera a) e 104, comma 2.
[11] Ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea (nella versione
consolidata, a fronte dell’entrata in vigore il 01.12.2009
del Trattato di Lisbona, firmato, a Lisbona, il 13.12.2007,
dai rappresentanti dei ventisette Stati membri dell’Unione
stessa) “alla Commissione sono comunicati in tempo utile
perché presenti le sue osservazioni, i progetti diretti a
istituire o modificare aiuti”. Se ritiene che un progetto
non sia compatibile con il mercato interno dell’Unione, la
Commissione inizia senza indugio una specifica procedura e
“lo Stato membro interessato non può dare esecuzione alle
misure progettate prima che tale procedura abbia condotto ad
una decisione finale”.
[12] Ai sensi dell’articolo 104, comma 1, decreto legislativo
117/2017, le disposizioni di cui all’articolo 82 “si
applicano in via transitoria a decorrere dal periodo di
imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017
(quindi dal 01.01.2018 n.d.r.) e fino al periodo d'imposta
di entrata in vigore delle disposizioni di cui al titolo X
secondo quanto indicato al comma 2, alle Organizzazioni non
lucrative di utilità sociale di cui all'articolo 10, del
decreto legislativo 04.12.1997, n. 460 iscritte negli
appositi registri, alle organizzazioni di volontariato
iscritte nei registri di cui alla legge 11.08.1991, n. 266,
e alle associazioni di promozione sociale iscritte nei
registri nazionali, regionali e delle provincie autonome di
Trento e Bolzano previsti dall'articolo 7 della legge
07.12.2000, n. 383”.
[13] Si leggano i pareri datati 19.08.2010, protocollo n. 13660,
19.09.2013, protocollo n, 26839, emessi dallo scrivente e
consultabili nella relativa banca dati, oltre che il più
recente parere datato 14.09.2017, protocollo n. 9264,
parimenti consultabile nella relativa banca dati.
[14] In tal senso, Corte Costituzionale, 22-24.02.2006, n. 75, ove
si legge che l’articolo 117, comma 2, lettera e), Cost.
riserva, al legislatore nazionale, la competenza esclusiva
nella materia del sistema impositivo, essendo i tributi
erariali istituiti da legge dello Stato e da questa
disciplinati, salvo quanto espressamente rimesso
all’autonomia dei Comuni. Si legga “Limiti al potere di
introdurre per via regolamentare esenzioni ed agevolazioni
nella disciplina dei tributi locali (nota a Corte Cost. n.
75/2006)” di Andrea Giovanardi, in “Rivista di diritto
tributario”, n. 7-8/2006, II, pagg. 545 e ss. (07.11.2017
- link a
www.regione.fvg.it). |
ottobre 2017 |
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TRIBUTI:
Pagamento IMU e TASI appartamento in costruzione.
Domanda
Come considerare, ai fini IMU e TASI, un appartamento in
corso di costruzione (senza rendita) nel caso di fabbricato
composto anche da altre unità immobiliari già finite ed
accatastate? Inoltre, in caso di pagamento dovuto, occorre
sanzionare il contribuente?
Risposta
Le categorie catastali fittizie F3 ed F4 (rispettivamente
“in corso di costruzione” e “in corso di definizione”) sono
da considerarsi provvisorie, dai 6 ai 12 mesi, con
possibilità di ottenere la proroga con la presentazione di
un’apposita dichiarazione del proprietario circa la mancata
ultimazione dell’immobile (cfr. Agenzia del Territorio,
Circolare n. 4/2009).
Si tratta, tuttavia, di una prassi totalmente disattesa, con
la conseguenza che dopo anni si ritrovano diversi immobili
ancora accatastati in tali categorie, ancorché
“provvisorie”.
Ciò posto, l’imponibilità come area fabbricabile dell’unità
immobiliare accatastata in F3 è stata recentemente affermata
dalla Cassazione con sentenza n. 11694 del 11.05.2017,
che ha sancito il seguente principio di diritto: “in tema di
imposta comunale sugli immobili, l’accatastamento di un
nuovo fabbricato nella categoria fittizia delle unità in
corso di costruzione non è presupposto sufficiente per
l’assoggettamento ad imposta del fabbricato stesso, salva la
tassazione dell’area edificatoria e la verifica sulla
pertinenza del classamento”.
Pertanto, nel caso di edificio composto da un’unica unità
immobiliare con categoria catastale F3 (in corso di
costruzione), si deve prendere come riferimento il valore
dell’intera area edificabile, quale base imponibile per il
calcolo dell’IMU e della TASI.
Nel caso, invece, di edificio composto da più unità
immobiliari di cui solo una in corso di costruzione
(fattispecie descritta nel quesito), l’IMU e la TASI devono
calcolarsi sul valore dell’area fabbricabile in misura
proporzionale alla quota di incidenza dell’unità non
ultimata rispetto a tutte le unità che insistono sull’intera
area fabbricabile. Ad esempio, se l’edificio è composto da
quattro unità immobiliari con caratteristiche simili (da
considerarsi a lavori completati), di cui tre finite e una
in corso di costruzione, si può prendere come riferimento il
25% del valore dell’area edificabile.
Infine, in ordine alle sanzioni, si ritiene sussistente
l’esimente delle obiettive condizioni di incertezza sulla
portata applicativa della norma (ex art. 5, comma 2, del
d.lgs. 472/1997 e art. 10, comma 3, della l. 212/2000),
trattandosi di un orientamento giurisprudenziale recente ed
in presenza di pregresse indicazioni contrastanti di
Cassazione e prassi ministeriale (cfr. Cass. n. 10735/2013 e
n. 5166/2013, MEF risoluzione n. 8/DF del 22/7/2013) (23.10.2017 - link a
www.publika.it). |
TRIBUTI:
Niente prelievo sul collabente privo di rendita.
I fabbricati collabenti, iscritti in catasto con la
categoria F2, senza attribuzione di rendita, non sono
soggetti a Ici né come fabbricati né come area fabbricabile.
Tanto, finché non si procede alla competa demolizione
dell’unità in esame.
La precisazione è contenuta nella
sentenza 11.10.2017 n. 23801
della Corte di Cassazione, Sez. V civile, che conferma il
precedente in materia della sentenza 17815/2017.
Il comune aveva emesso un accertamento Ici nei riguardi di
un immobile risultante in catasto nella categoria F2, privo
di rendita. L’accertamento aveva ad oggetto, in realtà, non
già il fabbricato bensì l’area di sedime dello stesso,
qualificata come area fabbricabile alla luce delle
previsioni dello strumento urbanistico.
La Suprema corte ha tuttavia annullato l’avviso di
accertamento procedendo a una sintetica ricostruzione degli
elementi strutturali dell’Ici, valevole anche per l’Imu,
stante la sostanziale identità di disciplina.
Viene in primo luogo evidenziata la diversità concettuale
tra fabbricato inagibile e fabbricato collabente. Nel primo
caso, si è di fronte ad una unità che ha perso parte delle
sue potenzialità funzionali per effetto di eventi
sopravvenuti. Ad essa compete pertanto la riduzione a metà
della base imponibile. Nella fattispecie di fabbricati
collabenti, invece, si è a cospetto di immobili che sono
privi di qualunque forma di potenziale utilizzabilità per il
possessore, tant’è che gli stessi sono iscritti in catasto
senza attribuzione di rendita.
In entrambe le situazioni, tuttavia, è configurabile una
unità immobiliare riconducibile alla nozione di fabbricato,
circostanza questa che esclude la possibilità di ravvisare
sia l’area edificabile che quella di terreno agricolo.
D’altra parte la tripartizione nell’applicazione
dell’imposta (fabbricati, aree fabbricabili e terreni
agricoli) è tassativamente tipizzata nella disciplina di
riferimento, di tal che non appare ipotizzabile un
quartum genus, nella forma dell’«area edificata».
La conclusione della Suprema corte è dunque nel senso che,
sino a quando il fabbricato collabente risulterà così
identificato in catasto, lo stesso non potrà in alcun modo
essere assoggettato a imposizione, né come fabbricato, per
totale mancanza di base imponibile, né come area
edificabile. Tale situazione tuttavia cessa di esistere
quando si provvede alla totale demolizione dei “resti”
del fabbricato, poiché in questa eventualità l’area di
risulta, ove potenzialmente edificabile, va considerata come
suolo fabbricabile.
In proposito, si ricorda peraltro che l’area ove in concreto
si svolgono lavori di edificazione è comunque qualificata
come fabbricabile, anche in deroga a eventuali difformi
previsioni urbanistiche (articolo 5, comma 6, del Dlgs
504/1992, richiamata anche nell’Imu).
Nella precedente sentenza 17815/2017 è stato, inoltre,
segnalato che i Comuni possono reagire a eventuali
comportamenti elusivi dei contribuenti, contestando
l’accatastamento in F2. Ciò accade ad esempio quando l’unità
non è individuale o perimetrabile (articolo Il Sole 24
Ore del 12.10.2017).
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MASSIMA
1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione
degli artt. 2 e 5 d.lgs. 504/1992, per aver il giudice
d'appello ritenuto tassabile come area edificabile l'area
d'insistenza di un fabbricato di categoria F/2 (c.d. unità
collabenti).
2. Il motivo è fondato.
La Corte ha avuto modo di precisare che non
è tassabile come area edificabile l'area d'insistenza di un
fabbricato diroccato e tuttavia non demolito, mentre è
tassabile l'area di risulta della demolizione
(Cass. 23.02.2010, n. 4308).
Ciò deve essere ribadito, poiché
l'insistenza di un fabbricato riconoscibile per tale esclude
che venga in autonomo rilievo l'area di sedime, come si
evince dall'art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. 504/1992 («...
considerandosi parte integrante del fabbricato l'area
occupata dalla costruzione ...»).
Il regime tributario del fabbricato inagibile si diversifica
poi in rapporto all'incidenza del deterioramento sulle
potenzialità funzionali e reddituali del bene, le quali
costituiscono indice di capacità contributiva:
a) il fabbricato semplicemente inagibile ha una potenzialità
marginale e pertanto sconta l'imposta con riduzione del 50%
(art. 8, comma 1, d.lgs. 504/1992);
b) il fabbricato collabente (cioè in rovina, dall'etimo latino
collabi, collapsus) è privo di ogni potenzialità
e va pertanto esente da imposta, sin quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora va tassata come tale, fino al subentro della
tassazione del fabbricato ricostruito (art. 5, comma 6,
d.lgs. 504/1992).
3. Vale il seguente principio di diritto: «in
tema di imposta comunale sugli immobili, il fabbricato
accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a
non essere tassabile come fabbricato in quanto privo di
rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino
a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia
all'area fabbricabile, che da allora è tassabile come tale,
fino al subentro della tassazione del fabbricato ricostruito».
Discostatasi da questo principio attraverso il richiamo di
un precedente non conferente (Cass. 01.03.2013, n. 5166,
relativa alla c.d. edificabilità di fatto), la sentenza deve
essere cassata in accoglimento del primo motivo di
ricorso.
4. Non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve
essere decisa nel merito, con l'annullamento dell'avviso di
accertamento; restano assorbiti il secondo e terzo motivo di
ricorso, entrambi concernenti il profilo accessorio delle
sanzioni.
5. Solo in tempi recenti si è formata una
specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità
collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione
sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia
dell'area d'insistenza perché già edificata
(Cass. 19.07.2017, n. 17815): ciò impone di compensare le
spese processuali di ogni fase e grado.
6. Nella discussione d'udienza, il Pubblico Ministero ha
manifestato dissenso rispetto a questo orientamento di
legittimità, assumendo che:
i) l'unità collabente sia catastalmente irrilevante, perciò
incapace di negare l'autonoma considerazione fiscale
dell'area d'insistenza;
ii) detta esegesi implichi il paradosso dell'integrale esonero
impositivo dell'area edificata con fabbricato collabente,
area invece tassata come edificabile se libera da tale
fabbricato.
7. Ritiene il Collegio di poter assicurare continuità alla
recente giurisprudenza della Corte, osservando che:
i) l'unità collabente ha una sua propria rilevanza
catastale, seppur a fini meramente identificativi, cioè
senza attribuzione di rendita (art. 3, comma 2, lett. b,
d.m. 28/1998);
ii) l'area libera da cascami edilizi versa in condizione di pronta
edificabilità, mentre l'area impegnata da rovine esige
interventi di demolizione e bonifica necessari a reintegrare
in concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non
potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche
sotto il profilo della capacità contributiva del
proprietario
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 11.10.2017 n. 23801). |
luglio 2017 |
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TRIBUTI:
a. il fabbricato collabente iscritto in conforme
categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò
non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs.
504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5
d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e
l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può
essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a
riferimento la base imponibile costituita dal valore venale
dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge
prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei
terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella
già edificata;
c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da
cessione di area edificabile, non può essere considerata
tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di
risanamento conservativo per la quale la normativa comunale
preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento
delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di
incrementi volumetrici.
---------------
§ 5. Si ravvisa invece la fondatezza delle doglianze
concernenti la violazione o falsa applicazione, ex art. 360,
1° co., n. 3, cod. proc. civ., della normativa Ici di
riferimento (quarto e quinto motivo di
ricorso).
La tesi della società contribuente -secondo cui (ric. pag.7)
"nulla risulta quindi dovuto ai fini Ici: i fabbricati
sono collabenti e privi di rendita e quindi non soggetti
all'imposta, e le aree sulle quali essi insistono non sono
né agricole (stante la presenza su di esse degli ex
opifici), né edificabili (stante il dettato dello strumento
urbanistico)"- deve trovare accoglimento nei termini che
seguono.
In forza dell'articolo 5 d.lgs. 504/1992, nel caso di area
edificata la base imponibile Ici è determinata dal valore
del fabbricato (1° co.); per í fabbricati iscritti in
catasto, tale valore è stabilito applicando un determinato
moltiplicatore alla rendita catastale vigente al 1° gennaio
dell'anno di imposizione (2° co.); la base imponibile è
invece costituita dal valore dell'area, considerata
fabbricabile, allorquando nell'anno di imposizione vi sia
utilizzazione edificatoria in corso dell'area stessa,
demolizione di fabbricato ovvero realizzazione di interventi
di recupero ai sensi dell'articolo 31, 1° co., legge
457/1978 lett. c), d) ed e) (6° co.).
L'applicazione di queste prescrizioni al caso di specie
induce ad escludere la fondatezza dell'avviso di
accertamento e liquidazione opposto; relativo a fabbricati
in stato di rovina e, come tali, iscritti fin dal 1999 in
categoria catastale F/2. L'attribuzione di questa categoria
(prevista dal D.M. Finanze 28/1998) presuppone infatti che
il fabbricato si trovi in uno stato di degrado tale da
comportarne l'oggettiva incapacità di produrre
ordinariamente un reddito proprio; per tale ragione
l'iscrizione in catasto avviene senza attribuzione di
rendita, ed al fine "della sola descrizione dei caratteri
specifici e della destinazione d'uso" (art. 3, 2° co.,
D.M. cit.).
In assenza di rendita, viene meno -secondo la su richiamata
disciplina istitutiva- la stessa materia determinativa della
base imponibile.
Non varrebbe obiettare, con il Comune, che l'iscrizione in
categoria catastale F/2 si presterebbe, secondo tale
interpretazione, a facile elusione dell'imposta mediante
qualificazione catastale come 'collabenti' di
fabbricati invece ancora suscettibili di apprezzabile
rilievo economico ed appetibilità commerciale.
In tale situazione, certamente possibile, sussisterebbero
infatti i presupposti per impugnare tale classificazione,
facendone emergere la sua difformità rispetto allo stato di
fatto; e ciò tenendo anche presente quanto stabilito dalla
nota 29439/2013 della Direzione Centrale Catasto e
Cartografia dell'Agenzia delle Entrate, secondo la quale
l'attribuzione della categoria in oggetto (tanto alle
abitazioni quanto ai fabbricati produttivi) "non è
ammissibile quando l'unità immobiliare è censibile in
un'altra categoria, o quando l'unità non è individuabile o
perimetrabile".
Ora, nel caso di specie non di questo si discute; dal
momento che l'effettiva spettanza, agli immobili della
ex-acciaieria, della classificazione catastale F/2 di
collabenza da essi conseguita (con quanto ne deriva in
ordine alla inesistenza di rendita ed alla inidoneità alla
produzione di reddito imponibile) non è stata posta in
discussione nemmeno dall'amministrazione comunale, così da
costituire -quantomeno per l'annualità Ici di riferimento-
un dato obiettivo e certo di causa.
Altro è a dire che, esclusa sul fabbricato, l'imposizione
Ici dovrebbe colpire l'area di insistenza del fabbricato
medesimo.
Si tratta di tesi che la commissione tributaria regionale ha
ritenuto di accogliere osservando come, nella specie, vi
fossero gli estremi per reputare "edificabile l'area già
edificata"; e ciò in forza di un programma di
fabbricazione e di un decreto assessoriale "che
consentono per gli opifici industriali già esistenti
interventi di manutenzione".
Questa soluzione non è giuridicamente corretta.
Va infatti considerato che gli elementi della fattispecie
impositiva sono prestabiliti dalla legge secondo criteri di
certezza e tassatività, e che -nel caso dell'Ici- la legge
sottopone ad imposta (art.1 d.lgs. 504/1992) unicamente (il
possesso di) queste tre ben definite tipologie di beni
immobili: fabbricati, aree fabbricabili, terreni agricoli.
Come sì è detto, il fabbricato iscritto in
categoria catastale F/2 non cessa di essere tale sol perché
collabente e privo di rendita; lo stato di collabenza ed
improduttività di reddito, in altri termini, non fa venir
meno in capo all'immobile -fino all'eventuale sua completa
demolizione- la tipologia normativa dì 'fabbricato'.
Tanto è vero che la mancata imposizione si giustifica, nella
specie, non già per assenza di 'presupposto' ex arti
cit., ma per assenza di 'base imponibile' (valore
economico pari a zero) ex art. 5 cit..
Sennonché, esclusa la rilevanza tassabile
del fabbricato collabente, l'imposizione Ici non potrebbe
essere 'recuperata' dall'amministrazione comunale
facendo ricorso ad una base imponibile tutt'affatto diversa:
quella attribuibile all'area di insistenza del fabbricato.
Ciò perché quest'ultima non rientra in nessuno dei
presupposti Ici, trattandosi all'evidenza di area già
edificata, e dunque non di area edificabile.
L'inconciliabilità fra queste due ultime
nozioni non è solo concettuale, ma anche giuridica; dal
momento che, diversamente ragionando, si verrebbe
inammissibilmente ad introdurre nell'ordinamento -in via
interpretativa- un nuovo ed ulteriore presupposto d'imposta,
costituito appunto dall'"area edificata".
In tal senso si è già pronunciata questa corte di cassazione
(sent. n. 4308/2010) la quale -investita di una fattispecie
analoga alla presente- ha ritenuto che la decisione del
giudice di secondo grado, volta a consentire il ricalcolo
dell'Ici sulla base del valore attribuito all'area
edificabile sulla quale sussisteva un fabbricato fatiscente,
non potesse ritenersi corretta; dal momento che "non
sono parificabili, per scelta del legislatore, l'ipotesi
dell'area risultante dalla demolizione di un rudere e quella
dell'immobile dichiarato inagibile ma non demolito; con la
conseguenza che, in tale ultima ipotesi, il giudice di
merito non può stabilire una categoria nuova ed ulteriore
rispetto a quelle previste dal legislatore".
Osserva il Comune che, come rilevato dal giudice di appello,
l'area già sede della ex-acciaieria può essere fatta oggetto
di interventi edilizi di recupero e manutenzione
straordinaria, sebbene limitati alla conformazione
originaria ed alla volumetria esistente; e che, in ragione
di ciò, essa mantiene una apprezzabile appetibilità
commerciale, tanto da poter essere destinata ad impieghi
edilizi speculativi mediante, appunto, ricostituzione dei
fabbricati fatiscenti.
Nel caso di specie è in effetti pacifico che i terreni
dov'era situato l'opificio dismesso, ancorché ricadenti in
un più ampio ambito destinato a verde agricolo ('Zona E'),
mantenevano, in base al PRG, la pregressa destinazione
urbanistica di impiego produttivo- industriale, sebbene per
la sola realizzazione di interventi di manutenzione; e
tuttavia l'argomento dedotto dal Comune non può dirsi
dirimente.
Va intanto considerato che la presente controversia ha ad
oggetto, non già il valore commerciale ipoteticamente
attribuibile all'area in questione nella prospettiva
dinamica della sua futura valorizzazione edilizia ed
urbanistica, ma soltanto i presupposti dell'imposizione Ici
relativi ad una determinata annualità (2002).
Sicché non sembra che possa qui prescindersi dal dato
oggettivo e pacifico in uso, secondo cui in tale annualità
(ferma restando la riconsiderazione della fondatezza della
pretesa impositiva del Comune con riguardo ad annualità
successive, nel corso delle quali quella valorizzazione
abbia, in ipotesi, trovato sbocco concreto), si verteva
appunto e soltanto di un fabbricato collabente fatto oggetto
di conforme ed incontestata iscrizione catastale; non
dedotto in alcun intervento in corso, né in alcuna
convenzione o pratica amministrativa pendente di recupero e
valorizzazione edilizia (con conseguente esclusione altresì
dell'ipotesi di cui al 6° co. dell'art. 5 d.lgs. 504/1992).
Oltre a ciò, deve comunque considerarsi errato lo stesso
richiamo alla edificabilità dell'area di insistenza del
fabbricato fatiscente.
Soccorre, in proposito, quanto già osservato -con riguardo
ad immobili della Acciaieria di Sicilia spa e siti in
Campofelíce di Roccella- da Cass. ord. nn. 20160-3/14 (Ici
2003-2006); secondo cui "non può essere
considerata edificabile l'area inserita dallo strumento
urbanistico nella zona omogenea A 'residenziale storica di
risanamento conservativo' ancorché per tale area la
normativa comunale preveda solo interventi edilizi di
recupero e risanamento delle costruzioni esistenti, senza
possibilità di incrementi volumetrici".
Si tratta di conclusione armonica rispetto all'indirizzo di
legittimità formatosi in materia di plusvalenze reddituali
realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni
suscettibili di utilizzazione edificatoria, secondo gli
strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione
stessa [art. 81, comma 1, lett. B), T.U.I.R., ora art. 67]:
Cass. nn. 15631/2014; 4150/2014; 15321/2013.
I motivi di ricorso in esame vanno pertanto accolti,
mediante affermazione del principio secondo cui:
a. il fabbricato collabente iscritto in conforme
categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò
non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs.
504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5
d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e
l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può
essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a
riferimento la base imponibile costituita dal valore venale
dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge
prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei
terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella
già edificata;
c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da
cessione di area edificabile, non può essere considerata
tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di
risanamento conservativo per la quale la normativa comunale
preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento
delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di
incrementi volumetrici
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 19.07.2017 n. 17815). |
maggio 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
I diritti edificatori.
DOMANDA:
Vorremmo sapere se i cosiddetti diritti edificatori, ossia
quelle cubature non legate ad una specifica area edificabile
ma che possono essere utilizzate in altre zone del
territorio comunale oppure essere acquistate e vendute,
siano o meno soggette ad IMU ed eventualmente in che misura.
RISPOSTA:
Il diritto urbanistico statale o regionale prevede diversi
istituti giuridici volti a trasferire le capacità
edificatorie, che sono suscettibili di incidere sul valore
venale dell’area fabbricabile, tra i quali si menzionano i
seguenti:
- Trasferimento di cubatura; in virtù delle
prescrizioni dello strumento urbanistico, è possibile cedere
una quota di cubatura edificabile per consentire ad un altro
soggetto di disporre della minima estensione di terreno
richiesta per l’edificazione, oppure di realizzare una
volumetria maggiore di quella consentita dalla superficie
del suo fondo,
- Traslazione del diritto ad edificare; il
titolare del diritto ad edificare già assentito (tramite
permesso di costruire o altro titolo), quando non possa più
esercitare tale diritto a causa di un sopravvenuto vincolo
non urbanistico (ad esempio, di tipo paesaggistico), ha
facoltà di chiedere di esercitarlo su un’altra area del
territorio comunale, della quale abbia disponibilità,
-
Diritto di rilocalizzazione, in base al quale il
proprietario di un edificio, che dovrà essere demolito, o la
cui esistenza è incompatibile con la realizzazione di opere
pubbliche, potrà ricostruirlo in un’altra zona di sua
proprietà nell’ambito dello stesso comune, anche in deroga
alle limitazioni derivanti dal piano regolatore generale. Il
diritto, con il consenso del comune, è trasferibile a terzi.
La natura di tali diritti è stata a lungo controversa; a
proposito del diritto di rilocalizzazione previsto dalla
legge regionale dell’Emilia Romagna, n. 38 del 01.12.1998, l’Agenzia delle Entrate, con R.M. 233/E del 20.08.2009 ha chiarito che esso è strutturalmente assimilabile
alla categoria dei diritti reali di godimento. E’ questa la
strada seguita recentemente dal legislatore: l’art. 5, co.
3, del d.l. 70/2011 ha stabilito la trascrivibilità nei
registri immobiliari dei contratti che trasferiscono,
costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque
denominati, integrando le previsioni dell’art. 2643 c.c.
In ogni caso, il trasferimento dei diritti edificatori ha
effetto sulla determinazione dell'IMU: con tali negozi
giuridici, si modifica la valutazione del suolo
fabbricabile, la cui base imponibile è determinata anche in
funzione delle potenzialità edificatorie; i diritti
trasferiti non costituiscono un’area fabbricabile autonoma,
ma viene inciso, unicamente, il valore venale dei terreni
interessati. In conclusione, i diritti edificatori non hanno
una tassazione autonoma ma sono rilevanti nella valutazione
dell’area fabbricabile, quando sono ad essa legati (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
aprile 2017 |
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TRIBUTI: Notifiche
a mezzo posta, un pieno di insidie.
Dalle notifiche a mezzo posta degli atti
tributari un pieno di insidie per i
contribuenti.
Secondo una recentissima sentenza della
Corte di Cassazione alle notifiche fiscali
si applica infatti la disposizione contenuta
nell'articolo 1335 del codice civile secondo
la quale «ogni dichiarazione diretta a una
determinata persona si reputa conosciuta nel
momento in cui giunge all'indirizzo del
destinatario, se questi non prova di essere
stato, senza sua colpa, nell'impossibilità
di averne notizia».
Se questa tesi dei giudici di legittimità
(Sez. V civile) contenuta nella
sentenza
26.04.2017 n. 10245, dovesse affermarsi, ne
deriverebbero gravi conseguenze per i
contribuenti.
In quanto si verrebbe ad affermare che la
notifica è giunta a buon fine anche quando
l'atto venga consegnato ad un soggetto che
si trovi in loco del tutto per caso, come un
conoscente del figlio del destinatario
oppure, al limite, a chi si è introdotto
abusivamente nella proprietà altrui. Ponendo
sul destinatario l'onere della prova -difficile e quasi diabolica- di essere
stato senza colpa nell'impossibilità di
avere notizia della circostanza.
In ambito tributario infatti a seguito della
notifica scatta un breve termine entro il
quale il debitore deve contestare nelle
forme di legge la pretesa del Fisco (in
genere ricorrendo alla giustizia
tributaria); se egli resta inerte la pretesa
fiscale si «consolida», cioè si ha per
definitivamente accertata.
Di qui l'enorme rilievo che assumono del
diritto tributario le norme sulla notifica
degli atti impositivi.
Per quanto sopra illustrato molto spesso
accade che il contribuente venga a
conoscenza della pretesa fiscale solo quando
inizia la procedura di riscossione coattiva.
E in quel momento affermi di non aver avuto
notizia dell'atto di accertamento. Ma questa
sua asserita ignoranza è irrilevante se
l'atto impositivo è stato notificato,
secondo regole e prassi che tendono ad
avvantaggiare il Fisco, ad esempio
consentendogli di ricorre al servizio
postale; né è necessaria la prova che il
contribuente abbia ricevuto materialmente
l'atto impositivo, ma è sufficiente che esso
sia giunto in un'area, come la buca delle
lettere, ove il contribuente avrebbe potuto
prenderne visione; o a mani di una persona
che si può presumere gli consegni la
missiva.
Legge e regolamento postale individuano poi
i soggetti cui l'atto inviato per posta può
essere consegnato; si tratta di un elenco
piuttosto ampio, ma ove la consegna avvenga
a chi non ha alcun legame con il
contribuente e con il luogo della notifica,
sarebbe logico ritenere che la notifica non
sia andata a buon fine.
Nei rapporti di diritto civile invece il
creditore non è collocato in una posizione
istituzionale di vantaggio rispetto al
debitore, e perciò la notifica informa
soltanto il debitore di quanto da lui si
pretende; ed impedisce il venir meno del
diritto (per prescrizione o decadenza). Ma
il debitore non ha, di regola, alcun onere
di replicare alla richiesta pervenutagli. E
se il creditore vorrà realizzare il suo
diritto dovrà rivolgersi al giudice, avanti
al quale il debitore potrà difendersi.
Dunque nei rapporti privati la applicazione
dell'art. 1335 del codice civile produce
effetti limitati Mentre l'applicazione del
medesimo principio alla notifica degli atti
tributari produce effetti negativi
dirompenti per il presunto debitore. E
simile applicazione estensiva dell'art. 1335
pare tradisca la funzione della norma, che
è, inserita nel libro quarto (delle
obbligazioni) nel capo II (dei contratti in
generale) del codice civile; e quindi non è
stata concepita per regolare un rapporto
pubblicistico come quello tributario, che è
fondato non sul consenso contrattuale, bensì
sul potere impositivo dello Stato
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017). |
marzo 2017 |
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TRIBUTI:
Giurisdizione del giudice tributario per le controversie
sulla restituzione di canoni per installazione di mezzi
pubblicitari non dovuti.
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Giurisdizione – Pubblicità – Canone installazione di
mezzi pubblicitari – Restituzione somma indebitamente
versata – Diniego del Comune – Controversia – Art. 19, comma
1, lett. g), d.lgs. n. 546 del 1992 – Giurisdizione giudice
tributario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice tributario, ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett.
g), d.lgs. 31.12.1992, n. 546, la controversia avente ad
oggetto il diniego, opposto da un Comune, restituzione del
canone, previsto dall'art. 62, d.lgs. 31.12.1997, n. 446, di
installazione dei mezzi pubblicitari, asseritamente versato
in eccedenza al dovuto nel periodo 2005/2013, costituendo
una mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità e
conservando, quindi, la qualifica di tributo propria di
quest'ultima (1).
---------------
(1)
Ad avviso del Tar sussiste quindi la giurisdizione del
giudice tributario ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. g,
d.lgs. 31.12.1992, n. 546, il quale annovera tra gli atti
impugnabili innanzi alla Commissione tributaria “il
rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi,
sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non
dovuti”.
Il Tar ha escluso possa richiamarsi, a sostegno della
propria giurisdizione, l’indirizzo giurisprudenziale secondo
cui deve essere affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo in materia di impugnazione di regolamenti o
di deliberazioni comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, in quanto il ricorso in
questione si incentra sulla natura indebita del pregresso
pagamento del tributo e sull’obbligo di restituzione da
parte del Comune, stante la dedotta illegittimità del canone
fissato relativamente al periodo 2005/2013 (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 20.03.2017 n. 438
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: La
violazione di circolari ministeriali non può costituire
motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della
violazione di legge; posto che esse non contengono norme di
diritto, bensì mere disposizioni di indirizzo uniforme
interno all'Amministrazione da cui promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di
meri atti amministrativi non provvedimentali, e che
escludono che esse possano fondare posizioni di diritto
soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione
stessa.
A questa regola non si sottraggono le circolari
dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri
discrezionali nella determinazione delle imposte dovute,
regolata per legge), le quali non vincolano né i
contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto,
anch'esse esenti dal controllo di legittimità
---------------
§ 3. Con il terzo motivo di ricorso ci si duole di
violazione o falsa applicazione della circolare dell'Agenzia
delle Entrate n. 6/E del 06.02.2007, e dell'articolo 52
decreto legislativo 446/1997 (potestà regolamentare dei
Comuni in materia di tributi locali); per avere la
Commissione Tributaria Regionale ritenuto legittimo l'avviso
di rettifica, nonostante che quest'ultimo -in violazione
della circolare- si fosse basato, nella stima non di un
fabbricato ma di un'area edificabile non urbanizzata, sui
listini OMI, invece che sulle valutazioni rese dai Comuni a
fini ICI.
La censura è inammissibile nella parte in cui intende far
valere la violazione della circolare dell'Agenzia delle
Entrate n. 6/E del 06.02.2007; è invece infondata nella
parte in cui deduce la violazione o falsa applicazione della
disciplina legislativa in materia di determinazione del
valore venale degli immobili e dei diritti reali
immobiliari.
Per quanto concerne il primo aspetto, va qui
riaffermato che la violazione di circolari ministeriali non
può costituire motivo di ricorso per cassazione sotto il
profilo della violazione di legge; posto che esse non
contengono norme di diritto, bensì mere disposizioni di
indirizzo uniforme interno all'Amministrazione da cui
promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di
meri atti amministrativi non provvedimentali, e che
escludono che esse possano fondare posizioni di diritto
soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione
stessa. A questa regola non si sottraggono le circolari
dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri
discrezionali nella determinazione delle imposte dovute,
regolata per legge), le quali non vincolano né i
contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto,
anch'esse esenti dal controllo di legittimità (Cass. n.
16612/2008; n. 11449/2005).
Né può omettersi di considerare come la stessa circolare qui
invocata dai contribuenti comunque dettasse,
nell'indicazione dei parametri valutativi di fabbricati e
terreni edificabili, prescrizioni puramente indicative e non
cogenti nemmeno per gli stessi uffici accertatori
destinatari: "per le aree fabbricabili, gli uffici
'potranno' fare riferimento alle determinazioni di valore
eventualmente adottate dai Comuni ..."
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 08.03.2017 n. 5937). |
febbraio 2017 |
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TRIBUTI: Tari,
giudici senza poteri su agevolazioni e sconti.
Il giudice non può sostituirsi all'amministrazione comunale
nella scelta di concedere sconti, agevolazioni, riduzioni e
esenzioni Tari. Spetta al comune il potere di riconoscere
con regolamento eventuali benefici fiscali. La commissione
tributaria può solo censurare le norme regolamentari in
presenza di macroscopiche violazioni di legge.
E quanto ha affermato la Ctr di Firenze, Sez. X, con la
sentenza 09.02.2017 n. 375.
Dunque, per il giudice d'appello non è possibile riconoscere
un'agevolazione per la tassa rifiuti se l'amministrazione
non l'ha prevista nel regolamento e può censurare il suo
comportamento solo se rileva una violazione di legge.
Il
regolamento della tassa rifiuti deliberato dal comune di
Campo nell'Elba è stato ritenuto in linea con le previsioni
di legge dalla commissione regionale «in considerazione del
fatto che la normativa consente ai comuni una certa
discrezionalità in ordine alla possibilità di prevedere
sconti, agevolazioni, riduzioni e esenzioni. Nell'ambito di
tale potere discrezionale, il suo esercizio parrebbe quindi
essere censurabile solo in presenza di macroscopiche
violazioni di legge che nel caso in esame non è dato
ravvisare».
In effetti, le amministrazioni comunali hanno
ampi poteri sui benefici fiscali per il tributo sui rifiuti.
Oltre alle agevolazioni che devono essere assicurate ai
contribuenti ex lege, gli enti hanno la facoltà di concedere
riduzioni tariffarie e esenzioni tendenzialmente legate alla
minore produzione di rifiuti. Possono stabilire con
regolamento riduzioni tariffare, senza limiti, e esenzioni
anche legate al reddito familiare. Le agevolazioni Tari,
infatti, possono essere collegate alla capacità contributiva
dei contribuenti, desunta dagli indicatori della situazione
economica (Isee). L'articolo 1 della legge di Stabilità 2014
(147/2013) consente di ridurre il carico del prelievo in
capo a soggetti in condizioni di difficoltà
economico-sociale.
La concessione di agevolazioni
facoltative non è limitata alle riduzioni, ma può arrivare
fino alle esenzioni. Possono essere deliberate riduzioni
tariffarie che, a differenza della Tares, non sono più
soggette alla soglia massima del 30%, o esenzioni per
particolari situazioni espressamente individuate dalla
legge. Le riduzioni della tassa per il servizio di
smaltimento possono essere riconosciute in presenza di
situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità
di produzione di rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2017). |
TRIBUTI: La
classificazione catastale decide l'esenzione.
Cassazione sull'ici. rilevanza
all'autocertificazione presentata da una coop.
L'esenzione Ici spetta per i fabbricati strumentali
all'attività agricola solo se sono inquadrati catastalmente
nella categoria D/10.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, che ha però dato rilevanza all'autocertificazione
presentata sul possesso dei requisiti da parte di una
società cooperativa per i 5 anni precedenti, ancorché
l'istanza di variazione catastale in categoria D/10 fosse
stata presentata 2 anni dopo (2009) rispetto all'anno
d'imposta accertato dal comune (2007).
Infatti con la
sentenza 27.01.2017 n. 2115 ha
respinto il ricorso della cooperativa e ha sostenuto che per
avere diritto all'esenzione Ici non conta che il fabbricato
sia strumentale all'attività agricola, ma è necessario che
sia classificato nella categoria D/10; mentre con la
sentenza 08.02.2017 n. 3350, pur affermando
questa regola, ha accolto il ricorso proposto dalla stessa
società cooperativa, per la medesima annualità, anche se le
controparti erano due comuni diversi, facendo leva
sull'autocertificazione. In entrambi i casi decisi gli
immobili erano iscritti nella categoria D/8.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che l'istanza di
variazione catastale nella categoria D/10 presentata nel
2009 potesse avere efficacia nel 2007, nonostante l'immobile
fosse inquadrato nella categoria D/8, in presenza di
un'autocertificazione attestante il possesso dei requisiti,
alla quale è stata riconosciuta un'efficacia retroattiva ai
fini del classamento.
Questo vuol dire che la società
cooperativa ha autocertificato una data situazione che si
pone in palese contrasto con l'istanza di variazione
catastale presentata nel 2009 all'Agenzia del territorio e,
soprattutto, con la classificazione catastale che il
fabbricato aveva nell'anno d'imposta accertato (2007).
Il
principio che si ricava dalle due pronunce in commento è che
2 casi analoghi possono essere trattati dallo stesso giudice
in maniera diversa. Va posto in rilievo che agli immobili
accertati, che hanno formato oggetto delle pronunce della
Cassazione, era stata attribuita la stessa categoria
catastale (D/8).
Del resto sulla materia de qua la Cassazione, anche di
recente, ha cambiato posizione sui requisiti per fruire del
trattamento agevolato Ici sui fabbricati rurali e ha rivisto
la tesi espressa con alcune pronunce emanate nel 2015. Con
la sentenza 16179/2016 ha chiarito che vanno ritenute
isolate le pronunce del 2015 con le quali aveva ritenuto
esenti dall'imposta comunale i fabbricati rurali, in
presenza dei requisiti di legge, a prescindere dal loro
inquadramento catastale. Dunque, ha stabilito che non va
dato seguito alle sentenze con le quali è stato sostenuto
che conta solo la ruralità degli immobili per avere diritto
ai benefici fiscali.
I possessori di fabbricati utilizzati
per l'esercizio dell'attività agricola possono reclamare
l'esenzione Ici solo se hanno ottenuto l'iscrizione
catastale di questi immobili nelle categorie A/6 (destinati
ad abitazione) o D/10 (destinati alla manipolazione,
trasformazione e vendita di prodotti agricoli). Ciò
costituisce «un presupposto necessario ed indefettibile» per
l'esclusione del fabbricato dall'assoggettamento all'Ici
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2017). |
ottobre 2016 |
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TRIBUTI:
Autotutela tributaria su avviso accertamento ICI.
In materia tributaria, il potere
dell'amministrazione di provvedere in via di autotutela
all'annullamento o alla revoca degli atti illegittimi o
infondati è normato dall'art. 2-quater, D.L. n. 564/1994.
Nel potere di annullamento o di revoca deve intendersi
compreso anche il potere di disporre la sospensione degli
effetti dell'atto che appaia illegittimo o infondato (commi
da 1-bis ad 1-quinquies).
La giurisprudenza precisa che l'esercizio dell'autotutela,
nell'ambito del diritto tributario, incontra un limite
-oltre che nell'avvenuta formazione del giudicato sull'atto
viziato- nel decorso del termine decadenziale fissato per
l'accertamento.
La presentazione dell'istanza di sospensione in autotutela
non sospende i termini per proporre ricorso al Giudice
tributario; parimenti, si ritiene che l'esercizio
dell'autotutela sospensiva, ex art. 2-quater, comma
1-quinquies, D.L. n. 564/1994, non possa sospendere i
termini per impugnare, attesa l'indisponibilità di detti
termini perentori.
Il Comune riferisce di aver notificato (in data 08.08.2016)
un avviso di accertamento per omesso versamento ICI 2011,
fondato sul processo verbale di constatazione della Guardia
di Finanza, verbale sottoposto a giudizio penale, allo stato
in grado di appello.
Il legale del contribuente chiede al Comune di sospendere
l'avviso di accertamento in autotutela 'ai soli fini
della sua sospensione esecutiva', in attesa che sul
processo verbale di constatazione si formi il giudicato,
necessario, a suo dire, per aversi valido presupposto
dell'avviso di accertamento, e al fine di evitare, nel
frattempo, ulteriori attività giurisdizionali in sede
tributaria. Il Comune chiede, dunque, se la sospensione
dell'avviso di accertamento possa rientrare nell'istituto
dell'autotutela e se, concedendola, possa incorrere nella
decadenza della fase accertativa [1]
(al 31.12.2016, a fronte della probabile udienza penale nel
2017).
Il Comune chiede inoltre se il contribuente non debba
comunque proporre ricorso contro l'avviso di accertamento
notificato, stante la perentorietà dei termini al riguardo.
In via preliminare, si precisa che l'attività di consulenza
giuridico-amministrativa svolta da questo Servizio a favore
degli enti locali è finalizzata a fornire un'illustrazione
degli istituti giuridici nell'ambito dei quali sono
riconducibili le specifiche fattispecie prospettate, fermo
restando che compete all'amministrazione procedente
determinarsi in ordine alle scelte concrete da adottare caso
per caso.
In via meramente collaborativa, si esprimono pertanto alcune
considerazioni di carattere generale.
In materia tributaria, il potere dell'amministrazione di
provvedere in via di autotutela all'annullamento d'ufficio o
alla revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilità [2],
degli atti illegittimi o infondati, è espressamente
riconosciuto dall'art. 2-quater, D.L. n. 564/1994 (comma 1).
Specificamente, la sospensione in autotutela degli effetti
dell'atto è normata dalle previsioni aggiunte all'art.
2-quater dall'art. 27, c. 1, L. 18.02.1999, n. 28, che è
utile riportare:
- comma 1-bis: nel potere di annullamento o di revoca di cui
al comma 1 deve intendersi compreso anche il potere di
disporre la sospensione degli effetti dell'atto che appaia
illegittimo o infondato;
- comma 1-ter: le regioni, le province e i comuni indicano,
secondo i rispettivi ordinamenti, gli organi competenti per
l'esercizio dei poteri indicati dai commi 1 e 1-bis
relativamente agli atti concernenti i tributi di loro
competenza;
- comma 1-quater: in caso di pendenza del giudizio, la
sospensione degli effetti cessa con la pubblicazione della
sentenza;
- comma 1-quinquies: la sospensione degli effetti dell'atto
disposta anteriormente alla proposizione del ricorso
giurisdizionale cessa con la notificazione, da parte dello
stesso organo, di un nuovo atto, modificativo o confermativo
di quello sospeso; il contribuente può impugnare, insieme a
quest'ultimo, anche l'atto modificato o confermato.
Ciò premesso, si osserva che l'esercizio dell'autotutela
sospensiva ha lo scopo di impedire che l'atto, per il quale
esiste il sospetto di illegittimità o di infondatezza, possa
produrre i suoi effetti durante il procedimento di riesame,
in modo da evitare, da un lato, che si produca un danno
presumibilmente ingiusto al contribuente e, dall'altro, che
l'atto sia annullato prima del completamento di tutte le
necessarie indagini [3].
Come rilevato dall'Agenzia delle entrate
[4], il potere di
sospendere l'efficacia dell'atto è infatti strumentale a
quello di annullamento: gli uffici devono pertanto valutare
le concrete possibilità che l'atto sia revocato o annullato
in via amministrativa o contenziosa ed il pericolo per il
contribuente di subire un danno grave ed irreparabile a
seguito dell'esecuzione dello stesso.
L'accertamento della sussistenza dei presupposti
dell'autotutela tributaria, in cui è compresa quella
sospensiva, espressamente prevista qualora l'atto 'appaia
illegittimo o infondato' [5]
(comma 1-bis), è rimesso alla valutazione discrezionale
dell'Ente [6].
La sospensione dell'efficacia esecutiva dell'atto che appaia
illegittimo o infondato incide solo provvisoriamente sugli
effetti dell'atto impositivo. Ai sensi del comma 1-quinquies
dell'art. 2-quater, la sospensione degli effetti dell'atto
disposta anteriormente alla proposizione del ricorso
giurisdizionale cessa con la notificazione di un nuovo atto,
modificativo o confermativo di quello sospeso. Tale
cessazione si produce anche quando intervenga un atto
consistente nella mera eliminazione dell'atto illegittimo o
infondato senza l'emissione di un nuovo atto impositivo.
Come affermato dalla giurisprudenza, nell'ambito del diritto
tributario l'esercizio del potere di autotutela incontra un
limite -oltre che nell'avvenuta formazione del giudicato
sull'atto viziato- nel decorso del termine decadenziale
fissato per l'accertamento [7].
In particolare, l'esercizio del potere di autotutela non
implica consumazione del potere impositivo, sicché rimosso
con effetto 'ex tunc' l'atto di accertamento
illegittimo od infondato, l'Amministrazione finanziaria
conserva ed anzi è tenuta ad esercitare la potestà
impositiva, rispetto alla quale incontra i limiti del
termine decadenziale previsto per la notifica degli avvisi
di accertamento [8].
Per quanto riguarda la diversa questione del rapporto tra
procedimento amministrativo di accertamento tributario e
processo penale [9],
si osserva, in via generale, quanto segue.
La Corte di Cassazione [10]
ha affermato l'utilizzabilità in sede tributaria degli
elementi raccolti dalla Guardia di Finanza a carico del
contribuente, nell'ambito di indagini penali. In
particolare, il processo verbale di constatazione ha valore
probatorio, in sede tributaria, ai sensi dell'art. 2700 c.c.
[11],
quanto ai fatti in esso descritti.
E di interesse si rivela il percorso argomentativo della
Suprema Corte. Ed invero, in quella sede, ove il punto
controverso era il fatto che i militari avessero acquisito
gli elementi rilevanti ai fini fiscali senza il necessario
rispetto delle garanzie difensive prescritte per il
procedimento penale, la Corte di Cassazione ha affermato che
l'emersione di indizi di reato, e dunque la rilevanza penale
degli accertamenti tributari, non vanifica il valore
probatorio del processo verbale di constatazione in sede
tributaria, in ragione del principio dell'autonomia del
procedimento penale rispetto alle procedure
dell'accertamento tributario, già sancito, in linea di
principio, nel D.L. n. 429 del 1982, art. 12, e confermato
dal D.Lgs. 10.03.2000, n. 74, art. 20 [12],
in armonia con le disposizioni generali dettate dagli artt.
2 e 654 c.p.p. e 220 disp. att. c.p.p. [13].
Inoltre, muovendo dal principio dell'autonomia normato
dall'art. 20, D.Lgs. n. 74/2000, la Corte di Cassazione ha
altresì escluso l'automatica rilevanza del giudicato penale
nel giudizio tributario. Il Giudice tributario non può
estendere automaticamente gli effetti di una sentenza penale
irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in
materia di reati fiscali, con riguardo all'azione
accertatrice del singolo ufficio tributario, ancorché i
fatti esaminati in sede penale siano quelli stessi che
fondano l'accertamento, ma deve verificarne la rilevanza
nell'ambito specifico in cui esso è destinato ad operare
[14].
La pronuncia, seppur riferita al rapporto tra giudicato
penale e giudizio tributario, sembrerebbe suscettiva di
estendersi, in virtù del richiamo dell'art. 20, D.Lgs. n.
74/2000, anche al rapporto tra procedimento amministrativo
tributario e giudicato penale.
Va, altresì, precisato che il D.Lgs. n. 74/2000 reca la 'Nuova
disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul
valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge
25.06.1999, n. 205'. Peraltro, l'apprezzamento dei
Giudici di legittimità del principio dell'autonomia ivi
previsto (art. 20) in termini di continuità rispetto a
quanto già sancito in linea di principio dal D.L. n.
429/1982 [15],
e di coerenza con le disposizioni generali codicistiche
[16],
sembrerebbe poter far propendere, in un'ottica di
interpretazione sistematica, per la sua estensione generale
nel contesto dei procedimenti amministrativi di accertamento
tributario.
Per quanto concerne, infine, la necessità del rispetto da
parte del contribuente dei termini previsti per
l'impugnazione dell'avviso di accertamento, si rileva che la
presentazione dell'istanza di sospensione in autotutela non
sospende i termini per proporre ricorso al Giudice
[17].
Parimenti, si ritiene che l'esercizio dell'autotutela
sospensiva, ex art. 2-quater, comma 1-quinquies, D.L. n.
564/1994, non possa sospendere i termini per impugnare,
attesa l'indisponibilità di detti termini perentori
[18].
La Suprema Corte -se pur in un caso di silenzio opposto
dall'amministrazione sull'istanza di autotutela, e quindi di
mancato esercizio dell'autotutela- ha affermato che
l'efficacia ed esecutività del provvedimento impositivo è
condizionata soltanto al decorso del termine previsto dalla
legge per l'impugnazione che, in quanto termine di
decadenza, può essere validamente interrotto esclusivamente
con il compimento dell'atto (proposizione del ricorso)
previsto espressamente dalla legge (art. 2964 c.c.)
[19].
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 1, comma 161, L. n. 296/2006, gli
enti locali notificano gli avvisi di accertamento, in
rettifica e d'ufficio, a pena di decadenza, entro il 31
dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la
dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto
essere effettuati.
[2] L'autotutela tributaria è possibile anche se l'atto è
divenuto ormai definitivo per avvenuto decorso dei termini
per impugnare (Cfr. Stefano Compagno, I limiti
all'autotutela tributaria su atti non impugnabili, in
Diritto&Diritti, settembre 2002).
[3] Cfr. Agenzia delle entrate, Direzione Regionale della
Calabria, Catanzaro 29.12.2010, n. 24477.
[4] Si veda Agenzia delle entrate, Direzione centrale
Normativa e Contenzioso, risoluzione 07.02.2007, n. 21, sia
pure con specifico riferimento alla sospensione della
riscossione, ai sensi dell'art. 39 DPR 602/1973, in cui si
precisa che 'ancor prima di accordare la sospensione della
riscossione, che deve essere richiesta nell'ambito della
procedura di autotutela, gli Uffici sono tenuti a valutare
le concrete possibilità che l'atto che ha dato origine
all'iscrizione al ruolo sia revocato o annullato in via
amministrativa o contenziosa (valutazione del c.d. fumus
boni juris). Inoltre occorre valutare il pericolo per il
contribuente di subire un danno grave ed irreparabile a
seguito della riscossione coattiva (c.d. periculum in
mora).'.
[5] L'illegittimità riguarda gli errori che attengono agli
aspetti procedimentali dell'attività istruttoria o alla
formale redazione dell'atto, nonché gli errori di diritto
(c.d. vizi dell'atto). L'infondatezza, invece, attiene agli
errori sui fatti oggetto d'imposizione ed alle questioni
estimative inerenti alla qualificazione e/o quantificazione
della materia imponibile (c.d. vizi della pretesa). Cfr.
Agenzia delle entrate, Direzione Regionale della Calabria,
n. 24477/2010, cit..
[6] La natura eminentemente discrezionale dell'autotutela
tributaria è rimarcata dalla Corte di cassazione, che
precisa che la posizione del contribuente in ordine ad un
atto di autotutela non costituisce diritto soggettivo ma
interesse legittimo, e può trovare tutela nell'ambito della
giurisdizione tributaria, ove il sindacato del giudice dovrà
limitarsi alla legittimità dell'operato dell'amministrazione
(anche in caso di inerzia) e non al merito, non essendo
possibile la sostituzione del Giudice tributario
all'Amministrazione nell'adozione di un atto di autotutela.
(Cass. civ, sez. trib., 29.12.2010, n. 26313. Conformi:
Cass. civ, sez. un., 27.03.2007, n. 7388).
Inoltre -afferma Cass. civ. n. 26814/2014, cit.- tanto
l'istanza di autotutela, quanto il silenzio opposto
dall'Amministrazione finanziaria, così come la sua
impugnazione (ove si voglia propendere per la sua
impugnabilità, secondo i ragionamenti giurisprudenziali
nella sentenza riassunti) non possono in alcun modo spiegare
effetti sul rapporto tributario fondato sull'avviso di
accertamento, destinato a divenire definitivo ed
incontestabile in difetto della tempestiva impugnazione, nel
termine di decadenza previsto dall'art. 21, c. 1, D.Lgs. n.
546/1992 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione
della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge
30.12.1991, n. 413). L'efficacia ed esecutività del
provvedimento impositivo -precisa la Suprema Corte- è
condizionata soltanto al decorso del termine previsto dalla
legge per la impugnazione che, in quanto termine di
decadenza può essere validamente interrotto esclusivamente
con il compimento dell'atto (proposizione del ricorso)
previsto espressamente dalla legge (art. 2964 c.c.).
[7] Cass. civ., sez. trib., 26.03.2010, n. 7335; Cass. civ.,
sez. trib., 22.02.2002, n. 2531.
[8] Cass. civ., sez. trib., 08.10.2013, n. 22827, che
richiama Cass. civ., sez. trib., 20.11.2006, n. 24620.
Conforme, Cass. civ., sez. trib., 16.07.2003, n. 11114.
[9] Nel caso in esame, la richiesta di autotutela del
contribuente è motivata dalla pendenza di un procedimento
penale avente ad oggetto il processo verbale di
constatazione della Guardia di Finanza, che -secondo quanto
asserito- per costituire valido presupposto dell'avviso di
accertamento dovrebbe essere accompagnato da una sentenza
definitiva, rappresentando mero elemento investigativo di
un'indagine condotta in autonomo giudizio.
[10] Cass. civ., sez. trib., 12.11.2010, n. 22984.
[11] Ai sensi dell'art. 2700 c.c. 'l'atto pubblico fa piena
prova, fino a querela di falso, della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché
delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il
pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui
compiuti'.
[12] Ai sensi dell'art. 20 in argomento, 'Il procedimento
amministrativo di accertamento ed il processo tributario non
possono essere sospesi per la pendenza del procedimento
penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui
accertamento comunque dipende la relativa definizione'.
[13] Cass. civ., n. 22984/2010, cit., osserva che gli artt.
2 c.p.p. e 654 c.p.p. affermano l'uno l'autonomia del
giudice penale nel decidere incidenter tantum le questioni
civili o amministrative, l'altro l'autonomia del giudice
civile o amministrativo quando sia diverso il regime
probatorio (anche Cass. civ., sez. trib., 27 febbraio 2013,
n. 4924, rileva che il processo penale e il processo
tributario poggiano su un sistema probatorio sostanzialmente
diverso). L'art. 220 disp. att. c.p.p. impone l'obbligo del
rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale,
quando nel corso di indagini ispettive emergano indizi di
reato, ma soltanto ai fini della 'applicazione della legge
penale'.
[14] Cass. civ., sez. trib., n. 4924/2013, cit..
[15] Recante 'Norme per la repressione della evasione in
materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per
agevolare la definizione delle pendenze in materia
tributaria'.
[16] Artt. 2 e 654 c.p.p. e 220 disp. att. c.p.p. richiamati
dalla Suprema Corte.
[17] Cfr. Cass. civ., sez. trib., 18.12.2014, n. 26814,
secondo cui l'istanza di autotutela non può spiegare effetti
sul rapporto tributario fondato sull'avviso di accertamento,
destinato a divenire definitivo ed incontestabile in difetto
della tempestiva opposizione nel termine di decadenza
previsto dall'art. 21, comma 1, del D.lgs. 546/1992.
[18] Così Baldassarre Gullo, L'autotutela sospensiva, uno
strumento poco noto, su Fisco oggi, 14.01.2008; Pasquale
Mirto, Manuale operativo per l'applicazione della IUC,
Maggioli, 2014, pag. 355, secondo cui il comune può
sospendere il pagamento di un atto di accertamento, ma non
può sospendere i termini di impugnazione, in quanto essendo
questi previsti dalla legge a pena di inammissibilità sono
termini indisponibili dalle parti. Si segnala, peraltro, che
parte della dottrina ritiene, in senso difforme, che si
tratti di un istituto cui consegue in via di eccezione la
sospensione dei termini per proporre ricorso giurisdizionale
(Massimo Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di
tutela. Lezioni sul processo tributario, Giappichelli, 2013,
p. 57; Augusto Fantozzi, Diritto tributario, Wolters Kluwer
Italia, 2012, p. 1014).
[19] Cassazione civ., sez. trib., n. 26814/2014, cit. (21.10.2016
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settembre 2016 |
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TRIBUTI:
Applicazione imposta comunale pubblicità ONLUS.
Il D.Lgs. n. 507/1993 disciplina,
all'art. 5, il presupposto dell'imposta sulla pubblicità,
nonché, agli artt. 16 e 17, le ipotesi di riduzione ed
esenzione di tale tributo con particolare riferimento, tra
gli altri, agli organismi che non perseguono finalità di
lucro (tali sono le ONLUS).
In particolare, ai sensi dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993,
presupposto di applicazione dell'imposta sulla pubblicità è
la diffusione di messaggi pubblicitari (comma 1): ai fini
dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi
nell'esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma
2).
Ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997, gli enti locali
possono prevedere in generale per le ONLUS l'esenzione dalla
suddetta imposta sulla pubblicità.
Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta di esenzione
permanente dal pagamento dell'imposta di pubblicità da parte
di una associazione locale di donatori di sangue, di cui ha
verificato la natura di ONLUS, e chiede se, avuto riguardo
alle previsioni del D.Lgs. n. 460/1997 e a quelle del
proprio regolamento in materia di pubblicità e pubbliche
affissioni [1],
possa essere disposta la riduzione o l'esenzione permanente
dal tributo.
Si precisa che l'attività di consulenza di questo Servizio è
finalizzata a fornire un supporto giuridico in generale agli
enti locali, nella materia posta, che questi possono
utilizzare per la soluzione dei casi concreti che si
presentano al loro operare, in relazione alle loro
specificità. In particolare, l'interpretazione e
applicazione di norme regolamentari emanate dai comuni,
nell'esercizio della loro potestà normativa, compete
unicamente agli enti medesimi. Per cui, solo in via
collaborativa, si esprimono le considerazioni che seguono.
L'art. 10, D.Lgs. n. 460/1997, precisa che sono
organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) le
associazioni, i comitati, le fondazioni, le società
cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o
senza personalità giuridica, ove ricorrano i presupposti e
le condizioni fissati dalla norma medesima.
Ai soggetti che, ai sensi dell'art. 10 richiamato, possono
qualificarsi ONLUS, il legislatore ha riconosciuto
particolari agevolazioni, soprattutto di carattere fiscale,
subordinati alla necessaria iscrizione all'Anagrafe delle
ONLUS (art. 11, D.Lgs. n. 460/1997).
Specificamente, in materia di tributi locali, l'art. 21,
D.Lgs. n. 460/1997, prevede che i comuni, possono deliberare
nei confronti delle ONLUS la riduzione o l'esenzione dal
pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi
adempimenti [2].
Per quanto concerne specificamente l'applicazione
dell'imposta comunale sulla pubblicità ai soggetti ONLUS, il
regolamento dell'Ente in materia di imposta di pubblicità e
pubbliche affissioni, nello stralcio riportato nel quesito,
relativo alla riduzione e all'esenzione dall'imposta,
prevede, tra i casi di riduzione, quello 'per la
pubblicità effettuata da comitati, associazioni, fondazioni
ed ogni altro ente che non abbia finalità di lucro'
[3], quali
le ONLUS. Mentre, per quanto concerne l'esenzione, il
regolamento comunale, così come riportato nel quesito, non
sembra contemplare alcune ipotesi di esenzione per gli enti
senza fini di lucro.
Sul piano dell'ordinamento statale, il D.Lgs. n. 507/1993
disciplina, agli artt. 16 e 17, le ipotesi, rispettivamente,
di riduzione e di esenzione dell'imposta di pubblicità. La
riduzione è prevista, tra l'altro, 'per la pubblicità
effettuata da comitati, associazioni, fondazioni ed ogni
altro ente che non abbia finalità di lucro' (art. 16).
Può trattarsi, invero, della pubblicità mediante insegne,
cartelli, locandine, targhe (Pubblicità ordinaria, di cui
all'art. 12), oppure della pubblicità a mezzo striscioni
(come riferito nel caso in esame), contemplata all'art. 15
(Pubblicità varia), assoggettata alla stessa tariffa
prevista dall'art. 12.
Per quanto concerne, invece, le ipotesi di esenzione
dall'imposta di cui si tratta, il D.Lgs. n. 507/1993 indica,
con riferimento ai soggetti non aventi finalità di lucro,
quella specifica per 'le insegne, le targhe e simili
apposte per l'individuazione delle sedi di comitati,
associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non persegua
scopo di lucro' (art. 17, comma 1, lett. h).
In generale, emerge dalle norme richiamate come i soggetti
non aventi fine di lucro possono essere destinatari della
riduzione o dell'esenzione dall'imposta di pubblicità. La
ricorrenza dei presupposti dell'una o dell'altra fattispecie
deve essere valutata dagli enti in relazione alle
particolarità dei casi concreti.
Con particolare riferimento al caso di specie, l'Ente
osserva, peraltro, che sugli striscioni esposti
dall'associazione locale (ONLUS) 'non viene pubblicizzata
alcuna attività economica né evento di raccolta fondi'.
Ne deriva la necessità che l'Ente valuti innanzitutto la
ricorrenza del presupposto di applicazione dell'imposta di
pubblicità, che, avuto riguardo al dettato normativo come
esplicitato dalla giurisprudenza, sembra poggiare sulla
natura economica dell'attività pubblicizzata. Ai sensi
dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993, infatti, presupposto
dell'imposta sulla pubblicità è 'la diffusione di
messaggi pubblicitari' (comma 1), e ai fini
dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi
nell'esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma 2)
[4]. La
valutazione di un tanto, nel caso specifico, è rimessa
all'autonomia dell'Ente.
Rimane ferma, ovviamente, la possibilità per l'Ente di
prevedere in generale l'esenzione per le ONLUS espressamente
del tributo locale di cui si tratta, in via regolamentare,
ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997.
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 3, D.Lgs. 15.11.1993, n. 507
(Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla
pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della
tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei
comuni e delle province nonché della tassa per lo
smaltimento dei rifiuti urbani a norma dell'art. 4 della
legge 23.10.1992, n. 421, concernente il riordino della
finanza territoriale), il comune è tenuto ad adottare
apposito regolamento per l'applicazione dell'imposta sulla
pubblicità e per l'effettuazione del servizio delle
pubbliche affissioni.
[2] La norma è espressione della potestà regolamentare
generale degli enti locali di cui all'art. 52 del D.Lgs. n.
446/1997, che riconosce ai Comuni e alle Province il potere
di disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche
tributarie, salvo per quanto attiene alla individuazione e
alla definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti
passivi e della aliquota massima dei singoli tributi, la cui
determinazione è riservata alla legge. Per quanto non
regolamentato si applicano le disposizioni di legge vigenti.
[3] Analogamente prevede la normativa statale, come
specificato subito nel prosieguo.
[4] Precisa la giurisprudenza che presupposto impositivo è
la 'pubblicità (economica)' attinente all'attività economica
di un soggetto imprenditoriale, distinta dalla legge nelle
due specie della 'propaganda (economica)', che consiste
nella trasmissione di conoscenza di prodotti e servizi
dell'impresa al fine di incrementarne la domanda, e
dell''attività di relazioni pubbliche', che consiste nella
trasmissione di conoscenza sul soggetto imprenditoriale allo
scopo di migliorarne l'immagine presso il pubblico dei
consumatori, che domandano i beni e i servizi di
quell'impresa. La prima è una pubblicità (economica) diretta
(dei beni e dei servizi); la seconda è una pubblicità
(economica) indiretta (degli stessi beni e degli stessi
servizi). Cfr. Cass. civ., Sez. V, 06.11.2009, n. 23573.
Conformi sul collegamento dei messaggi pubblicitari
all'esercizio di un'attività economica: Cass. civ., sez.
trib., 11.02.2015, n. 2629; Commissione tributaria
provinciale, Ascoli Piceno, sez. V, 21.09.2010, n. 219, che
ha escluso la sussistenza del presupposto impositivo nel
caso di esposizione di uno striscione senza alcun
collegamento con un'attività imprenditoriale.
In ordine al concetto di impresa, la Cassazione civile, sez.
trib., 16.07.2010, n. 16722, richiama la consolidata
giurisprudenza della Corte di giustizia, nell'ambito del
diritto alla concorrenza, secondo cui la nozione di impresa
abbraccia qualsiasi entità che eserciti un'attività
economica (Corte di giustizia UE, sez. VI, 23.04.1991, n. 41
e 11.12.1997, n. 55), e costituisce un'attività economica
qualsiasi attività consistente nell'offrire beni o servizi
su un determinato mercato (Corte di giustizia UE, sez. V,
18.06.1998, n. 35).
In questo senso, v.: Cass. civ., sez. I, 28.11.1995, n.
12319, secondo cui il messaggio pubblicitario, per essere
soggetto all'imposta in esame, deve avere il suo punto di
riferimento nella produzione o vendita di merci o nella
fornitura di servizi, e ciò anche se si ritiene non
essenziale che tale attività sia posta in essere da un
soggetto organizzato ad impresa; Cass. civ., sez. V,
27.06.2005, n. 13823, che ha ritenuto che le scritte sulle
fiancate delle navi recanti il nome e il logo della
compagnia navale non devono essere assoggettate all'imposta
sulla pubblicità, in quanto sprovviste dello scopo di
promuovere la domanda di beni e di servizi per la società di
appartenenza e di pubblicità, ma hanno lo scopo di
indirizzare i passeggeri che hanno già acquistato il
biglietto verso la nave su cui imbarcarsi (06.09.2016
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agosto 2016 |
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TRIBUTI:
Pertinenza dell'abitazione principale.
Ai fini all'imposta municipale propria,
la nozione di pertinenza dell'abitazione principale si
rinviene nell'art. 817, primo comma, del codice civile
(«Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a
servizio o ad ornamento di un'altra cosa.»).
La giurisprudenza individua i presupposti e delinea i
caratteri della pertinenza, precisando che, in materia
fiscale, la prova dell'asservimento pertinenziale, che grava
sul contribuente, deve essere valutata con maggior rigore
rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non
avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il
prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la
tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del
cespite'.
Il Comune richiede un parere in merito alla correttezza, o
meno, dell'accettazione -ai fini dell'imposta municipale
propria- della dichiarazione di pertinenzialità
[1],
rispetto all'abitazione principale, di due fabbricati,
effettivamente adibiti a stalla [2],
ancorché diversamente accatastati nelle categorie C/2 e C/6,
atteso che la Cassazione civile afferma che «Se la scelta
pertinenziale non è giustificata da reali esigenze
(economiche, estetiche, o di altro tipo), non può avere
valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che
impone la tassazione in ragione della reale natura del
cespite» [3].
Occorre, anzitutto, chiarire che, in relazione alla
problematica rappresentata, questo Ufficio non può che
limitarsi a fornire, in via meramente collaborativa,
elementi utili ad individuare la nozione ed i caratteri
della pertinenza, considerato che la materia oggetto di
quesito ricade nell'ambito della competenza dell'Agenzia
delle entrate, alla quale il Comune deve rivolgersi
direttamente per acquisire il relativo parere
[4].
L'art. 13, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n.
214, dispone -per quanto qui rileva- che l'imposta
municipale propria «non si applica al possesso
dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa,
ad eccezione di quelle classificate nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9» e stabilisce che per
pertinenze dell'abitazione principale «si intendono
esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali
C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità
pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali
indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità
ad uso abitativo».
La disciplina dell'imposta municipale propria (così come era
avvenuto per quella riguardante la previgente imposta
comunale sugli immobili) non fornisce la nozione di
pertinenza, cosicché questa va necessariamente rinvenuta
nell'art. 817, primo comma, del codice civile, in base al
quale «Sono pertinenze le cose destinate in modo
durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa.». Il
secondo comma dello stesso articolo dispone, poi, che «La
destinazione può essere effettuata dal proprietario della
cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima.».
La predetta nozione civilistica consente, dunque, di
affermare che le pertinenze sono costituite da
un'aggregazione di cose mobili o immobili in cui l'una,
secondaria, è subordinata al servizio o all'ornamento
dell'altra, principale, in un 'rapporto di
complementarità funzionale', che lascia inalterate
l'individualità e l'autonomia giuridica dei singoli beni,
che vengono uniti dal trattamento giuridico.
[5]
In via generale, la giurisprudenza afferma che:
- l'insorgenza del vincolo pertinenziale richiede la
contemporanea presenza di due presupposti, consistenti nel
collegamento funzionale tra la cosa accessoria e la cosa
principale (elemento oggettivo) e nell'effettiva volontà
dell'avente diritto di destinare una cosa a servizio o ad
ornamento dell'altra (elemento soggettivo);
[6]
- il vincolo funzionale che lega tra loro la cosa principale
e la pertinenza non può avere un contenuto qualsiasi ad
libitum del titolare, ma deve realizzare effettivamente un
miglior sfruttamento o una maggiore utilizzazione della cosa
principale, di cui deve fornire un riscontro effettivo e
attuale. [7]
Con riferimento all'applicazione dell'istituto in ambito
tributario, la Cassazione civile sancisce che:
- l'attribuzione della qualità di pertinenza si fonda sul
criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e
concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra;
[8]
- per l'art. 817 del codice civile 'le cose' si
considerano 'pertinenze' di 'un'altra cosa'
non semplicemente perché poste a 'servizio o ad ornamento'
della stessa ma solo se tale destinazione sia
(soggettivamente ed oggettivamente) 'durevole',
ovverosia presenti segni concreti esteriori dimostrativi
della volontà del titolare di imporre a quelle cose uno
degli scopi considerati dalla norma civilistica;
[9]
- in materia fiscale, stante l'indisponibilità del rapporto
tributario, la prova dell'asservimento pertinenziale, che
grava sul contribuente, deve essere valutata con maggior
rigore rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non
avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il
prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la
tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del
cespite'; [10]
- la 'simulazione' di un vincolo di pertinenza, ai
sensi dell'art. 817 del codice civile, al fine di ottenere
un risparmio fiscale, va inquadrata nella più ampia
categoria dell'abuso di diritto. [11]
Parte delle predette indicazioni sono ribadite, in sede
interpretativa, dalla circolare n. 3/DF dd. 18.05.2012
[12] del
Ministero dell'economia e delle finanze.
---------------
[1] Dichiarazione prodotta di recente ed in virtù della
quale il contribuente richiede il rimborso dell'imposta
versata negli anni 2012 e 2013.
[2] L'Ente segnala che il contribuente, persona fisica, non
svolge alcuna attività di tipo agricolo-imprenditoriale e
che nel 2014 egli ha concesso in locazione ad un'azienda
agricola le pertinenze in questione, relativamente alle
quali l'Agenzia delle entrate ha riconosciuto il carattere
di ruralità.
[3] Sez. trib., 30.11.2009, n. 25127 e 29.10.2010, n. 22128.
[4] In www.agenziaentrate.gov.it sono riportate le
istruzioni concernenti il ricorso all'istituto
dell'interpello ed è precisata la differenza tra questo e
l'attività di consulenza giuridica svolta dall'Agenzia delle
entrate.
[5] V. Consiglio di Stato - Sez. V, sent. 17.11.2014, n.
5615.
[6] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit..
[7] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit., il
quale soggiunge che il vincolo pertinenziale «non può,
quindi, consistere in una semplice dichiarazione di volontà
[...], ma deve estrinsecarsi in un comportamento
riconoscibile da terzi».
[8] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., 10.11.2010, n. 22844 e
30.12.2015, n. 26077; Sez. VI, 17.02.2015, n. 3148.
[9] Sez. trib., n. 22128/2010, cit. e 08.11.2013, n. 25170.
[10] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e
n. 25170/2013, cit..
[11] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e
n. 25170/2013, cit., che richiamano la pronuncia delle SS.UU.
23.12.2008, n. 30055, nel cui ambito è stato, tra l'altro,
affermato che «non può non ritenersi insito
nell'ordinamento, come diretta derivazione delle norme
costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non
può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto,
pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione,
di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili
che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale».
[12] «Imposta municipale propria (IMU). Anticipazione
sperimentale. Art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201,
convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214. Chiarimenti». V.
il paragrafo 6 (08.08.2016 -
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luglio 2016 |
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TRIBUTI: Ici
e Imu su aree pertinenziali. Siti tassati se accatastati
separatamente dal fabbricato. Il principio nella sentenza n.
1844 della Ctr Bologna che vale anche ai fini della Tasi.
Si restringono sempre di più le maglie per l'intassabilità
delle aree edificabili che sono ritenute dai contribuenti
pertinenze dei fabbricati. La questione non è di poco conto
perché la regola ha implicazioni ad ampio raggio e produce
effetti sia per i tributi locali, Ici, Imu e Tasi, sia per i
tributi erariali.
La Commissione tributaria regionale di Bologna, Sez. XII,
con la sentenza 04.07.2016 n. 1844, infatti, ha
affermato che un'area edificabile pertinenziale è soggetta
al pagamento dell'Ici, ma il principio vale anche per Imu e
Tasi, se accatastata separatamente dal fabbricato.
Dunque, è necessario un accatastamento unitario dei due
immobili, con l'attribuzione di un'unica rendita.
Sulla questione de qua ci sono poche certezze poiché la
Cassazione ha più volte modificato il proprio orientamento.
Ha comunque stabilito che l'accatastamento separato dei due
immobili non è d'impedimento all'intassabilità dell'area
come pertinenza del fabbricato. Tesi che è in netto
contrasto con quanto sostenuto da tempo dall'Agenzia delle
entrate.
Per quanto concerne le condizioni richieste per evitare
l'assoggettamento a imposizione delle aree pertinenziali non
c'è stata nel corso dell'ultimo decennio un'uniformità di
vedute né all'interno della Cassazione né tra i giudici di
merito.
La Cassazione, anche con la recente sentenza 8367/2016, non
ha imposto l'accatastamento unitario tra area e fabbricato,
ma ha precisato che tra i due immobili deve sussistere «un
vincolo d'asservimento durevole, funzionale o ornamentale
delle aree al fabbricato, con il fine di migliorarne le
condizioni d'uso, la funzionalità e il valore».
E la prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale grava
sul contribuente. Del resto, sottolineano i giudici di
legittimità, la mera «scelta» pertinenziale avrebbe l'unica
funzione di eludere il prelievo, per ottenere un risparmio
fiscale. Quindi, darebbe luogo a un abuso del diritto.
Le prese di posizione della Cassazione. Con la sentenza
5755/2005 la Cassazione ha stabilito che quando si tratta di
pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze
catastali, ma la destinazione di fatto.
L'area che costituisce, di fatto, pertinenza di un
fabbricato non è soggetta a Ici, come area edificabile,
anche se iscritta autonomamente al catasto.
Con questa pronuncia non ha posto alcun vincolo o
adempimento a carico del contribuente.
Successivamente ha riconosciuto il beneficio solo nei casi
in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo
dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di
variazione (sentenza 19638/2009).
Sia in passato che con l'ultima pronuncia (8367/2016) ha
sempre ritenuto irrilevante la circostanza che un'area
pertinenziale e una costruzione principale siano censite
catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere
assoggettate a tassazione come un unico bene.
Il vincolo pertinenziale, però, deve essere visibile e va
rilevato dallo stato dei luoghi, altrimenti i due immobili
sono soggetti a imposizione autonomamente.
Sempre la Cassazione, con la sentenza 17035/2004, richiamata
nella motivazione della sentenza 19638/2009, aveva chiarito
che per le aree pertinenziali non si introduce alcuna
particolare e nuova accezione di pertinenza, ma,
semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va
fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale,
dall'articolo 817 del Codice civile.
Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze le
cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento
di un'altra cosa.
Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole
destinazione della cosa accessoria a servizio o ornamento di
quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di
creare la destinazione.
Il contrasto tra i giudici di merito. Le divergenze emergono
soprattutto tra i giudici di merito sul trattamento fiscale
delle aree pertinenziali. Di segno opposto, in effetti, è la
pronuncia della Ctr di Milano rispetto a quella emanata
dalla Ctr di Bologna. La Ctr di Milano, sezione XIX, con la
sentenza 14/2016, ha stabilito che un terreno può essere
qualificato pertinenziale anche se non è accorpato
catastalmente a un fabbricato.
La «graffatura», vale a dire l'unione dei due beni immobili
in catasto, agevola l'attività di controllo dell'ente
impositore, ma non può essere considerata decisiva per
attribuire al terreno natura pertinenziale.
Per i giudici lombardi, il fatto che un terreno non sia
censito al catasto urbano unitamente al fabbricato destinato
ad abitazione non può comportare il disconoscimento delle
agevolazioni «prima casa», contrariamente a quanto sostenuto
dall'Agenzia delle entrate. In realtà, secondo la
commissione regionale, «la normativa in materia di imposta
di registro non prevede alcuna limitazione tassativa
rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale
di un fabbricato, ai fini di potere fruire delle cosiddette
agevolazioni «prima casa», ma solo una elencazione
esemplificativa»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
giugno 2016 |
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APPALTI - TRIBUTI: Baratto
amministrativo senza limiti temporali. Corte dei conti. Il
coordinamento con la riforma degli appalti.
Le disposizioni sul baratto
amministrativo del Dl 133/2014 devono essere coordinate con
le nuove norme introdotte dagli articoli 189 e 190 del
Codice dei contratti pubblici, che delineano una più ampia
prospettiva di coinvolgimento dei cittadini.
La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto, con il
parere 21.06.2016 n. 313
ha rilevato che il quadro normativo è molto articolato e
composto da disposizioni accomunate dalla prospettiva di
valorizzare il principio di sussidiarietà, che viene assunto
nel Dlgs 50/2016 attraverso le attività che possono essere
esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle
loro formazioni sociali, come canone dell’azione
amministrativa nell’ambito della tutela del territorio e
della manutenzione di esso, traducendosi per le
amministrazioni interessate nella possibilità di adottare
forme procedimentali semplificate.
Il parere individua le differenze tra l’articolo 24 del Dl
133/2014 e le nuove disposizioni del Codice dei contratti,
evidenziando che queste ultime esprimono la facoltà di
attivare contratti di partenariato sociale da parte di tutti
gli enti territoriali (mentre l’articolo 24 li riserva ai
Comuni) e che la stessa esenzione o riduzione dei tributi
non è più prevista necessariamente per un periodo limitato.
Inoltre, le agevolazioni contemplano la previsione della
possibilità di affidare la valorizzazione delle vie e piazze
mediante iniziative culturali di vario genere. In tutti
questi casi il riconoscimento specifico del ruolo che i
cittadini svolgono nel perseguimento di interessi generali è
connotato dal Dlgs 50/2016 in modo molto più ampio.
La Corte dei conti fornisce nella deliberazione una serie di
chiarimenti specifici sull’applicazione dell’istituto. In
primo luogo, viene precisato che se gli interventi
dell’articolo 24 sono realizzati dai cittadini non avendo a
presupposto agevolazioni tributarie, ma in forma di
volontariato, queste attività dovrebbero essere ricondotte a
organismi strutturati, in grado di farsi carico degli oneri
assicurativi. Se invece gli interventi dei cittadini sono
correlati a riduzioni o agevolazioni tributarie è necessario
che sussista un rapporto di stretta inerenza tra queste
facilitazioni e le attività di cura e valorizzazione del
territorio che i cittadini possono realizzare, dovendo tener
conto che i servizi, sostitutivi del pagamento delle imposte
locali.
La prestazione offerta dal cittadino deve quindi
corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali
agevolate, ma la delibera assunta dall’ente deve motivare la
decisione di avvalersi del baratto sulla base di un’attenta
valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la
convenienza, anche economica, della scelta.
Gli articoli 189 e 190 del Codice dei contratti ora evolvono
il quadro, collegandolo alle riduzioni o esenzioni di
tributi; la compensazione tra debiti (o crediti) di cui solo
uno esistente, essendo l’altro futuro ed eventuale, può
essere applicata solo a seguito dell’integrale e
soddisfacente realizzazione dell’opera o del servizio.
In questo rapporto, le prestazioni richieste ai beneficiari
di provvidenze comunali stanziate non possono che rivestire
forme di collaborazione sociale senza corrispettività con il
contributo economico elargito. Pertanto non possono essere
qualificati come rapporto di lavoro e nemmeno essere
computati nel calcolo delle spese di personale.
Le agevolazioni connesse al baratto amministrativo, secondo
la Corte dei conti del Veneto, non possono essere fruite
dalle imprese, perché si verificherebbe un’elusione delle
regole di evidenza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016). |
maggio 2016 |
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TRIBUTI:
Tributi locali, condono a tempo.
La definizione agevolata delle violazioni tributarie è un
evento eccezionale e ha un ambito temporale sempre limitato.
I comuni, dunque, non possono istituire con regolamento il
condono dei tributi locali a loro scelta per un tempo
indefinito. La sanatoria prevista dalla legge 289/2002,
infatti, non era proiettata nel futuro, ma riguardava solo
le violazioni commesse negli anni antecedenti alla sua
entrata in vigore.
Lo ha chiarito la Corte dei conti, sezione regionale di
controllo per la Campania, con il
parere
20.05.2016 n. 143.
Nel caso
in esame, il comune di Ottaviano ha chiesto alla sezione
regionale di controllo della Corte dei conti se fosse
possibile prevedere con regolamento la definizione agevolata
delle violazioni tributarie commesse dai contribuenti fino
al 2014, escludendo le sanzioni e gli interessi. Per i
giudici contabili, non si possono introdurre fattispecie di
condono per un periodo indefinito, ancorché la legge non
fissi espressamente l'ambito di operatività della sanatoria.
L'articolo 13 della legge 289/2002 «deve essere oggetto di
stretta interpretazione considerato che l'istituzione di
meccanismi di «definizione agevolata» relativamente ad
obblighi rimasti totalmente o parzialmente inadempiuti da
parte di contribuenti ha (o dovrebbe avere) indubbiamente
natura di evento eccezionale nell'ambito dell'ordinamento
giuridico».
Pertanto, il 31.12.2002 rappresenta «un
limite temporale invalicabile» per la regolarizzazione di
errori e omissioni. Al riguardo il Tar Sicilia, prima
sezione, con la sentenza 1765/2014, ha affermato che è
illegittimo per eccesso di potere il regolamento comunale
che ha istituito il condono delle violazioni commesse dai
contribuenti in materia di tassa rifiuti a distanza di sette
anni dall'entrata in vigore della legge che ha dato ai
comuni questa facoltà.
Anche per il Tar il condono dei
tributi locali poteva essere deliberato solo per gli
obblighi «precedentemente non adempiuti» alla data di
entrata in vigore della legge stessa, limitatamente ai
periodi d'imposta antecedenti il 2003. Del resto l'esercizio
di un potere in materia tributaria da parte dell'ente
locale, una volta spirato il termine previsto dalla legge
statale autorizzativa, «comporta la carenza del potere
medesimo».
Con quest'ultimo parere i giudici contabili si sono
allineati alla tesi della Cassazione che ha già preso
posizione sulla questione, dichiarando illegittima la
delibera del comune di Roma che aveva istituito il condono
delle liti pendenti instaurate dopo l'entrata in vigore
della Finanziaria 2003. La sezione tributaria della Corte di
cassazione, con le sentenze 12675 e 12679/2012, ha precisato
che la sanatoria era ammessa solo per gli obblighi non
adempiuti dal contribuente fino al 2002 e per i procedimenti
contenziosi già pendenti.
I comuni, quindi, non hanno il potere di deliberare la
sanatoria a distanza di anni da quando il legislatore gli ha
riconosciuto questa facoltà. Nonostante l'articolo 13 della
legge 289/2002 non ponesse alcun limite temporale e non ne
condizionasse l'efficacia alle violazioni commesse e alle
controversie instaurate fino all'entrata in vigore della
norma.
La Finanziaria 2003 ha attribuito agli enti locali il
potere di disciplinare con regolamento la riduzione
dell'ammontare delle imposte e tasse loro dovute, escludendo
o riducendo gli interessi e le sanzioni a carico del
contribuente. L'unico obbligo imposto espressamente ex lege,
nel rispetto dello Statuto del contribuente (legge
212/2000), riguardava il termine minimo che doveva
intercorrere tra l'entrata in vigore del regolamento e gli
adempimenti posti a carico del contribuente.
Era poi lasciata agli enti la scelta di fissare
autonomamente il termine entro il quale fosse possibile
regolarizzare le violazioni commesse, purché non inferiore a
60 giorni dalla data di pubblicazione dell'atto
regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2016). |
TRIBUTI: Gestori di acqua, energia e tlc esenti dal canone
concessorio.
Servizi a rete. Il Consiglio di Stato ribadisce il recente
cambio di giurisprudenza.
Non è dovuto
il canone concessorio se l’occupazione dei servizi a rete
non impedisce in tutto o in parte la fruizione della strada.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato
-Sez. V- con la
sentenza
12.05.2016 n. 1926, confermando l’annullamento di un
regolamento comunale istitutivo del canone concessorio non
ricognitorio.
Finisce così l’ampio contenzioso degli ultimi anni tra
Comuni e gestori di acqua, gas, energia elettrica e
telecomunicazioni. La materia del contendere non riguarda la
Tosap (o il Cosap) ma l’applicazione del canone previsto
dall’articolo 27 del Codice della strada, che molti Comuni
hanno istituito con regolamento, poi impugnato assieme alle
richieste di pagamento inviate ai gestori dei servizi a
rete.
Per comprendere le dimensioni del fenomeno va
considerato che nel 2015 sono state depositate ben 65
sentenze (in particolare dal Tar Milano), in prevalenza
negative per gli enti locali, che si sono visti annullare i
regolamenti con evidenti ripercussioni sui bilanci. Da qui
l’appello al Consiglio di Stato, che si era peraltro già
pronunciato a fine 2014, attribuendo al canone in questione
la patente di legittimità (sentenza n. 6459/2014).
Ma il vento è cambiato. Una prima avvisaglia si è avuta con
l’ordinanza n. 1191 del 7 aprile scorso dello stesso
Consiglio di Stato, che dava atto di un orientamento
favorevole alla tesi comunale, ma riteneva di pervenire a
diverse conclusioni per «prevalenti ragioni testuali e
sistematiche». Le stesse parole della sentenza depositata
ieri all’esito dell’udienza pubblica tenutasi proprio il 7
aprile insieme a tanti altri appelli sul canone. Si
attendono quindi altre sentenze dello stesso tenore, che
conferma la decisione del Tar Milano (sentenza n. 1130/2015)
sia pure per ragioni in parte diverse.
In particolare i giudici di Palazzo Spada evidenziando che
il canone concessorio stradale non può essere richiesto a
fronte di qualunque utilizzo della strada, ma solo in caso
di utilizzo che impedisca in tutto o in parte la pubblica
fruizione. Pertanto la pretesa sarà legittima solo durante
la fase di posa in opera dell’infrastruttura a rete,
trattandosi di lavori che occupano la sede stradale.
In sostanza, contrariamente a quanto affermato con sentenza
n. 6459/2014, il Consiglio di Stato esclude ora la
possibilità di esigere il canone non ricognitorio in tutte
le ipotesi di utilizzo del sottosuolo stradale che non
impediscono o limitano l’uso pubblico della sede viaria,
come nel caso delle infrastrutture idriche a rete. Un
settore peraltro nel quale vige un principio di tendenziale
gratuità della messa a disposizione della rete idrica
(articolo 153 Dlgs 152/2006).
Lo stesso dicasi anche per le
reti di telecomunicazioni (articolo 93 Dlgs 259/2003), ma in
questo caso il nodo interpretativo è stato definitivamente
sciolto dal legislatore con l’articolo 12 del Dlgs 33/2016,
che vieta l’applicazione di altri oneri. Per tutti gli altri
gestori (acqua, gas ed energia elettrica), lo stop al canone
è invece arrivato dal Consiglio di Stato (articolo Il Sole 24 Ore del
13.05.2016). |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti prescritta in 5 anni dalla cartella.
Dopo la notifica della cartella di pagamento relativa alla
tassa comunale sui rifiuti, l'agente della riscossione ha a
disposizione cinque anni di tempo per riscuotere le somme o
per notificare atti interruttivi: altrimenti, la pretesa si
estingue ed è possibile formulare l'eccezione in sede di
impugnazione dell'intimazione di pagamento.
È quanto si legge nella
sentenza
06.05.2016 n. 3940/05/16 della Ctp di Milano,
depositata lo scorso 6 maggio.
Un condominio del capoluogo meneghino proponeva ricorso
contro l'intimazione di pagamento notificata da Equitalia,
basata su sette cartelle di pagamento di pagamento relative
alla Tarsu. Tutte le cartelle erano state notificate oltre 5
anni prima rispetto all'intimazione, ed erano divenute
definitive per mancata impugnazione; il condominio eccepiva
l'intervenuta prescrizione della pretesa.
Si costituiva in giudizio l'Agente della riscossione,
sostenendo che la prescrizione, dopo la cartella di
pagamento, fosse decennale, a prescindere dalla natura del
credito in esazione.
La Ctp di Milano ha accolto il ricorso, osservando in primis
che la definitività amministrativa della pretesa,
determinata dalla mancata impugnazione della cartella di
pagamento, non è mai equiparabile alla definitività di una
sentenza che, ai sensi dell'articolo 2953 del codice civile,
produce l'effetto di dilatare il termine di prescrizione a
10 anni. Per cui, il termine di prescrizione, dopo la
notifica della cartella, rimane quello proprio del tributo a
cui la stessa si riferisce.
Nel caso di specie, osserva la Ctp, deve rilevarsi che la
tassa comunale sui rifiuti si configura quale prestazione
periodica e, come tale, soggetta alla prescrizione
quinquennale stabilita dall'articolo 2948, comma 4, del
codice civile, secondo cui «si prescrivono in cinque anni (
) 4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve
pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
Il collegio richiama una sentenza della Cassazione (n.
4283/2010) nella quale si afferma che i tributi locali sono
elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico,
caratterizzati da una causa debendi di tipo continuativo,
suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo, in
relazione alla quale l'utente è tenuto ad una erogazione
periodica.
All'accoglimento del ricorso, la Ctp ha fatto seguire la
condanna alle spese in capo all'Agente della riscossione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'applicazione del termine breve di cinque anni
(in luogo di quello ordinario di dieci anni) è stata
affermata dalla Cassazione con sentenza del 23.02.2010. In particolare la Cassazione sostiene che i tributi
locali (a differenza di quelli erariali) sono «prestazioni
periodiche» e, come tali, rientrano nell'ambito di
applicazione dell'articolo 2948, comma 4, del Codice civile,
che stabilisce appunto la prescrizione quinquennale.
I
tributi locali (tassa per lo smaltimento rifiuti, per
l'occupazione di suolo pubblico, per concessione di passo
carrabile, contributi di bonifica) -dice la Corte- sono
«elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico
caratterizzati da una ''causa debendi'' di tipo continuativo
suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo in
relazione alla quale l'utente è tenuto a una erogazione
periodica, dipendente dal prolungarsi sul piano temporale
della prestazione erogata dall'ente impositore, o dal
beneficio dallo stesso concesso» (Cassazione, sezione
tributaria civile, sentenza 23.02.2010, numero 4283).
Con riferimento all'asserita prescrizione e/o decadenza
della pretesa tributaria, il Collegio rileva che il
Concessionario della Riscossione, nelle proprie
controdeduzioni al ricorso, non ha prodotto documentazione
attestante l'intervenuta notifica di eventuali atti
interruttivi del termine della prescrizione. Ritiene il
Collegio che la pretesa oggetto del presente ricorso,
trattandosi di tasse locali, è assoggetta al termine di
prescrizione previsto dall'art. 2948 del Codice Civile,
ossia il termine di prescrizione breve di cinque anni in
quanto trattasi di prestazioni periodiche. Inoltre a parere
del Collegio non ha effetto sul termine di prescrizione la
sospensione che era stata decretata dall'art. 1 -comma 623-
della Legge 27/12/2013 n. 147.
Ne discende quindi che l'eccezione di prescrizione della
pretesa tributaria, a parere del Collegio, va accolta.
Precisa che per le cartelle esattoriali presupposto
dell'atto impugnato vale il termine breve di cinque anni,
atteso che la prestazione tributaria non può che essere
reputata alla stregua di una prestazione periodica.
Pertanto l'attività dell'Agente della riscossione è soggetta
esclusivamente al termine ordinario di prescrizione con la
conseguenza che una volta notificata la cartella di
pagamento è possibile attivare le procedure di riscossione
coattiva entro cinque anni dalla data di notifica della
cartella stessa. Circostanza che nel caso non si è
verificata. Si ritiene che nessun atto interruttivo del
termine di prescrizione risulta peraltro notificato alla
data di decadenza della cartella di pagamento [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
TRIBUTI: Società comunali senza sconti. Gli immobili posseduti non
beneficiano dell'esenzione Imu. La Cassazione considera tassativo l'elenco dei soggetti che
non pagano l'imposta.
Un immobile posseduto da una società costituita da più
comuni e utilizzato per lo svolgimento dell'attività di
smaltimento rifiuti non ha diritto a fruire dell'esenzione
Ici.
Il principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
04.05.2016 n. 8872.
Naturalmente, la stessa regola vale per l'Imu.
Secondo la Cassazione, l'elencazione dei soggetti esenti
dall'imposta municipale è tassativa e una società di
capitali, ancorché costituita tra enti pubblici
territoriali, «non può fruire dell'esenzione, non rientrando
tra i soggetti esenti e non essendo possibile una
interpretazione analogica della norma agevolativa, siccome
norma eccezionale. A prescindere dalla ulteriore questione
se gli immobili della società siano destinati a scopi
istituzionali».
L'interpretazione dei giudici di legittimità è pienamente
condivisibile. L'esenzione Ici, ma lo stesso vale per l'Imu,
è prevista per gli immobili posseduti, oltre che dallo
stato, da regioni, province, comuni ed è condizionata dalla
destinazione effettiva che a questi viene data.
L'elencazione è tassativa, poiché tutte le norme che
prevedono agevolazioni sono di stretta interpretazione e non
è ammesso ricorrere all'analogia.
Per il riconoscimento
dell'esenzione non è sufficiente la volontà di utilizzare
l'immobile per scopi istituzionali. La destinazione deve
essere effettiva e concreta. In base all'articolo 7, comma
1, lettera a), del decreto legislativo 504/1992 non spetta
l'esenzione Ici e Imu se l'ente pubblico non fornisce la
prova che l'immobile abbia questa destinazione esclusiva.
Gli immobili, dunque, devono essere diretti a soddisfare
compiti dell'ente pubblico (sede o ufficio) che ne è
proprietario. È indispensabile che l'utilizzo avvenga in
forma immediata e diretta, e cioè da soggetti interni alla
struttura organizzativo-amministrativa dell'ente, poiché
solo in questo caso l'uso può essere caratterizzato da fini
istituzionali.
Per esempio la Commissione tributaria provinciale di Terni,
prima sezione, con la sentenza 237/2011 ha stabilito che la
provincia è tenuta a pagare l'Ici (e dal 2012 anche l'Imu)
se gli immobili non sono destinati al soddisfacimento di
compiti dello stesso ente pubblico che ne è proprietario.
Non è infatti sufficiente che li metta a disposizione di
terzi, anche se la provincia è obbligata a darli in uso allo
stato per lo svolgimento di attività didattiche (sede
universitaria).
Va ricordato che con l'introduzione dell'Imu è stato
ristretto l'ambito delle esenzioni prima riconosciute dalla
disciplina Ici. Non possono più fruire dell'agevolazione
fiscale gli immobili posseduti dalle camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura.
Non è stata riproposta l'esenzione neppure per i fabbricati
dichiarati inagibili o inabitabili che vengono recuperati
per essere destinati a attività assistenziali. Infine, con
la modifica dell'articolo 7, lettera a), sono state
ridisegnate le agevolazioni anche per gli immobili posseduti
dagli enti pubblici territoriali, poiché l'esonero dal
pagamento è limitato solo agli immobili siti sul proprio
territorio e non compete più per quelli ubicati sul
territorio di altri enti
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
aprile 2016 |
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TRIBUTI:
Pertinenze esenti se strettamente asservite.
Affinché un'area sia qualificabile come pertinenza, esente
da tassazione Ici, deve sussistere un vincolo d'asservimento
durevole delle aree al fabbricato, con il fine di
migliorarne le condizioni d'uso e il valore. In materia
fiscale, vista l'indisponibilità del rapporto, la prova
dell'oggettivo asservimento pertinenziale, che grava sul
contribuente, deve essere del resto valutata con maggior
rigore rispetto ai rapporti privatistici.
Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile,
con la
sentenza 27.04.2016 n. 8367.
Nel caso di specie (che ha riflessi anche sull'Imu) il
contribuente aveva impugnato sei avvisi di accertamento,
attraverso i quali il comune richiedeva il pagamento
dell'Ici relativamente a due aree edificabili, contigue a un
edificio di cui i ricorrenti erano proprietari.
I
contribuenti non le avevano infatti mai dichiarate, in
quanto le utilizzavano come giardino pertinenziale
dell'abitazione. Sia la Ctp che la Ctr confermavano la
correttezza degli avvisi. Il contribuente proponeva quindi
ricorso davanti alla Corte, che però lo riteneva infondato,
rilevando che le aree erano censite in catasto autonomamente
rispetto all'edificio al quale accedevano ed erano inserite
in zona territoriale omogenea B a prevalente destinazione
residenziale.
Nel caso di specie dunque la scelta pertinenziale avrebbe
avuto l'unica funzione di eludere il prelievo, in contrasto
con la reale natura del cespite, laddove la simulazione di
un vincolo di pertinenza al fine di ottenere un risparmio
fiscale può rappresentare abuso del diritto
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016).
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MASSIMA
Il motivo non è fondato.
Infatti, oggetto degli avvisi d'accertamento e liquidazione
emessi dal Comune di Ravarino e poi opposti, sono due aree,
autonomamente distinte nel catasto del predetto comune,
quali aree edificabili, in quanto inserite in zona
territoriale omogenea B a prevalente destinazione
residenziale, giusta estratti dello strumento urbanistico
allegati dalla parte resistente al presente ricorso.
Tali aree, come detto, sono censite in catasto
autonomamente, rispetto all'edificio al quale accedono e non
sono mai state fatte oggetto di dichiarazione e liquidazione
ai fini ICI (la parte contribuente, inoltre, avrebbe potuto
impugnare l'attuale classamento presso la competente sede
giudiziaria, mentre vi ha inizialmente prestato adesione,
ritenendo di beneficiare del maggior valore attribuito,
mentre, successivamente e nella presente sede, ha ritenuto
più rispondente al proprio interesse, attribuire un diverso
utilizzo all'area); questa circostanza, secondo
l'orientamento di questa Corte, non consente alla parte
contribuente di poter contestare l'atto impositivo,
deducendo la sussistenza di un asserito vincolo di
pertinenzialità; infatti, secondo l'orientamento che si
ritiene di condividere, "Il rapporto
d'ICI s'instaura attraverso la denuncia del contribuente,
mediante la quale egli dichiara la sua situazione di
possesso rilevante per l'ICI e sulla base di essa egli
stesso provvede alla liquidazione periodica dell'imposta.
L'impostazione iniziale viene variata, oltre che per
l'eventuale intervento accertativo del Comune, ogni volta
che nella situazione possessoria del contribuente
s'introduca una modificazione e il contribuente rinnovi la
dichiarazione adeguatrice...".
Nella odierna vicenda, il rapporto ICI è stato gestito come
una specie, del genere rapporto giuridico, fissato
inizialmente dal contribuente sul solo presupposto del
possesso dell'abitazione, con omissione di ogni riferimento
al possesso dei due terreni, sia a titolo di area
edificabile che di pertinenza, "...cosicché,
se lo stesso contribuente non ha affermato la sua
pertinenzialità in via di specialità, vuoi dire che egli ha
voluto lasciarlo nella sua condizione di area fabbricabile,
corrispondentemente alla regola generale. A questo
proposito, sovviene a rafforzare questa conclusione il
doveroso riconoscimento della volontà del privato di
valutare liberamente la convenienza dell'applicazione di
altre norme sulle aree fabbricabile, come quelle, per
esempio, che ne regolano l'espropriazione e la relativa
indennità...,"
(Cass. n. 19638/2009).
Pertanto, volendo fare "buon governo" delle superiori
considerazioni,
si deve ribadire che affinché un'area sia qualificabile come
"pertinenza" e, come tale, vada esente dalla
tassazione ICI, deve sussistere un vincolo d'asservimento
durevole, funzionale o ornamentale delle aree al fabbricato,
con il fine di migliorarne le condizioni d'uso, la
funzionalità e il valore; infatti, in materia fiscale,
attesa 'indisponibilità' del rapporto tributario, la
prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale che grava
sui contribuente (quando, come nella specie, ne derivi una
tassazione attenuta) deve essere valutata con maggior rigore
rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico.
Pertanto,
la mera "scelta" pertinenziale non può avere alcuna
valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
eludere il prelievo fiscale, evitando l'assoggettabilità al
precetto che impone la tassazione in ragione della reale
natura del cespite. E la possibile simulazione di un vincolo
di pertinenza, ai sensi dell'art. 817 c.c., al fine di
ottenere un risparmio fiscale, può essere inquadrata nella
più ampia categoria dell'abuso del diritto
(v. Cass. sez. un. n. 30055 del 2008).
Pertanto, secondo l'insegnamento di questa Corte "...per
qualificare come pertinenza di un fabbricato un'area
edificabile, è necessario che intervenga un'oggettiva e
funzionale modificazione dello stato dei luoghi che
sterilizzi in concreto e stabilmente lo "ius edificandi" e
che non si risolva, quindi, in un mero collegamento
materiale, rimovibile "ad libitum"..."
(Cass. n. 25127 del 2009). |
TRIBUTI: Tributi, sulle delibere fuori tempo Tar che vai sentenza che
trovi. Il caso.
Nel mese di aprile si registrano due opposte decisioni sullo
stesso argomento da parte di due Tar diversi. Tar che vai
decisione che trovi.
Stesso ricorrente, stessa materia, stesse norme di
riferimento, ma incredibilmente diverse le decisioni a cui
sono giunti il TAR Calabria-Reggio Calabria con la
sentenza
08.04.2016 n. 392 e il
TAR Friuli Venezia Giulia, con la
sentenza
22.04.2016 n. 148.
Stesso ricorrente: il ministero dell'economia e delle
finanze che ha impugnato «i regolamenti sulle entrate
tributarie per vizi di legittimità».
Stessa materia: l'approvazione delle deliberazioni comunali
in materia di tributi locali adottate dopo il termine per
l'approvazione del bilancio di previsione. Per il comune
calabrese si trattava della delibera Tari, per quello
friulano della delibera Iuc, Tari e Tasi.
Stesse norme di riferimento: l'art. 1, comma 169, della
legge 27.12.2006 n. 296, il quale stabilisce che gli
enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai
tributi di loro competenza entro la data fissata da norme
statali per la deliberazione del bilancio di previsione. E
che, in caso di mancata approvazione entro il suddetto
termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di
anno in anno.
Purtroppo da anni gli enti locali rimangono «incagliati»
nelle spire di queste disposizioni e una nutrita
giurisprudenza si è ormai consolidata in materia, che ha
enucleato una serie di principi divenuti ormai saldi, primo
fra tutti la natura perentoria del termine, che, peraltro,
«è desumibile dal dato testuale della disposizione» stessa
come ha precisato il Consiglio di stato nelle sentenze n.
3808 del 17.07.2014, n. 4409 del 28.08.2014 e n.
1495 del 19.03.2015.
Anche la sentenza del Tar per la Calabria n. 392 del 2016
non si discosta da detta impostazione e anzi evidenzia che
la norma in esame «contiene, peraltro, previsioni
sanzionatorie, come l'inapplicabilità delle nuove tariffe e
aliquote, ove approvate dopo il termine» di approvazione del
bilancio di previsione. Da ciò i giudici calabresi arrivano
ad annullare la delibera comunale approvata fuori termine.
Il Tar per il Friuli Venezia Giulia, invece, non ha neanche
affrontato il merito del ricorso, ma lo ha dichiarato
inammissibile, sostenendo, in maniera assolutamente
singolare, che «non si vede quale utilità potrebbe ottenere
il ministero ricorrente dall'annullamento delle citate
delibere, se non un mero ripristino della legalità», come se
il ripristino della legalità non fosse un principio
oggettivamente degno di tutela.
In altri termini, secondo i
giudici friulani, non è sufficiente la denuncia della
«difformità dalla legge» delle delibere impugnate, per
quanto concerne la tempistica della loro approvazione, ma
viene richiesto al Mef di dimostrare un vero e proprio
interesse ad agire, come avviene per qualsiasi soggetto che
voglia agire in giudizio.
I giudici omettono, però, di
considerare quanto stabilito dal Consiglio di stato che
nella sentenza 3817 del 17.07.2014 ha messo in chiaro
che «tale legittimazione prescinde dall'esistenza di una
lesione di una situazione giuridica tutelabile in capo allo
stesso dicastero, configurandosi come una legittimazione ex lege, esclusivamente in funzione e a tutela degli interessi
pubblici la cui cura è affidata al ministero dalla stessa
legge (cfr. Cons. stato, sez. 3, parere del 14.07.1998)».
Ci sono quindi buoni motivi per ipotizzare che la pronuncia
del Tar Friuli resti come un'unica voce fuori dal coro.
È, infine, proprio un passo della sentenza del Tar per la
Calabria che ci offre un'esplicitazione dell'interesse a
ricorrere del Mef, laddove si afferma che l'esigenza di
tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini
impone di circoscrivere il potere di determinazione delle
tariffe e delle aliquote da parte del comune entro un
margine di tempo ben definito, costituito dalla data di
approvazione del bilancio di previsione, che costituisce un
limite invalicabile alla discrezionalità
dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2016). |
TRIBUTI:
Terreno edificabile solo di fatto.
La destinazione d'uso non è sufficiente, da sola, a
qualificare come edificabile un terreno. L'edificabilità,
infatti, deve essere effettiva; in caso di mancata
edificabilità effettiva, il terreno non può mai essere
ritenuto edificabile.
È quanto si legge nella
sentenza
18.04.2016 n. 103/02/16 emessa dalla sezione seconda
della Commissione tributaria provinciale di Lecco.
La vertenza riguarda un avviso di liquidazione con cui le
Entrate di Lecco intendevano rettificare i valori dichiarati
in sede di una compravendita. Il contribuente nel ricorso
presentato alla Commissione tributaria provinciale, di Lecco
tra gli altri motivi, eccepiva anche dei vizi di merito.
Infatti, relativamente alle aree oggetto di compravendita
esiste una inedificabilità sostanziale che ne caratterizza,
appunto, il requisito sostanziale dell'edificabilità.
Nel
corso degli ultimi anni abbiamo assistito all'evoluzione del
principio secondo cui l'edificabilità di un terreno sia
strettamente legata con la destinazione urbanistica
assegnata allo stesso dagli strumenti urbanistici. Il
principio, espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione
nella sentenza n. 25506/2006, secondo cui tutti i terreni
inseriti nel Piano Regolatore generale di un comune vanno
considerati, a tutti gli effetti, edificabili, ha trovato
alcune deroghe espresse.
La Corte di cassazione, nella
sentenza n. 8609/2011, ha stabilito che i terreni inseriti
nel Piano regolatore generale come edificabili ma che siano
assoggettati al rispetto delle fasce stradali e ferroviarie
vadano equiparati, ai fini fiscali, alle aree agricole in
considerazione del fatto che gli stessi non sono, agli
effetti pratici, utilizzabili ai fini edificatori.
Lo stesso principio è stato applicato per i terreni in
trattazione nella sentenza di cui al commento. Secondo i
giudici provinciali di Lecco, infatti, «i terreni
compravenduti sono inseriti nelle zone
classificate quali «Rga» distinte dalle zone classificate «Rg»
per le quali è consentita l'effettiva edificabilità. Per
questi terreni inseriti nelle zone «Rga» (residenziali in
genere in zona A) non si applicano gli indici di
edificabilità, mentre conservano la destinazione d'uso».
Ne
deriva la sostanziale inedificabilità dei terreni
compravenduti, circostanza che, di fatto, rende del tutto
inattendibile il calcolo effettuato dall'ufficio; né possono
ritenersi giustificati i richiami agli altri atti registrati
per la comparazione, laddove manchi il requisito sostanziale
della edificabilità.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
I sigg.ri [omissis], hanno impugnato, con unico ricorso
ritualmente notificato e iscritto a ruolo, l'avviso
notificato loro dall'Agenzia delle entrate di Lecco, con
cui, il citato Ente ha rettificato il valore della
compravendita immobiliare dichiarato in sede di atto
notarile e ha provveduto alla liquidazione delle imposte di
registro, catastali e ipotecarie relative.
I ricorrenti, con
l'atto introduttivo del giudizio, lamentano: l'inesistenza
dell'avviso di rettifica per inesistenza giuridica della
notificazione; nel merito, la nullità dell'atto impugnato
per illegittimità e infondatezza dello stesso. I ricorrenti
hanno concluso chiedendo l'annullamento dell'atto. L'Ufficio
fiscale si è costituito regolarmente in giudizio,
contestando gli assunti dei ricorrenti, sostenendola
legittimità dell'accertamento e chiedendo, con le
conclusioni, il rigetto del ricorso. [omissis]
Nel merito,
il ricorso è fondato. Le norme tecniche di attuazione del Prg. vigente, prodotte dai ricorrenti, stabiliscono al punto
21.1.3, alcune prescrizioni tecniche in ordine agli indici
urbanistici di edificabilità nella zona in cui ricadono i
terreni oggetto del contratto di compravendita sul cui
valore vi è contestazione.
Tali indici appaiono riferiti
alle zone classificate quali «Rg» distinte dalle zone
classificate «Rga» per le quali è, invece stabilito che:
«Per le aree individuate con Rga (residenziali in genere in
zona A) non si applicano gli indici sopraesposti mentre
conservano efficacia le sole destinazioni d'uso».
Alla luce di tale disposizione e della non contestata
zonizzazione (Rga) dei mappali 1392 e 1393 la parziale)
sussiste, nella fattispecie, la sostanziale inedificabilità
dei terreni oggetto del contratto di compravendita. Appare
pertanto, del tutto inafferente il calcolo effettuato
dall'ufficio, al fine di giungere alla rettifica dei valori
indicati nel citato atto; né possono ritenersi giustificati
i richiami ad altri atti registrati per effettuare la
comparazione, laddove manca il requisito sostanziale della
edificabilità.
In conclusione stante: la conformazione dei
terreni, si tratta di terreni in pendio; la sussistenza dei
vincoli di destinazione, elementi sui quali non vi è
contestazione, nonché la non edificabilità degli stessi, il
valore dichiarato in compravendita, deve ritenersi congruo.
Il ricorso va pertanto, accolto. Le spese di giudizio
seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La commissione accoglie il ricorso. Condanna l'Agenzia delle
entrate al pagamento delle spese di giudizio, in favore dei
ricorrenti, che liquida in 2.576,00 oltre Iva, cpa, c.u.e il
15% per spese generali. [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Niente compensazione per giusti motivi.
In caso di soccombenza di una delle parti, è illegittima la
compensazione delle spese di giudizio «per giusti motivi»:
le spese, infatti, possono essere compensate dal giudice per
«gravi ed eccezionali ragioni», che devono trovare puntuale
riferimento in specifiche circostanze o aspetti della
controversia decisa e, in ogni caso, devono essere indicate
specificamente e non con un generico richiamo.
È quanto
ribadisce la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza
13.04.2016 n. 7345.
Il giudizio di
legittimità prendeva le mosse dal ricorso proposto da un
notaio che impugnava una sentenza della Ctr del Lazio per la
parte della decisione relativa alle spese. Nonostante,
infatti, il notaio fosse risultato completamente vittorioso
nel giudizio instaurato contro un avviso di liquidazione
(vicenda in cui veniva coinvolto come responsabile in
solido), il giudice regionale capitolino aveva disposto la
compensazione integrale delle spese di giudizio, appoggiando
la statuizione sulla frase “per giusti motivi”.
Questo,
secondo il contribuente, non era conforme ai dettami
dell'articolo 92 del cpc («se vi è soccombenza reciproca o
concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni,
esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può
compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le
parti»), norma applicabile al processo tributario e a
quello specifico giudizio (instaurato dopo il 04.07.2009). Gli ermellini hanno accolto il ricorso e cassato la
sentenza, rinviando ad altra sezione della Ctr del Lazio,
chiamata a disporre anche per quanto concerne la
liquidazione delle spese del grado di giudizio in
Cassazione.
La compensazione delle spese era una possibilità
pur prevista dall'allora vigente panorama normativo (art. 92 cpc, richiamato espressamente dall'articolo 15 del dlgs
546/1992); tuttavia, è necessario che il giudice che opti per
tale scelta, in presenza di soccombenza di una delle parti,
dedichi un congruo spazio alla motivazione specifica sul
punto, individuando delle argomentazioni valide a
sostenerla. A tal scopo, non può dirsi sufficiente una
generica locuzione «per giusti motivi», che non rispetta i
parametri fissati dalle norme.
Da precisare che l'attuale versione dell'art. 15 del dlgs
546/1992, comma 2, ha recepito espressamente i precetti di cui
al citato art. 92 cpc, disponendo che «le spese di giudizio
possono essere compensate in tutto o in parte dalla
commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza
reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni
che devono essere espressamente motivate».
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] In tema di contenzioso tributario, secondo la
testuale previsione dell'art. 15, comma primo, dlgs n. 546
del 1992, la Commissione tributaria può dichiarare
compensate le spese processuali in tutto o in parte a norma
dell'art. 92, comma secondo, cpc, norma quest'ultima
emendata dalla legge 18.06.2009, n. 69, art. 45, comma
11, applicabile alla fattispecie per essere il giudizio di
primo grado iniziato dopo il 04/07/2009 (essendo in
contestazione il regime di tassazione di un mandato
irrevocabile registrato dal professionista in data
“18/07/2011” e l'impugnazione del successivo avviso di
liquidazione).
Detta norma, com'è noto, prevede che, “se vi
è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed
eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella
motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per
intero, le stese tra le parti".
Sul punto si è consolidato
l'orientamento (Cass. 20.04.2012, n. 6279) per il quale
le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi
esplicitamente nella motivazione e in presenza delle quali -o, in alternativa alle quali, della soccombenza reciproca-
il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del
giudizio, devono trovare puntuale riferimento in specifiche
circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass., ord.
15.12.2011, n. 26987) e comunque devono essere appunto
indicate specificamente (Cass., ord. 13.07.2011, n.
15413; Cass. 20.10.2010, n. 21521).
Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto
modo di precisare che “l'art. 92 cp, comma 2, nella parte in
cui permette la compensazione delle spese di lite allorché
concorrano “gravi ed eccezionali ragioni”, costituisce una
norma elastica, quale clausola generale che il legislatore
ha previsto per adeguarla ad un dato contesto
storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed
efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in
via interpretativa da parte del giudice del merito, con un
giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto
fondato su norme giuridiche” (Gas s. Sez. un., n.
2572/2012).
Erroneamente, pertanto, la Ctr ha disposto la
compensazione integrale delle spese di lite “per giusti
motivi”, in violazione della normativa vigente ratione
temporis, 3. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento
del primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, va
cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Ctr del
Lazio, in diversa composizione. Il giudice del rinvio
provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente
giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata
con rinvio, anche in ordine alla liquidazione delle spese
del presente giudizio di legittimità, alla Commissione
tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.
[omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Notifiche a mezzo posta senza relata.
Cassazione ricorda che si seguono le regole sul servizio
postale ordinario.
In tema di notificazioni a mezzo posta, non deve essere
redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica
sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è
stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo
del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a
quest'ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 c.c.
Inoltre, ai sensi dell'art. 140 cpc la
raccomandata cosiddetta «informativa» deve contenere la
semplice notizia del deposito dell'atto stesso presso la
casa comunale e, per quanto riguarda la notificazione nei
confronti di un destinatario irreperibile, non occorre che
dall'avviso di ricevimento della raccomandata informativa
del deposito dell'atto presso l'ufficio comunale risultino
tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione
effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto
da esso risultare il trasferimento, il decesso del
destinatario o altro fatto impeditivo della conoscibilità
(non della conoscenza effettiva) dell'avviso stesso.
Questi
importanti princìpi, in tema di notificazione, sono stati
espressi dalla VI Sez. civile della Corte di Cassazione
nell'ordinanza 12.04.2016 n. 7184.
I giudici di
legittimità hanno richiamato la pronuncia della Cassazione
n. 9111/2012 che, in tema di notificazioni a mezzo posta, ha
stabilito che la disciplina relativa alla raccomandata con
avviso di ricevimento, mediante la quale può essere
notificato l'avviso di liquidazione o di accertamento senza
intermediazione dell'ufficiale giudiziario, è quella dettata
dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario
per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le
disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982 attengono
esclusivamente alla notifica eseguita dall'ufficiale
giudiziario ex art. 140 cpc.
Ne consegue che, difettando
apposite previsioni della disciplina postale, non deve
essere redatta alcuna annotazione specifica sull'avviso di
ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il
plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario
deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, stante
la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c.,
superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato,
senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione.
Sempre con specifico riferimento alle formalità relative
alla notifica ai sensi dell'art. 140 cpc, in materia
tributaria, già la recente sentenza della Cassazione n.
26864/2014 ha precisato che la raccomandata cosiddetta
informativa, poiché non sostituisce l'atto da notificare, ma
contiene solo la notizia del deposito dell'atto stesso nella
casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla
L. n. 890/1982, sicché per la stessa occorre rispettare solo
quanto prescritto dal regolamento postale per la
raccomandata ordinaria.
In particolare, la Suprema Corte ha
escluso che la mancata specificazione, sull'avviso di
ricevimento, della qualità del consegnatario e della
situazione di convivenza o meno con il destinatario
determini la nullità della notificazione. Inoltre, nella
notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai
sensi dell'art. 140 cpc, non occorre che dall'avviso di
ricevimento della raccomandata informativa del deposito
dell'atto presso l'ufficio comunale, che va allegato
all'atto notificato, risulti precisamente documentata
l'effettiva consegna della raccomandata, ovvero
l'infruttuoso decorso del termine di giacenza presso
l'ufficio postale, né che detto avviso contenga, a pena di
nullità dell'intero procedimento notificatorio, tutte le
annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a
mezzo del servizio postale, dovendo invece da esso
risultare, a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso
del destinatario o altro fatto impeditivo della
conoscibilità dell'avviso stesso, come stabilito di recente
dalla sentenza della Cassazione n. 2959/2013.
Nel caso di specie, la Ctr del Lazio non si è conformata a
tali principi, avendo dichiarato la nullità della
notificazione della cartella esattoriale effettuata dal
messo notificatore ai sensi dell'art. 140 cpc, condizionando
la validità della notificazione alla riferibilità della
firma apposta sulla raccomandata di ricevimento al
destinatario della stessa, senza invece considerare
l'inutilità di siffatta verifica, una volta acclarato il
compimento della formalità dell'inoltro al destinatario
della raccomandata informativa
(articolo ItaliaOggi del 28.04.2016). |
TRIBUTI:
Ingiunzione Tarsu firmata dal funzionario.
Ingiunzione di pagamento Tarsu illegittima senza la firma
del funzionario responsabile. L'ingiunzione emanata dal
concessionario della riscossione per conto del comune deve
essere sottoscritta, a pena di nullità, dal funzionario
responsabile dell'ente, che è tenuto anche ad apporre il
visto di esecutività sulla lista di carico. Il
concessionario della riscossione non è legittimato a
sottoscrivere l'ingiunzione.
È quanto ha stabilito la Ctp di
Taranto, I Sez., con la sentenza 07.04.2016 n. 854.
Per la commissione provinciale, l'ingiunzione non è
valida senza la «necessaria e specifica sottoscrizione da
parte del funzionario responsabile del servizio». In
particolare, l'atto impugnato (ingiunzione Tarsu) «non
risulta sottoscritto e ne accompagnato dalla provata
sottoscrizione da parte del funzionario responsabile
comunale di un pur più ampio elenco di contribuenti tenuti
al pagamento della pretesa tributaria che solo avrebbe
potuto rappresentare il ruolo e sanare le singole
situazioni».
Il principio non può essere condiviso ed è
destinato a generare solo confusione, tenuto conto che non
distingue i casi in cui l'ingiunzione va sottoscritta dal
funzionario responsabile dell'ente, perché l'incarico al
concessionario è limitato alla predisposizione dell'atto,
sotto forma di appalto di servizi, da quelli in cui, invece,
l'attività di riscossione è affidata in concessione e
l'esattore è legittimato alla sottoscrizione. Fermo restando
che il funzionario è tenuto ad apporre il visto di
esecutività sulla lista di carico, ma la stessa,
contrariamente a quanto sostenuto dal giudice, non deve
essere allegata all'ingiunzione.
Nel caso in esame la Soget,
nella qualità di concessionaria del comune di Taranto, era
abilitata alla sottoscrizione dell'atto: non a caso era
stata chiamata in causa dal contribuente come parte
resistente, essendo il soggetto autore dell'atto e, quindi,
legittimato a contraddire. Non era stata opposta, infatti,
dal ricorrente la carenza di legittimazione passiva nel
processo tributario. Solo laddove l'affidamento sia limitato
alla predisposizione degli atti, con la formula dell'appalto
di servizi, il soggetto incaricato può svolgere un'attività
endo-procedimentale, di supporto all'attività dell'ente, non
può sottoscrivere gli atti, non può assumersene la paternità
giuridica e, per l'effetto, non è abilitato alla difesa
innanzi alle commissioni tributarie, perché carente di
legittimazione passiva.
L'ingiunzione è uno strumento nato
per il recupero delle entrate patrimoniali. L'articolo 52
del decreto legislativo 446/1997 ne ha esteso l'ambito di
applicazione a tutte le entrate locali, sia tributarie che
extratributarie. È un atto amministrativo recettizio, che
esplica i suoi effetti nel momento in cui si perfeziona la
notifica, ovvero quando l'intimazione viene portata a
conoscenza del destinatario.
È utilizzabile a seguito di una pretesa divenuta definitiva
o anche quando l'atto viene contestato innanzi all'autorità
giudiziaria. È un atto emanabile dopo la notifica
dell'avviso di accertamento, sempre che non venga sospeso
dal giudice, o comunque qualora vi sia un titolo esecutivo
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2016). |
marzo 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Niente
accatastamento per le reti di Tlc.
Infrastrutture. Il chiarimento è fornito dal decreto
attuativo della direttiva 2014/61.
Il decreto attuativo
della direttiva 2014/61 fa chiarezza: le infrastrutture di
reti di comunicazione elettronica non vanno accatastate. Le
infrastrutture di telecomunicazione non sono unità
immobiliari e, come tali, non vanno iscritte in catasto e
non soggiacciono alla fiscalità conseguente.
È d’impatto l’intervento del legislatore che, nell’ambito
del decreto legislativo 33/2016 attuativo della direttiva
2014/61/Ue sulla riduzione dei costi delle reti di
comunicazione elettronica ad alta velocità, ha deciso di
dare una svolta all’annosa questione dell’accatastamento
delle infrastrutture Tlc. Si tratta dei tralicci,
ripetitori, stazioni radio base, antenne -oltre alle opere
per l'installazione della rete- ancorati a muri o altri
supporti oppure impiantati dentro aree recintate.
In passato sia l’agenzia del Territorio (circolare 4/2006,
6/2012) sia la giurisprudenza si sono occupate del
trattamento catastale: la prima per affermarne l’obbligo di
accatastamento (in forma autonoma o come variazioni di
preesistenti unità immobiliari); la seconda talvolta si è
adeguata alla posizione dell’Agenzia, più spesso ha invece
accolto i ricorsi che ne sostenevano l’irrilevanza sul piano
catastale, specie in virtù dell’assimilazione alle «opere
di urbanizzazione primaria» (articolo 86, comma 3, del
Codice delle comunicazioni elettroniche).
Con il decreto legge Sblocca Italia del 2014 sembrava che la
questione fosse risolta a favore di questa seconda
interpretazione, essendo stabilito che le infrastrutture Tlc
costituiscono opere di urbanizzazione primaria.
La Corte di Cassazione però con la sentenza 24026/2015 in
materia di Ici (si veda «Il Sole 24 Ore» del 26.11.2015) ha
di recente sposato la tesi del Fisco. Invero, la Suprema
corte non ha minimamente affrontato il punto che il decreto
legge Sblocca Italia mirava a risolvere e, con scarna
motivazione, ha deciso per l’accatastamento dei ripetitori
di telefonia mobile nella categoria D.
L’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 33/2016
rimette ordine: non solo le reti ad alta velocità in fibra
ottica, ma tutte le infrastrutture comprese negli articoli
87-88 Cce, da chiunque possedute, sono da considerarsi beni
diversi dalle unità immobiliari in base al Dm 28/1998 e per
questo esclusi dall’accatastamento e dai tributi che ne
conseguono (Imu, Tasi, Ici a suo tempo).
Ciò che rileva, infatti, non è tanto l’autonomia funzionale
e reddituale di queste infrastrutture -e neppure la
destinazione a interesse collettivo per cui in passato sono
state talvolta classificate nella categoria E/3- ma il fatto
che il legislatore ne riconosca una «pubblica utilità»,
analoga per esempio a quella delle fognature o della rete
idrica. La norma, peraltro, dovrebbe avere portata
interpretativa, visto che, secondo la relazione
illustrativa, rappresenta un «chiarimento» volto a
esplicitare quanto già previsto dal Cce.
Natura questa confermata dalla sua collocazione sistematica,
nell’articolo 12 tra le «disposizioni di coordinamento»,
dove al comma 1 si ribadisce che in caso di discordanze
prevalgono le norme del Cce.
Per effetto, il Fisco e gli enti locali non solo dovranno
escludere dall’accatastamento le nuove infrastrutture di
telecomunicazione, ma anche rinunciare alle pretese di
accatastamento già avanzate (articolo Il Sole 24 Ore del
29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo limato. No
all'applicazione quando si tratta di debiti pregressi.
Dai giudici contabili emiliani i paletti
sullo scambio tasse-lavori di pubblica utilità.
Le forme di riduzione di imposte e tasse locali in cambio di
lavori eseguiti per la collettività, meglio note come
«baratto amministrativo», non possono riguardare debiti
pregressi che i cittadini hanno maturato nei confronti
dell'ente locale.
Inoltre, è necessario che sussista un rapporto di stretta
inerenza tra le riduzioni dei tributi che il comune può
deliberare e le attività di valorizzazione del territorio e
che queste siano concesse per un periodo limitato. Infine,
le agevolazioni possono essere indistintamente concesse ad
associazioni di cittadini che singoli utenti amministrati.
È quanto ha reso noto l'interessante
parere 23.03.2016 n. 27
emanato dalla Sezione regionale di controllo della Corte dei
conti per l'Emilia Romagna, con il quale, per la prima volta
sul panorama consultivo, si interviene a chiarire ambito e
portata delle disposizioni innovative contenute all'articolo
24 del decreto legge n. 133/2014, che disciplina le misure di
agevolazione della partecipazione delle comunità locali in
materia di tutela e valorizzazione dei territori.
Come noto, con tale disposizione, i comuni possono definire,
con apposita regolamentazione, interventi di decoro urbano,
pulizia e manutenzione di aree verdi, strade o beni immobili
inutilizzati, su progetti presentati da cittadini singoli o
associati, al fine di vedersi riconosciuta una esenzione o
una riduzione sui tributi inerenti il tipo di attività posta
in essere.
In risposta al comune di Bologna, la Corte emiliana ha
pertanto precisato che il «baratto amministrativo» può aver
luogo solo con un atto deliberativo dell'ente locale che
fissi i criteri e le modalità di svolgimento, secondo la
«traccia» che il legislatore ha messo nero su bianco nel
citato articolo 24 del dl n. 133/2014.
È altresì pacifico,
poi, che per la concessione di esenzioni o riduzioni deve
sussistere un rapporto di stretta inerenza tra queste e le
attività di cura e manutenzione del territorio. Detto in soldoni, un'attività di pulizia e manutenzione di un'area
verde andrà ad incidere sull'ammontare della tariffa rifiuti
e non certo sul canone di occupazione degli spazi pubblici.
Non è altresì possibile, poi, che la regolamentazione del
baratto si protragga «sine die». Come prescrive la legge,
infatti, l'esenzione o la riduzione del pagamento dei
tributi locali può essere concessa solo per un periodo
definito di tempo e per determinate attività, in ragione
«dell'esercizio sussidiario della stessa attività». Inoltre,
precisa il parere, anche se la norma, nell'indicare i
destinatari dei benefici, utilizza l'avverbio
«prioritariamente» per le comunità di cittadini, nulla vieta
che l'ente locale possa permettere anche a singoli cittadini
la concessione del baratto, dietro la presentazione di un
progetto valido.
Sulla specificità dell'oggetto del baratto, ovvero la
temporanea riduzione o esenzione di imposte locali, la Corte
è stata categorica. In dettaglio, il minor gettito è quello
che viene già definito negli stanziamenti dei bilanci di
previsione degli enti che hanno adottato il baratto
amministrativo. In nessun caso è pertanto ammissibile che si
possa consentire la riduzione di tasse ed imposte locali
afferenti a esercizi finanziari precedenti.
In primo luogo, perché difetterebbe il requisito
dell'inerenza tra agevolazione tributaria e tipologia di
attività svolta dai cittadini amministrati. Poi, perché una
simile prospettiva determinerebbe effetti pregiudizievoli
sugli equilibri di bilancio dell'ente, in considerazione che
i debiti tributari dei cittadini vengono iscritti tra i
residui attivi dell'ente
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016). |
TRIBUTI:
Stop al «baratto» senza regolamento. Tasse
locali. Corte dei conti dell’Emilia.
Il baratto amministrativo deve
essere disciplinato dall'apposito regolamento comunale e non
può riguardare i debiti pregressi dei contribuenti.
Lo ha chiarito la
Corte dei Conti Emilia Romagna con il
parere 23.03.2016 n. 27, definendo i contorni di applicabilità
dell'articolo 24 del Dl 133/2014, che consente ai comuni di
deliberare riduzioni o esenzioni di tributi a fronte di
interventi per la riqualificazione del territorio, da parte
di cittadini o associazioni. Si tratta di uno strumento che
consente ai cittadini che non riescono a far fronte al
pagamento dei tributi comunali di ottenere sconti prestando
ore di lavoro in favore della comunità.
Sul nuovo istituto è intervenuto l'IFEL (fondazione dell'Anci)
con due note del 16.10.2015 (si veda Il Quotidiano Enti
Locali & Pa del 20/10/2015) e del 22.10.2015 (si veda
Il Quotidiano Enti Locali & Pa del 27/10/2015), che vengono
ora prese in esame dalla Corte dei Conti Emilia Romagna
considerando corretta solo la prima versione, la più
restrittiva.
I giudici contabili evidenziano in primo luogo che il
principio dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria
è derogabile solo in forza di una disposizione di legge, che
nel caso del baratto amministrativo è l'articolo 24 del Dl
133/2014. L'agevolazione tributaria può essere quindi
applicata entro limiti ben circoscritti, attraverso
l'adozione di un apposito regolamento comunale ai sensi
dell'articolo 52 del Dlgs 446/1997.
Pertanto, non è possibile
introdurre il baratto amministrativo con una semplice
delibera di Giunta ma occorre seguire la via regolamentare,
con l'ulteriore conseguenza che la delibera deve essere
approvata entro il termine fissato per l'adozione del
bilancio, altrimenti ha efficacia a partire dall'anno
successivo.
Inoltre, dal punto di vista del contenuto del regolamento, è
necessario che lo stesso individui “criteri” e “condizioni”
in base ai quali i cittadini, singoli o associati, possano
presentare progetti relativi ad interventi di
riqualificazione del territorio. Interventi che possono
riguardare solo ed esclusivamente quelli previsti dalla
legge, tra cui “la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento
di aree verdi, piazze, strade, ovvero interventi di decoro
urbano” e “la valorizzazione di una limitata zona del
territorio”.
Deve poi sussistere un rapporto di stretta inerenza tra le
esenzioni e/o le riduzioni di tributi che il comune può
deliberare e le attività che i cittadini possono realizzare.
Infine, i giudici contabili precisano che non è possibile
utilizzare il baratto amministrativo per i debiti pregressi
dei contribuenti, trattandosi di un'ipotesi che: 1) non
rientra nell'ambito di applicazione della norma, difettando
il requisito dell'inerenza tra l'agevolazione tributaria e
l'attività posta in essere dal cittadino; 2) potrebbe
determinare effetti pregiudizievoli sugli equilibri di
bilancio, considerato che si tratta di debiti ormai
confluiti nella massa dei residui attivi dell'ente.
In definitiva la Corte dei Conti Emilia Romagna delinea un
modello di baratto amministrativo disatteso dalla maggior
parte dei Comuni, specie da quelli che hanno individuato
nelle morosità pregresse (anche incolpevoli) l'oggetto
principale del nuovo istituto. Comuni che ora dovrebbero
rivedere le proprie scelte, se non vogliono rischiare di
essere chiamati a rispondere di danno erariale
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.03.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
La prova dell'arrivo della raccomandata fa
presumere l'invio e la conoscenza dell'atto, mentre l'onere
di provare eventualmente che il plico non conteneva l'atto
spetta non già al mittente
bensì al destinatario.
---------------
Merita dunque di
essere confermato il principio per cui, in
tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del
D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26 (così come, più in
generale, in caso di spedizione di plico a mezzo
raccomandata), la prova del perfezionamento del
procedimento di notificazione è assolta dal notificante
mediante la produzione dell'avviso di ricevimento, poiché,
una volta pervenuta all'indirizzo del destinatario, la
cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente
consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e
concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui
all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria
regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il
destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza
colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel
caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non
conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un
atto diverso da quello che si assume spedito).
---------------
MASSIMA
13. Il quinto, il sesto ed il settimo motivo, che in
quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente,
sono invece fondati.
13.1. In sintesi, con essi si chiede a questa Corte di
affermare il principio per cui il soggetto che proceda alla
notifica di cartella esattoriale, con la procedura di cui
all'art. 26, D.P.R. n. 602/1973, può limitarsi a consegnare
il plico chiuso all'agente postale, per la sua spedizione,
essendo assistiti da fede privilegiata ex art. 2700 cod.
civ. tanto l'accettazione quanto l'avviso di ricevimento
della raccomandata, e gravando invece sul destinatario
l'onere di superare la presunzione di conoscenza del
contenuto della raccomandata, di cui all'art. 1335 cod. civ..
13.2. Sul tema si registra, invero, una certa divaricazione
della giurisprudenza di legittimità, rispetto alla quale
questo Collegio intende però aderire all'orientamento che
risulta prevalente, in base al quale, ove
il Concessionario si avvalga della facoltà, prevista dal
D.P.R. 29.09.1913, n. 602, art. 26, di provvedere alla
notifica della cartella esattoriale mediante raccomandata
con avviso di ricevimento, ai fini del perfezionamento della
notificazione è sufficiente
-anche alla luce della disciplina dettata dal D.M.
09.04.2001, artt. 32 e 39- che la
spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al
domicilio del destinatario, senz'altro adempimento a carico
dell'ufficiale postale se non quello di curare che la
persona da lui individuata come legittimata alla ricezione
apponga la sua firma sul registro di consegna della
corrispondenza, oltre che sull'avviso di ricevimento da
restituire al mittente; ciò sarebbe confermato
implicitamente anche dal penultimo comma del citato art. 26,
secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per
cinque anni la matrice o la copia della cartella con la
relazione dell'avvenuta notificazione o con l'avviso di
ricevimento, in ragione della forma di notificazione
prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente
o dell'amministrazione
(Cass. sez. III, sentenza n. 9246 del 07.05.2015; Cass. sez.
V, sentenza n. 4567 del 06.03.2015; conf., tra le più
recenti, Cass. n. 16949/2014, n. 6395/2014, n. 11708/2011;
n. 14327/2009).
13.3. Ai predetti fini non si ritiene
invece necessario che l'agente della riscossione dia la
prova anche del contenuto del plico spedito con lettera
raccomandata, dal momento che l'atto pervenuto all'indirizzo
del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a
quest'ultimo in forza della presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 cod. civ., superabile solo se lo stesso
destinatario dia prova di essersi incolpevolmente trovato
nell'impossibilità di prenderne cognizione
(Cass. n. 15315/2014, n. 9111/2012, n. 20027/2011).
In altri termini, la prova dell'arrivo
della raccomandata fa presumere l'invio e la conoscenza
dell'atto, mentre l'onere di provare eventualmente che il
plico non conteneva l'atto spetta non già al mittente
(in tal senso, Cass. ord. n. 9533/2015, sent. n. 2625/2015,
n. 18252/2013, n. 24031/2006, n. 3562/2005),
bensì al destinatario
(in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. sez. I,
22.05.2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322/2014, n.
15315/2014, n. 23920/2013, n. 16155/2010, n. 17417/2007, n.
20144/2005, n. 15802/2005, n. 22133/2004, n. 771/2004, n.
11528/2003, n. 12135/2003, n. 12078/2003, n. 10536/2003, n.
4878/1992, 4083/1978; cfr. Cass. ord. n. 20786/2014, per la
quale tale presunzione non opererebbe -con inversione
dell'onere della prova- ove il mittente affermasse di avere
inserito più di un atto nello stesso plico ed il
destinatario contestasse tale circostanza).
13.4. In effetti, l'orientamento prevalente
risulta più rispettoso del principio generale di c.d.
vicinanza della prova, poiché la sfera di conoscibilità del
mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva
alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera
di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella
fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed
essendone perciò onerato), in ipotesi anche avvalendosi di
testimoni, che al momento dell'apertura il plico era in
realtà privo di contenuto.
13.5. Merita dunque di essere confermato il principio per
cui, in tema di notifica della cartella
esattoriale ai sensi del D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26
(così come, più in generale, in caso di spedizione di
plico a mezzo raccomandata), la prova del
perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta
dal notificante mediante la produzione dell'avviso di
ricevimento, poiché, una volta pervenuta all'indirizzo del
destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui
ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza
di cui all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e
concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui
all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria
regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il
destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza
colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel
caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non
conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un
atto diverso da quello che si assume spedito)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 18.03.2016 n. 5397).
---------------
Si legga, al riguardo, un commento:
Raccomandata: come si prova il contenuto della lettera?
(25.04.2016 - link a www.laleggepertutti.it). |
febbraio 2016 |
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TRIBUTI:
Tributi locali, blocco assoluto. Congelati il
contributo di sbarco e l'imposta di soggiorno.
I paletti della Corte conti Abruzzo: vietato
anche ridurre le agevolazioni ai contribuenti.
Nessuno spiraglio per superare il blocco
dei tributi locali.
Ai dubbi e alle incertezze sollevati dalle amministrazioni
locali sui limiti che la legge di stabilità 2016 ha fissato
agli aumenti di aliquote e tariffe, ha dato una risposta
chiara la Corte dei conti, sezione regionale di controllo
per l'Abruzzo, con il
parere 09.02.2016 n. 35, il quale ha
affermato che non esistono margini di manovra per effettuare
delle scelte di politica fiscale che possano comportare un
aumento della tassazione.
Al di là della formulazione
letterale della norma che si limita a imporre la sospensione
degli aumenti, per i giudici contabili la ratio legis è
quella di porre un freno all'innalzamento della pressione
fiscale a livello locale. Non rientra nel blocco solo ciò
che è espressamente escluso, come la Tari. Soni esonerati
dal vincolo anche gli enti locali che si trovano in uno
stato di dissesto o predissesto.
In queste settimane sono stati manifestati dei dubbi da
funzionari e dirigenti degli enti locali sui limiti del
blocco. In particolare, se è impedito istituire nuovi
tributi (imposta di soggiorno, imposta di scopo), se è
impossibile rimodulare le aliquote deliberate per
l'addizionale Irpef rapportate ai vari scaglioni di reddito
o fissare tariffe più elevate rispetto al 2015 per il nuovo
contributo di sbarco, sostitutivo dell'imposta di sbarco,
tenuto conto che è stato previsto proprio da una
disposizione di legge a partire dal 2016.
Secondo i giudici
contabili, che richiamano precedenti pareri espressi in
passato, unico obbiettivo dello stop all'aumento di imposte
e tasse negli enti locali è quello di contenere il livello
della pressione fiscale. Il blocco per il 2016 non è però
limitato solo al contenimento di aliquote e tariffe, ma
impedisce anche l'istituzione di nuovi tributi. Non va dato
rilievo alla differenza terminologica tra «aumento» e
«istituzione», poiché ciò che conta è che rimanga invariato
il carico fiscale sui contribuenti, siano essi residenti o
meno nel territorio comunale.
Ecco perché non è consentito
istituire neppure l'imposta di soggiorno, ancorché siano
soggetti al prelievo solo i non residenti. Allo stesso modo
non è possibile ridurre le agevolazioni già concesse ai
contribuenti. Sono escluse dal blocco la Tari, il cui
gettito serve a coprire integralmente il costo del servizio
di smaltimento rifiuti, e tutte le entrate che hanno natura
patrimoniale, come il canone occupazione spazi e aree
pubbliche, il canone idrico e via dicendo. Non sono soggetti
al vincolo gli enti che hanno deliberato il predissesto o il
dissesto.
L'articolo 1, comma 26, della legge di stabilità 2016
(208/2015), dunque, non consente di introdurre nuovi tributi
o aumenti di aliquote e tariffe, anche se le relative
delibere sono state adottate prima dell'entrata in vigore
della norma (1° gennaio). Peraltro, non solo è impossibile
ritoccare in aumento aliquote o tariffe, ma è anche impedito
che possano essere aboliti benefici già deliberati dagli
enti (aliquote agevolate, riduzioni, detrazioni), che
comunque inciderebbero sul carico fiscale e darebbero luogo
a un innalzamento della tassazione.
Tuttavia, questi vincoli non producono effetti per le
entrate che hanno natura patrimoniale o extratributaria. Al
riguardo, vi sono delle incertezze sulle entrate che devono
sottostare al divieto imposto dalla legge e questo dipende
anche dalla loro controversa natura. Va ricordato che il
canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap)
ha natura patrimoniale. Sono entrate patrimoniali anche il
canone idrico e il canone depurazione.
Non è ammesso
l'aumento delle tariffe, invece, per il canone installazione
mezzi pubblicitari (Cimp) che, nonostante la trasformazione
da imposta a canone eventualmente operata
dall'amministrazione comunale, mantiene la sua natura
tributaria. Soggiace al blocco anche il diritto sulle
pubbliche affissioni, ancorché non sia mai stata del tutto
pacifica la sua natura giuridica
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016). |
gennaio 2016 |
|
TRIBUTI:
Sezioni Unite. Ici. Competenza verificata solo
dopo la giurisdizione.
Spetta al giudice tributario decidere sull’opposizione del
contribuente in materia di Ici e la Cassazione può rilevare
anche d’ufficio il difetto di giurisdizione ignorato dal
giudice ordinario che si era (peraltro) dichiarato
incompetente.
Con una motivazione lunga e articolata, le Sezioni Unite
civili della Corte di Cassazione (sentenza
05.01.2016 n. 29) hanno deciso una controversia nata
in provincia di Mantova su un recupero coattivo di Ici per
circa 200mila euro e portata dalla contribuente davanti al
Tribunale ordinario di Brescia, sezione staccata di Breno.
Qui il giudice aveva deciso per la propria giurisdizione,
rilevando però l’incompetenza territoriale, trasferita al
Tribunale di Mantova. Impugnato dalla contribuente in
Cassazione con istanza di regolamento di competenza,
l’intricato fascicolo è approdato alle Sezioni Unite dopo
che la Sesta civile aveva ravvisato un indirizzo non proprio
univoco sul versante della pregiudizialità -tutta
civilistica- tra regolamento di giurisdizione e quello di
competenza.
Le SU, richiamandosi tra l’altro al giudice naturale evocato
dalla Costituzione, hanno stabilito che sulla decisione del
Tribunale di Brescia non si era ancora formato il giudicato,
e che pertanto la Corte può d’ufficio rilevare il difetto di
giurisdizione che è sempre “pregiudiziale” rispetto
alla determinazione della competenza.
Quanto poi alla “titolarità” giurisdizionale del caso
specifico, le Sezioni Unite, dopo aver assimilato
l’ingiunzione fiscale emessa dal Comune in pendenza di
giudizio tributario a un normale «ruolo», hanno
conseguentemente affermato la “titolarità” esclusiva
del giudice tributario (articolo Il Sole 24 Ore del
06.01.2016). |
TRIBUTI:
Pertinenziali anche i terreni non «graffati» al
catasto.
Un terreno posto a
servizio di un edificio è pertinenza anche se non è
“graffato” al catasto.
Agevolazioni. La Ctr Lombardia ribadisce: contano
destinazione del terreno e volontà del titolare.
Lo stabilito la Ctr
Lombardia-Milano con la
sentenza
05.01.2016 n. 14/19/2016 (presidente Craveia,
relatore Monfredi).
Un notaio aveva rogato un atto di vendita di un terreno
dagli acquirenti qualificato come pertinenza di un edificio
che avevano in precedenza acquistato e per il quale avevano
ottenuto le agevolazioni fiscali “prima casa”. In base a
tale dichiarazione avevano versato l’imposta di registro al
3% e le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa.
L’ufficio aveva però ritenuto che l’acquisto del terreno non
potesse beneficiare di quelle agevolazioni, perché esso non
era censito al catasto urbano unitamente al bene principale:
non era cioè “graffato” al fabbricato abitativo, ma censito
autonomamente. Per questo era stato emesso avviso di
liquidazione, per il recupero delle maggiori imposte dovute.
Il notaio rogante aveva allora proposto ricorso e la Ctp
aveva annullato l’atto.
Ma l’ufficio aveva proposto appello chiedendo alla Ctr
Lombardia di ritenere legittimo l’avviso di liquidazione che
si basava sul dato oggettivo e documentale della mancata
“graffatura” dell’immobile qualificato pertinenza.
Secondo l’Agenzia, contrariamente a quanto vale per i beni
classificati C/2, C/6 e C/7, con riferimento ai terreni, le
circolari dell’amministrazione finanziaria (del 12.08.2005 e del 29.05.2013) prevedono che il proprietario
deve formalizzare catastalmente la sua scelta di destinare
funzionalmente e durevolmente il bene a servizio di altro
principale. Se non lo fa dimostra la sua volontà di non
destinare il terreno a servizio del fabbricato.
Anche i giudici di secondo grado hanno tuttavia disatteso le
tesi dell’ufficio, affermando che le circolari non possono
derogare alla legge.
Secondo la Ctr, infatti, la normativa in materia di imposta
di registro non prevede alcuna limitazione tassativa
rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale
di un fabbricato ai fini fiscali. Contiene invece solo
un’elencazione esemplificativa e indica due requisiti
necessari, uno oggettivo e uno soggettivo: la destinazione
durevole al servizio o ad ornamento del bene principale; e
la volontà del titolare del diritto reale sulla cosa
principale di effettuare tale destinazione.
La “graffatura” rappresenta di certo manifestazione non
equivoca di questa volontà. Ma non può al contrario
sostenersi che la mancata “graffatura” escluda
automaticamente e insuperabilmente tale volontà, perché una
tale interpretazione non sarebbe conforme alla normativa
primaria e non è previsto dal codice civile alcun obbligo di
formalizzare la scelta in sede catastale.
Nel caso al loro esame, inoltre, i giudici rilevavano che le
caratteristiche dimensionali del terreno erano in tutto
compatibili ed in linea con i limiti fissati dall’articolo 5
del Dm 02.08.1962 perché un’area scoperta potesse
considerarsi pertinenza di un’abitazione non di lusso.
L’annullamento dell’avviso di liquidazione è stato dunque
confermato con condanna dell’Agenzia al pagamento delle
spese (articolo Il Sole 24 Ore del
04.04.2016). |
dicembre 2015 |
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TRIBUTI:
Regolamento ai sensi dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica
di favorire la partecipazione della comunità locale alla
valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni
di affidare a cittadini singoli o associati determinati
interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici
pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni,
specificamente, di tributi inerenti al tipo di attività
posta in essere.
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non
aventi natura tributaria, ad avviso dell'IFEL e come
specificato dall'ANCI, istituti analoghi possono essere
attivati dall'ente, nell'ambito della disciplina
regolamentare generale delle entrate (art. 52, D.Lgs. n.
446/1997) e avvalendosi della facoltà riconosciuta dall'art.
1197 c.c., secondo cui 'il debitore non può liberarsi
eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se
di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore
consenta'.
Il Comune intende approvare il Regolamento ai sensi
dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, e chiede se sia legittimo
estendere l'agevolazione ivi prevista anche alle entrate non
tributarie, quali ad esempio le tariffe (rette per mense
scolastiche, tariffe scuolabus) ed i canoni di locazione di
immobili comunali.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprime quanto segue.
In via preliminare, si sottolinea la natura statale della
norma in oggetto da cui consegue la competenza degli organi
statali a fornire i chiarimenti in ordine all'ambito
applicativo della stessa. Le considerazioni che seguono
vengono, pertanto, espresse in via meramente collaborativa.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione
della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n.
133/2014 [1],
'i comuni possono definire con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi
su progetti presentati da cittadini singoli o associati,
purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In
relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni
possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti
al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa
per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e
per attività individuate dai comuni, in ragione
dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere.
Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di
cittadini costituite in forme associative stabili e
giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei
cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del
territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4,
della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali
favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale [2].
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai
comuni di affidare a cittadini singoli o associati
determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata
zona del territorio urbano o extraurbano
[3].
In ordine alle modalità applicative dell'agevolazione
(specificamente tributaria) prevista dall'art. 24 in
commento, il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico,
istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio e del mare [4],
ha espresso l'avviso secondo cui «l'impressione è che la
norma non autorizzi affatto gli enti locali, in modo
indiscriminato, a disporre la riduzione o l'esonero. Ma
esiga, piuttosto, un preciso rapporto di connessione 'fra
attività posta in essere' e tributo interessato».
Per quanto concerne la questione posta dall'Ente, relativa
alla possibilità di estendere l'agevolazione tributaria
prevista dall'art. 24, D.L. n. 133/2014, oltre ai tributi
anche alle tariffe e ad altre entrate extra tributarie, si
formulano alcune riflessioni -si ribadisce- in via
collaborativa, stante la competenza degli organi statali al
riguardo.
Il tenore letterale dell'art. 24 in argomento prevede
un'agevolazione (esenzione o riduzione) esplicitamente
riferita ai tributi, la cui essenza consiste nell'essere
prestazioni patrimoniali imposte dall'ente pubblico,
caratterizzate dall'attitudine (idoneità) a determinare il
concorso alla pubblica spesa dell'ente impositore, e
gravanti su tutti i cittadini aventi una retribuzione o un
reddito imponibile a fini fiscali [5].
Specificamente, deve essere riconosciuta natura tributaria a
tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazione o
in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o
in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed
il beneficio che il singolo riceve [6].
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non
aventi natura tributaria [7],
l'Istituto per la finanza e l'economia locale (IFEL),
fondazione istituita dall'Anci, nel constatare che l'ambito
di applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, si
riferisce, appunto, esplicitamente al campo dei tributi
comunali, per cui non sembrano potersi ricondurre al suo
ambito applicativo anche le entrate patrimoniali non
tributarie, ha osservato, però, che istituti analoghi
possono comunque essere attivati per tali entrate non
tributarie, in relazione alle quali l'ente locale può ancora
più flessibilmente disporre modalità alternative di
adempimento anche sotto il profilo dei pagamenti.
Un tanto l'ente potrà disporre nell'ambito della disciplina
regolamentare generale delle proprie entrate (art. 52,
D.Lgs. n. 446/1997 [8]),
e avvalendosi della facoltà riconosciutagli dall'art. 1197
cod. civ., secondo cui 'il debitore non può liberarsi
eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se
di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta'
[9].
---------------
[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico,
istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio e del mare, ha chiarito che l'individuazione
delle attività 'in ragione dell'esercizio sussidiario', è da
intendersi, secondo ragionevolezza, nel senso fatto palese
dall'art. 118, Cost., laddove ci si riferisce solo ad
attività di interesse generale (deliberazione n. 5, del
23.02.2015).
[3] L'IFEL (Istituto per la finanza e l'economia locale,
fondazione istituita dall'ANCI), ha precisato che l'attività
cui collegare le agevolazioni non può essere individuata
liberamente dal comune, ma deve essere riconducibile alle
tipologie di attività elencate dalla norma, nel rispetto del
principio della riserva di legge, ex art. 23 della
Costituzione (nota del 16.10.2015).
[4] Deliberazione n. 5/2015, cit..
[5] C. Cost., 12.01.1995, n. 2, con specifico riferimento
alla natura tributaria del contributo per il Servizio
sanitario nazionale, specificamente finalizzato al
finanziamento della spesa pubblica sanitaria. La pronuncia è
richiamata da Cass. civ., sez. un., Ordinanza 09.01.2007, n.
123. Conformi: Corte Costituzionale 10.02.1982, n. 26, Corte
Costituzionale, 14.03.2008, n. 64; Corte Costituzionale,
11.02.2005, n. 73, tutte nel senso di qualificare il tributo
come una prestazione patrimoniale imposta e collegata alla
spesa pubblica.
[6] Cass. civ., Ordinanza 11.02.2008, n. 3171, che afferma
la natura tributaria del contributo per il Servizio
sanitario nazionale, in quanto trova applicazione a
prescindere dall'an e dal quantum dei servizi (e della
natura degli stessi) richiesti; e non ha un rapporto
sinallagmatico con l'utilizzazione del Servizio.
[7] In particolare, per le entrate cui il Comune vorrebbe
estendere l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014
(retta mensa, tariffa scuolabus), si osserva che sussiste un
nesso di sinallagmaticità (che, alla luce delle elaborazioni
giurisprudenziali riportate, non appartiene ai tributi) tra
la retta per la mensa e la fruizione del relativo servizio,
come emerge dalle considerazioni della Suprema Corte che,
relativamente al servizio di mensa nella scuola materna, ha
escluso una contribuzione, se pur ridotta, per gli utenti
che avevano dichiarato di non voler mai usufruire della
mensa, per il solo fatto di frequentare la scuola, che
invece non deve comportare alcun onere economico a loro
carico (Cass. civ., Sez. un., 04.12.1991, n. 13030). Lo
stesso, appare configurarsi un nesso sinallagmatico tra la
prestazione economica della tariffa scuolabus e
l'utilizzazione del relativo servizio di trasporto
scolastico.
[8] L'art. 52, D.Lgs. n. 446/1997 (Potestà regolamentare
generale delle province e dei comuni), riconosce ai Comuni e
alle Province il potere di disciplinare con regolamento le
proprie entrate, anche tributarie.
Su questo punto, cfr. Anci, nota del 15.09.2015.
L'Associazione, nel rispondere ad un quesito sulla portata
applicativa dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, in particolare
sulla possibilità di prevedere, con regolamento comunale,
anche riduzioni o esenzioni di canoni e di tariffe comunali,
ha affermato la possibilità per il comune, nell'esercizio
della potestà regolamentare prevista dall'art. 52, D.Lgs. n.
446/1997, di disporre ulteriori esenzioni ed agevolazioni,
in materia di entrate e tributi.
[9] Cfr. nota Anci del 26.10.2015 (03.12.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
novembre 2015 |
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TRIBUTI:
Le tipologie di interpello.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 156/2015, modificando l'art. 11 dello Statuto dei
diritti del contribuente, individua cinque tipologie di
interpello: ordinario, qualificatorio, probatorio, anti
abuso e disapplicativo disponendo che gli enti locali devono
provvedere entro il 01.07.2016 ad adeguare i propri
regolamenti.
Si chiede cortesemente di sapere: a) se le
tipologie di interpello probatorio, anti abuso e disapplicativo riguardano anche i tributi comunali o solo i
tributi erariali; b) se il termine per l'adeguamento del
regolamento comunale per la disciplina delle entrate
(contenente anche la disciplina dell'interpello) è
effettivamente il 01.07.2016 oppure se si deve
provvedere entro il termine di approvazione del bilancio
comunale (termine, quest'ultimo, da rispettare per
l'adeguamento dei regolamenti tributari).
RISPOSTA:
Il nuovo articolo 11 dello Statuto del contribuente
razionalizza le tipologie di interpello esistenti,
sistematizzandole e raggruppandole in diverse categorie, di
cui sono definiti esplicitamente i presupposti applicativi:
• interpello “ordinario” e “qualificatorio” (articolo 11,
comma 1, lettera a)
• interpello “probatorio” (articolo 11,
comma 1, lettera b)
• interpello “anti abuso” (articolo 11,
comma 1, lettera c),
• interpello “disapplicativo” (articolo
11, comma 2).
L’interpello ordinario ricalca quello già
disciplinato dal vecchio testo dell’articolo 11, trattandosi
di una richiesta volta a ottenere un parere quando
sussistano obiettive condizioni di incertezza
sull’interpretazione delle disposizioni tributarie, in
relazione alla loro applicazione a casi concreti e
personali. A questo modello generale, il legislatore
delegato, sempre nel punto a), ha affiancato l’interpello
“qualificatorio” in cui l’istanza del contribuente riguarda
la corretta qualificazione della fattispecie quando,
comunque, sussistono obiettive condizioni di incertezza alla
luce delle disposizioni tributarie applicabili alle
medesime.
La seconda tipologia menzionata dal nuovo comma 1
dell’articolo 11 è definita dallo stesso legislatore
interpello probatorio e si sostanzia in una richiesta tesa a
ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o
sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal
contribuente ai fini dell’accesso a un determinato regime
fiscale, azionabile, tuttavia, solo nei casi espressamente
previsti (quelli, appunto, contenenti l’esplicito richiamo
all’interpello di cui alla lettera c) del comma 1
dell’articolo 11).
In verità, non si tratta di una forma di
interpello nuova, ma di una categoria ampia che ricomprende
e abbraccia, sotto il cappello della formula utilizzata,
tante figure già previste dal sistema, che vengono, in
questo modo, ricondotte a unità. In questa categoria sono
ricomprese ipotesi molto eterogenee, tra cui alcune a oggi
classificate tra gli interpelli obbligatori, degradati
perciò solo a facoltativi. Un’altra categoria di interpelli
facoltativi è l’interpello anti-abuso -destinato ad
assorbire le principali fattispecie ricomprese nel capo di
applicazione dell’interpello antielusivo di cui all’articolo
21 della legge 413/1991- che costituisce il nuovo strumento
attraverso il quale il contribuente può chiedere
all’amministrazione se le operazioni che intende realizzare
costituiscano fattispecie di abuso del diritto, ai sensi del
nuovo articolo 10-bis dello Statuto.
Il comma 2 dell’art. 11
prevede, altresì, l’interpello “disapplicativo”: mutuato
dall’art. 37-bis, co. 8, del DPR n. 600/1973, consente al
contribuente di richiedere un parere all’Amministrazione in
ordine alla sussistenza delle condizioni che legittimano la
disapplicazione di norme tributarie che limitano deduzioni,
detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive
del soggetto passivo.
In questo caso, laddove l’Agenzia
fornisca una risposta negativa all’istanza, il contribuente
può fornire la dimostrazione della spettanza della
disapplicazione delle norme anche nelle successive fasi
dell’accertamento e del contenzioso. In conclusione, ad un
primo esame, sembrano applicabili ai tributi locali
esclusivamente gli interpelli ordinari e qualificatori; le
altre tipologie sembrano applicabili soltanto ai tributi
erariali.
In merito, si attende comunque una circolare
dell’Agenzia delle Entrate. L’adeguamento dei regolamenti
comunali relativamente agli interpelli potrà essere
effettuato entro il 01.07.2016; la data di approvazione
del bilancio, infatti, riguarda soltanto quelle modifiche
suscettibili di incidere sul bilancio stesso e, pertanto,
tale limitazione non si applica al caso in esame
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
TRIBUTI:
La pubblicità abusiva.
DOMANDA:
E' vero che se rileviamo un cartello o un'insegna abusiva
(in assenza di autorizzazione, ovvero scaduta) e spesso
anche non in regola con il tributo, non dovremmo emettere
avvisi di accertamento, in quanto sono i vigili ad elevare
contravvenzione ai sensi del Codice della Strada?
La motivazione sarebbe che una volta pagato il tributo, se
si dovesse andare davanti al Giudice, si perderebbe la
causa. La domanda è: ma allora non può mai esistere una
avviso di accertamento per mancata dichiarazione di inizio
pubblicità?
E tutto il tempo, magari anni, di esposizione abusiva viene
risolto solo con la contravvenzione dei vigili?
RISPOSTA:
Quanto riportato nel quesito, senza alcun riferimento
normativo o giurisprudenziale è incomprensibile.
L’applicazione della normativa tributaria è completamente
autonoma nei confronti dell’applicazione delle norme di
legge e di regolamento riguardo la mancanza di
autorizzazione all’installazione dell’impianto pubblicitario
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Gestori tlc tassati. Imu/Ici sui ripetitori di telefonia.
La Cassazione sulla classificazione degli immobili.
I ripetitori di telefonia mobile di cui sono titolari i vari
gestori telefonici (Vodafone, Telecom) sono soggetti al
pagamento dell'Ici, e anche dell'Imu, in quanto infissi al
suolo in maniera stabile e, quindi, sono da considerare a
tutti gli effetti dei fabbricati. Vanno, infatti, inquadrati
catastalmente nella categoria «D» e non nella categoria «E»,
come immobili esenti.
Lo ha affermato la
Corte di Cassazione
-Sez. V civile- con la
sentenza 25.11.2015 n. 24026.
Secondo la Cassazione, i ripetitori di telefonia mobile
devono essere classificati nella categoria «D», «in quanto
trattasi di struttura stabilmente infissa al suolo,
recintata, all'interno della quale è stato installato, su
platea di calcestruzzo, un traliccio cui sono state fissate
le antenne».
Questi immobili devono essere accatastati come
previsto dall'articolo 4 del rdl 652/1939. Tra l'altro,
precisano i giudici, la classificazione catastale nella
categoria «D» è prevista dalla circolare dell'Agenzia del
territorio n. 4/2006, che non fa riferimento solo alle
centrali eoliche, ma vale anche per i «ripetitori e impianti
similari».
Nello specifico, la circolare pone in rilievo
che: «Rilevante importanza hanno assunto nel tempo anche le
costruzioni tese a ospitare impianti industriali mirati alla
trasmissione o all'amplificazione dei segnali destinati alla
trasmissione (via cavo o etere)... la categoria da
attribuire agli immobili che le ospitano è da individuare
nel gruppo D... Tra le diverse tipologie dei manufatti in
esame ha registrato negli ultimi anni una significativa
diffusione sul territorio quella destinata a ospitare gli
impianti per la diffusione della telefonia mobile...».
La classificazione catastale. L'articolo 4 del rdl 652/39,
richiamato nella pronuncia in esame, definisce immobili
urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque
materiale costruiti, stabilmente assicurati al suolo. I
ripetitori di telefonia mobile, come gli impianti eolici,
sono degli opifici e devono essere iscritti in catasto nella
categoria D/1.
L'Agenzia del territorio ha precisato la
categoria catastale che deve essere attribuita a questi
impianti e ha fornito i chiarimenti necessari sulla
disciplina che deve essere osservata dagli uffici
provinciali per determinare la rendita. La qualificazione
della tipologia di immobili e la relativa rendita assumono
rilevanza ai fini fiscali.
Il provvedimento catastale
costituisce il parametro di riferimento per la
determinazione dell'Ici e dell'Imu. Per quanto concerne gli
impianti eolici, l'Agenzia ha affermato che rilevano le
finalità cui sono destinati questi immobili e il fatto che
Stato, Regioni e Unione europea ne incentivino la
costruzione. Il classamento è indipendente «da ogni vincolo
amministrativo o legislativo non dettante disposizioni in
materia di catasto».
Al riguardo, vanno invece richiamate le
norme (rdl 652/1939, dpr 1142/1949, dm 28/1998) che
forniscono la nozione di unità immobiliare urbana e di
rendita catastale. Sono considerate unità immobiliari le
costruzioni ancorate o fisse al suolo, di qualunque
materiale costituite, nonché gli edifici sospesi o
galleggianti, stabilmente assicurati al suolo, purché
risultino verificate le condizioni funzionali e reddituali.
La stessa natura hanno i manufatti prefabbricati, anche se
solo appoggiati al suolo, qualora gli stessi siano stabili
nel tempo e presentino autonomia funzionale e reddituale.
L'obbligo di accatastamento è stato ribadito dall'art.
1-quinquies del decreto legge 44/2005, convertito nella
legge 88/2005, di interpretazione autentica del citato
articolo 4, il quale ha stabilito che i fabbricati e le
costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti
ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria,
cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione,
parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene
complesso. Strutture e impianti, che sono tra di loro
connessi e unificati da un nesso funzionale in vista della
destinazione a una determinata utilizzazione produttiva,
rientrano nel novero degli «opifici» e devono essere
classificati catastalmente nella categoria D.
Nella stessa categoria catastale rientrano anche le centrali
elettriche. Non a caso l'Agenzia del territorio, con la
risoluzione 3/2008, ha chiarito che «le centrali elettriche
a pannelli fotovoltaici devono essere accertate nella
categoria «D/1 - opifici» e che nella determinazione della
relativa rendita catastale devono essere inclusi i pannelli
fotovoltaici, in analogia con la prassi, ormai consolidata,
adottata in merito alle turbine delle centrali elettriche».
Anche la giurisprudenza ha sostenuto che questi impianti
siano soggetti a imposizione (Corte di cassazione, sentenze
13319/2006 e 4030/2012; commissione tributaria regionale del
Lazio, sezione XX, sentenza 48/2004; Commissione tributaria
regionale della Puglia, sezione XXVII, sentenza 214/2008).
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Gruppo D, conti fino ad accatastamento.
Nella disciplina Ici e Imu è previsto che per i fabbricati
iscritti in catasto il valore dell'immobile si ottiene
facendo riferimento all'ammontare delle rendite, vigenti al
1° gennaio dell'anno di imposizione.
Per i fabbricati
interamente posseduti da imprese, classificabili nel gruppo
catastale D, distintamente contabilizzati, qualora gli
stessi siano sforniti di rendita catastale, la base
imponibile Ici è costituita dai costi di acquisizione e
incrementativi contabilizzati, ai quali vanno applicati dei
coefficienti stabiliti annualmente con decreto del Ministro
delle finanze.
Il valore dell'immobile, così determinato,
può essere utilizzato fino alla fine dell'anno d'imposta nel
corso del quale viene attribuita la rendita catastale oppure
viene annotata al catasto la rendita proposta, con
l'osservanza della procedura prevista nel decreto del
ministro delle Finanze 701/1994.
Il valore, ai fini
dell'applicazione dell'Ici e dell'Imu, è determinato sulla
base delle scritture contabili fino a quando viene
presentata istanza di accatastamento. Solo dall'anno
successivo alla presentazione della suddetta istanza, il
valore del fabbricato deve essere determinato non più con
riguardo ai costi contabilizzati bensì in base al valore
catastale. Pertanto l'imprenditore, proprietario del
fabbricato di categoria D, è tenuto ad applicare il regime
del valore contabile fino alla richiesta di accatastamento.
Naturalmente, il Comune ha il potere-dovere di accertare
l'impresa titolare dei fabbricati iscritti nella categoria
«D», per i quali non è stato pagato il tributo, determinando
il quantum dovuto in base alle regole sopra citate, previste
dall'articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 504/1992
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015). |
TRIBUTI:
D.Lgs. 30.12.1992, n. 504, art. 9. Spettanza di agevolazioni
ICI a coadiuvanti agricoli.
Come rilevato dalla giurisprudenza, in
tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i
terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è
condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica
di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo
principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del
D.Lgs. 446/1997) e della conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione all'INPS (gestione ex
SCAU) è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei
primi due requisiti, il terzo requisito, relativo alla
conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma.
Il Comune chiede un parere con riferimento al riconoscimento
delle agevolazioni ICI di cui all'art. 9 del decreto
legislativo 30.12.1992, n. 504 [1],
anche a coadiuvanti agricoli. Specifica l'Ente che il
soggetto interessato è iscritto all'INPS in capo al nucleo
del coltivatore diretto, che lo stesso non conduce
direttamente i terreni (che sono condotti dal coltivatore) e
che non dichiara redditi agrari ma solo dominicali.
Atteso che non rientra nella competenza di questo Servizio
l'interpretazione di normativa statale in materia
tributaria, si suggerisce all'Ente di rivolgersi
direttamente all'Agenzia delle entrate competente per
territorio al fine di acquisire i necessari chiarimenti.
Peraltro, in via meramente collaborativa, si formulano
alcune osservazioni con riferimento alla fattispecie
prospettata.
L'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 stabilisce una riduzione
dell'imposta comunale sugli immobili (ICI) per i terreni
agricoli condotti direttamente, e a tal fine individua sia
la franchigia che le percentuali di riduzione in base al
valore dei terreni. Tale riduzione è riconosciuta a
condizione che i terreni siano posseduti e condotti da
coltivatori diretti o da imprenditori agricoli che esplicano
la loro attività a titolo principale.
La norma è stata integrata dall'art. 58, comma 2, del
decreto legislativo 15.12.1997, n. 446 [2],
il quale ha chiarito che, ai fini della riduzione in
argomento, 'si considerano coltivatori diretti o
imprenditori agricoli a titolo principale le persone fisiche
iscritte negli appositi elenchi comunali previsti
dall'articolo 11 della legge 09.01.1963, n. 9, e soggette al
corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità,
vecchiaia e malattia (...).'
Pertanto, come rilevato dalla giurisprudenza
[3], in
tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i
terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è
condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica
di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo
principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del
D.Lgs. 446/1997) e dalla conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione agli elenchi comunali
di cui alla L. 9/1963 [4]
è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei primi
due requisiti (atteso che chi viene iscritto in quell'elenco
svolge normalmente a titolo principale quell'attività legata
all'agricoltura), il terzo requisito, relativo alla
conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma 'potendo
ben accadere che un soggetto iscritto nel detto elenco poi
non conduca direttamente il fondo per il quale chiede
l'agevolazione, la quale, pertanto, non compete'.
[5]
Stando alle informazioni fornite dall'Ente instante, il
coadiuvante agricolo de quo non conduce direttamente i
terreni.
Parrebbe quindi potersi ritenere che allo stesso, carente
del presupposto essenziale della conduzione diretta, non
spetti la riduzione ex art. 9, anche a prescindere dalla
verifica della sussistenza degli altri requisiti stabiliti
dalla norma.
---------------
[1] 'Riordino della finanza degli enti territoriali, a
norma dell'articolo 4 della legge 23.10.1992, n. 421.'
[2] 'Istituzione dell'imposta regionale sulle attività
produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e
delle detrazioni dell'Irpef e istituzione di una addizionale
regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina
dei tributi locali.'
[3] Cassazione civile, sez. trib., Sentenze n. 15551 del
30.06.2010, n. 9143 del 16.04.2010, n. 214 del 07.01.2005.
[4] La compilazione degli elenchi comunali avveniva, fino al
30.06.1995, ad opera del Servizio per i contributi agricoli
unificati (SCAU). A far data dal 01.07.1995 il Servizio SCAU
è stato soppresso e le sue funzioni trasferite all'INPS, per
effetto dell'art. 19 della legge 23.12.1994, n. 724.
Inoltre, si osserva che l'iscrizione alla assicurazione
generale obbligatoria da parte del coltivatore diretto può
essere estesa da questi al proprio nucleo familiare,
comprendendo parenti e affini fino al 4° grado, sulla base
di requisiti oggettivi e soggettivi determinati dalla
normativa vigente.
[5] Cassazione civile, Sent. 1551/2015 cit. (17.11.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
ottobre 2015 |
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TRIBUTI:
Online il nuovo portale della giustizia
tributaria.
Dal calcolo del contributo unificato dovuto sul ricorso alla
prenotazione degli appuntamenti con la commissione
tributaria, dalla modulistica per richiedere copia delle
sentenze o il certificato di pendenza all'elenco dei
soggetti autorizzati alla difesa del contribuente presso Ctp
e Ctr.
È online il nuovo portale della giustizia tributaria,
realizzato dal Dipartimento delle finanze del Mef. Il sito,
i cui contenuti e l'erogazione dei servizi sono curati dalla
Direzione giustizia tributaria, svolgerà anche la funzione
di punto unico di accesso al processo tributario telematico,
in partenza dal prossimo 1° dicembre in via sperimentale
nelle commissioni della Toscana e dell'Umbria.
Attraverso l'indirizzo web
http://giustiziatributaria.gov.it contribuenti ed enti
impositori potranno effettuare online il deposito dei
ricorsi e degli atti processuali, come pure accedere al
fascicolo informatico del processo e consultare tutti gli
atti e i provvedimenti emanati dal giudice. Strumenti
necessari per poter fruire dei servizi del processo
tributario telematico sono il possesso di una casella di
posta elettronica certificata e di una firma digitale
valida.
Il sito contiene anche una sezione specifica dedicata alla
rassegna di giurisprudenza tributaria. Ed è proprio su
questo tema che, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, a
poche ore dal «lancio» del portale alcuni giudici hanno
sollevato qualche perplessità, relativa ai criteri di
selezione delle sentenze da parte del Mef.
Come spiegato
dalla Direzione giustizia tributaria sul sito, tuttavia, la
panoramica sulle massime «si propone di offrire risalto ad
alcune delle più interessanti pronunce segnalate dalle
commissioni tributarie», senza quindi privilegiare né quelle
pro-fisco né quelle pro-contribuente e in maniera più
tempestiva che in passato (l'aggiornamento avverrà ogni 15
giorni).
Il portale sarà utilizzabile anche dai magistrati tributari,
che potranno fruire di diversi servizi personalizzati
accessibili dalla «scrivania del giudice», tra cui la
ricerca delle sentenze delle commissioni tributarie e la
consultazione del fascicolo processuale telematico
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2015). |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo soltanto con l'inerenza.
Deliberazioni di riduzione o di esenzione di tributi
«inerenti il tipo di attività posta in essere». In cambio di
lavori fatti in tali ambiti di attività.
Con
nota di approfondimento del 16.10.2015 (si veda ItaliaOggi del 20 ottobre scorso), l'Ifel fornisce
chiarimenti per il corretto inquadramento del baratto
amministrativo e per la sua applicazione ai tributi locali.
Beneficiari del baratto amministrativo potranno essere
individuati in cittadini singoli o associati. Si
privilegeranno le «Comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute».
L'Istituto per la finanza e l'economia locale ritiene che la
riduzione o l'esenzione potrà essere concessa con riguardo
alle obbligazioni tributarie di cui è soggetto passivo
l'associazione stessa. Altro aspetto delicato afferisce il
perimetro d'intervento.
A parere dell'Ifel, l'intervento dei
cittadini dovrà riguardare un territorio da qualificare ed
essere alternativo e sostitutivo rispetto a quello del
comune. A fronte dell'intervento dei cittadini, il comune
potrà disporre deliberazioni di riduzione o esenzione di
tributi «inerenti al tipo di attività posta in essere».
La
ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera
di agevolazione al tributo di riferimento anche se in
apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività
posta in essere. Il concetto di «inerenza» del tributo per
cui si prevede l'agevolazione all'attività svolta dai
cittadini (singoli o associati), dovrà essere valutato in
sede di predisposizione della delibera di agevolazione ed
ispirato a criteri di ragionevolezza e corrispondenza tra
beneficio reso ed agevolazione concessa.
L'Ifel ritiene
opportuno basare la quantificazione economica
dell'agevolazione secondo politiche ispirate a
responsabilità e ragionevolezza del trattamento agevolativo,
specificando che il riconoscimento dell'agevolazione non
deve essere solo «legittimo» ma anche «controllabile».
Da
ultimo, l'Istituto tiene a precisare che non appare coerente
con la ratio della norma la possibilità di prevedere
riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali
debiti tributari del contribuente. La ragione è da ritrovare
nei principi di indisponibilità ed irrinunciabilità al
credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate
tributarie comunali
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
In materia di cartelloni pubblicitari posti sul muro di
recinzione del campo sportivo comunale.
Ogni
qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per
oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale
indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è
devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
---------------
La realizzazione o
l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è
consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti, da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione
titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o
installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare
tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro
normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto
dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene
pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura
pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza,
il «campo sportivo» di cui è
titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi
consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale
indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della
collettività locale);
- la regola della necessità del rilascio di una concessione
–perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato
dei luoghi– si applica pure quando si tratti della
collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non
è regolata soltanto alle disposizioni del codice della
strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del
1993), per effettuare la quale non è sufficiente la
presentazione della relativa domanda, dovendosi, al
riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione
un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con
atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con
conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente, anche l'esercizio del potere di ritiro
dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione
di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di
interesse legittimo.
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Il Comune
ha comunicato alla società appellata che intendeva ritornare
in possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e
dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata
autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto,
ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la
restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli
impianti», entro un fissato termine, perché non risultava
alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della
società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto
di «comodato»: un tale contratto non può essere
giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene
pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il
rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale,
peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la
concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e
purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una
norma giuridica e sussistano i relativi presupposti,
dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui
l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per
l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie, la richiesta di restituzione dell’area
occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la
rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi
la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di
rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa,
risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del
Comune, sicché va rilevata la sussistenza della
giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi
dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente
alla gestione del bene pubblico.
---------------
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446
del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne
pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha
previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla
superficie della minima figura piana geometrica in cui è
circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di
messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di
comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle
assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali
luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del
precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a
qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio
pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte
della società appellata non può quindi rilevare come titolo
per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui
erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la
società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n.
507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma
ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di
concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su
beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione,
l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude
infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed
aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o
di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art.
9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta
comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa
per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge
dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato,
che
individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel
mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione
dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità
e, quindi, all'uso generalizzato.
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi
posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le
autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione
potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso
anche del muro di cinta.
E comunque il fatto che il Comune non abbia richiesto
preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro
suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le
anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione
del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale
interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a
percepire quanto spettante).
---------------
Spettano alla giurisdizione del giudice
ordinario non solo le controversie relative al canone per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche
quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che
l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di
spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari.
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza
formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano
nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie
le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone
previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari,
dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che costituisce una
mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità di cui
al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva, quindi, la qualifica
di tributo propria di quest'ultima, mentre spettano alla
giurisdizione del giudice ordinario le controversie
relative al canone per la concessione di spazi ed aree per
l'installazione di impianti pubblicitari.
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione
di delibere comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, va ritenuto che sulla
domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad
ottenere la condanna della società di cui trattasi ad
indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale
subita, consistente nel mancato introito del canone per
l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo
competente riguardo alla pretesa in esame il giudice
ordinario.
---------------
1.- Il Responsabile dell'Ufficio Economico Finanziario del
Comune di Ponte San Pietro, con nota prot. 8970 del 10.04.2002, ha comunicato alla s.p.a. IGPDECAUX Affissioni
che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati da
tre cartelli pubblicitari e da tre pannelli luminosi siti
nel Comune, alla via Trento e Trieste, la cui installazione
era stata autorizzata con atti prot. 5597 del 13.07.1982, prot. 6942 del
04.12.1987 e prot. 3033 del 19.04.1991, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e
1810 del c.c., alla società «la restituzione dell'area con
la contestuale rimozione degli impianti» (concedendo per
l’incombente un termine di tre mesi), dal momento che non
risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree,
assegnate in comodato (come sarebbe stato comprovato dalla
circostanza che non risultavano pagamenti a favore del
Comune per l’utilizzo dello spazio in questione).
2.- La società ha proposto il ricorso di primo grado,
chiedendo l’annullamento di tale provvedimento e per il
risarcimento del danno al TAR Lombardia, sezione di
Brescia, che, con la sentenza in epigrafe indicata, ha
respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata
dalla difesa del Comune ed ha accolto il ricorso, ritenendo
che il Comune, non avendo chiesto alcun corrispettivo per
l’uso del bene nel periodo dall’anno 1982 all’anno 2002,
aveva dimostrato di avere costantemente interpretato le
autorizzazioni all’affissione dei cartelli pubblicitari come
comprensive della fruizione del muro di cinta del campo
sportivo comunale.
Il TAR ha inoltre respinto la domanda riconvenzionale,
proposta dal Comune.
3.- Con il ricorso in appello in esame, il Comune di Ponte
San Pietro ha chiesto la riforma della sentenza del TAR,
deducendo i seguenti motivi: ...
...
9.1.- Osserva la Sezione che, al fine di accertare se con il
provvedimento impugnato il Comune abbia inteso esercitare
prerogative di natura privata o pubblica, va innanzi tutto
rilevato che l'art. 133, comma 1, lett. b), del c.p.a.,
nell'elencare le materie oggetto giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, sottrae alla sua cognizione
esclusivamente le controversie concernenti «indennità,
canoni ed altri corrispettivi» e quelle attribuite ai
Tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore
delle acque pubbliche; di conseguenza (posto che
appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le
controversie di natura meramente patrimoniale),
ogni
qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per
oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale
indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è
devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
Ciò posto, va osservato che la realizzazione o
l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è
consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti, da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione
titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o
installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare
tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro
normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto
dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene
pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura
pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 04.11.1994, n. 1257),
il «campo sportivo» di cui è
titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi
consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale
indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della
collettività locale);
- la regola della necessità del rilascio di una concessione
–perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato
dei luoghi– si applica pure quando si tratti della
collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non
è regolata soltanto alle disposizioni del codice della
strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del
1993), per effettuare la quale non è sufficiente la
presentazione della relativa domanda, dovendosi, al
riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione
un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con
atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con
conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente, anche l'esercizio del potere di ritiro
dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione
di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di
interesse legittimo (Cons. Stato, sez. V, 17.06.2015, n.
3066).
Non rileva invece esaminare quale sia l’ambito di
applicazione dell’art. 23, comma 11, del codice della
strada, che riguarda lo specifico caso di opposizione alla
sanzione amministrativa e alla conseguente misura della
rimozione di un impianto abusivo (e che non è suscettibile
di applicazione analogica, risultando una norma eccezionale,
di deroga al principio attualmente sancito dall’art. 7 del
codice del processo amministrativo, per il quale i
provvedimenti espressione di un potere pubblicistico sono
impugnabili innanzi al giudice amministrativo).
Nel caso di specie con l’atto impugnato il Comune ha
comunicato alla società appellata che intendeva ritornare in
possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e
dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata
autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto,
ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la
restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli
impianti», entro un fissato termine, perché non risultava
alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della
società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto
di «comodato»: un tale contratto non può essere
giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene
pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il
rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale,
peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la
concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e
purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una
norma giuridica e sussistano i relativi presupposti,
dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui
l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per
l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie, la richiesta di restituzione dell’area
occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la
rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi
la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di
rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa,
risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del
Comune, sicché va rilevata la sussistenza della
giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi
dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente
alla gestione del bene pubblico.
Va respinto dunque il primo motivo d’appello.
10.- Con il secondo motivo di gravame, il Comune ha
lamentato l’erroneità della sentenza appellata, nella parte
in cui essa ha argomentato nel senso che le autorizzazioni a
suo tempo rilasciate erano titoli idonei ad escludere la
natura abusiva delle affissioni, come risulterebbe anche dal
fatto che non è stato chiesto alcun corrispettivo per l’uso
del muro di cinta del campo sportivo, per il periodo
dall’anno 1982 all’anno 2002.
Ad avviso dell’appellante, il TAR avrebbe sovrapposto due
piani da tenere invece distinti (cioè il profilo delle
autorizzazioni amministrativa all’esposizione e alla
diffusione di messaggi pubblicitari e quello della fruizione
di aree e di immobili di proprietà pubblica, ma non
destinati all’utilizzazione pubblica generalizzata) e non
avrebbe tenuto conto dei principi riguardanti la necessità
della forma scritta ad substantiam, quando si tratti di
contratti con le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, è dedotto che:
- l’area in questione, in quanto appartenente al patrimonio
disponibile e quindi fruttifero, non sarebbe stata soggetta
a concessione di suolo pubblico, dovendosi invece ritenere
necessaria la stipula di un contratto, la cui mancanza
evidenzierebbe la natura abusiva delle installazioni
effettuate;
- contrariamente a quanto affermato dal TAR, il Comune
non ha mai ‘autorizzato’ per facta concludentia
la installazione;
- l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità (ai
sensi del d.lgs. n. 507 del 1993) non rileva quale titolo
per l’occupazione degli spazi in questione, risultando anche
dovuta la tassa per l’occupazione di spazi e di aree
pubbliche ovvero dei canoni di locazione o di concessione
(ex art. 13, u.c., del medesimo d.lgs.), come previsto anche
dall’art. 18 del Regolamento comunale per la pubblicità;
- il Comune fondatamente ha preteso il pagamento del
corrispettivo per l’uso di fatto del bene.
10.1.- Ritiene la Sezione che il motivo è fondato, per la
parte in cui ha dedotto l’infondatezza delle censure
formulate in primo grado, avverso il provvedimento di
autotutela.
Vanno previamente respinte le deduzioni con cui il Comune ha
dedotto che per l’utilizzo del bene in questione sarebbe
stata necessaria la stipula di un contratto: come si è sopra
rilevato in sede di reiezione della deduzione per cui non
sussisterebbe la giurisdizione amministrativa,
il
provvedimento a suo tempo emesso va qualificato come
concessione (di utilizzo) di un bene pubblico.
Quanto alla deduzione sulla spettanza di un corrispettivo
per l’uso del bene, il collegio ritiene che, alle
considerazioni sopra riportate, vadano aggiunte quelle dopo
esposte in occasione dell’esame della domanda
riconvenzionale, formulata dal Comune innanzi al TAR.
Risulta invece fondata la deduzione del Comune, secondo cui
l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità dovrebbe
far considerare insussistente il presupposto (l’occupazione
senza titolo) che ha condotto all’emanazione dell’atto
impugnato in primo grado.
L'art. 3, comma 149, lettera g), della legge n. 662 del 1996
ha attribuito ai Comuni la «facoltà, con regolamento, di
escludere l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità», di
cui al d.lgs. n. 507 del 1993, e «di individuare le
iniziative pubblicitarie che incidono sull'arredo urbano o
sull'ambiente prevedendo per le stesse un regime autorizzatorio e l'assoggettamento al pagamento di una
tariffa», nonché la «possibilità di prevedere, con lo stesso
regolamento, divieti, limitazioni e agevolazioni e di
determinare la tariffa secondo criteri di ragionevolezza e
di gradualità, tenendo conto della popolazione residente,
della rilevanza dei flussi turistici presenti nel comune e
delle caratteristiche urbanistiche delle diverse zone del
territorio comunale».
L'art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 disciplina l'attività
regolamentare dei Comuni in materia di entrate proprie; il
seguente art. 54 abilita il Comune a fissare le tariffe e i
prezzi pubblici ai fini dell'approvazione del bilancio di
previsione e il successivo art. 62 (riproducendo in sostanza
la disposizione della l. n. 662 del 1996 sopra richiamata)
affida ai Comuni il compito di disciplinare con proprio
regolamento il nuovo regime autorizzatorio in materia di
pubblicità con il pagamento di un canone in base a tariffa,
facendo riferimento -per quel che riguarda la
«individuazione della tipologia dei mezzi di effettuazione
della pubblicità esterna che incidono sull'arredo urbano o
sull'ambiente»- alle disposizioni del codice della strada
n. 285 del 1992 e del suo regolamento di attuazione (d.P.R.
n. 495 del 1992); nella stessa disposizione è previsto che
il regolamento debba disciplinare le «procedure per il
rilascio e per il rinnovo dell'autorizzazione», indicare le
«modalità di impiego dei mezzi pubblicitari», determinare la
tariffa con criteri di ragionevolezza e gradualità in
relazione agli indicati parametri, nonché che possa fissare
«con carattere di generalità divieti, limitazioni e
agevolazioni» (al comma 3); prevede infine (al comma 4) che
il Comune procede alla rimozione dei mezzi pubblicitari
privi di autorizzazione o installati in difformità da essa.
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446
del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne
pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha
previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla
superficie della minima figura piana geometrica in cui è
circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di
messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di
comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle
assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali
luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del
precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a
qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio
pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte
della società appellata non può quindi rilevare come titolo
per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui
erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la
società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n.
507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma
ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di
concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su
beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione,
l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude
infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed
aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o
di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art.
9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta
comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa
per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge
dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato,
che
individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel
mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione
dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità
e, quindi, all'uso generalizzato (Cassazione civile, sez.
trib., 27.07.2012, n. 13476).
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi
posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le
autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione
potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso
anche del muro di cinta.
E comunque il fatto che il Comune non abbia richiesto
preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro
suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le
anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione
del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale
interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a
percepire quanto spettante).
Deve in conclusione ritenersi la legittimità dell’ordine di
restituzione dell'area con contestuale rimozione degli
impianti.
10.2. Né, comunque, un titolo concessorio si sarebbe potuto
ritenere sussistente anche nel caso di effettivo pagamento
delle somme di cui il Comune lamenta la mancata
corresponsione, poiché il pagamento di tali importi non
sarebbe stato comunque equipollente al rilascio del
necessario provvedimento espresso, abilitativo dell’uso
dell’impianto.
10.3. Considerato che non sono state ritualmente riproposti
nel giudizio di appello, entro il termine per la
costituzione in giudizio, da parte della IGPDECAUX
Affissioni s.p.a., i motivi di ricorso di primo grado
dichiarati assorbiti dal primo giudice, nei limiti sopra
esposti l’appello va accolto e va conseguentemente respinto
il ricorso di primo grado introduttivo del giudizio, perché
infondato.
11.- Con il terzo motivo d’appello, il Comune ha riproposto
la domanda riconvenzionale respinta dal TAR, chiedendo,
ai sensi dell’art. 2041 del codice civile, la condanna della
società ad indennizzare il Comune della diminuzione
patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del
canone per l’affitto degli spazi in questione ed ammontante,
come risulta da una certificazione del responsabile del
Settore finanziario del Comune del 03.04.2003, a circa €
1.277 per l’occupazione dello spazio con un cartello
pubblicitario di dimensioni pari a mt. 6x3.
Tenuto conto che l’area in questione è stata occupata con
sei cartelli pubblicitari di tali dimensioni, ad avviso del
Comune il canone annuo da corrispondere all’Amministrazione
ammonterebbe ad € 7.662, da moltiplicare per il numero di
anni di occupazione abusiva, “allo stato” pari a 20, per una
somma complessiva di € 153.240,00, oltre i relativi
accessori.
Con una memoria depositata il 28.05.2015, il Comune ha
quantificato l’importo dovuto dalla società in € 229.860,00,
oltre a rivalutazione ed interessi a decorrere da ogni
annualità.
11.1.- Al riguardo la società appellata ha eccepito
l’inammissibilità della domanda formulata in primo grado,
tra l’altro, per difetto di giurisdizione, poiché le
controversie relative al pagamento dei canoni di concessione
di beni pubblici, come quelle inerenti alle pretese
creditorie dell’Amministrazione per occupazioni, anche senza
titolo, di beni pubblici, sono devolute alla giurisdizione
del giudice ordinario; ciò a nulla valendo la valenza
riconvenzionale della richiesta, sia perché, ex art. 36 del c.p.c., essa non comporterebbe deroga alla giurisdizione del
giudice adito e sia perché sarebbe precluso dal criterio di
riparto l’ottenimento in via riconvenzionale di una
pronuncia del giudice amministrativo preclusa in caso di
azione principale (a nulla valendo la pretesa del Comune di
qualificare il dedotto mancato pagamento in termini di
indebito arricchimento).
11.2.- Osserva in proposito il collegio che, ai sensi
dell'art. 133, comma 1, lett. c), del c.p.a., sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie in materia di pubblici servizi relative a
concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti
«indennità, canoni ed altri corrispettivi» (sull’ambito di
applicazione della medesima lettera c), cfr. Cons. di Stato,
sez. V, 22.01.2015, n. 247).
In generale le controversie concernenti indennità, canoni o
altri corrispettivi che rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario sono quelle con concernenti pretese di
carattere meramente patrimoniale, che derivano
dall'attuazione del rapporto instauratosi tra il privato e
la pubblica amministrazione e rispetto alle quali non è
stato esercitato un potere autoritativo a tutela di
interessi generali; va, invece, riconosciuta la sussistenza
della giurisdizione del giudice amministrativo quando la
controversia coinvolga l'esercizio di poteri discrezionali
previsti da una norma giuridica e inerenti alla
determinazione del canone, dell'indennità o di altro
corrispettivo, ovvero investa l'esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone che
incidono sull'economia dell'intero rapporto concessorio, e
non semplicemente la verificazione dei presupposti fattuali
dello stesso e la quantificazione delle somme.
Con particolare riguardo ai canoni comunali sulla
pubblicità, la Corte Costituzionale, con sentenza 21.01.2010 n. 18, ha ritenuto manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma
2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, come
modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lett. b), del d.l. n.
203 del 2005, convertito, con modificazioni, nella l. n. 248
del 2005 (censurato, in riferimento all'art. 102, comma 2,
ed alla VI disposizione transitoria della Costituzione,
nella parte in cui stabilisce che appartengono alla
giurisdizione tributaria le controversie attinenti il canone
comunale sulla pubblicità).
In tema di riparto di giurisdizione (a seguito della
sentenza n. 64 del 2008, con cui la Corte costituzionale ha
dichiarato l'incostituzionalità, per contrasto con gli art.
103 Cost. e VI disp. att. Cost., dell'art. 2, comma 2, del
d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall'art. 3-bis,
comma 1, lett. b, d.l. n. 203 del 2005, convertito nella l.
n. 248 del 2005) spettano alla giurisdizione del
giudice
ordinario non solo le controversie relative al canone per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche
quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che
l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di
spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari
(Cassazione civile sez. un. 16.04.2009 n. 8994).
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza
formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano
nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie
le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone
previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari,
dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che -come ritenuto
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 2009-
costituisce una mera variante dell'imposta comunale sulla
pubblicità di cui al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva,
quindi, la qualifica di tributo propria di quest'ultima,
mentre spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le
controversie relative al canone per la concessione di spazi
ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari
(Cassazione civile, sez. un., 07.05.2010, n. 11090).
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione
di delibere comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, va ritenuto che sulla
domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad
ottenere la condanna della società di cui trattasi ad
indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale
subita, consistente nel mancato introito del canone per
l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo
competente riguardo alla pretesa in esame il giudice
ordinario.
Resta conseguentemente assorbita l’eccezione formulata dalla
costituita società di irricevibilità della domanda in
questione.
12.- L’appello deve essere conclusivamente accolto in parte
e per l’effetto, in riforma della decisione sentenza del
TAR, va respinto il ricorso introduttivo del giudizio.
La domanda riconvenzionale riproposta in questa sede dal
Comune appellante deve essere dichiarata inammissibile per
difetto di giurisdizione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2015 n. 4857 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Niente Ici sul terreno edificabile coltivato.
Qualora un terreno edificabile sia posseduto da una società
agricola e condotto e coltivato dai soci, lo stesso non deve
essere assoggettato a Ici. Di più, qualora il terreno sia di
più comproprietari, non tutti aventi la qualifica di
agricoltore, il beneficio Ici si estende anche nei confronti
del non agricoltore, giacché la proprietà immobiliare è
comune e indivisa, nonché coltivata direttamente dagli altri
soggetti in possesso dei requisiti richiesti dalla norma. Da
ultimo, neppure il fatto che gli stessi proprietari abbiano
presentato al comune un progetto di lottizzazione può
pregiudicare l'agevolazione.
È quanto afferma la Ctr di Brescia nella sentenza
07.10.2015 n. 4358/67/15.
Il caso ha a oggetto una richiesta Ici per dei terreni
posseduti da una società agricola, costituita solo in parte
da agricoltori, comproprietari per i due terzi, i quali
risultano edificabili poiché classificati nella zona
C1,residenziale di espansione del Piano generale regolatore.
Il primo grado di giudizio si concludeva con la conferma
dell'accertamento.
L'adita Ctr di Brescia ha invece ribaltato l'esito del primo
giudizio, osservando che «in ogni caso non sono
considerati fabbricati i terreni posseduti e condotti dai
soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs n.
504 del 1992»; e vanno considerati terreni agricoli con
il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei confronti di
quei proprietari che non abbiano alcuna qualifica agricola
perché, essendo la proprietà immobiliare comune e indivisa e
nell'esclusivo possesso delle persone munite della qualifica
di coltivatore diretto, sussiste il requisito oggettivo per
il riconoscimento del trattamento Ici più favorevole anche
nei confronti degli altri comproprietari.
Il terreno di cui si discuteva, infatti, era condotto e
coltivato dalla società semplice i cui soci, per due terzi,
sono i medesimi proprietari dei terreni e, sugli stessi, la
società svolgeva attività di allevamento di bovini,
coltivazione di fondi agricoli.
Due soci, aggiunge, la Ctr, sono coltivatori diretti
iscritti nell'apposita gestione Inps, per cui, ai sensi
dell'art. 9 del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa
continuano a essere riconosciuti e si applicano i diritti e
le agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente
a favore delle persone fisiche in possesso delle predette
qualifiche.
Oltre all'accoglimento dell'appello, la Ctr ha anche
condannato il Comune al pagamento di significative spese di
giudizio.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
L'appello dei ricorrenti è fondato e va accolto.
Nel caso prospettato in cui i terreni posseduti da una
società agricola costituita solo in parte da agricoltori
comproprietari per i due terzi, risultano edificabili poiché
classificati nella zona C1, residenziale di espansione del
Piano generale regolatore vigente, la Corte di cassazione,
con la sentenza n. 15566 del 14/05/2010 depositata il
30/06/2010 ha stabilito che in ogni caso non sono
considerati «fabbricati» i terreni posseduti e
condotti dai soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9
del Dlgs n. 504 del 1992 e vanno considerati terreni
agricoli con il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei
confronti di quei proprietari senza alcuna qualifica
agricola perché, essendo la proprietà immobiliare comune e
indivisa e nell'esclusivo possesso delle persone munite
della qualifica di coltivatore diretto, sussiste il
requisito oggettivo per il riconoscimento del trattamento
Ici più favorevole anche nei confronti degli altri
comproprietari.
Poiché nella fattispecie il terreno oggetto di imposizione è
condotto e coltivato dalla società semplice i cui soci, per
due terzi, sono i medesimi proprietari dei terreni e la
società vi svolge l'attività di allevamento di bovini da
latte, coltivazione di fondi agricoli e due soci sono
coltivatori diretti iscritti nell'apposita gestione Inps,
tutti fatti non contestati dal Comune, ai sensi dell'art. 9
del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa continuano a
essere riconosciuti e si applicano i diritti e le
agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente a
favore delle persone fisiche in possesso i delle predette
qualifiche, da cui discende l'illegittimità degli atti
emessi dal Comune.
D'altra parte il Comune si è limitato a chiedere l'imposta
sulla sola presunzione della suscettibilità edificatoria dei
terreni sui quali gli stessi proprietari hanno presentato un
piano di lottizzazione, ma non ha provato il mancato
utilizzo ai fini agricoli di tali aree.
Per le motivazioni suesposte e ogni altra eccezione
disattesa restando assorbita da quanto prefato, l'appello
deve essere accolto e, alla soccombenza, deve seguire la
condanna al pagamento delle spese di giustizia che vengono
liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Commissione tributaria regionale di Milano, sezione
staccata di Brescia, sezione 67,definitivamente
pronunciando, così decide:
- in accoglimento dell'appello riforma la sentenza di primo
grado e annulla l'atto impugnato; le spese di giudizio
quantificate in euro 1.500,00 (millecinquento/00) seguono la
soccombenza
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016). |
PATRIMONIO - TRIBUTI:
Regolamento per la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio per
l'applicazione dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica
di favorire la partecipazione della comunità locale nella
valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni
di affidare a cittadini singoli o associati determinati
interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici
pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
In caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle
associazioni, la riduzione fiscale sembra poter essere
sostituita da contributi monetari qualora questi siano
corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli
associati partecipanti all'intervento, per il tributo
specifico individuato, in relazione alla tipologia delle
attività svolte.
L'Amministratore locale chiede un parere in ordine alla
legittimità di una norma contenuta nel Regolamento comunale
concernente la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio
(cosiddetto servizio di volontariato civico), per
l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014. Nello
specifico, il quesito posto riguarda la legittimità o meno
della previsione nel Regolamento di un contributo economico
alle Associazioni di volontariato in una misura percentuale
dei tributi comunali pagati dagli associati che partecipano
al servizio.
In via preliminare, si precisa che non compete a questo
Servizio la valutazione di legittimità dei contenuti degli
atti normativi emanati dai Comuni, in base alla loro
autonomia costituzionalmente riconosciuta. Il fine della
consulenza è di fornire un supporto giuridico agli enti
locali sulle questioni prospettate, affinché gli stessi
possano assumere le determinazioni più opportune nei casi
concreti, in relazione alle peculiarità che presentano.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione
della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n.
133/2014 [1],
'i comuni possono definire con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi
su progetti presentati da cittadini singoli o associati,
purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In
relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni
possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti
al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa
per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e
per attività individuate dai comuni, in ragione
dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere.
Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di
cittadini costituite in forme associative stabili e
giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei
cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del
territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4,
della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali
favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale.
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai
comuni di affidare a cittadini singoli o associati
determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata
zona del territorio urbano o extraurbano.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
consente ai Comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
Al fine di chiarire le modalità applicative dell'art. 24, si
ritiene utile riportare quanto affermato dal Comitato per lo
sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare,
secondo cui «l'impressione è che la norma non autorizzi
affatto gli enti locali, in modo indiscriminato, a disporre
la riduzione o l'esonero. Ma esiga, piuttosto, un preciso
rapporto di connessione 'fra attività posta in essere' e
tributo interessato» [2].
Ciò comporta che, in caso di riconoscimento degli incentivi
fiscali alle associazioni (come nel caso di specie), la
riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da
contributi monetari qualora questi siano corrispondenti
all'importo delle riduzioni spettanti agli associati
partecipanti all'intervento, per il tributo specifico
individuato, in relazione alla tipologia delle attività. In
tal modo, infatti, appare realizzata l'agevolazione fiscale
prevista dall'art. 24 in commento, come riduzione (o
esenzione) di tributi 'inerenti al tipo di attività posta
in essere'.
Si ritiene pertanto che il riconoscimento di contributi alle
Associazioni in misura percentuale dell'importo di un
determinato tributo versato complessivamente dai
partecipanti al progetto, richieda, ai sensi dell'art. 24,
D.L. n. 133/2014, una connessione tra detto tributo e la
tipologia di attività svolta dall'Associazione
[3].
---------------
[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Cfr. Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, Comitato per lo sviluppo del verde
pubblico, Deliberazione n. 5 del 23.02.2015.
[3] Specificamente, in via esemplificativa, sembra potersi
ravvisare una connessione tra la TARI e gli interventi di
pulizia e manutenzione di aree ed edifici pubblici (01.10.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
settembre 2015 |
|
TRIBUTI:
Baratto amministrativo ristretto. Vietato per
pagare tasse locali, non per multe e sanzioni. La Corte
conti lombarda con un parere sulle prestazioni a beneficio
della collettività.
No al baratto amministrativo come strumento per pagare le
tasse locali o come forma alternativa agli istituti
civilistici della datio in solutum o della transazione.
Discorso diverso per le entrate extratributarie (rette,
tariffe per servizi a domanda individuale, multe, sanzioni)
per le quali i comuni potranno prevedere la possibilità di
estinguere le obbligazioni pecuniarie con una prestazione
personale che comunque dovrà essere determinata chiaramente
in anticipo e tipizzata e dovrà essere svolta a beneficio
della collettività.
A mettere nuovamente i paletti all'istituto del baratto
amministrativo (introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014 e
poi ripreso anche dal Codice appalti che ne ha completato la
regolamentazione attraendolo nella materia dei contratti
pubblici di partenariato sociale) è stata la Corte conti
Lombardia, sezione regionale di controllo, nel
parere 06.09.2016 n.
225 reso al comune di Casalpusterlengo (Lo).
I giudici
hanno ribadito che il baratto amministrativo necessita di
una “previa regolamentazione a carattere generale, riveste
natura temporanea, può essere applicato in ambiti
territoriali limitati e non può riguardare debiti tributari
pregressi”. E' proprio questa l'esclusione più significativa
perché, fin dal suo debutto, il baratto è stato percepito
dalle amministrazioni comunali come strumento per sgravare
dal carico fiscale contribuenti in difficoltà offrendo loro
la possibilità di estinguere il debito svolgendo attività
sostitutive a beneficio della cittadinanza.
Ebbene, secondo,
la Corte conti, ciò non è possibile perché “la riduzione
delle imposte non si può applicare su debiti pregressi
confluiti nella massa dei residui attivi accertati dall'ente
locale”.
Il baratto amministrativo, inoltre, non può essere
lasciato alla libera iniziativa del cittadino insolvente,
ancorché incolpevole. Costui non potrà scegliere in modo
autonomo la prestazione da eseguire, ma sarà l'ente a
doverlo fare preliminarmente, disciplinando i casi concreti
di attuazione e la tipologia di crediti a cui applicare il
baratto, nonché individuando la natura dei lavori e dei
servizi e i soggetti che possono avvalersi dell'istituto.
In
pratica, chiariscono i giudici lombardi, “deve escludersi
che il singolo cittadino, anche se insolvente incolpevole,
possa proporre interventi che non rientrino nella
programmazione dell'ente, potendosi invece effettuare
unicamente le attività già previste e finanziate in
bilancio”
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2016). |
luglio 2015 |
|
TRIBUTI: Scuole
paritarie, per l’esenzione servono regole su misura.
Con due
sentenze (sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226) la Corte
di Cassazione -Sez. V civile- ha accolto il ricorso con cui il comune di
Livorno aveva chiesto il pagamento dell’Ici (anni 2004-2009)
a due scuole gestite da istituti religiosi privi dei
requisiti richiesti per l’esenzione.
La Cassazione conferma il principio per cui l’esenzione Ici
prevista dalla legge 504/1992 «è subordinata alla
compresenza di un requisito oggettivo» (lo svolgimento
esclusivo nell’immobile di attività meritorie tra le quali
l’insegnamento), «e di un requisito soggettivo, costituito
dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente
pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciali». Sul
requisito oggettivo, la Corte non ha ritenuto
sufficientemente dimostrato che l’attività didattica
dell’istituto religioso si svolgesse con modalità non
commerciali.
Le sentenze –che dispongono la ripetizione del giudizio di
merito e non determinano direttamente un nuovo e definitivo
esito– possono riflettersi sull’applicazione delle
agevolazioni Imu. Il regolamento ministeriale 200/2012,
infatti, per le scuole prevede che la non commercialità
dell’attività sia verificata tramite alcuni criteri
ordinamentali e uno di tipo economico: che sia svolta «a
titolo gratuito, o dietro versamento di corrispettivi di
importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione
del costo effettivo del servizio».
Le argomentazioni delle
sentenze non prendono in considerazione gli aspetti ordinamentali, mentre riguardo al criterio economico
ritengono il corrispettivo pagato dagli utenti «fatto
rivelatore dell’esercizio dell’attività svolta con modalità
commerciali», indipendentemente dalla sua entità.
La commercialità dell’attività sottoposta a valutazione,
insomma, va sempre riconosciuta quando c’è l’attitudine alla
remunerazione dei fattori produttivi, essendo giuridicamente
irrilevante lo scopo di lucro. Se questa impostazione è
definitiva, non c’è dubbio che quasi tutte le attività
scolastiche private, tanto più se svolte in regime
“paritario” rispetto al sistema dell’istruzione pubblica,
rientrino nei criteri di “commercialità”, che precludono
l’esenzione Ici e Imu.
Il mantenimento del regime di favore per paritarie dovrà
percorrere la strada della normativa speciale di settore,
che forse dovrebbe comprendere tutte le scuole private e non
solo quelle condotte da enti non commerciali, superando così
il regime “interpretativo” adottato con il
regolamento 200/2012. Potrebbe essere di supporto la legge
62/2001, che riconosce alle scuole paritarie “senza fini
di lucro” le agevolazioni fiscali previste nel decreto
460/1997 sulle Onlus.
Diverse esenzioni e riduzioni, che però non menzionano la
fiscalità immobiliare locale, lasciando ai Comuni la facoltà
di intervenire. La dichiarata volontà politica di assicurare
un trattamento fiscale di favore al settore scolastico
privato, però, non può minare la certezza delle basi
imponibili su cui i Comuni devono poter contare stabilmente,
magari attraverso compensazioni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2015). |
TRIBUTI: Scuole paritarie soggette all'Ici.
Lo dice la Corte di Cassazione.
Le scuole paritarie gestite da un ente ecclesiastico sono
soggette al pagamento dell'Ici se gli utenti pagano un
corrispettivo, nonostante le rette richieste siano modeste e
la gestione operi in perdita. L'attività didattica non si
può ritenere svolta in forma non commerciale, ancorché si
tratti di un ente religioso, poiché non è a titolo gratuito.
Per integrare il fine di lucro è sufficiente che con i
ricavi si tenda a perseguire il pareggio di bilancio.
È
l'importante principio affermato dalla Corte di Cassazione,
con la
sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226, con le quali ha anche respinto l'istanza di
annullamento delle sanzioni tributarie irrogate dal comune
di Livorno.
Per i giudici di piazza Cavour, l'attività didattica
esercitata dall'ente religioso rientra tra quelle esenti, ma
non è svolta in forma non commerciale. In realtà, per la
scuola paritaria gli utenti «pagano un corrispettivo, che
erroneamente il giudice di merito ritiene irrilevante ai
fini Ici». «Altrettanto erroneamente il giudicante
attribuisce rilevanza al fatto che la gestione operi in
perdita». È da escludere, per la Cassazione, «che
l'esenzione spetti sempre laddove l'ente si proponga
finalità diverse dalla produzione di reddito». Manca il
«carattere imprenditoriale dell'attività nel caso in cui
essa sia svolta in modo del tutto gratuito». Mentre, «per
integrare il fine di lucro è sufficiente l'idoneità, almeno
tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di
bilancio».
La Cassazione, con le pronunce in esame, ha inoltre respinto
al mittente l'istanza di disapplicazione delle sanzioni,
poiché ha ritenuto che non ci sia alcuna incertezza
oggettiva sulla materia e che le nuove regole introdotte per
l'Imu sull'esenzione per gli enti non commerciali hanno
carattere innovativo e non interpretativo. Non a caso, con
la sentenza n. 4342/2015 ha già chiarito che le disposizioni
sull'Imu non sono applicabili anche all'Ici per l'esenzione
degli immobili posseduti dagli enti non commerciali.
L'evoluzione della norma che riconosce i benefici fiscali
per una parte dell'immobile, per esempio, non può avere
effetti retroattivi. L'esenzione Ici prevista dall'articolo
7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992 era
limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati
totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate
dalla norma (sanitarie, didattiche, ricettive, ricreative,
sportive e così via) in forma non commerciale.
Le esenzioni
per Imu e Tasi, invece, spettano se sugli immobili vengono
svolte le suddette attività con modalità non commerciali,
anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione
mista. L'agevolazione, però, è limitata alla parte nella
quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia
identificabile.
La porzione dell'immobile dotata di autonomia funzionale e
reddituale permanente deve essere iscritta in catasto, con
attribuzione della relativa rendita. Se non è possibile
accatastarla autonomamente, l'esenzione spetta in
proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile
che deve risultare da apposita dichiarazione dell'ente
interessato
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2015). |
TRIBUTI: Paritarie, rischio stangata La retta fa scattare l'Imu.
La cassazione: l'attività è commerciale.
Torna sulle scuole paritarie lo spettro dell'Ici. Nodo della
questione: l'attività didattica considerata attività
commerciale. Secondo la Corte di Cassazione l'immobile
posseduto da un ente religioso e destinato all'esercizio di
una scuola paritaria è potenzialmente soggetto all'Ici,
perché la gestione di un istituto paritario si configura
come un'attività commerciale. Ago della bilancia, secondo i
giudici, la retta che le famiglie versano alla scuola
paritaria.
La Corte di Cassazione -Sez. V civile-
con la
sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226 interviene sul caso di un
ente religioso proprietario dell'immobile adibito a scuola
paritaria che aveva impugnato gli avvisi di accertamento del
comune per il pagamento dell'Ici, chiedendo l'applicazione
dell'esenzione prevista dal decreto legislativo 504 del 1992
(art. 7).
Esaminando l'evoluzione legislativa sul tema, da
una parte l'ente sottolinea che l'art. 39 del decreto legge
223 del 2006 stabilisce l'esenzione dell'Ici per gli
immobili debiti ad attività che non hanno esclusiva natura
commerciale, dall'altra i giudici dichiarano che
quell'articolo non è conforme alla disciplina comunitaria
sul divieto di aiuti di Stato alle imprese. Sul caso
concreto, poi, la Suprema Corte osserva la potenziale
sussistenza di un'attività commerciale poiché gli utenti
della paritaria pagano una retta per frequentarla. E
respinge le obiezioni dell'ente riguardo la perdita nella
gestione, perché «è irrilevante dal punto di vista giuridico
lo scopo di lucro».
L'ente quindi dovrà pagare l'Ici ma,
sentenziano i giudici, senza sanzioni vista l'obiettiva
incertezza sull'applicazione delle legge. La sentenza è
importante anche per le interpretazioni delle disposizioni
sull'Imu. Secondo le istruzioni del Miur sulla compilazione
del modello Imu Enc il carattere non commerciale
dell'attività didattica si verifica nel momento in cui le
rette degli utenti coprono solo una parte di tutto il costo
del servizio.
Le stesse istruzioni però utilizzano come
parametro di riferimento il costo medio per studente
sostenuto dallo Stato per un alunno nelle proprie scuole,
fissato dal ministero dell'economia: 5.739,17 euro per uno
studente di scuole dell'infanzia, 6.634,12 nella primaria,
6.835,85 alle medie, 6.914,31 alla superiori.
Se il
corrispettivo della paritaria non supera questo costo medio
per alunno, l'immobile è esente dall'Imu per la parte della
struttura destinata all'attività didattica. Questo però è in
contrasto con la Cassazione
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2015). |
TRIBUTI:
Istituti scolastici religiosi, dovuta l'Ici. La
Cassazione dà ragione al Comune.
La suprema Corte ha accolto il ricorso di Livorno: primo
pronunciamento di questo tipo in Italia.
La Corte di Cassazione ha riconosciuto
la legittimità della richiesta dell’Ici avanzata nel 2010
dal Comune di Livorno agli istituti scolastici del
territorio gestiti da enti religiosi.
Con la
sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226, la suprema Corte,
Sez. V civile, ha di fatto ribaltato quanto stabilito nei
primi due gradi di giudizio, sentenziando che, poiché gli
utenti della scuola paritaria pagano un corrispettivo per la
frequenza, tale attività è di carattere commerciale, “senza
che a ciò osti la gestione in perdita”.
In proposito il giudice di legittimità ha precisato che, ai
fini in esame, è giuridicamente irrilevante lo scopo di
lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei
ricavi a perseguire il pareggio di bilancio.
E cioè, il conseguimento di ricavi è di per sé indice
sufficiente del carattere commerciale dell’attività svolta.
Si ricorda che il contenzioso che vede contrapposti il
Comune ed alcuni istituti scolastici paritari, è sorto nel
2010 a seguito della notifica da parte dell’ufficio Tributi
di avvisi di accertamento per omessa dichiarazione e omesso
pagamento dell’Ici, per gli anni dal 2004 al 2009.
In particolare gli importi relativi alle scuole “Santo
Spirito” ed “Immacolata” sono pari a €
422.178,00.
Si ricorda che anche la Commissione Provinciale Tributaria
di Livorno aveva stabilito che l'ICI fosse dovuta,
respingendo i ricorsi degli istituti.
A questo punto, a seguito delle sentenze, si provvederà a
notificare anche gli importi dovuti per le annualità 2010 e
2011, imponibili a fine Ici.
Come spiega l’ufficio Tributi, è da sottolineare che questo
genere di pronunciamento da parte della Corte di Cassazione
è il primo in Italia sul tema specifico.
Queste sentenze assumono, tra l’altro, rilievo ai fini
dell’interpretazione delle disposizioni in materia di Imu,
relativamente all’imposizione fiscale dall’anno 2012.
Grande soddisfazione perché si tratta del riconoscimento
dell’ottimo lavoro svolto dagli uffici comunali i quali, con
l’obiettivo di reperire risorse e lavorare per l’equità
fiscale, da anni hanno avviato una linea tesa al recupero
dell’elusione e dell’evasione fiscale.
La vicesindaco Stella Sorgente in proposito dichiara: “Abbiamo
fatto degli incontri con le scuole interessate e l’ufficio
tributi, nei quali era stata proposta un’ipotesi di
conciliazione fra Comune e Istituti che sarebbe stata
vantaggiosa per le scuole stesse, rispetto ad un’eventuale
sentenza favorevole per il Comune da parte della Cassazione.
Successivamente ci è stato comunicato dalle scuole stesse
che avrebbero invece preferito attendere l'esito del
giudizio in Cassazione.
L’Amministrazione comunale è stata ringraziata per il
sincero atteggiamento di apertura e dialogo dimostrato, ma
non è stata accettata la proposta fatta. Pertanto, adesso
che la Cassazione si è espressa con le due sentenze, le
scuole sono costrette a pagare l’intero importo, comprensivo
delle relative sanzioni.
Ci fa piacere che questa sia la prima sentenza a livello
nazionale che riguarda immobili di questa tipologia,
destinati ad uso scolastico, affinché sia fatta
definitivamente chiarezza sulla legittimità di tali
pagamenti tributari da parte degli enti religiosi”
(commento tratto da www.comune.livorno.it). |
giugno 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Cartelli di esercizi commerciali e di vendita immobiliare.
Imposta di pubblicità.
Ai fini dell'applicazione delle
esenzioni dall'imposta di pubblicità previste dall'art. 17,
D.Lgs. n. 507/1993, in particolare di quella di cui al comma
1-bis, riferita all'insegna di esercizio, il Ministero
dell'economia e delle finanze ha richiamato la definizione
di 'insegna di esercizio' formulata dal legislatore con il
comma 6 dell'art. 2-bis del D.L. n. 13/2002, secondo cui
l'insegna è la scritta di cui all'art. 47, D.P.R. n.
495/1992, che abbia la funzione di indicare al pubblico il
luogo di svolgimento dell'attività economica.
Al riguardo, il Ministero ha precisato che l'insegna, oltre
all'indicazione del nome del soggetto o della denominazione
dell'impresa che svolge l'attività, può evidenziare anche la
tipologia e la descrizione dell'attività esercitata, nonché
i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi
offerti.
Il Comune illustra le caratteristiche di cartelli di
esercizi commerciali, in relazione ai quali chiede se sia
dovuta l'imposta di pubblicità, o se si versi, invece, nelle
ipotesi di esenzione, in particolare per le insegne di
esercizio, previste dalla normativa vigente in materia, di
cui al D.Lgs. n. 507/1993 [1].
Il Comune, con riferimento ai cartelli di vendita
immobiliare, pone altresì la questione dell'esenzione o meno
dall'imposta, in relazione alle loro misure e al luogo di
posizionamento.
Risulta opportuno precisare, in via preliminare, che
l'attività di questo Servizio consiste nella
rappresentazione in generale del quadro giuridico, normativo
e giurisprudenziale, inerente alle tematiche poste, tenuto
altresì conto delle indicazioni contenute nelle circolari
degli organi amministrativi competenti, in modo da fornire
agli enti locali un supporto per la soluzione dei singoli
casi concreti.
L'art. 17 del D.Lgs. n. 507/1993 elenca le fattispecie
pubblicitarie che godono dell'esenzione dal tributo, in
particolare, al comma 1-bis -inserito dall'art. 10, comma 1,
lett. c), L. n. 448/2001 [2]-
prevede che l'imposta non è dovuta per le insegne di
esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o
servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge
l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva
fino a 5 metri quadrati.
Il Ministero dell'economia e delle finanze è più volte
intervenuto a fornire chiarimenti in ordine alle modalità di
applicazione dell'imposta di pubblicità. E così, nelle
circolari esplicative ha sottolineato che l'esenzione di cui
al comma 1-bis è applicabile ai soli mezzi pubblicitari che
possono definirsi 'insegne di esercizio'
[3] ed ha
richiamato, al riguardo, la definizione formulata dallo
stesso legislatore con il comma 6 dell'art. 2-bis del D.L.
n. 13/2002, secondo cui l'insegna è la scritta di cui
all'art. 47 del D.P.R. n. 495/1992, che abbia la funzione di
indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività
economica, vale a dire 'la scritta in caratteri
alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da
marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi
natura, installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può
essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta'
[4].
In base a tale definizione, l'insegna, oltre all'indicazione
del nome del soggetto o della denominazione dell'impresa che
svolge l'attività, può evidenziare anche la tipologia e la
descrizione dell'attività esercitata, nonché i marchi dei
prodotti commercializzati o dei servizi offerti
[5].
Non possono, invece, essere definite 'insegne di
esercizio' le scritte relative al marchio del prodotto
venduto nel caso in cui siano contenute in un distinto mezzo
pubblicitario, che viene, cioè, esposto in aggiunta ad
un'insegna di esercizio, poiché questa circostanza manifesta
chiaramente l'esclusivo intento di pubblicizzare i prodotti
in vendita. In quest'ultimo caso, risultano esenti dal
pagamento del tributo le insegne di esercizio la cui
superficie complessiva non superi il limite dimensionale di
5 metri quadrati, mentre vanno assoggettati a tassazione i
distinti mezzi pubblicitari che espongono esclusivamente il
marchio [6].
Il Ministero ha altresì fornito delle esemplificazioni delle
scritte apprezzabili come insegne di esercizio, tra le
altre:
- la generica indicazione della tipologia dell'esercizio
commerciale (ad esempio, con la semplice scritta "Bar" o
"Alimentari");
- la precisa individuazione dell'esercizio commerciale (ad
esempio: "Bar Bianchi" o "Alimentari Azzurri");
- la generica individuazione dell'esercizio commerciale
realizzata con l'indicazione del nominativo del titolare (ad
esempio, la semplice scritta 'da Giovanni');
- l'indicazione, precisa o generica, della tipologia
dell'esercizio commerciale accompagnata nel contesto dello
stesso mezzo pubblicitario, da simboli o marchi relativi a
prodotti in vendita (ad esempio: "Bar Alfa-Caffè Beta").
Le fattispecie esemplificative del Ministero sono
espressamente dettate per andare incontro alle numerose
richieste dei comuni su casi specifici, e dovrebbero dunque
già di per sé fornire agli enti locali gli strumenti per
applicare in modo corretto l'imposta di pubblicità nelle
diverse situazioni concrete in relazione alle loro
particolarità.
In via collaborativa si possono, comunque, formulare delle
considerazioni muovendo dagli esempi indicati dal Ministero.
E così sembra potersi osservare che nelle scritte
qualificabili come insegne sono contenuti il nome
dell'operatore economico, la mera tipologia dell'attività
esercitata (bar, alimentari), il marchio commercializzato
[7],
mentre non compaiono in alcuna delle fattispecie tipizzate
riferimenti a qualità dei prodotti [8].
Peraltro, appaiono consentite anche descrizioni
dell'attività esercitata [9].
Una tale lettura appare del resto coerente con il tenore
letterale del comma 1-bis dell'art. 17 del D.Lgs. n.
507/1993, che parla di insegne di esercizio che
'contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si
riferiscono', per cui ben rientrano nella definizione quegli
elementi, quali il nome, la tipologia e la descrizione
dell'attività esercitata, nonché i marchi dei prodotti
commercializzati o dei servizi offerti [10],
idonee ad indicare al pubblico il luogo di svolgimento
dell'attività commerciale o di produzione di beni o servizi
[11].
Per quanto concerne l'assoggettamento all'imposta di
pubblicità dei cartelli di compravendita immobiliare, ai
sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 507/1993, comma 1, lett. b),
sono esenti dall'imposta, tra gli altri, gli avvisi al
pubblico riguardanti la locazione o la compravendita degli
immobili sui quali sono affissi, di superficie non superiore
ad un quarto di metro quadrato.
Al riguardo, il Comune chiede se il limite dimensionale
indicato dalla norma (un quarto di metro quadrato) sia da
intendersi riferito alla superficie complessiva dei cartelli
di compravendita (o locazione) apposti, nel senso di
ritenersi superato dalla somma degli stessi, e se detti
cartelli possano essere affissi anche sulle pertinenze
dell'immobile o nelle parti comuni del condominio.
Per quanto concerne le dimensioni dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare da rispettare per
beneficiare dell'esenzione dall'imposta di pubblicità, si
osserva che la formulazione testuale della previsione
normativa in commento, per questa specifica tipologia di
cartelli, non precisa 'superficie complessiva'. Ed
invero, laddove il legislatore ha voluto esprimersi in tal
senso, lo ha esplicitamente fatto al comma 1-bis dell'art.
17, D.Lgs. n. 507/1993, relativamente alle insegne di
attività commerciali e di produzione di beni o di servizi,
esenti dall'imposta se volte a contraddistinguere la sede
ove si svolge l'attività cui si riferiscono e se, appunto,
di 'superficie complessiva fino a 5 metri quadrati'.
Il Comune osserva che con riferimento agli avvisi al
pubblico di cui all'art. 17, comma 1, lett. b), D.Lgs. n.
507/1993, richiamato, esposti nelle vetrine o nelle porte di
ingresso dei locali, il Ministero dell'economia e delle
finanze [12]
ha riferito il relativo limite dimensionale inferiore a
mezzo metro quadrato alla superficie complessiva di detti
avvisi e chiede se sia possibile estendere queste
considerazioni, per analogia, a tutte le fattispecie della
lett. b), ivi inclusi i cartelli immobiliari.
Al riguardo, posto che per giurisprudenza costante
[13] 'le
norme che concedono esenzioni fiscali, avendo carattere
eccezionale, sono insuscettibili di interpretazione
analogica', si segnala che la Corte di Cassazione
[14] ha
invece affermato che per gli avvisi al pubblico di cui
all'art. 17, comma 1, lett. b), richiamato, l'esenzione
opera purché essi non superino, ciascuno individualmente, la
superficie di mezzo metro quadrato.
Pertanto, stante il tenore letterale della disciplina
normativa dell'esenzione dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare, che parimenti non
specifica il limite dimensionale come riferito alla
superficie complessiva, e tenuto conto di quanto affermato
di recente dalla Corte di Cassazione in ordine al rispetto
di detto limite per ciascun cartello singolarmente, si
ritiene opportuno suggerire all'Ente di chiedere un
chiarimento ai competenti organi statali specificamente per
i cartelli di compravendita/locazione immobiliare.
Allo stesso modo, si ritiene che l'interpretazione
dell'indicazione normativa dell'affissione dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare 'sull'immobile',
in particolare se la stessa vada intesa come comprensiva
anche delle pertinenze, debba provenire dai competenti
organi statali. Infatti, posta la giurisprudenza restrittiva
richiamata in ordine all'interpretazione analogica delle
norme di esenzione fiscale, si osserva che un'espressa
indicazione anche delle pertinenze è prevista dal
legislatore unicamente con specifico riferimento
all'esenzione per le insegne di esercizio (art. 1, comma
1-bis, D.Lgs. n. 507/1993), quali installate nella sede
dell'attività a cui si riferiscono o nelle pertinenze
accessorie alla stessa (art. 47, D.P.R. n. 445/1992,
richiamato) [15].
---------------
[1] D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, recante: 'Revisione ed
armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del
diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle
province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti
urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n. 421,
concernente il riordino della finanza territoriale'.
[2] L. 28.12.2001, n. 448 (Legge Finanziaria 2002).
[3] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
08.02.2002, n. 1.
[4] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
03.05.2002 n. 3; circolare 19.03.2007, n. 11159.
[5] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
19.03.2007, n. 11159; nello stesso senso, Ministero
dell'economia e delle finanze, circolare 03.05.2002 n. 3.
[6] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n.
11159/2007, cit.. Nello stesso senso, Ministero
dell'economia e delle finanze, circolare n. 3/2002, ove si
precisa, peraltro, che la presenza, nell'ambito dello stesso
mezzo pubblicitario, delle indicazioni relative al marchio
del prodotto venduto, non fa in alcun modo venire meno la
natura di insegna di esercizio; ciò del resto trova espressa
legittimazione nella stessa nozione contenuta nel citato
art. 47 del DPR n. 495 del 1992, che stabilisce, appunto,
che la scritta distintiva della sede di svolgimento
dell'attività economica può essere 'completata eventualmente
da simboli o da marchi'.
[7] Fermo restando, come chiarito sopra, che l'aggiunta di
uno o più cartelli distinti raffiguranti esclusivamente il
marchio comporta, invece, l'applicazione dell'imposta di
pubblicità su detti cartelli.
[8] E così sembrano non poter beneficiare dell'esenzione
quei cartelli ove si esaltano le qualità e i benefici dei
prodotti venduti al fine di migliorarne l'immagine con
indicazioni ulteriori rispetto a quelle identificative
dell'attività economica esercitata.
[9] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n.
11159/2007, cit..
[10] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
11159/2007, cit..
[11] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
3/2002, cit..
[12] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
11159/2007, cit..
[13] Cass. civ., sez. un., 25.05.2009, n. 11986; Cass. civ.,
sez. I, 09.08.1990, n. 8111.
[14] Cass. civ., sez. VI, 16.10.2014, n. 21966.
[15] Cfr. Cass. civ., sez. V, 30.10.2009, n. 23021; Cass.
civ., sez. V, 06.12.2011, n. 26174 (25.06.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
aprile 2015 |
|
TRIBUTI: Niente rimborsi Tia con la Tari. I minori incassi con la
Tariffa diventano perdite definitive.
La Corte conti Toscana sancisce l'autonomia della Tassa
rifiuti rispetto al precedente sistema.
La Tassa sui rifiuti (Tari) non può essere usata per
rimborsare i crediti Tia non riscossi dalle precedenti
gestioni. I minori incassi derivanti dalla mancata
riscossione dei crediti maturati sotto il previgente regime
si traducono in perdite definitive a carico del soggetto
gestore.
Questa la posizione della Corte dei conti Toscana, Sez.
controllo,
espressa nel recente
parere
28.04.2015 n. 73 a seguito di richiesta
specifica da parte di un ente locale.
La Corte, pur affermando un principio del tutto
condivisibile (quello dell'autonomia del regime Tari
rispetto al previgente regime Tia), sembra tuttavia giungere
a conclusioni non pienamente convincenti e che rischiano in
realtà di mettere in crisi il fondamentale principio del
recupero totale dei costi del servizio (full cost recovery),
che peraltro la stessa Corte riconosce e afferma nel
medesimo parere. Vediamo meglio.
La vicenda specifica
La questione nasce da una richiesta di un comune della
provincia di Pistoia di poter considerare quali «costi
comuni diversi», nel piano finanziario Tari, ai fini della
determinazione della relativa tariffa, tra l'atro, i «costi
per crediti Tia-1 inesigibili», di cui sia stata accertata
la perdita, per la parte non coperta da fondo rischi o
garanzia assicurativa, temporalmente collocati nel periodo
compreso tra il 2002 e il 2012.
La richiesta si fonda in particolare sul presupposto
implicito che la tariffa debba assicurare il recupero totale
dei costi del servizio. Tale principio, noto come «full cost
recovery» costituisce dichiarata attuazione della direttiva
comunitaria 91/156/Cee, ed è stato introdotto dall'art. 49,
4° comma, dlgs 05.02.1997, n. 22, con riferimento alla
Tia-1, ed è oggi ribadito, con riferimento alla Tari,
dall'art. 1, comma 654, legge 27.12.2013, n. 147.
Lo stesso principio è recepito dal metodo normalizzato per
definire le componenti di costo da coprire con il gettito
della tariffa e i criteri di determinazione della tariffa di
riferimento relativa alla gestione dei rifiuti urbani (dpr
27.04.1999, n. 158), che correttamente include tra le
componenti di costo sia gli accantonamenti a fondo rischi
che le svalutazioni dei crediti non più esigibili.
La posizione della Corte
Nell'esaminare la questione posta alla sua attenzione la
Corte non nega il principio del full cost recovery. Al
contrario fa proprio tale principio, limitandosi
esclusivamente a precisare che esso deve essere applicato
nell'ambito di ciascun regime, senza possibilità di
sovrapposizione alcuna.
In altre parole, secondo la Corte ciascuna tariffa, «deve
essere costruita in modo da bastare a sé stessa, e non
nascere già gravata da oneri pregressi (relativi a crediti
non incassati, originati da tributi risalenti e ormai
soppressi), che avrebbero dovuto trovare idonea copertura
nel quadro dei rispettivi regimi normativi, attraverso
adeguati accantonamenti o maggiori previsioni di entrata».
È per questo motivo che nella costruzione del piano
tariffario relativo alla Tari, secondo la Corte non possono
essere inseriti elementi di costo relativi al previgente
regime di Tia. In effetti, consentire ora per allora al
Comune di considerare, ai fini della quantificazione della
tariffa, i mancati ricavi relativi ad altro tributo, non
incassati dal precedente gestore, comporterebbe il
trasferimento sull'utenza attuale di perdite, che avrebbero
dovuto gravare su una platea almeno in parte diversa di
soggetti.
Fin qui il ragionamento operato dalla Corte appare
assolutamente condivisibile, soprattutto alla luce della
diversa natura giuridica della Tari, rispetto alla Tia che
incide naturalmente anche sulla definizione dei presupposti
impositivi.
Se dunque alla luce delle ragioni sopra indicate è
condivisibile separare le vicende della Tia da quelle della
Tari, lascia invece perplessi la conclusione che sembra
raggiungere la Corte secondo la quale, nel caso in cui tali
modalità di copertura siano risultate insufficienti (e
dunque per la parte dei mancati ricavi non coperta da fondi
rischi o da maggiori entrate), «i minori incassi derivanti
dalla mancata riscossione dei crediti maturati sotto il
previgente regime si traducono in perdite definitive a
carico del soggetto gestore (e cioè, nel caso di specie, la
società in house affidataria del servizio)».
L'affermazione di tale principio, se non adeguatamente
specificato, rischia di apparire in evidente contraddizione
con il riconosciuto principio del full cost recovery. In tal
caso infatti, la società di gestione si troverebbe a vedere
non coperti una parte anche significativa dei costi di
gestione, non certo per propria responsabilità, ma solo per
la non corretta costruzione del sistema tariffario
previgente. Più propriamente, l'impossibilità di coprire i
mancati incassi dei crediti attraverso il sistema Tari
dovrebbe essere posta a carico dei soggetti regolatori (enti
locali e/o autorità) che hanno omesso di applicare il
principio del full cost recovery nella determinazione della
tariffa di riferimento.
Si può tuttavia ritenere che tale ambiguità nella posizione
della Corte sia dovuta al fatto che la società di gestione
in oggetto era una società in house e perciò non facilmente
distinguibile dal soggetto regolatore. Per cui, nel caso di
specie non vi era concretamente un interesse di un soggetto
realmente terzo rispetto al titolare della potestà
regolatoria.
Conseguentemente, ci si può ragionevolmente attendere che in
una diversa fattispecie e di fronte a una concessione di
servizi, possa essere affermato il principio che pare
certamente più adeguato secondo il quale i mancati ricavi
relativi ad altro tributo, non incassati dal precedente
gestore, vanno coperti a carico del bilancio generale del
soggetto che ha concretamente omesso di applicare il
corretto principio del recupero integrale dei costi del
servizio
(articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015). |
gennaio 2015 |
|
TRIBUTI:
Tares sul garage anche se non lo si usa.
Il contribuente paga la Tares sul garage anche se non lo
utilizza. Il prelievo fiscale scatta per il solo fatto che
il comune mette a disposizione il servizio.
Lo ha sancito la
Corte di Cassazione che, con
sentenza
07.01.2015 n. 33, ha accolto
il ricorso del comune di Catania. Insomma, per la VI Sez. civile - T la difesa del contribuente che puntava
sul mancato utilizzo del garage non ha come conseguenza una
riduzione o addirittura l'esenzione dall'imposta.
Gli
Ermellini hanno spiegato che in virtù degli artt. 62 e 64
del dlgs 507/1993, la tassa è dovuta indipendentemente dal
fatto che l'utente utilizzi il servizio, salva
l'autorizzazione dell'ente impositore allo smaltimento dei
rifiuti secondo altre modalità, purché il servizio sia
istituito, e sussista la possibilità della utilizzazione, ma
ciò non significa che, per ogni esercizio di imposizione
annuale, la tassa è dovuta solo se il servizio sia stato
esercitato dall'ente impositore in modo regolare, così da
consentire al singolo utente di usufruirne pienamente.
Infatti, il presupposto impositivo è costituito dal solo
fatto oggettivo dell'occupazione o della destinazione del
locale, a qualsiasi uso adibiti, e prescinde, quindi, del
tutto dal titolo in base al quale gli immobili sono occupati
o detenuti
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2015). |
dicembre 2014 |
|
TRIBUTI: Tassa
rifiuti per il garage.
Domanda
La tassa rifiuti per un garage, anche se non produce
rifiuti, è sempre e comunque dovuta?
Risposta
No, tuttavia è onere del contribuente indicare nella
denuncia relativa al tributo (quella originaria o quella di
variazione) e fornire la prova (in base ad elementi
obiettivamente rilevabili dall'ente impositore o con altra
idonea documentazione) che il garage in questione non può
produrre rifiuti (e, quindi, non può essere assoggettato
alla tassa) per sua natura o per il particolare uso cui è
stabilmente destinato o perché si trova in condizioni di
obiettiva inutilizzabilità.
Solo in tal modo può essere
vinta la presunzione legale relativa di produzione di
rifiuti da parte dei locali posseduti o detenuti. In questo
senso si è espressa la recente ordinanza 23505/14 della
Cassazione, che ha anche sottolineato come tale
dimostrazione non sia suscettibile di essere «ritenuta in
modo presunto dal giudice», bensì dimostrata da parte del
contribuente.
Tale ordinanza fa seguito ad altre analoghe recenti pronunce
della Cassazione, tra le quali l'ordinanza 8245/2014 e le
sentenze 11351/2012 e 17703/2004
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014). |
novembre 2014 |
|
TRIBUTI:
Tasi sui fabbricati demoliti.
Domanda
I fabbricati che
sono stati demoliti o che sono oggetto di restauro e
risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia o
ancora di ristrutturazione urbanistica come devono essere
considerati ai fini del Tributo sui servizi indivisibili (Tasi)?
Risposta
Come è noto, la
legge del 27.12.2013, numero 147, detta legge di
stabilità per l'anno 2014, composta di un solo articolo, al
comma 639, ha introdotto, a partire dall'anno 2014, una
nuova imposta, detta imposta unica comunale (Iuc).
Il tributo, pur definito come «imposta unica», contiene al
suo interno la componente patrimoniale, data dall'Imposta
municipale propria (Imu), e la componente relativa ai
servizi.
La componente relativa ai servizi, a sua volta, si articola:
- nella Tasi, che è un tributo dovuto per i servizi
indivisibili resi dai comuni;
- nella Tari, che è un tributo dovuto per finanziare i costi
del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti.
Ora, ai fini della Tasi, i fabbricati, individuati dalla
legge numero 457 del 1978, che sono stati demoliti o che
sono oggetto di restauro e risanamento conservativo o di
ristrutturazione edilizia o ancora di ristrutturazione
urbanistica devono essere considerati come area edificabile.
E, al riguardo, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, del decreto legge numero 223, del 2006, convertito
con la legge numero 248, del 2006, «un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo
edificatorio in base allo strumento urbanistico generale
adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione
della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI: Tasi,
la quota del proprietario.
Domanda
Quale proprietario
del bene, sono tenuto al pagamento della quota del Tributo
sui servizi indivisibili (Tasi) non versato dall'occupante
un appartamento di mia proprietà?
Risposta
La Tasi (tassa sui servizi indivisibili) è un tributo
istituito per coprire le spese sostenute dai comuni
nell'espletamento di servizi necessari per la collettività,
quali: servizi di illuminazione pubblica, servizi per la
manutenzione delle strade, servizi per la cura del verde
pubblico, servizi per la pubblica sicurezza e la vigilanza,
nonché servizi per la protezione civile, servizi per le aree
cimiteriali ecc.
Essa è dovuta, come già si è avuto modo di dire, anche
dall'occupante del bene in una misura determinata dal comune
con proprio regolamento.
Pertanto, la Tasi, per lo stesso immobile, se posseduto da
un soggetto diverso dal titolare del diritto reale, è dovuta
da due soggetti distinti, ciascuno dei quali ha un'autonoma
obbligazione tributaria. Ne consegue che, se l'utilizzatore
dell'immobile non provvede al versamento della quota di sua
spettanza, il proprietario del bene non ha alcuna
responsabilità e il comune non potrà chiedergli il
versamento del tributo, omesso dal detentore del bene.
Se i detentori del bene sono più di uno, allora la
responsabilità per il pagamento della Tasi è solidale tra i
detentori, per cui il comune, in caso di inadempienza, si
può rivolgersi all'uno o all'altro dei coobbligati per la
riscossione del dovuto
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI: Esenzione
Imu collinare.
Domanda
Proprietario di un
terreno non edificabile, vorrei conferma che anche ai fini
Imu continua a valere, come mi è stato detto, l'esenzione
prevista per i terreni collinari e montani.
Risposta
La risposta è
affermativa, almeno in linea di principio. Infatti, l'art.
7, lett. h), del dlgs n. 504/1992 (che stabiliva l'esenzione ai
fini Ici) è richiamato dalla disciplina Imu (duplice
richiamo nell'articolo 9, 8° c. del dlgs n. 23/2011 e
nell'articolo 13, 13° c. del dl «Salva Italia» n. 201/2011),
ma alla condizione, peraltro già prevista in vigenza
dell'Ici, che i terreni in questione siano «agricoli» nel
senso stabilito dall'art. 2, lett. c) del dlgs n. 504/92: ciò
significa che i terreni in questione devono essere «adibiti
all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 del
codice civile» e pertanto alla coltivazione del fondo, alla
selvicoltura, all'allevamento di animali e attività
connesse.
Il semplice possesso di terreni in comuni (o parti di
comuni) ricadenti nell'ambito dell'art. 7 del dlgs n.504/92
non è quindi sufficiente a legittimare l'esenzione da Imu.
Ricordiamo che un elenco dei predetti comuni (o zone di
essi) «ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai
sensi dell'articolo 15 della L. n. 984/1977» è allegato alla
circolare del ministero delle finanze n. 9/1993.
Segnaliamo anche che l'art. 4, c. 5-bis del dl n. 16/2012,
introdotto nella recente conversione in legge (L. n.
44/2012), ha stabilito che «Con decreto di natura non
regolamentare del ministro dell'economia e delle finanze, di
concerto con il ministro delle politiche agricole alimentari
e forestali, possono essere individuati comuni nei quali si
applica l'esenzione di cui alla lettera h) del comma 1
dell'articolo 7 del dlgs n. 504/1992, sulla base della
altitudine riportata nell'elenco dei comuni italiani
predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat),
nonché, eventualmente, anche sulla base della redditività
dei terreni». Riservandosi tale facoltà, il ministro
dell'economia può pertanto emanare, in qualsiasi momento
(non è previsto alcun termine), un decreto che modifica
radicalmente l'elenco dei comuni (attualmente sono
moltissimi) nei quali l'esenzione opera.
Ricordiamo infine, per necessaria completezza, che, sempre
nella conversione in legge del dl n. 16/2012, nell'art. 4
sono state tra l'altro, da un lato, inserite norme
agevolative per la determinazione dell'Imu relativa ai
terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti
o da imprenditori agricoli professionali e per i fabbricati
rurali strumentali ubicati in comuni montani o parzialmente
montani, dall'altro ulteriormente elevato a 135 il
moltiplicatore generale da applicare al reddito dominicale
(da rivalutare del 25%, come già si faceva per l'Ici) dei
terreni agricoli e di quelli non coltivati; resta invece
confermato a 110 il moltiplicatore previsto «per i
terreni agricoli, nonché per quelli non coltivati, posseduti
e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori
agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI:
Imu e invenduto.
Domanda
Impresa di
costruzioni edili con un magazzino di immobili invenduti a
causa della crisi economica: è vero che spetta una specifica
agevolazione Imu? Quale e in quali termini?
Risposta
L'art. 13, c. 9-bis del dl «Salva Italia» n. 201/2011 prevede: «I comuni
possono ridurre l'aliquota di base fino allo 0,38% per i
fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice
alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non
siano in ogni caso locati, e comunque per un periodo non
superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori».
Questi i
termini e le condizioni dell'agevolazione che, tuttavia, per
poter in concreto operare, deve essere espressamente
deliberata dal Comune. In mancanza, resta applicabile a tali
immobili l'aliquota ordinaria. In ogni caso, ai fini
dell'acconto da versare entro il 18 giugno prossimo
occorrerà applicare l'aliquota ordinaria di legge (0,76%) e
verificare poi se il Comune avrà deliberato (lo può fare
entro il 30 settembre) di introdurre la predetta
agevolazione e/o di modificare le aliquote rispetto a quelle
di legge.
In sede di acconto (dovuto entro il 17 dicembre)
dovrà essere versata l'imposta a conguaglio per l'intero
anno, determinata con le aliquote definitive applicabili in
ogni singolo comune e, in mancanza, con quelle di legge,
scomputando l'importo già versato a titolo di acconto.
Si segnala che anche il governo si è riservato la facoltà di
modificare le aliquote e le detrazioni con uno o più
Provvedimenti da emanare entro il termine del 10.12.2012
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Impianti fotovoltaici.
Domanda
Lessi tempo addietro un qualcosa su come calcolare l'aumento
della rendita di un immobile a seguito dell'installazione di
un impianto fotovoltaico. Potete darmene gentilmente
nozione, dal momento che non ricordo più dove la lessi?
Risposta
Verosimilmente il cortese lettore si riferisce a un «question
time» in commissione finanze della Camera del 30/04/2014. In
quella sede il sottosegretario all'economia Zanetti ebbe a
precisare che, per quel che concerne gli incrementi delle
rendite degli immobili, la variazione della rendita deve
avvenire soltanto quando l'impianto fotovoltaico «integrato»
incrementa il valore capitale (o la redditività ordinaria)
del 15%, con ulteriori salvaguardie (potenza nominale
inferiore a 3 kwt per ogni unità, potenza nominale
complessiva non superiore a tre volte il numero delle unità
immobiliari e volume dell'impianto inferiore a 150 mc per le
installazioni a terra) in presenza delle quali non risulta
obbligatoria la dichiarazione di variazione in catasto (articolo ItaliaOggi Sette del
17.11.2014). |
ottobre 2014 |
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TRIBUTI: Sottotetti.
Domanda
La mia abitazione principale, oltre ad avere la cantina e il
sottotetto, ha un altro locale di deposito, di natura
pertinenziale. Per detto locale posso godere dell'esenzione
Imu, prima casa?
Risposta
Come si è avuto modo di scrivere, la legge numero 147, del
2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), puntualizzando
meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale
propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge
numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta
imposta non si applica al possesso dell'abitazione
principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7 (C/2..Magazzini e
locali di deposito; C/6...Stalle, scuderie, rimesse, autorimesse; C/7..Tettoie
chiuse o aperte), nella misura massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali
indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità
ad uso abitativo.
Pertanto, la presenza di un locale
indicato nella planimetria catastale dell'abitazione
principale come cantina o sottotetto viene ad eliminare la
possibilità che un'unità immobiliare autonoma, iscritta in
categoria C/2, possa assurgere al ruolo di pertinenza
dell'abitazione principale anche quando sussistono tutti gli
elementi per l'uso funzionale all'abitazione.
Peraltro, lo
stesso ministero dell'economia e delle finanze, con la
circolare numero 3/DF del 18.05.2012, emanata dopo
l'entrata in vigore dell'imposta municipale propria (Imu),
ebbe ad affrontare l'ipotesi di «due pertinenze, di solito
la soffitta e la cantina, accatastate unitamente all'unità
ad uso abitativo. In tale caso, in base alle norme
catastali, la rendita attribuita all'abitazione principale
ricomprende la redditività di tali porzioni immobiliari non
connesse. Pertanto, poiché dette pertinenze, se fossero
accatastate separatamente, sarebbero entrambe classificate
in categoria C/2, per rendere operante la disposizione in
esame, si ritiene che il contribuente possa usufruire delle
agevolazioni per l'abitazione principale solo per un'altra
pertinenza classificata in categoria C/6 o C/7».
Interpretazione questa che, anche se esplicitata prima
dell'entrata in vigore della citata legge numero 147, del
2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), ha valenza (si
ritiene) anche dopo l'entrata in vigore di quest'ultima
legge.
È naturale che per detti spazi (soffitta, cantina),
integrati nell'abitazione principale, deve sussistere la
possibilità di una loro potenziale iscrivibilità catastale
autonoma (articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
TRIBUTI:
Tassa smaltimento rifiuti urbani.
Domanda
Sono proprietario di un
garage auto che per la vetustà dell'edificio è
inutilizzabile. Sono tenuto al pagamento, per esso, della
tassa sui rifiuti solidi urbani, dato che in esso non viene
prodotto alcun rifiuto?
Risposta
Il presupposto impositivo
della tassa sui rifiuti solidi urbani, ai sensi
dell'articolo 62, comma primo, del decreto legislativo
numero 507, del 1993, (analogamente è disposto in ordine
alla Tares e alla Tari), è il possesso o la detenzione di
locali suscettibili di produrre rifiuti solidi urbani. Il
successivo comma due prevede alcuni casi per i quali la
tassa non è dovuta.
Essi sono individuati nel caso in cui i locali non possono
produrre rifiuti per la loro natura o per il particolare uso
a cui essi sono destinati stabilmente e nel caso in cui sono
i predetti locali sono in condizione di obiettiva
inutilizzabilità. Questo dato deve essere indicato
esplicitamente nella denuncia originaria o di variazione
presentata al Comune.
La Corte di cassazione, all'uopo interessata, con
l'ordinanza numero 12443, del 03.06.2014, ha affermato che
la predetta normativa pone una presunzione legale in ordine
alla produzione dei rifiuti a carico del contribuente.
Infatti, per i Supremi giudici, su di esso grava l'onere di
provare l'esistenza dei presupposti per potere usufruire
dell'esenzione, come per legge.
Pertanto, nel caso, se nella denuncia originaria o in quella
di variazione, presentata al Comune competente, non sono
state evidenziate le obiettive condizioni di
inutilizzabilità del garage, la tassa per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani è dovuta (articolo ItaliaOggi Sette
del 13.10.2014). |
TRIBUTI:
Pertinenze Imu.
Domanda
Ai fini dell'Imposta
municipale propria (Imu), esiste un criterio certo per
individuare le pertinenze dell'abitazione?
Risposta
La legge numero 147, del
2013 (legge di stabilità per l'anno 2014), puntualizzando
meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale
propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge
numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta
imposta non si applica al possesso dell'abitazione
principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7, nella misura
massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle
categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto
unitamente all'unità ad uso abitativo. La Corte di
cassazione, con la sentenza del 30.11.2009, numero 25127,
ebbe ad affermare che, ai sensi dell'articolo 817, del
codice civile, son pertinenze le cose destinate in modo
durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa.
Quindi, ai fini dell'attribuzione della qualità di
pertinenza occorre basarsi, per i Supremi giudici, «sul
criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e
concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra,
secondo la relativa definizione contenuta nell'articolo 817
del codice civile».
In materia fiscale, aggiungono i predetti giudici, «attesa
la indisponibilità del rapporto tributario, la prova
dell'asservimento pertinenziale, che grava sul contribuente
(quando, come nella specie, ne derivi una tassazione
attenuata) deve essere valutato con maggiore rigore rispetto
alla prova richiesta nei rapporti di tipo privatistico.
Se la scelta pertinenziale non è giustificata da reali
esigenze (economiche, estetiche o di altro tipo), non può
avere valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che
impone la tassazione in ragione della reale natura del
cespite» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014. |
TRIBUTI: Appartamento
da sopraelevazione.
Domanda
Si chiede se, nel caso, di appartamento risultante da
sopraelevazione, il comune poteva assoggettare a imposizione
Ici l'area su cui si sviluppava la cubatura, in relazione
alla quale era stata conseguita la concessione edilizia per
l'appartamento al primo piano dato che non vi è altra area
fabbricabile se non quella su cui insiste l'appartamento a
suo tempo realizzato al piano terreno.
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza
dell'08.05.2013, numero 10735, alla luce anche della
precedente sentenza della stessa Corte del 23.10.2006,
numero 22808, ha affermato che, ai fini dell'Imposta
comunale sugli immobili (Ici), la nozione di fabbricato, di
cui all'articolo 2, del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, rispetto all'area su cui esso insiste, è
unitaria nel senso che, una volta che l'area edificabile sia
comunque utilizzata, il valore della base imponibile, ai
fini dell'imposta, si trasferisce dall'area stessa
all'intera costruzione realizzata. Infatti, per i giudici,
la norma, per l'applicazione dell'imposta comunale sugli
immobili, sul fabbricato di nuova costruzione, individua due
soli criteri alternativi: la data di ultimazione dei lavori,
ovvero, se antecedente, quella di utilizzazione, senza alcun
riferimento alla divisione del fabbricato, in piani o
porzioni.
Pertanto, secondo la Suprema corte, richiamata la sua
precedente sentenza del 15.12.2004, numero 23347, per
la determinazione della base imponibile di un appartamento
in costruzione al primo piano dell'edificio, non trova
applicazione la normativa portata dall'articolo 5, comma 6,
del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, che
disciplina l'utilizzazione edificatoria dell'area,
individuando come base imponibile il valore dell'area
stessa, ma l'articolo 2, comma 1, lettera a), che, per
l'assoggettabilità a imposta del fabbricato di nuova
costruzione individua due criteri alternativi. Il primo
criterio è la data di ultimazione dei lavori di costruzione,
l'altro, se antecedente, quello di utilizzazione.
Ora, nel caso, di appartamento risultante da
sopraelevazione, non essendosi, per Giudici, realizzato
alcuno dei due presupposti, il comune non avrebbe dovuto
assoggettare a imposizione Ici l'area su cui si sviluppava
la cubatura, in relazione alla quale era stata conseguita la
concessione edilizia per l'appartamento al primo piano, non
essendovi altra area fabbricabile che quella su cui
insisteva l'appartamento a suo tempo realizzato al piano
terreno
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Variazione
della rendita catastale.
Domanda
Per i provvedimenti di variazione della rendita catastale di
unità immobiliare, emessi dall'Ufficio del territorio, su
richiesta del Comune, ai sensi dell'articolo 3, comma 58,
della legge 23.12.1996, numero 662, sussiste un
rigoroso obbligo di motivazione?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con l'ordinanza
del 03.02.2014, numero 2357, ha affermato, anche alla
luce di quanto deciso dalla stessa Corte con la sentenza
numero 9629, del 13.06.2012 e a modifica di precedente
orientamento della stessa Corte di cassazione, che,
l'Agenzia delle entrate, Ufficio del territorio, quando
procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classamento a
una unità immobiliare a destinazione ordinaria, deve
specificare se tale mutato classamento sia dovuto a
trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in
questione oppure a una risistemazione dei parametri relativi
alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare.
Nel primo caso, l'Agenzia delle entrate deve indicare le
trasformazioni edilizie intervenute. Nel secondo caso, il
predetto Ufficio deve indicare l'atto con cui si è
provveduto alla revisione dei parametri relativi alla
microzona, a seguito di significativi e concreti
miglioramenti del contesto urbano, rendendo così possibile
la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del
contribuente.
La Suprema corte, quindi, con la citata sentenza ha
riconfermato il proprio recente indirizzo circa la idonea
motivazione degli atti impugnati; motivazione non
integrabile dall'Ufficio, convenuto in giudizio, nel corso
del giudizio medesimo. Per i giudici, pertanto, non è più da
condividere la tesi, secondo la quale gli atti dell'Ufficio,
impugnati, debbano avere soltanto il requisito della
provocatio ad apponendum, necessaria per far
conoscere al contribuente gli elementi essenziali della
pretesa impositiva
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
TRIBUTI: Chi
paga Imu e Tasi.
Domanda
Vorrei sapere chi è tenuto al pagamento dell'Imu e della
Tasi in presenza della seguente fattispecie: firma di un
preliminare di vendita con immissione anticipata del
promissario acquirente nel possesso dell'immobile.
Risposta
Il pagamento dell'Imu sarà a totale carico del proprietario,
promittente venditore, dell'immobile. Per quel che concerne
la Tasi invece, la stessa sarà in parte a carico del
proprietario dell'immobile (promittente venditore) e in
parte dell'occupante lo stesso (promittente acquirente),
secondo le percentuali al riguardo fissate dall'apposita
delibera del Comune competente
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
settembre 2014 |
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TRIBUTI: Riclassamento
con motivazione.
Domanda
Come deve essere corredato l'atto di rilassamento catastale
di un immobile affinché possa ritenersi legittimo?
Risposta
La giurisprudenza della Corte di cassazione in questi ultimi
anni ha chiarito in molte pronunce che anche gli atti
relativi al riclassamento catastale devono essere
compiutamente motivati al fine di delimitare l'ambito della
dialettica processuale e di porre il contribuente nella
condizione di potersi difendere. L'Amministrazione
finanziaria (in ciò sbagliando gravemente) molto spesso,
invece, non ottempera a tale basilare precetto.
Merita di
essere citata, tra le più recenti, la sentenza n. 16476 del
18.07.2014 nella quale la Suprema corte, confermando le
decisioni della Ctp di Napoli e della Ctr della Campania, ha
negato che l'onere della motivazione dell'atto di variazione
di classamento possa esaurirsi nell'enunciare i soli dati
della consistenza, categoria e classe acclarati
dall'Ufficio.
Questo il principio di diritto enunciato: «In tema di
revisione del classamento catastale di immobili urbani, la
motivazione non può, in conformità alla legge n. 662/1996
(art. 3, c. 58), limitarsi a contenere l'indicazione della
consistenza, categoria e classe attribuite dall'Agenzia, ma
deve specificare, ai sensi dello Statuto del contribuente
(legge 212/2000, art. 7, c. 1), a pena di nullità, a quale
presupposto (il non aggiornamento del classamento o la
palese incongruità rispetto a fabbricati similari) la
modifica debba essere associata e laddove si tratti della
constatata manifesta incongruenza tra il precedente
classamento dell'unità immobiliare e il classamento di
fabbricati similari aventi caratteristiche analoghe, l'atto
impositivo dovrà recare la specifica individuazione di tali
fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche
analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare
oggetto di riclassamento, così rispondendo alla funzione di
delimitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio
nella successiva fase contenziosa, nella quale il
contribuente, nell'esercizio del proprio diritto di difesa,
può chiedere la verifica dell'effettiva correttezza della
riclassificazione».
La sentenza ha anche precisato che «il
divieto dei motivi aggiunti, fuori dei ristretti casi
stabiliti dall'art. 24 del Dlgs n. 546/1992, è ragionevole
solo nel presupposto che all'Ufficio sia in corrispondenza
proibito di allegare i ridetti fatti in corso di processo.
Pertanto, l'avviso di classamento è nullo per difetto di
motivazione non solo quando manchi d'indicare gli immobili
serviti da comparazione, ma altresì quando non siano
indicate quali siano le caratteristiche analoghe degli
immobili comparati, ciò che è all'evidenza indispensabile a
mettere il contribuente in grado di contraddire il fatto
allegato a mezzo di specifico motivo (Cass. sez. trib. n.
21532 del 2013; Cass. sez. 6 n. 10489 del 2013)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
TRIBUTI: Pertinenzialità
da dimostrare.
Domanda
Vorremmo sapere se
ai fini Imu/Ici è fondato l'assunto di pertinenzialità, e
quindi di non autonoma tassabilità, di un'area
urbanisticamente edificabile limitrofa a un fabbricato in
quanto utilizzata stabilmente come terreno per il deposito
di materiale. Il Comune pretende invece di tassarla in modo
autonomo come terreno edificabile.
Risposta
Del tema si è
occupata di recente la Ctr di Firenze (sent. n. 1067/13/14),
che, nel richiamare l'orientamento giurisprudenziale della
Cassazione, ha posto la prova della pertinenzialità a carico
del contribuente. Più in particolare, la sentenza ha
evidenziato la rilevanza della destinazione urbanistica
(ossia, la qualificazione del terreno come edificabile in
base agli strumenti urbanistici generali adottati) e la
prevalenza di tale criterio rispetto al concetto di
pertinenzialità di cui all'art. 817, 1° c., cod. civ. («Sono
pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o
ad ornamento di un'altra cosa. La destinazione può essere
effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi
ha un diritto reale sulla medesima»), essendo
irrilevante l'uso concreto che il proprietario fa dell'area
e quindi l'eventuale funzione pertinenziale svolta di fatto.
La sentenza ha così richiesto al contribuente di fornire la
prova di un effettivo e durevole asservimento pertinenziale,
non riconducibile a un mero collegamento occasionale, basato
su concreti elementi di fatto, prova rispetto alla quale
possono risultare d'ausilio anche le risultanze catastali.
Nello specifico, non è stato ritenuto sufficiente il
parziale e temporaneo utilizzo quale deposito di materiale,
reputato quale mera esigenza occasionale ovviabile facendo
ricorso a una diversa organizzazione gestionale
dell'attività produttiva, aprendosi diversamente l'accesso,
in modo strumentale, a comportamenti fiscali elusivi
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014). |
agosto 2014 |
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TRIBUTI: Tassa
rifiuti e box auto.
Domanda
Posso pretendere di non pagare la tassa per la raccolta dei
rifiuti su un box auto chiuso in autorimessa condominiale in
quanto non produttivo di rifiuti?
Risposta
Di recente, chiamata a decidere circa l'applicabilità o meno
della tassa sulla raccolta dei rifiuti (Tarsu) a un box
auto, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso del
Comune (che nei primi due gradi di giudizio aveva avuto però
torto da parte delle Commissioni tributarie provinciale di
Catania e regionale della Sicilia) affermando che, a termini
di legge, il presupposto della Tarsu è l'occupazione o la
detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti
e che non sono soggetti alla tassa i soli locali e aree che
non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in condizioni di obiettiva inutilizzabilità,
qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia
originaria o in una denuncia presentata successivamente e
debitamente riscontrate in base a elementi obiettivi
direttamente rilevabili o idoneamente documentati
(Cassazione, sentenze n. 11351/2012 e 17703/2004).
La
Cassazione ha così concluso che la legge presume che locali
e aree, in linea generale, producano rifiuti (di regola e
per loro natura) e che se ciò non accade la prova deve
essere fornita dal contribuente, ma non può essere presunta
dal giudice
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014). |
maggio 2014 |
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TRIBUTI: Se c'è un'autorità d'ambito i comuni non possono approvare
le tariffe Tari.
I comuni non possono approvare da soli i piani finanziari e
le tariffe della tassa rifiuti (Tari) quando a tal fine è
stata costituita un'apposita autorità d'ambito o un'agenzia
a livello regionale. In caso di inerzia di quest'ultima,
l'unico modo per uscire dall'impasse è attivare il potere
sostitutivo nelle forme di legge.
Il chiarimento arriva dal
parere
08.05.2014 n. 125 della Sez.
regionale di controllo per l'Emilia Romagna della Corte dei
conti.
La questione riguarda l'art. 1, comma 683, dell'ultima legge
di stabilità (legge 147/2013): in base a tale disposizione,
il consiglio comunale deve approvare le tariffe della Tari
in conformità al piano finanziario del servizio di gestione
dei rifiuti urbani, redatto dal soggetto che svolge il
servizio stesso e approvato dal consiglio comunale o da
altra autorità competente a norma delle leggi vigenti in
materia.
In Emilia Romagna, a esempio, la legge regionale 23/2011 ha
istituito un'apposita agenzia territoriale per sovrintendere
ai servizi idrici e rifiuti. In casi come questo, la
competenza ad approvare il piano finanziario e le tariffe si
radica nell'ente sovracomunale e il consiglio comunale non
può sostituirsi a esso neppure quanto lo stesso rimane
inerte.
Per ovviare, precisano i magistrati contabili, è
necessario richiedere l'esercizio dei poteri sostitutivi
nelle modalità previste dalla normativa in materia di
mancato esercizio di funzioni da parte degli enti locali, ai
quali le predette agenzie sono riconducibili in quanto
consorzi obbligatori di enti locali. Nel caso di specie, ad
esempio, il potere sostitutivo è in capo alla regione, ai
sensi dell'art. 30 della citata legge regionale 23. Solo
laddove le autorità d'ambito non sono state (ancora)
istituite, i comuni potranno fare da sé.
Il parere si sofferma che sul contenuto dei piani
finanziari: nel caso in cui siano redatti da una autorità o
agenzia d'ambito, essi devono necessariamente considerare
anche i costi amministrativi dell'accertamento e riscossione
(i cosiddetti Carc), anche se questi siano sostenuti dal
comune. I piani, inoltre, devono comprendere anche i costi
di funzionamento del soggetto sovracomunale
(articolo ItaliaOggi del
30.05.2014). |
marzo 2014 |
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TRIBUTI:
M. Villani e I. Pansardi,
Nuovo orientamento della Cassazione sulla motivazione del
classamento (catastale) (04.03.2014 - link a
www.diritto.it). |
febbraio 2014 |
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TRIBUTI: Legge stabilità.
Rifiuti speciali, niente Tari.
Non sono soggette al pagamento della Tari le superfici in
cui vengono prodotti rifiuti speciali. Nella determinazione
della superficie tassabile, però, non si calcola quella
parte dove si formano questi rifiuti in modo continuativo e
prevalente, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a
proprie spese i produttori.
È quanto prevede l'articolo 1,
comma 649, della legge di Stabilità (147/2013). La
formulazione di questa norma è tutt'altro che un esempio di
chiarezza, in quanto fa già discutere e può generare
contenzioso nella parte in cui richiede la produzione di
rifiuti speciali «in via continuativa e prevalente» al fine
di ottenere l'esonero dal prelievo.
Il dubbio che si pone è
se qualora sussista il requisito della continuità e
prevalenza non possono essere tassate integralmente le
superfici in cui si producono anche rifiuti speciali oppure
se il beneficio rimane sempre circoscritto alla parte della
superficie interessata e l'esonero è solo parziale.
Nonostante l'infelice formulazione della disposizione di
legge, si ritiene che l'agevolazione fiscale sia sempre
limitata alla parte dell'immobile interessata dalla
formazione di questi rifiuti e non si estende all'intera
superficie, vale a dire a quella in cui si producono rifiuti
ordinari. La novità rispetto al passato, infatti, è che una
«parte di essa» può essere esclusa dalla tassazione solo a
condizione che la produzione di rifiuti speciali risulti
continuativa e prevalente.
Nel caso in cui sussista questa
condizione allo smaltimento dei rifiuti sono tenuti a
provvedere a proprie spese i produttori. Ma l'esclusione
dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha solo
nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro avvio al
recupero, con attestazione di ricevuta da parte dell'impresa
incaricata del trattamento. Inoltre, spetta al contribuente
provare quale parte dell'immobile non sia soggetta alla
tassa. Peraltro il comma 682, lettera a), numero 5), della
legge di Stabilità attribuisce al comune la facoltà di
concedere con regolamento una riduzione tariffaria in caso
di autosmaltimento.
In particolare, l'amministrazione comunale può individuare
categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle
quali applicare riduzioni rispetto all'intera superficie su
cui l'attività viene svolta (articolo ItaliaOggi del
28.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Fotovoltaico, obbligo di Catasto.
Al bivio fra iscrizione e revisione della rendita: in ogni
caso imposte più elevate.
Fisco e immobili. La circolare 36/E delle Entrate chiarisce
che occorre procedere all'operazione per le strutture più
grandi.
L'accatastamento
degli impianti fotovoltaici ha trovato forse la soluzione
definitiva con la
circolare 19.12.2013 n. 36/E delle
Entrate.
In particolare, per gli impianti fotovoltaici a terra,
considerati beni immobili, è previsto l'accatastamento nella
categoria D/1 "opifici". Se invece di impianti a sé stanti,
come nel primo caso, si tratta di strutture poste su
edifici, lastrici solari o su aree di pertinenza di altri
immobili, non si dovrà effettuare un autonomo
accatastamento, ma procedere alla rideterminazione della
rendita dell'immobile a cui i pannelli sono connessi. Se
questa aumenta di più del 15% rispetto al valore originario,
il proprietario è tenuto a comunicare la variazione
all'agenzia del Territorio (si veda l'altro articolo in
pagina).
Se l'impianto è costruito in forza di diritto di
superficie, va accatastato autonomamente e quindi dovrebbe
assumere la categoria di opificio; infatti nella fattispecie
il proprietario dell'impianto è diverso da quello
dell'immobile sottostante. In ultimo la circolare considera
in ogni caso come beni mobili, e dunque non meritevoli di
accatastamento, gli impianti di "modesta entità".
La circolare considera anche il caso di impianti
fotovoltaici "rurali", prevedendo il loro accatastamento
nella categoria D/10, a condizione che siano asserviti ad
una azienda agricola «esistente» con un terreno di
estensione non inferiore ai 10mila metri quadri e che la
potenza dell'impianto non risulti superiore ai 200 Kw. In
questi casi, l'impianto potrà essere censito come D/10
anziché D/1, purché alla dichiarazione di accatastamento si
alleghi l'autocertificazione dei requisiti di ruralità su
modello conforme.
Ai fini delle imposte ricomprese nella Imposta unica
comunale (Iuc), ovvero Imu, Tasi e Tari, il diverso
accatastamento ha notevoli ripercussioni.
Nel caso di immobili censiti autonomamente in categoria D/1,
si dovrà procedere al calcolo dell'Imu e delle altre imposte
gravanti sugli immobili in base al valore catastale
derivante dalla dichiarazione di accatastamento. Per Imu e
Tasi (tariffa sui servizi non divisibili), partendo dal
valore catastale dell'immobile, si dovrà procedere al
calcolo delle imposte, ricordando che la somma delle due
aliquote non dovrebbe poter superare il 10,6 per mille e
comunque l'aliquota Tasi dovrà essere compresa tra l'1 e il
2,5 per mille, ma si è in attesa di decreto. Per la Tari
(tariffa rifiuti) la base imponibile sarà ancora data dalla
superficie calpestabile e varranno specifiche aliquote
determinate dai Comuni in modo da garantire l'integrale
copertura dei costi sostenuti per la raccolta rifiuti;
pertanto non dovrebbe colpire gli impianti fotovoltaici.
Nel caso, invece, di immobile già censito per cui si renda
necessaria la variazione del valore catastale, si dovrà
procedere al ricalcolo dell'Imu rispetto a quello dell'anno
precedente. La variazione catastale determinerà, infatti, un
aumento proporzionale della base imponibile ai fini Imu e
Tasi.
Gli impianti fotovoltaici "rurali" censiti nella categoria
D/10 sono esenti da Imu come previsto dal comma 708 della
legge 147/2013 per gli immobili rurali strumentali, mentre ai
fini Tasi potranno essere soggetti al massimo all'aliquota
dell'1 per mille, con possibilità per i Comuni di prevedere
anche ulteriori riduzioni. Ovviamente la ruralità è
garantita qualora vengano rispettate le condizioni stabilite
dalla circolare dell'Agenzia 32/2009 e in particolare che il
fatturato della attività agricola sia superiore a quello
della produzione di energia elettrica, tariffa incentivante
esclusa, ovvero che il terreno coltivato anche in comuni non
confinanti sia pari ad almeno 10 ettari per 100 kw (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014
- tratto da www.centrostudi.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rischio contenzioso per i produttori di rifiuti speciali
assimilati.
Rischio contenzioso sulla Tari per i produttori di rifiuti
speciali assimilati. Secondo il ministero dell'ambiente, a
tali soggetti spettano solo gli sconti sulla parte variabile
della tariffa eventualmente decisi dai comuni, in base
all'art. 1, comma 649, della legge 147/2013. Ma il
successivo comma 661 consente loro di pretendere l'esenzione
totale. Si tratta di due norme fra di loro chiaramente
contrastanti.
In base alla prima, «per i produttori di
rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella
determinazione della Tari, il comune, con proprio
regolamento, può prevedere riduzioni della parte variabile
proporzionali alle quantità che i produttori stessi
dimostrino di avere avviato al recupero». La seconda
disposizione, invece, dispone che la Tari non è dovuta «in
relazione alle quantità di rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero».
Con la
circolare 13.02.2014 n. 1/2014 il ministero dell'ambiente ha affermato
la prevalenza del comma 649 rispetto al successivo comma
661, lasciando, in pratica, il pallino degli sconti nelle
mani dei comuni.
Ciò sulla scorta di una duplice
argomentazione: sul piano formale, si evidenzia come sia la
seconda disposizione (già contenuta nell'originario ddl di
Stabilità) a non essere coordinata con la prima (inserita
durante l'iter parlamentare); sul piano sostanziale, si
afferma la necessità di conservare in capo agli enti locali
la flessibilità necessaria a conciliare la sostenibilità
finanziaria del ciclo integrato dei rifiuti con le politiche
di incentivo e stimolo per le buone pratiche in tema di
recupero.
Tuttavia, gli ordinari canoni interpretativi
dovrebbero suggerire di far prevalere la tesi più favorevole
ai contribuenti interessati, che certamente possono invocare
l'esenzione totale in base al comma 661. Di ciò pare essere
consapevole lo stesso estensore della circolare, allorché
evidenzia la necessità di un «chiarimento normativo», anche
al fine di «prevenire un prevedibile contenzioso, di durata
non determinabile, a scapito di operatori e aziende», oltre
che (si deve aggiungere) degli stessi comuni. Non a caso, lo
schema di decreto sulla casa predisposto dall'ex governo
Letta (e destinato a contenere anche i correttivi sulla Tasi
e sul fondo di solidarietà) sposava la tesi opposta a quella
fatta propria dal dicastero da ultimo guidato da Andrea
Orlando.
Una soluzione, quest'ultima, anch'essa
problematica, che scaricherebbe forti aumenti sulle utenze
domestiche. Anche il riferimento alla «parte variabile»
della tariffa come base di riferimento degli sconti decisi
dai sindaci è impreciso, dal momento che, da quest'anno, in
alternativa al metodo normalizzato, è possibile optare per
quello «semplificato», che non presuppone la distinzione fra
costi fissi e costi variabili. Peraltro, non si tratta
dell'unico problema posto dalla disciplina della Tari.
Un
altro dubbio interpretativo riguarda questa volta i
produttori di rifiuti speciali non assimilati agli urbani.
Qui il dubbio nasce dall'inciso «in via continuativa e
prevalente» che potrebbe giustificare la richiesta di
detassazione anche con riferimento ad aree con produzione
mista (articolo ItaliaOggi
del 18.02.2014). |
TRIBUTI:
Oggetto: regime tariffario per rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
circolare 13.02.2014 n. 1/2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: La villa è «di lusso» se lo dice il Prg.
Conta la destinazione urbanistica dell'area come definita
prima della costruzione. Giustizia. La Corte di cassazione interviene sui requisiti
per l'ottenimento dei benefici fiscali sulla compravendita.
La prima casa
"di lusso" non può diventarlo dopo la costruzione. Se lo
strumento urbanistico, all'atto della costruzione
dell'edificio, non prevedeva che l'area fosse destinata a
"villa", l'edificio non può essere considerata di lusso.
Questo, in sostanza, il principio affermato dalla Corte di
Cassazione con la
ordinanza 11.02.2014 n. 3080.
La questione è arrivata in Cassazione dopo che l'agenzia
delle Entrate aveva perso in appello con il contribuente
sulla liquidazione delle maggiori imposte di registro,
chieste dopo aver accertato che l'abitazione, comprata nel
2005 con le agevolazioni fiscali per la prima casa, si
trovava in una zona che il piano regolatore aveva destinato
a villa o parco privato. Il contenzioso era iniziato nel
2008, con una sentenza 80/1/2008 della Commissione
tributaria provinciale di Livorno che aveva dato ragione al
contribuente ed era proseguito con la sentenza 59/10/11,
depositata il 21.04.2011, della Commissione tributaria
regionale della Toscana, che a sua volta aveva bocciato le
richieste dell'agenzia delle Entrate.
Ricordiamo che la differenza a carico del contribuente non è
di poco conto: si tratta di versare la differenza tra un
importo pagato, pari al 4% del valore fiscale dell'immobile
come imposta di registro più (all'epoca) 336 euro
complessive e fisse per le imposte ipotecaria e catastale, e
le imposte piene, pari al 10% complessivo del valore
fiscale. Inoltre, scatta una sanzione del 30% dell'imposte
complessivamente dovuta.
Premesso quindi che l'articolo 1 del Dm dell'08.08.1969
(quello cui si fa riferimento per individuare le abitazioni
"di lusso" escluse dai benefici prima casa) stabilisce che
le costruzioni considerate "di lusso" nelle aree destinate a
villa o parco privato dagli strumenti urbanistici sono tali
proprio per la destinazione dell'area e non per le loro
caratteristiche intrinseche, in questo caso si era trattato
di una modifica al Prg intervenuta nel 1999, ben dopo
l'ultimazione della costruzione nel 1990: «È tuttavia
evidente -ha affermato la Suprema Corte- come l'adozione o
l'approvazione di uno strumento urbanistico che destini
l'area a villa o parco privato debba precedere la
costruzione dell'immobile; e ciò in quanto si presuppone che
la costruzione realizzata in area destinata a villa o a
parco privato corrisponda tipologicamente al tipo di
abitazione che su quell'area può essere realizzato - villa o
parco privato. Diviene pertanto irrilevante per la
qualificazione dell'abitazione come "di lusso" l'adozione di
uno strumento urbanistico che destini l'area a "villa" o
"parco privato" successivamente alla realizzazione della
costruzione stessa».
Quindi, per la Cassazione, anche se l'acquisto oggetto di
revoca dei benefici era intervenuto dopo la variazione (nel
2005), è proprio la data di costruzione che fa fede. E ha
respinto il ricorso dell'agenzia, confermando i benefici al
contribuente acquirente (articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2014). |
TRIBUTI:
Oggetto: Tasi – Nota operativa e schema regolamento (ANCI
Emilia Romagna,
nota 11.02.2014 n. 36 di prot.). |
gennaio 2014 |
|
PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U.
29.01.2014 n. 23, suppl. ord n. 9/L, "Testo
del decreto-legge 30.11.2013, n. 133, coordinato con la
legge di conversione 29.01.2014, n. 5,
recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU,
l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia»". |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Legge di stabilità 2014 – n. 147 del 27.12.2013.
Principali misure di natura fiscale di interesse per il
settore edile (ANCE Bergamo,
circolare 17.01.2014 n. 23). |
TRIBUTI: Imposte, il catasto non fa testo.
Le risultanze catastali non forniscono piena prova della
proprietà o del possesso di un immobile, mentre l'unico
strumento di pubblicità per i beni immobili e i relativi
atti di disposizione è rappresentato dai registri
immobiliari presso l'ufficio della conservatoria. Pertanto,
quando un contribuente accertato ai fini Ici contesti la
proprietà del bene, è onere dell'amministrazione comunale
fornire adeguata prova dell'esistenza del presupposto
d'imposta, ossia la proprietà o altro diritto reale sullo
stesso che si evinca dai registri immobiliari.
È quanto si legge nella sentenza 14.01.2014 n. 57/01/14 della Ctr
di Roma, Sez. I.
In una controversia riguardante avvisi di accertamenti per
Ici, emessi dal comune di Roma relativamente a due immobili
del territorio capitolino, il contribuente contestava la
pretesa fiscale alla fonte, ovvero lamentando di non essere
affatto proprietario dell'uno e solo parzialmente dell'altro
bene. Resisteva il comune, basando la propria pretesa sulle
risultanze catastali: proprio tale circostanza ha
rappresentato l'anello debole del costrutto impositivo. «Va
rilevato», si legge in sentenza, «che in via normale
l'Ici è dovuta sulla base delle risultanze catastali, ma
davanti alle contestazioni delle stesse va dimostrata da
parte dell'ente impositore la proprietà dell'immobile ovvero
la titolarità di altro diritto».
Le risultanze catastali non danno piena prova della
proprietà, costituendo «un sistema secondario per
stabilire la proprietà di un bene immobile». L'unico
strumento idoneo, a tal scopo, «è rappresentato dalla
trascrizione immobiliare di cui all'art. 2643 del codice
civile presso l'ufficio della conservatoria dei registri
immobiliari» (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.02.2014). |
dicembre 2013 |
|
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI:
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014) -
Selezione norme di interesse dei Comuni (ANCI,
dicembre 2013). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
OGGETTO: Impianti fotovoltaici – Profili catastali e
aspetti fiscali (Agenzia delle Entrate,
circolare 19.12.2013 n. 36/E).
---------------
Pannelli solari: ecco la circolare che mette accordo tra
fisco e catasto.
Tra la vasta casistica affrontata dal
documento di prassi, specifica attenzione è rivolta al
trattamento tributario delle tariffe incentivanti previste
dal V Conto Energia.
L’Amministrazione finanziaria, con la circolare n. 36/E del
19 dicembre, fa il punto sugli impianti per la produzione di
energia fotovoltaica, focalizzandosi, in particolare, sulle
conseguenze che derivano in materia catastale e tributaria a
seconda della qualificazione degli stessi come beni mobili o
immobili.
In via preliminare, per quanto riguarda i profili catastali,
l’odierno documento di prassi evidenzia come, ai fini del
censimento in catasto, non assume rilievo esclusivo la
facile amovibilità delle componenti degli impianti
fotovoltaici, né la circostanza che possano essere
posizionate in altro luogo mantenendo inalterata la loro
originale funzionalità e senza antieconomici interventi di
adattamento (circolare n. 4/T del 2006).
Dal punto di vista fiscale, invece, il requisito
dell’amovibilità ai fini della qualificazione degli impianti
fotovoltaici come beni mobili è essenziale (circolari n.
46/E del 2007 e n. 38/E del 2008).
Tale diversa impostazione ha pertanto reso opportuno un
intervento per dirimere le incertezze degli operatori. (...
continua) (link a www.fiscooggi.it). |
TRIBUTI: Imprese edili, Imu più leggera.
Esenzione anche per i fabbricati sottoposti a recupero.
Risoluzione delle Finanze sull'agevolazione
riconosciuta al cosiddetto magazzino.
L'esenzione dall'Imu per il c.d. «magazzino» delle imprese
edili, in vigore dal 01.01.2014, si applica anche per i
l fabbricati acquistati dall'impresa costruttrice sul quale
la stessa procede a interventi di incisivo recupero.
A stabilirlo è la
risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF
della Direzione legislazione tributaria e federalismo
fiscale del Dipartimento delle finanze del Ministero
dell'economia e delle finanze che interviene per la prima
volta sulla nuova fattispecie di esenzione dall'imposta
municipale propria introdotta l'art. 2, comma 2, del dl 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.10.2013, n. 124.
Questa norma ha disposto infatti l'esenzione dal tributo
comunale a decorrere dal 01.01.2014 per «i fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita». Detta esenzione vale fintanto che permanga tale
destinazione e purché non siano in ogni caso locati.
La questione sottoposta all'esame dei tecnici del ministero
è se nel concetto «fabbricati costruiti» possa farsi
rientrare anche il fabbricato acquistato dall'impresa
costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di
incisivo recupero, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettere
c), d) e f), del dpr 6 giugno 2001, n. 380. Non si tratta,
dunque, di semplici opere di manutenzione ordinaria degli
edifici, in quanto detto articolo del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, nell'elencare le varie tipologie di interventi
edilizi, individua in via generale:
• alla lettera c) gli «interventi di restauro e di
risanamento conservativo», gli interventi edilizi rivolti a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che ne
consentano destinazioni d'uso con essi compatibili;
• alla lettera d) gli «interventi di ristrutturazione
edilizia», rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente;
• alla lettera f) gli «interventi di ristrutturazione
urbanistica», rivolti a sostituire l'esistente tessuto
urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un
insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la
modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della
rete stradale.
La risposta positiva prende le mosse dalla considerazione
che, ai fini Imu, l'art. 5, comma 6, del dlgs 30.12.1992, n. 504, stabilisce che, in caso di utilizzazione
edificatoria dell'area, di demolizione del fabbricato, di
interventi di recupero a norma dell'art. 3, comma 1, lett.
c), d) e f), del dpr n. 380 del 2001, la base imponibile è
costituita dal valore dell'area, la quale è considerata
fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell'art. 2
del dlgs n. 504 del 1992, senza computare il valore del
fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione
dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione
ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato
costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque
utilizzato.
Da quanto esposto si può dedurre che il
legislatore ha effettuato una sorta di equiparazione tra i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero e i
fabbricati in corso di costruzione, che sono stati entrambi
considerati, ai fini della determinazione della base
imponibile Imu, come area fabbricabile fino all'ultimazione
dei lavori. Naturalmente, precisa la risoluzione, i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero
rientrano nel campo di applicazione dell'esenzione
introdotta dal citato art. 2 del dl n. 102 del 2013, solo a
partire dalla data di ultimazione dei lavori di
ristrutturazione.
Si deve, infine, annotare che il comma 1 dell'art. 2, comma
2, del dl n. 102 del 2013 ha stabilito che per l'anno 2013
non è dovuta la seconda rata dell'Imu relativa ai fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano
in ogni caso locati, mentre l'Imu resta dovuta fino al 30
giugno
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2013). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Esenzione dall’imposta municipale propria (IMU)
per il cd “magazzino” delle imprese edili. Quesito
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle
Finanze, Direzione Legislazione Tributaria e Federalismo
Fiscale,
risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF). |
novembre 2013 |
|
PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U.
30.11.2013 n. 281 "Disposizioni urgenti concernenti
l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca
d’Italia" (D.L.
30.11.2013 n. 133). |
TRIBUTI: Bilanci.
Caos a dieci giorni dall'adozione dei
bilanci, ma la legge 102/2013 prevede
espressamente il ritorno ai vecchi tributi.
Impossibile lo stop alla Tarsu. Nonostante
la frenata del Governo, i Comuni possono
scegliere fra sei prelievi.
Nel 2013 i Comuni possono applicare sei
diverse forme di prelievo sui rifiuti.
È questo il quadro che emerge dopo
l'approvazione della legge 124/2013. Ma a 10
giorni dall'adozione dei bilanci sono ancora
molti gli enti che non hanno deciso cosa
fare, in attesa di chiarimenti ufficiali che
forse non arriveranno mai. Come la
risoluzione ministeriale che avrebbe dovuto
stoppare i Comuni con i bilanci già
approvati, cioè quelli più efficienti ma
penalizzati dall'impossibilità di tornare
indietro. Oppure come l'intervento urgente
del Governo, chiesto da più parti anche alla
luce degli ulteriori dubbi alimentati dalla
recente risposta del sottosegretario alle
Finanze (si veda Il Sole 24 Ore del 14
novembre), che mette in discussione la
possibilità di riapplicare i vecchi prelievi
(Tarsu, Tia1, Tia2). Salvo poi affermare, in
altra risposta, che i Comuni passati alla
Tarsu possono utilizzare gli stessi codici
tributo della Tares.
Il comma 4-quater dell'articolo 5 è confuso,
ma traspare chiaramente l'intenzione del
legislatore di rendere applicabili i vecchi
prelievi. Altrimenti non avrebbe alcun senso
la deroga all'articolo 14, comma 46, del Dl
201/2011 e l'espresso riferimento al «caso
in cui il Comune continui ad applicare per
l'anno 2013 la Tarsu». In sostanza
quest'anno ci sono sei alternative: Tares
ordinaria, Tares derogata, Tares
semplificata, Tarsu, Tia1, Tia2.
La prima riguarda i Comuni che applicano
integralmente l'articolo 14 del Dl 201/2011
con i criteri del Dpr 158/1999. Ma per gli
enti a Tarsu il passaggio alla Tares si è
rivelato traumatico, specie per alcune
categorie di contribuenti che si sono viste
moltiplicare le tariffe, tanto da causare
sommosse in diversi centri. Da qui
l'esigenza di introdurre alcune deroghe
all'impianto originario. Si passa così alla
seconda opzione, quella cioè offerta dal
comma 1 dell'articolo 5 del Dl 102/2013, che
consente di commisurare le tariffe sulla
base delle quantità e qualità medie
ordinarie di rifiuti, oppure applicando
appositi coefficienti.
Peccato però che il Dipartimento delle
Finanze non ha chiarito che si trattava di
criteri alternativi al Dpr 158/1999 e non
cumulativi, circostanza che invece viene
precisata nella disciplina del nuovo Trise.
Con la conseguenza di rendere difficilmente
applicabile tale opzione, di fatto superata
dalla Tares semplificata contenuta nella
parte centrale del comma 4-quater.
La norma consente di applicare i costi e le
tariffe sulla base dei criteri previsti nel
2012 (Tarsu, Tia1, Tia2), mantenendo
tuttavia la veste giuridica di Tares. Con
l'unico limite di garantire la copertura
integrale dei costi, pur senza considerare
le voci del Dpr 158/1999. Si tratta
dell'opzione al momento più gettonata
insieme al ritorno ai vecchi prelievi.
Scelta, quest'ultima, che alletta molto i
comuni a Tarsu, che continuerebbero così ad
applicare le stesse tariffe dell'anno scorso
senza la necessità di coprire integralmente
i costi del servizio.
Anche il ritorno alla Tia è possibile in
virtù della deroga al comma 46, senza che
possa costituire ostacolo il riferimento
alla sola Tarsu, riguardante però il ricorso
alla fiscalità generale dell'ente per
coprire i costi eventualmente non coperti
dal gettito della tassa. Indicazione
superflua nel caso della Tia, che agisce
nella logica del pareggio costi-ricavi e
deve ovviamente coprire i costi del servizio
in conformità al piano finanziario (articolo
Il Sole 24 Ore del 18.11.2013). |
TRIBUTI: Intoppo sul ritorno alla Tarsu.
La chance solo per chi non ha approvato il bilancio.
Il Mef spiegherà nei prossimi giorni alle amministrazioni
come abbandonare la Tares.
Solo i comuni che non hanno ancora approvato il bilancio
2013 potranno continuare ad applicare la Tarsu in vigore lo
scorso anno. Tutti gli altri dovranno restare con la Tares,
eventualmente modificando le tariffe già deliberate.
Il chiarimento è contenuto in una risoluzione che il Mef
diffonderà nei prossimi giorni per fugare i numerosi dubbi
interpretativi posti dall'art. 5 del dl 102/2013, così come
modificato in sede di conversione. In particolare, verrà
precisata la portata della seconda parte del comma 4-quater,
che consente ai comuni di continuare ad applicare anche per
quest'anno «la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi
urbani (Tarsu), in vigore nell'anno 2012».
Tale possibilità
verrà concessa solo ai comuni che (avvalendosi della proroga
al 30 novembre del relativo termine) non hanno ancora
licenziato il preventivo. Tale condizione dovrebbe essere
verificata assumendo a riferimento la data di entrata in
vigore della legge 124/2013 (che ha convertito il dl 102),
ovvero il 29 ottobre.
Al contrario, gli enti che, a tale data, hanno già approvato
il bilancio potranno soltanto modificare i criteri di
commisurazione delle tariffe, ma pur sempre all'interno del
regime Tares. Ad essi, però, sarà consentito utilizzare
tutta le altre forme di flessibilità consentite dall'art. 5.
Come chiarito dall'Anci Emilia-Romagna (si veda ItaliaOggi
di ieri), tale norma consente, nella sostanza, di applicare
la Tares nello stesso modo in cui si applicava la Tarsu,
senza la necessità di fare riferimento al piano finanziario
o ai criteri di articolazione delle categorie e delle
tariffe previste nel dpr 158/1999.
Inoltre, non vi è né
l'obbligo di considerare le componenti di costo del piano
finanziario, come il Carc, né quello di articolare le
tariffe delle utenze domestiche per numero dei componenti
della famiglia. L'unico vincolo riguarda la necessità di
dare copertura integrale dei costi, che invece non sussiste
per i comuni che potranno mantenere, anche formalmente, il
regime Tarsu: in tali casi, anzi, per espressa previsione
del comma 4-quater, «la copertura della percentuale dei
costi eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve
assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai
proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del
comune».
La circolare in via di definizione a via XX Settembre
chiarirà anche un altro aspetto importante: per chi ha già
dato il via libera al preventivo 2013, la revisione della
disciplina dei tributi potrà essere disposta mediante una
semplice variazione del documento contabile già approvato,
così come chiarito dalla precedente risoluzione dello stesso
Mef 1/2011. Non sarà, quindi, necessario procedere (come
richiesto da alcune sezioni regionali della Corte dei conti)
alla riadozione del bilancio, per la quale non ci sarebbero
i tempi tecnici prima della dead-line del 30 novembre.
Infine, da segnalare che da ieri, sul sito del Ministero
dell'interno, è consultabile il testo del Dpcm di riparto
del fondo di solidarietà comunale, il cui procedimento è in
corso di perfezionamento
(articolo ItaliaOggi del 07.11.2013). |
TRIBUTI: Imu, comodato senza tetto Isee.
L'Anci Emilia-Romagna sul dl 102.
I comuni non sono obbligati a subordinare a un valore
massimo di Isee la fruizione dei benefici «prima casa» a
favore degli immobili concessi in comodato ai parenti.
Lo
afferma l'Anci Emilia-Romagna, che nella dettagliata
nota 29.10.2013 n. 182 di prot.
interpretativa ha analizzato le principali novità
introdotte in sede di conversione del decreto Imu (dl
102/2013).
Fra queste, il documento si sofferma anche
sull'art. 2-bis, che consente ai comuni di equiparare
all'abitazione principale, ai fini dell'Imu, le unità
immobiliari (escluse quelle classificate in A/1, A/ 8 e A/9)
e relative pertinenze concesse in comodato a parenti in
linea retta entro il primo grado (ovvero da padri e figli e
viceversa) che le utilizzano come abitazione principale.
L'assimilazione è subordinata a una delibera comunale, da
adottare entro il prossimo 30 novembre.
Ogni ente è chiamato
a definire i criteri e le modalità per l'applicazione
dell'agevolazione, «ivi compreso il limite dell'indicatore
della situazione economica equivalente (Isee) al quale
subordinare la fruizione del beneficio». Tale inciso, nella
sua formulazione letterale, ha posto il dubbio se la
definizione di un livello massimo di Isee sia o meno
obbligatoria. La circolare Anci ammette che il testo si
presta a diverse interpretazioni, ma ritiene che «non via
sia l'obbligo per i comuni di subordinare il beneficio a un
determinato livello di situazione economica».
Tale scelta,
insomma, rientra nella piena discrezionalità dei sindaci,
che possono valutare se, in regime di ristrettezze
economiche, sia o meno opportuno concentrare gli aiuti sui
soggetti più in difficoltà. Come gli altri contribuenti,
quindi, anche quelli interessati dalla misura in commento
dovranno attendere il 9 dicembre, data ultima entro la quale
i provvedimenti assunti in materia di Imu dovranno essere
pubblicati sul sito istituzionale di ciascun comune.
In ogni caso, l'assimilazione a prima casa, se e nei limiti
in cui i comuni decideranno di introdurla, varrà solo ai
fini del saldo di dicembre, che non sarà dovuto se sarà
confermata l'esclusione anche della seconda rata per le
abitazioni principali. Le somme versate in acconto, quindi,
non sono in nessun caso rimborsabili
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2013). |
TRIBUTI: Rifiuti, tornano i vecchi tributi.
Per il 2013 resuscita non solo la Tarsu, ma anche la Tia.
L'opzione è consentita a tutti i
comuni. Per decidere c'è tempo fino al 30 novembre.
Resuscitano i vecchi regimi di prelievo sul servizio di
smaltimento rifiuti. Con una mossa azzardata effettuata
quasi alla fine dell'anno in corso il legislatore, in deroga
alla disciplina Tares, fa rivivere in modo confuso i tributi
sui rifiuti che erano stati abrogati. Le amministrazioni
locali, infatti, possono applicare Tarsu, Tia1 e Tia2 anche
per il 2013 e determinare i costi del servizio e le tariffe
in base ai criteri previsti e utilizzati nel 2012, fermo
restando che va versata la maggiorazione allo stato.
Possono anche derogare per la Tarsu all'obbligo di copertura
integrale dei costi del servizio, che invece è già imposto
per Tia1 e Tia2. Lo prevede l'articolo 5, comma 4-quater,
del dl 102/2013 convertito nella legge 124/2013.
Questa scelta legislativa ha colto di sorpresa anche chi
durante l'anno ha sempre auspicato una proroga al 2014 della
Tares, per le difficoltà tecniche legate alla sua
applicazione e, soprattutto, per la complessità dei criteri
di determinazione delle tariffe. Quindi, può essere data una
risposta positiva ai comuni che in questi ultimi giorni si
sono posti il problema se il ritorno ai vecchi balzelli è
consentito a tutti o solo a quelli che nel 2012 sono stati
in regime di Tarsu. L'incertezza della formulazione
letterale della norma di legge ha creato dei dubbi
interpretativi.
Tarsu, Tia1 e Tia2. In realtà, i comuni hanno facoltà di
applicare non solo la Tarsu per l'anno in corso, come si
evince in maniera più chiara dal testo dell'articolo 5, ma
anche Tia1 e Tia2. Entro il termine per l'approvazione del
bilancio di previsione (30 novembre) è consentito fare
questa scelta. Fermo restando, però, che i contribuenti sono
tenuti a pagare la maggiorazione allo stato. Com'è noto,
l'articolo 10 del dl 35/2013 ha stabilito che la
maggiorazione va pagata contestualmente all'ultima rata del
tributo, nella misura fissa di 30 centesimi al metro
quadrato, e viene incassata dallo stato. A prescindere dalle
opzioni di cui si può avvalere l'amministrazione comunale,
oltre al tributo sui rifiuti i contribuenti sono tenuti a
sborsare un'ulteriore somma a titolo di maggiorazione per i
servizi indivisibili, rapportata alle dimensioni
dell'immobile posseduto o occupato.
L'articolo 5 recita che in deroga a quanto stabilito
dall'articolo 14, comma 46, del dl 201/2011, convertito
nella legge 214/2011, il comune può determinare i costi del
servizio e le relative tariffe sulla base dei criteri
previsti e applicati nel 2012. È evidente che la norma fa
ritornare in vita le vecchie discipline abrogate, derogando
per il 2013 a quanto previsto dall'articolo 14 del dl «salva
Italia», che ha istituito la Tares. In effetti, quest'ultima
disposizione aveva abrogato tutti i tributi sui rifiuti
vigenti, compresa l'addizionale per l'integrazione dei
bilanci degli enti comunali di assistenza (ex Eca). Non ha
invece subìto modifiche il tributo per l'esercizio delle
funzioni di tutela, protezione e igiene dell'ambiente,
dovuto nella percentuale deliberata dalla provincia
sull'importo della tassa, esclusa la maggiorazione.
Peraltro, che sia possibile il ritorno alla gestione di
Tarsu e Tia trova conferma nell'ulteriore previsione
contenuta nell'ultimo periodo del comma 4-quater, nella
parte in cui viene specificato che qualora il comune scelga
di applicare la Tarsu, è consentito raggiungere lo stesso
livello di copertura dei costi del servizio dell'anno
precedente (per evitare eccessivi aumenti delle tariffe in
un momento di difficoltà economiche), facendo ricadere il
peso delle mancate entrate sull'intera platea dei
contribuenti.
Pertanto, qualora il gettito non copra tutte
le spese, gli enti possono fare ricorso a risorse diverse
dai proventi della Tarsu, derivanti dalla fiscalità
generale. Questa regola, però, vale solo per la Tarsu. Per
la tariffa «Ronchi» e per quella «puntuale», la quale ha per
espressa previsione di legge natura corrispettiva,
disciplinate rispettivamente dai decreti legislativi 22/1997
e 152/2006, l'obbligo della copertura integrale dei costi
non può essere aggirato (articolo ItaliaOggi
dell'01.11.2013). |
ottobre 2013 |
|
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U.
29.10.2013 n. 254 "Testo
del decreto-legge 31.08.2013, n. 102, coordinato con la
legge di conversione 28.10.2013, n. 124, recante:
“Disposizioni urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità
immobiliare, di sostegno alle politiche abitative e di
finanza locale, nonché di cassa integrazione guadagni e di
trattamenti pensionistici”.
---------------
Di particolare interesse:
►
Art. 8. -
Differimento del termine per la deliberazione del bilancio
di previsione ed altre disposizioni in materia di
adempimenti degli enti locali
►
Art. 13. -
Disposizioni in materia di pagamenti dei debiti degli enti
locali
►
Art. 14. -
Definizione agevolata in appello dei giudizi di
responsabilità amministrativo-contabile |
TRIBUTI:
Oggetto: Conversione in legge del Dl n. 102/2013 – Nota di
lettura (ANCI Emilia Romagna,
nota 29.10.2013 n. 182 di prot.). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Comuni, per Imu e Tares è corsa contro il tempo.
Con la revisione delle aliquote va riadottato il bilancio.
Finanza locale. Senza modifiche
legislative non basta una delibera di variazione.
Insieme alla proroga al 30 novembre del termine per
approvare il bilancio di previsione 2013, il Dl 102/2013
differisce anche il termine per approvare o variare i
regolamenti tributari, le aliquote e le tariffe.
Questa
situazione, per usare le parole scritte dalla Corte dei
conti, sezione Autonomie, nella delibera 14.10.2013 n. 23, «si connota di particolari tratti al limite della
irragionevolezza».
A questo si aggiunge anche un serio problema di tempistica,
conseguente al dubbio se le aliquote e regolamenti possono
essere variati dopo l'approvazione del bilancio comunale, ma
comunque entro la data ultima fissata dalle norme statali.
Questo problema sembrava essere stato risolto dal Mef, che
con la risoluzione n. 1/DF del 02.05.2011 aveva ammesso,
anche per gli enti con bilancio già approvato, la
possibilità di variare le delibere apportando le conseguenti
variazioni di bilancio.
Questa lettura è però stata successivamente stravolta dalla
delibera n. 431 del 2012 della Corte dei Conti, sezione
Lombardia, nella quale si sostiene che non è sufficiente una
delibera di variazione del bilancio approvato essendo
necessaria, invece, una completa riadozione del bilancio di
previsione, secondo i termini scanditi nel regolamento di
contabilità di ogni Comune, termini mediamente superiori al
mese è quindi per il 2013 quasi esauriti.
Unica possibilità è che venga finalmente accolto un
emendamento –tra l'altro già più volte proposto da Anci–
che acclari con legge la sufficienza di una delibera di
variazione.
I dati mancanti
La necessità di risolvere in fretta il problema è
amplificata dal fatto che ad oggi i Comuni non hanno ancora
tutte le informazioni necessarie a (ri)adottore il bilancio.
Basti considerare che a fine ottobre ai Comuni non è stato
ancora comunicato quanto devono versare e ricevere dal Fondo
di solidarietà comunale, visto che manca l'emanazione di un
Dpcm, sebbene nella Conferenza Stato-città e autonomie
locali l'accordo sia stato raggiunto il 25 settembre e
l'ammontare del Fondo sia stato fissato in 6,977 miliardi,
di cui circa 4,7 sono dati dal gettito Imu di competenza
comunale che dovrà essere riversato allo Stato. E qui c'è un
altro nodo irrisolto, perché non si sa come i Comuni
dovranno riversare tali somme allo Stato: se queste saranno
direttamente trattenute dagli incassi da F24 Imu oppure se
riceveranno una quota di Fondo al netto della loro quota di
alimentazione.
Non va meglio per la Tares in quanto le modifiche apportate
dalla Camera al disegno di legge di conversione del Dl
102/2013 fanno prefigurare uno scenario in cui ogni Comune
può fare quello che vuole. Solo la conversione definitiva
del decreto –avvenuta giovedì scorso– consente adesso agli
enti di decidere che regime utilizzare per il 2013.
Infine il capitolo Imu: a oggi non si conoscono le sorti
della seconda rata Imu delle abitazioni, o meglio si sa che
sarà abolita come la prima, ma non si sa se il "contributo"
compensativo ai Comuni sarà calcolato come per l'acconto e
quindi sulla base del gettito 2012 o sulla base delle
aliquote deliberate dal Comune nel 2013, o come molti
auspicano, sulla leva fiscale teorica. E anche in questo
caso diventerà difficile non mettere mano alle aliquote.
---------------
Gli ostacoli
01|PROCEDURE
Secondo la Corte dei conti dopo una delibera che varia le
aliquote o i regolamenti tributari non basta una variazione
al bilancio preventivo, serve rimettere in moto
il meccanismo di approvazione del bilancio di previsione
fino
alla riadozione
02|FONDO SOLIDARIETÀ
Nonostante l'intesa in Conferenza unificata sull'ammontare
del Fondo solidarietà (6,7 miliardi), manca un decreto che
indichi ai Comuni quanto versare e quanto ricevere dal Fondo
e che stabilisca la procedura per riversare
03|IMU
Non è ancora stabilito come i Comuni saranno compensati
anche per l'abolizione della seconda rata Imu sulle prime
case. Le ipotesi sono due: o sulla base del gettito 2012
oppure con le aliquote deliberate dal Comune
nel 2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
TRIBUTI: L'assimilazione vale per la seconda rata.
Abitazione principale. Obbligo di
residenza e dimora.
LA FACOLTÀ/
Gli enti locali possono decidere un trattamento di favore
per l'alloggio dato in comodato ai figli (compresa la
pertinenza).
Con la conversione in legge del Dl 102/2013 il Parlamento ha
introdotto, con l'articolo 2-bis, la possibilità per i
Comuni di assimilare all'abitazione principale le abitazioni
concesse in comodato a parenti, tuttavia con alcuni paletti.
Innanzitutto, per espressa previsione normativa
l'assimilazione è limitata alla seconda rata; pertanto,
quanto pagato in acconto non è rimborsabile.
Va anche precisato che, con l'assimilazione, l'abitazione in
comodato riceve lo stesso trattamento delle altre abitazioni
principali e quindi il saldo non sarà dovuto se sarà
confermata l'esclusione anche della seconda rata Imu delle
abitazioni principali.
L'abitazione in comodato deve essere utilizzata come
abitazione principale, quindi con residenza anagrafica e
dimora, da un parente in linea retta entro il primo grado,
ovvero il comodato deve essere tra padre e figlio.
L'abitazione non deve essere classificata in quelle di lusso
(A/1, A/8 e A/9) e nel caso in cui il contribuente abbia
dato in comodato più abitazioni, l'assimilazione opera per
una sola unità immobiliare. Naturalmente il trattamento di
favore riservato all'abitazione si estende anche alle
eventuali pertinenze, pur nella misura massima di un'unità
pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali C/6,
C/2 e C/7.
L'agevolazione è subordinata a una delibera comunale, che
dovrà essere adottata entro il 30.11.2013, ovvero
entro il termine previsto per l'approvazione del bilancio di
previsione 2013.
La delibera comunale dovrà essere pubblicata entro il 09.12.2013 sul sito istituzionale di ciascun comune; in
caso di mancata pubblicazione entro tale data, si applicano
le aliquote e i regolamenti dell'anno precedente.
I contribuenti potrebbero avere quindi una sola settimana di
tempo per capire se devono o non devono pagare il saldo Imu
in scadenza il 16 dicembre.
Occorrerà poi verificare le ulteriori condizioni
disciplinate dai Comuni. La normativa prevede che ciascun
Comune definisca i criteri e le modalità per l'applicazione
dell'agevolazione «ivi compreso il limite dell'indicatore
della situazione economica equivalente (Isee) al quale
subordinare la fruizione del beneficio». Ciò vuol dire che
occorrerà verificare con attenzione gli ulteriori paletti
eventualmente presenti nelle delibere Comunali, come
l'obbligo di presentare una comunicazione entro un
determinato termine, normalmente a pena di decadenza.
Per quanto riguarda l'Isee si ritiene che non vi sia
l'obbligo per i Comuni di subordinare il beneficio ad un
determinato livello di situazione economica, anche se tale
strumento, in regime di ristrettezze economiche permette di
indirizzare le poche risorse disponibili verso chi ne ha
bisogno.
Peraltro, occorre considerare che la possibilità di
assimilare all'abitazione principale quella data in comodato
a parenti è prevista anche dal disegno di legge di stabilità
2014, ma in modo diverso.
È infatti stabilito (per ora) che il Comune possa disporre
l'assimilazione prevedendo che l'agevolazione operi o
limitatamente alla quota di rendita risultante in catasto
non eccedente il valore di euro 500 oppure nel solo caso in
cui il comodatario appartenga ad un nucleo familiare con
Isee non superiore a 15mila euro annui.
Per la copertura del minor gettito Imu derivante dalle
assimilazioni deliberate per il 2013 lo Stato ha assicurato
un contributo massimo di 18,5 milioni di euro, che dovranno
essere ripartiti tra i Comuni secondo modalità che saranno
stabilite con decreto del ministero dell'Interno.
Per il 2014, invece, non è stato per ora previsto alcun
contributo statale (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013). |
TRIBUTI: Fisco e contribuenti. Il decreto legge approvato giovedì
consente ai Comuni di modificare regole e aliquote fino al
30 novembre.
Saldo Imu, tempi stretti per i conti.
Delibere pubblicate sui siti istituzionali fino al 9
dicembre - Pagamento entro il 16.
SUL FILO DI LANA/
Cittadini, Caf e professionisti dovranno concentrare i
calcoli e i versamenti in sette giorni.
Sette giorni di tempo. Dal 10 al 16 dicembre i contribuenti
dovranno consultare i regolamenti, individuare l'aliquota
Imu e quindi calcolare e versare, se dovuto, il saldo.
È questa una delle conseguenze prodotte dall'articolo 8,
comma 2, del Dl 102/2013, approvato due giorni fa dal Senato
in via definitiva e in attesa di pubblicazione sulla
«Gazzetta Ufficiale». L'articolo 8 consente ai Comuni di
adottare le delibere Imu fino al 30 novembre e di
pubblicarle nei loro siti entro il 9 dicembre. Se la
pubblicazione non avverrà entro tale data si applicheranno
gli atti adottati per il 2012.
Ai contribuenti non sarà pertanto sufficiente reperire dai
siti comunali l'aliquota applicabile agli immobili ancora
tenuti al pagamento dell'Imu: i municipi, con proprio
regolamento e fino al 30 novembre, potrebbero infatti
intervenire sulle assimilazioni all'abitazione principale
(introducendole oppure eliminandole).
Al riguardo la versione definitiva del Dl 102/2013, consente
ai sindaci di assimilare all'abitazione principale anche il
fabbricato concesso in comodato a parenti di primo grafo
(cioè figli o genitori). Il beneficio, obbligatoriamente
collegato all'Isee, comporterebbe, se deliberato dai Comuni
entro il 30 novembre, lo stesso trattamento previsto per
l'abitazione principale, ancorché con effetti limitati alla
sola seconda rata 2013.
Dall'anno prossimo, infatti, si dovrebbero applicare le
nuove regole in tema di assimilazione previste dalla legge
di stabilità 2014 appena varata dal Governo.
Ma procediamo con ordine. L'articolo 13, comma 13-bis, Dl
201/2011 dispone che le delibere concernenti aliquote,
detrazioni e regolamenti Imu debbano essere pubblicate sul
sito del ministero dell'Economia entro il 28 ottobre di
ciascun anno (con invio telematico da parte dei comuni
almeno sette giorni prima) pena l'applicazione degli atti
adottati per l'anno precedente.
Posto che il termine per l'approvazione di aliquote e
regolamenti Imu coincide con quello previsto per
l'approvazione del bilancio del comune, il differimento di
quest'ultimo termine al 30 novembre, operato dall'articolo 8
del Dl 102/2013, ha di fatto reso inoperante la scadenza del
21 ottobre. Dato ciò, lo stesso articolo 8 ha stabilito che,
per l'anno 2013, gli atti deliberativi Imu acquistano
efficacia a decorrere dalla data di pubblicazione nel sito
web del comune; tale pubblicazione deve avvenire entro il 9
dicembre e qualora ciò non si verificasse trovano
applicazione gli atti adottati per il 2012. Resta invece
ferma la scadenza per il pagamento del saldo fissata al 16
dicembre.
Contribuenti, Caf, professionisti avranno così appena una
settimana per predisporre con dati certi l'F24 a saldo.
Peraltro il Dl 102/2013 approvato dal Senato contiene
un'ulteriore novità che potrebbe impattare sul calcolo dell'Imu
dovuta a dicembre. Viene infatti previsto (articolo 2-bis)
che per l'anno 2013, e limitatamente alla seconda rata, i
comuni possono equiparare all'abitazione principale una sola
abitazione e relative pertinenze concesse in comodato a
parenti in linea retta (entro il primo grado) che le
utilizzano come abitazione principale. La novità, che
esclude dalla possibile assimilazione i fabbricati di lusso
(accatastati nelle categorie A/1, A/8 e A/9), demanda ai
comuni la definizione dei criteri e delle modalità per
l'applicazione dell'agevolazione, ivi compreso il limite
dell'Isee al quale il beneficio deve essere subordinato.
Si tratta, quindi, di un'assimilazione che si aggiunge a
quelle già consentite ai comuni riguardanti anziani,
disabili e cittadini italiani residenti all'estero.
Anche per queste fattispecie i consigli comunali potrebbero
intervenire fino al 30 novembre con evidenti ripercussioni
sul pagamento di dicembre. A decorrere dal 2014, la legge di
stabilità licenziata dal Governo prevede che le
assimilazioni consentite ai comuni (anziani, disabili,
cittadini Aire, comodati a parenti) operino o limitatamente
ai fabbricati con rendita catastale non superiore a 500 euro
oppure nel solo caso in cui il comodatario appartenga a un
nucleo familiare con Isee non superiore a 15mila euro annui (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013). |
TRIBUTI: Ogni comune censirà i servizi indivisibili
Dal prossimo anno, ogni comune dovrà censire i servizi
indivisibili erogati ai cittadini indicando analiticamente
per ciascuno di essi i relativi costi.
Lo prevede la
disciplina dettata dal disegno di legge di stabilità 2014 in
relazione alla Tasi, che insieme alla quasi omonima Tari
dovrebbe costituire il nuovo tributo comunale Trise. Si
tratterà di un'operazione tutt'altro che agevole, che
richiederà una complessa riclassificazione dei dati di
bilancio.
Come noto, il Trise si articolerà in due componenti: la
prima, denominata Tari, andrà a copertura dei costi relativi
al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati. La seconda componente, il Tasi, sostituirà,
invece, l'attuale maggiorazione Tares (quest'anno
eccezionalmente incamerata dallo Stato) per far fronte della
copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei
comuni.
Il presupposto impositivo della Tasi sarà il possesso o la
detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati, di aree
scoperte nonché di quelle edificabili, a qualsiasi uso
adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o
accessorie a locali imponibili non operative e delle aree
comuni condominiali che non siano detenute o occupate in via
esclusiva. Il tributo sarà dovuto, oltre che dai titolari di
diritti reali, anche dagli eventuali occupanti (ad esempio
locatori) in una misura stabilita dal comune fra il 10 e il
30% dell'ammontare complessivo, calcolato applicando
l'aliquota fissata dallo stesso comune entro i limiti di
legge.
Sempre i comuni, con proprio regolamento da approvare
ai sensi dell'art. 52 del dlgs 446/1997, dovranno
disciplinare le riduzioni, che tengano conto altresì della
capacità contributiva della famiglia, anche attraverso
l'applicazione dell'Isee, e procedere all'individuazione dei
servizi indivisibili ed all'indicazione analitica, per
ciascuno di tali servizi, dei relativi costi alla cui
copertura la Tasi è diretta. Quest'ultimo adempimento, del
tutto inedito, è destinato a rivelarsi di notevole
complessità attuativa. La categoria «servizi indivisibili»,
infatti, include tutti quelli che non vengono offerti «a
domanda individuale», come ad esempio l'illuminazione
pubblica, la sicurezza, l'anagrafe o la manutenzione delle
strade.
Si tratta di una gamma potenzialmente amplissima di
attività, per le quali, per di più, manca una «mappatura»
ufficiale. Per rispettare il dettato normativo, quindi, sarà
necessaria una tutt'altro che agevole operazione di
censimento delle diverse tipologie di servizi e di
riclassificazione dei dati di bilancio analoga a quella che
è stata compiuta per fornire alla Sose i dati necessari per
il calcolo dei fabbisogni standard relativi alle funzioni
fondamentali, ai sensi del dlgs 85/2010.
Se la previsione contenuta nel testo del disegno di legge di
stabilità verrà confermata, quindi, i comuni dovranno
attrezzarsi per tempo
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2013). |
TRIBUTI: Dal Comune esenzione per la casa ai figli.
Possibilità per i sindaci di estendere le agevolazioni e
aiuti per la «morosità incolpevole».
BENI MERCE/
Rientrano nella categoria del premio anche gli immobili
costruiti da imprese edili e rimasti invenduti e non
affittati.
L'esenzione Imu per i fabbricati merce delle imprese di
costruzione non copre l'imposta dovuta sino al 30 giugno.
L'assimilazione all'abitazione principale degli immobili
delle cooperative edilizia a proprietà indivisa come pure
quella relativa ai fabbricati degli appartenenti alle forze
armate opera dal 1° luglio scorso. Ai fini del pagamento
della seconda rata, inoltre, i comuni possono assimilare
all'abitazione principale il fabbricato concesso un uso
gratuito a parenti entro il primo grado.
È ricco il menu
delle novità in materia di Imu apportate in sede di
conversione del Dl 102. Non manca, infine, l'ennesima
disposizione interpretativa in materia di fabbricati rurali.
Nel decreto legge si era disposto che per i fabbricati merce
delle imprese costruttrici la seconda rata non era dovuta.
Ora si precisa che l'imposta resta dovuta fino al 30.06.2013. La conseguenza è che in sede di saldo si dovrebbero
versare i conguagli tra quanto pagato a giugno, con
l'aliquota dell'anno precedente, e quanto da liquidare con
l'aliquota dell'anno in corso. Tanto, limitatamente al
periodo di possesso fino al 30.06.2013.
Sempre con il decreto 102 si era disposta l'assimilazione
all'abitazione principale degli immobili delle cooperative
edilizie a proprietà indivisa. Viene ora stabilito che tale
assimilazione opera dal 1° luglio scorso. Questo dovrebbe
servire ad applicare in via automatica le agevolazioni per
l'abitazione principale che sono in via di approvazione con
riferimento alla seconda rata di dicembre. Lo stesso
ragionamento vale per le modifiche apportate a proposito del
fabbricato degli appartenenti alle forze armate, che si
considera abitazione principale anche se non vi è né
residenza anagrafica né dimora abituale. Si precisa, in
proposito, che l'equiparazione all'abitazione principale non
vale per gli immobili di lusso, cioè di categoria A/1, A/8 e
A/9.
Un'altra novità consiste nella previsione dell'obbligo di
presentare una denuncia con la richiesta di applicazione
delle nuove agevolazioni disposte nel Dl 102, a pena di
decadenza, entro il 30 giugno 2014, termine ordinario di
presentazione della dichiarazione Imu.
Ritorna inoltre l'assimilazione all'abitazione principale
delle case concesse in comodato a parenti in linea retta,
entro il primo grado (genitori e figli), purché non "di
lusso". L'assimilazione dipende da una delibera comunale e
vale solo per la seconda rata. I comuni possono condizionare
il beneficio al possesso di determinati requisiti
reddituali, legati anche all'Isee. L'assimilazione può
riguardare una sola unità immobiliare.
Compare un'ulteriore disposizione interpretativa (la terza)
in materia di fabbricati rurali. Questa volta si tratta
dell'efficacia delle domande di variazione catastale
presentate ai sensi dell'articolo 13, comma 14-bis, Dl
201/2011. In via interpretativa, le Finanze avevano
sostenuto che queste producevano effetti dal quinto anno
precedente. I comuni hanno contestato questa
interpretazione, rilevando che, in mancanza di una norma
espressa, le variazioni catastali operano solo per il
futuro. Oggi si recepisce l'orientamento delle Finanze e si
dispone per l'appunto che gli effetti delle variazioni
decorrano dal quinto anno precedente.
Si conferma infine che il termine per l'approvazione dei
bilanci di previsione 2013 è il 30 novembre prossimo ma si
stabilisce, altresì, che le delibere Imu devono essere
pubblicate sul sito del comune entro il 09.12.2013. In
mancanza di pubblicazione, si applicano le aliquote
dell'anno precedente.
In materia di sfratti, invece, viene disposta l'emanazione
di un decreto delle finanze che dovrà fissare i criteri per
l'accesso ai fondi da parte degli inquilini morosi
incolpevoli. Nelle more della adozione di tali criteri, le
prefetture prenderanno misure per graduare gli interventi
della forza pubblica nelle procedure di sfratto
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
TRIBUTI: Torna la Tarsu con maggiorazione.
Rifiuti. Cancellata l'abrogazione.
Orologi indietro sul prelievo sui rifiuti: dopo nove mesi di
abrogazione, torna in vita la Tarsu e probabilmente anche la
Tia1 e la Tia2.
È il risultato dell'ennesimo colpo di scena
messo in atto con la legge di conversione del Dl 102/2013.
La disciplina della Tares aveva provato a mettere ordine
nelle varie entrate esistenti, abrogando Tarsu e Tia, con
decorrenza dal 01.01.2013. Le modifiche in corso di
pubblicazione abrogano la norma abrogatrice e consentono di
ripristinare le tariffe relative al regime di prelievo
esistente nel 2012, quale esso fosse. A questo punto, è
evidente che perde totalmente di interesse la comprensione
del nuovo sistema tariffario alternativo al metodo
normalizzato, previsto nella versione iniziale del Dl 102.
In linea teorica, si segnala che dall'anno prossimo, con la
Tari, si dovrebbero comunque innovare tutti i sistemi
tariffari. Si prevede, inoltre, che se si mantiene in vita
la Tarsu resta possibile provvedere alla copertura integrale
dei costi del servizio anche con altre risorse del bilancio.
Resta, in ogni caso, dovuta la maggiorazione di 0,30 euro al
metro quadrato in favore dello Stato.
Le altre novità in materia riguardano il finanziamento delle
agevolazioni. Si dispone che il mancato gettito possa essere
alternativamente recuperato dagli stessi contribuenti Tares/Tarsu/Tia
ovvero con altre risorse del bilancio, purché nei limiti del
7% del costo del servizio. Sembra pertanto che se le
agevolazioni si spalmano sugli utenti del servizio non
esiste nessun limite quantitativo, in chiara violazione dei
principi comunitari. Sempre in tema di agevolazioni, si
prevede la possibilità di introdurre nel regolamento
comunale riduzioni e esenzioni legate all'Isee nonché al
compostaggio dei rifiuti.
Viene altresì stabilito che in caso di insufficiente
pagamento del tributo, i contribuenti non sono sanzionabili
se il comune non ha inviato loro i bollettini di versamento.
Si tratta di una novità che impatta, formalmente, solo nei
limitati casi in cui il comune ha previsto il versamento in
auto liquidazione. Nella generalità dei casi, è invece
vigente il pagamento su liquidazione d'ufficio, che
presuppone sempre l'invio di una comunicazione, in assenza
della quale il pagamento non può avvenire e dunque
l'omissione non è sanzionabile
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
TRIBUTI:
Tributi News (tratto
dalla newsletter gratuita di www.publika.it, 22.10.2013
n. 20). |
TRIBUTI: LEGGE DI STABILITA' 2014/
La Trise la paga anche l'inquilino.
Per la Tasi l'importo dovuto dall'affittuario
va dal 10 al 30%. Vita breve per la Tari.
Dal prossimo anno i contribuenti saranno tenuti a pagare il
tributo sui servizi comunali (Trise). Il nuovo balzello
contiene al suo interno due tributi diversi: il primo,
denominato Tari, serve a coprire i costi relativi al
servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di
privativa comunale; mentre il secondo, denominato Tasi, è
diretto a recuperare i costi che l'amministrazione comunale
sostiene per garantire i servizi indivisibili (trasporto,
illuminazione pubblica e così via).
Sono queste le
previsioni contenute nella bozza della legge di stabilità
approvata nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri.
Tari. Dunque la Tares va in soffitta e lascia il posto al
nuovo regime di prelievo, che dovrà coprire integralmente i
costi del servizio. Questa tassa dovrebbe avere vita breve,
per lasciare poi il posto alla Tarip, basata su sistemi
puntuali di misurazione dei rifiuti prodotti. Dovrebbe
infatti prossimamente essere emanato un regolamento
attuativo del ministro dell'ambiente che dovrà prevedere dei
criteri di misurazione puntuale dei rifiuti prodotti, nel
rispetto del principio comunitario «chi inquina paga», per
collegare il pagamento al servizio reso all'utente.
La tassa
è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo
locali o aree scoperte, a prescindere dall'uso a cui sono
adibiti. Non sono soggette al prelievo le aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni o di locali
tassabili, nonché le aree comuni condominiali a meno che non
siano occupate in via esclusiva. Quindi, viene confermata
l'esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie
di locali tassabili, cioè delle cosiddette aree non
operative. Sono obbligati in solido al pagamento anche i
componenti del nucleo familiare e coloro che usano in comune
locali e aree. Come per la Tares viene confermato il
criterio della prevalenza, vale a dire il tributo va pagato
al comune nel cui territorio insiste, interamente o
prevalentemente, la superficie degli immobili.
I soggetti tenuti al pagamento della tassa devono denunciare
la superficie calpestabile e non la superficie catastale.
Considerato che per la maggior parte degli immobili non
esiste ancora la superficie catastale, viene consentito ai
comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per
Tarsu e Tia, calcolando la tassa sulla superficie
calpestabile anche per gli immobili a destinazione ordinaria
(classificati nelle categorie A, B e C). Si passerà alla
commisurazione del tributo sulla superficie catastale solo
quando verranno allineati i dati degli immobili a
destinazione ordinaria e quelli riguardanti la toponomastica
e la numerazione civica, interna e esterna, di ciascun
comune.
Per le occupazioni temporanee il tributo è a carico dei
titolari degli immobili. Si considerano temporanee le
occupazioni di durata non superiore a sei mesi nel corso
dello stesso anno solare. Come per la Tares, l'obbiettivo è
far pagare il proprietario o il titolare di altro diritto
reale sull'immobile anche quando viene utilizzato da
inquilini o comodatari. Mentre, le regole contenute nella
disciplina Tarsu e Tia non imponevano questo trattamento per
gli usi temporanei.
Tasi. La Tasi serve a coprire i costi per i servizi
indivisibili sostenuti dai comuni. Anche i titolari di
immobili adibiti ad abitazione principale, esonerati dall'Imu,
dovranno versare l'imposta con un'aliquota massima del 2,5
per mille, calcolata sullo stesso valore dell'immobile
derivante dalla rendita catastale rivalutata. Il tributo è
infatti dovuto da chiunque possieda o detenga a qualsiasi
titolo fabbricati, aree scoperte e edificabili. Qualora vi
siano più possessori o detentori, tutti sono tenuti in
solido all'adempimento dell'obbligazione tributaria.
In caso
di detenzione temporanea di durata non superiore a sei mesi
nel corso dello stesso anno solare, il balzello è dovuto dal
titolare dell'immobile. A differenza dell'Imu, però, la
tassa sui servizi la paga anche l'inquilino nella misura che
varia dal 10 al 30%. La scelta della percentuale di
tassazione è demandata ai comuni e deve essere stabilita con
regolamento. Il tributo dovrà essere calcolato sul valore
dell'immobile preso a base per la determinazione dell'Imu.
Pertanto, occorre fare riferimento alla rendita catastale
rivalutata per i fabbricati e al valore di mercato per le
aree edificabili.
---------------
Limiti rigidi per la tassa sui servizi comunali.
I titolari di immobili adibiti ad abitazione principale il
prossimo anno dovranno versare la tassa sui servizi comunali
(Tasi) con un'aliquota massima del 2,5 per mille. Le
amministrazioni locali, infatti, possono variare l'aliquota
dall'1 al 2,5 per mille, fermo restando che hanno anche il
potere di azzerarla. Anche per le prime case di pregio,
classificate nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili
di lusso, ville e castelli), non esonerate dal pagamento
dell'Imu, il legislatore si è premurato di fissare un tetto
massimo all'aliquota.
I titolari di questi immobili non
dovranno pagare complessivamente per i due tributi (Imu e
Tasi) più di quanto dovuto per l'imposta municipale con
l'aliquota massima del 6 per mille. La stessa regola vale
per le altre tipologie di immobili e seconde case, per le
quali viene imposto come limite l'attuale aliquota massima
del 10,6 per mille.
Abitazioni principali. Spetterà ai sindaci decidere se gli
immobili adibiti a abitazione principale dovranno essere
tassati e in che misura. I fabbricati che per il 2013 hanno
fruito dell'abolizione del pagamento dell'acconto Imu
saranno tenuti a pagare la Tasi nella misura deliberata
dall'ente che va dall'1 al 2,5 per mille.
Immobili di lusso e secondo case.
Viene confermata l'imposizione sugli immobili di lusso anche
se destinati ad abitazione principale. Viene imposta
l'aliquota massima del 6 per mille, vale a dire quella
attualmente prevista per l'imposta municipale. Pertanto, la
somma dovuta per i due tributi non può superare quanto
dovuto oggi dal contribuente calcolando l'imposta con
l'aliquota massima
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
TRIBUTI:
Tassa rifiuti, resuscita la Tarsu. Decisione entro il 30/11.
Resta la maggiorazione Tares. Il
colpo di scena inserito nel decreto Imu pone però più di
un problema applicativo.
I comuni potranno decidere di abbandonare la Tares e di
continuare ad applicare anche per quest'anno il medesimo
tributo o la medesima tariffa relativi alla gestione dei
rifiuti urbani utilizzati nel 2012.
L'ennesimo colpo di scena nella grottesca vicenda del
tributo su rifiuti e servizi introdotto dal governo Monti
arriva con un emendamento alla legge di conversione del
decreto Imu (dl 102/2013), approvato alla camera. In
pratica, i sindaci potranno decidere di pensionare
anticipatamente la Tares. Dal prossimo anno, infatti,
entrerà in vigore un nuovo prelievo (il Trise), la cui
disciplina sarà definita dalla legge di stabilità in
discussione in questi giorni.
L'emendamento approvato a
Montecitorio consente di mantenere il regime (tributario o
tariffario) già applicato nel 2012. A tal fine, occorre un
«provvedimento» da adottarsi entro il termine fissato per
l'approvazione del bilancio di previsione, ovvero entro il
30 novembre. Tale scadenza sembra riguardare anche gli enti
che hanno già licenziato il preventivo, mentre la competenza
sembra essere pacificamente da attribuire ai consigli
comunali. Gli unici paletti validi per tutti i comuni
riguardano la maggiorazione per i servizi indivisibili, che
non potrà in nessun caso essere toccata, e la
predisposizione e l'invio ai contribuenti del relativo
modello di pagamento (su cui, peraltro, regna l'incertezza
più assoluta dopo il dissidio interpretativo fra Mef e Ifel).
Solo per chi intenda continuare ad applicare la Tarsu, è
previsto un ulteriore vincolo: in tal caso, si legge
nell'emendamento, «la copertura della percentuale dei costi
eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve
assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai
proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del
comune». Tale novella si inserisce in modo assai
problematico nel già caotico quadro normativo della Tares,
frutto di continue modifiche e stratificazioni successive.
Accanto alla disciplina generale contenuta nel dl 201/2011,
infatti, il testo vigente del dl 102 ha già introdotto una
modalità alternativa che dovrebbe consentire ai comuni di
staccarsi da quanto previsto dal dpr 158/1999 e rispolverare
i criteri delle tariffe Tarsu, ovvero prevedere un regime
misto, come già sperimentato da molti comuni che in regime
di Tarsu applicavano in parte i criteri della Tia. Anche
nella Tares «semplificata», peraltro, vige l'obbligo di
copertura integrale dei costi (art. 5, comma 3, del dl 102).
Ora, l'emendamento introduce una terza strada, ovvero la «continuità
di regime» fra l'anno in corso e il 2012: in tal caso,
quindi, l'obbligo di copertura integrale dei costi dovrebbe
saltare. Per questi ultimi, peraltro, si pone una questione
in più: è possibile modificare la tariffe applicate lo
scorso anno? La formulazione dell'emendamento sembrerebbe
escluderlo, imponendo di ricorrere al gettito di altri
tributi/tariffe. In senso contrario, depone, però,
l'avverbio «eventualmente»
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
TRIBUTI: Per i rifiuti rispunta la Tarsu.
Possibile applicare anche nel 2013 tasse e tariffe dell'anno
scorso. Ambiente. Via libera da un emendamento al decreto «Imu-2» -
Resta in campo la maggiorazione statale.
PER LA TARES/
Confermato l'obbligo di inviare il modello precompilato ai
contribuenti e di utilizzare per i pagamenti il bollettino
postale o l'F24.
Indietro tutta sulla Tares, che dopo mesi di contorcimenti
normativi rischia di sparire ancora prima di essere
applicata. Con l'emendamento al decreto «Imu-2» (Dl
102/2013) approvato alle commissioni Bilancio e Finanze
della Camera (primo firmatario Luca Pastorino) che riesuma
le vecchie Tarsu e Tia si apre un'autostrada per i Comuni
che intendono buttare a mare tutti i problemi del nuovo
tributo e tornare al prelievo utilizzato fino all'anno
scorso, nell'attesa che esca dalle nebbie la service tax
prevista nel 2014.
Nei 6.700 enti che applicavano la Tarsu,
questo significa rinunciare anche alla copertura integrale
dei costi del servizio, imposti dalla Tares, per tornare
alle vecchie forme di finanziamento. Con un unico vincolo:
la Tarsu o la Tia riesumate dall'emendamento dovranno essere
accompagnate dalla maggiorazione da 30 centesimi al metro
quadrato, perché vale un miliardo, va allo Stato e da questo
punto di vista la condizione del bilancio centrale non
ammette ripensamenti.
Per artigiani, ristoratori e in genere per le attività
commerciali più colpite dagli aumenti imposti dal nuovo
tributo è un'ottima notizia, naturalmente. Per le
amministrazioni locali si tratta invece di rifare per
l'ennesima volta i calcoli, su un tributo che sta
contendendo con successo all'Imu il record delle modifiche
in corso d'opera. «Siamo esterrefatti e ammutoliti, ci
arrendiamo», spiegano le aziende pubbliche del settore
riunite in Federambiente in una nota che la butta
sull'ironia (amara).
Proprio la confusione costante che circonda il tributo
spingerà moltissimi Comuni a tornare sulla vecchia strada di
Tarsu o Tia. Un altro emendamento al decreto «Imu-2», che
nella sua versione originaria impone agli enti di spedire ai
contribuenti modelli (F24 o bollettino postale) precompilati
con l'importo da pagare, ha appena stabilito che in caso di
mancato invio del modello non si applicano le sanzioni per
«insufficiente versamento». Una regola di favore per venire
incontro ai contribuenti disorientati, che però rischia di
"sanare" ex ante tutti i versamenti insufficienti e aprire
buchi nei conti di Comuni e aziende.
Le amministrazioni
infatti hanno parecchi problemi già con la prima rata, assai
meno complicata rispetto al saldo, come mostrano i casi di
città che non sono ancora riuscite ad avvertire tutti i
contribuenti sull'importo da pagare: è accaduto per esempio
a Milano, dove il Comune ha avvertito che in questi casi non
ci saranno sanzioni per i versamenti in ritardo (la scadenza
era al 30 settembre), senza ovviamente parlare di quelli
insufficienti.
I tanti correttivi piovuti sulla Tares, inoltre, non si sono
occupati di altri problemi ancora aperti sul tributo. È il
caso, per esempio, delle forme di pagamento: l'ultima rata
rimane ancora vincolata a F24 e bollettino postale, e quindi
non permette di utilizzare Mav, Rid e le altre modalità
automatiche impiegate finora. Restano tutti da chiarire
anche i criteri di calcolo "alternativi" al metodo
normalizzato introdotti dallo stesso decreto «Imu-2». Tra
nodi applicativi irrisolti e rischi di aumenti a grappolo,
saranno quindi moltissimi i Comuni che torneranno alla Tarsu,
anche se la sua mancata armonizzazione con i principi Ue
(prima di tutto quello del «chi inquina paga») ne richiedono
l'abolizione dal lontano 1997 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
TRIBUTI:
A differenza della tassa
di occupazione (costituente espressione della potestà
impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui
la legge attribuisce il valore di indice di capacità
contributiva), il canone in questione (ndr: canone
patrimoniale per la concessione di spazi e aree pubbliche
previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992) ha natura di
corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al
monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di
un bene comune.
Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso la
discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata dalla
suddivisione degli stessi in cinque classi per numero di
abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i
principi relativi al canone di concessione dettati dall’art.
27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della
strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di
discrezionalità.
---------------
Reputa il Collegio che il criterio adottato dal Comune di
fare riferimento, in metri lineari, alla proiezione
ortogonale sul suolo del lato maggiore della struttura, sia
del tutto aderente alla norma attributiva del potere, nella
parte in cui essa indirizza l’amministrazione ad incorporare
nel corrispettivo il “valore economico risultante dal
provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio che
l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in
questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di
commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata
(la quale non è indice affidabile della potenzialità di
ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali
dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non
arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario
con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.
Il primo motivo si appunta sulla previsione di
regolamento comunale che, nel disciplinare l’applicazione
del canone patrimoniale per la concessione di spazi e aree
pubbliche previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992,
individua quale criterio per la determinazione delle
tariffe, sia per i cartelloni pubblicitari che per le
pensiline: “la proiezione ortogonale sul suolo del lato
maggiore della porzione di struttura predisposta per
l’installazione dei messaggi pubblicitari al metro lineare”.
All’uopo, si lamenta che il nuovo metodo di calcolo sarebbe
in contrasto con i parametri fissati dall’art. 27 citato,
dal momento che esso non potrebbe certo considerarsi
riferito all’effettiva insistenza sul suolo, considerato
che, se un’area può occupare dello spazio e incidere sul
suolo, lo stesso non potrebbe dirsi di una linea (ovvero,
della base dell’impianto, espressa in metri lineari). Né
potrebbe rilevare, in senso contrario, la presunta remuneratività di un impianto di maggior superficie
espositiva, posto che la ratio dell’imposizione
sull’occupazione di suolo pubblico non sarebbe la pubblica
partecipazione al reddito degli impianti, bensì il
corrispettivo per l’utilizzo di una porzione di suolo
pubblico.
Per contro, il criterio previsto dal regolamento
del 2003, che fissava il canone in considerazione dei metri
quadrati risultanti dall’area ottenuta con la proiezione
ortogonale sul suolo del mezzo istallato, sarebbe stato
effettivamente parametrato sull’insistenza sul suolo,
poiché, considerando sia la lunghezza della base che lo
spessore dell’impianto, veniva identificata una specifica
porzione di spazio sottratta dal cartello all’uso pubblico
del suolo.
Per gli stessi motivi (ovvero, per violazione del
parametro dell’effettiva soggezione sul suolo posto
dall’art. 27 del d.lgs. 285/1992), sarebbe, altresì,
illegittima anche l’introduzione della differenziazione
tariffaria per l’ipotesi della pubblicità mono e bifacciale
(sia sulle pensiline che sui poster): la doppia esposizione,
infatti, non implicherebbe occupazione di una porzione di
strada maggiore rispetto a quella singola.
Il motivo non può essere accolto.
Occorre premettere che, a differenza della tassa di
occupazione (costituente espressione della potestà
impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui
la legge attribuisce il valore di indice di capacità
contributiva), il canone in questione ha natura di
corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al
monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di
un bene comune. Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso
la discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata
dalla suddivisione degli stessi in cinque classi per numero
di abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i
principi relativi al canone di concessione dettati dall’art.
27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della
strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di
discrezionalità.
La norma da ultimo citata, nel dettaglio, statuisce che: “Nel
determinare la misura della somma si ha riguardo alle
soggezioni che derivano alla strada o autostrada, quando la
concessione costituisce l’oggetto principale dell’impresa,
al valore economico risultante dal provvedimento di
autorizzazione o concessione e al vantaggio che l’utente ne
ricava". Orbene, richiamata la natura del canone in
questione, reputa il Collegio che il criterio adottato dal
Comune di fare riferimento, in metri lineari, alla
proiezione ortogonale sul suolo del lato maggiore della
struttura, sia del tutto aderente alla norma attributiva del
potere, nella parte in cui essa indirizza l’amministrazione
ad incorporare nel corrispettivo il “valore economico
risultante dal provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio
che l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in
questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di
commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata
(la quale non è indice affidabile della potenzialità di
ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali
dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non
arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario
con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.
Parimenti deve dirsi quanto al rilievo accordato dal
regolamento all’utilizzo mono -facciale o bifacciale della
struttura, poiché è finanche intuitivo che tale doppia
proiezione porta seco un maggiore valore di realizzo
economico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
G.U. 04.10.2013 n. 233 "Ripartizione del contributo ai
comuni per il ristoro del minor gettito IMU 2013" (Ministero
dell'Interno,
decreto 27.09.2013). |
TRIBUTI: Sconti senza paletti. Niente condizioni sui bonus Ici.
Ctr:
agevolazioni svincolate da obblighi dichiarativi.
Un comune non può subordinare un'agevolazione Ici a un
obbligo dichiarativo non previsto dalla legge statale. In
ogni caso, non può dichiararsi la decadenza dal beneficio
del soggetto che non abbia adempiuto a tale onere
supplementare. Gli avvisi di accertamento emessi dall'ente
locale sulla base di tale disposizione regolamentare
risultano quindi viziati da eccesso di potere.
È quanto ha
stabilito la Ctp di Campobasso con la sentenza 01.10.2013 n. 144/1/13.
Il caso in questione vedeva due fratelli ricorrere contro
una serie di rettifiche operate dall'ufficio tributi
comunale in materia di Ici.
I ricorrenti avevano adibito gratuitamente un immobile ad
abitazione principale dei propri genitori. Tuttavia, il
comune aveva proceduto alla contestazione fiscale, in quanto
il regolamento Ici adottato dall'amministrazione prevedeva
l'obbligo della presentazione di apposita preventiva
dichiarazione ai fini dell'applicazione dell'esenzione sulla
prima casa concessa in uso gratuito a parenti e/o affini
entro il 1° grado.
Una tesi che non trova però concorde i giudici molisani. Il
dl n. 223/2006, in un'ottica di semplificazione degli
adempimenti, aveva infatti soppresso l'obbligo di presentare
la dichiarazione Ici. «La pretesa del comune di Campobasso
di sottoporre il riconoscimento dell'agevolazione prima casa
per parenti e affini alla presentazione di una dichiarazione
preventiva», spiega la sentenza, «risulta assai poco
coerente con il complesso sistema impositivo dell'Ici».
Anche la Cassazione, con la pronuncia n. 13151 del 28.05.2010, si era espressa in tal senso.
Peraltro, secondo la Ctp, il comune ha anche violato il
principio di collaborazione tra cittadini ed ente impositore
previsto dall'articolo 10 della legge n. 212/2000 (Statuto
del contribuente). «Il rispetto di tale principio e della
regola del preventivo contraddittorio», osservano i
magistrati tributari, «avrebbe consentito una rapida
chiarificazione della posizione dei due contribuenti ed
evitato i costi (in termini di lavoro, tempo e denaro)
connessi agli accertamenti e ai procedimenti giudiziari in
corso». Da qui l'annullamento degli avvisi impugnati e
la condanna dell'ente alle spese di lite
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
settembre 2013 |
|
TRIBUTI:
La tassa sui rifiuti è sempre dovuta.
In tema di Tarsu-Tia, lo smaltimento dei rifiuti ordinari in
maniera autonoma, a proprie spese, insieme a quelli
speciali, non esonera l'azienda dal pagamento della tassa
comunale. L'obbligo di versamento scatta comunque, al di là
del fatto che si utilizzi il servizio pubblico o meno.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza
27.09.2013 n.
89/22/13 emessa dalla Sez. XXII della Ctr Lombardia.
Nella sentenza menzionata, il collegio regionale lombardo
capovolge la decisione dei colleghi di prima istanza della
Ctp di Milano, che avevano annullato la pretesa del comune
di Varedo, e stabilisce che la tassa sui rifiuti è comunque
dovuta, indipendentemente dall'utilizzo del servizio
pubblico.
«In tema di autosmaltimento», osservano i giudici meneghini,
«il costo relativo alla gestione dei rifiuti solidi urbani e
di quelli assimilabili grava sui cittadini indipendentemente
dal fatto che si utilizzi il servizio medesimo».
Infatti, la Commissione precisa che il tributo è rapportato
unicamente alla superficie occupata a qualsiasi uso
destinata; solo per i rifiuti speciali, tossici, pericolosi
o nocivi, il produttore è obbligato allo smaltimento in
proprio, con l'esonero dal tributo, ferma restando la
tassazione sui rifiuti ordinari.
La legittimità della richiesta è suffragata dal fatto che il
comune si sia attenuto alle superfici dichiarate dalla
società, sulla base della denuncia dalla stessa prodotta.
Nel caso specifico, anche gli imballaggi sono stati
ricondotti dal comune alla categoria dei rifiuti speciali
non pericolosi e pertanto assimilabili agli urbani (articolo ItaliaOggi
Sette del 24.02.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Rito tributario, atti pubblici.
A processo finito sempre possibile conoscere i documenti.
La sentenza del Consiglio di stato sul diritto di accesso a
conclusione dei procedimenti.
Deve ritenersi sussistente il
diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario
ormai concluso.
Lo ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato con
sentenza 26.09.2013 n. 4821.
I giudici amministrativi hanno osservato che sebbene l'art.
24, della legge 241/1990 vada a escludere il diritto
d'accesso nei procedimenti tributari, per i quali restano
ferme le particolari norme che li regolano, «è da
ritenere che la norma debba essere intesa, secondo una
lettura della disposizione costituzionalmente orientata, nel
senso che la inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di
segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di
accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi
reddituali che conducono alla quantificazione del tributo.
In ragione di ciò deve riconoscersi il diritto di accesso
qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento,
con l'emanazione del provvedimento finale».
È stato poi osservato che si profilano precisi obblighi in
capo al concessionario alla riscossione, infatti ai sensi
dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, recante
disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito, «il
concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o
la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta
notificazione o l'avviso del ricevimento e ha l'obbligo di
farne esibizione su richiesta del contribuente o
dell'amministrazione».
Pertanto i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come
la cartella esattoriale costituisca presupposto di procedure
esecutive e, quindi, risulta strumentale alla tutela dei
diritti del contribuente la richiesta di accesso alla
cartella, in tutte le forme consentite dall'ordinamento
giuridico considerate più rispondenti ed opportune e quindi
essa deve essere rilasciata, in copia, dalla società
concessionaria al contribuente che abbia proposto, o voglia
proporre ricorso, avverso atti esecutivi iniziati nei suoi
confronti.
Una tesi diversa andrebbe a determinare una vera e propria
limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del
contribuente, o, comunque, rendere estremamente difficoltosa
la tutela giurisdizionale del contribuente che dovrebbe
impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle
cartelle. E una tale limitazione finirebbe col collidere con
i principi costituzionali posti a garanzia della tutela
giurisdizionale, oltre che con il principio, di rango
costituzionale, di razionalità
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Equitalia di vetro.
Accesso alle cartelle esattoriali. A
contenzioso concluso.
Equitalia non può negare l'accesso alle cartelle esattoriali
se la richiesta riguarda atti di un procedimento tributario
concluso.
Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 26.09.2013 n. 4821.
La controversia verte sulla richiesta di accesso proposta da
un contribuente nei confronti del concessionario della
riscossione, avente ad oggetto l'integrale produzione di
ciascuna cartella esattoriale per consentire all'interessato
di conoscere il complessivo ammontare e le relative causali
delle pretese fiscali o tributarie a suo nome.
L'istanza era stata rigettata dal momento che si trattava di
procedimenti tributari e che la richiesta del contribuente
riguardava ben 55 cartelle di pagamento.
Il Consiglio di stato ritiene il diniego illegittimo.
Infatti, sebbene l'art. 24, legge n. 241 del 1990 escluda il
diritto d'accesso, tra l'altro, nei procedimenti tributari,
per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano, è da ritenere che questa norma debba essere
intesa, secondo una lettura della disposizione
costituzionalmente orientata, nel senso che
«l'inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di
segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di
accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi
reddituali che conducono alla quantificazione del tributo».
Deve, quindi, riconoscersi il diritto di accesso qualora
l'Amministrazione abbia concluso il procedimento con
l'emanazione del provvedimento finale e quindi, in via
generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere
agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
Secondo il Collegio, dal momento che la cartella esattoriale
costituisce presupposto di procedure esecutive, la richiesta
di accesso è strumentale alla tutela dei diritti del
contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento
giuridico ritenute più rispondenti e opportune. Ritenere
diversamente implicherebbe, sostanzialmente, introdurre una
limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del
contribuente, o, in ogni caso, rendere estremamente
difficoltosa la tutela giurisdizionale del contribuente che
dovrebbe impegnarsi in una faticosa ricerca delle copie
delle cartelle. Questa limitazione colliderebbe con i
principi costituzionale che garantiscono la tutela
giurisdizionale, e con il principio, di rango
costituzionale, di razionalità
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
TRIBUTI: Tia, rifiuti speciali esonerati anche dalla quota fissa
È illegittimo il regolamento comunale sulla Tia che prevede
l'applicazione della quota fissa della tariffa per le
attività le cui superfici sono produttive di rifiuti
speciali. Queste superfici sono totalmente escluse dalla
tassazione.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, V Sez., con la
sentenza
26.09.2013 n. 4756.
La
regola vale anche per la Tarsu, la Tares e il nuovo tributo
sui rifiuti (Tari) che entrerà in vigore il prossimo anno.
Per i giudici di palazzo Spada, il comune non ha alcun
potere regolamentare di disciplinare il trattamento fiscale
dei rifiuti speciali né di deliberare «la tariffa seppure
limitata alla componente fissa». In effetti, il tributo
sui rifiuti non può essere applicato sulle superfici o sulle
aree nelle quali, per specifiche caratteristiche strutturali
o per destinazione, si producono rifiuti speciali. Tuttavia
le superfici in cui vengono prodotti anche rifiuti speciali
non sono né escluse dal tributo né esenti.
Nella determinazione della superficie non si tiene conto
solo di quella parte di essa dove si formano questi rifiuti,
allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a
proprie spese i produttori stessi in base alle norme
vigenti. Quindi, non si conteggia la parte di superficie che
ha questa destinazione nell'ambito di un immobile. E
l'esclusione dell'obbligo di conferire i rifiuti al servizio
pubblico si ha solo nei casi in cui sia fornita
dimostrazione del loro avvio al recupero, con attestazione
di ricevuta da parte dell'impresa incaricata del
trattamento.
Qualora il produttore abbia fornito la prova di aver avviato
effettivamente al recupero i rifiuti, per la relativa
superficie non è prevista la detassazione ma una riduzione
della misura della tassa che il comune ha facoltà di
stabilire con un'apposita norma regolamentare rapportata
proporzionalmente «all'entità del recupero rispetto alla
produzione complessiva dei rifiuti» (circolare del
ministero delle finanze n. 111/1999).
La riduzione della tassa può quindi essere calcolata in base
a un coefficiente di proporzionalità rispetto ai rifiuti
destinati al recupero. Fermo restando che, anche nelle
ipotesi di recupero totale dei rifiuti, idoneamente
documentato, non si ottiene l'esonero totale
dall'assoggettamento al prelievo tributario, in quanto lo
stesso è finalizzato a coprire i costi comuni e collettivi
del servizio. Spetta al contribuente provare quale parte
dell'immobile debba essere esclusa dalla tassazione
(articolo ItaliaOggi
del 16.11.2013). |
TRIBUTI:
Rifiuti. Tariffa rifiuti aree produttive.
Con l’art. 195, comma 2, lett. e), del
d. lgs. n. 152 del 2006 si è dettata una normativa chiara e
coerente con i principi comunitari, essendosi stabilito che
“non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si
formano nelle aree produttive, compresi i magazzini di
materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti
negli uffici, nelle mense, negli spacci, nei bar e nei
locali di servizio dei lavoratori o comunque aperti al
pubblico”.
In quanto non assimilabili, i rifiuti che si formano nelle
aree produttive, salve le eccezioni sopra elencate, sfuggono
al regime transitorio e si pongono al di fuori della
privativa comunale. Il che comporta che questi rifiuti non
possono essere conferiti al servizio pubblico di raccolta
dei rifiuti urbani, ma come stabilisce l’art. 188, comma 2,
lett. c), del d.lgs. n. 152 del 2006 e la remunerazione del
servizio deve essere assicurata attraverso apposita
convenzione e, quindi, attraverso un canone o tariffa
rapportata prevalentemente ai volumi e pesi conferiti
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4756 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Impossibile il passaggio dalla Tarsu alla Tia-1.
Decisione a forte rischio di contenzioso per i Comuni.
Consiglio di Stato. Ammessi in via transitoria
gli atti deliberativi già assunti.
Dopo l'entrata
in vigore del codice ambientale è possibile effettuare il
passaggio solamente alla Tia2, non più alla Tia1.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato -Sez. V- con la
sentenza 26.09.2013 n. 4756, che ha dichiarato
l'illegittimità di un regolamento comunale istitutivo della
Tia1, approvato a giugno 2011.
All'origine della controversia una norma regolamentare che
imponeva di applicare la quota fissa della Tia anche alle
superfici produttive di rifiuti speciali (non smaltiti dal
Comune), che invece avrebbero dovuto essere totalmente
escluse dalla tassazione. Disposizione ritenuta in contrasto
con il principio comunitario "chi inquina paga", di
immediata e diretta applicazione nella legislazione
nazionale.
Ma i giudici di Palazzo Spada vanno oltre, affermando che
dal 29.04.2006 –data di entrata in vigore del Dlgs
152/2006– non è più ammissibile il passaggio alla tariffa
Ronchi, in quanto soppressa. In via transitoria è invece
tollerata la vigenza degli atti deliberativi già assunti,
mentre è possibile istituire solamente la Tia2, di cui
all'articolo 238 del Dlgs 152/2006. Niente passaggio, quindi,
dalla Tarsu alla Tia1.
Il blocco
La conclusione, tuttavia, non tiene conto del blocco di
regime durato quattro anni (dal 2007 al 2010), periodo
durante il quale non era comunque possibile cambiare
prelievo, ad eccezione dei Comuni della provincia di Trento,
in quanto a legislazione speciale. Quindi il principio
affermato dal Consiglio di Stato riguarderebbe un breve
periodo del 2006 (dal 29 aprile al 31 maggio) e le ultime
due annualità di vigenza della Tarsu, cioè il 2011 e il
2012. Il Dl 208/08 consentiva infatti di effettuare il
passaggio alla "tariffa integrata ambientale (Tia)" solo in
caso di mancata approvazione, entro il 30.06.2010,
dell'apposito regolamento statale previsto dal Dlgs
152/2006.
Inoltre, nella sentenza 4756/2013 non c'è alcun
riferimento al Dlgs 23/2011, che consente ai Comuni di
continuare ad applicare i regolamenti comunali approvati in
base alla normativa concernente la Tarsu e la Tia, ferma
restando la possibilità di adottare la "tariffa integrata
ambientale". Stessa definizione utilizzata nel 2008, che non
trova tuttavia riscontro nell'articolo 238 del Dlgs 152/2006
(Tia2), riferito alla "tariffa per la gestione dei rifiuti".
Insomma, la lettura offerta dal Consiglio di Stato non è del
tutto scontata, anche perché il passaggio obbligato alla
Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura
extratributaria (così definita dal Dl 78/2010), con
rilevanti problemi di natura applicativa per mancanza di
sanzioni, di poteri di accertamento eccetera.
Lo scenario
Si apre, peraltro, uno scenario a forte rischio di
contenzioso per i Comuni, pur escludendo la possibilità di
impugnativa davanti ai Tar per scadenza dei termini. I
contribuenti potrebbero comunque contestare le richieste di
pagamento, chiedendo alle commissioni tributarie la
disapplicazione dei regolamenti istitutivi della Tia1,
ancorché con una efficacia limitata al singolo caso.
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Sotto la lente
01 | Il principio
Secondo il Consiglio di Stato, dopo l'entrata in vigore del
Codice ambientale, Dlgs 152/2006, avvenuta il 29.04.2006, si poteva effettuare soltanto il passaggio dalla Tarsu
alla Tia2
02 | Il problema
La conclusione non tiene conto del fatto che per quattro
anni (dal 2007 al 2010) c'è stato un blocco di regime,
ragion per cui il principio riguarderebbe solo un mese del
2006 e gli ultimi due anni di vigenza della Tarsu (2011 e
2012).
Considerando anche che il passaggio obbligato alla
Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura
extratributaria, si prefigura la possibilità che i
contribuenti contestino le richieste di pagamento e chiedano
di disapplicare i regolamenti istitutivi della Tia1
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.10.2013). |
TRIBUTI:
Il pareggio di bilancio giustifica l'aumento dell'aliquota Imu.
I comuni possono aumentare l'aliquota di base Imu anche per
gli immobili posseduti dai soggetti per i quali la legge gli
concede la facoltà di riconoscere un trattamento agevolato.
E non è imposto all'ente di giustificare l'aumento del
prelievo con una motivazione ad hoc. L'aumento dell'aliquota
può essere finalizzato all'obbiettivo di raggiungere il
pareggio di bilancio. Il fatto che il legislatore
attribuisca all'amministrazione locale il potere di ridurre
per determinati immobili in misura percentuale l'aliquota di
base (0,76%), non le impedisce però di poterla aumentare e
di riservare lo stesso trattamento delle altre unità
immobiliari.
Per esempio, i giudici amministrativi hanno
respinto i ricorsi proposti dai titolari di immobili di
edilizia residenziale pubblica (Ater, Iacp) per il 2012, nei
casi in cui i comuni non solo non hanno assicurato il
trattamento agevolato previsto dalla legge per l'abitazione
principale, ma addirittura hanno aumentato l'aliquota di
base fissata per le seconde case. In effetti, per queste
unità immobiliari l'articolo 13 del dl Monti (201/2011)
aveva limitato il beneficio solo alla detrazione d'imposta.
Solo da quest'anno il dl sulla finanza locale (102/2013) li
equipara a tutti gli effetti all'abitazione principale.
Di
recente il Tribunale amministrativo regionale per la
Liguria, seconda sezione, con la sentenza 1088 del 19.07.2013, ha ritenuto legittima la delibera del comune che ha
aumentato l'aliquota di base per gli immobili posseduti
dalle imprese, nonostante il decreto Monti (articolo 13,
comma 9) abbia disposto la facoltà degli enti di ridurre
l'aliquota fino allo 0,4% per i soggetti Ires, vale a dire i
soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle società.
Per
il giudice amministrativo, il dl 201/2011 «ha determinato i
margini di manovra a disposizione dei comuni per realizzare
una «personalizzazione» delle aliquote a livello di singolo
ente». Con deliberazione consiliare possono modificare
l'aliquota di base, in aumento o in diminuzione, fino a 0,3
punti percentuali. Dunque, gli immobili dell'impresa possono
fruire dell'aliquota ridotta solo qualora i comuni abbiano
ritenuto di deliberare una misura di favore. Anche queste
unità immobiliari sono soggette all'aliquota di base,
«eventualmente modificabile in aumento entro il limite di
0,3 punti percentuali».
Peraltro l'aumento non richiede una
specifica motivazione, trattandosi di un atto generale.
L'aumento dell'aliquota può essere giustificato dalla
necessità di garantire il pareggio di bilancio. Tuttavia,
mentre comunemente si ritiene che non sia necessario
motivare gli atti generali, delibere Imu comprese, non c'è
uniformità di vedute in giurisprudenza sull'obbligo di
indicare le ragioni in fatto e in diritto degli aumenti
delle tariffe della tassa per lo svolgimento del servizio di
raccolta e smaltimento rifiuti.
Il Consiglio di stato
(sentenza 5616/2010) ha sostenuto che il comune deve
motivare la delibera che aumenta le tariffe Tarsu per
coprire i costi del servizio. E non si può invocare la
necessità di assicurare la copertura totale della spesa,
senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costi
del servizio
(articolo ItaliaOggi del
25.09.2013). |
ENTI
LOCALI - TRIBUTI:
Oggetto: Decreto legge 31.08.2013, n. 102 – Nota di
lettura (ANCI Emilia Romagna,
nota 19.09.2013 n. 147 di prot.).
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... in materia di IMU, TARES, differimento termine
approvazione bilancio preventivo.
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Chi
ha approvato i bilanci può rivedere le aliquote.
Anche i comuni che hanno già approvato il bilancio possono
rimettere mano ai propri tributi fino al 30 novembre.
Lo
afferma una nota interpretativa del decreto Imu diffusa
dall'Anci Emilia-Romagna. Ma tale interpretazione necessita
di una conferma ufficiale da parte del Mef.
Come noto, l'art. 8 del dl 102/2013 ha differito alla
predetta data il termine per l'approvazione del preventivo
per l'anno in corso. Il legislatore non si è premurato di
precisare gli effetti della proroga nei confronti degli enti
che già avevano tagliato il traguardo dell'approvazione. In
tal modo, per questi ultimi, si ripropone la querelle sulla
possibilità di modificare le proprie aliquote o i propri
regolamenti tributari anche dopo il varo del bilancio,
purché ovviamente entro la dead-line fissata per gli altri
enti.
L'Anci propende per la tesi affermativa, ritenendo
sufficiente a tal fine una semplice «variazione» del
documento contabile già perfezionato, secondo quanto
chiarito dalla risoluzione del Dipartimento delle politiche
fiscali n. 1/2011. Per la verità, la questione non pare del
tutto pacifica, in presenza di pronunce difformi della Corte
dei conti (si veda, ad esempio, il parere n. 205/2011 della
Sezione regionale di controllo per la Lombardia), che hanno
sostenuto, invece, la necessità di procedere alla «riapprovazione»
del bilancio.
Del resto, la stessa risoluzione del Mef
ribadiva l'inderogabilità del principio della variazione
della disciplina dei tributi comunali entro il termine
stabilito dalla legge per l'approvazione del bilancio,
sottolineando il carattere propedeutico al bilancio stesso
delle deliberazioni riguardanti le entrate, e ne ammetteva
una parziale deroga solo considerazione della «particolare
tempistica» delle novità all'epoca introdotte dal dlgs
23/2011 in materia di addizionale Irpef.
Sarebbe quindi opportuno che dal Mef arrivasse un nuovo
chiarimento ufficiale. Se, viceversa, dovesse prevalere una
linea interpretativa più rigida, i numerosi comuni che hanno
già approvato il bilancio 2013 aumentando l'aliquota dell'Imu
sull'abitazione principale avrebbero enormi difficoltà ad
apportare le necessarie correzioni, con forti rischi per gli
equilibri contabili se lo Stato non dovesse riconoscere loro
il rimborso integrale del mancato gettito
(articolo ItaliaOggi del
27.09.2013). |
TRIBUTI:
Aree verdi, no Ici.
Niente imposta se c'è il vincolo. La Ctr Milano: lo spazio pubblico non è edificabile.
Se un terreno è sottoposto a vincoli non può essere
assoggettato all'Ici e all'Imu. Quindi, se un'area è
compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale
a verde pubblico attrezzato il contribuente non è tenuto a
versare l'imposta municipale.
Secondo la Commissione
tributaria regionale di Milano (sentenza n. 71/2013) il vincolo
di destinazione non consente di dichiarare l'area
edificabile, poiché al contribuente viene impedito di
operare qualsiasi trasformazione del bene. In effetti, si
discute da tempo sulla legittimità dell'assoggettamento a
Ici delle aree vincolate. Del resto, la giurisprudenza sia
di merito che di legittimità non ha assunto una posizione
univoca.
Per la commissione regionale, se lo strumento urbanistico
vigente destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e
sport, rende «palese e percepibile il vincolo di utilizzo
meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità».
Nella sentenza viene richiamata una pronuncia della
Cassazione che ha fissato questo principio, che però non è
assolutamente pacifico.
I precedenti della Cassazione. Con sentenza 25672/2008 i
giudici di legittimità hanno stabilito che se il piano
regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia
destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione
urbanistica impedisce al privato di poter edificare. Dunque,
l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se
l'edificabilità è prevista dallo strumento urbanistico. La
natura edificabile delle aree comprese in zona destinata a
verde pubblico attrezzato impedisce ai privati la
trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica
di edificazione. In questi casi, la finalità è quella di
assicurare la fruizione pubblica degli spazi.
Mentre, con la sentenza 19131/2007 aveva sostenuto il
contrario e cioè che l'Ici fosse dovuta su un'area
edificabile anche se sottoposta a vincolo urbanistico e
destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore
di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a
imposizione. Con questa decisione, tra l'altro, i giudici
avevano precisato che l'Ici non «ricollega il presupposto
dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla
sua attitudine a incrementare il proprio valore o il reddito
prodotto». Il valore dell'immobile assume rilievo solo per
determinare la misura dell'imposta. L'area doveva essere
considerata edificabile anche se qualificata «standard» e
vincolata a esproprio.
Quindi, le aree edificabili sono soggette all'imposta anche
se vincolate per essere espropriate. La destinazione
edificatoria permane anche dopo la decadenza dei vincoli.
Naturalmente, i limiti incidono sul valore venale del bene.
Con l'ordinanza 16562/2011 la Suprema corte ha ribadito che
la qualifica di area fabbricabile non può ritenersi esclusa
se esistono particolari limiti che condizionano le
possibilità di edificazione del suolo. Anzi, i limiti
imposti a un terreno presuppongono la sua vocazione
edificatoria.
Con questa decisione i giudici hanno ritenuto
che i limiti imposti dal piano regolatore «incidendo sulle
facoltà dominicali connesse alle possibilità di
trasformazione urbanistico-edilizia del suolo medesimo, ne
presuppongono la vocazione edificatoria». Peraltro, la
destinazione dell'area «permane anche dopo la decadenza dei
vincoli preordinati all'espropriazione» per finalità
pubbliche. Tuttavia, i vincoli incidono «sulla concreta
valutazione del relativo valore venale e, conseguentemente,
della base imponibile». È evidente che il contribuente che
si trovi in questa situazione paga un'imposta minore, che
deve essere rapportata al ridotto valore del terreno.
La definizione di area in base al diritto comunitario. È
stato precisato dalla Cassazione (sentenza 20097/2009) che
rientra nella competenza degli stati membri della Comunità
europea la qualificazione delle aree edificabili. Ed è in
linea col sistema comunitario la scelta dello stato italiano
di fissare al momento dell'adozione dello strumento
urbanistico generale la qualificazione dell'area, anche nel
caso in cui non siano state adottate misure che consentano
l'effettiva edificazione.
L'ordinamento italiano non
contiene una definizione generale di terreno edificabile.
C'è piuttosto nel sistema fiscale una tendenza a
ricomprendere in questa categoria, per determinare la base
imponibile di alcuni tributi, e per quanto è di nostro
interesse per l'Ici e l'Imu, tutte le aree la cui
destinazione edificatoria sia prevista dallo strumento
urbanistico generale deliberato dal comune, anche in
mancanza dei previsti atti di controllo (approvazione
regionale) e degli strumenti attuativi.
In realtà non interessa, ai fini fiscali, che il suolo sia
immediatamente edificabile: quello che conta, secondo i
giudici di legittimità, è che «sia stata conclusa una
fase rilevante del procedimento per attribuire all'area la
natura edificatoria o per modificare le precedenti
previsioni che escludevano tale destinazione» (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.09.2013). |
TRIBUTI: Classamento con motivazione.
Domanda
Ho ricevuto un atto con cui il Catasto ha modificato il
classamento della mia abitazione senza alcuna precisazione
circa le sue motivazioni. Posso ricorrere?
Risposta
La risposta è affermativa. La giurisprudenza della Corte di
cassazione è consolidata nel ritenere illegittimi i
riclassamenti catastali privi di motivazione o dotati di
motivazione meramente apparente.
La recente sentenza n.
18156/2013, fra altre emesse in questi ultimi anni e in
parte in essa richiamate, ribadisce che il provvedimento di riclassamento deve esplicitare se esso sia stato adottato in
ragione di trasformazioni edilizie subite dall'unità (in tal
caso recando l'analitica indicazione di esse) o nell'ambito
di una revisione dei parametri della microzona di ubicazione
dell'immobile giustificata dal significativo scostamento del
rapporto tra valore di mercato e valore catastale rispetto
ad altre microzone comunali (in tal caso recando la
specifica menzione dei rapporti e dello scostamento
rilevato), oppure ancora in relazione alla incongruenza tra
il precedente classamento dell'unità rispetto a fabbricati
similari (in tal caso recando la specifica individuazione di
tali fabbricati, del loro classamento e delle
caratteristiche analoghe che li renderebbero similari
all'unità interessata dal rilassamento).
È, del resto, evidente che in mancanza di tali motivazioni
il contribuente non potrebbe controdedurre in modo
appropriato e sarebbe pertanto inibito rispetto al proprio
diritto di difendersi dalle pretese dell'Amministrazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.09.2013). |
TRIBUTI:
Immobili in comodato d'uso esclusi da esenzioni Imu. Per i
titolari di beni messi a disposizione niente benefici
dall'abolizione della prima tranche. La facoltà di
assimilazione non è riconosciuta agli enti locali.
I titolari degli immobili dati in comodato d'uso gratuito a
parenti, destinati ad abitazione principale, sono tenuti a
pagare l'Imu. Questi soggetti non hanno fruito della
sospensione del pagamento dell'acconto e, quindi, non
possono beneficiare dell'abolizione della prima rata
dell'imposta. E il decreto 102/2013 sull'abolizione dell'Imu
nulla innova in proposito.
I fabbricati dati in comodato non possono più essere
assimilati ex lege all'abitazione principale.
L'articolo 13 del dl Monti (201/2011), infatti, ha
parzialmente abrogato a partire dal 2012 l'articolo 59,
comma 1, del decreto legislativo 446/1997, vale a dire la
norma attributiva del potere regolamentare in materia di
imposta comunale sugli immobili, nella parte in cui
consentiva la comune di considerare abitazioni principali,
con conseguente applicazione dell'aliquota ridotta o della
detrazione, i fabbricati concessi in uso gratuito a parenti
in linea retta o collaterale, stabilendo il grado di
parentela.
Per l'Imu alcune tipologie di assimilazioni sono previste
dalla legge e i benefici spettano a prescindere dalla scelte
del comune. Per esempio, rientrano in questa casistica gli
immobili di edilizia residenziale pubblica posseduti da Iacp
o Ater, utilizzati come prima casa dai soci assegnatari
oppure gli alloggi sociali. Mentre, è demandato all'ente il
potere di assimilare alla prima casa quelli posseduti da
anziani, disabili e residenti all'estero. I proprietari di
questi immobili non pagano la prima rata Imu se i comuni li
hanno già assimilati nel 2012 all'abitazione principale (e
non hanno revocato il beneficio) o intendono farlo per il
2013, in quanto è proprio la norma di legge che prevede che
il trattamento agevolato possa essere concesso per le unità
immobiliari possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, da
anziani o disabili che spostano la residenza in istituti di
ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, nonché
per quelle possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, in
Italia dai cittadini italiani non residenti nel territorio
dello stato, a condizione che non risultino locate.
La facoltà di assimilazione, invece, non è stata
riconosciuta ai comuni per gli immobili dati in comodato
d'uso. Naturalmente nulla impedisce che il comune possa
garantire, a proprie spese, qualche beneficio fiscale (per
esempio, l'aliquota agevolata), ma non si può parlare di
assimilazione all'abitazione principale e di rimborso del
minor gettito da parte dello stato.
Va ricordato che sono rigidi i requisiti per fruire del
trattamento agevolato sugli immobili destinati ad abitazione
principale. L'articolo 13 ha fornito una nuova
qualificazione giuridica della nozione di abitazione
principale, prevedendo che si intende come tale l'unità
immobiliare nella quale il contribuente e il suo nucleo
familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano
stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in
immobili diversi situati nel territorio comunale, le
agevolazioni si applicano per un solo immobile
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2013). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Il bilancio «di previsione» non sarà modificabile.
Impossibile la manovra di salvaguardia al 30 settembre.
Dl Imu. I termini per il preventivo scadono insieme a quelli
per l'assestamento.
Gli enti locali avranno tempo fino al 30 novembre, un mese
prima della fine dell'anno, per approvare il bilancio di
previsione 2013.
La nuova proroga è stata inserita nel Dl
102 del 31.08.2013, che abroga la rata di giugno
dell'IMU sulle abitazioni principali e sulle categorie per
le quali, con il Dl 54/2013, ne era stata disposta la
sospensione. Il Dl prevede altre disposizioni sull'IMU,
rivede la Tares, spostando al 30 novembre i termini per
l'approvazione del Regolamento e delle relative tariffe.
Sono inoltre rinviati ad ulteriori provvedimenti sia
l'eliminazione della rata Imu di dicembre, sia
l'introduzione, dal 2014, della nuova service tax.
Questi i "titoli" del nuovo scenario di breve periodo della
finanza locale. Il metodo, però, va in netta contraddizione
con i principi della sana programmazione. Le conseguenze non
sono rassicuranti, almeno sul piano tecnico e contabile.
Gli enti che non hanno ancora approvato il bilancio hanno
operato finora in dodicesimi, sulla base dell'assestato
2012, i cui valori sono generalmente più alti del relativo
consuntivo. Continuare con la gestione provvisoria fino al
30 novembre significa mettere a rischio gli equilibri di
bilancio, soprattutto sulla parte corrente. Che lo Stato si
faccia carico dell'Imu abrogata è il minimo che ci si
potesse aspettare, ma si dovranno attendere ancora settimane
per l'esatta quantificazione; è, infatti, previsto un
ulteriore decreto del Ministero dell'interno, di concerto
con l'Economia.
Per i Comuni si riduce l'autonomia di agire sulla principale
leva fiscale; e per gli enti che avevano già provveduto ad
innalzare le aliquote per il 2013, tutti i programmi sono da
riesaminare. Approvare il previsionale al 30 novembre
significa, di fatto, approvare il pre-consuntivo,
inglobando, in uno, i provvedimenti della salvaguardia e
dell'assestamento. Dopo il 30 novembre, si ricorda, non sono
più possibili variazioni di bilancio. Si può ancora chiamare
bilancio di previsione un documento non più modificabile ?
E quali sono le conseguenze di questo decreto per gli enti
che hanno già approvato il loro bilancio? Di certo dovranno
adottare le necessarie variazioni di bilancio. Stando alla
tempistica dettata dal decreto, non ci sarebbero i tempi
tecnici per la manovra di salvaguardia da approvare entro il
30 settembre. Alla luce delle modifiche intervenute, che
riguardano anche la Tares, e dei rinvii a nuove disposizioni
sulla seconda rata dell'Imu, si ritiene che, come già
accaduto nel 2012, la salvaguardia dovrà essere approvata
contestualmente all'assestamento.
Guardando alle casse comunali, l'unica notizia lieta è
l'erogazione del 5 settembre del secondo acconto del Fondo
di solidarietà Comunale, la cui quantificazione complessiva
resta ancora un rebus.
In definitiva, i Comuni programmano le proprie politiche di
spesa sulla base di Imu, Tares, Fondo di solidarietà
comunale e addizionali comunali. La caratteristica che oggi
li accomuna è la totale incertezza sulla loro entità. Il
federalismo tanto auspicato avrebbe dovuto concedere agli
amministratori locali le leve sufficienti a manovrare le
politiche fiscali in funzione del proprio mandato. Così non
è. Le aspettative sulla service tax aumentano, ma nel
frattempo resta il problema degli equilibri di bilancio per
il 2013.
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Gli strumenti
01|SALVAGUARDIA
La legge prevede la possibilità che gli enti approvino la
salvaguardia entro il 30 settembre, con la possibilità di
modificare anche aliquote e tariffe. In una situazione
ordinaria, questo permette di modificare eventuali errori di
quantificazione nel preventivo o di finanziare uscite
impreviste
02|ASSESTAMENTO
Entro il 30 novembre i Comuni devono procedere
all'assestamento di bilancio, dopo il quale non è più
possibile modificare le poste dei conti che a quel punto
assumono un valore definitivo, da verificare e certificare
nel rendiconto
03|PREVENTIVO
Lo slittamento al 30 novembre previsto per il 2013 dal Dl
Imu-2 rappresenta un record nella storia dei rinvii di
termini per la chiusura dei preventivi, e di fatto rende
inutilizzabili i due precedenti strumenti per gli enti che
attendono il nuovo termine (articolo Il Sole 24 Ore del
09.09.2013). |
TRIBUTI - VARI:
Oggetto: Decreto per la casa – Novità IMU e altre misure
di sostegno al settore immobiliare (ANCE Bergamo,
circolare 06.09.2013 n. 199). |
TRIBUTI: Anziani e disabili, il comune decide sulla prima rata Imu.
Stop al versamento se gli enti non
hanno revocato il trattamento agevolato del 2012.
Abolita la prima rata Imu anche per anziani, disabili e
residenti all'estero se i comuni non hanno revocato per
l'anno in corso il trattamento agevolato riconosciuto nel
2012 per gli immobili da loro destinati ad abitazione
principale o intendono concederlo per il 2103.
Il nuovo dl
sull'imposizione immobiliare e la finanza locale, infatti,
prevedono l'abolizione della prima rata Imu per tutti gli
immobili per i quali a giugno era stata disposta la
sospensione del pagamento dell'acconto. Quindi, la
cancellazione del pagamento si estende agli immobili
assimilati all'abitazione principale.
Tuttavia, è escluso
che il beneficio possa essere applicato a due o più
immobili, anche se utilizzati di fatto come abitazione
principale, se non accorpati catastalmente. Così come non è
consentito che, quantomeno nello stesso comune, uno dei
coniugi trasferisca la propria residenza o dimora abituale
per non pagare l'imposta. Le agevolazioni sono rivolte al
nucleo familiare.
Anziani, disabili e residenti all'estero. Chi fruisce del
trattamento agevolato, anche se a seguito dell'assimilazione
degli immobili all'abitazione principale operata dai comuni,
non è tenuto a pagare l'Imu. E gli immobili posseduti da
anziani, disabili e residenti all'estero possono essere
assimilati. Per il dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia (circolare 2/2013), considerata la finalità
del legislatore di assicurare un regime di favore per
l'abitazione principale e relative pertinenze, sia nel caso
che l'assimilazione venga disposta per il 2013 «sia in
quello in cui la stessa è stata effettuata nel 2012 e non è
stata modificata nel 2013, l'assimilazione in questione
determina l'applicazione delle agevolazioni». Compresa
l'abolizione del pagamento della prima rata Imu.
I comuni, in effetti, possono estendere o ampliare i
benefici per la prima casa. Non scontano l'Imu come seconda
casa gli immobili posseduti da anziani o disabili e
residenti all'estero se il comune li ha assimilati o li
assimila all'abitazione principale. L'articolo 13 del dl
201/2011 prevede che il trattamento agevolato possa essere
concesso per le unità immobiliari possedute, a titolo di
proprietà o usufrutto, da anziani o disabili che spostano la
residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di
ricovero permanente, nonché per quelle possedute, a titolo
di proprietà o usufrutto, in Italia dai cittadini italiani
non residenti nel territorio dello stato, a condizione che
non risultino locate. Va posto in rilievo che, come per
l'Ici, il nudo proprietario non è tenuto a pagare l'Imu.
Soggetti passivi sono sempre l'usufruttuario, i titolari dei
diritti di uso, abitazione e così via.
Esenzione solo per un immobile. Secondo il dipartimento
delle finanze del ministero dell'economia (circolare 3/2012)
l'abolizione del pagamento vale solo per un immobile, in
quanto per abitazione principale s'intende l'immobile,
iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come
unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora
abitualmente e risiede anagraficamente. Il contribuente può
fruire delle agevolazioni «prima casa» per un solo immobile,
anche se utilizzi di fatto più unità immobiliari
distintamente iscritte in catasto, a meno che non abbia
provveduto al loro accatastamento unitario. I singoli
fabbricati vanno assoggettati separatamente a imposizione,
ciascuno per la propria rendita. È il contribuente a
scegliere quale destinare a abitazione principale.
Si ritiene non corretta la tesi ministeriale, poiché anche
per l'Imu, come per l'Ici, il contribuente dovrebbe avere
diritto al trattamento agevolato qualora utilizzi
contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione
principale, visto che l'articolo 13 richiede che si tratti
di un'unica unità immobiliare iscritta o «iscrivibile» come
tale in catasto. Dovrebbero essere sufficienti due
requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo. Nello
specifico, le diverse unità immobiliari devono essere
possedute da un unico titolare e devono essere contigue. Del
resto, la Cassazione più volte ha affermato che ciò che
conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale
dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere
dal numero delle unità catastali.
Peraltro, per i giudici di
legittimità, gli immobili distintamente iscritti in catasto
non importa che siano di proprietà di un solo coniuge o di
ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto
che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda
la categoria catastale delle unità che lo compongono.
Secondo la Cassazione, una interpretazione contraria non
sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il
carico fiscale sugli immobili adibiti a «prima casa». La
tesi della Cassazione, però, si pone in contrasto con quanto
affermato anche in passato dal ministero delle finanze
(risoluzione 6/2002) sui presupposti richiesti per usufruire
del trattamento agevolato Ici.
Il ministero ha infatti
precisato che due o più unità immobiliari vanno
singolarmente e separatamente soggette a imposizione,
«ciascuna per la propria rendita». Solo una dovrebbe essere
considerata anche per l'Imu come abitazione principale. Il
contribuente, per usufruire dell'agevolazione, dovrebbe
richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, per i
quali è attribuita in catasto una distinta rendita,
presentando all'ente una denuncia di variazione.
Agevolazioni per il nucleo familiare. L'esenzione Ici per
l'abitazione principale spettava per l'immobile adibito a
dimora abituale del contribuente e dei suoi familiari. Non a
caso la Corte di cassazione, con la sentenza 14389 del 15.06.2010, aveva affermato che nel caso in cui un coniuge
avesse trasferito la propria residenza in un altro immobile
non avrebbe avuto più diritto all'agevolazione fiscale, a
meno che non avesse dimostrato di essersi separato
legalmente.
In realtà, anche se la questione del comportamento elusivo
eventualmente posto in essere da uno dei coniugi ha formato
oggetto di contrastanti pronunce giurisprudenziali,
l'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992 limitava il
beneficio fiscale alla dimora abituale della famiglia.
Secondo la Cassazione, infatti, l'ubicazione della casa
coniugale «individua presuntivamente la residenza di tutti i
componenti della famiglia», «salvo che» (si aggiunge
opportunamente) «tale presunzione sia superata dalla prova»
che lo «dello spostamento... della propria dimora abituale»
sia stata causata dal «verificarsi di una frattura del
rapporto di convivenza».
Lo stesso concetto di «nucleo
familiare» viene riproposto per l'Imu, anche se le modifiche
apportate alla norma istitutiva dell'imposta suscitano dei
dubbi sugli effetti antielusivi che la Cassazione aveva
riconosciuto alla disciplina Ici. L'articolo 13 del dl Monti
(201/2011) stabilisce che per abitazione principale si
intende l'immobile «nel quale il possessore e il suo nucleo
familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente». Nel caso in cui i componenti del nucleo
familiare abbiano fissato la dimora abituale e la residenza
anagrafica in immobili diversi situati nello stesso
territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione
principale, e relative pertinenze, si applicano per un solo
immobile. La formulazione un po' contorta di questa
disposizione lascia aperta la porta a possibili
comportamenti elusivi, in quanto esclude che due coniugi
possano fruire di una doppia esenzione solo se gli immobili
sono ubicati nello stesso comune.
Quindi, se il
trasferimento formale della residenza da parte di uno dei
coniugi avviene in una seconda casa, ubicata in una località
di mare o di montagna diversa da quella di residenza
dell'altro coniuge, non vi sarebbe alcun impedimento a
fruire due volte dello stesso beneficio fiscale: entrambi
non pagherebbero la prima rata Imu. In questo caso i comuni
potrebbero contestare la sussistenza di uno dei requisiti
richiesti dalla legge, qualora possano dimostrare che la
seconda casa non viene utilizzata di fatto come dimora
abituale (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.09.2013). |
TRIBUTI: Macchine self service.
Fototessere, niente imposta sulle affissioni.
Le affissioni presenti sulle macchine per fototessere self
service che riportano informazioni sul costo del servizio e
sulle modalità di fruizione non scontano l'imposta sulla
pubblicità. Tali manifesti non possono considerarsi alla
stregua di un mezzo pubblicitario qualunque, poiché
informano il pubblico circa le caratteristiche del servizio,
peraltro non acquistabile altrove, bensì fruibile adoperando
la stessa macchina sul quale sono apposti.
In base a tali
considerazioni, la sentenza n. 65/01/13 della Ctp di Lodi ha
concluso per l'esenzione della fattispecie dall'imposta
pubblicitaria vantata dall'amministrazione comunale.
Il caso riguarda le macchinette automatiche per fare le
fototessere che si trovano solitamente nei pressi di luoghi
pubblici, quali stazioni, municipi o aeroporti. Sulla
struttura stessa dell'apparecchio elettronico, vengono di
norma apposte delle illustrazioni, contenenti slogan e
informazioni circa il costo del servizio, i tempi di
erogazione e quant'altro. Su tali affissioni, alcuni comuni
ritengono dovuta l'imposta per la pubblicità.
La Ctp di Lodi si è pronunciata in senso contrario. «Anche
se di grande formato», si legge in motivazione, «queste
illustrazioni hanno lo scopo prevalente di informare il
pubblico delle caratteristiche dell'offerta, più che di
pubblicizzare il servizio, che peraltro non è acquistabile
altrove, essendo fornito dalla stessa macchina sulla quale
sono apposte».
Per cui, non essendo prevalente lo scopo
pubblicitario, che costituisce il presupposto dell'imposta,
la Ctp ha accolto il ricorso del contribuente e concluso per
l'esenzione (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.09.2013). |
agosto 2013 |
|
ENTI
LOCALI - TRIBUTI:
G.U. 31.08.2013 n. 204, suppl. ord. n. 66/L, "Disposizioni
urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità immobiliare,
di sostegno alle politiche abitative e di finanza locale,
nonché di cassa integrazione guadagni e di trattamenti
pensionistici"
(D.L.
31.08.2013 n. 102). |
EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI: I ruderi in catasto. Vanno iscritti, ma senza rendita.
Le Entrate: la denuncia solo per
mera identificazione.
Nessuna attribuzione di rendita catastale se il degrado dei
ruderi è tale da non produrre reddito e non ci sono
collegamenti a gas, luce e acqua. I ruderi possono essere
iscritti al catasto solo per l'identificazione, con
l'indicazione dei caratteri specifici e della destinazione
d'uso, ma non viene loro attribuita nessuna rendita. Alla
denuncia al catasto di unità collabente o rudere deve essere
allegata apposita autocertificazione attestante l'assenza di
allacciamento alle reti dei servizi pubblici dell'energia
elettrica, dell'acqua potabile e del gas. Per questi
immobili sussiste la possibilità e non l'obbligo
dell'aggiornamento dei dati catastali.
Questa è la
precisazione contenuta nella
nota 30.07.2013 n. 29440 di prot. emanata dalla direzione centrale catasto e cartografia
dell'Agenzia delle entrate.
I tecnici di prassi sottolineano
innanzitutto che i ruderi, classificati come unità collabenti nella categoria F/2, sono tali se privi della
copertura e della struttura portante, ma anche se delimitati
da muri che non abbiano almeno l'altezza di un metro. Le
condizioni di degrado devono inoltre essere tali da renderli
incapaci di produrre reddito. Secondo i tecnici del fisco
questi immobili possono essere iscritti al catasto solo per
l'identificazione, con l'indicazione dei caratteri specifici
e della destinazione d'uso, ma non viene loro attribuita
nessuna rendita.
Ai fini delle dichiarazioni di unità collabenti è pertanto necessario che il professionista che
predispone la dichiarazione su incarico della committenza:
rediga una specifica relazione, datata e firmata, riportante
lo stato dei luoghi, con particolare riferimento alle
strutture e alla conservazione del manufatto, che deve
essere debitamente rappresentato mediante documentazione
fotografica e alleghi l'autocertificazione, resa
dall'intestatario dichiarante, ai sensi degli articoli 47 e
76 del dpr 28.12.2000 n. 445, attestante l'assenza di
allacciamento delle unità alle reti dei servizi pubblici,
dell'energia elettrica e del gas.
I tecnici ribadiscono
inoltre che l'iscrizione nella categoria F/2 prevede la
presenza di un fabbricato che abbia perso del tutto la sua
capacità reddituale. Ne consegue che la stessa categoria non
è ammissibile, ad esempio, quando l'unità immobiliare che si
vuole censire, risulta ascrivibile in altra categoria
catastale, ovvero, non è individuabile e/o perimetrabile.
Le Entrate infine ricordano che l'attribuzione della
categoria F/2 a tali ruderi è regolamentata dall'articolo 3,
2 comma, del decreto del ministero delle finanze del
02.01.1998 n. 28. I ruderi per essere tali devono essere
caratterizzati da un notevole degrado che ne determina una
notevole perdita della capacità reddituale
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2013). |
TRIBUTI: Ici dovuta se c'è stata demolizione.
Sull'area.
Il contribuente è tenuto a pagare l'Ici sull'area
edificabile e non sul fabbricato utilizzato come abitazione
principale solo se gli interventi edilizi hanno comportato
la demolizione o la sostituzione di parti strutturali
dell'immobile che ne hanno impedito l'uso. È escluso il
pagamento del tributo sull'area se la famiglia dimostra di
aver continuato ad abitare nell'immobile durante il periodo
dei lavori.
È quanto ha affermato la commissione tributaria
provinciale di Brescia, sezione VIII, con la sentenza
27.08.2013 n. 129.
Per i giudici tributari, dall'esame
della documentazione presentata è emerso che i lavori
eseguiti sull'immobile non hanno comportato demolizioni, né
sostituzione di parti strutturali, né interventi che possano
averne impedito l'uso. Del resto, le fatture prodotte
relative alle utenze per energia elettrica, gas e acqua
hanno dimostrato che «la funzione abitativa non è venuta
meno e che la famiglia dei ricorrenti, anche durante il
periodo dell'intervento edilizio, ha continuato ad abitare
nello stesso stabile».
Secondo l'articolo 2 del decreto
legislativo 504/1992, richiamato per l'Imu dall'articolo 13
del decreto Monti (201/2011), per fabbricato si intende
l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel
catasto edilizio urbano, considerandosi parte integrante del
fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne
costituisce pertinenza. Il fabbricato di nuova costruzione è
soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei
lavori o, se antecedente, dalla data in cui è comunque
effettivamente utilizzato.
Infatti, nelle ipotesi di
edificazione di un fabbricato, la base imponibile Ici (o Imu)
è data dal valore dell'area dalla data di inizio dei lavori
di costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino a
quando il fabbricato è comunque utilizzato, se questo
momento è antecedente. Inoltre, in base alla finzione
giuridica prevista nella disciplina dell'imposta, il suolo
va considerato area fabbricabile, indipendentemente dal
fatto che sia tale o meno in base agli strumenti
urbanistici, anche durante il periodo dell'effettiva
utilizzazione edificatoria
(articolo ItaliaOggi del 12.09.2013). |
TRIBUTI:
Pertinenze esenti.
Senza autonomia niente Ici-Imu. Per Ctr Roma non rileva la mancata dichiarazione.
Le aree edificabili non sono autonomamente soggette al
pagamento dell'Ici e dell'Imu se sono pertinenze dei
fabbricati, anche se il contribuente non ha indicato questa
destinazione degli immobili nella dichiarazione.
La
Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza n. 163/2013)
va oltre quanto sostenuto dalla Cassazione, perché riconosce
l'intassabilità del bene anche nel caso in cui il
contribuente non abbia esposto nella dichiarazione la natura
pertinenziale dell'area.
Tuttavia, il titolare dell'immobile non è tenuto a pagare
l'imposta comunale su un'area edificabile che sia pertinenza
di un fabbricato, anche se non lo ha indicato nella
dichiarazione, purché invii una comunicazione all'ente con
lettera raccomandata con la quale lo informi della
destinazione del bene, prima che venga emanato l'atto di
accertamento.
Naturalmente, è richiesto che il rapporto pertinenziale
emerga dallo stato dei luoghi.
Per esempio, l'esistenza di un pozzo artesiano sul terreno
dal quale è possibile attingere l'acqua dal fabbricato
oppure un marciapiede o un cornicione ubicati oltre la linea
di confine del manufatto.
La sezione tributaria della Corte di cassazione (sentenza
19638/2009), invece, ha riconosciuto il beneficio solo nei
casi in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo
dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di
variazione. I giudici di legittimità, infatti, per eliminare
il contenzioso che dura da anni sull'assoggettamento a Ici
delle aree o giardini pertinenziali, hanno modellato
l'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992 che dà la
definizione di pertinenza. Mentre questa norma si limita a
stabilire che è parte integrante del fabbricato l'area
occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce
pertinenza, la Cassazione va oltre e, dando una chiave di
lettura «di conio giurisprudenziale», ha aggiunto che per
non essere assoggettata a imposizione occorre un'apposita
denuncia del contribuente sull'uso dell'area nel momento in
cui avviene la destinazione.
Dal punto di vista fiscale, poi, è irrilevante la
circostanza che un'area pertinenziale e una costruzione
principale siano censite catastalmente in modo distinto, al
fine di poter essere assoggettate a tassazione come un unico
bene o di usufruire delle agevolazioni. Come precisato dalla
commissione regionale, però, il vincolo pertinenziale deve
essere visibile e va rilevato dallo stato dei luoghi, a
prescindere dal fatto che in catasto l'area e il fabbricato
non risultino accorpati. In caso contrario, i due immobili
sono soggetti a imposizione autonomamente.
Le stesse regole valgono per l'Imu. Infatti, nulla cambia
per l'imposizione delle aree edificabili con la disciplina
della nuova imposta locale rispetto all'Ici. Anche per l'Imu
vengono richiamate le disposizioni contenute negli articoli
2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto
riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la
determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla
normativa Ici.
Per definire gli aspetti controversi della
nozione di area edificabile, il legislatore è intervenuto
due volte con norme di interpretazione autentica. L'imposta
è dovuta se l'area è inserita in un piano regolatore
generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato
dalla regione. L'articolo 36, comma 2, del decreto-legge
legge 223/2006 ha stabilito che un'area sia da considerare
fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base
allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune,
indipendentemente dall'approvazione della regione e
dall'adozione di strumenti attuativi.
La tesi della Cassazione. Secondo la Cassazione (sentenza
5755/2005) per la pertinenza di un fabbricato non contano le
risultanze catastali, ma la destinazione di fatto.
Il terreno che costituisce pertinenza di un fabbricato non è
soggetto a Ici e Imu come area edificabile, anche se
iscritto autonomamente al catasto. Sempre la Cassazione, con
la sentenza 17035/2004, ha chiarito che per le aree
edificabili non si introduce alcuna particolare e nuova
accezione di pertinenza ai fini Ici ma, semplicemente, se ne
presuppone il significato, in quanto va fatto riferimento
alla definizione fornita, in via generale, dall'articolo 817
c.c. Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze
le cose destinate in modo durevole al servizio o
all'ornamento di un'altra cosa. Pertanto, per il vincolo
pertinenziale serve sia la durevole destinazione della cosa
accessoria a servizio o ornamento di quella principale, sia
la volontà dell'avente diritto di creare la destinazione.
Accertare la sussistenza di questo vincolo comporta un
apprezzamento di fatto.
Il tributo comunale non può essere richiesto per l'assenza
di accorpamento (cosiddetta «graffatura») dell'area al
contiguo fabbricato, ancorché costituenti unità catastali
separate. L'autonomo accatastamento non rende irrilevante
l'uso di fatto del terreno come pertinenza. Tanto meno
rileva la presenza o meno di segni grafici, che sono
inconsistenti sul piano probatorio. Tuttavia, nonostante
vengano ribaditi questi principi e la rilevanza della
destinazione «di fatto» di un bene come pertinenza, non ci
si può sottrarre all'obbligo di denuncia ogni volta che
nella situazione possessoria del contribuente s'introduca
una modificazione. Se l'interessato non ha affermato la sua
pertinenzialità in via di specialità, vuol dire che ha
voluto lasciare il bene nella sua condizione di area
fabbricabile.
Pertanto, qualora voglia fruire dell'intassabilità
dell'area, è tenuto a comunicare all'ente che è destinata a
pertinenza del fabbricato sia nella denuncia originaria sia,
qualora abbia omesso questa indicazione, in una successiva
dichiarazione di variazione, che può essere presentata in
qualsiasi momento (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.08.2013). |
TRIBUTI: La Tares va pagata
entro fine 2013. L'Economia boccia
le rateazioni.
Tares 2013 va pagata dai contribuenti entro fine anno senza
alcuna possibilità per i Comuni di differire il versamento
nei primi mesi del 2014.
Lo ha chiarito il ministero
dell'Economia e delle finanze con una nota del 9 agosto
scorso emessa in sede di esame di una delibera comunale che
fissava il termine per il pagamento delle ultime due rate
nel 2014 (31 gennaio e 28 febbraio).
Il Mef evidenzia che i Comuni, nel disciplinare il numero e
la scadenza delle rate Tares 2013, incontrano il vincolo
costituito dalla riserva allo Stato della maggiorazione sui
servizi indivisibili (0,30 euro al metro quadro), il cui
gettito deve essere in ogni caso assicurato all'Erario entro
l'anno in corso. Ciò anche al fine di pervenire a un'esatta
determinazione del fondo di solidarietà comunale, del fondo
perequativo e dei trasferimenti erariali dovuti ai comuni
della Regione Siciliana e della Regione Sardegna.
A
decorrere dal 2014, infatti, la possibilità di quantificare
con precisione l'entità della maggiorazione standard è
pregiudicata dal riconoscimento della facoltà per i Comuni
sia di elevare la misura della maggiorazione sino a 0,40
euro, sia di riscuotere la Tares anche mediante «le altre
modalità di pagamento offerte dai servizi elettronici di
incasso e di pagamento interbancari», uscendo così
dall'unico canale (F24 o bollettino postale centralizzato)
che consente di individuare i flussi relativi alla
maggiorazione in questione.
La chiusura del Mef è quindi dettata da esigenze di
tracciabilità della maggiorazione Tares, anche per
consentire allo Stato di introitare entro l'anno l'importo
previsto di un miliardo di euro, cifra destinata a ridursi
se i Comuni decidessero di differire il pagamento nel 2014.
Per ovviare a tale problema l'Ifel –con nota del 10.05.2013– ha ritenuto possibile stabilire l'ultima scadenza
anche nel 2014, purché il versamento della maggiorazione
avvenga in ogni caso entro la fine del 2013. Soluzione in
realtà non del tutto conforme alla normativa, che collega il
versamento della maggiorazione all'ultima rata del tributo,
ma dettata dal buon senso di dilazionare maggiormente il
pagamento della Tares, vista la partenza travagliata del
nuovo tributo e considerato che molti comuni stanno ancora
riscuotendo la Tarsu del 2012.
Tuttavia il Mef sembra escludere anche tale opzione in
quanto contrasterebbe con le regole sulla contabilità ed in
particolare con l'articolo 179 del Tuel: in tal senso si
sarebbe peraltro espresso il Viminale.
Diversi Comuni dovranno quindi mettersi in regola e rivedere
le scelte già effettuate. Senza considerare che nel
frattempo il Governo potrebbe sostituire la maggiorazione
Tares con la service tax, eliminando così il principale
impedimento a riscuotere una parte del tributo di quest'anno
nel 2014 (articolo Il
Sole 24 Ore del 26.08.2013). |
TRIBUTI: Scadenze Tares entro il 2013.
Il gettito della maggiorazione va assicurato entro l'anno.
Lo ha chiarito il ministero
dell'economia e delle finanze in una nota inviata a un
comune.
Il comune nel disciplinare il numero e la scadenza delle
rate della Tares per l'anno 2013 incontra il vincolo
costituito dalla riserva allo stato della maggiorazione
standard.
È questa la conclusione a cui è giunto il
ministero dell'economia e delle finanze in una recente nota
inviata a un comune.
L'art. 10, c. 2, del dl 35/2013 ha
previsto che, per l'anno 2013 e in deroga alle previsioni
contenute nella disciplina della Tares a regime (art. 14, c.
35, dl 201/2011), la scadenza e il numero delle rate di
versamento del tributo sono stabilite con deliberazione,
adottata dal Consiglio comunale (circolare Mef n. 1/Df/2013),
anche nelle more della regolamentazione comunale del
tributo.
A tale proposito, mentre a regime il citato comma
35 stabilisce che la scadenza delle rate della Tares è
fissata nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre di
ogni anno, salvo diversa regolamentazione comunale, per
l'anno 2013 i comuni erano liberi di determinare le
tempistiche di pagamento del tributo, anche anticipando la
prima scadenza fissata dalla legge nel mese di luglio. Gli
enti potevano, per il 2013, derogare le norme di legge sia
per quanto concerne la scadenza delle rate che per la loro
quantificazione.
Era sorta, invece, più di qualche
perplessità sulla possibilità di stabilire termini di
pagamento del tributo riferito all'anno 2013 scadenti dopo
il 31 dicembre del medesimo anno. Ciò per effetto della
disposizione contenuta nel c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013
in virtù della quale, sempre per il 2013, la maggiorazione
alla Tares, disciplinata dall'art. 14, c.13, del dl 201/2011
e pari ad 0,30 a metro quadrato, viene riservata allo stato
e versata in unica soluzione unitamente all'ultima rata del
tributo, a mezzo del modello F24 o dell'apposito bollettino
di conto corrente postale approvato con il dm 14/05/2013 (e
non anche mediante le nuove modalità di pagamento tramite
servizi elettronici di incasso e di pagamento interbancari,
introdotte in aggiunta agli altri strumenti appena ricordati
dal citato dl 35/2013).
Come già precisato dalla circolare
del ministero dell'economia n. 1/Df del 29/04/2013, il
versamento della maggiorazione da effettuarsi in favore
dello stato è rinviato all'ultima rata del tributo, scadente
nel mese di ottobre o alla data stabilita dal comune con la
deliberazione prevista dal c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013.
La legge e la circolare appena citata nulla dicono però su
quali limiti temporali incontri la fissazione della scadenza
dell'ultima rata del pagamento da parte del comune,
spingendo taluni enti a stabilire scadenze cadenti anche nel
2014 (specie quelli che ordinariamente ponevano in
riscossione la Tarsu nell'anno successivo a quello di
competenza, nel rispetto del termine annuale di decadenza
stabilito dall'art. 72 del dlgs 507/93).
Tuttavia, come
precisato dalla recente nota del ministero, la presenza
della riserva della maggiorazione allo stato pone dei limiti
ben precisi alla potestà regolamentare comunale che, come
noto, non può estendersi oltre i tributi di propria
competenza. L'esigenza di assicurare all'erario il gettito
della maggiorazione entro il 2013 impone che il versamento
della stessa scada entro la fine del predetto anno. Ciò, in
base alla nota ministeriale, anche per la necessità di
quantificare il gettito della maggiorazione standard
(operazione che sarebbe pregiudicata negli anni successivi
dalla facoltà attribuita ai comuni di incrementare la
maggiorazione fino a 0,40 a mq e dalla possibilità di
adottare canali di pagamento diversi dal F24 e dal
bollettino postale unico nazionale).
Tuttavia, da un'attenta
lettura, la nota non pare precludere del tutto la
possibilità di riscuotere una o più rate Tares nel 2014,
premurandosi solo di precisare che in ogni caso il comune
deve porre in essere le attività necessarie ad assicurare
che la maggiorazione sia corrisposta nel 2013. In tale modo
viene lasciato spazio all'interpretazione per la quale i
comuni potrebbero fissare scadenze di versamento della Tares
anche oltre il 31/12/2013, purché la maggiorazione sia
versata, con le modalità previste dalla legge, con l'ultima
rata scadente nel 2013 (vedasi nota Ifel 10/05/2013).
Tuttavia una tale soluzione appare in contrasto con il
dettato normativo che impone il versamento della
maggiorazione in unica soluzione unitamente all'ultima rata
del tributo (art. 10, c. 2, lett. c, dl 35/2013). Per il
ministero la fissazione di scadenze oltre il 2013 desta
perplessità dal punto di vista contabile, con riferimento
all'accertamento della corrispondente entrata
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
TRIBUTI:
Imu, niente agevolazioni prima casa per Ater e Iacp.
Gli immobili posseduti dalle cooperative di edilizia
residenziale pubblica (Ater, Iacp) non hanno diritto al
trattamento agevolato che la legge ha riservato per l'Imu a
quelli adibiti a abitazione principale.
Lo ha affermato il TAR Abruzzo-Pescara, con la
sentenza
13.08.2013 n. 434.
Per il Tar il legislatore ha «inteso
favorire in via indiretta la fissazione da parte dei comuni,
compatibilmente con le esigenze di bilancio, di un'aliquota
meno onerosa nei confronti di tali alloggi». Solo nel caso
in cui la situazione finanziaria lo consenta, per i
fabbricati posseduti da Ater e Iacp, l'amministrazione
comunale può fissare un'aliquota inferiore a quella di base
(0,76%). Deciso, quindi, in senso favorevole ai comuni il
contenzioso con le aziende di edilizia residenziale
pubblica, che si trascina già dai tempi di applicazione
dell'Ici, sul trattamento fiscale degli immobili assegnati
ai soci, utilizzati come prima casa.
In varie parti
d'Italia, infatti, sono ancora pendenti le cause sulla
legittimità delle delibere comunali che non hanno
riconosciuto per gli immobili posseduti da questi enti
l'aliquota agevolata. In effetti, come posto in rilievo dal
Tar, ex lege i benefici fiscali sono limitati solo alla
detrazione d'imposta prevista dall'art. 13 del dl 201/2011
(Salva Italia).
Con l'introduzione dell'Imu è stata
prevista, per le abitazioni possedute da Ater e Iacp,
l'aliquota base ordinaria dello 0,76% per le seconde case,
con facoltà di aumentarla o diminuirla del 3%, anziché
quella agevolata dello 0,40%, contemperando il più gravoso
regime fiscale con la previsione della detrazione di 200
euro prevista per le abitazioni principali. L'art. 13 ha
lasciato, poi, ai comuni la facoltà, come già stabilito per
l'Ici fino al 2007, di fissare l'aliquota.
Del resto, solo
nel momento in cui è stata eliminata l'imposizione sulla
prima casa, Iacp e Ater sono state esentati dal pagamento
del tributo, nel periodo che va dal 2008 al 2011. A parte
questo arco temporale in cui hanno fruito dell'esenzione,
sin dal 1992, anno di istituzione dell'imposta comunale,
alle cooperative edilizie è stata riconosciuta solo la
detrazione d'imposta e non l'aliquota agevolata
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2013). |
TRIBUTI:
Ici e Imu con il diritto reale.
Domanda
Si ha un condominio in cui una parte del giardino (avente
una propria particella catastale) è stata data in uso
esclusivo permanente ad un condomino (proprietario del
negozio al piano terra) con i primi atti di vendita. Tale
diritto reale di uso esclusivo permanente risulta dagli atti
notarili di chi acquistò dalla ditta costruttrice però tale
diritto non era stato trascritto. Successivamente, senza
avvertire gli altri comproprietari (condomini), il
possessore di tale diritto ha costruito un fabbricato
commerciale e ne ha chiesto il condono edilizio. Ora, dalla
visura catastale di detta particella, risulta un fabbricato
categoria C/1. Da chi sono dovute l'Ici e l'Imu? Dalla
normativa risulterebbe che le imposte sono dovute da chi
gode del diritto reale.
Risposta
La risposta è affermativa. Ai fini Imu (così come, in
precedenza, ai fini Ici) rileva la proprietà o la titolarità
di un diritto reale di godimento sull'immobile. Ciò sia per
il pagamento dell'imposta che per gli obblighi di denuncia.
Il riferimento normativo è dato dall'art. 13 del dl n.
201/2011 (L. n. 214/2011) e dall'art. 9, c. 1 del dlgs n.
23/2011): «Soggetti passivi dell'imposta municipale propria
sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le
aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi
quelli strumentali o alla cui produzione o scambio e'
diretta l'attività dell'impresa, ovvero il titolare di
diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi,
superficie sugli stessi. Nel caso di concessione di aree
demaniali, soggetto passivo è il concessionario. Per gli
immobili, anche da costruire o in corso di costruzione,
concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il
locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta
la durata del contratto». Analoghe considerazioni valgono
anche ai fini delle imposte sui redditi (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
TRIBUTI: Sentenza
del Tar puglia.
Vecchi affidamenti non validi per Imu e Tares.
Imu e Tares sono due tributi diversi dall'Ici e dalla Tarsu.
Quindi, sono privi di effetti i contratti di affidamento
delle attività di accertamento e riscossione Ici e Tarsu in
seguito alla loro abolizione. Il concessionario non può
pretendere di mantenere in vita il rapporto con il comune
per gestire i nuovi tributi che li hanno sostituiti. Le
norme sopravvenute, che hanno istituito Imu e Tares, hanno
abolito l'oggetto delle precedenti concessioni.
Lo ha
stabilito il TAR
Puglia-Lecce, Sez. III, con la
sentenza
05.08.2013 n. 1771.
In effetti, gli articolo 13 e 14 del dl Monti (201/2011)
hanno istituito l'Imu e la Tares in sostituzione di Ici,
Tarsu e Tia. Per il giudice amministrativo, le norme
sopravvenute hanno «abolito» e non meramente «modificato»
l'oggetto delle precedenti concessioni. Quindi,
l'affidamento in concessione del servizio «deve intendersi
decaduto “ipso iure” in ragione dei nuovi provvedimenti
legislativi statali» che hanno abolito l'Ici e la Tarsu. Per
i nuovi affidamenti è necessaria la gara a evidenza
pubblica.
Le attività di accertamento e riscossione delle entrate
locali, infatti, possono essere affidate solo con gara.
Peraltro è stata cancellata la norma della Finanziaria 2002
che consentiva ai concessionari dell'imposta sulla
pubblicità di aggirare le regole sulle gare, rinegoziando i
contratti in corso con gli enti locali. L'articolo 10 della
legge europea n. 97 del 06.08.2013 ha abrogato l'articolo
10 della legge 448/2001, che dava ai comuni la facoltà di
prorogare i contratti in corso al 01.01.2002. La norma
europea dispone la cessazione di tutti gli incarichi
conferiti in base alla norma abrogata l'ultimo giorno del
terzo mese successivo alla data della sua entrata in vigore
(4 settembre), a meno che non siano già scaduti prima.
Solo per i rapporti pendenti al 01.10.2006, in seguito
alla riforma della riscossione, è ancora oggi prevista la
proroga dei contratti in corso dei comuni con Equitalia e
gli altri concessionari iscritti nell'albo ministeriale.
Alla società pubblica, che ex lege avrebbe dovuto chiudere i
rapporti con i comuni il 30 giugno scorso, per le attività
di accertamento e riscossione delle entrate di questi enti,
è stata concesso un ulteriore differimento in sede di
conversione del decreto legge 35/2013 (legge 64/2013).
L'articolo 10 del citato decreto stabilisce che le
convenzioni in corso tra comuni e Equitalia, nonché con le
società da questa partecipate, sono prorogate fino alla fine
del 2013. Il differimento fino alla fine dell'anno è stato
fissato anche per le altre società concessionarie
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2013). |
TRIBUTI: Tributi locali, vietato allargarsi.
I comuni non possono ampliare l'oggetto dei contratti.
La legge europea 2013 cancella la norma di favore
per i gestori dell'imposta sulla pubblicità.
I comuni non potranno più ampliare l'oggetto dei contratti
di affidamento del servizio di accertamento e riscossione
dell'imposta sulla pubblicità, assegnando ai concessionari
anche la riscossione di altre entrate comunali senza indire
nuove gare.
Lo vieta la legge europea 2013 approvata
mercoledì dall'aula della camera.
Il ddl di 34 articoli pone
rimedio ai numerosi casi di non corretto recepimento della
normativa Ue nell'ordinamento italiano che hanno portato
all'avvio di 10 procedure di pre-infrazione e 19 procedure
di infrazione nei confronti del nostro paese.
E tra i rilievi mossi alla legislazione italiana, Bruxelles
ha posto sotto la lente anche l'attività di riscossione
locale, un campo su cui da tempo l'Europa chiede una
maggiore apertura al mercato e alla concorrenza.
La soppressione della norma (art. 10, comma 2, legge
n. 448/2001) si è resa necessaria a seguito di una specifica
richiesta di informazioni da parte della Commissione
europea, nell'ambito del caso Eu Pilot 3452/12/Markt.
Secondo la Commissione infatti tale fattispecie di
affidamento diretto, non rispettando il principio di libera
concorrenza, avrebbe potuto generare violazioni della
normativa europea sui contratti pubblici.
In verità, fin dalla sua introduzione all'interno della
Finanziaria 2002 (legge 448/2001), l'art. 10, comma 2 (a sua
volta precisato e integrato dalla legge 75/2002) ha
rappresentato una norma molto controversa. A originarla fu
il tentativo dell'allora governo Berlusconi di compensare i
concessionari della pubblicità comunale della perdita di
introiti derivanti dall'abbattimento della soglia minima di
imposizione. In pratica, visto che cartelloni e insegne al
di sotto dei cinque metri quadri non erano più soggetti al
pagamento dell'Icp, i concessionari chiesero al governo di
poter estendere il proprio giro d'affari ad altre attività,
fino a mettere le mani su larghe fette della riscossione
locale, senza alcuna gara ad evidenza pubblica. E questo è
accaduto non solo nei piccoli comuni, ma anche in quelli
medio-grandi. Paradigmatico il caso di Brindisi dove Tributi
Italia, partendo dall'affidamento dell'accertamento e
riscossione dell'Icp, arrivò a gestire tutti i tributi
dell'ente.
Per rimediare a queste storture, da più parti gli operatori
del settore chiesero una revisione della norma che limitasse
la quota di ulteriori tributi affidabile senza gara al solo
mancato guadagno sofferto dai concessionari per l'esenzione
delle insegne sotto i cinque metri quadri. Tra i più fermi
oppositori della norma si è distinta l'Anutel
(l'Associazione che raggruppa gli uffici tributi degli enti
locali) che oggi applaude alla decisione del governo Letta
di abrogarla all'interno della legge europea 2013.
Nel provvedimento ha inoltre trovato posto un articolo che
consente ai familiari di cittadini dell'Unione europea, ai
soggiornanti di lungo periodo, ai rifugiati e ai titolari
dello status di protezione sussidiaria di poter accedere ai
ruoli della pubblica amministrazione. Anche in questo caso
le modifiche sono state originate da rilievi critici mossi
dalla Commissione europea (nell'ambito dei casi Eu Pilot
1769/11/Just e 2368/11/Home)
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
luglio 2013 |
|
TRIBUTI:
L. Leombruni,
La TARES e il riordino
dei prelievi sui servizi di smaltimento dei rifiuti
(tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Conegliano (Treviso) - Immobili dichiarati di
interesse culturale ai sensi della legge 20.06.1909 n. 364 -
Richieste di rimborso ICI ovvero IMU - Quesito (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
nota 31.07.2013 n. 13764 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Dichiarazioni in catasto di Unità Collabenti
(categoria F/2) (Agenzia delle Entrate, Direzione
Centrale Catasto e Cartografia,
nota 30.07.2013 n. 29440 di prot.). |
TRIBUTI: Denuncia Tarsu, sanzione unica.
La sanzione per l'omessa denuncia Tarsu deve essere
applicata una sola volta. Di più. Se l'obbligo di
dichiarazione era scattato oltre cinque anni prima della
contestazione, non è dovuto alcunché.
Questi i principi che si leggono nella sentenza
26.07.2013 n. 123/02/13
della Ctp di Lecco.
Un contribuente agiva contro il comune di Calco (Lc)
per degli avvisi di accertamento relativi ad un locale per
il quale non mai stata presentata la denuncia ai fini della
Tarsu.
Interessante la parte della decisione che riguarda la
sanzione: «La sanzione per l'omessa denuncia deve essere
applicata una sola volta in relazione all'anno rispetto al
quale non è stata presentata la dichiarazione agli effetti Tarsu, atteso che tale dichiarazione non deve essere
ripetuta tutti gli anni, trattandosi di una violazione
tributaria omissiva di carattere istantaneo e non già
permanente».
Dunque, poiché l'omissione che si va a
sanzionare è punibile una sola volta, nel momento in cui è
consumata, ne deriva che, qualora l'obbligo di dichiarazione
sia insorto più di cinque anni prima della constatazione, la
sanzione non può più essere irrogata. «Infatti», afferma la Ctp, «ai sensi dell'articolo 20 del dlgs
472 del 1997, l'atto di contestazione della violazione deve
essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la
violazione».
Ciò che rileva, dunque, è valutare quando il contribuente
sia entrato in possesso del bene: da tale momento scatta
l'obbligo di denuncia e, di conseguenza, il termine
quinquennale per irrogare la sanzione relativa all'eventuale
omissione
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
TRIBUTI: La Tares si paga anche se l'immobile è inutilizzato.
È legittima la pretesa del comune di Bologna di applicare la
Tarsu a un appartamento inutilizzato. Infatti, il cambio di
residenza del contribuente, la denuncia di cessazione
dell'occupazione dell'immobile e il mancato consumo di
energia elettrica non lo esonerano dal pagamento della tassa
rifiuti. Il tributo si paga anche in caso di mancato
utilizzo del servizio di smaltimento svolto
dall'amministrazione comunale.
Lo ha ribadito la Corte di
Cassazione, con l'ordinanza 24.07.2013 n. 18022.
Per i
giudici di piazza Cavour, «dando rilevanza all'avvenuto
trasferimento della residenza anagrafica (ed alla concreta
idoneità del bene a produrre rifiuti, siccome desumibile per
presunzione dal mancato consumo delle erogazioni di energia)
il giudice del merito ha chiaramente violato le norme che
disciplinano il presupposto dell'imposta».
In effetti, sulla
questione della tassabilità degli immobili inutilizzati si
registrano prese di posizione diverse tra Cassazione,
giudici tributari e ministero dell'economia e delle finanze.
Anche le amministrazioni comunali non hanno quasi mai
applicato la regola fissata dalla Suprema corte, la quale ha
sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento
del tributo sui rifiuti, che è dovuto a prescindere dal
fatto che il contribuente utilizzi l'immobile. Ex lege,
vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non
utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati). Non ha
alcuna rilevanza la scelta soggettiva del titolare di non
utilizzare l'immobile.
Anche il mancato arredo non
costituisce prova dell'inutilizzabilità dell'immobile e
della inettitudine alla produzione di rifiuti. Un alloggio
che il proprietario lasci inabitato e non arredato si rivela
inutilizzato, ma non oggettivamente inutilizzabile. Per la
prima volta il principio è stato affermato con la sentenza
16785 del 30.11.2002. Regola ribadita con le sentenze
9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre.
Da ultimo, sempre
la Cassazione (ordinanza 1332 del 21.01.2013) ha
stabilito che l'esonero dal pagamento del tributo non spetta
neppure quando il contribuente fornisca la prova
dell'avvenuta cessazione di un'attività industriale. Il Mef
invece, nelle linee guida che ha fornito ai comuni sulla
corretta applicazione della Tares, ha precisato che non sono
soggetti al pagamento le unità immobiliari privi di mobili e
di allacci alle reti idriche e elettriche, che di fatto non
vengono utilizzate
(tratto da ItaliaOggi del
17.08.2013). |
TRIBUTI:
Fabbricati rurali, Ici nel caos. Per la Cassazione
l'agevolazione dipende dal catasto.
La tesi dei giudici di legittimità si scontra con le
previsioni di Mineconomia e Territorio.
I fabbricati rurali sono esenti da Ici solo se inquadrati
catastalmente nelle categorie A/6, se destinati ad
abitazione, o D/10, se utilizzati per l'esercizio
dell'attività agricola.
Lo ha ribadito la Corte di
Cassazione, con l'ordinanza 19.07.2013 n. 17765.
Non
cambia la posizione della Cassazione sui requisiti che
devono possedere i fabbricati rurali per fruire delle
agevolazioni Ici.
La tesi dei giudici di legittimità, però, contrasta con le
previsioni di legge, con il decreto ministeriale attuativo e
con l'interpretazione sia del ministero dell'economia e
delle finanze sia della dell'Agenzia del territorio, secondo
cui non conta l'inquadramento catastale ma l'annotazione di
ruralità sugli immobili. Dunque, nonostante gli ultimi
interventi legislativi non abbiano riconosciuto alcuna
valenza alle categorie catastali degli immobili, dal 2009 la
Cassazione (sentenza, sezioni unite, n. 18565) non ha mai
cambiato idea e continua a ribadire che i benefici fiscali
per i fabbricati rurali sono condizionati dall'inquadramento
catastale.
L'Agenzia del territorio, con la circolare 2/2012, ha
chiarito che non conta più la classificazione catastale per
avere diritto al trattamento agevolato Ici per i fabbricati
rurali. Possono infatti mantenere le loro categorie
originarie. È sufficiente l'annotazione catastale, tranne
per i fabbricati strumentali che siano per loro natura
censibili nella categoria D/10.
La circolare ha fornito delle indicazioni sulla corretta
interpretazione delle disposizioni contenute nel decreto
ministeriale emanato il 26.07.2012, che ha stabilito, in
dettaglio, quali adempimenti devono porre in essere i
titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione
negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche
per l'Imu delle agevolazioni tributarie, così come disposto
dall'articolo 13 del dl «salva Italia» (201/2011).
Domande e autocertificazioni necessarie per il
riconoscimento del requisito di ruralità, redatte in
conformità ai modelli allegati al decreto ministeriale,
avrebbero dovuto essere presentate all'ufficio provinciale
competente per territorio entro il 01.10.2012, al fine
di ottenere l'esenzione anche per gli anni pregressi.
L'eventuale di diniego di ruralità è impugnabile innanzi
alle commissioni tributarie. Infatti, nel caso di esito
negativo del controllo sulle domande e autocertificazioni
prodotte dagli interessati, l'Agenzia è tenuta a notificare
un provvedimento motivato con il quale disconosce il
requisito della ruralità. Dagli atti catastali devono
risultare anche le annotazioni negative sugli immobili, che
impediscono ai contribuenti di poter fruire dei vantaggi
fiscali. Anche secondo il dipartimento delle finanze del
ministero dell'economia (circolare 3/2012) la
classificazione catastale non è più decisiva.
Bisogna ricordare che dal 2012, con l'introduzione dell'Imu,
sono cambiate le regole sulle agevolazioni. In effetti, gli
immobili adibiti ad abitazione di tipo rurale sono soggetti
al pagamento della nuova imposta municipale con applicazione
dell'aliquota ordinaria, a meno che non siano destinati a
prima casa. Mentre per quelli strumentali, vale a dire
quelli utilizzati per la manipolazione, trasformazione e
vendita dei prodotti agricoli è stata concessa la
sospensione del pagamento dell'acconto di giugno (dl
54/2013) e, successivamente, è stata disposta l'abolizione
della prima rata dall'articolo 1 del dl sull'imposizione
immobiliare e la finanza locale (102/2013).
A tutt'oggi viene confermata l'esenzione solo per i
fabbricati strumentali ubicati in comuni montani o
parzialmente montani indicati in un elenco predisposto
dall'Istat.
Va inoltre precisato che i possessori di fabbricati rurali
strumentali non sono tenuti a presentare la dichiarazione
Imu, neppure per gli immobili che sono iscritti al catasto
terreni e che entro il 30.11.2012 avrebbero dovuto
transitare a quello edilizio urbano. È una delle indicazioni
contenute nelle istruzioni al modello di dichiarazione
approvato con decreto ministeriale.
Secondo il ministero dell'economia e delle finanze, rientra
nell'ottica della semplificazione amministrativa esonerare i
titolari di questi immobili dall'obbligo di presentazione
della dichiarazione, considerato che l'Agenzia del
territorio rende disponibile sul portale dei comuni le
domande presentate per il riconoscimento del requisito di
ruralità (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.09.2013). |
TRIBUTI: G.U.
19.07.2013 n. 168 "Testo
del decreto-legge 21.05.2013, n. 54, coordinato con la legge
di conversione 18.07.2013, n. 85, recante: «Interventi
urgenti in tema di sospensione dell’imposta municipale
propria, di rifinanziamento di ammortizzatori sociali in
deroga, di proroga in materia di lavoro a tempo determinato
presso le pubbliche amministrazioni e di eliminazione degli
stipendi dei parlamentari membri del Governo»". |
TRIBUTI:
Il casone rurale non è di lusso.
Metri quadri insufficienti a definirlo tale.
In un'abitazione di tipo agricolo, la sola superficie
maggiore di 240 metri quadrati non è sufficiente a renderla
«abitazione di lusso»; il solo riferimento alla superficie
della casa, infatti, non può far rientrare un immobile
agricolo tra quelli di lusso.
Sono le conclusioni raggiunte dalla Commissione tributaria
provinciale di Cremona, che si leggono nella sentenza
19.07.2013 n.
62/2/13.
Gli
immobili adibiti ad abitazione principale di un nucleo
familiare godono di diversi benefici fiscali, sia per quello
che riguarda il loro acquisto sia per l'imposizione fiscale
relativa ai tributi locali e sui redditi. Tra questi
immobili, che costituiscono abitazione principale, sono
escluse, tuttavia, le abitazioni che, presentando
determinate caratteristiche, possano essere ritenute di
lusso e non rientrano tra le categorie agevolate. Sono,
quindi, ritenute tali (di lusso) quelle abitazioni che
abbiano almeno quattro caratteristiche tra quelle indicate
nella tabella allegata al decreto ministeriale 02.08.1969.
Sono, inoltre, ritenute sempre di lusso, tra le altre,
le singole unità abitative di superficie superiore a 240
metri quadrati, computate con l'esclusione di balconi,
terrazze, cantine, soffitte, scale e posto macchina. Nel
caso trattato dai giudici lombardi, le Entrate di Cremona,
dopo aver rilevato che l'immobile indicato dai contribuenti
in successione aveva una superficie di 270 mq, con la
liquidazione impugnata revocavano le agevolazioni fiscali
per la prima casa.
In sede di ricorso avverso la stessa
liquidazione erariale, i ricorrenti palesavano che, sia pure
di superficie superiore ai 240 metri quadri, l'immobile non
aveva le caratteristiche di lusso che potevano giustificare
la pretesa fiscale; dai documenti allegati al ricorso si
poteva agevolmente rilevare che si trattava di una
abitazione rurale. Gli stessi giudici, dopo aver verificato
la consistenza dell'immobile, di tipo agricolo, hanno
annullato la liquidazione e stabilito «che il solo
riferimento alla metratura della casa (mq 270) non possa far
rientrare la stessa nelle abitazioni di lusso»
(articolo ItaliaOggi del
05.10.2013). |
TRIBUTI:
Rifiuti, tassato anche il parcheggio a pagamento.
Cassazione. Stesso principio per la Tares.
LE AREE DI PERTINENZA/
Sono esclusi dal tributo solo gli spazi sosta che sono al
servizio di altre strutture private quali i supermercati.
È soggetta alla Tarsu l'area pubblica adibita a parcheggio a
pagamento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza
17.07.2013 n.
17434 (e altre tre analoghe depositate
in pari data), rigettando il ricorso della società che
gestiva il parcheggio in convenzione con il Comune.
Viene
così confermato l'esito del giudizio di appello, concluso
con la tassazione dei parcheggi trattandosi di aree
frequentate da persone e quindi produttive di rifiuti in via
presuntiva, anche in considerazione del naturale flusso
giornaliero di autovetture, dato ovvio e non bisognevole di
specifica dimostrazione.
Sulla questione la Cassazione in passato si era già espressa
in senso conforme, distinguendo i parcheggi pertinenziali -come quelli gratuiti dei supermercati- dai parcheggi a
pagamento quali aree operative, cioè oggetto di un'attività
economica.
Solo nel secondo caso scatta il presupposto della Tarsu,
costituito dall'occupazione o detenzione di aree produttive
di rifiuti, a prescindere dall'esistenza di un contratto tra
il gestore del parcheggio e l'ente pubblico (Cassazione
decisioni 14770/2000, 1179/2004, 3852/2005, 13241/2005).
L'orientamento è stato confermato anche per i parcheggi non
recintati e contrassegnati da strisce blu, trattandosi di
aree sottratte all'uso collettivo proprio del suolo
pubblico, attesa la funzione esclusiva oggetto della
concessione (Cassazione 15851/2011 e 13100/2012).
Si tratta di principi applicabili anche alla Tares, il nuovo
tributo sui rifiuti e sui servizi che da quest'anno
sostituisce gli attuali prelievi Tarsu, Tia1, Tia2.
Tuttavia la disciplina originaria contenuta nel Dl 201/2011
escludeva dalla Tares solo le aree scoperte pertinenziali o
accessorie a civili abitazioni e le aree comuni condominiali
non occupate in via esclusiva. Ciò costituiva un elemento di
novità rispetto al passato, perché diventavano imponibili
tutte le aree scoperte degli operatori economici, senza più
distinzione tra aree operative e aree pertinenziali, come i
parcheggi dei supermercati o le aree di manovra degli
stabilimenti industriali.
Restavano invece escluse dal tributo solo le aree
pertinenziali delle unità abitative (balconi, terrazze,
posti macchina scoperti eccetera).
È poi intervenuto il Dl 35/2013 che ha reintrodotto la stessa
disciplina della Tarsu escludendo dalla tassazione le aree
scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili
diversi dalle abitazioni.
Si evita così di ampliare la base imponibile per le imprese
ma allo stesso tempo si ripropone la querelle –spesso
foriera di contenzioso– sulla distinzione delle aree pertinenziali (non tassabili) da quelle operative
(tassabili), questione peraltro che il Dl 201/11 aveva
intenzionalmente eliminato.
Non solo. La norma di esclusione è riferita solamente ai
«locali», quindi a rigore sarebbero tassabili tutte le aree
accessorie adibite ad "aree" scoperte operative, come la
viabilità interna di un campeggio o le aree di collegamento
tra depositi scoperti di un'attività economica in genere (tratto da Il Sole 24 Ore del
19.08.2013). |
TRIBUTI: Tarsu dovuta per i gestori di parcheggi pubblici.
I gestori di parcheggi pubblici sono tenuti a pagare la
tassa rifiuti anche se l'attività viene svolta sulle aree
che hanno questa destinazione, in seguito alla stipula di
una convenzione con l'amministrazione comunale. I parcheggi,
infatti, sono produttivi di rifiuti perché frequentati da
persone e soggetti a un naturale flusso giornaliero di
autovetture.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con la
sentenza 17.07.2013 n. 17434.
Secondo la Cassazione, la tassa è dovuta dal soggetto che
occupi o detenga un'area scoperta per la gestione di un
parcheggio affidatagli in concessione. È del tutto
irrilevante l'affidamento in concessione della gestione del
parcheggio e il rapporto contrattuale con il comune. Nella
pronuncia viene, infatti, precisato che il presupposto
impositivo della Tarsu è costituito dal mero fatto oggettivo
dell'occupazione del locale o dell'area scoperta a qualsiasi
uso adibita.
E non è esonerato dal pagamento il soggetto che
utilizzi un'area per la gestione di un parcheggio, a
prescindere dal titolo giuridico in base al quale è
effettuata l'occupazione. Del resto, la gestione dei
parcheggi attribuisce al titolare il diritto a fruire in
proprio del bene e gli consente di realizzare dei ricavi che
costituiscono il prezzo dello svolgimento dell'attività.
Nonostante l'uso del parcheggio sia collettivo, viene
comunque pagato un corrispettivo.
Sono esclusi dalla tassazione, oltre alle aree pertinenziali
(cosiddette non operative), solo gli immobili non
utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati) o quelli
improduttivi di rifiuti.
Non sono esentate neppure le aree a verde. L'articolo 62 del
decreto legislativo 507/1993 dispone che non sono soggetti
alla tassa i locali e le aree che non possono produrre
rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui
sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive
condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno,
qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia.
La Cassazione ha più volte precisato che per l'esclusione
dal pagamento del tributo la condizione di impossibilità di
produrre rifiuti deve dipendere da fattori oggettivi e
permanenti e non dalla contingente e soggettiva modalità di
utilizzazione delle aree
(tratto da ItaliaOggi del
14.08.2013). |
TRIBUTI:
Regolamento COSAP sui passi carrabili, quando è facoltativo
il pagamento?
Domanda
Il regolamento COSAP sui passi carrabili distingue i passi
carrabili con opere (quali tagli nei marciapiedi, scivoli,
rampe, copertura di fossi o modifiche per facilitare
l'accesso alla proprietà privata) per i quali è previsto il
pagamento del COSAP e i passi carrabili a raso per i quali
il pagamento del COSAP è facoltativo (Cass. civ. Sez. V,
27.07.2007, n. 16733).
Un cittadino dice che il suo passo carrabile, davanti al
quale vi è un marciapiede ab origine "basso"
non modificato con rampa di accesso, scivolo o altro e che
non ha subito tagli, è a raso.
Il Comune ritiene che il cittadino debba pagare il COSAP
siccome il marciapiede ai sensi del C.d.S. [art. 3, comma 1
p. 33)] è parte della strada, esterna alla carreggiata,
destinata ai pedoni sul quale è vietata la sosta e la
circolazione dei veicoli ed è un'opera visibile che rende
certa la superficie sottratta all'uso pedonale quando viene
attraversato con l'auto anche se non ha subito modifiche o
tagli davanti l'accesso.
L'interpretazione del Comune è corretta?
Risposta
La tesi del Comune
non è condivisibile in quanto la questione non è legata
all'esistenza o meno del marciapiede, secondo la definizione
dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, ma alla
circostanza che sussista un manufatto che, di fatto, occupi
il suolo pubblico a vantaggio di un privato. In altre parole
è la modifica (la c.d. "opera visibile") del
marciapiede stesso a creare il presupposto oggettivo della
"tassabilità", non l'accessibilità del privato che dispone
del varco.
Si tenga conto del fatto che è lo stesso Comune ad aver
disciplinato nel proprio Regolamento la definizione di passo
carraio a raso [art. 38, comma 2, lett. b)] e ad aver
previsto (art. 45) la tassabilità solo in presenza di
richiesta di apposizione del cartello.
Peraltro chi scrive ritiene che la disciplina del COSAP,
diversamente da quella della TOSAP, non consenta, in punto
diritto, la tassazione dei passi carrai a raso in quanto
sic et simpliciter segnalati da cartello. Ciò perché
l'art. 63 del D.Lgs. 15.12.1997, n. 446 non prevede nulla a
riguardo, diversamente da quanto stabilito al comma 8
dell'art. 44 del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 che ne legittima
l'imposizione ma che nel contempo è norma che risulta
evidentemente una deroga al principio di tassabilità
soltanto nei casi di effettive occupazioni di suolo
pubblico.
Lo strumento corretto per pretendere una prestazione
patrimoniale nei casi di passi a raso con cartello nei
Comuni che hanno abbandonato la tassa dovrebbe essere, ad
avviso di chi scrive, il canone ex art. 27 del D.Lgs.
30.04.1992, n. 285, in quanto il presupposto non è soltanto
l'occupazione (che qui non c'è), ma anche l'uso (comma 7
dell'art. 27 e art. 22) (17.07.2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
TRIBUTI: Bocciatura per il riclassamento degli estimi.
L'assenza di parametri non apre la porta all'arbitrio della
pubblica amministrazione. La
decisione del Tar Lecce, che ha accolto le istanze delle
associazioni dei consumatori.
Estimi, il Tar di Lecce accoglie il ricorso delle
associazioni dei consumatori contro il Comune e l'Agenzia
del territorio e stoppa il riclassamento.
La I Sez. del TAR Puglia-Lecce,
con
sentenza 11.07.2013 n. 1621, ha affermato che
«proprio la molteplicità delle possibili causali che, alla
stregua della complessa stratificazione normativa, possono
in concreto esser poste alla base di un atto di riclassamento impone che la motivazione di un tale atto dia
conto della causale concreta per la quale quello specifico
atto è stato adottato, cosicché il contribuente sia messo in
grado di comprenderla e di valutare le sue opportunità di
difesa».
I giudici amministrativi demoliscono l'intera
operazione costata alle casse dello Stato 600 mila euro
soltanto per le notifiche ai cittadini e a quest'ultimi 660
mila euro di ricorsi alla Commissione tributaria, per un
aumento delle rendite catastali disposto dall'Agenzia del
territorio sul 95% del patrimonio immobiliare del territorio
comunale di Lecce.
L'Agenzia, infatti ha notificato alla maggioranza della
popolazione leccese gli avvisi di accertamento con i quali
ha proceduto alla rideterminazione del classamento e alla
conseguente attribuzione della nuova rendita catastale delle
unità immobiliari, basando la motivazione su presunti
interventi di riqualificazione della viabilità interna e di
arredo urbano nel centro storico.
L'illegittimità di tali avvisi in relazione agli atti di
suddivisione del territorio del comune di Lecce in microzone
catastali ai sensi dell'articolo 2 del decreto del
presidente della repubblica 138/1998 , all'atto con il quale
la giunta comunale di Lecce ha attivato la procedura ex art.
1 della legge 311/2004 e la conclusione della stessa, è
stata invocata dai contribuenti sulla base del difetto
istruttorio e motivazionale in cui sono incorse sia
l'amministrazione comunale nel richiedere il riclassamento
sia l'Agenzia del territorio con riferimento alla
istruttoria compiuta e alla conclusione del procedimento, a
partire dalla individuazione delle microzone.
Giova ricordare a tal proposito che l'articolo 1, comma 335,
della legge 311/2004 prevede l'attivazione, su richiesta dei
comuni interessati, di processi di revisione parziale del
classamento delle unità immobiliari urbane ubicate in
microzone comunali, definite ai sensi del decreto del
presidente della repubblica 138/1998, che presentano
carattere di anomalia in termini di rapporti tra il valore
medio immobiliare, rilevato dal mercato, e il valore medio
catastale, rispetto l'analogo rapporto medio calcolato su
tutte le microzone comunali per cui la conditio sine qua non
della procedura di revisione del classamento delle unità
immobiliari site in una determinata microzona, è costituita
dal significativo scostamento tra i due predetti valori.
La norma non individua alcun parametro in base al quale
possa essere oggettivamente ancorata la «significatività»
dello scostamento; tuttavia, il collegio ritiene che
l'assenza di alcun parametro non determini l'arbitrio
dell'amministrazione ma la conseguente valutazione di natura
tecnica che deve pur sempre essere ancorata ai principi di
buon andamento, proporzionalità e efficacia dell'azione
amministrativa.
Di tali principi i giudici amministrativi hanno fatto uso
nella sentenza in commento, laddove ravvisando il deficit
istruttorio nella inadeguatezza dei dati assunti a base del
procedimento, tenuto conto della natura e finalità dello
stesso, hanno annullato tutti gli atti relativi al
procedimento, a partire dalle due delibere del 2010 con le
quali l'amministrazione comunale ha dato incarico
all'Agenzia di procedere al riclassamento (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
TRIBUTI:
Ruralità acclarata, stop al recupero Ici.
Se dalle visure catastali risulta chiaramente l'annotazione
della dichiarata sussistenza di ruralità, i comuni non
possono recuperare l'imposta comunale sugli immobili
pregressa.
Così i giudici aditi della Commissione tributaria
regionale di Firenze che, con la sentenza 10.06.2013 n. 58/25/13,
pronunciata il 04/04/2013, sono
intervenuti sull'eterna diatriba del riconoscimento della
ruralità dei fabbricati, di cui ai commi 3 e 3-bis,
dell'art. 9, dl n. 557/1993.
La sentenza accoglie totalmente
l'appello della ricorrente che era stata raggiunta da un
avviso di accertamento ai fini Ici, notificato dall'ente
comunale ove erano collocati gli immobili, per gli anni dal
2004 al 2008. I giudici di prime cure (Ctp di Pistoia, sent.
5/10/2010 n. 211/02/2010) avevano respinto il ricorso
principale affermando che erano da esentare dal tributo
locale soltanto gli immobili che in catasto erano censiti
nelle specifiche categorie (A/6 per gli abitativi e D/10 per
gli strumentali), in linea con quanto affermato dalla
Suprema corte (Cassazione s.u., sent. 21/08/2009 n. 18565),
procedendo nella tassazione per tutti gli altri diversamente
censiti.
I giudici della commissione tributaria regionale di
Firenze, pur tenendo in considerazione la sentenza appena
citata, hanno preso atto delle modifiche introdotte dal
legislatore, con particolare riferimento a quelle inserite
nel dm 26/7/2012 che ha «chiaramente disposto che la
presentazione delle domande e l'inserimento negli atti
catastali dell'annotazione producono gli effetti previsti
per il riconoscimento della ruralità», a decorrere dal
quinto anno antecedente quello di presentazione della
domanda. Peraltro, i giudici aditi hanno affermato che la
giurisprudenza di merito sostiene da tempo che debba
riconoscersi il carattere di ruralità agli immobili
strumentali necessari allo svolgimento dell'attività
agricola, ribadendo con forza il solo rispetto del requisito
«oggettivo» dell'immobile.
Pertanto, detta giurisprudenza di
merito sta consolidando il principio, codificato dal recente
decreto del 26/7/2012, di attuazione del comma 14-bis,
dell'art. 13, dl 201/2011 (ItaliaOggi 5/2/2013), che il
requisito di ruralità, posto il rispetto delle condizioni
indicate dal comma 3 (abitativi) e 3-bis (strumentali),
dell'art. 9, dl n. 557/1993, non si acquisisce con
l'iscrizione in una categoria specifica dell'immobile, ma
soltanto con l'annotazione in catasto della dichiarata
sussistenza dei detti requisiti.
D'altra parte, il comma 2,
dell'art. 7, dm 26/7/2012 ha disposto che «la presentazione
delle domande e l'inserimento negli atti catastali
dell'annotazione producono gli effetti previsti per il
riconoscimento del requisito di ruralità» e che, di
conseguenza, non si rende necessario il cambio di categoria
catastale (Agenzia territorio, circolare 2/T/2012) potendo
l'immobile mantenere la categoria originaria e rispondente
alla legge catastale.
Infine, la sentenza in commento, con
l'accoglimento totale dell'appello del contribuente,
sostiene la «retroattività» (quinquennio) della ruralità ai
fini Ici con la sola annotazione, chiudendo a qualsiasi e
ulteriore interpretazione delle recenti disposizioni, e
conferma che la ruralità deve essere riconosciuta,
naturalmente ai fini del tributo comunale (Ici), oggi
sostituito dall'imposta municipale (Imu), solo in presenza
dei requisiti di natura soggettiva e oggettiva, con
l'annotazione in calce alla visura catastale e con il
mantenimento nella categoria ordinaria dell'immobile (articolo ItaliaOggi
del 05.07.2013). |
TRIBUTI:
Tarsu, le stanze d'albergo come quelle di casa.
Ai fini della Tarsu le stanze di albergo contano come quelle
delle civili abitazioni. È irragionevole, infatti, ritenere
che un nucleo familiare in vacanza produca maggiori rifiuti
di quelli generati ordinariamente nelle proprie case.
È quanto ha affermato la Ctp Lecce con la sentenza
09.07.2013 n.
227/02/13.
Il caso vedeva una
società immobiliare ricorrere contro un comune per una
rettifica Tarsu in relazione a una struttura alberghiera di
sua proprietà. Secondo la ricorrente il municipio aveva
erroneamente applicato una tariffa più elevata rispetto a
quanto avviene, a parità di superficie, per le abitazioni.
L'articolo 68 del dlgs n. 507/1993 stabilisce che i comuni,
per l'applicazione della tassa rifiuti, devono dotarsi di un
apposito regolamento. Quest'ultimo deve contenere la
classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie
dei locali: ognuna sconta la sua misura impositiva.
La
disposizione, al comma 2, fornisce «in via di massima» un
primo elenco esemplificativo delle classi. Ma l'ente locale
chiamato in giudizio si era discostato dalle previsioni del dlgs, che accorpa in un unico gruppo sia i «locali ed aree
ad uso abitativo per nuclei familiari, collettività e
convivenze» sia gli «esercizi alberghieri». Ciò, secondo i
giudici salentini, provoca un pregiudizio a danno del
contribuente, ossia il titolare dell'hotel. A parità di
occupanti e di metri quadrati utilizzati, non c'è ragione
per ritenere che i villeggianti producano maggiori rifiuti
(giustificando così un prelievo più elevato) di quanto non
facciano a casa propria. «Tale discorso non vale per le
altre superfici aperte al pubblico», prosegue la Ctp
leccese, «alle quali hanno accesso numerose persone e quindi
hanno una potenzialità di creare maggiori rifiuti».
Respinta, invece, la doglianza del ricorrente finalizzata a
ottenere un'ulteriore riduzione legata alla natura
stagionale dell'attività. Come prescritto dall'articolo 66
del dlgs n. 507/1993, per ottenere lo sconto di un terzo
della tariffa la discontinuità temporale deve risultare
esplicitamente dalla licenza o autorizzazione rilasciata
dagli organi competenti. Nella fattispecie in esame, però,
la licenza aveva validità annuale. L'accertamento viene
quindi annullato solo in parte: spetterà ora al comune
rideterminare la Tarsu dovuta
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2013). |
TRIBUTI: Valida solo la notifica alla casa comunale. In caso di
irreperibilità opera la procedura prevista dall'articolo 140
Cpc.. Decisione della commissione
tributaria regionale di Roma.
Se il destinatario della notifica è «irreperibile» la stessa
si perfeziona solo con il deposito presso la casa comunale
secondo la procedura prevista dall'art. 140 del codice di
procedura civile (Cpc).
La Commissione tributaria regionale di Roma, con la sentenza 04.07.2013 n.
239/06/13, ha affermato che in caso
di irreperibilità del contribuente, la notifica si
perfeziona se sono assolte tutte le formalità previste
dall'art. 140 Cpc (deposito dell'atto al comune; affissione
del relativo avviso di deposito all'abitazione e notifica
dello stesso per raccomandata con avviso di ricevimento).
La procedura di notifica degli atti tributari è disciplinata
dagli artt. 137 e ss. del Cpc, così come stabilisce l'art.
16, comma 2, del dlgs n. 546/1992. Tale ultima disposizione
richiama l'art. 60, comma 1, lett. a), del dpr n. 600 del
1973, prevedendo che le notifiche possono eseguirsi, oltre
che a mezzo dell'ufficiale giudiziario, anche a mezzo di
messo comunale o messo speciale autorizzato dalla stessa
amministrazione, che pone in essere le medesime forme
attuate dall'ufficiale giudiziario.
Alternativamente alla procedura di notifica cosiddetta
«brevi manu» (se non eseguita a mani proprie la
notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del
destinatario), è possibile effettuare la notifica mediante
il servizio postale con spedizione dell'atto in plico
raccomandato senza busta con avviso di ricevimento.
L'art. 140 Cpc stabilisce, inoltre, che nel caso di
«irreperibilità», incapacità o rifiuto a ricevere da parte
del destinatario dell'atto, l'ufficiale giudiziario deposita
la copia nella casa comunale dove sarà eseguita la notifica,
dandone notizia per raccomandata con avviso di ricevimento.
Nel caso in esame il contribuente eccepiva l'illegittimità
dell'avvenuta notifica della cartella di pagamento atteso
che l'agente notificatore aveva provveduto al deposito
dell'atto alla casa comunale nonostante la sua residenza
risultasse comprovata dagli atti anagrafici. La Commissione
tributaria provinciale aveva accolto il ricorso dichiarando
priva di efficacia la cartella di pagamento.
I giudici tributari di appello hanno ritenuto che nel caso
di specie non è risultato perfezionato il procedimento
notificatorio, atteso che il citato art. 140 prevede una
serie di adempimenti, tra cui l'avvenuta affissione
dell'avviso del deposito in busta chiusa sigillata alla
porta dell'abitazione del destinatario nonché l'invio
dell'avviso di ricevimento dell'avvenuta affissione Tali
documenti sono stati prodotti solo in sede di appello per
cui si è determinato un error in procedendo che,
riverberandosi su tutti gli atti successivi, ha inficiato
l'intero giudizio
Tale principio trova conferma nella giurisprudenza della
Cassazione che ha ritenuto applicabile la procedura di cui
all'art. 140 Cpc quando siano conosciuti la residenza e
l'indirizzo del destinatario, ma non si è potuto eseguire la
consegna dell'atto perché il soggetto non è stato rinvenuto
in detto indirizzo da dove non risulta trasferito, mentre è
applicabile l'art. 60 del decreto del presidente della
repubblica 600/1973 allorché l'agente notificatore non trovi
il contribuente in quanto, da notizie acquisite, risulta
trasferito in luogo sconosciuto (Cassazione 16050/2011).
Deve distinguersi, quindi, tra assenza temporanea dalla
propria residenza e assenza definitiva o irreperibilità del
destinatario, per cui il regime di notifica degli atti in
caso di irreperibilità temporanea è diverso da quello per i
casi di irreperibilità definitiva: solo in quest'ultimo caso
è prevista l'obbligatorietà dell'affissione nell'albo
comunale (Cassazione 6114/2013)
(tratto da ItaliaOggi del
17.08.2013). |
TRIBUTI: Tares a luglio se il comune tace.
Prima rata entro fine mese in assenza di delibere diverse.
Le scadenze per la nuova tassa sui
rifiuti modificabili in attesa di regolamento.
La prima rata della Tares va pagata entro la fine di luglio,
a meno che i comuni non abbiano fissato una scadenza diversa
da quella prevista dalla legge. Nel caso in cui l'ente non
indichi le scadenze delle rate, infatti, il tributo deve
essere versato a luglio e ottobre. A partire dal prossimo
anno, invece, i pagamenti rateali vanno effettuati a
gennaio, aprile, luglio e ottobre. Queste scadenze possono
essere modificate con regolamento comunale. La nuova tassa
sui rifiuti e i servizi a saldo deve essere pagata con F24,
con bollettino di conto corrente postale o tramite servizi
elettronici di incasso e di pagamenti interbancari. Solo per
il 2013, per il pagamento degli acconti i comuni possono
inviare ai contribuenti i modelli di pagamento precompilati
già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2 o
indicare altre modalità di versamento giù utilizzate in
passato.
Scadenze e scelte dei comuni. La nuova tassa sui rifiuti e
la maggiorazione sui servizi possono essere pagate con
l'ultima rata, a conguaglio delle somme versate in acconto
che sono determinate in base a quanto già versato dai
contribuenti nell'anno precedente per Tarsu, Tia1 e Tia2.
Inoltre la maggiorazione, fissata nella misura di 0,30 euro
per metro quadrato, non può essere aumentata dai comuni e il
gettito è riservato allo stato. Gli enti locali, con propria
deliberazione, sono tenuti a indicare scadenze e numero
delle rate di versamento del tributo. Altrimenti, le
scadenze sono quelle previste dalla legge: luglio e ottobre.
I cittadini devono comunque essere informati, anche con la
pubblicazione sul sito internet del comune, almeno 30 giorni
prima della data del versamento. Per il 2013, infatti,
scadenze e numero delle rate di versamento sono stabiliti
dal comune con deliberazione adottata, «anche nelle more
della regolamentazione comunale del nuovo tributo». La prima
rata, dunque, non deve essere necessariamente versata a
luglio, come previsto in un primo momento dal dl rifiuti
(1/2013), ma può essere anticipata o posticipata, anche nel
caso in cui il comune non abbia adottato il regolamento, il
cui termine di scadenza è attualmente fissato al prossimo 30
settembre. Per le prime due rate le amministrazioni locali
possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento
di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal
quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013.
L'articolo 10 del dl 35/2013 ha infatti differito
l'applicazione delle regole di determinazione della Tares al
momento del saldo, con la richiesta di conguaglio di quanto
dovuto dal contribuente in sede di pagamento dell'ultima
rata.
Modalità di pagamento. L'Agenzia delle entrate con un
comunicato pubblicato sul proprio sito ha reso noto che dal
27 maggio scorso è possibile pagare la Tares presso gli
sportelli di banche, poste e agenti della riscossione
utilizzando il modello F24. Inoltre, i pagamenti possono
essere effettuati tramite i servizi di home-banking e
remote-banking messi a disposizione dall'Agenzia delle
entrate oppure online, con Entratel e Fisconline,
collegandosi al sito della stessa Agenzia.
Va ricordato che con la risoluzione 37E/2013 sono stati
istituiti i codici per il versamento con l'F24 del nuovo
tributo sui rifiuti, della tariffa corrispettiva e della
maggiorazione. I contribuenti, in alternativa all'F24, dal
1° luglio hanno facoltà di versare la Tares anche con il
nuovo bollettino di conto corrente postale. Questo
bollettino, approvato con decreto ministeriale, riporta un
unico numero di conto corrente che è valido per tutti i
comuni del territorio nazionale. Il modello intestato a
«pagamento Tares», infatti, riporta obbligatoriamente il
numero di conto 1011136627. Il dm ha fissato anche le
modalità di riversamento ai comuni delle somme riscosse con
il bollettino. La tempistica e le modalità sono analoghe a
quelle previste per i versamenti unitari (F24) dal decreto
legislativo 241/1997.
Soggetti obbligati al pagamento. La Tares è dovuta da
chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo
locali o aree scoperte, a prescindere dall'uso a cui sono
adibiti. Sono obbligati in solido al pagamento anche i
componenti del nucleo familiare e coloro che usano in comune
locali e aree. Rispetto al regime previgente, la nuova
normativa introduce il criterio della prevalenza, vale a
dire che il tributo va pagato al comune nel cui territorio
insiste, interamente o prevalentemente, la superficie degli
immobili.
I soggetti tenuti al pagamento della tassa devono denunciare
la superficie calpestabile e non più la superficie
catastale, in seguito alle modifiche apportate all'articolo
14 dalla legge di stabilità (228/2012). È stata infatti
rinviata sine die l'applicazione della superficie catastale
per gli immobili a destinazione ordinaria come parametro per
la determinazione del tributo. Considerato che per la
maggior parte degli immobili non esiste ancora la superficie
catastale, all'Agenzia era demandato il compito non semplice
di stabilire medio tempore una superficie convenzionale in
base ai dati in suo possesso.
Tenuto conto delle difficoltà
di utilizzare la superficie catastale, viene consentito ai
comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per Tarsu e Tia,
calcolando la tassa sulla superficie calpestabile anche per
gli immobili a destinazione ordinaria (classificati nelle
categorie A, B e C). Si passerà alla commisurazione del
tributo sulla superficie catastale solo quando verranno
allineati i dati degli immobili a destinazione ordinaria e
quelli riguardanti la toponomastica e la numerazione civica,
interna e esterna, di ciascun comune (articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.07.2013). |
TRIBUTI:
P. Aglietta,
IMU e imposte sui
redditi: le ultime novità e i chiarimenti dell’Agenzia delle
Entrate (tratto da www.ipsoa.it - Immobili &
proprietà n. 7/2013). |
giugno 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
FABBRICATI RURALI/
Accatastamento tardivo. Sanzioni, ma non per tutti.
Colpiti gli edifici con ruralità al 30/11.
Le sanzioni per il tardivo accatastamento dei fabbricati
rurali valgono solo per gli edifici che, al momento della
scadenza del termine del 30.11.2012, erano ancora in
possesso dei requisiti di ruralità ed erano ancora iscritti
nel catasto terreni.
Il chiarimento è arrivato con la
nota 18.06.2013 n. 7092 di prot.
del Consiglio Nazionale Geometri che riporta il chiarimento della direzione
centrale Catasto e cartografie dell'Agenzia del territorio
su richiesta del Consiglio nazionale dei geometri.
Ricordiamo che se il proprietario non ha accatasto i
fabbricati rurali il 30.11.2012 può richiedere il
pagamento della sanzione ridotta per ravvedimento operoso
(dal 1 marzo al 31.11.2013 ) ed è tenuto a versare
129,00 euro per ogni unità immobiliare. Al contrario se il
proprietario non richiede il pagamento della sanzione
ridotta per «ravvedimento operoso», l'Agenzia provvede a
emettere «verbale per irrogazione della sanzione per mancato
rispetto del termine», e l'importo minimo da pagare ammonta
ad euro 344,00 per unità immobiliare.
La sanzione ridotta va
richiesta dal professionista e pagata contestualmente alla
presentazione del Docfa. I tecnici del Territorio ricordano
che in base all'articolo 13, comma 14-ter, e successive
modifiche, del decreto legge 06.12.2011 (manovra salva-Italia) il termine per accatastare i fabbricati rurali
al catasto edilizio urbano è scaduto il 30.11.2012.
Le
pratiche di accatastamento presentate in data successiva
devono quindi essere sanzionate. Il comma 14-ter dell'art.
13 del dl n. 201 del 2011, stabilisce infatti che «i
fabbricati rurali iscritti nel catasto dei terreni, devono
essere dichiarati al catasto edilizio urbano entro il 30.11.2012, con le modalità stabilite dal decreto del
ministro delle finanze 19.04.1994, n. 701». Dato che
alcuni uffici territoriali catastali hanno applicato le
stesse sanzioni anche per gli accatastamenti tardivi dei
fabbricati ex rurali o che avevano perso il requisito di
ruralità prima del 30.11.2012, il Consiglio nazionale
dei geometri ha richiesto un chiarimento ufficiale.
La Direzione centrale Catasto e cartografia ha puntualizzato
e chiarito che la scadenza e le conseguenti sanzioni il
ritardo della dichiarazione al catasto edilizio urbano,
applicate ai fabbricati rurali che al 30.11.2012
risultavano ancora in possesso dei loro requisiti ed
iscritti al catasto terreni. Al contrario, spiega la
Direzione centrale catasto e cartografia, le sanzioni non
valgono per gli edifici ex rurali o che hanno perso i
requisiti di ruralità prima del 30.11.2012.
Concludendo, l'agenzia del Territorio ha quindi ribadito
che i fabbricati rurali in possesso del requisito di
ruralità dovevano essere accatastati entro il 30.11.2012. Al
contrario, i fabbricati ex rurali sono sempre accatastabili
entro trenta giorni o dopo cinque anni dal momento in cui
perdono i requisiti di ruralità
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Sanzioni per ritardata presentazione degli
accatastamenti fabbricati rurali (Consiglio Nazionale
Geometri e Geometri Laureati,
nota 18.06.2013 n. 7092 di prot.). |
TRIBUTI:
La Ctr Lombardia sull'imposta sulla prima casa.
Ici soft per i single. Benefici pure con famiglia divisa.
In materia di Ici, i benefici legati all'abitazione
principale spettano anche se l'immobile è dimora del solo
proprietario, mentre la famiglia risiede altrove. La
qualifica di «abitazione principale» deve essere
riconosciuta anche nel caso in cui vi sia una scissione del
nucleo familiare, tale che il proprietario dell'immobile
risieda nella prima casa e la famiglia dimori invece in una
diversa abitazione.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 05.02.2013 n. 13/63/13 della Ctr Lombardia con le quali il collegio
tributario ha accolto l'appello presentato da un
contribuente, ribaltando la decisione di prime cure
favorevole all'amministrazione.
La rettifica prendeva le mosse da un accertamento Ici emesso
da un comune della Lombardia, il quale contestava l'indebito
godimento dei benefici connessi all'abitazione principale
(prima casa), forte dell'interpretazione fornita dalla
Cassazione. Per ritenersi «abitazione principale», infatti,
l'immobile deve essere adibito a «residenza di famiglia»,
ossia, secondo la Suprema corte, «luogo di abitazione della
casa coniugale».
Nel caso di specie, il proprietario
dell'immobile risiedeva nell'abitazione adibita a prima
casa, mentre la sua famiglia aveva la residenza in un altro
comune. L'amministrazione riteneva, pertanto, che, stante la
disgiunzione della famiglia, non si potesse attribuire
all'immobile la qualifica di abitazione principale; in primo
grado, la commissione provinciale confermava la bontà della
verifica. Di diverso tenore la decisione di secondo grado,
in commento, che ha esteso il beneficio anche in caso di
assenza del nucleo familiare.
«Del resto», si legge nella
sentenza, «diversamente argomentando, si arriverebbe alla
aberrante conclusione che tizio, proprietario di due
immobili, in uno dei quali risiede personalmente ma senza la
famiglia, e nell'altro la sua famiglia, non potrebbe fruire
del beneficio per nessuno dei due immobili, perché il primo
non sarebbe la così detta residenza familiare e nel secondo
non vi sarebbe la sua residenza abituale».
Pertanto,
indipendentemente dalla nozione di abitazione principale
fornita dalla Cassazione, i benefici spettano anche nel caso
in cui l'immobile sia dimora del solo proprietario e non
della sua famiglia.
«La presenza o meno di una famiglia»,
prosegue la Ctr, «lungi dal costituire un motivo di
esclusione del beneficio, ne dovrebbe semmai rappresentare
la condizione per l'estensione». Una diversa interpretazione
della fattispecie, secondo cui il beneficio spetterebbe solo
in presenza di un nucleo familiare, darebbe adito, secondo
il collegio lombardo, a forti dubbi di costituzionalità
delle norme in questione.
Il concetto affermato dalla Ctr, reso nella specie in ambito
di Ici, è parimenti estendibile all'Imu (articolo
ItaliaOggi Sette del 17.06.2013). |
TRIBUTI: Il verde edificabile.
Aree e parcheggi, si può costruire.
Una sentenza della Ctr Lazio va contro la Cassazione.
In tema di edificabilità dei terreni, il terreno inserito in
una zona destinata a verde pubblico e parcheggi può essere
ritenuto edificabile; infatti la capacità edificatoria della
superficie può essere trasferita su altre aree contigue
nella medesima sottozona, ivi utilizzandone, a potenziali
fini edificatori complessivi, la pur limitata volumetria.
Queste motivazioni si leggono nella sentenza 04.04.2013 n. 147/38/13
emessa dalla Sez. XXXVIII della Commissione tributaria
regionale del Lazio.
L'Agenzia delle entrate di Roma 5, aveva emesso un
avviso di liquidazione e rettifica relativamente alla
compravendita di un terreno avente una destinazione
urbanistica inserita in zona F sottozona F/5 «spazi pubblici
riservati alle attività collettive, a verde pubblico e a
parcheggi». A parere delle Entrate, quindi, essendo il
terreno edificabile, la base imponibile ai fini dell'imposta
di registro, doveva essere quantificata in base al valore di
mercato. I contribuenti ricorrevano contro questo atto
sostenendo che al terreno non poteva essere attribuito alcun
maggior valore; il terreno, infatti, non era edificabile e
per di più era di soli mq 915 precludendo ogni possibile
attività edificatoria.
La Commissione provinciale rigettava
il ricorso.
La decisione è stata confermata dai colleghi di seconda
istanza, che condannando i ricorrenti alle spese, hanno
stabilito che, secondo un consolidato orientamento
giurisdizionale, in ordine alla definizione di area
edificabile, è sufficiente l'inserimento in uno strumento
urbanistico generale anche soltanto adottato e non ancora
approvato; «si deve osservare» osservano i giudici
romani d'appello, «che la zona in cui è ubicato il
terreno oggetto della compravendita risulta inserita nel
piano regolatore generale adottato dal comune ed approvato
dalla regione già al momento del negozio traslativo». Da
considerare che la possibilità di trasferire la capacità
edificatoria sopra un area contigua, è stato determinante ai
fini della decisione.
Di diverso parere la Corte di cassazione. I giudici di
piazza Cavour nella Sentenza n. 25522/2011 hanno invece
stabilito che, «ai fini fiscali, la destinazione di un
terreno ad attrezzature sportive prevista dal piano
regolatore comunale con l'attribuzione di un indice di
edificabilità minimo funzionale alla realizzazione di
strutture collegate a tale destinazione, impedisce la
qualificazione dell'area come «suscettibile di utilizzazione
edificatoria», e comporta la definizione della base
imponibile con il criterio tabellare ai sensi della
previsione di cui all'articolo 52, comma 4, del dpr n.
131/1986»
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013
- tratto da www.fiscooggi.it). |
TRIBUTI:
Terreni, legata al luogo la natura pertinenziale.
Sentenza della Commissione
tributaria regionale di Roma.
La natura pertinenziale di un terreno deve rilevarsi
attraverso l'analisi della conformazione dello stato dei
luoghi per cui l'iscrizione autonoma in catasto della
pertinenza e del fabbricato non può escludere la natura di
pertinenza del terreno.
Il principio è contenuto nella
sentenza
07.06.2013 n. 163/35, della Ctr di Roma da cui emerge che la diversa
iscrizione in Catasto della pertinenza non è di ostacolo
alla considerazione unitaria di essa con l'abitazione
principale, non escludendo l'applicazione dell'art. 2 del
dlgs 504/1992.
L'Ici, sostituita ora dall'Imu, è un'imposta
reale sul patrimonio immobiliare che colpisce il valore
oggettivo dei beni immobili e che, per quanto attiene i
fabbricati censiti, il valore è dato dalla rendita catastale
mentre per le aeree fabbricabili in base al valore venale in
commercio. In particolare, il citato art. 2, il quale
prevede che le aeree pertinenze dei fabbricati devono
considerarsi ai fini Ici come parte integrante dei
fabbricati stessi, esclude l'autonoma tassabilità delle
aeree pertinenziali.
Tale norma fonda l'attribuzione della
qualità di pertinenza su un criterio «fattuale», ovvero
sull'effettiva destinazione di una cosa al servizio di
un'altra e la prova di ciò ricade sul contribuente il quale
deve dimostrare la sussistenza di elementi dell'effettiva
destinazione in modo durevole dell'area a pertinenza del
cespite. Nel caso in esame due coniugi in comunione dei beni
hanno impugnato alcuni avvisi di accertamento emessi dal
comune il quale contestava, tra l'altro, l'assenza del
vincolo di pertinenzialità di un terreno di loro proprietà
con l'annesso fabbricato. La Ctp in primo grado ha accolto
parzialmente il ricorso ritenendo legittimo il motivo
relativo al rapporto di pertinenzialità del terreno.
I giudici della Ctr hanno ritenuto che la natura
pertinenziale di un terreno deve essere rilevata attraverso
«l'analisi della conformazione dello stato dei luoghi, che
permette di verificare se una cosa sia concretamente
destinata a servizio od ornamento di altra secondo l'art.
817 c.c.».
Ai fini dell'esclusione della tassabilità di un'area
iscritta in catasto e distinta da quella del fabbricato, non
rileva l'intervenuto frazionamento catastale dell'area e la
mera iscrizione in catasto della pertinenza e del fabbricato
non può escludere la qualifica di pertinenza di un'area
posta a servizio esclusivo di un fabbricato. Da qui la
diversa iscrizione in catasto della pertinenza non fa venire
meno la considerazione unitaria di questa con l'abitazione
principale e non impedisce l'applicazione dell'art. 2 dlgs
n. 504/1992.
Affinché un'area fabbricabile perda la sua natura
di edificabilità è necessario che vi sia una «modificazione
oggettiva e funzionale dei luoghi» tale da far venir meno lo
ius edificandi sull'area stessa; quindi devono concorrere
due elementi, un elemento oggettivo (collegamento funzionale
tra pertinenza e cosa principale) e un elemento soggettivo
(volontà del soggetto di destinare in modo durevole la
pertinenza alla cosa principale). In difetto di uno solo di
tali elementi viene a mancare quel vincolo di
subordinazione-strumentalità-complementarietà perché una
cosa sia a servizio od ornamento di altro bene.
Sulla base
di quanto precede la Ctr ha accolto il ricorso dei
contribuenti, non irrogando le sanzioni in quanto, non
essendo stata notificata l'attribuzione della nuova rendita,
il comune può riscuotere solo l'imposta senza interessi e
sanzioni, non vertendosi in materia di omessa o infedele
dichiarazione (art. 74 legge n. 342/2000)
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
TRIBUTI: Pubblicità sui rimorchi, la tariffa è ordinaria.
Sentenza della corte di cassazione:
imposta assimilata a quella degli impianti fissi.
I rimorchi con messaggi pubblicitari devono pagare l'imposta
sulla pubblicità con la tariffa della pubblicità ordinaria e
non la tariffa relativa alla pubblicità effettuata con i
veicoli.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione che, con la sentenza
05.06.2013 n.
14143, ha assimilato tali rimorchi agli
impianti pubblicitari fissi.
Il problema non è certo indifferente poiché a seconda di
come tale fattispecie viene inquadrata, la regolamentazione
fiscale è assai diversa, in quanto:
• se si considera come una forma di pubblicità effettuata
con veicoli trova applicazione l'art. 13 del dlgs 15.11.1993, n. 507 e l'imposta è dovuta nel comune ove ha
sede l'impresa proprietaria dei veicoli stessi;
• se, invece, si ritiene che detti mezzi non siano dei
veicoli, trova applicazione la tariffa per pubblicità
ordinaria stabilita dall'art. 12 del dlgs n. 507 del 1993,
che si applica in via generale anche in tutti i casi in cui
la legge non abbia previsto una tariffa specifica, e, deve
essere pagata nel comune dove viene effettuata la
pubblicità.
La Corte, ripercorrendo l'iter argomentativo svolto nella
precedente sentenza n. 5858 del 2012, occupandosi dei
camion-vela, ha optato la seconda soluzione, stabilendo che
«ai veicoli costruiti o strutturalmente trasformati per
l'esclusivo o prevalente esercizio dell'attività
pubblicitaria, e concretamente utilizzati a tal fine, è
applicabile la disciplina di cui al dlgs 15.11.1993,
n. 507, art. 12, relativa alla pubblicità ordinaria, e non
quella di cui all'art. 13, del medesimo decreto legislativo,
riguardante la pubblicità effettuata con veicoli, poiché
questa, a differenza dell'altra, costituisce una modalità
eccezionale, insuscettibile di interpretazione estensiva, e
che, per il suo tenore letterale, si riferisce ad attività
svolta mediante veicoli che mantengano le caratteristiche
strutturali e la destinazione d'uso loro propria».
Oggetto della controversia sono stati, infatti, alcuni
rimorchi, immatricolati come «veicolo uso speciale auto
pubblicitario», di notevoli dimensioni, tali da non poter
essere trasportati come comuni rimorchi, che erano stati
rinvenuti privi di autoveicolo di traino, ancorati al suolo
mediante paletti.
Tali condizioni hanno indotto i giudici ad affermare che non
possono «essere considerati per la loro motilità veicoli
intesi come mezzo di trasporto idonei alla circolazione»; e
a ritenere che per le loro caratteristiche strutturali da un
lato, e dall'altro, per il fine a cui venivano in concreto
impiegati, e cioè all'esclusivo esercizio dell'attività
pubblicitaria, non possono che assumere, ai fini
dell'applicazione dell'imposta, la natura di «impianto
fisso».
La soluzione cui è addivenuta la Corte potrebbe sembrare un
po' forzata, visto che, anche ai sensi delle disposizioni
del Codice della strada e del relativo regolamento di
esecuzione, i mezzi in questione sarebbero comunque
definibili come veicoli, seppure adibiti a uso
pubblicitario.
Forse ciò che è prevalso è che il ricorso a tali strumenti
diventa sempre più frequente e dà luogo, di fatto, a
un'elusione delle disposizioni sia di carattere fiscale sia
amministrativo da parte di coloro che, anziché ricorrere a
un'impiantistica fissa che deve rispettare tutte le
prescrizioni del regolamento comunale e le disposizioni
stabilite dal codice della strada, preferiscono
pubblicizzare i propri prodotti attraverso veicoli che però,
sostando a lungo in determinate zone del comune, finiscono
per trasformarsi nel tempo in impianti fissi.
C'è da dire che l'ente locale potrebbe intervenire vietando
ogni forma pubblicitaria effettuata con veicoli in sosta,
magari anche prevedendo la rimozione o la copertura degli
impianti pubblicitari, per coloro che non osservano una
simile disposizione regolamentare adottata ai sensi
dell'art. 3, comma 2, del dlgs n. 507 del 1993.
Invece la Corte ha rotto ogni indugio e ha degradato (o
nobilitato) tali veicoli in veri e propri impianti
pubblicitari
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche
recate dall’art. 10, comma 4, lett. b), del D.L. 08.04.2013,
n. 35. Quesiti in materia di pagamento dell’imposta relativa
all’anno 2013 per gli enti di cui alla lett. i), comma 1,
art. 7, del D.Lgs. 30.12.1992, n. 504 (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
risoluzione 05.06.2013 n. 7/DF). |
TRIBUTI:
Imu in slalom tra le eccezioni.
Le variazioni relative all'immobile incidono sull'importo.
Scade il 17 giugno il termine per il
versamento dell'acconto 2013: guida ai calcoli.
Scade lunedì 17 giugno il termine per il versamento
dell'acconto relativo all'Imu 2013 e per molti contribuenti
(cittadini e imprese) le modalità di calcolo sono ancora un
rebus. La regola generale, stabilita nella legge di
conversione del dl 35/2013, è che l'importo della prima rata
è pari alla metà dell'imposta dovuta per l'anno precedente,
ma è una regola che conosce non poche eccezioni.
La prima riguarda coloro che avessero già adempiuto
all'obbligo applicando le aliquote stabilite dal comune e
pubblicate sul sito del Mef entro il 16 maggio (secondo la
disciplina dettata dalla versione originaria del dl 35): in
tali casi, il pagamento già effettuato rimane valido.
Tale modalità di calcolo, tuttavia, non sarà più ammessa
dopo che il dl 35 (il cosiddetto decreto sblocca debiti
delle p.a.) sarà stato convertito.
Dal pagamento dell'acconto sono ovviamente esclusi i
titolari degli immobili che beneficiano della sospensione
disposta dal dl 54/2013, ovvero abitazioni principali (ad
eccezione di quelle accatastate in A1, A8 e A9), case
popolari appartenenti a Iacp e cooperative edilizie a
proprietà indivisa, terreni agricoli e fabbricati rurali
strumentali. Anche in tali casi, tuttavia, possono insorgere
complicazioni, laddove la situazione immobiliare sia variata
nel corso di quest'anno. Per esempio, per l'immobile già
posseduto lo scorso anno e divenuto prima casa solo a fine
aprile 2013, occorrerà comunque versare un'Imu pari ai 4/12
(e quindi un acconto pari a 2/12) di quella versata nel
2012.
Ciò in quanto, come chiarito dalla circolare del
dipartimento delle finanze n. 2/2013, il riferimento
all'anno precedente vale solo per le aliquote e le
detrazioni, ma non anche per gli altri elementi relativi al
tributo, quali il presupposto impositivo e la base
imponibile, per i quali, invece, si dive fare riferimento
esclusivamente al 2013.
La stessa circolare propone alcuni esempi pratici. Il primo
caso è analogo a quello già richiamato: se un immobile dal
01.01.2013 è divenuto prima casa, il versamento della
prima rata dell'Imu è sospeso. Viceversa, nel caso opposto
di un immobile che quest'anno (a differenza del 2012) non è
più adibito ad abitazione principale, l'acconto dovrà essere
calcolato applicando l'aliquota prevista lo scorso anno per
le seconde case.
Analogamente, nel caso in cui il contribuente possiede
un'area fabbricabile che, nel 2013, è divenuta terreno
agricolo, il versamento di giugno è sospeso. Se invece un
terreno agricolo è divenuto da quest'anno area edificabile,
esso sarà soggetto a imposizione e, conseguentemente, la
prima rata dovrà essere calcolata applicando l'aliquota
prevista per il 2012.
Lo stesso ragionamento si applica ai fabbricati
inagibili/inabitabili, per i quali la normativa Imu prevede
il dimezzamento della base imponibile limitatamente ai mesi
dell'anno in cui tale condizione si protrae: ciò che conta è
lo stato attuale dell'immobile, per cui il venire meno
dell'inagibilità/inabitabilità eventualmente sussistente nel
2012 determina l'insorgenza dell'obbligo di pagare
l'aliquota prevista dell'anno scorso sull'intero valore.
La sospensione dell'acconto riguarda anche le pertinenze
delle abitazioni principali richiamate dal dl 54, ma
limitatamente a quelle che beneficiano dello stesso regime
agevolato previsto per la prima casa.
Quest'ultimo, come noto, può estendersi a un massimo di tre
unità, di cui non più di una accatastata in C2 (soffitte,
cantine e magazzini), una in C6 (autorimesse) e una in C7
(tettoie e posti auto). Sulle altre eventuali pertinenze l'Imu
va pagata applicando le aliquote 2012 e i relativi titolari
devono presentarsi alla cassa già a giugno.
La prima rata è congelata anche per gli immobili assimilati
dai comuni alle abitazioni principali, ovvero ai fabbricati
degli anziani ricoverati in case di riposo e dei residenti
all'estero. Ciò sia nel caso in cui l'assimilazione sia
avvenuta nel 2013, sia in quello in cui la stessa sia stata
disposta nel 2012 e non sia stata modificata.
Della sospensione può beneficiare anche il coniuge separato
non assegnatario dell'ex casa coniugale relativamente
all'immobile eventualmente adibito ad abitazione principale.
Anche in tal caso, l'acconto di giugno non è dovuto.
Ovviamente, come già detto, occorre prestare attenzione ai
cambiamenti intervenuti in corso d'anno, rapportando il
calcolo ai mesi e alla tipologia di possesso. Anche al
riguardo, la circolare offre alcune esemplificazioni. Un
contribuente che abbia venduto il proprio immobile (non
destinato ad abitazione principale) il 28.03.2013, dovrà
versare l'Imu (e quindi il relativo acconto) commisurandolo
ai 3/12 dell'importo calcolato sulla base dell'aliquota dei
dodici mesi dell'anno precedente. Al contrario, chi ha
acquistato una seconda casa il 1° ottobre scorso dovrà
calcolare l'Imu dovuta per l'anno 2013 (a partire dalla
prima rata) sulla base dell'aliquota 2012, indipendentemente
dalla circostanza che in tale anno abbia avuto il possesso
per soli tre mesi (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.06.2013). |
TRIBUTI: Area edificabile o fabbricato?
Domanda
Come deve essere trattato ai fini Imu un fabbricato per il
quale non sono stati ancora ultimati i lavori nel senso che
solo il piano terreno è accatastato e utilizzato, mentre i
piani superiori non sono stati ancora completati? Come
fabbricato, come area edificabile o in parte l'uno e in
parte l'altro?
Risposta
L'interessante questione è stata approfondito in vigenza
dell'Ici dalla Corte di cassazione con la sent. n.
23347/2004.
Le considerazioni svolte restano valide anche per l'Imu.
Nell'occasione il comune aveva preteso di tassare non solo
l'appartamento al piano terra, già accatastato e utilizzato,
ma anche di scorporare –per tassarla come area edificabile- la quota dell'area dalla quale si sviluppava la cubatura
relativa al secondo appartamento, al 1° piano, non ancora
ultimato, né utilizzato, e dichiarato al catasto come
fabbricato ancora in corso di costruzione, quindi senza
rendita.
La Cassazione, così come la Commissione tributaria
di secondo grado di Bolzano, hanno riconosciuto le ragioni
del contribuente nel senso che il solo appartamento ultimato
deve essere assoggettato a imposizione. Non è infatti
possibile individuare astrattamente un'area edificabile
ancora tassabile oltre a quella su cui insiste la
costruzione, ossia il sedime, mentre il piccolo lembo di
terreno residuo circostante alla costruzione è stato censito
al Catasto come pertinenza dell'appartamento al piano terra.
Tale conclusione trae origine dalla norma espressa dall'art.
2, 1° c., lettera a) del dlgs n. 504/1992, come già detto
applicabile anche all'Imu, ai sensi della quale «Ai fini
dell'imposta: a) per fabbricato si intende l'unità
immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto
edilizio urbano, considerandosi parte integrante del
fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne
costituisce pertinenza; il fabbricato di nuova costruzione è
soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei
lavori di costruzione ovvero, se antecedente, dalla data in
cui è comunque utilizzato».
Ultimato o comunque utilizzata
l'unità al piano terra non si ha più area edificabile
tassabile e viene meno la regola di cui all'art. 5, 6° c.
del medesimo dlgs n. 504/1992 secondo la quale «in caso
di utilizzazione edificatoria dell'area, di demolizione di
fabbricato, di interventi di recupero a norma dell'articolo
31, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge 05.08.1978,
n. 457, la base imponibile è costituita dal valore
dell'area, la quale è considerata fabbricabile anche in
deroga a quanto stabilito nell'art. 2, senza computare il
valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di
ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o
ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in
cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è
comunque utilizzato» (articolo ItaliaOggi
Sette del 03.06.2013). |
TRIBUTI: Acconto.
La legge di stabilità ha cancellato l'esenzione.
Il Comune paga allo Stato per la palestra.
LE CONSEGUENZE/
Gli enti locali devono versare la quota erariale per gli
immobili di categoria D, come stadi, teatri e campi sportivi.
L'incertezza delle norme crea problemi di versamenti
dell'acconto Imu anche per i Comuni. Succede per gli
immobili di categoria D (produttivi) e, in particolare, per
l'aliquota del 7,6 per mille che su tali edifici spetta allo
Stato.
L'aliquota dovrebbe essere pagata anche dai Comuni per
stadi, teatri, arene e campi sportivi di loro proprietà che
appunto rientrano nella predetta categoria D.
Il problema si pone per la seconda volta, poiché già per il
2012, quando l'aliquota per lo Stato era del 3,8 per mille,
i Comuni hanno rischiato di dover pagare all'Erario l'Imu
per i propri fabbricati di categoria D.
Il panico, all'epoca, è durato pochi mesi perché al momento
di istituire, nel 2011, la quota Imu di competenza statale,
non era stata prevista alcuna esenzione per gli immobili di
proprietà comunale: l'esenzione è sopravvenuta con
l'articolo 4, comma 5, del decreto legge 16/2012, che riguarda
gli immobili posseduti dai Comuni nel loro territorio. Il Dl
16/2012 ha modificato a posteriori il decreto legge 201/2011
all'articolo 13, comma 11.
La questione si ripropone oggi perché l'articolo 1, comma
380 lettera h) della legge 228/2012 istituisce l'aliquota
statale del 7,6 per mille, abrogando tutto ciò che era stato
prima previsto per assicurare allo Stato un gettito e cioè
abrogando sia l'aliquota per l'Erario (del 2011) che
l'esenzione per le proprietà comunali (del 2012).
L'articolo 1. comma 380, lettera h), prevede oggi un'aliquota
del 7,6 per mille a favore dello Stato, senza esenzioni per
i Comuni.
Se non sopravverrà una modifica normativa che introduca
un'esenzione simile a quella prevista dall'articolo 13,
comma 11 del decreto legge 201/2011, i Comuni saranno
obbligati a pagare il 7,6 per mille per stadi, teatri, arene
e campi sportivi di loro proprietà: ogni ente locale
dovrebbe prevedere in questi giorni un capitolo di uscita,
conteggiando l'imposta da versare entro il 17.06.2013
come acconto.
Se non si paga e non sopravviene una norma che reintroduca
il beneficio di esenzione per i manufatti D del Comune, gli
enti locali dovranno prepararsi a un ravvedimento operoso
per l'imposta che spetta allo Stato.
Lo scenario è paradossale, in quanto lo Stato ha calcolato
proprie entrate sulla base del 7,6 per mille sugli immobili
di categoria catastale D a sua conoscenza, ma se dovesse
effettuare accertamenti o recuperi non riuscirebbe a
distinguere, tra tutti i fabbricati "D", quelli di proprietà
dei Comuni. Lo Stato, infatti, non possiede elenchi o banche
dati specifiche, ma dovrebbe rivolgersi, per accertare
evasioni, ai Comuni stessi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Le
risposte ai temi dei lettori. Il caso di un fabbricato
oggetto di conversione e riaccatastamento
Imu legata alla nuova rendita.
L'obbligo dalla data di presentazione della denuncia Docfa.
L'ECCEZIONE/
Con le modifiche a destinazione o consistenza viene meno il
principio del valore risultante al Catasto il 1° gennaio.
Gli immobili d'impresa che subiscono una trasformazione
strutturale e vengono conseguentemente riaccatastati devono
pagare l'Imu considerando la nuova rendita a partire dalla
data di presentazione del Docfa.
Questa è la risposta al quesito posto da Gianandrea Todesco,
riguardante un immobile industriale di categoria D1,
originariamente composto da fabbricati e piazzali asserviti,
poi riconvertito per usi logistici attraverso la demolizione
di alcuni impianti presenti nei fabbricati. Viene
conseguentemente avviata la procedura di riaccatastamento
presentando a dicembre 2012 il nuovo "tipo mappale" e a
febbraio 2013 il Docfa con la proposta di rendita.
Sorge tuttavia il dubbio sulla base imponibile da utilizzare
per il calcolo dell'Imu 2013, in particolare riguardo alla
possibilità di pagare considerando solo la rendita proposta
e ritenendo che l'avvio della pratica di riaccatastamento
(richiesta tipo mappale) comporti la "perdita" della vecchia
rendita catastale.
Sul punto va preliminarmente evidenziato il principio
contenuto nell'articolo 5, comma 2, del Dlgs 504/1992, in forza
del quale devono assumersi le rendite risultanti in catasto
al 1° gennaio dell'anno di imposizione. Con la conseguenza
che le risultanze catastali definitive sono efficaci a
decorrere dall'anno d'imposta successivo a quello nel corso
del quale sono state annotate negli atti catastali
(cosiddetta "messa in atti").
Si tratta tuttavia di una
regola generale che ammette alcune eccezioni, tra cui
l'ipotesi in cui la nuova rendita sia conseguente a
modificazioni della consistenza o della destinazione
dell'immobile dichiarate dallo stesso contribuente, dovendo
in questi casi trovare applicazione dalla data della
denuncia. In tal senso si è espressa la Cassazione con
alcune pronunce, tra cui la 17863/2010, la 18023/2004 e la
20854/2004. Stesso orientamento si è affermato anche in
ordine al passaggio dal criterio del valore contabile alla
rendita catastale per i fabbricati D, che attribuisce
rilevanza alla presentazione della richiesta (Cassazione
3160/2011).
Nel caso in questione la nuova rendita proposta
con il Docfa dovrebbe quindi avere efficacia solo a partire
dalla domanda, presentata a febbraio 2013, trattandosi di
sopravvenuto mutamento dello stato o della destinazione del
fabbricato.
Non si ritiene invece possibile aderire integralmente alla
soluzione proposta dal lettore, considerando cioè il momento
di avvio della pratica di riaccatastamento, in quanto il
"tipo mappale" ha la funzione di inserire sulla cartografia
catastale i nuovi fabbricati edificati sul territorio o i
fabbricati esistenti che abbiano subito modifiche di sagoma.
Ma il "tipo mappale" non agisce sulla base imponibile dei
fabbricati, che viene determinata solo in sede di
presentazione della denuncia, avvenuta nel caso in questione
con il Docfa. Peraltro la Cassazione ha chiarito che in
questi casi il fatto che la situazione materiale risalga a
data anteriore non ne giustifica un'applicazione retroattiva
rispetto alla denuncia.
Conseguentemente l'Imu 2013 andrebbe calcolata considerando
la vecchia rendita per i primi due mesi dell'anno (se il
Docfa è stato presentato nella seconda metà di febbraio),
mentre si dovrà utilizzare la nuova rendita per il periodo
residuo dell'anno, salvo conguaglio da effettuare all'esito
delle verifiche. Va infatti ricordato che l'eventuale
rettifica della rendita da parte dell'agenzia del Territorio
ha efficacia retroattiva, quindi il nuovo valore sarebbe
applicabile sin dalla presentazione del Docfa e imporrebbe
di rifare i calcoli
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013). |
maggio 2013 |
|
TRIBUTI: Per
l'Imu versamento unificato. Non necessario separare quota
statale e comunale tranne che per i capannoni.
Le risposte ai temi dei lettori. Come pagare
l'imposta municipale nel caso in cui non si possa usufruire
del rinvio
IL CALCOLO/ Sulla base del decreto legge sulla Pa l'acconto
può essere determinato sulla base di quanto versato l'anno
scorso.
Rispetto al 2012 sono molti meno i codici tributo da
indicare nel modello F24 per pagare l'Imu del 2013: non va
più calcolata la quota per lo Stato (tranne per i fabbricati
produttivi). Inoltre si può versare la prima rata 2013
calcolando l'imposta con le aliquote e le detrazioni del
2012 (non la base imponibile), quindi indipendentemente
dalla pubblicazione o meno delle delibere comunali nel sito
delle Finanze.
Il ritardo nella consegna della versione definitiva del
programma per gli studi di settore (Gerico 2013), però, ha
ritardato la predisposizione delle dichiarazioni dei redditi
e il calcolo di eventuali crediti compensabili col pagamento
della prima rata Imu, in scadenza il 17 giugno. L'eventuale
proroga all'08.07.2013 solo dei versamenti di Unico 2013 e
non dell'Imu, quindi, renderà impossibile utilizzare in
compensazione coi debiti Imu eventuali crediti generati
dalla dichiarazione dei redditi.
La legge di stabilità 2013 (la 228/2012) ha previsto che,
per gli anni 2013 e 2014, non spetti allo Stato la metà
dell'Imu, calcolata con l'aliquota standard dello 0,76%
(articolo 1, comma 380, lettera h): è stata temporaneamente
soppressa la disposizione che per tutti gli immobili (tranne
l'abitazione principale, le sue pertinenze e i fabbricati
rurali a uso strumentale), riservava allo Stato parte
dell'imposta. Da quest'anno, quindi, in F24 non occorre più
suddividere l'importo da pagare tra il codice tributo
destinato al Comune e quello destinato allo Stato.
Un'unica eccezione è costituita dall'Imu dovuta per gli
immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale
D. La legge di stabilità 2013, infatti, sempre per gli anni
2013 e 2014 (ed erroneamente «al fine di assicurare la
spettanza ai Comuni del gettito» dell'Imu), ha previsto
che spetti allo Stato l'Imu, calcolata con l'aliquota
standard dello 0,76%, sugli immobili di categoria D. Va
usato il codice tributo 3925 per la quota statale e 3930 per
l'eventuale maggiorazione comunale.
Dopo la semplificazione dell'unico codice tributo per gli
immobili non produttivi, sta per arrivare anche la
possibilità di pagare la prima rata Imu, applicando le
aliquote e le detrazioni in vigore lo scorso anno, senza
dover controllare le delibere comunali pubblicate nel sito
delle Finanze al 16.05.2013. Entro il 07.06.2013, infatti,
al Senato dovrà essere convertito il decreto legge 35/2013 e
«il versamento della prima rata» dell'Imu sarà «eseguito
sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi
dell'anno precedente», indipendentemente, quindi, dalla
pubblicazione o meno delle delibere nel sito delle Finanze
(articolo 9, comma 3 del Dlgs 23/2011).
Secondo il dipartimento delle Finanze (circolare 23 maggio
2013, n. 2/DF), comunque, anche «prima della citata
conversione» è possibile pagare la prima rata Imu
considerando queste novità. Infatti, in caso di accertamento
da parte del Comune potrà essere applicato l'articolo 10,
comma 3 della legge 212/2000, che prevede la disapplicazione
delle sanzioni «quando la violazione dipende da obiettive
condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di
applicazione della norma tributaria»
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Doppia proroga per i comuni. Bilanci in autunno, l'addio di
Equitalia slitta a fine anno. L'ok
all'incontro dell'Anci con Saccomanni. Cattaneo: spending
review insostenibile per il 2013.
Riforma dell'Imu già entro giugno e slittamento di almeno
sei mesi dell'addio di Equitalia ai comuni (la proroga è
stata inserita nel decreto sui debiti della p.a. all'esame
del senato, si veda altro pezzo in pagina). Il governo è
intenzionato a fare presto e a non arrivare con l'acqua alla
gola alla dead line per la riforma della fiscalità locale
fissata per fine agosto.
Lo chiedono i sindaci, che hanno bisogno di certezze per
chiudere i bilanci (e a questo punto pare certo l'ulteriore
proroga del termine per l'approvazione dei preventivi che
potrebbe essere spostato al 30 settembre). E lo vuole lo
stesso esecutivo guidato da Enrico Letta, intenzionato a
gestire il capitolo Imu assieme a quello della Tares, in una
prospettiva unitaria che potrebbe portare alla nascita di un
nuovo tributo legato all'insediamento residenziale e ai
servizi resi, come richiesto dall'Anci.
Una timida apertura
verso la service tax? È ancora troppo presto per dirlo.
Perché nell'incontro di ieri tra i rappresentanti
dell'associazione dei comuni e il ministro dell'economia
Fabrizio Saccomanni si è parlato sì di futuro, ma
soprattutto di passato. I comuni hanno infatti molti
contenziosi ancora in essere col Mef e l'obiettivo dell'Anci
è chiuderli il prima possibile in modo da facilitare
l'approvazione dei bilanci.
Il primo riguarda i tagli della spending review lasciata in
eredità da Mario Monti che per il 2013 chiede ai municipi un
sacrificio di 2 miliardi e 250 milioni calcolati sui consumi
intermedi e non sui fabbisogni standard come vorrebbero i
sindaci. L'anno scorso l'Anci riuscì a spuntare in extremis
una sterilizzazione dei tagli, convincendo il governo Monti
a dirottare una cifra equivalente sulla riduzione
dell'indebitamento. Ma quest'anno il problema si ripropone
in tutta la sua gravità. «Calcolare i tagli sui consumi
intermedi significa penalizzare le amministrazioni più
virtuose perché si tratta di un criterio che non distingue
tra spesa buona e spesa cattiva», ha osservato il sindaco di
Livorno Alessandro Cosimi, presente all'incontro.
Saccomanni ha assicurato l'impegno del governo a risolvere
il capitolo spending assieme alle altre criticità in materia
di fiscalità locale che per i comuni valgono circa 900
milioni di euro. Il riferimento è ai disallineamenti tra le
stime comunali e quelle governative sull'Imu 2012, ma anche
al capitolo ancora aperto dell'Ici 2010, per non parlare del
nodo dell'Imu sugli immobili comunali che i sindaci sono
costretti a pagare. «Il governo ha ammesso che il problema
esiste e si è impegnato a risolverlo in tempo utile per
l'approvazione dei bilanci», ha commentato il presidente
dell'Anci e sindaco di Pavia, Alessandro Cattaneo. «Per il
momento l'80% dei comuni non è in grado di chiudere i
preventivi», ha proseguito, «e questo rende necessaria una
proroga che non avremmo mai voluto chiedere, perché varare i
bilanci 2013 quasi con un anno di ritardo è una sconfitta
per tutti, ma purtroppo è il governo ad averci messo in
questa condizione».
Nell'incontro di ieri con Saccomanni l'Anci ha anche
incassato il nullaosta politico alla proroga di sei mesi
dell'uscita di scena di Equitalia dalla riscossione locale,
prevista a partire dal 1° luglio. E subito dopo l'ok di via
XX Settembre, lo slittamento è stato messo nero su bianco in
un emendamento al decreto sui pagamenti della p.a. (dl
35/2013) presentato dai relatori, Giorgio Santini (Pd) e
Antonio D'Alì (Pdl) e approvato in commissione bilancio del
senato. Tutto a rimandato a fine 2013, dunque, in attesa che
giunga a compimento la riforma della riscossione locale. Una
riforma attesa invano da oltre due anni
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Aumenti Tarsu da non motivare.
Tar Puglia: causa è la copertura
costi.
Il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe
Tarsu. L'aumento può essere giustificato dalla necessità di
coprire i costi del servizio.
Lo ha affermato il TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 30.05.2013 n. 1238.
Secondo
i giudici amministrativi, per coprire i costi del servizio,
l'amministrazione comunale ha disposto «un incremento
percentuale nei confronti di tutte le categorie di
utenti/contribuenti, senza operare alcuna
discriminazione/differenziazione tra di essi, rendendo meno
stringente l'obbligo di una più puntuale motivazione». Sulla
necessità di motivare gli aumenti tariffari per lo
svolgimento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti
non c'è un'uniformità di vedute nella giurisprudenza
amministrativa.
Il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010),
infatti, ha sostenuto che il comune deve motivare la
delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu per
coprire i costi del servizio. E non si può invocare
genericamente la necessità di assicurare la tendenziale
copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo
scostamento tra entrate e costo del servizio.
Per i giudici
di palazzo Spada il comune non è esonerato da uno specifico
obbligo di motivare l'incremento delle tariffe, nonostante
la Cassazione (sentenza 22804/2006) abbia escluso questo
adempimento per gli atti generali, come previsto
dall'articolo 3 della legge 241/1990. In effetti l'articolo
69 del decreto legislativo 507/1993, ai fini del controllo
di legittimità, dispone che la deliberazione debba indicare
le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati
consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio
discriminati in base alla loro classificazione economica,
nonché le circostanze che abbiano determinato l'aumento per
la copertura minima obbligatoria del costo.
Gli enti sono
poi tenuti ad adottare un regolamento che deve contenere non
solo la classificazione delle categorie ed eventuali
sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe
ridotte per particolari condizioni d'uso. Nell'ambito del
potere regolamentare possono essere individuate anche le
fattispecie agevolative, con le relative condizioni, le
modalità di richiesta e le eventuali cause di decadenza
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
TRIBUTI: Stop
ai pagamenti anche se il conduttore non è rurale. E anche
l'impianto solare schiva l'onere.
I campi senza Imu. Prima rata sospesa su tutti i terreni.
Non sono soggetti al pagamento dell'acconto Imu, la cui
scadenza è fissata per il prossimo 17 giugno, i terreni
agricoli anche se non condotti da coltivatori diretti e
imprenditori agricoli professionali.
Questa interpretazione
si ricava dalla formulazione letterale dell'articolo 1 del
dl 54/2013 che concede la sospensione del pagamento
richiamando l'articolo 13, comma 5 del dl «salva Italia»
(201/2011), in base al quale il valore dei terreni agricoli
su cui calcolare l'imposta è ottenuto moltiplicando il
reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1°
gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, per
135.
Per i coltivatori diretti e gli imprenditori professionali
iscritti nella previdenza agricola, invece, il
moltiplicatore è ridotto a 110. La norma, quindi,
ricomprende nella nozione di terreno agricolo anche quello
che non viene condotto direttamente da un coltivatore o
imprenditore agricolo professionale. L'articolo 1 si limita
però a concedere la sospensione dal pagamento dell'imposta
solo per i terreni agricoli, mentre sono tenuti a passare
alla cassa i titolari di terreni incolti, a meno che non
siano posseduti e condotti da un agricoltore. Dal 2012,
infatti, sono soggetti al pagamento dell'Imu anche i terreni
incolti che prima erano esclusi dal campo di applicazione
dell'Ici.
Va ricordato che i benefici fiscali sui terreni agricoli non
sono più limitati alle persone fisiche, ma si estendono
anche alle società agricole. Per la qualificazione di
coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale
occorre fare riferimento all'articolo 1 del decreto
legislativo 99/2004 e non più, come avveniva per l'Ici,
all'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997.
Quest'ultima disposizione qualificava coltivatori diretti e
imprenditori agricoli solo le persone fisiche iscritte negli
elenchi comunali e soggette alla contribuzione obbligatoria
per invalidità, vecchiaia e malattia. Dunque, escludeva le
aziende agricole (società di persone, cooperative e di
capitali, anche a scopo consortile). Tra l'altro, con le
modifiche apportate alla disciplina Imu dall'articolo 4 del
dl 16/2012, il trattamento agevolato per i terreni non è più
circoscritto alla finzione giuridica di non edificabilità
del suolo, ma abbraccia anche le riduzioni d'imposta.
In
particolare, i terreni agricoli posseduti e condotti da
coltivatori diretti o da imprenditori agricoli sono soggetti
all'Imu limitatamente alla parte di valore eccedente 6 mila
euro e con le seguenti riduzioni: a) del 70% dell'imposta
gravante sulla parte di valore eccedente i 6 mila euro e
fino a 15. 500; b) del 50% di quella gravante sulla parte di
valore eccedente 15.500 euro e fino a 25.500; c) del 25%
sulla parte di valore eccedente 25.500 euro e fino a 32 mila
(articolo ItaliaOggi del 30.05.201). |
TRIBUTI: Così
il fotovoltaico dribbla l'imposta.
Imu sospesa anche per i fabbricati rurali in cui sono
installati impianti fotovoltaici. La sospensione, prevista
dal dl n. 54/2013 entrato in vigore il 22.05.2013,
infatti riguarda anche agli impianti fotovoltaici connessi
all'attività agricola.
Con nota dell'agenzia del territorio
del 06.06.2012 n. 3189, infatti, viene previsto che «agli
immobili ospitanti le installazioni fotovoltaiche, censiti
autonomamente e per i quali sussistono i requisiti per il
riconoscimento del carattere di ruralità, nel caso in cui
ricorra l'obbligo di dichiarazione in catasto (...) è
attribuita la categoria D/10 - fabbricati per funzioni
produttive connesse ad attività agricole».
Dalla nota del Territorio pertanto possiamo dedurre che gli
impianti fotovoltaici connessi ad attività agricole,
accatastati nella categoria D/10 (immobili strumentali per
le attività agricole), rientrino tra le categorie di
immobili ammessi alla sospensione della rata Imu di giugno.
Ricordiamo che il decreto legge 21.05.2013, n. 54
(articolo 1, comma 1, lettera c), ha stabilito che la
sospensione della prima rata di giugno vale anche per i
«terreni agricoli e fabbricati rurali di cui all'articolo
13, commi 4, 5 e 8, del decreto-legge 06.12.2011, n.
201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive modificazioni». In seguito il
ministero dell'economia e delle finanze ha diramato la
circolare del 23.05.2013 n. 2/DF al fine chiarire i
numerosi dubbi sorti in capo ai contribuenti in merito al
versamento della prima rata Imu 2013.
Tra i dubbi chiariti
vi è quello riguardante la sospensione dell'acconto 2013
dell'Imu relativa ai terreni agricoli e i fabbricati rurali.
Pertanto dal combinato esame della nota del territorio e
della circolare delle finanze possiamo ritenere valida la
sospensione della prima rata Imu per gli impianti
fotovoltaici connessi alle attività agricole. Nell'ottica
dell'incentivazione della produzione di energia elettrica
mediante fonti rinnovabili, il legislatore ha introdotto,
negli ultimi anni, disposizioni di carattere fiscale volte a
promuovere l'esercizio di tali attività da parte degli
imprenditori agricoli.
Infatti la produzione e la cessione di energia elettrica e
calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche
nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali
provenienti prevalentemente dal fondo e dì prodotti chimici
derivanti da prodotti agricoli provenienti prevalentemente
dal fondo effettuate dagli imprenditori agricoli,
costituiscono attività connesse ai sensi dell'articolo 2135,
terzo comma, del codice civile (articolo 1, comma 423, della
legge 23.12.2005, n. 266)
(articolo ItaliaOggi del 30.05.2013). |
TRIBUTI: Imu, decide il comune.
Niente acconto se il bonus non è stato revocato.
Spiragli
per anziani e disabili ricoverati e per i residenti
all'estero.
Anziani, disabili e residenti all'estero non devono pagare
l'acconto Imu entro il prossimo 17 giugno se i comuni non
hanno revocato per l'anno in corso il trattamento agevolato
riconosciuto nel 2012 per gli immobili da loro destinati a
abitazione principale.
Lo ha chiarito il dipartimento delle
finanze del ministero dell'economia, con la
circolare 23.05.2013 n. 2/DF.
Dunque chi fruisce del trattamento agevolato, anche
se a seguito dell'assimilazione degli immobili
all'abitazione principale operata dai comuni, non è tenuto a
pagare l'acconto Imu.
Per il dipartimento, considerata la
finalità del legislatore di assicurare un regime di favore
per l'abitazione principale e relative pertinenze, sia nel
caso che l'assimilazione venga disposta per il 2013 «sia in
quello in cui la stessa è stata effettuata nel 2012 e non è
stata modificata nel 2013, l'assimilazione in questione
determina l'applicazione delle agevolazioni». Compresa la
sospensione del pagamento della prima rata Imu. I comuni,
infatti, possono estendere o ampliare i benefici per la
prima casa. Non scontano l'Imu come seconda casa gli
immobili posseduti da anziani o disabili e residenti
all'estero se il comune li ha assimilati o li assimila
all'abitazione principale.
L'articolo 13 del dl 201/2011
prevede che il trattamento agevolato possa essere concesso
per le unità immobiliari possedute, a titolo di proprietà o
usufrutto, da anziani o disabili che spostano la residenza
in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero
permanente, nonché per quelle possedute, a titolo di
proprietà o usufrutto, in Italia dai cittadini italiani non
residenti nel territorio dello stato, a condizione che non
risultino locate. Peraltro, nel 2012 la scelta di concedere
il beneficio fiscale era opportuna perché l'intero gettito
degli immobili utilizzati come «prima casa» era riservato ai
comuni. Allo stato non spettava la quota del 50%. E questa
regola valeva anche per gli immobili assimilati.
L'articolo 1 del dl 54/2013 ha sospeso il pagamento
dell'acconto Imu per gli immobili adibiti a abitazione
principale e relative pertinenze. Sono però esclusi dal
beneficio i fabbricati classificati nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9. La sospensione si estende anche
alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative
edilizie a proprietà indivisa adibite a prima casa dei soci
assegnatari, nonché a quelli assegnati da Iacp, Ater o da
altri enti di edilizia residenziale pubblica. Sono esonerati
dal pagamento dell'acconto anche i titolari di fabbricati
rurali e terreni agricoli. La sospensione sembra finalizzata
a un successivo riconoscimento dell'esenzione.
Per abitazione principale s'intende l'immobile, iscritto o
iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità
immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e
risiede anagraficamente. Sono da considerare pertinenze
dell'abitazione principale esclusivamente quelle
classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella
misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle
suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto
unitamente all'immobile adibito ad abitazione. Attualmente
la legge prevede per questi fabbricati l'applicazione di una
aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni possono
aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una
detrazione di 200 euro, che può essere maggiorata di 50 euro
per ogni figlio che risieda anagraficamente e dimori
abitualmente nell'immobile, fino a un massimo di 400 euro,
al netto della detrazione ordinaria.
Il contribuente, però, può fruire delle agevolazioni «prima
casa» per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto
più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto. I
singoli fabbricati vanno assoggettati separatamente a
imposizione, ciascuno per la propria rendita. È il
contribuente a scegliere quale destinare a abitazione
principale (circolare 3/2012)
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2013
- tratto da link a www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Valore
venale.
Domanda
Un comune del
Lecchese vuole applicare l'Imu su un'area fabbricabile di
recente acquisto in base al prezzo di compravendita, più
alto del valore di mercato per ragioni di specifico
interesse dell'acquirente e anche dei valori parametrici
indicati dallo stesso comune per ridurre il rischio di
contenzioso con i propri contribuenti. Vorrei sapere se la
pretesa del comune è legittima.
Risposta
Per le aree
fabbricabili taluni comuni hanno inserito nel proprio
regolamento la regola secondo la quale se è rilevabile da un
atto ufficiale un dato prezzo esso deve essere assunto come
base imponibile Imu. Ciò anche nel caso in cui il comune
abbia approvato i valori parametrici per le aree
fabbricabili ubicate nelle varie zone del territorio
comunale ed essi risultino più bassi di quelli desumibili
dai predetti atti.
In realtà, tale pretesa incontra un limite nella normativa
in quanto l'art. 5, c. 5, del dlgs n. 504/92), applicabile
anche all'Imu, precisa che l'imponibile è dato dal valore «venale
in comune commercio al 1° gennaio dell'anno di imposizione,
avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione,
all'indice di edificabilità, alla destinazione d'uso
consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento
del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi
rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe
caratteristiche».
Inoltre, qualora il comune abbia approvato con delibera
consiliare i valori minimi rispettando i quali i
contribuenti non soggiacciono al rischio di accertamento,
appare contraddittorio e ben poco rispettoso del dovere di
imparzialità, derogare a tale regola per i soli possessori
di terreni per i quali siano intervenuti trasferimenti a
prezzi più elevati: lo stesso terreno, infatti, in un caso
sarebbe soggetto ad accertamento, nell'altro no, senza
ragione alcuna.
Peraltro, i contribuenti non hanno alcun obbligo di
attenersi ai valori parametrici comunali o all'indicazione
di dover dichiarare il prezzo di acquisizione dell'area
fabbricabile, dal momento che l'imponibile di tale tipologia
di immobile è dato dal suo valore venale. Valore venale che
può risultare inferiore al prezzo per varie ragioni, tutte
legittime, in quanto potrebbe essere stato pagato più del
suo valore in dipendenza proprio di specifici interessi del
contribuente, come segnalato nel quesito: per esempio,
completare una serie di lotti già posseduti con un ulteriore
appezzamento, evitare il rischio che l'appezzamento finisca
in mani altrui e possa essere edificato pregiudicando il
proprio interesse, per ragioni affettive; oppure perché si
può avere fatto un cattivo affare e si è pagato un'area più
del suo valore commerciale.
Il comune non dovrebbe quindi mai procedere meccanicamente
all'accertamento, ma esaminare con la dovuta attenzione
quale sia il reale valore venale in comune commercio del
bene, a prescindere dal prezzo a cui è avvenuta la
transazione, se del caso avviando anche un confronto con il
contribuente
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2013). |
TRIBUTI:
Oggetto: Novità attinenti il versamento della prima rata
IMU ed alle relative modalità di calcolo (ANCE di
Bergamo,
circolare 24.05.2013 n. 125). |
TRIBUTI:
La riforma Imu punti all'equità. Niente esenzione
prima casa in presenza di altri immobili.
I
comuni dovrebbero avere libertà di manovra sulle aliquote
per i grandi patrimoni.
La volontà politica del nuovo governo di procedere con la
riforma complessiva del fisco immobiliare locale è una
scelta condivisibile, a condizione di non generare
aspettative frutto di demagogia o di banalizzazione, con
agevolazioni o esenzioni prive di copertura finanziaria,
mettendo a rischio le entrate degli enti locali.
Il decreto legge 54 del 21.05.2013, ha sospeso il pagamento
dell'Imu per le abitazioni principali e relative pertinenze,
esclusi i fabbricati di categoria A/1, A/8 e A/9, per le
unità immobiliari delle cooperative a proprietà indivisa e
degli istituti autonomi case popolari e enti similari, per i
terreni agricoli e per i fabbricati rurali.
La sospensione è una scelta transitoria e impone l'obbligo
di assumere decisioni definitive entro il 31.08.2013, ma in
primo luogo è necessario arrivare a una riforma complessiva,
indicando con chiarezza tempi realistici e fonti di
finanziamento.
Una riforma seria dell'Imu dovrebbe porsi pochi obiettivi
raggiungibili, comprensibili e applicabili con semplicità,
evitando di porsi obiettivi troppo ambiziosi che
renderebbero impossibili le fasi attuative, in tempi così
brevi.
L'ipotesi di eliminazione dell'Imu e della Tares, con la
nascita, peraltro in corso d'anno, di una nuova «Service
Tax», è un progetto troppo ambizioso e pieno di ostacoli
tecnici e operativi, con il rischio di una profonda
confusione sull'individuazione del soggetto passivo, sulla
base imponibile, sul concetto di utilizzo, sulla
inconciliabilità tra un'imposta patrimoniale e il principio
europeo sui rifiuti «paghi in base a quanto inquini».
La scelta della «Service Tax» è già stata abbandonata
negli anni passati e la sua replica, lascia trasparire un
eccesso di sottovalutazione delle problematiche tecniche ed
operative da parte di coloro che ne alimentano
l'introduzione, senza alcuna reale consapevolezza delle
difficoltà applicative.
In questo quadro i comuni italiani come possono deliberare
aliquote Imu e tariffe Tares, senza conoscere se i loro
tributi saranno confermati o eliminati, come si pensa che i
contribuenti interpretino questa ondivaga volontà del
governo rispetto alla prossima scadenza di giugno, quali
gettiti saranno credibilmente incassati in assenza di regole
certe sulla Tares, quali sicurezze vi sono sulla conferma
dell'attività di riscossione coattiva per i comuni da parte
di Equitalia.
Prima di approfondire le possibili scelte della riforma, è
necessario, a tutela dei circa 6 mila comuni che riscuotono
con Equitalia e a tutela dei livelli occupazionali della
stessa società di riscossione pubblica, intervenire con una
proroga immediata dell'attività in scadenza il 30.06.2013,
per dare continuità all'invio dei ruoli per la riscossione
coattiva, evitando l'isolamento dei piccoli comuni e il
disperdersi di potenziali gettiti comunali.
In questo quadro di profonda incertezza della fiscalità
locale, la riforma rischia di disattendere aspettative
politiche eccessive, prive di coperture, e di produrre
difficoltà nei flussi finanziari dei comuni, è quindi
necessario riformulare l'attuale struttura dell'Imu e della
Tares limitandosi ad apportare correttivi qualitativi e
credibili, riducendo le disuguaglianze sociali.
In assenza di risorse, non è equo decidere se l'Imu sulla
prima casa non di lusso, debba essere pagata o esentata a
tutti i contribuenti, a prescindere dal reddito e dalla
ricchezza posseduta.
Il concetto di abitazione principale, ha necessità di essere
distinto tra l'unica casa e la prima casa. Il legislatore
tende a uniformare le due fattispecie, ma in quella
distinzione vi sono spesso storie personali e familiari
molto diverse e con capacità patrimoniali e finanziarie non
allineate.
Esiste quindi la necessità di andare oltre il concetto di
tassazione Imu della prima casa, non di lusso, separando la
casistica in due fattispecie fiscali diverse:
1. unica casa non di lusso,
2. prima casa di altre.
Trattasi di fabbricati che, al momento, sono sottoposti allo
stesso livello di tassazione con identica aliquota, seppure
la differenziazione patrimoniale delle due casistiche non
sfugge certamente al lettore.
Il nuovo decreto legge 54/2013 si è limitato a mantenere la
tassazione sulle prime case di lusso, esentando tutte le
altre abitazioni principali, ma il minore gettito di circa 4
miliardi di euro che ne deriva, è insostenibile per le casse
dei comuni, per questo motivo Legautonomie propone di
passare dal concetto di prima casa, al concetto di unica
casa non di lusso.
Applicare l'esenzione Imu sull'unica casa non di lusso, è
una scelta di equità che garantirebbe un risparmio fiscale
alle fasce sociali più deboli e maggiormente aggredite dalla
crisi economica generale, con un minore gettito che potrebbe
essere assorbito utilizzando il principio di progressività
sui grandi patrimoni immobiliari, così come richiestoci
dall'Unione europea.
In carenza di risorse, l'esenzione non può eticamente essere
attribuita ai proprietari di una prima casa e di molti altri
immobili, l'appiattimento del beneficio rischia di
accentuare le disuguaglianze sociali, ponendosi in palese
contrasto con il principio dell'art. 53 della Costituzione
che recita: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il
sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Una parte significativa della popolazione è proprietaria
della propria abitazione:
- 17 milioni di famiglie circa sul totale di 23 milioni di
famiglie italiane possiedono la prima casa;
- 18 milioni di famiglie sono proprietarie di seconda casa,
immobili per usi non abitativi propri, immobili in affitto
per abitazione e altri usi.
Ben diversa appare invece la situazione quando si esamina
l'aspetto strettamente legato alla distribuzione del
patrimonio immobiliare e della ricchezza, che risulta, al
contrario, caratterizzata da un elevato grado di
concentrazione: molte famiglie ne detengono livelli modesti
o nulli; all'opposto, poche famiglie dispongono di patrimoni
elevati: il 10% delle famiglie italiane detiene circa il 46%
della ricchezza complessiva.
La riforma dell'Imu deve quindi tendere all'eliminazione
dell'imposta per i soli proprietari di un'unica casa non di
lusso, ampliando gli spazi di manovra dei comuni sulle
aliquote per i grandi patrimoni, per valore o per numero,
chiedendo un contributo fiscale più elevato ai più ricchi, a
favore della necessaria copertura finanziaria del minore
gettito derivante dall'applicazione della suddetta esenzione
sull'unica casa posseduta.
È inoltre necessario procedere con una semplificazione della
tassazione immobiliare, eliminando le molteplici imposte
statali che colpiscono fabbricati e terreni (imposta di
registro, imposta catastale e ipotecaria, imposta su
successioni e donazioni, cedolare secca) accorpandole nell'Imu,
al fine di avere un tributo comunale unico sugli immobili.
Equità, progressività e semplificazione sono obiettivi
credibili, raggiungibili e capaci di ridurre le
disuguaglianze, a parità di gettito, evitando il ricorso a
improbabili riforme complessive che risultano prive di
logica in un contesto temporale così breve.
Una riforma complessiva e più ambiziosa della fiscalità
immobiliare, non deve infatti partire dalla rimodulazione
dell'Imu, ma dalla emanazione di un Testo unico sui tributi
locali, che raccolga tutte le norme di riferimento e dalla
profonda e efficace revisione del catasto affinché le
rendite catastali diventino credibili ed esprimano il
concreto valore dei patrimoni immobiliari, evitando medie e
appiattimenti che penalizzano i più deboli.
Per capire quanto le rendite catastali siano distanti dalla
realtà, è infatti sufficiente visionare i dati
dell'osservatorio del mercato immobiliare, forniti da altro
ufficio della stessa Agenzia del territorio.
L'Imu è anche un metodo di redistribuzione finanziaria delle
risorse, attraverso un parziale e modesto trasferimento
monetario di riequilibrio sociale.
Tutto questo è doveroso ed equo, soltanto se la
progressività per le grandi ricchezze e l'esenzione per
l'unica abitazione non di lusso, divengono obiettivi di una
politica fiscale seria e condivisa, garantendo agli enti
locali il diritto di esercitare la propria autonomia fiscale
con principi di equità e di semplificazione
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Non sono obbligatorie le scadenze Tares fissate dal Mef.
I chiarimenti in una nota Ifel che sollecita la
pubblicazione dei codici tributo.
Le scadenze per il pagamento della Tares indicate nel
decreto ministeriale con il quale è stato approvato il
bollettino di conto corrente postale non sono obbligatorie
perché non previste dalla norma di legge. Il ministero
dell'economia e delle finanze, nel fissare le scadenze delle
rate, si è spinto oltre quanto stabilito dalla norma che
disciplina il tributo. Il nuovo bollettino potrà essere
utilizzato solo a partire dal prossimo 1° luglio e riporta
un unico numero di conto corrente che è valido per tutti i
comuni del territorio nazionale. La maggiorazione va pagata
con l'ultima rata Tares.
Sono alcune precisazioni contenute
nella
nota 21.05.2013 dell'Ifel che, tra l'altro, sollecita
la pubblicazione dei codici tributo Tares da inserire nel
modello F24. Inoltre, con una nota del 22 maggio sono stati
segnalati i nuovi codici tributo, istituiti con la
risoluzione n. 33/E dell'Agenzia delle entrate, per il
pagamento dell'Imu, tramite «F24» e «F24 EP», relativamente
agli immobili di categoria D, il cui gettito va allo stato
con aliquota standard del 7,6 per mille.
Pagamento Tares. Correttamente la fondazione Anci ha
chiarito che il decreto ministeriale «si spinge ad indicare
periodi di pagamento non previsti dalla normativa primaria
(dal 1° giorno ed entro il 16° giorno di ciascun mese di
scadenza delle rate)». Quindi, non possono essere
considerate obbligatorie.
L'Ifel pone in evidenza che il modello di bollettino di
conto corrente postale, intestato a «Pagamento Tares»,
riporta obbligatoriamente il numero di conto 1011136627, che
è valido per tutti i comuni del territorio nazionale. In
base alle ultime modifiche normative introdotte con
l'articolo 10 del dl 35/2013, la maggiorazione va pagata
contestualmente all'ultima rata del tributo, nella misura
fissa di 30 centesimi al metro quadrato, e verrà incassata
dallo stato.
In deroga alla disciplina ordinaria del tributo, infatti, i
comuni non possono aumentarla fino a 40 centesimi. La nota
interviene anche sulle modalità di riversamento ai comuni
delle somme riscosse e ricorda che la tempistica e le
modalità sono analoghe a quelle previste per i versamenti
unitari (F24) dal decreto legislativo 241/1997. In effetti,
il decreto ministeriale dispone che la società Poste
italiane è tenuta a riversare sulla contabilità speciale n.
1777 «Agenzia delle entrate - Fondi della riscossione»,
aperta presso la Banca d'Italia, le somme pagate dai
contribuenti tramite i bollettini di conto corrente.
Deve poi trasmettere alla struttura di gestione i dati
analitici indicati nei bollettini. In seguito alla
rendicontazione da parte delle Poste, la struttura di
gestione accredita le somme agli enti. Tributo e
maggiorazione sono accreditati ai comuni, mentre la tariffa
deve essere accreditata al gestore del servizio. Solo per il
2013, se deliberato dal comune, il gestore può riscuotere
anche il tributo.
Il comune o l'affidatario del servizio possono inviare ai
contribuenti i bollettini precompilati nei quali vanno
riportati il codice catastale dell'ente e gli importi
dovuti. Infine è urgente, per l'Ifel, la pubblicazione dei
codici tributo Tares da inserire nel modello F24.
Imu. Con la nota del 22 maggio viene invece dato risalto
alla risoluzione n. 33 con la quale l'Agenzia delle entrate
ha diffuso i codici tributo per il versamento, tramite
modello «F24» e «F24 EP», dell'imposta municipale relativa
agli immobili a uso produttivo classificati nel gruppo
catastale D. Da quest'anno, infatti, l'Imu torna a essere a
tutti gli effetti un'imposta comunale.
Tuttavia, allo stato va la quota del gettito derivante dagli
immobili classificati nel gruppo catastale D, calcolato con
l'aliquota standard del 7,6 per mille. Per questi fabbricati
i comuni hanno la facoltà di aumentare l'aliquota base di 3
punti percentuali e di incassare le maggiori somme (articolo
ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche
recate dall’art. 10, comma 4, lett. b), del D.L. 08.04.2013,
n. 35, in corso di conversione. Quesiti in materia di
pagamento della prima rata dell’imposta relativa all’anno
2013 (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
circolare 23.05.2013 n. 2/DF). |
TRIBUTI:
Decreto Ministero dell’Economia e delle Finanze del
14.05.2013 di approvazione del modello di bollettino di
conto corrente postale concernente il versamento del tributo
comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES) (IFEL,
nota 21.05.2013). |
TRIBUTI:
G.U. 21.05.2013 n. 117 "Interventi urgenti in tema di
sospensione dell’imposta municipale propria, di
rifinanziamento di ammortizzatori sociali in deroga, di
proroga in materia di lavoro a tempo determinato presso le
pubbliche amministrazioni e di eliminazione degli stipendi
dei parlamentari membri del Governo"
(D.L.
21.05.2013 n. 54). |
TRIBUTI:
Congelato l'acconto dell'Imu.
Sospensione per la prima casa. Immobili di pregio esclusi.
Il provvedimento del consiglio dei ministri, in attesa di
una riforma del sistema.
Sospeso il pagamento dell'acconto Imu, fissato per il
prossimo 17 giugno, per gli immobili adibiti ad abitazione
principale e relative pertinenze. Sono però esclusi dal
beneficio i fabbricati classificati nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9. La sospensione si estende anche
alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative
edilizie a proprietà indivisa adibite a prima casa dei soci
assegnatari, nonché a quelli assegnati da Iacp, Ater o da
altri enti di edilizia residenziale pubblica. Sono esonerati
dal pagamento dell'acconto anche i titolari di fabbricati
rurali e terreni agricoli, in attesa di una complessiva
riforma dell'imposizione fiscale sul patrimonio immobiliare
che dovrebbe essere varata nei prossimi mesi.
È quanto
prevede l'articolo 1 del decreto legge approvato venerdì
scorso dal Consiglio dei ministri.
La sospensione del pagamento dell'acconto Imu, la cui
scadenza è prevista per il 17 giugno, nelle more della
riforma del sistema di tassazione degli immobili, sia a
livello statale sia locale, sembra finalizzata a un
successivo riconoscimento dell'esenzione dal pagamento,
soprattutto per gli immobili destinati a abitazione
principale. Va ricordato che dal 2008 al 2011 sono stati
esonerati dal pagamento dell'Ici i titolari di questi
immobili. Così come sono state escluse dal beneficio le
unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali A1, A8
e A9 (immobili di lusso, ville e castelli).
La qualificazione giuridica di abitazione principale. Per
abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o
iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità
immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e
risiede anagraficamente. Sono da considerare pertinenze
dell'abitazione principale esclusivamente quelle
classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella
misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle
suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto
unitamente all'immobile adibito ad abitazione. Attualmente
la legge prevede per queste unità immobiliari l'applicazione
di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni
possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una
detrazione di 200 euro, che può essere maggiorata di 50 euro
per ogni figlio che risiede anagraficamente e dimora
abitualmente nell'immobile, fino a un massimo di 400 euro,
al netto della detrazione ordinaria.
Il contribuente, però, può fruire delle agevolazioni «prima
casa» per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto più
unità immobiliari distintamente iscritte in catasto, a meno
che non abbia provveduto al loro accatastamento unitario. Lo
ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia con la circolare 3/2012. Rispetto a quanto
previsto per l'Ici, la definizione di abitazione principale
presenta dei profili di novità. L'articolo 13, comma 2, del
dl 201/2011 prevede che per abitazione principale si intende
l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio
urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore
e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente. Dalla lettura della norma, per il
dipartimento, «emerge, innanzitutto, che l'abitazione
principale deve essere costituita da una sola unità
immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto a prescindere
dalla circostanza che sia utilizzata come abitazione
principale più di una unità immobiliare». Quindi, le singole
unità vanno assoggettate separatamente a imposizione,
ciascuna per la propria rendita. È il contribuente a
scegliere quale destinare a abitazione principale.
L'interpretazione ministeriale, però, non può essere
condivisa, in quanto richiama nella circolare il principio
affermato per la prima volta dalla Cassazione (sentenza
25902/2008) per l'Ici, poi ribadito con altre pronunce, ma
lo ritiene superato dalla nuova disposizione, secondo la
quale il beneficio fiscale è limitato a una sola unità
immobiliare, mentre le altre, ancorché utilizzate di fatto
come abitazione principale, non possono fruire del
trattamento agevolato. Invece, anche per l'Imu il
contribuente dovrebbe fruire dei benefici fiscali, qualora
utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come
abitazione principale, visto che l'articolo 13 richiede che
si tratti di un'unica unità immobiliare «iscritta o
iscrivibile» come tale in catasto. Occorre dare un senso
alla formulazione letterale della norma che fa riferimento
ai diversi immobili che sono potenzialmente «iscrivibili»
come un'unica unità immobiliare. In questi casi, dunque, è
sufficiente che sussistano due requisiti: uno soggettivo e
l'altro oggettivo. In particolare, le diverse unità
immobiliari devono essere possedute dallo stesso titolare (o
dagli stessi titolari) e devono essere contigue. E l'Agenzia
del territorio dovrebbe certificare l'iscrivibilità come
unica unità immobiliare.
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Esonero esteso ai fabbricati rurali e ai terreni agricoli.
Sono esonerati dal pagamento dell'acconto Imu anche i
titolari di fabbricati rurali e terreni agricoli.
Fabbricati rurali. Per gli immobili rurali dal 2012 sono
cambiate le regole sulle agevolazioni. Quelli adibiti ad
abitazione di tipo rurale sono stati assoggettati al
pagamento dell'Imu con applicazione dell'aliquota ordinaria,
a meno che non siano destinati a prima casa. Mentre per
quelli strumentali, vale a dire quelli utilizzati per la
manipolazione, trasformazione e vendita dei prodotti
agricoli, non è più prevista l'esenzione, ma un trattamento
agevolato con applicazione dell'aliquota del 2 per mille che
i comuni possono ridurre all'1 per mille. Mentre è stata
confermata l'esenzione solo per i fabbricati strumentali
ubicati in comuni montani o parzialmente montani indicati in
un elenco predisposto dall'Istat.
Bisogna inoltre ricordare che per i fabbricati rurali
strumentali non conta più la classificazione catastale per
avere diritto alle agevolazioni fiscali. Possono infatti
mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente
l'annotazione catastale, tranne per i fabbricati strumentali
che siano per loro natura censibili nella categoria D/10.
Con la circolare 2/2012 l'Agenzia ha anche fornito dei
chiarimenti, relativamente a quanto disposto dal decreto
ministeriale emanato il 26.07.2012, sugli adempimenti
che devono porre in essere i titolari dei fabbricati
interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali
della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu del
trattamento agevolato.
Terreni agricoli e incolti. L'articolo 1 del dl si limita a
concedere la sospensione dal pagamento dell'imposta solo per
i terreni agricoli, mentre sono tenuti a passare alla cassa
i titolari di terreni incolti. Dal 2012, infatti, sono
soggetti al pagamento dell'Imu anche i terreni incolti che
prima erano esclusi dal campo di applicazione dell'Ici.
Oltre ai terreni agricoli la nuova imposta colpisce i
terreni diversi da quelli fabbricabili e da quelli
utilizzati per l'esercizio delle attività agricole.
Terreni agricoli, secondo la definizione contenuta
nell'articolo 2135 del Codice civile, sono quelli utilizzati
per l'esercizio dell'attività agricola, ovvero la
coltivazione del fondo, la silvicoltura, l'allevamento
animali e le attività connesse. In base all'articolo 13 del
dl salva-Italia (201/2011), il valore dei terreni agricoli
su cui calcolare l'imposta è ottenuto moltiplicando il
reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1°
gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, per
135. La norma, invece, prevede un trattamento agevolato per
i coltivatori diretti e gli imprenditori professionali
iscritti nella previdenza agricola, per i quali il
moltiplicatore di riferimento è ridotto a 110, anche se i
terreni non vengono coltivati (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.05.2013). |
TRIBUTI: G.U.
20.05.2013 n. 116 "Approvazione del modello di bollettino
di conto corrente postale concernente il versamento del
tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES)"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 14.05.2013). |
TRIBUTI: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Varato il dl. Per le imprese deducibilità
dall'Ires, ma non subito.
Imu sospesa in attesa di riforma.
Senza nuove regole entro agosto, versamenti al 16/09.
Imu prima casa sospesa in attesa di riforma. Mentre le
imprese incassano per il momento solo una promessa: quando
metterà mano all'intera materia della fiscalità immobiliare
(Tares compresa), il governo introdurrà forme di
deducibilità dai redditi d'impresa (Ires) dell'Imu pagata
sugli immobili strumentali.
È questo il compromesso
raggiunto nel consiglio dei ministri di ieri che ha
approvato il decreto legge di sospensione dell'imposta
municipale sugli immobili in attesa di una complessiva
riforma dell'imposizione immobiliare che avrà come deadline
il 31 agosto.
Nel frattempo l'appuntamento del 17 giugno per l'acconto Imu
slitterà per 15 milioni di proprietari di abitazione
principale (e relative pertinenze) ad accezione solo degli
immobili di lusso, iscritti nelle categorie catastali A/1
(abitazioni di tipo signorile), A/8 (ville) e A/9 (castelli
e palazzi di pregio storico-artistico). Niente acconto a
giugno anche per gli immobili delle cooperative edilizie a
proprietà indivisa, adibiti ad abitazione principale (e
relative pertinenze), nonché per gli alloggi assegnati dagli
Istituti autonomi case popolari (Iacp) e per gli enti di
edilizia residenziale pubblica. E anche per terreni agricoli
e fabbricati rurali l'appuntamento con l'acconto è rimandato
a settembre (si veda altro pezzo in pagina).
Il
testo del provvedimento, che stanzia anche 990 milioni
per il finanziamento della Cassa integrazione in deroga e
proroga al 31 dicembre i contratti dei precari della
pubblica amministrazione, non è stato tuttavia ancora
licenziato in via definitiva dal governo (lo sarà lunedì) in
attesa di completare l'allegato con le quantificazioni della
quota Imu di competenza di ciascun comune.
Nel periodo di sospensione dell'acconto il governo dovrà
riformare la fiscalità immobiliare locale nel rispetto degli
obiettivi indicati nel Documento di economia e finanza 2013
(dove però l'Imu, senza distinzione tra prima e seconda
casa, viene descritta come un'imposta permanente e
strutturale, il che ne escluderebbe qualsiasi ipotesi di
definitiva cancellazione) e in coerenza con gli impegni
assunti in sede europea. Se la riforma non arriverà entro
fine agosto, l'attuale disciplina dell'Imu prima casa
rivivrà e i contribuenti saranno chiamati al versamento
entro il 16 settembre.
La sospensione dell'imposta non produrrà problemi di
liquidità nei comuni. Infatti, i buchi di bilancio che si
apriranno nei conti per effetto del mancato incasso
dell'acconto saranno compensati attraverso il meccanismo
delle anticipazioni di tesoreria. Come anticipato su
ItaliaOggi dell'08/05/2013, i comuni potranno chiedere sino al
30 settembre anticipazioni pari al 50% del gettito Imu prima
casa 2012 di propria pertinenza calcolato ad aliquota base
(là dove i sindaci hanno deciso di limitare il prelievo al 4
per mille) o ad aliquota maggiorata (nei municipi che l'anno
scorso hanno deliberato una tassazione extra anche sulla
prima casa). Gli importi che gli enti potranno chiedere
terranno conto anche del gettito Imu proveniente dagli
immobili di cooperative e Iacp.
Gli oneri per interessi sulle somme anticipate ai sindaci
saranno a carico dello stato, nel senso che sarà il
ministero dell'interno a rimborsarli ai comuni con modalità
da definire entro 20 giorni dall'entrata in vigore del
decreto. Si dovrebbe trattare in totale di 18,2 milioni per
il 2013, che saranno attinti in questo modo: 12,5 milioni,
mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di
politica economica, 5,1 milioni mediante riduzione di alcuni
fondi speciali nello stato di previsione del Mef e infine
600 mila euro dal risparmio ottenuto dal divieto di cumulo
tra gli stipendi da ministro, viceministro e sottosegretario
con l'indennità parlamentare. Una misura, questa, annunciata
da Enrico Letta nel discorso con cui ha chiesto la fiducia
delle camere e trasposta nel decreto legge approvato ieri.
Secondo la Cgia di Mestre, la deducibilità dell'Imu dalle
imposte dirette produrrebbe un vantaggio fiscale medio sui
capannoni a uso industriale di oltre 3.300 euro. La
simulazione è stata realizzata sul risparmio Imu che
potrebbe godere una srl metalmeccanica avente un reddito di
90.000 euro e un capannone da 5.000 mq con una rendita
catastale di oltre 9.500 euro.
Tuttavia secondo gli artigiani di Mestre «è indispensabile
che questa opportunità sia concessa non solo ai proprietari
degli immobili a uso produttivo, ma anche alle micro imprese
(laboratori artigianali e negozi) che si trovano in perenne
crisi di liquidità». «Vigileremo perché non si facciano
differenza tra grandi e piccole imprese», ha assicurato
Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia. Soddisfazione
per la sospensione dell'acconto è stata anche espressa da
Confedilizia, il cui presidente, Corrado Sforza Fogliani, ha
però puntato il dito contro la «superficialità» con cui si
sono individuati gli immobili di lusso per i quali la
sospensione non si applicherà. Mentre il presidente dell'Anci,
Alessandro Cattaneo, ha rimarcato la situazione di
incertezza in cui con la sospensione dell'Imu si troveranno
i comuni nella predisposizione dei bilanci. «Incertezze alle
quali pare difficile poter dare risposta»
(articolo ItaliaOggi del 18.05.2013). |
TRIBUTI: La Tares a conguaglio va versata al comune.
I gestori possono incassare soltanto gli acconti, dice l'Ifel.
L'ultima rata Tares, a conguaglio di quanto pagato dai
contribuenti in acconto, deve essere versata ai comuni. I
gestori del servizio rifiuti possono incassare solo i
pagamenti in acconto.
È quanto affermato dall'Ifel
(fondazione Anci) con la
nota 10.05.2013, con la
quale ha fornito dei chiarimenti ai comuni sulla corretta
applicazione delle nuove disposizioni contenute
nell'articolo 10 del dl 35/2013. Questa interpretazione si
pone però in contrasto con quanto sostenuto dal ministero
dell'economia con la circolare 1/2013.
Dunque, l'Ifel prende una posizione diversa dal ministero
anche sulla riscossione della Tares, oltre che sull'Imu. Ha
infatti precisato nella nota che i gestori del servizio
possono incassare solo gli acconti. Il saldo va versato
direttamente ai comuni. Mentre per il ministero possono
incassare anche il saldo. Secondo la fondazione Anci la
circolare ministeriale «propone una lettura estensiva»
dell'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.», poiché attribuisce
«direttamente alle aziende di gestione del servizio rifiuti
l'intero gettito annuale del tributo, previa delibera
comunale in tal senso», nonostante la norma non deroghi
espressamente
«alla diretta destinazione al comune delle
somme incassate a titolo di Tares, come prescritto
ordinariamente dallo stesso comma 35, terzo periodo».
La
nota pone in rilievo che «una lettura più prudente delle
norme straordinarie recate dal dl 35» porta a escludere che
il gestore incassi l'ultima rata 2013, in quanto
«dall'attivazione del pagamento via F24 il comune dovrebbe
invece essere il diretto destinatario delle somme riscosse».
Fermo restando che bisogna accelerare l'iter per i pagamenti
delle somme dovute al gestore per l'attività svolta.
In effetti l'articolo 10, che deroga alla disciplina
ordinaria del tributo, dispone che la nuova tassa sui
rifiuti e la maggiorazione sui servizi si pagheranno con
l'ultima rata, a conguaglio delle somme versate in acconto.
Le rate possono essere determinate in base a quanto già
versato dai contribuenti nell'anno 2012 per Tarsu, Tia1 e
Tia2. Inoltre la maggiorazione, fissata nella misura di 0,30
euro per metro quadrato, non può essere aumentata dai comuni
e il gettito è riservato allo stato.
Gli enti locali, con
propria deliberazione, possono stabilire il numero delle
rate di versamento del tributo. Ma i cittadini devono essere
informati, anche con la pubblicazione sul sito internet del
comune, almeno 30 giorni prima della data di scadenza dei
pagamenti. Per le prime due rate le amministrazioni locali
possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento
di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal
quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013.
La prima
rata fissata ex lege per il mese di luglio, come
previsto dal dl rifiuti (1/2013), può essere anticipata
anche nel caso in cui il comune non abbia adottato il
regolamento, che deve essere emanato entro il prossimo 30
giugno. Concessionari e gestori del servizio possono
continuare a riscuotere il tributo, con l'unico dubbio che
possano incassarlo per tutto il 2013, anche a saldo, o solo
in acconto. Si ritiene più aderente al dettato normativo la
circolare ministeriale, che opta per la prima soluzione
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013). |
TRIBUTI: Tarsu sui campeggi, strutture fisse come le civili
abitazioni.
Sentenza della ctp Lecce.
Tarsu campeggi: equiparata la superficie delle strutture
fisse abitative a quella delle civili abitazioni.
Con la
sentenza n. 177/02/13, la Ctp di Lecce ha stabilito che le
strutture fisse abitative dei campeggi (per esempio
bungalow, piazzole) devono essere tassate con l'aliquota
unica delle civili abitazioni.
La vicenda ha a oggetto
l'impugnazione da parte di una società, proprietaria di un
campeggio, di una cartella di pagamento relativa a Tarsu
anno 2008. In particolar modo, la ricorrente eccepiva la
nullità della cartella per illegittimità della tariffa per
contrasto con l'art. 68 del dlgs n. 507/1993 nonché la
nullità della cartella per illegittimità del regolamento e
della relativa delibera comunale, con conseguente
disapplicazione degli stessi; in subordine, chiedeva che
venisse disposta la riliquidazione della tassa dovuta in
applicazione della tariffa prevista per le abitazioni
private ai sensi dell'art. 68 citato.
I giudici di merito
nell'accogliere parzialmente il ricorso della società
ricorrente hanno ricordato come l'art. 68 del dlgs 507/1993
stabilisce che i comuni, per l'applicazione della tassa,
sono tenuti ad adottare apposito regolamento che deve
contenere, tra l'altro, la classificazione delle categorie e
delle eventuali sottocategorie di locali e aree con omogenea
potenzialità di rifiuti da tassare con la medesima misura
tariffaria. Con il comma 2 del suddetto articolo il
legislatore suggerisce l'articolazione delle categorie e
delle eventuali sottocategorie da compiersi «ai fini della
determinazione comparativa delle tariffe» tenendo conto, in
via di massima, di alcuni gruppi di attività o di
utilizzazione.
La lettera c) del citato comma 2 accorpa nel
medesimo gruppo i locali e aree a uso abitativo per nuclei
familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri;
tale elencazione, peraltro, deve considerarsi meramente
esemplificativa. Alla luce di tanto, è dato leggersi in
sentenza, «appare irragionevole ritenere che un nucleo
familiare in vacanza produca maggiori rifiuti di quelli
prodotti ordinariamente nella propria abitazione» e,
pertanto, il comune deve provvedere alla riliquidazione
della Tarsu.
Con tale pronuncia, in sostanza, è stato ribadito quanto già
stabilito per gli alberghi che sono stati parimenti
assimilati, dalla giurisprudenza di merito, a civili
abitazioni
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2013). |
TRIBUTI: Sul verde pubblico non si paga l'Ici.
Ctr Milano: nei parchi l'inedificabilità è palese.
Un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore
generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al
pagamento dell'Ici. Il vincolo di destinazione, infatti, non
consente di dichiarare l'area edificabile poiché al
contribuente viene impedito di operare qualsiasi
trasformazione del bene.
È quanto ha affermato la
Commissione Tributaria regionale di Milano, sezione XXXV,
con la
sentenza 13.05.2013 n. 71.
Per il giudice d'appello, lo strumento urbanistico vigente
destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport
«rendendo palese e percepibile il vincolo di utilizzo
meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità».
Nella sentenza vengono richiamate alcune pronunce della
Cassazione che hanno fissato questo principio, che però non
è assolutamente pacifico. In particolare, la Cassazione
(sentenza 25672/2008) ha stabilito che se il piano
regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia
destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione
urbanistica impedisce al privato di poter edificare. Dunque,
l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se
l'edificabilità è prevista dallo strumento urbanistico.
La natura edificabile delle aree comprese in zona destinata
a verde pubblico attrezzato impedisce ai privati la
trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica
di edificazione. In questi casi, la finalità è quella di
assicurare la fruizione pubblica degli spazi. Mentre, con la
sentenza 19131/2007 aveva sostenuto che l'Ici fosse dovuta
su un'area edificabile anche se sottoposta a vincolo
urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che
conta è il valore di mercato dell'immobile nel momento in
cui è soggetto a imposizione.
Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano
precisato che l'Ici non «ricollega il presupposto
dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla
sua attitudine a incrementare il proprio valore o il reddito
prodotto».
Il valore dell'immobile assume rilievo solo per determinare
la misura dell'imposta. L'area doveva essere considerata
edificabile anche se qualificata «standard» e,
quindi, vincolata a esproprio
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
TRIBUTI: Nullità
Tarsu.
Domanda
Per la tassa sui
rifiuti solidi urbani mi è stata notificata una cartella
esattoriale non preceduta dalla notifica dell'avviso bonario
o dell'avviso di accertamento da parte del comune. Chiedo se
nel caso prospettato la cartella di pagamento possa essere
inficiata di nullità.
Risposta
La Commissione
tributaria provinciale di Bolzano, Sezione prima, con la
sentenza del 07.06.2012, numero 66, ha sentenziato che la
cartella di pagamento, in materia di tassa sui rifiuti
solidi urbani, è nulla se non è stata preceduta dalla
notifica dell'avviso bonario o dell'avviso di accertamento
da parte dell'ente creditore. I giudici di Bolzano fondano
il loro ragionamento su quanto deciso dalla Corte di
cassazione civile, sezione quinta, con la sentenza numero
6104, del 16.03.2011,.
In materia, infatti, i Supremi giudici della Corte di
cassazione hanno stabilito che «in tema di Tarsu, essendo a
tale tributo in larga parte applicabile la disciplina
prevista per la riscossione delle imposte sui redditi, in
virtù dell'articolo 72, commi 4 e 5, del decreto legislativo
15.11.1993, numero 507, deve ritenersi che la mancata
previa notifica della cartella esattoriale di pagamento, o,
a maggior ragione, dell'avviso di accertamento, comporti la
nullità dell'avviso di mora, deducibile in quanto vizio
proprio dell'atto, anche nei confronti del concessionario
che lo abbia emesso».
Anche se il richiamo alla sentenza della Corte di cassazione
è un richiamo lato, la sentenza dei giudici di Bolzano, nel
merito, è condivisibile (articolo ItaliaOggi Sette del
13.05.2013). |
TRIBUTI: Termine
Imu.
Domanda
Gli enti non
commerciali entro quale data devono presentare la
dichiarazione Imu?
Risposta
Il ministero
dell'economia e delle finanze, con la Risoluzione dell'11.01.2013, numero 1/DF, ha chiarito che per quanto
riguarda gli adempimenti relativi agli obblighi dichiarativi
Imu degli enti non commerciali, si deve fare riferimento
all'articolo 91-bis del decreto legge 24.01.2012,
numero 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, numero 27, integrato dal comma 6 dell'articolo 9
del decreto legge 10.10.2012, numero 174, convertito
con modificazioni dalla legge 07.12.2012, numero 213,
il quale prevede che, a partire dal 01.01.2013,
l'esenzione di cui alla lettera i), comma 1, dell'articolo 7
del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, si
applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale
dell'immobile, quale risulta da apposita dichiarazione e
che, con successivo decreto del ministro dell'economia e
delle finanze sono stabilite le modalità e le procedure
relative alla predetta dichiarazione, gli elementi rilevanti
ai fini dell'individuazione del rapporto proporzionale
nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare
le attività di cui alla lettera i) del comma dell'articolo 7
del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, come
svolte con modalità non commerciali.
Il decreto ministeriale
19.11.2012, numero 200, di attuazione del citato comma
3, dell'articolo 91-bis, all'articolo 6 stabilisce che gli
enti non commerciali presentano la dichiarazione di cui
all'articolo 9, comma 6, del decreto legislativo 14.03.2011, numero 23, indicando distintamente gli immobili per i
quali è dovuta l'Imu, anche a seguito dell'applicazione del
comma 2 dell'articolo 91-bis, del decreto legge numero 1 del
2012, nonché gli immobili per i quali l'esenzione Imu si
applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale
degli stessi. La dichiarazione non è presentata negli anni
in cui non vi sono variazioni.
«Pertanto», puntualizza la suddetta risoluzione, «gli enti
interessati non devono presentare la dichiarazione Imu entro
il 04.02.2012, ma devono attendere la successiva emanazione
del decreto di approvazione dell'apposito modello di
dichiarazione, in cui verrà indicato anche il termine di
presentazione della stessa» (articolo ItaliaOggi Sette del
13.05.2013). |
TRIBUTI:
Nota di approfondimento sulle innovazioni normative in
materia di IMU e Tares anche con riferimento agli
orientamenti espressi dal Mef (Risoluzione n. 5/DF del
28.03.2013 e Circolare n. 1/DF del 29.04.2013) (IFEL,
nota 10.05.2013). |
TRIBUTI: Bilanci.
Termine al 30 giugno.
Fino al 30 settembre spazio a rincari su tutto il fisco
locale.
Nel caos che domina i conti locali, privi di qualsiasi
certezza sulle entrate fiscali ma anche sulla distribuzione
dai tagli disposti nel 2012 dalla spending review ancora da
attuare, molti Comuni non hanno assunto nuove decisioni
sulle aliquote di Imu e addizionale Irpef entro la scadenza
di ieri. All'atto pratico, però, cambia poco: il 9 maggio è
solo un primo termine e per ritoccare i conti c'è ancora
molto tempo.
La prima scadenza generale è fissata (per ora) al 30 giugno,
data entro la quale i Consigli comunali dovranno dare il via
libera ai bilanci di previsione 2013. Per scrivere i
preventivi, naturalmente, occorre aver deciso le aliquote e
calcolato le entrate che ne derivano. Perciò le scadenze per
conti e fiscalità locale coincidono. Non è escluso, però,
che il termine del 30 giugno slitti: molte amministrazioni
sono nell'impossibilità materiale di scrivere bilanci in
grado di rispettare i criteri di correttezza e veridicità.
L'ultima legge di stabilità comunque, viste le tante
incognite sui conti comunali, ha offerto i tempi
supplementari: se c'è l'esigenza di salvaguardare gli
equilibri ed evitare che i conti vadano fuori controllo, le
amministrazioni potranno alzare addizionali o Imu anche dopo
aver chiuso i bilanci preventivi, purché lo facciano entro
il 30 settembre.
Il termine indicato dall'ultimo decreto sui pagamenti e
scaduto ieri, insomma, serve solo a far incidere le nuove
scelte già sul saldo Imu del 17 giugno (il 16 è domenica).
L'unica conseguenza, quindi, è che gli aumenti decisi dopo
si scaricheranno integralmente sul saldo di dicembre, mentre
sulla prima rata i calcoli seguiranno le aliquote decise
l'anno scorso (anche per i fabbricati di imprese, alberghi e
centri commerciali, con tutte le complicazioni nei calcoli
per il cambio di distribuzione del gettito fra Stato e
Comuni; si veda l'articolo sotto).
Ma quanto è diffusa la possibilità di incappare in nuovi
aumenti, dopo la corsa delle aliquote vista l'anno scorso
soprattutto nell'Imu? Per l'imposta sul mattone, il rischio
si concentra in particolare nei Comuni che nonostante tutto
hanno mantenuto finora inalterati i parametri standard
fissati dal decreto Salva-Italia del 2011. Si tratta del
49,5% dei municipi italiani, che quest'anno potrebbero
essere costretti a ritoccare in alto le aliquote per far
quadrare i conti. Lo stesso potrebbe accadere in un altro
20% abbondante di enti che hanno già rivisto le aliquote
senza però toccarne i massimi.
Per le addizionali Irpef, invece, l'intensità del rischio è
in una certa misura proporzionale al reddito dichiarato,
perché cresce la tendenza a differenziare le richieste
fiscali in base ai guadagni dei contribuenti: una tendenza
corretta, ma solo se le dichiarazioni fossero sempre fedeli
ai redditi reali dei contribuenti.
A moltiplicare il rischio, anche quest'anno è comunque il
"costo fiscale" dell'incertezza che connota sempre di più le
regole di finanza pubblica. Sembra un concetto astratto, ma
diventa concretissimo se ci si mette nei panni di un sindaco
(o, peggio, di un responsabile dei servizi finanziari). Oggi
i Comuni ignorano l'entità delle entrate da Imu, la somma
del fondo di solidarietà (gli ex-trasferimenti, oggi
alimentati sempre dall'Imu) e, sulle uscite, la quota di
tagli che dovranno subire quest'anno. È ovvio che, per
evitare sorprese, la via d'uscita fiscale possa diventare
trafficata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Risposte a quesiti riguardanti detrazioni,
cedolare secca, redditi di lavoro dipendente e fondiari, IMU
e IVIE (Agenzia delle Entrate,
circolare 09.05.2013 n. 13/E). |
TRIBUTI: Imu, comuni scontenti.
A rischiare di più saranno le seconde case.
Le
considerazioni del Cnai sull'annuncio di sospensione
dell'imposta.
La scadenza dell'Imu viaggia sul filo dell'incertezza.
Siamo in attesa del decreto di sospensione dell'Imu, come
dichiarato dal premier Enrico Letta, per la rata di giugno.
Il decreto di prossima emanazione dovrebbe riguardare la
sospensione del pagamento Imu solo sulla prima casa,
portando benefici alla maggior parte dei cittadini, in
quanto proprietari di un unico immobile, appunto
l'abitazione principale.
Malumori invece dai comuni che vedono sfumare milioni di
euro già riportati in bilancio, senza stanziamento di
risorse alternative.
Il Cnai è convinto della necessità di sospendere l'Imu fino
ad arrivare all'abrogazione dell'imposta stessa, tuttavia
non si può prescindere da alcuni ragionamenti. A causa della
riduzione del gettito dovuta dalle prime case, i comuni
potrebbero decidere di aumentare le aliquote sulle seconde
case; chiaramente le ripercussioni non mancherebbero, per
esempio un ulteriore crollo del mercato immobiliare e rischi
di speculazioni finanziarie a scapito dei meno facoltosi.
Alcuni comuni stanno anche lavorando per aumentare
l'aliquota sulla prima casa, se venisse sospeso il pagamento
di giugno e a questa prima iniziativa non si aggiungessero
ulteriori interventi, il pagamento per intero ricadrebbe
sulla rata di dicembre, con l'aggravio di una maggiore
percentuale dell'imposta, così i comuni andrebbero a
recuperare anche la perdita subita a giugno, e con
l'aliquota maggiorata vedrebbero equiparato ampiamente il
valore del denaro incassato a dicembre. Altri stanno
pensando di non riconfermare le ulteriori quote di esenzione
previste per le fasce di cittadini svantaggiati e più
poveri, quindi anche in questo caso, il mancato incasso
della rata di giugno peserebbe addirittura sulle persone più
bisognose.
Altra perplessità riguarda sempre le seconde case, quelle in
locazione. L'aumento dell'Imu porterebbe sicuramente un
relativo aumento dei canoni di affitto, ma di conseguenza vi
sarebbe una ripercussione sull'imposta di registro, un
aumento tirerebbe l'altro; facilmente più di qualcuno
penserà a incassare la maggiorazione del canone, o
addirittura l'intero affitto in nero. Ovviamente anche in
questa ipotesi i danni erariali sarebbe elevati.
Inoltre non dimentichiamo i tempi, Caf professionisti e
consulenti, in questo periodo sono alle prese con infinite
scadenze fiscali, hanno diritto a organizzare nella maniera
più opportuna il loro lavoro, ma come fanno se a oggi non si
sa se pagare oppure no; la scadenza Imu è prevista per il 17
giugno prossimo, al Caf Cnai e al Cnai, portavoce dei
professionisti e delle aziende rappresentate, lamentiamo le
lungaggini della burocrazia e la lentezza operativa, che non
consente di agire con correttezza portando tutti ad
attivarsi all'ultimo minuto, senza dimenticare la
farraginosità del calcolo.
Senza parlare del principio di incostituzionalità su cui si
fonda l'Imu. Gli italiani pagano e rischiano di pagare
un'imposta ingiusta sulle abitazioni che nel nostro paese
rappresentano la forma più comune di investimento. Queste le
parole del presidente del Cnai, Orazio Di Renzo, che
sintetizza dichiarando: «Chi riesce con sacrifici e impegno
a pagare una casa e a possederla, per lo stato e le banche
rappresenta sicuramente una forma di garanzia e di
stabilità, anziché premiarlo al contrario viene pluripenalizzato,
da quando decide di contrarre il mutuo per l'acquisto.
Riprendendo un nostro concetto, è proprio vero che tutti i
comportamenti messi in essere dalla nostra politica sembrano
preferire una società liquida, dove tutto è incerto e senza
struttura, senza garanzie né progetti. Se non fosse per i
cittadini che oggi possiedono un'immobile, tutto l'apparato
pubblico potrebbe lavorare sul nulla, perché nessuno avrebbe
niente da rischiare; se molti sono ligi nei pagamenti e
attenti a come agiscono è soprattutto per non perdere quello
che hanno, appunto la casa, tutto il resto gira intorno al
concetto di improvvisazione»
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2013). |
TRIBUTI:
La Ctr di Firenze sui valori Ici/Imu.
Accertamenti standard ko.
La determinazione dei valori delle aree edificabili richiede
anche il buon senso. L'accertamento Ici (e Imu) fondato sul
valore di mercato deve essere fatto area per area e non per
zone omogenee, applicando i valori indicati in una tabella.
La definizione dei valori delle aree con regolamento,
infatti, viola i limiti fissati dalla legge all'esercizio
del potere regolamentare, in quanto i comuni non possono
individuare e definire le fattispecie imponibili.
Lo ha
affermato la commissione tributaria regionale di Firenze,
Sez. XXIV, con la sentenza 15.02.2013 n. 8.
Per i giudici il comune così come non può stabilire un
valore imponibile per i fabbricati diverso da quello
calcolato sulla base della rendita catastale, «non può
neanche -per le aree edificabili- mutare il criterio di
calcolo basato -per legge- sul valore venale in comune
commercio».
Secondo la Ctr, l'articolo 52 del dlgs 446/1997
pone dei limiti alla potestà regolamentare dei comuni
sull'individuazione e la definizione delle fattispecie
imponibili. Un'area edificabile è soggetta a Ici sulla base
del suo valore di mercato e, si legge nella pronuncia, «tale
valore, proprio perché individuale e, quindi, unico,
difficilmente potrà essere riconducibile a una qualche
tabella di valori fissata dall'ente, sia pur per zone
omogenee».
Dunque, l'accertamento va fatto area per area
«tenendo conto di una serie di elementi, in parte dettati
dalla norma, in parte dal buon senso». In realtà, i criteri
per determinare il valore di un'area edificabile sono
fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992.
Questa norma si applica sia all'Ici sia all'Imu. Occorre
fare riferimento a zona territoriale di ubicazione
dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso
consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del
terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi
medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse
caratteristiche.
I valori possono essere deliberati dal consiglio comunale o
dalla giunta. La differenza tra i due atti generali è data
dal fatto che i valori medi fissati dal consiglio con
regolamento sono vincolanti, mentre sono solo delle
direttive interne se deliberati dalla giunta
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2013). |
TRIBUTI: Il dl 35/13 ha rimesso in termini i contribuenti che non
hanno ancora provveduto.
Imu, dichiarazioni senza fretta.
Tempo fino al 30 giugno per acquisti effettuati nel 2012.
Si allungano i termini per la presentazione della
dichiarazione Imu. Slitta al 30 giugno dell'anno successivo
all'acquisto del possesso dell'immobile il termine per
denunciarne la titolarità o per dichiararne le variazioni.
Lo prevede l'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013)
che, oltre a modificare il termine per la dichiarazione a
regime, il cui obbligo prima dell'intervento normativo era
soggetto al termine breve di 90 giorni, ha anche rimesso in
termini i contribuenti che non hanno ancora provveduto
all'adempimento per acquisti effettuati a partire dalla data
di istituzione dell'imposta municipale (01.01.2012).
Tutti i soggetti interessati hanno la possibilità di
assolvere all'obbligo entro il prossimo 30 giugno. Pertanto,
anche chi non ha presentato la dichiarazione nei termini non
è sanzionabile, purché provveda a regolarizzare la propria
posizione.
La scadenza. Sul nuovo termine per le dichiarazioni Imu è
intervenuto il ministero dell'economia e delle finanze, con
la circolare 1/2013, che ha fornito dei chiarimenti sia ai
comuni che ai contribuenti. Secondo il ministero,
l'ampliamento del termine per la presentazione della
dichiarazione «ha lo scopo di evitare un'eccessiva
frammentazione dell'obbligo dichiarativo derivante dal
precedente termine mobile dei 90 giorni e risolve i problemi
sorti in ordine alla possibilità, da parte dei contribuenti,
di ricorrere all'istituto del ravvedimento, disciplinato
dall'articolo 13 del decreto legislativo 472/1997, che
altrimenti non avrebbero trovato soluzione».
L'articolo 10, infatti, come indicato nella relazione di
accompagnamento al decreto 35/2013, prevede due diversi
termini «collegati alla natura periodica o non periodica
della dichiarazione».
La circolare ministeriale pone in rilievo che la norma oltre
a stabilire a regime il nuovo termine di presentazione delle
dichiarazioni, «produce effetti anche su quelle dovute per
l'anno 2012 che potranno, quindi, essere presentate entro il
30.06.2013». Pertanto, i contribuenti per i quali
l'obbligo è sorto dal 01.01.2012, devono presentare la
dichiarazione entro il prossimo 30 giugno e non più, come
previsto prima della modifica normativa, entro il 04.02.2013.
Naturalmente, la nuova scadenza è fissata per tutti coloro
che hanno acquistato nel corso del 2012 la proprietà di
immobili o di altri diritti reali di godimento (usufrutto,
uso, abitazione, superficie e così via). La dichiarazione ha
effetto anche per gli anni successivi, a meno che non
intervengano variazioni dei dati dai quali possa conseguire
un diverso ammontare dell'imposta dovuta.
Soggetti obbligati. I contribuenti che hanno ceduto o
acquistato immobili o la titolarità di altri diritti reali
nel 2012 devono inoltrare la dichiarazione al comune, a meno
che gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta non siano
acquisibili attraverso la consultazione della banca dati
catastale o gli enti non siano già in possesso delle
informazioni necessarie per verificare il corretto
adempimento dell'obbligazione tributaria.
La dichiarazione deve essere presentata da coloro che
vantino il diritto a fruire di riduzioni d'imposta. Quindi,
sono tenuti all'adempimento coloro che possiedono immobili
di interesse storico o artistico.
Inoltre, vanno denunciati tutti i casi in cui
l'amministrazione comunale non possiede le notizie utili per
verificare l'operato dei contribuenti.
Nello specifico, tra i casi più significativi, l'adempimento
è richiesto quando: l'immobile ha formato oggetto di
locazione finanziaria o di un atto di concessione
amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso
in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area
edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in
seguito alla demolizione di un fabbricato. Va dichiarato
qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del
diritto che abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile.
Il valore dell'area, che è quello di mercato, deve sempre
essere dichiarato dal contribuente, poiché questa
informazione non è presente nella banca dati catastale. Ecco
perché l'obbligo non sussiste quando viene alienata un'area
fabbricabile, se non ha subito modifiche il suo valore di
mercato rispetto a quello dichiarato in precedenza.
L'obbligo non è abolito neppure per gli immobili posseduti
dalle imprese e distintamente contabilizzati, classificabili
nel gruppo catastale D, che sono tenute a dichiarare il
valore venale del bene sulla base delle scritture contabili,
sia in aumento che in diminuzione, fino all'anno di
attribuzione della rendita catastale. La dichiarazione, poi,
deve essere presentata per gli immobili relativamente ai
quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini
della determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto
obbligato al pagamento.
Sono tenuti all'adempimento i titolari di fabbricati
inagibili o inabitabili solo se si perde il diritto al
beneficio fiscale, poiché il comune non dispone delle
informazioni necessarie per verificare il venir meno delle
condizioni richieste dalla legge. Va ricordato che le
istruzioni per adempiere all'obbligo dichiarativo sono
contenute in un allegato al modello di dichiarazione
approvato con decreto ministeriale del 30.10.2012,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
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Esonero per le prime case.
Esonerati dall'obbligo di presentare la dichiarazione Imu
coloro hanno già assolto all'obbligo per l'Ici. Non sono
tenuti neppure i possessori di immobili adibiti ad
abitazione principale, con relative pertinenze. Nelle
istruzioni ministeriali allegate al nuovo modello viene
precisato che la conoscenza da parte del comune delle
risultanze anagrafiche fa venire meno la necessità di
presentazione della dichiarazione. L'esclusione si estende
anche all'indicazione dei figli di età non superiore a 26
anni per i quali è possibile fruire della maggiorazione di
50 euro.
Tuttavia, anche per i titolari di immobili adibiti a prima
casa le istruzioni prevedono un'eccezione all'esonero
generalizzato dall'obbligo dichiarativo, nel caso in cui i
componenti del nucleo familiare possiedano più di un
immobile nello stesso comune. La legge esclude il doppio
beneficio per i coniugi non legalmente separati.
L'agevolazione, infatti, è limitata a un solo immobile nel
quale risiede e dimora uno dei coniugi, il quale è tenuto a
presentare la dichiarazione. In questo caso il ministero
ritiene che, al fine di evitare comportamenti elusivi in
ordine all'applicazione delle agevolazioni, riemerge
l'esigenza di porre l'obbligo dichiarativo a carico di uno
dei due coniugi.
Altra eccezione è rappresentata dal coniuge assegnatario: lo
stesso è obbligato a presentare la dichiarazione Imu solo se
il comune in cui si trova l'ex casa coniugale non coincide
né con il comune di in cui è stato celebrato il matrimonio,
né con il comune di nascita. In seguito a separazione
legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli
effetti civili del matrimonio, l'art. 4, comma 12-quinquies
del dl 16/2012, convertito dalla legge 44/2012, ha stabilito
che l'assegnazione della casa coniugale al coniuge si
intende effettuata a titolo di diritto di abitazione.
In
questo caso, però, il provvedimento del giudice viene
comunicato solo al comune di celebrazione del matrimonio,
che è tenuto a informare il comune d nascita degli ex
coniugi dell'avvenuta modificazione dello stato civile. Ecco
perché la dichiarazione va presentata solo se il comune nel
cui territorio è ubicato l'immobile assegnato non coincide
né con il comune dove è stato celebrato il matrimonio né con
quello di nascita (articolo ItaliaOggi
Sette del 06.05.2013). |
TRIBUTI:
Fisco locale. Abrogata la possibilità di alzare l'imposta e
i diritti sulle affissioni.
Aumenti vietati per la pubblicità
LO STOP/ L'ultimo decreto Sviluppo ha cancellato la chance
di elevare le tariffe e colpisce anche i ritocchi già decisi
in passato.
A rischio il gettito derivante dall'imposta di pubblicità e
dai diritti sulle pubbliche affissioni.
In un contesto particolarmente difficile per la finanza
locale, le entrate provenienti dalle tariffe definite al
Capo I del Dlgs 507/1993 non possono più essere aumentate
rispetto alla misura standard.
L'articolo 11, comma 10, della legge 449/1997, integrato
dall'articolo 30, comma 17, della Finanziaria 2000, elevava
al 50% l'aumento massimo consentito per superfici superiori
al metro quadrato, a decorrere dal 01.01.2000. Il punto
30 dell'Allegato 1 al Dl 83/2012 abroga questa norma, con
decorrenza 26.06.2012. Nonostante lo sblocco della
potestà tributaria e tariffaria degli enti locali, le
tariffe dell'imposta di pubblicità e dei diritti sulle
pubbliche affissioni non possono quindi superare le misure
standard previste dal Dlgs 507/1993.
L'unica eccezione è rappresentata dalla possibilità di
aumento, limitatamente alle affissioni di carattere
commerciale, prevista per i Comuni delle prime tre classi,
che possono suddividere le località del proprio territorio
in due categorie in relazione alla loro importanza,
applicando alla categoria speciale una maggiorazione fino al
150% della tariffa normale.
Il regolamento comunale deve comunque specificare le
località comprese nella categoria speciale, la cui
superficie complessiva non può superare il 35% di quella del
centro abitato; in ogni caso, la superficie degli impianti
per pubbliche affissioni installati in categoria speciale
non potrà essere superiore alla metà di quella complessiva.
In ossequio al principio generale secondo cui l'impianto
tributario e tariffario deve essere definito in rifermento
alle norme vigenti, è da ritenersi che eventuali aumenti
deliberati in passato non possano essere confermati nel
2013.
Il nodo da sciogliere non è tuttavia di poco conto se si
considera che la legge 296/2006 (articolo 1, comma 169)
dispone che gli enti locali deliberano le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la
data fissata da norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione e che, se l'ente non delibera alcuna
variazione di aliquote e tariffe, le stesse si intendono
prorogate di anno in anno.
La variazione delle tariffe determinerebbe inoltre l'obbligo
di rimborso delle somme eventualmente corrisposte per l'anno
in corso.
A poco tempo dalla scadenza per l'approvazione dei bilanci,
molte sono ancora le incertezze in tema di entrate degli
enti locali. Manca infatti la rideterminazione del Fondo
sperimentale di riequilibrio 2012 (che avrebbe dovuto
avvenire entro lo scorso 28 febbraio in funzione del gettito
Imu definitivamente accertato a favore di Comuni) e,
conseguentemente, la quota di gettito da versare allo Stato
al fine di costituire il Fondo di Solidarietà, nonché le
relative modalità di riparto.
Alle questioni sopra accennate si sommano inoltre le
incertezze sul quadro ordinamentale della Tares e dell'Imu,
che solo parzialmente hanno trovato definizione con il
recente DL 35/2013.
È auspicabile che si arrivi quanto prima alla definizione di
un quadro normativo certo, in riferimento al quale poter
pianificare correttamente le risorse e le strategie per il
raggiungimento degli obiettivi programmati (articolo Il
Sole 24 Ore del 06.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Maggiorazioni Tares, le agevolazioni restano.
Il gettito Tares relativo alla maggiorazione standard, nella
misura di 0,30 euro al metro quadrato, spetta allo stato. I
comuni, inoltre, non hanno più il potere di aumentarla.
Tuttavia le agevolazioni stabilite dalla legge o deliberate
dalle amministrazioni locali si applicano anche alla
maggiorazione.
Lo ha precisato il ministero dell'economia
con la
circolare 29.04.2013 n. 1/DF.
L'articolo 10 del dl «pagamenti
p.a.» (35/2013), infatti, ha stabilito che il gettito della
maggiorazione standard è riservato allo stato. Questa
addizionale alla tassa rifiuti è dovuta in misura pari a
0,30 euro per metro quadrato e non è più consentito ai
comuni di aumentarla fino a 0,10 euro, come previsto prima
dell'intervento normativo. Secondo il ministero, però,
l'articolo 10 dispone la deroga rispetto alla disciplina Tares,
contenuta nell'articolo 14 del dl 201/2011, solo per quanto
concerne «la destinazione del gettito della maggiorazione
allo stato».
Invece, continuano ad applicarsi «alla suddetta
maggiorazione le agevolazioni di cui ai commi da 15 a 20
dello stesso art. 14» (per esempio, per mancata
raccolta, mancato svolgimento del servizio, rifiuti
assimilati). In effetti i comuni hanno il potere di
concedere, con regolamento, riduzioni tariffarie per
particolari situazioni espressamente individuate dalla
legge.
Anche i benefici fiscali concessi dal comune si applicano
non solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione standard.
L'articolo 14 riconosce al comune la facoltà di stabilire
riduzioni del tributo dovuto in presenza di determinate
situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità
di produzione di rifiuti. A queste riduzioni viene fissato
dalla norma un tetto massimo.
La riduzione della tariffa non può superare il limite del
30%. In particolare, questo beneficio può essere concesso
per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a
disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e
discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso
stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o
hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero.
Le riduzioni tariffarie, anche per le utenze domestiche, si
applicano sia sulla parte fissa che sulla parte variabile
della tariffa. Per le utenze non domestiche la natura
stagionale dell'attività deve essere comprovata dalla
licenza
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013). |
TRIBUTI: NON PROFIT/ La Suprema corte sull'ambito delle agevolazioni.
Ici e Imu, pochi esclusi.
Solo l'uso diretto del bene assicura esenzioni.
L'esenzione Ici (e Imu) spetta agli enti non commerciali
solo se gli immobili vengono utilizzati direttamente per le
attività di assistenza. L'agevolazione, dunque, non spetta
nel caso di uso dell'immobile da parte di un altro ente,
anche se l'attività svolta è assistita da finalità di
pubblico interesse.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza
15.02.2013 n. 3843.
Per i giudici di Piazza Cavour, lo svolgimento di attività
assistenziali «esige la duplice condizione
dell'utilizzazione diretta degli immobili da parte dell'ente
possessore, e dell'esclusiva loro destinazione ad attività
peculiari che non siano produttive di reddito. Pertanto
l'esenzione non spetta nel caso di utilizzazione indiretta,
come nella specie, ancorché eventualmente assistita da
finalità di pubblico interesse».
Questa pronuncia è interessante perché, correttamente, la
Cassazione smentisce la tesi sostenuta di recente dal
ministero delle finanze (risoluzione 4/2013), secondo il
quale il beneficio fiscale deve essere riconosciuto anche
nel caso in cui l'immobile venga dato in uso a un altro ente
non commerciale. La presa di posizione ministeriale non è
neppure in linea con le pronunce della Corte costituzionale.
La Consulta ha affermato che per fruire dell'esenzione Ici
(ma la stessa regola vale per l'Imu) l'ente non commerciale
deve non solo possedere, ma anche utilizzare direttamente
l'immobile. Per il ministero, invece, un ente non
commerciale che concede in comodato un immobile a un altro
ente non profit, che vi svolga un'attività con modalità non
commerciali, ha diritto all'esenzione Imu anche se non lo
utilizza direttamente.
Nella risoluzione 4/2013, infatti,
viene data una lettura a dir poco elastica delle tesi
giurisprudenziali, in quanto viene ritenuto fruibile il
beneficio fiscale anche nei casi in cui l'immobile posseduto
da un ente non commerciale venga concesso in comodato a un
altro ente, che svolga le attività elencate dall'articolo 7,
comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992
(ricreative, culturali, didattiche, sportive, assistenziali,
sanitarie e così via). A maggior ragione, si legge nella
risoluzione, se l'immobile venga dato in comodato a un altro
ente appartenente alla stessa struttura del concedente,
purché l'utilizzatore fornisca all'ente non profit «tutti
gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento
degli obblighi tributari sia di carattere formale sia
sostanziale».
Va ricordato che la disciplina Imu ha confermato l'esenzione
per gli immobili posseduti e utilizzati dagli enti non
commerciali, fissando però regole diverse rispetto all'Ici.
L'articolo 7, comma 1), lettera i) riconosce l'esenzione
alle attività elencate dalla norma purché non abbiano natura
commerciale. In effetti, l'articolo 91-bis del dl
liberalizzazioni (1/2012), in sede di conversione in legge
(27/2012), ha ribadito che gli enti ecclesiastici e non
profit pagano l'Imu se sugli immobili posseduti vengono
svolte attività commerciali. Tuttavia, ha apportato delle
modifiche alla disciplina delle agevolazioni riconoscendo,
in presenza di determinate condizioni, un'esenzione parziale
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2013). |
TRIBUTI: Regolamenti da inviare alle Finanze solo online.
La circolare n. 1/df chiarisce che
l'efficacia decorre dalla data di pubblicazione.
Dal 2013 non solo le deliberazioni di approvazione delle
aliquote e della detrazione, ma anche i regolamenti dell'Imu
devono essere inviati esclusivamente per via telematica per
la pubblicazione nel sito informatico www.finanze.it. Dalla
data di pubblicazione decorre la loro efficacia.
La
circolare 29.04.2013 n. 1/DF delle Finanze precisa che detti provvedimenti
devono essere inviati esclusivamente per via telematica,
mediante inserimento del loro testo nell'apposita sezione
del Portale del federalismo fiscale. Questo comporta che non
potranno essere prese in considerazione le deliberazioni
inviate con modalità diverse (posta elettronica, pec, fax o
spedizione dell'atto in forma cartacea).
Tutto ciò non impatta in alcun modo sui termini di adozione
di tali atti che devono essere, comunque, approvati entro la
data fissata da norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione, come stabilisce il comma 169
dell'art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per le
aliquote e l'art. 53, comma 16, della legge 23.12.2000, n. 388 per i regolamenti. La circolare ricorda anche
che il comma 3 dell'art. 193 del Tuel -modificato dall'art.
1, comma 444 della legge n. 228 del 2012- stabilisce che
«per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga
all'articolo 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n.
296, l'ente può modificare le tariffe e le aliquote relative
ai tributi di propria competenza entro la data di cui al
comma 2» e cioè entro il 30 settembre di ciascun anno. È
bene rimarcare che detta norma non opera per tutti gli enti,
ma solo per i comuni che devono ripristinare gli equilibri
di bilancio.
Il nuovo comma 13-bis dell'art. 13 del dl n. 201 del 2011,
introduce, poi, nel sistema una tempistica dei versamenti
precisando che:
• la prima rata dell'Imu va versata in base agli atti
pubblicati alla data del 16 maggio di ciascun anno di
imposta. Pertanto l'invio degli atti da parte dei comuni
deve avvenire entro il 9 maggio;
• la seconda rata va pagata in base agli atti pubblicati
data del 16 novembre, che devono essere inviati dai comuni
entro il 9 novembre.
Cosa accade se i comuni non osservano le date stabilite? La
risposta è offerta dalla legge che stabilisce, riguardo al
pagamento:
• della prima rata, che i soggetti passivi calcolano
l'imposta nella misura pari al 50% di quella dovuta sulla
base dell'aliquota e della detrazione dei dodici mesi
dell'anno precedente;
• del saldo, che se non risultano pubblicate nuove delibere
alla data del 16 novembre, i contribuenti devono prendere in
considerazione gli atti pubblicati entro il 16 maggio
dell'anno di riferimento oppure, in mancanza, quelli
adottati per l'anno precedente.
Nella circolare si richiama, infatti, quanto precisato nella
risoluzione n. 5/Df del 28.03.2013, e cioè che, se alla
data del 16.05.2013 non risulti pubblicata alcuna
deliberazione per il 2013, il contribuente dovrà verificare
se è stata pubblicata la deliberazione relativa al 2012. Se
manca anche questa applicherà le aliquote fissate dalla
legge.
Se poi il comune intende confermare per il 2013 le aliquote
dell'anno 2012 -poiché non è necessario adottare
un'apposita deliberazione- deve accertarsi che la
deliberazione relativa all'anno 2012 sia stata pubblicata
sul sito e, in caso contrario, inviarla in via telematica
per il suo inserimento nella parte relativa all'anno 2012.
Riguardo poi all'adempimento posto a carico dei comuni di
compilare una griglia riassuntiva delle aliquote e dei
regimi agevolativi determinati con le delibere, la circolare
precisa che esso non incide sull'efficacia costitutiva dei
regolamenti e delle deliberazioni Imu che è determinata
unicamente dalla pubblicazione nel sito informatico del
ministero dell'economia e delle finanze. Si ricorda che
nella relazione alla norma è precisato che detta griglia è
necessaria per disporre, nel momento in cui occorre
effettuare le necessarie elaborazioni che affiancano le
proposte normative, di un quadro definito e di immediata
percezione delle manovre adottate dai comuni. Il tutto è
però rimandato a data da destinarsi (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013). |
TRIBUTI: Su rate e scadenze della Tares decide il Consiglio comunale.
La delibera che fissa per il 2013 il numero delle rate e le
scadenze di pagamento della Tares va adottata dal Consiglio
comunale.
Lo chiarisce il ministero dell'Economia con la
circolare 29.04.2013 n. 1/DF (si veda anche Il Sole 24 Ore
del 1° maggio), illustrando le novità introdotte dal Dl
35/2013 sul nuovo tributo comunale su rifiuti e servizi.
La posizione ministeriale è condivisibile e in linea con il
dettato normativo, considerato che l'articolo 14, comma 22
del Dl 201/2011 attribuisce alla potestà regolamentare la
disciplina sui termini di versamento del tributo: quindi è
chiara la competenza del consiglio comunale. Viene così
smentita la tesi a sostegno della giunta comunale, che si
ricaverebbe dalla formulazione letterale dell'articolo 10
del Dl 35/2013 nella parte in cui consente ai comuni di
deliberare «anche nelle more della regolamentazione comunale
del nuovo tributo».
In realtà, l'inciso non introduce alcuna
deroga al regime delle competenze ma è finalizzato a
legittimare la riscossione della Tares in assenza degli atti
fondamentali del tributo (regolamento, piano finanziario e
tariffe). Senza un regolamento applicativo e senza le
tariffe il prelievo non troverebbe attuazione, non essendovi
una disciplina di legge di supplenza. La precisazione
contenuta nel Dl 35/2013 consente quindi ai comuni di
riscuotere la Tares, ancorché in acconto, pur in assenza del
titolo che legittima la pretesa di una somma per il
finanziamento del servizio rifiuti.
Occorre, quindi, portare quanto prima in consiglio comunale
la proposta di delibera, visto l'obbligo di pubblicare il
provvedimento almeno 30 giorni prima della data di
versamento: ad esempio, in caso di delibera adottata e resa
esecutiva il 10 maggio la prima rata non può avere una
scadenza anteriore al 10 giugno.
Il Mef precisa che se il comune non interviene con propria
delibera a modificare la scadenza delle rate della Tares, il
termine per il versamento resta fissato a luglio e a ottobre
2013. Il Dl 35/2013 consente, inoltre, ai comuni di far
pagare un acconto del nuovo tributo secondo gli importi
stabiliti nel 2012 ai fini Tarsu, Tia1 e Tia2, ma l'ultima
rata dovrà essere determinata sulla base dei nuovi criteri
Tares e versata contestualmente alla maggiorazione standard.
Dal pagamento in acconto va esclusa anche l'Iva, non
compatibile con la natura tributaria della Tares, ma sul
punto il ministero tace.
In ordine alla riscossione delle prime rate i comuni possono
utilizzare le modalità di versamento già in uso nel corso
del 2012 (per esempio Mav, Rid e bollettini di conto
corrente) ma il Mef avverte che non è possibile aprire un
apposito conto corrente postale intestato alla Tares oppure
modificare l'intestazione di quelli già esistenti (articolo Il
Sole 24 Ore del 03.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Imu seconde case, acconto facile.
A giugno si paga il 50% del totale dell'imposta 2012.
Nota Mef. In attesa di sapere la sorte del tributo
sull'abitazione principale, ecco come pagare.
I versamenti in acconto e saldo dell'Imu devono essere
effettuati in base alle aliquote e detrazioni dell'anno
precedente se delibere e regolamenti non vengono pubblicate
sul sito del ministero delle finanze, rispettivamente, entro
il 16 maggio o il 16 novembre. Nel caso in cui venga pagato
l'acconto in base alle aliquote e detrazioni del 2012, il
saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno dovrà essere
versato a conguaglio della prima rata, in base agli atti
pubblicati sul sito informatico entro il 16 novembre.
Termini più ampi, poi, sono previsti per la presentazione
della dichiarazione Imu. Slitta infatti al 30 giugno
dell'anno successivo all'acquisto del possesso dell'immobile
il termine per denunciarne la titolarità o per dichiararne
le variazioni. Vengono inoltre rimessi in termini i
contribuenti che non hanno ancora provveduto all'adempimento
per acquisti effettuati a partire dalla data di istituzione
dell'imposta municipale (01.01.2012).
Sono alcuni
chiarimenti che il ministero delle finanze ha fornito a
comuni e contribuenti, con la
circolare
29.04.2013 n. 1/Df diffusa ieri,
sulle nuove disposizioni contenute nell'articolo 10 del dl
«pagamenti p.a.» (35/2013), che ha modificato i termini per
dichiarazioni e delibere Imu, le quali hanno incidenza anche
sul calcolo dell'imposta in acconto e saldo.
Delibere comunali e versamenti. Nella circolare ministeriale
viene precisato che dal 2013 ha effetto costitutivo la
pubblicazione sul sito del ministero dell'economia e delle
finanze delle delibere di approvazione di aliquote e
detrazioni d'imposta, nonché dei regolamenti comunali.
Questi atti devono essere inviati solo per via telematica e
vanno inseriti nell'apposito Portale del federalismo
fiscale. Delibere e regolamenti condizionano anche i
versamenti del tributo.
Il quantum dovuto per l'imposta è
legato all'avvenuta pubblicazione sul sito ministeriale dei
provvedimenti comunali. Al riguardo il ministero ha chiarito
che, qualora i comuni non inviino questi atti generali entro
le scadenze fissate dalla legge, scatta «un meccanismo di
salvaguardia per consentire, comunque, i versamenti
dell'imposta nei termini dovuti». Se la pubblicazione non
viene fatta entro il 16 maggio, i contribuenti sono
legittimati a calcolare l'acconto, nella misura del 50%,
sulla base delle aliquote e detrazioni dei 12 mesi dell'anno
precedente.
Qualora dovesse essere confermata la sospensione
della rata di giugno dell'Imu prima casa (promessa dal
premier Enrico Letta), la procedura di cui sopra dovrà
essere tenuta bene in mente dai contribuenti alle prese con
il pagamento dell'Imu sulle seconde case. Per esempio, se un
contribuente ha pagato 600 euro di Imu nel 2012 per una
seconda casa, con aliquota del 7,6 per mille in acconto
(dovuto 250 euro) e del 9 per mille a saldo, con conguaglio
sulla prima rata (dovuto 350 euro), per l'acconto 2013 sarà
tenuto a versare 300 euro, vale a dire la metà dell'importo
pagato per l'intero anno.
Se gli atti generali non vengono pubblicati entro il 16
maggio, il versamento della seconda rata, a saldo
dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale
conguaglio sulla prima rata, deve essere eseguito tenendo
conto degli atti pubblicati sul sito ministeriale entro il
16 novembre. Altrimenti, i contribuenti possono calcolare
l'imposta facendo riferimento a aliquote e detrazioni
deliberate per l'anno precedente. Se la deliberazione non
risulti pubblicata neanche per il 2012, il contribuente
dovrà applicare le aliquote stabilite dalla legge.
Dichiarazioni.
Secondo il ministero, l'ampliamento del termine per la
presentazione della dichiarazione ha lo scopo di evitare
un'eccessiva frammentazione dell'obbligo derivante dal
precedente «termine mobile dei 90 giorni» e risolve i
problemi sorti in ordine alla possibilità di ricorrere
all'istituto del ravvedimento operoso «che altrimenti non
avrebbero trovato soluzione» (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013). |
TRIBUTI: Tares,
i comuni decidono numero e scadenze rate.
I comuni, con delibera del consiglio, possono scegliere per
il 2013 il numero e la scadenza delle rate della Tares. Se
il comune non lo fa, le rate restano fissate a luglio e a
ottobre. Per il pagamento delle prime due rate i comuni
possono consentire ai contribuenti di utilizzare i modelli
di pagamento dello scorso anno relativi alla Tarsu, alla Tia
1 o alla Tia 2. L'ultima rata va pagata solo con il modello
F24 o il bollettino di conto corrente postale. La
maggiorazione di a 0,30 euro per metro quadrato è riservata
allo Stato. Non può essere aumentata fino a 0,10 e va
versata in unica soluzione con l'ultima rata. I comuni
possono continuare ad avvalersi per la riscossione del
tributo dei soggetti affidatari del servizio di gestione dei
rifiuti urbani.
Sono questi i punti di maggiore interesse della
circolare 29.04.2013 n.
1/Df della direzione legislazione
tributaria e federalismo fiscale del Mef, sulle novità in
materia di Tares contenute nell'art. 10, comma 2, del dl
35/2013, che operano limitatamente all'anno 2013, anche in
deroga all'art. 14 del dl Salva Italia (dl n. 201/2011).
La norma Tares prevede che il versamento sia effettuato in 4
rate (gennaio, aprile, luglio e ottobre); per il 2013 la
prima rata era addirittura slittata a luglio. La norma del
dl n. 35 del 2013 rimette le cose a posto riconoscendo ai
comuni, per il solo anno 2013, di stabilire con
deliberazione consiliare sia il numero che la scadenza delle
rate, ma occorre che detta delibera, ai fini della
conoscibilità dei contribuenti, sia pubblicata anche sul
sito web dell'ente locale almeno 30giorni prima della data
di versamento. Se il comune rimane inerte il termine per il
versamento della prima rata resta fissato a luglio e mentre
l'ultima rata a ottobre 2013, come prescrive il comma 35
dell'art. 14 del dl n. 201 del 2011.
La circolare precisa che per il pagamento delle prime due
rate gli enti locali possono inviare ai contribuenti i
modelli di pagamento già predisposti e precompilati per il
versamento dei precedenti prelievi e cioè per la Tarsu, per
la Tia 1 e per la Tia 2. Gli stessi enti possono, inoltre,
utilizzare le altre modalità di pagamento dei predetti
tributi, già in uso durante l'anno 2012. Gli importi in tal
modo versati dovranno essere tenuti in conto per determinare
l'ultima rata a saldo che dovrà essere quantificata sulla
base dei nuovi importi stabiliti per la Tares. Naturalmente
se il comune ha già disciplinato il nuovo tributo, può
utilizzare gli strumenti di pagamento precompilati con gli
importi determinati sulla base delle tariffe approvate.
Per la seconda deve essere necessariamente utilizzato il
modello F24 o il bollettino di conto corrente postale che è
in via di predisposizione.
La maggiorazione Tares deve essere versata contestualmente
all'ultima rata. La novità consiste nel fatto che il gettito
è riservato allo stato. La circolare precisa che il suo
importo è pari a 0,30 euro per metro quadrato, e che i
comuni non possono aumentarla fino a 0,10 euro, ma
continuano ad applicarsi ad essa le agevolazioni di cui ai
commi da 15 a 20 dell'art. 14 del dl n. 201, come ad esempio
quelle previste per le abitazioni con unico occupante o
tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso
limitato e discontinuo.
I comuni per il 2013 possono continuare ad avvalersi per la
riscossione del tributo dei soggetti affidatari del servizio
di gestione dei rifiuti urbani. Il dl 35 deroga, quindi,
alla disciplina generale di cui al comma 35, dell'art. 14
del dl 201, in base alla quale la Tares è versata
esclusivamente al comune. È ovvio, però che il gettito
derivante dalla maggiorazione è comunque riservato allo
stato. L'ultima precisazione della circolare attiene alle
modifiche apportate al comma 4, dell'art. 14 che nulla
prevedeva in relazione alle aree scoperte pertinenziali e
accessorie di locali diversi da quelli delle civili
abitazioni, a differenza di quanto stabilito in vigenza
della stessa Tarsu.
Con la nuova formulazione ci si
riallinea alle previgenti disposizioni Tarsu, per cui sono
escluse dalla tassazione, a eccezione delle aree scoperte
operative, le aree scoperte pertinenziali o accessorie a
locali tassabili e le aree comuni condominiali di cui
all'art. 1117 c.c. che non siano detenute o occupate in via
esclusiva
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
aprile 2013 |
|
TRIBUTI:
OGGETTO: Tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES)
- Imposta municipale propria (IMU) – Chiarimenti in ordine
alle modifiche recate dall’art. 10 del D.L. 08.04.2013, n.
35 (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
circolare
29.04.2013 n. 1/DF). |
TRIBUTI:
Ai comuni il gettito Imu dei fabbricati rurali strumentali
Spetta ai comuni il gettito Imu dei fabbricati rurali
strumentali. Va allo stato solo il gettito dei fabbricati di
categoria D ad aliquota standard del 7,6 per mille.
È questa
l'interpretazione che si ricava dalla lettura dell'articolo
1, comma 380, della legge di stabilità (228/2012),
nonostante la presa di posizione in senso contrario espressa
dal dipartimento delle finanze con la risoluzione 5/2013.
Secondo il dipartimento, l'effetto prodotto dalla norma
introdotta dalla legge 228/2012 per i fabbricati rurali ad
uso strumentale all'attività agricola, classificati nel
gruppo catastale D, è «quello di riservare allo stato il
gettito derivante dai citati immobili all'aliquota dello
0,2%». La tesi ministeriale, però, non è condivisibile,
poiché l'articolo 1, comma 380, lettera f) della legge di
stabilità riserva espressamente allo stato il gettito
dell'imposta «derivante dagli immobili ad uso produttivo
classificati nel gruppo catastale D, calcolato ad aliquota
standard». E nell'ambito del gettito riservato allo stato,
con aliquota di base del 7,6 per mille, non rientrano gli
immobili rurali strumentali anche se inquadrati nella stessa
categoria.
Del resto, per questi fabbricati è previsto un
trattamento agevolato con applicazione dell'aliquota del 2
per mille che i comuni possono ridurre all'1 per mille, ma
che non possono aumentare. È evidente la diversità di
trattamento tra fabbricati rurali e altre tipologie di
immobili. Tra l'altro, il comma 380 stabilisce che i comuni
possono aumentare sino a 3 punti percentuali l'aliquota
standard, prevista dall'articolo 13, comma 6, primo periodo
del decreto «salva Italia» (201/2011) per gli immobili a uso
produttivo classificati nel gruppo catastale D. Dunque, in
questa previsione non possono rientrare i fabbricati
strumentali, la cui disciplina è contenuta nel comma 8 della
stessa disposizione, che impone regole del tutto diverse.
Dal 2013, infatti, la norma elimina la riserva della quota
statale del 50% sull'Imu, ma impone la riserva di una quota
del tributo dovuto per i fabbricati di categoria D ad
aliquota standard (7,6 per mille). Per questi immobili ai
comuni viene lasciata la facoltà di aumentare l'aliquota di
3 punti percentuali e di incassare le maggiori somme. Si
tratta dei fabbricati destinati a attività industriali o
commerciali. In particolare, opifici, alberghi, pensioni e
residences, istituti di credito, cambio e assicurazione,
teatri, cinematografi e via dicendo.
Va posto in rilievo che per i fabbricati rurali strumentali
non conta più la classificazione catastale per avere diritto
ai benefici fiscali. Possono infatti mantenere le loro
categorie originarie. È sufficiente l'annotazione catastale,
tranne per i fabbricati strumentali che siano per loro
natura censibili nella categoria D/10. Con la circolare
2/2012 l'Agenzia ha fornito dei chiarimenti, relativamente a
quanto disposto dal decreto ministeriale emanato il 26.07.2012, sugli adempimenti che devono porre in essere i
titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione
negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche
per l'Imu degli sconti.
Domande e autocertificazioni necessarie per il
riconoscimento del requisito di ruralità, redatte in
conformità ai modelli allegati al decreto ministeriale,
avrebbero dovuto essere presentate all'ufficio provinciale
competente per territorio entro il 01.10.2012, al fine di
ottenere l'esenzione anche per gli anni pregressi.
L'eventuale di diniego di ruralità è impugnabile innanzi
alle commissioni tributarie. Infatti, nel caso di esito
negativo del controllo sulle domande e autocertificazioni
prodotte dagli interessati, l'Agenzia è tenuta a notificare
un provvedimento motivato con il quale disconosce il
requisito della ruralità. Dagli atti catastali risultano
anche le annotazioni negative sugli immobili, che
impediscono ai contribuenti di poter fruire delle
agevolazioni
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2013). |
TRIBUTI:
Scadenze a incastro per l'Imu.
Le date da monitorare: il 16 maggio e il 16 novembre.
Guida per i contribuenti per districarsi con la
tempistica senza incappare in sanzioni.
Il calendario è cambiato ma (per ora) gli aumenti rimangono.
Imu e Tares continuano a turbare i sonni dei contribuenti,
malgrado l'ennesimo restyling normativo operato dal decreto
varato dal governo per sbloccare i debiti della p.a. (dl
35/2013). Molte sono, tuttavia, le novità, che riguardano
soprattutto la tempistica dei pagamenti.
Per l'Imu, la regola rimane quella (già applicata per l'Ici)
del pagamento in due rate, con un primo acconto in scadenza
al 17 giugno (il 16 è domenica) e il saldo da versare entro
lunedì 16 dicembre. È anche possibile (lo prevede l'art. 9,
comma 3, del dlgs 23/2011) provvedere al versamento
dell'imposta complessivamente dovuta in un'unica soluzione
annuale, da corrispondere entro il termine per il versamento
dell'acconto, ma si tratta anche quest'anno di una scelta
poco consigliabile. Il rischio, infatti, è quello di doversi
comunque presentare alla cassa anche a fine anno, per far
fronte agli aumenti decisi medio tempore dai comuni.
Dopo le modifiche introdotte dall'art. 10 del dl 35,
infatti, il meccanismo somiglia a una storia a bivi dei
fumetti. Il primo bivio è previsto per il 16 di maggio, data
che rappresenta la dead line entro la quale le deliberazioni
dei comuni che fissano le aliquote dell'imposta (oltre che i
regolamenti che ne disciplinano l'applicazione) devono
essere pubblicate sul sito del Dipartimento delle finanze
per essere efficaci già in sede di versamento dell'acconto.
A tal fine, i comuni sono tenuti a inviare i predetti
provvedimenti al Mef (esclusivamente per via telematica)
entro il 9 maggio. Se questo timing sarà rispettato, già a
giugno occorrerà tenere conto di quanto deciso dai sindaci.
In caso contrario, il versamento della prima rata dovrà
essere pari al 50% dell'imposta dovuta calcolata sulla base
dell'aliquota e della detrazione valide per l'anno passato.
Attenzione, però a considerare quanto pagato
complessivamente nel 2012 e non solo all'ammontare
dell'acconto versato lo scorso mese di giugno, che nella
stragrande maggioranza dei casi era stato calcolato
applicando le aliquote e la detrazione nella misura standard
fissata dallo stato.
Il secondo bivio arriverà in autunno. Da quest'anno,
infatti, i comuni, per garantire il ripristino dei propri
equilibri di bilancio, possono ritoccare le aliquote
relative ai tributi di propria competenza (oltre che le
tariffe per i servizi) anche dopo l'approvazione del
bilancio di previsione, fino al 30 settembre. I
provvedimenti sull'Imu, per incidere sulla misura del saldo,
dovranno essere trasmessi alle Finanze entro il 9 novembre e
pubblicati sul sito del Mef entro il 16 novembre.
Altrimenti, per il versamento della seconda rata si
applicheranno gli atti pubblicati entro il 16 maggio oppure,
in mancanza, quelli adottati per il 2012.
Come evidente, si tratta di un labirinto all'interno del
quale ciascun contribuente, per non incappare nelle
sanzioni, dovrà districarsi monitorando con attenzione le
decisioni assunte dal proprio comune con un occhio al
calendario e l'altro alla tempistica di pubblicazione dei
provvedimenti sul sito delle Finanze. Al riguardo, occorre
precisare che, almeno in teoria, lo stesso comune potrebbe
intervenire più volte sulle aliquote: per esempio, una prima
volta con efficacia ai fini dell'acconto e una seconda per
incidere sul saldo. In tal caso, in occasione del secondo
versamento, occorrerà procedere al conguaglio sulla prima
rata versata. Ma analoghe difficoltà riguardano anche i
professionisti e i Caf, che infatti hanno già lanciato
l'allarme, sottolineando come il lasso di tempo di 30 giorni
fra la pubblicazione degli atti e le scadenze dei pagamenti
(16 maggio-17 giugno e 15 novembre-16 dicembre) sia troppo
breve per consentire l'adeguamento delle loro basi dati (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.04.2013). |
TRIBUTI:
Dichiarazione Imu.
Domanda
La dichiarazione Imu entro quando va presentata?
Risposta
La dichiarazione relativa all'Imposta municipale propria (Imu),
per l'anno 2012 deve essere presentata entro il 04.02.2013. Infatti, la norma stabilisce che detta dichiarazione
deve essere presentata entro novanta giorni dalla data di
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto che ha
approvato il relativo modello. Detta pubblicazione è
avvenuta il cinque novembre 2012, per cui i novanta giorni
scadono il 04/02/2013.
Sono interessati alla suddetta dichiarazione soltanto gli
immobili che nel 2012 hanno subito variazioni e cioè:
● quando gli immobili, in proprietà o in diritto reale del
dichiarante, hanno cambiato le loro caratteristiche (esempio
abitazione trasformata in ufficio, terreno agricolo
diventato edificabile, abitazione principale non più tale o
viceversa abitazione secondaria diventata principale ecc.);
● quando il bene è stato acquistato o ricevuto in donazione, o
su di esso sono stati costituiti diritti reali;
● quando l'immobile ha perso il diritto all'esenzione o
all'esclusione.
La dichiarazione deve essere effettuata utilizzando
l'apposito modello ministeriale e deve essere inviata al
comune nel cui territorio si trova l'immobile. Essa va
spedita con raccomandata senza ricevuta di ritorno (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.04.2013). |
TRIBUTI:
Marchio di fabbrica sulle gru.
Domanda
L'Imposta comunale sulla pubblicità in che modo è dovuta sul
marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a
torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da
cantiere?
Risposta
Il decreto ministeriale del 26.07.2012, numero 185,
dispone, all'articolo 3, che per l'Imposta comunale sulla
pubblicità e sulle pubbliche affissioni (I.P.),
relativamente al marchio di fabbrica apposto sulle gru
mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e
sulle macchine da cantiere, di vecchia fabbricazione (cioè
fabbricate prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana del suddetto decreto ministeriale:
09.08.2012) le imprese devono adeguare il suddetto
marchio come disposto dall'articolo 1 del summenzionato
decreto ministeriale. Pertanto, come dispone il predetto
articolo 1, la suddetta imposta non è dovuta per
l'indicazione del marchio apposto con dimensioni
proporzionali alla dimensione delle gru mobili, delle gru a
torre adoperate nei cantieri edili e delle macchine da
cantiere la cui superficie complessiva non eccede i seguenti
limiti:
► fino a due metri quadrati per le gru mobili, le gru a torre
adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere con
sviluppo potenziale in altezza fino a dieci metri lineari;
► fino a quattro metri quadrati per le gru mobili, le gru a
torre adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere
con sviluppo potenziale in altezza oltre i dieci metri e
fino a quaranta metri lineari;
► fino a sei metri quadrati per le gru mobili, le gru a torre
adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere con
sviluppo potenziale in altezza oltre i quaranta metri
lineari.
Per i marchi, la cui superficie complessiva supera quella su
indicata, l'imposta suddetta è dovuta in base alla
superficie complessiva dei marchi installati su ciascuno
bene mobile, come su individuato (gru mobili, gru a torre
adoperate nei cantieri edili e macchine da cantiere), per
anno solare al comune ove ha sede l'impresa produttrice dei
beni o qualsiasi altra sua dipendenza, nella misura e con le
modalità previste dall'articolo 12, comma 1, del decreto
legislativo numero 507, del 15.11.1993 (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.04.2013). |
TRIBUTI: DECRETO
PAGAMENTI/ Derogata la disciplina a regime (che demanda al
consiglio).
Tares, parla anche la giunta.
Competenza sulla scadenza e sul numero delle rate.
Scadenze e numero delle rate di versamento in acconto della
Tares possono essere deliberate anche dalla giunta comunale.
Per l'anno in corso, infatti, l'articolo 10 del dl 35/2013
deroga a quanto disposto dall'articolo 14 del dl 201/2011,
che a regime demanda al consiglio comunale il compito di
modificare le scadenze stabilite dalla legge.
Questa interpretazione si ricava dalla formulazione
letterale dell'articolo 10 che, per il 2013, ha apportato
delle modifiche alle regole contenute nell'articolo 14 del
dl «salva Italia», che ha istituito la Tares. La nuova
disposizione per accelerare l'iter per la riscossione del
tributo in acconto e far fronte all'esigenza di comuni e
gestori di anticipare la data di pagamento e l'incasso delle
somme dovute dai contribuenti, al fine di garantire lo
svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, ha
introdotto delle deroghe alla disciplina della tassa.
Scadenze e numero delle rate di versamento sono stabilite
dal comune con deliberazione adottata, «anche nelle more
della regolamentazione comunale del nuovo tributo», e
pubblicata sul proprio sito web almeno 30 giorni prima della
data indicata per il pagamento.
La prima rata, dunque, non dovrà più essere versata a
luglio, come previsto dal dl rifiuti (1/2013), ma potrà
essere anticipata, anche nel caso in cui il comune non abbia
adottato il regolamento, il cui termine per la deliberazione
è attualmente fissato al prossimo 30 giugno. Pertanto, anche
in assenza di un'espressa previsione, si può ritenere che la
giunta comunale abbia il potere di stabilire le scadenze e
il numero delle rate. In caso contrario, non avrebbe senso
la norma nella parte in cui consente la deliberazione nelle
more del regolamento. Atto che è invece di competenza del
consiglio comunale. Del resto, se così non fosse il
legislatore avrebbe confermato ciò che è già previsto
dall'articolo 14, vale a dire che le scadenze stabilite
dalla norma a regime (gennaio, aprile, luglio, ottobre)
possono essere modificate solo con regolamento. Come già
evidenziato, la facoltà di deliberare le scadenze anche
prima dell'approvazione del regolamento è dettata
dall'urgenza che hanno comuni e gestori di incassare una
quota parte del tributo per assicurare il servizio. E la
delibera di giunta consente di raggiungere questo risultato
in tempi brevi.
È poi espressamente disposto che per le prime due rate i
comuni possono inviare ai contribuenti i modelli di
pagamento precompilati già predisposti per il pagamento di
Tarsu, Tia1 o Tia2 o indicare altre modalità di versamento
giù utilizzate in passato. Considerato che la nuova
disposizione prevede inoltre che i comuni hanno anche la
facoltà di fare ricorso alle altre modalità di pagamento
«già in uso per gli stessi prelievi», è sostenibile la tesi
che concessionari e gestori possano incassare i versamenti
in acconto. Le somme pagate verranno poi scomputate da
quella dovuta, a titolo di Tares, per l'anno 2013, che verrà
richiesta con l'ultima rata e che dovrà essere versata solo
nelle casse comunali. Anche la maggiorazione sui servizi si
pagherà con l'ultima rata, ma il gettito è riservato allo
stato
(articolo ItaliaOggi del 16.04.2013). |
TRIBUTI: La condizione di inagibilità.
Domanda
Possiedo un fabbricato che può essere considerato inagibile.
Quali sono gli adempimenti che devo osservare?
Risposta
Se l'immobile può essere riconosciuto inagibile o
inabitabile e non è utilizzato, il lettore è obbligato a
presentare la dichiarazione ai fini dell'Imu. Il beneficio è
riconosciuto relativamente al periodo durante l'anno nel
quale permane tale situazione. L'accertamento dello stato di
degrado è devoluto al comune, con perizia a carico del
proprietario, il quale deve allegare l'apposita
documentazione alla dichiarazione.
In alternativa,
l'interessato può presentare una dichiarazione sostitutiva
ai sensi del dpr n. 445/2000 con la quale dichiara di essere
in possesso della perizia, redatta da un tecnico abilitato (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
TRIBUTI: Fisco-comuni.
Scambio dati per la Tares.
Operative le regole tecniche per determinare la superficie
catastale su cui i contribuenti dovranno pagare la Tares.
Sono state infatti definite le modalità per lo scambio dei
dati fra Agenzia delle entrate e comuni per acquisire le
informazioni relative alle superfici degli immobili a
destinazione ordinaria per calcolare il nuovo tributo sui
rifiuti e i servizi.
Lo rende noto un comunicato stampa dell'Agenzia diffuso
ieri.
Nel comunicato viene precisato che in un documento
pubblicato sul sito internet (www.agenziaterritorio.it) sono
indicati i formati utilizzati dalle Entrate per fornire ai
comuni le superfici calcolate in base alle regole contenute
nel dpr 138/1998. Nel comunicato viene inoltre specificato
che le procedure di interscambio tra comuni e Agenzia sono
state definite con il provvedimento del direttore delle
Entrate del 29.03.2013. L'attività di collaborazione tra i
due enti serve a determinare la superficie catastale degli
immobili, che i contribuenti in futuro dovranno dichiarare
per il pagamento della nuova tassa sui rifiuti e i servizi.
Quando saranno ultimate le operazioni di interscambio, la
superficie catastale dovrà essere utilizzata da tutti i
comuni per l'accertamento tributario.
Come previsto dall'articolo 14 del dl 201/2011, richiamato
nel comunicato, in seguito alle modifiche apportate
dall'articolo 1, comma 387, della legge di stabilità
(228/2012), sono state fissate le modalità per lo scambio
tra Agenzia delle entrate e comuni delle informazioni
relativi alla superficie degli immobili a destinazione
ordinaria, iscritti in catasto e corredate di planimetria.
Questi dati sono determinati scorporando dalla superficie
catastale, per le sole destinazioni abitative, quella
relativa a balconi, terrazzi e aree scoperte pertinenziali e
accessorie, comunicanti o non comunicanti.
Il tracciato per la comunicazione delle superfici per la
Tares è stato predisposto sulla base di quello già in uso
per l'applicazione della Tarsu. Per ciascuna unità
immobiliare devono essere trasmessi identificativo
catastale, intestatari catastali e indirizzo presente nella
banca dati. I comuni sono tenuti a segnalare all'Agenzia
eventuali scostamenti significativi di dati della superficie
degli immobili a destinazione ordinaria (articolo
ItaliaOggi del 13.04.2013). |
TRIBUTI: Il
non uso salva dalla Tares. Esenti unità senza servizi, sia
private sia industriali.
Le linee guida del Mef. Che però confliggono con
la relazione al decreto 201/2011.
Gli immobili
inutilizzati destinati ad abitazioni private o ad attività
commerciali e industriali non sono soggette al pagamento
della Tares. Il ministero dell'economia e delle finanze,
nelle linee guida che ha fornito ai comuni sulla corretta
applicazione della nuova tassa sui rifiuti e i servizi, ha
preso una posizione netta precisando che non sono soggette
al pagamento le unità immobiliari prive di mobili e di
allacci alle reti idriche ed elettriche, che di fatto non
vengono utilizzate.
Questa tesi, però, non è in linea con quanto sostenuto nella
relazione ministeriale di accompagnamento alla norma che
disciplina il tributo (articolo 14 del dl 201/2011). Nella
relazione viene richiamato il consolidato orientamento della
Cassazione che ha chiarito quali sono i locali e le aree non
suscettibili di produrre rifiuti. Per i giudici di
legittimità sono esclusi dal prelievo solo quelli
oggettivamente inutilizzabili, vale a dire gli immobili
inagibili, inabitabili, diroccati, interclusi, in stato di
abbandono.
Dall'interpretazione contenuta nelle linee guida, dunque,
emerge che il ministero non è d'accordo con se stesso. Nelle
istruzioni allegate al prototipo di regolamento Tares,
infatti, viene indicato che non sono soggetti al tributo i
locali e le aree che non possono produrre rifiuti o che non
comportano, «secondo la comune esperienza, la produzione
di rifiuti in misura apprezzabile per la loro natura o per
il particolare uso cui sono stabilmente destinati». E
tra le unità immobiliari escluse dal prelievo rientrano
quelle «adibite a civile abitazione prive di mobili e
suppellettili e sprovviste di contratti attivi di fornitura
dei servizi pubblici a rete».
Nella relazione sull'articolo 14 del dl «salva-Italia»,
che ha istituito il nuovo balzello, viene invece posto in
rilievo che il legislatore, laddove assoggetta al tributo
gli immobili «suscettibili di produrre rifiuti», ha
inteso recepire «il consolidato orientamento della Corte
di cassazione, riconducendo l'applicazione del tributo alla
mera idoneità dei locali e delle aree a produrre rifiuti,
prescindendo dall'effettiva produzione degli stessi».
In realtà, la Suprema Corte ha sempre posto dei limiti
rigidi per l'esonero dal pagamento del tributo sui rifiuti,
che è dovuto a prescindere dal fatto che il contribuente
utilizzi l'immobile. Ex lege, vanno esclusi dalla
tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili,
inabitabili, diroccati). Non ha alcuna rilevanza la scelta
soggettiva del titolare di non utilizzare l'immobile. Anche
il mancato arredo non costituisce prova
dell'inutilizzabilità dell'immobile e della inettitudine
alla produzione di rifiuti. Un alloggio che il proprietario
lasci inabitato e non arredato si rivela inutilizzato, ma
non oggettivamente inutilizzabile.
Per la prima volta il principio è stato affermato con la
sentenza 16785 del 30.11.2002. Regola ribadita con le
sentenze 9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Da
ultimo, sempre la Cassazione (ordinanza 1332 del 21.01.2013)
ha stabilito che l'esonero dal pagamento del tributo non
spetta neppure quando il contribuente fornisca la prova «dell'avvenuta
cessazione di una attività industriale (nella specie: un
oleificio)».
Anche il presupposto Tares, come la Tarsu, è l'occupazione,
detenzione o conduzione di locali e aree scoperte a
qualsiasi uso adibiti. Non sono soggetti solo gli immobili
che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per
il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno. Pertanto insuscettibili di produrre
rifiuti, come quelli situati in luoghi impraticabili,
interclusi o in stato di abbandono. Il contribuente può fare
ricorso solo a prove vincolate per dimostrare che l'immobile
sia inidoneo a produrre rifiuti e quindi non soggetto al
pagamento.
È evidente che se i comuni si allineano alla tesi della
Cassazione, richiamata nella relazione governativa alla
norma di legge, ai contribuenti viene imposto di pagare la
Tares anche nel caso in cui non producano rifiuti. Ma queste
regole, con molta probabilità, daranno luogo a rilievi
comunitari e a procedure d'infrazione per il mancato
rispetto del principio «chi inquina paga» (articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013). |
TRIBUTI:
Imu, un po' di respiro. Dichiarazioni da fare
entro il 30 giugno.
Il dl 35 spazza via il termine dei 90 giorni
dall'evento da denunciare.
Più tempo per la dichiarazione Imu. Che
potrà essere presentata entro il 30 giugno dell'anno
successivo a quello in cui si è verificato l'evento da
dichiarare.
Lo prevede l'art. 10, c. 4, lett. a), del dl 35/2013 sui
pagamenti dei debiti della p.a. che, spazzando via l'angusto
termine di 90 giorni originariamente previsto dall'art. 13,
c. 12-ter, del dl 201/2011, non solo rimuove le difficoltà
rilevate dai contribuenti nell'assolvimento dell'obbligo
dichiarativo, ma risolve anche i problemi sorti in ordine
all'applicazione del ravvedimento dei versamenti di acconti
e saldi.
Resta solo da capire se entro il 30/6/2013, come è
ragionevole ritenere, sarà possibile presentare, senza
incorrere in sanzioni, dichiarazioni eventualmente omesse
per eventi accaduti prima dell'entrata in vigore del dl
35/2013 (09/04/2013).
La norma.
L'art. 13, c. 12-ter del dl 201/2011 prevedeva, fino alla
recente modifica, che la dichiarazione Imu dovesse essere
presentata entro 90 giorni dalla data in cui si era
verificato uno dei casi indicati nelle istruzioni
ministeriali allegate al modello approvato con dm
30/10/2012. Il che poneva due ordini di problemi. Il primo
riguardava il rischio che i contribuenti venissero a
conoscenza dell'adempimento in ritardo, e quindi, in molti
casi, oltre il termine utile per ricorrere al ravvedimento.
Il secondo, come riportato nella relazione governativa al dl
35/2013, era connesso agli «insolubili problemi»
sorti nell'applicazione del cd. ravvedimento lungo, non
essendosi più in presenza di una “dichiarazione periodica”.
La sostituzione, ad opera dell'art. 10, c. 4, del dl
35/2013, della locuzione “entro 90 giorni” con quella
“entro il 30 giugno dell'anno successivo”, fa sì che
entro la fine di giugno il contribuente possa dichiarare
tutte le variazioni rilevanti intervenute l'anno precedente.
Proprio come accadeva per l'Ici, con l'unica differenza che
adesso il termine non è più legato a quello di presentazione
della dichiarazione dei redditi ma è a data fissa per tutti
i contribuenti: entro il 30 di giugno dell'anno successivo.
Il ravvedimento.
Essendo fuori discussione che la dichiarazione Imu non
riguarda più un singolo evento bensì l'intera annualità
d'imposta, con effetto anche per gli anni successivi, non
dovrebbero più esservi più dubbi sul fatto che il termine
lungo (art. 13, c. 1, lett. b, dlgs 446/1997), utile a
sanare omessi, insufficienti o tardivi versamenti di acconti
e saldi, vada individuato nel 30 giugno dall'anno
successivo; con applicazione della sanzione ridotta del
3,75%. L'omissione dichiarativa potrà invece essere sanata
entro il 28 di settembre con una sanzione pari al 10%
dell'imposta dovuta (con un importo minimo di 5 euro).
Il raggio d'azione.
Rimossi così gli ostacoli posti dal termine “mobile”
dei 90 giorni, resta ora da capire se la modifica in esame
potrà operare retroattivamente o se, invece, riguarderà le
sole variazioni intervenute dal 9/4/2013 in poi. A favore di
un'applicazione della novella anche nei casi di variazioni
significative accadute dall'1/1/2012, militerebbe la
circostanza che l'Imu è entrata in vigore l'anno scorso, e
quindi si potrebbe ragionevolmente parlare di una “riapertura
dei termini”, fino al 30/06/2013, per la presentazione
di dichiarazioni riguardanti le variazioni intervenute nel
2012.
Sennonché l'assenza di una disposizione derogatoria rispetto
alla data di entrata in vigore del dl 35/2013, oltre al
fatto che non è stato contestualmente abrogato l'ultimo
periodo del comma 12-ter dell'art. 13 del dl 201/2012, che
ha fissato al 04/02/2013 il termine per la presentazione
della dichiarazione relativa alle variazioni
01/01-06/11/2012, non rende certa l'applicabilità della
nuova scadenza a tutte le situazioni accadute
dall'01/01/2012. Esigenze di semplificazione dovrebbero
tuttavia portare il legislatore, in sede di conversione del
decreto, o il ministero, in sede interpretativa, ad un
superamento di tale ostacolo (articolo ItaliaOggi
dell'11.04.2013). |
TRIBUTI: DECRETO
PAGAMENTI/ Una importante novità sulle superfici
pertinenziali. Aree scoperte senza la Tares. Si alleggerisce
il carico tributario sulle imprese.
Il tributo sui rifiuti e i servizi alleggerisce il carico
fiscale sulle imprese. Non sono più soggette alla Tares le
aree scoperte non operative, che possono essere considerate
pertinenziali o accessorie a locali tassabili.
Lo prevede l'articolo 10 del dl sui debiti della p.a.
(35/2013), che ha apportato delle modifiche alla disciplina
della Tares.
Prima dell'intervento normativo, infatti, le aree scoperte
pertinenziali erano soggette a tassazione, mentre fino al
2012 erano escluse dal pagamento sia della Tarsu che della
Tia.
L'articolo 14 del del dl «salva Italia»(201/2011),
che dal 2013 ha istituito il nuovo regime di prelievo sui
rifiuti, esonerava dal pagamento solo le aree scoperte
pertinenziali di civili abitazioni e quelle condominiali.
Con un aumento notevole della tassazione per i soggetti che
svolgono attività commerciali e industriali, qualora i
comuni avessero applicato a superfici di ampie dimensioni la
tariffa relativa alla specifica attività esercitata
dall'impresa. Non a caso più volte dalle pagine di questo
giornale era stata sollecitata una modifica normativa, per
escludere dal pagamento della tassa le aree pertinenziali o
accessorie, cosiddette non operative (per esempio, il
parcheggio di un supermercato o l'area di manovra di uno
stabilimento industriale).
L'articolo 10, inoltre, ribadisce l'esonero dal nuovo
balzello delle aree scoperte pertinenziali o accessorie a
civili abitazioni e quelle condominiali, a meno che non
siano detenute o occupate in via esclusiva. Si intende per
area accessoria o pertinenziale quella che viene destinata
in modo permanente e continuativo al servizio del bene
principale o che abbia con lo stesso un rapporto
oggettivamente funzionale. Per esempio, un cortile o un
giardino condominiale, un'area di accesso ai fabbricati
civili e così via.
In effetti, presupposto del tributo è il possesso,
l'occupazione o detenzione di locali o aree scoperte, a
qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti
urbani. Quello che conta è la mera idoneità dei locali e
delle aree a produrre rifiuti, a prescindere dall'effettiva
produzione degli stessi. Rimangono infatti soggette
integralmente al pagamento della Tares tutte le aree
scoperte utilizzate nell'ambito di attività economiche e
produttive, che non abbiano natura pertinenziale. Del resto,
per le aree scoperte cosiddette operative esiste una
presunzione di produzione di rifiuti.
L'orientamento giurisprudenziale è univoco nell'affermare
che tutte le aree, a parte le ipotesi di esclusioni
contemplate dalla legge, sono potenzialmente produttive di
rifiuti. Anche gli specchi acquei sono aree scoperte
soggette al prelievo. In materia di Tarsu, il cui
presupposto impositivo è analogo alla Tares, la Cassazione
ha più volte sostenuto non solo che l'amministrazione
comunale si possa avvalere della presunzione di produzione
dei rifiuti, ma, addirittura, che il contribuente non possa
fornire qualunque prova per superare la presunzione di
tassabilità di tutti gli immobili (articolo
ItaliaOggi del 10.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Il terreno edificabile usato a fini agricoli non paga Ici.
Sentenza della Ctr Lazio. L'esonero solo se è attività prevalente.
Un terreno edificabile utilizzato ai fini agricoli da un
imprenditore agricolo non paga l'Ici, a condizione,
tuttavia, che il proprietario del fondo sia iscritto negli
appositi elenchi comunali e che il reddito conseguito
dall'agricoltore, sia pure coadiuvato dalla famiglia, sia
pari almeno al sessanta per cento del reddito complessivo.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza
09.04.2013 n.
92/21/13 emessa dalla Sez. XXI della Ctr Lazio.
Il Comune di
Marino aveva notificato al contribuente, imprenditore
agricolo, accertamenti Ici relativi a un terreno edificabile
di cui era stata omessa la denuncia, per oltre 150 mila
euro. Il contribuente ricorreva contro questi atti assumendo
la sua natura di imprenditore agricolo e precisando che
oltre il 60% dei suoi redditi scaturiva dall'attività
agricola.
La Commissione provinciale di Roma accoglieva solo
parzialmente il ricorso; i giudici di prima istanza
ritenevano che il contribuente non avesse dimostrato la
prevalenza dei redditi e, comunque, riducevano gli importi
accertati rilevando come, di fatto, il terreno avesse una
edificabilità relativa, tale da ridurre la pretesa solo del
cinquanta per cento. Il contribuente aveva quindi replicato
a quanto deciso dai giudici provinciali assumendo come, ai
fini delle imposte dirette, i redditi agrari vadano indicati
sulla base del reddito dominicale degli stessi terreni,
mentre la realtà reddituale si poteva evincere dalla
dichiarazione ai fini Irap (da cui si ricava che i redditi
agrari sono di misura di gran lunga superiore al 60% dei
redditi totali). I giudici regionali capitolini, destinatari
delle doglianze dell'imprenditore agricolo, hanno annullato
gli accertamenti Ici.
«Deve considerarsi», si legge nella
sentenza, «adeguato elemento di prova la dichiarazione
presentata ai fini Irap dal contribuente, da cui si desume
che i proventi agricoli sono ampiamente superiori al 60% del
reddito complessivo». Il collegio osserva che tale
interpretazione risponde sia alla volontà del legislatore,
sia all'interpretazione fornita dalla giurisprudenza
(cassazione n. 15566/2010).
Infatti, un terreno destinato ad
attività agricole, sia pure edificabile, non è soggetto a
Ici quando l'utilizzatore tragga il suo maggior
sostentamento dall'attività agricola e quando ricorrano le
ulteriori condizioni: a) che il terreno sia posseduto da un
coltivatore diretto o imprenditore agricolo, b) che sia
direttamente condotto da questi (e dai suoi familiari), c)
nella persistenza dell'utilizzazione agro-silvo-pastorale,
mediante attività dirette alla coltivazione. Condizioni
queste che, nel caso specifico, risultano rispettate
(articolo ItaliaOggi del 23.04.2013). |
TRIBUTI: DECRETO
PAGAMENTI/ Gli enti devono indicare scadenze e numero di
versamenti
Tares, un debutto a conguaglio. Nuova tassa e maggiorazione
si pagano all'ultima rata.
La nuova tassa sui rifiuti e la
maggiorazione sui servizi si pagheranno con l'ultima rata, a
conguaglio delle somme versate in acconto che sono
determinate in base a quanto già versato dai contribuenti
nell'anno precedente per Tarsu, Tia1 e Tia2. Inoltre la
maggiorazione, fissata nella misura di 0,30 euro per metro
quadrato, non può essere aumentata dai comuni e il gettito è
riservato allo stato. Gli enti locali, con propria
deliberazione, sono tenuti a indicare scadenze e numero
delle rate di versamento del tributo. I cittadini dovranno
essere informati, anche con la pubblicazione sul sito
internet del comune, almeno 30 giorni prima della data del
versamento. Per le prime due rate le amministrazioni locali
possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento
di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal
quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013.
Concessionari e gestori del servizio potranno continuare a
riscuotere il tributo.
Sono queste le novità sulla tassa sui rifiuti e i servizi
contenute nell'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.»
(35/2013).
Con questa disposizione il legislatore anziché rinviare al
prossimo anno l'istituzione del tributo, come richiesto a
gran voce da più parti, considerato che il nuovo balzello
comporterà un aumento della tassazione, si limita a
differire l'applicazione delle regole di determinazione
della Tares al momento del saldo, con la richiesta di
conguaglio di quanto dovuto dal contribuente in sede di
pagamento dell'ultima rata.
Per l'anno in corso, infatti, scadenze e numero delle rate
di versamento sono stabilite dal comune con deliberazione
adottata, «anche nelle more della regolamentazione
comunale del nuovo tributo», e pubblicata sul proprio
sito web almeno 30 giorni prima della data fissata per il
pagamento. La prima rata, dunque, non dovrà più essere
versata a luglio, come previsto dal dl rifiuti (1/2013), ma
potrà essere anticipata, anche nel caso in cui il comune non
abbia adottato il regolamento, il cui termine di scadenza è
attualmente fissato al prossimo 30 giugno. È espressamente
stabilito che per le prime due rate i comuni possono inviare
ai contribuenti i modelli di pagamento precompilati già
predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2 o
indicare altre modalità di versamento giù utilizzate in
passato. Non si capisce però quale sia l'alternativa
all'invio dei bollettini di pagamento precompilati, visto
che il tributo non può essere pagato in autoliquidazione, ma
deve essere determinato dal comune. I versamenti in acconto
verranno scomputati dalla somma dovuta, a titolo di Tares,
per l'anno 2013, che verrà richiesta con l'ultima rata.
Una delle novità di rilievo del decreto è rappresentata
dalla maggiorazione per i servizi indivisibili, che da
quest'anno va pagata unitamente alla tassa sui rifiuti. La
misura della maggiorazione è solo quella standard, pari a
0,30 euro per metro quadrato. Viene sottratta ai comuni la
facoltà di aumentarla fino a 0,40 euro e di differenziarla
per zone di ubicazione e tipologie di immobili. L'articolo
10 del dl, infatti, riserva questa entrata allo stato. Anche
il versamento della maggiorazione va fatto in unica
soluzione unitamente all'ultima rata del tributo, con il
modello F24 oppure utilizzando apposito bollettino di conto
corrente postale.
La norma, infine, consente alle amministrazioni locali di
continuare ad avvalersi per la riscossione del tributo dei
soggetti affidatari del servizio di gestione rifiuti.
Pertanto, l'attività potrebbe essere affidata sia ai gestori
del servizio di smaltimento rifiuti sia ai concessionari
iscritti all'albo ministeriale, considerato che questa
possibilità è già prevista dall'articolo 14 del dl «salva
Italia» (201/2011) in seguito alle modifiche apportate
dall'articolo 1, comma 387, della legge di stabilità
(228/2012). Del resto nella nozione di «gestione»
rientrano tutte le attività dell'ente, che vanno
dall'accertamento alla riscossione.
---------------
Più tempo per denunce e delibere Imu.
Si allungano i termini per la presentazione della
dichiarazione Imu. Slitta al 30 giugno dell'anno successivo
all'acquisto del possesso dell'immobile il termine per
denunciarne la titolarità o per dichiararne le variazioni. I
versamenti in acconto e saldo dell'imposta, inoltre, devono
essere effettuati in base alle aliquote e detrazioni
dell'anno precedente se delibere e regolamenti non vengono
pubblicate sul sito del ministero delle finanze,
rispettivamente, entro il 16 maggio o il 16 novembre. Nel
caso in cui venga pagato l'acconto in base alle vecchie
aliquote e detrazioni, il saldo dell'imposta dovuta per
l'intero anno dovrà essere versato a conguaglio della prima
rata, in base agli atti pubblicati sul sito informatico
entro il 16 novembre di ciascun anno d'imposta. È quanto
prevede l'art. 10 del dl «pagamenti p.a.».
Dichiarazioni.
Viene dunque ampliato il termine per presentare la
dichiarazione della nuova imposta locale. Il termine breve
di 90 giorni, oltre a rendere più difficoltosi gli
adempimenti dei contribuenti, si legge nella relazione
ministeriale, ha «ripercussioni negative
sull'applicabilità delle norme in materia di ravvedimento».
Del resto l'articolo 13 del decreto legislativo 472/1997,
che disciplina il ravvedimento operoso, come indicato nella
relazione di accompagnamento al decreto, prevede due diversi
termini «collegati alla natura periodica o non periodica
della dichiarazione».
Delibere comunali e versamenti.
Dal 2013 ha effetto costitutivo la pubblicazione sul sito
del Mef delle delibere di approvazione di aliquote e
detrazioni d'imposta, nonché dei regolamenti comunali.
Questi atti devono essere inviati solo per via telematica e
vanno inseriti nell'apposito Portale del federalismo
fiscale. Delibere e regolamenti, tra l'altro, condizionano
anche i versamenti del tributo. Il
quantum dovuto per l'imposta è infatti legato
all'avvenuta pubblicazione sul sito ministeriale degli atti
generali comunali. Se la pubblicazione non viene fatta entro
il 16 maggio, i contribuenti sono legittimati a calcolare
l'acconto, nella misura del 50%, sulla base delle aliquote e
detrazioni dei 12 mesi dell'anno precedente.
Per rispettare la data del 16 maggio è però imposto ai
comuni di inviare delibere e regolamenti entro il 9 maggio
dell'anno di riferimento. Qualora non vengano pubblicati
entro il 16 maggio, il versamento della seconda rata, a
saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale
conguaglio sulla prima rata, deve essere eseguito tenendo
conto degli atti pubblicati sul sito ministeriale entro il
16 novembre. In tal caso i comuni devono trasmettere le loro
determinazioni entro il 9 novembre. Altrimenti, imposta
calcolata con riferimento a aliquote e detrazioni dell'anno
precedente (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013). |
TRIBUTI:
Verifiche, l'anticipo costa caro.
È nullo l'accertamento emesso prima dei 60 giorni.
Rassegna giurisprudenziale: il termine va sempre concesso (o
quasi). Ecco le eccezioni.
Alla fine di ogni attività di verifica fiscale al
contribuente deve essere concesso il termine di 60 giorni
per le opportune memorie e repliche. La violazione di tale
principio di civiltà giuridica, previsto nell'articolo 12,
comma 7, dello statuto del contribuente, comporta la nullità
dell'avviso di accertamento.
Il suddetto termine e le garanzie a esso connesse possono,
invece, non essere concesse quando l'attività di verifica si
estrinsechi nell'esame di una dichiarazione fiscale
presentata dallo stesso contribuente; oppure quando
l'accertamento sia scattato per effetto di segnalazioni,
rapporti o comunicazioni pervenute presso gli uffici
accertatori anche da altri organi dell'amministrazione;
oppure a seguito di semplici richieste di esibizioni
documentali, questionari, inviti e quant'altro.
L'esame delle ultimissime sentenze, sia di legittimità sia
di merito, sull'annosa questione relativa alla concessione
del termine di 60 giorni prima dell'emanazione dell'atto di
accertamento evidenzia come il quadro di riferimento si stia
facendo sempre più chiaro.
In linea generale si può affermare che tale diritto deve
sempre essere concesso quando la verifica fiscale preveda
accessi presso la sede del contribuente e/o acquisizione di
documenti contabili, libri, registri ecc., fatti ovviamente
salvi i particolari e motivati casi di urgenza previsti
dalla stessa disposizione normativa.
Al contrario, in presenza di mere attività di controllo e
liquidazione delle dichiarazioni fiscali o di verifiche che
traggono spunto da altri indizi e segnalazioni quali, per
esempio i controlli incrociati, tale termine non dovrà
essere concesso e l'ufficio potrà procedere direttamente
all'emissione dell'avviso di accertamento senza concedere
alcun termine per repliche o memorie al contribuente.
La questione è di assoluto rilievo. L'omessa concessione del
termine dei sessanta giorni comporta, infatti, la nullità
dell'avviso di accertamento travolgendo a priori l'intera
attività di verifica posta in essere dagli uffici.
In attesa che sullo specifico tema si pronuncino le sezioni
unite della Cassazione appositamente investite, è utile
esaminare, almeno in sintesi, il contenuto delle più recenti
pronunce della giurisprudenza tributaria sulla questione (si
veda tabella in pagina).
Cassazione, sentenza 16999/2012. Nel caso di specie i
giudici di legittimità hanno accolto le istanze del
contribuente, ribaltando il giudicato della regionale,
dichiarando nullo l'accertamento e la decisione del giudice
dell'appello per «non aver rilevato l'illegittimità
dell'avviso impugnato, ancorché notificato prima dello
scadere del termine di sessanta giorni dalla data di
consegna del processo verbale di constatazione».
La circostanza che il contribuente, prima dello spirare dei
60 giorni dalla consegna del pvc e prima della notifica
dell'accertamento avesse prodotto delle memorie di parte non
rileva in alcun modo né si può pensare che con un tale atto
si sia potuto interrompere o derogare, al termine di cui
all'articolo 12, comma 7, dello statuto del contribuente.
Deve peraltro considerarsi, si legge in sentenza, che la
Corte costituzionale con l'ordinanza n. 244/2009 e la stessa
Corte di cassazione con la sentenza n. 22320/2010, hanno
puntualizzato che la mancata osservanza della disposizione
contenuta nel comma 7 dell'articolo 12 dello statuto del
contribuente «implica la sanzione della nullità dell'avviso
di accertamento emesso in violazione del termine dilatorio e
in assenza di motivazione sull'urgenza che ne ha determinato
l'adozione». Sanzione della nullità che scatta in
applicazione delle seguenti disposizioni normative:
l'articolo 7, comma 1, dello statuto del contribuente;
articoli 3 e 21-septies della legge n. 241/1990 (cosiddetta
trasparenza amministrativa); articolo 42, commi 2 e 3, del
dpr 600/1973 per le imposte dirette e articolo 56, comma 5,
del dpr 633/1972 per l'imposta sul valore aggiunto.
Ctr Toscana, sentenza 19/2013. Del tutto simile alle
conclusioni della sentenza dei giudici di legittimità ora
esaminata anche il dispositivo dei giudici della regionale
toscana contenuto nella sentenza n. 19 del 18 gennaio
scorso. Il caso riguardava un accertamento da studi di
settore sulla base del quale l'ufficio aveva eseguito
un'attività di controllo preceduta dalla richiesta di
documentazione contabile relativa all'anno d'imposta 2003,
alla quale era seguito un vero e proprio accesso presso i
locali della società contribuente al preciso fine di
reperire ulteriori documenti contabili.
L'avviso di accertamento veniva emesso dall'ufficio prima
della scadenza del termine di 60 giorni decorrente dal
rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle
operazioni di verifica, senza peraltro dare menzione nello
stesso della particolare e motivata urgenza alla base di
tale mancato rispetto.
Preso atto di tutto ciò la regionale, considerando tale
eccezione come preliminare e prevalente anche sul merito del
ricorso stesso, ha deciso che «nell'avviso di accertamento
in oggetto manca l'obbligatoria motivazione da parte
dell'ufficio della particolare urgenza di anticipare
l'emissione dell'avviso di accertamento con la conseguente
invalidità dello stesso».
Ctr Campania, sentenza 243/2012. Se esistano validi motivi
per derogare al termine dei 60 giorni, quali il fondato
pericolo per la riscossione del credito erariale, questi
devono comunque essere esplicitati nella motivazione
dell'atto di accertamento altrimenti lo stesso non potrà che
essere dichiarato nullo.
È quanto deciso dai giudici della regionale della Campania,
nonostante l'accertamento fosse stato emesso nei confronti
di una società che non aveva presentato la dichiarazione dei
redditi e per la quale la guardia di finanza aveva accertato
un reddito d'impresa di oltre 200 mila euro.
Inutile la difesa dell'ufficio che aveva controdedotto
«evidenziando che esistevano i motivi di urgenza previsti
dal comma 7 dell'articolo 12 della legge 212/2000, in quanto
sussistevano fondate ragioni di pericolo per la riscossione
del credito ritenuto che la società, in liquidazione dal
2006, poteva in qualsiasi momento procedere alla cessazione
dell'attività».
La carenza motivazionale e il mancato rispetto della
disposizione contenuta nello statuto del contribuente ha
prevalso anche sulle postume argomentazioni dell'ufficio
circa l'esistenza di validi motivi per derogare il termine.
Ctr Liguria, sentenza 97/2012. Qualunque atto e non soltanto
il pvc di chiusura delle operazioni di verifica, deve essere
assoggettato al termine dei 60 giorni previsto dallo statuto
del contribuente.
Quando l'ufficio opera in contraddittorio con il
contribuente, deve redigere un verbale di chiusura e
concedere il termine per le memorie e repliche al
contribuente prima di procedere con l'emissione
dell'accertamento.
Vana la linea difensiva dell'amministrazione finanziaria che
sosteneva di aver eseguito soltanto un accesso per acquisire
documentazione e per rilevare la correttezza dei dati
rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore (articolo
ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: La
giurisprudenza. Interpretazioni diverse sulla domanda di
variazione. Per i fabbricati rurali rebus della
retroattività.
LE ULTIME PRONUNCE/ A Mantova agevolazioni riconosciute dopo
la semplice richiesta, a Modena serve la classificazione
catastale.
Le domande di variazione catastale per ottenere la ruralità
del fabbricato, presentate in base al Dl 70/2011 e al Dm
26.07.2012, hanno effetto retroattivo.
È questa la conclusione a cui è pervenuta la Ctp di Mantova
con la sentenza del 10 gennaio scorso, annullando gli avvisi
di accertamento Ici relativi alle annualità 2006 e 2007.
La controversia riguardava alcuni fabbricati in categoria
C/2, C/6 e D/8, che per il contribuente non potevano essere
assoggettati all'imposta in quanto da considerarsi rurali ai
sensi dell'articolo 9 del Dl 557/1993, a prescindere dal
loro inquadramento catastale. Nel 2011 era stata peraltro
presentata domanda per il riconoscimento di ruralità.
Il Comune chiedeva il rigetto del ricorso in virtù del
costante insegnamento della Cassazione sulla ruralità dei
fabbricati vincolata alle risultanze catastali (categorie
A/6 e D/10). Tuttavia la commissione tributaria ha ritenuto
che la presentazione della domanda e l'inserimento negli
atti catastali dell'annotazione consentono di riconoscere la
ruralità a decorrere dal quinto anno antecedente alla
domanda, come previsto dal Dm del 2012.
La decisione della Ctp di Mantova ripropone la querelle
relativa alla valenza retroattiva delle domande per il
riconoscimento della ruralità, tema sul quale la
giurisprudenza si mostra oscillante.
A favore della retroattività si è tra l'altro schierata la
Ctr di Bologna con la sentenza 65/2012, mentre sul fronte
opposto si segnala la Ctr di Milano con la sentenza 77/2012.
Più recentemente si è espressa la Ctp di Modena con la
sentenza 75/2013 (si veda Il Sole 24 Ore del 31 marzo) che è
andata al cuore del problema sottolineando che il Dl 70/2011
–con il quale veniva recepito l'orientamento della
Cassazione sull'accatastamento in D/10 per i fabbricati
strumentali– è stato abrogato dal Dl 201/2011 ed è rimasto
in vigore fino al 31.12.2011: di conseguenza l'esenzione Ici
spetta solo ai fabbricati che risultano classati in
categoria rurale.
Dopo la sentenza 10/2013 della Ctp di Mantova, che fa leva
sul Dm del 2012, la questione assume contorni sempre più
confusi e resta il rebus retroattività. Sul punto si ritiene
che il Dm 26.07.2012 abbia travalicato la fonte legislativa
primaria (Dl 201/2011) che non prevede in alcun modo il
riconoscimento retroattivo della ruralità, né lo prevedeva
il Dl 70/2011.
La questione è risolvibile soltanto con un'espressa
previsione normativa primaria che attribuisca effetto
retroattivo alla variazione catastale. In assenza, è
applicabile il principio contenuto nell'articolo 11 delle
Preleggi secondo cui la legge non può avere effetto
retroattivo
(articolo Il
Sole 24 Ore
dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: La
nuova super-Tares colpirà alla fine dell'anno.
L'ipotesi del Governo conferma la stangata di dicembre.
IL PROBLEMA/
I comuni dovranno fissare le date di versamento almeno 30
giorni prima della scadenza Doppie modalità di pagamento.
Un riavvio quasi immediato per i pagamenti del servizio
rifiuti, sotto forma di Tia o Tarsu a seconda delle regole
applicate nel Comune l'anno scorso; senza però far
scomparire la Tares, che va comunque pagata a conguaglio
entro l'anno e si porta dietro la «maggiorazione» da 30
centesimi al metro quadrato trasformata in sovrattassa
statale.
Le bozze del capitolo Tares circolate ieri, che potrebbero
trovare spazio nel decreto sui pagamenti in programma questa
mattina al Consiglio dei ministri o imboccare la via di un
provvedimento autonomo, confermano le attese della vigilia.
E ne confermano anche i problemi applicativi, a partire dal
maxiconguaglio di fine anno che contribuirà a spingere la
pressione fiscale nell'ultimo trimestre 2013 assai più in
alto dei livelli record appena registrati dall'Istat per gli
ultimi quattro mesi del 2012 (si veda la pagina a fianco).
Il provvedimento, almeno nelle bozze, prova a sposare le due
esigenze che si contrappongono sul ring della Tares. Le
aziende di igiene urbana e i Comuni non possono attendere
fino all'estate-autunno i primi incassi e con il calendario
Tares rischiano quindi di piombare in una crisi di liquidità
che mette a rischio pagamenti ai fornitori e stipendi; lo
Stato non intende rinunciare alla «copertura integrale» del
costo del servizio rifiuti attraverso il tributo e al
miliardo aggiuntivo della maggiorazione.
Per rispondere alla prima esigenza, si rimettono in campo i
Comuni, che secondo la nuova norma potrebbero decidere in
modo autonomo il calendario dei versamenti, avendo cura solo
di pubblicare la delibera 30 giorni prima della scadenza
della rata. Le prime rate, su cui l'autonomia degli enti
locali sembra piena, potranno essere pagate con gli stessi
strumenti utilizzati l'anno scorso, dai bollettini
precompilati ai Mav.
Tanta libertà si esaurirà però
all'ultima rata, «dovuta a titolo di Tares» come precisa la
bozza, che avrà le caratteristiche previste per il nuovo
tributo fin dal decreto «Salva-Italia» (Dl 201/2011,
articolo 14) che l'ha istituito: si potrà pagare solo con
F24 o bollettino postale ad hoc, e si dovrà garantire la
«copertura integrale» dei costi del servizio in base ai
piani finanziari che saranno predisposti nel corso
dell'anno. Da "buona" Tares, sarà accompagnata dalla
maggiorazione da 30 centesimi al metro quadrato da versare
direttamente allo Stato: contestualmente, l'Erario
"restituisce" ai Comuni il miliardo di euro che era stato
tagliato in vista dell'attribuzione ai sindaci di questa
sovrattassa.
Come si vede, il tentativo di compromesso fra due esigenze
contrapposte rischia di creare più di un problema,
soprattutto ai 40 milioni di italiani che abitano nei Comuni
dove nel 2012 si applicava la Tarsu. Solo la tariffa Tia,
applicata finora da 1.300 sindaci, già prevedeva la
copertura integrale dei costi attraverso l'applicazione del
«metodo normalizzato» per la determinazione del conto.
L'impatto effettivo dipenderà dalla struttura delle aliquote
di ogni Comune, ma in generale nel caso delle famiglie il
rischio aumenti sarà collegato al tasso effettivo di
copertura dei costi già raggiunto con i rincari della Tarsu
negli ultimi anni.
Per negozi e piccole imprese commerciali,
invece, parte l'applicazione del «metodo normalizzato» che
misura il conto sulla base della quantità di rifiuti
prodotti: rielaborando le stime diffuse nei giorni scorsi da
Confcommercio, nel caso di pagamenti in tre scaglioni si può
calcolare un'ultima rata pari a 10-20 volte le prime due a
seconda della tipologia di esercizio commerciale.
Nei Comuni che sono già passati alla tariffa, invece,
qualche problema potrebbe arrivare sul fronte procedurale,
perché le bozze citano per ora solo «i Comuni» come
autori degli invii delle bollette, mentre in molti casi
l'invio viene fatto dalle aziende, soprattutto nei casi
frequentissimi in cui il servizio è gestito dalla stessa
impresa per molti enti
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013). |
TRIBUTI: Bilanci e Imu separati in casa.
Aliquote e preventivi, la tempistica non è coordinata.
I comuni dovranno fissare sostanzialmente al buio le misure
dell'imposta sugli immobili.
La tempistica per la fissazione delle aliquote dell'Imu non
è coordinata con quella del bilancio comunale.
L'art. 13, comma 13-bis, del dl 201/2011, infatti, prevede,
che, a decorrere dall'anno di imposta 2013, le deliberazioni
con cui i comuni approvano le aliquote e la detrazione Imu
acquistano efficacia dalla data di pubblicazione nel sito
informatico del Dipartimento delle finanze e che i relativi
effetti retroagiscono al 1° gennaio dell'anno di
pubblicazione, a condizione che quest'ultima avvenga entro
il 30 aprile.
A tale scopo, le deliberazioni devono essere inviate al
predetto Dipartimento, esclusivamente in via telematica,
entro il 23 aprile. Nei comuni che non rispettano questo
timing, si intendono prorogate le aliquote e la detrazione
relative all'anno precedente.
L'anticipazione di tali scadenze ha il fine di far conoscere
per tempo ai contribuenti le misure adottate dai singoli
comuni, in modo che entro il termine per il versamento
dell'acconto Imu (ossia il 16 giugno) ciascuno possa
calcolare compiutamente la propria imposta.
Essa, tuttavia, contrasta con la previsione di cui all'art.
1, comma 381, della legge 228/2012, che ha prorogato al 30
giugno il termine entro cui i comuni devono approvare il
preventivo 2013. Quest'ultimo, come noto, è anche, in base
alla disciplina generale, il termine entro cui i comuni
devono fissare le tariffe e le aliquote relative ai tributi
di loro competenza.
Per completare il quadro, va richiamato anche l'art. 1,
comma 444, della stessa legge 228/2012, il quale stabilisce
che, per ripristinare gli equilibri di bilancio, gli enti
locali possono modificare le aliquote e le tariffe entro il
30 settembre. Anche tale disposizione (come la precedente)
non si applica evidentemente all'Imu, considerata la
vigenza, per quest'ultima, della disciplina speciale sopra
richiamata.
In mancanza di modifiche legislative (che appaiono secondo
gli osservatori specializzati quanto mai opportune),
pertanto, i comuni dovranno fissare le aliquote Imu
sostanzialmente «al buio», prima di approvare il
bilancio di previsione o comunque in presenza di un
documento contabile ampiamente approssimativo, considerata
l'impossibilità di conoscere alcuni dati essenziali ai fini
della sua quadratura, primo fra tutti il riparto del nuovo
fondo di solidarietà comunale, che difficilmente sarà noto
prima del mese di maggio. Tutti gli aumenti decisi dopo il
23 aprile o non pubblicati entro il 30 aprile saranno
efficaci solo a partire dal prossimo anno
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Sentenza della corte di cassazione.
Le unità collabenti scontano l'Ici e l'Imu.
Le unità collabenti, in particolari condizioni, sono tassate
ai fini Ici e Imu in base al valore dell'area fabbricabile
che sottintende l'immobile su cui insistono.
Una indiretta conferma di tale assunto potrebbe rinvenirsi
nella giurisprudenza attuale della Corte di Cassazione, con
la recentissima sentenza 01.03.2013 n. 5166.
Vale la pena di riassumere la questione su cui dibattiamo,
che riguarda in sintesi l'inquadramento ai fini dell'Imposta
comunale sugli immobili (cosiddetta Ici), dei fabbricati
iscritti, ai fini delle risultanze catastali, come categoria
F/2, cioè le cosiddette unità collabenti.
I profili che riguardano l'Imu (imposta municipale propria),
che come è noto, è succeduta all'Imposta comunale sugli
immobili, sono essenzialmente sovrapponibili, nel caso in
esame, all'abrogata imposta.
Analogo problema si pone per le unità in corso di
definizione (categoria F/4) che posso essere accomunate a
quelle collabenti, per la stretta analogia (stesso
inquadramento, assenza di rendita catastale ecc.) che
presentano queste tipologie di immobili.
Ricordiamo che tali fabbricati, essendo descritti come
«Unità collabenti (diroccate, in disuso, ruderi, non
utilizzate), sono prive di rendita catastale.
A tal riguardo tali immobili, per godere di eventuali
agevolazioni fiscali, devono essere effettivamente
corrispondenti a ciò che il contribuente dichiara nella
documentazione che è necessaria per richiedere tale
accatastamento come unità collabenti.
Essendo prive di rendita catastale, non è sufficiente
sostenere che esse per il solo fatto di non presentare la
rendita, non siano soggette all'Ici (o all'Imu) in quanto il
presupposto dell'imposta è quello dell'art. 2 del dlgs
504/1992, legge istitutiva dell'imposta Ici, la quale
prescrive che è soggetta all'imposta «l'unità immobiliare
iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio
urbano».
Ricordiamo che soggiace a tassazione ai fini dell'Ici l'area
fabbricabile (art. 1, comma 2, dlgs 504/1992), intendendosi
per questa, l'area utilizzabile in base agli strumenti
urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle
possibilità effettive di edificazione (art. 2, comma 1, lett
b, del dlgs 504/1992).
In tal casi, la possibilità edificatoria è dimostrata dal
fatto che insistono su tale area immobili precedentemente
edificati, a prescindere dalle loro condizioni di
manutenzione o dello stato di conservazione: ciò vale quindi
anche gli immobili fatiscenti o per i ruderi.
Nelle fattispecie in esame, dato l'inserimento dei
fabbricati e delle aree in categoria «F», che è transitoria,
è obbligo del contribuente richiedere in capo a pochi mesi
un nuovo accatastamento più consono, tenuto conto anche
delle caratteristiche dei beni, e del fatto che la categoria
«F» concerne immobili su cui si sta effettuando interventi
di recupero o di manutenzione straordinaria.
Se invece su tali immobili di categoria «F» non sono in atto
questi interventi di recupero, la permanenza di tale
accatastamento nella categoria cennata non è permessa e
quindi è di fatto illegittima.
Si ricorda sommessamente, che l'Agenzia del Territorio, in
numerose sue circolari, anche recenti, ha ricordato che
l'assegnazione della categoria catastale «F» definite
«fittizie», ha natura transitoria, e non deve essere
utilizzata dai contribuenti per lungo tempo, per consentire
indebiti risparmi di imposta, data l'assenza di rendita
catastale per tali immobili.
In particolare la circolare dell'Agenzia del territorio n. 4
del 29/10/2009, ma ve ne sono altre meno recenti, come
quella del 21/02/2002 prot. n. 15232, ricordano come le
categorie «F» in argomento «dovessero rappresentare solo una
temporanea iscrizione negli atti catastali in attesa della
definitiva destinazione conferita al bene».
Una delle poche sentenze disponibili in materia (la n. 164
dell'08/11/2001) della Comm. trib. prov. di Arezzo,
respingeva il ricorso del ricorrente sulla base dello stesso
principio, qui massimato: «Ai fini Ici, un edificio in
rovina, dichiarato collabente dall'Ufficio tecnico erariale
non può essere qualificato come fabbricato inagibile, ma
bensì come area fabbricabile».
Una siffatta tesi sembra trovare conferma nella citata
sentenza della Corte di cassazione n. 5166/2013, nella
quale, occupandosi peraltro della tassazione ai fini delle
imposte dirette della plusvalenza da cessione, la
circostanza che il terreno, prima dell'atto di
compravendita, avesse già ottenuto la concessione edilizia
per il recupero di fabbricati ex rurali collabenti con opera
di demolizione nuova costruzione, fa si che la potenzialità
edificatoria la rendesse tassabile come area fabbricabile,
ai fini dell'imposta comunale sugli immobili.
In tali casi il Comune, è bene precisarlo, dovrebbe valutare
l'area fabbricabile avendo riguardo soprattutto anche della
prospettiva di un recupero e quantificandone le relative
attività e passività, cosicché la valutazione complessiva
sia aderente alla realtà e all'attualità del bene, anche
tenendo conto del riferimento al prezzo di mercato.
Va rilevato per completezza che la peculiarità del caso in
esame, riferito a tali unità collabenti, fa sì che il
problema sia marginalmente conosciuto soltanto agli enti
locali impositori e ai contribuenti che siano in possesso di
tali immobili
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013). |
marzo 2013 |
|
TRIBUTI:
G. Napolitano,
LA PARTECIPAZIONE DEI COMUNI ALL’ATTIVITÀ DI CONTRASTO
ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA: SINTESI DELLA NORMATIVA
- Il presente lavoro ricostruisce il quadro normativo in
materia di partecipazione dei Comuni all’attività di
contrasto all’evasione fiscale e contributiva
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
TRIBUTI: Imu allo 0,2%, gettito allo stato.
I comuni non potranno più ridurre l'aliquota allo 0,1%. I
chiarimenti del dipartimento delle finanze sui fabbricati
rurali ad uso strumentale
Il gettito dell'Imu relativo ai fabbricati rurali ad uso
strumentale classificati nel gruppo catastale D è riservato
allo stato ad aliquota 0,2%, che i comuni non possono più
ridurre allo 0,1%. Per gli altri immobili ad uso produttivo,
il gettito Imu è riservato allo stato ad aliquota standard
dello 0,76%, che i comuni possono solo aumentare fino a 0,3
punti percentuali, ma non ridurre. I comuni devono
modificare le disposizioni regolamentari che stabiliscono
per detti immobili un'aliquota inferiore a quella standard.
Questi sono i principi che si ricavano dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF della direzione legislazione
tributaria e federalismo fiscale del dipartimento delle
finanze del Mineconomia (si veda ItaliaOggi del 29.03.2013).
La questione è connessa al fatto che il comma 380 dell'art.
1 della legge n. 228/12 stabilisce che il gettito dell'Imu,
derivante dagli immobili ad uso produttivo classificati nel
gruppo catastale D, è calcolato ad aliquota standard dello
0,76%, prevista dal comma 6, primo periodo, dell'art. 13 del
dl n. 201/2011. Detta norma non fa alcuna menzione del gettito
relativo ai fabbricati rurali ad uso strumentale
classificati nel gruppo catastale D.
È stato chiarito che il gettito Imu che deriva da detti
immobili deve comunque essere attribuito allo stato sia pure
con l'aliquota dello 0,2%, prevista dall'art. 13, comma 8,
del dl n. 201. La soluzione offerta trova una sua
motivazione nella circostanza che per questi immobili il
legislatore dell'Imu ha creato un particolare regime
agevolato prevedendo espressamente l'aliquota ridotta allo
0,2%. Ciò comporta che le disposizioni del comma 380,
dell'art. 1 della legge n. 228/2012, non possono avere il
significato di calpestare tale sistema per così dire
«speciale» e legittimare l'applicazione per i fabbricati
rurali ad uso strumentale dell'aliquota standard dello
0,76%. Anche dal punto di vista logico tale argomentazione
non sembra avere alcun supporto, in quanto l'aliquota Imu
per tali immobili potrebbe paradossalmente passare dallo
0,1% al 1,06%, per effetto del possibile aumento di tre
punti percentuali.
Secondo i tecnici del ministero, l'unico effetto della norma
della legge di stabilità per il 2013 per i fabbricati rurali
ad uso strumentale all'attività agricola, classificati nel
gruppo catastale D, è quello di riservare allo stato il
gettito con l'aliquota dello 0,2%, che peraltro i comuni non
possono certo ridurre dello 0,1%, come consentiva loro il
comma 8 dell'art. 13 del dl n. 201/2011.
Le modifiche della legge di stabilità sono destinate a
condizionare la manovrabilità delle aliquote da parte dei
comuni che, per effetto della riserva allo stato del gettito
dell'Imu derivante dagli immobili ad uso produttivo
classificati nel gruppo D, ad aliquota dello 0,76%, potranno
intervenire solo aumentando detta aliquota sino a 0,3 punti
percentuali, assicurandosi tale maggior gettito, ma non
potranno, invece, ridurla. Ciò determina l'incompatibilità
delle nuove norme con le disposizioni dell'art. 13 del dl n.
201/2011 che:
• al comma 9, stabilisce che i comuni possono ridurre
l'aliquota di base fino allo 0,4% nel caso di immobili non
produttivi di reddito fondiario ai sensi dell'art. 43 Tuir,
di immobili posseduti dai soggetti passivi dell'Ires, o di
immobili locati;
• al comma 9-bis accorda ai comuni la possibilità di ridurre
l'aliquota di base fino allo 0,38% per i fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano
in ogni caso locati, e comunque per un periodo non superiore
a tre anni dall'ultimazione dei lavori.
Tali innovazioni influenzano le disposizioni regolamentari
adottate dai comuni per il 2012, giacché le disposizioni che
stabiliscono un'aliquota inferiore a quella dello 0,76% con
riferimento agli immobili ad uso produttivo classificati nel
gruppo D non sono più applicabili per il 2013, per cui i
comuni devono approntare le necessarie modificazioni
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2013). |
TRIBUTI: Chiamata Imu per le imprese.
Capannoni, la dichiarazione 2012 entro il 2 aprile. Una
risoluzione delle Finanze sui beni su cui sono stati
computati costi aggiuntivi.
Il termine di presentazione della dichiarazione Imu relativa
ai fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non
iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione
di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente
contabilizzati per i quali sono stati computati costi
aggiuntivi a quelli di acquisizione, decorre dai 90 giorni
dalla data della chiusura del periodo di imposta relativo
alle imposte sui redditi.
Il periodo d'imposta è quello in cui il contribuente è in
possesso di tutti gli elementi necessari per la
determinazione della base imponibile. La dichiarazione
relativa all'Imu 2012 deve essere presentata entro il
prossimo 02.04.2013, sulla base dei coefficienti fissati
nel dm 05.04.2012. Quella relativa all'Imu per l'anno
2013 dovrà essere presentata entro 90 giorni dal 31.12.2013, e cioè entro il 31.03.2014.
Sono questi, in sintesi, i concetti che si deducono dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF della Direzione
legislazione tributaria e federalismo fiscale del
Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e
delle finanze, questa volta alle prese con la disciplina dei
fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non
iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione
di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente
contabilizzati.
Per detti immobili l'art. 5, comma 3, del dlgs n. 504 del
1992 stabilisce che fino all'anno nel quale i fabbricati
sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita, il
valore è determinato alla data di inizio di ciascun anno
solare ovvero, se successiva, alla data di acquisizione ed è
costituito dall'ammontare, al lordo delle quote di
ammortamento, che risulta dalle scritture contabili,
applicando per ciascun anno di formazione dello stesso, i
coefficienti aggiornati ogni anno con decreto del Ministero
dell'economia e delle finanze, sulla base dei dati
risultanti all'Istat sull'andamento del costo di costruzione
di un capannone.
Tale valore ai fini Imu è, pertanto, formato dal costo
originario di acquisto/costruzione compreso il costo del
terreno, dalle spese incrementative, dalle rivalutazioni
economico/fiscali, eventualmente effettuate, dagli interessi
passivi capitalizzati e dai disavanzi di fusione, come
risultante dalle scritture contabili al 1° gennaio dell'anno
in riferimento al quale è dovuta l'Imu.
Il problema prospettato ai tecnici del Mef è l'esatto
termine che l'art. 13, comma 12-ter, del dl 06.12.2011,
n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, stabilisce quale data «in cui il
possesso degli immobili ha avuto inizio o sono intervenute
variazioni rilevanti ai fini della determinazione
dell'imposta» dal quale far decorrere i 90 giorni per
presentare la dichiarazione Imu.
Già nelle istruzioni allegate al modello di dichiarazione
Imu, approvato con dm 30.10.2012, al paragrafo «1.5 -
Quando deve essere presentata la dichiarazione» è stato
precisato che per tale tipologia di immobili «per i quali
sono stati computati costi aggiuntivi a quelli di
acquisizione, la data da considerare, ai fini della
decorrenza dei 90 giorni è quella della chiusura del periodo
di imposta relativo alle imposte sui redditi».
Ora però ci si chiede se la chiusura del periodo di imposta,
a partire dal quale deve essere computato il termine di 90
giorni per la presentazione della dichiarazione, debba
identificarsi con:
• quello nel quale sono stati contabilizzati i costi
aggiuntivi che generano l'obbligo dichiarativo e, quindi, se
la dichiarazione deve essere presentata entro 90 giorni
dalla chiusura del periodo d'imposta nel quale sono stati
sostenuti i costi incrementativi;
• quello in cui l'incremento del valore dovuto ai costi
aggiuntivi ha efficacia ai fini del versamento dell'Imu,
ossia il periodo d'imposta di riferimento per la
determinazione del valore che costituisce la base imponibile
per il versamento della relativa imposta annuale.
Nella risoluzione viene chiarito che il periodo d'imposta
dalla chiusura del quale decorrono i 90 giorni non può che
essere quello in cui il contribuente è in possesso di tutti
gli elementi necessari per la determinazione della base
imponibile.
Nel primo caso, infatti, potrebbero mancare i coefficienti
per la determinazione del valore contabile dei fabbricati,
considerato che il decreto di aggiornamento di detti
coefficienti viene normalmente emanato successivamente alla
scadenza dei 90 giorni dalla chiusura del periodo d'imposta
nel quale sono stati sostenuti i costi incrementativi.
E così, ad esempio, se i costi incrementativi del valore
degli immobili sono stati sostenuti nel corso del 2012,
l'incremento del valore dell'immobile deve essere preso in
considerazione per il versamento dell'Imu relativo all'anno
2013, poiché è in questo anno che il contribuente viene a
conoscenza dei coefficienti di aggiornamento del valore
degli immobili. Ciò comporta che:
- la dichiarazione dell'Imu per l'anno 2013 dovrà essere
presentata entro 90 giorni dal 31.12.2013, ossia entro
il 31.03.2014;
- la dichiarazione relativa all'Imu 2012 deve essere
presentata entro il prossimo 02.04.2013, sulla base dei
coefficienti fissati nel dm 05/05/ 2012.
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Le detrazioni e le aliquote valide solo se su internet.
Dal 2013 l'efficacia delle deliberazioni di approvazione
delle aliquote e della detrazione dell'Imu, decorre dalla
data di pubblicazione nel sito informatico www.finanze.it a
condizione che la pubblicazione avvenga entro il 30 aprile
dell'anno a cui la delibera si riferisce. Il diritto di
abitazione che attribuisce la soggettività passiva Imu
all'ex coniuge prevale in tutte le ipotesi in cui
l'assegnazione della casa coniugale sia disposta con
provvedimento giudiziale, ma non nel caso in cui è oggetto
di un contratto di locazione.
Sono due chiarimenti offerti dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 5/DF delle Finanze.
Essa ribadisce che in caso di mancata pubblicazione sul sito
delle Finanze entro il termine del 30 aprile, le aliquote e
la detrazione si intendono prorogate di anno in anno. Per
far sì che tale meccanismo funzioni perfettamente è
necessario che dette aliquote siano inviate dal comune al
Dipartimento entro il 23.04.2013. Pertanto il
contribuente, chiamato a versare la prima rata dell'Imu
entro il 17 giugno (visto che il 16 è domenica) deve
calcolarlo tenendo conto delle aliquote pubblicate, entro il
30.04.2013, sul sito www.finanze.it.
Se il comune
intende modificare per il 2013 le aliquote approvate per
l'anno 2012, deve inviare le nuove deliberazioni
esclusivamente inserendole nell'apposita sezione del Portale
del federalismo fiscale, entro il 23.04.2013. Se vuole
confermare le aliquote 2012 deve solo accertarsi che la
deliberazione 2012 sia stata pubblicata sul sito. In
assenza, il contribuente applicherà le aliquote di legge.
L'ulteriore caso che può verificarsi è che al 30.04.2013
non ci sia sul sito nessuna deliberazione del comune
relativa al 2013; se ciò accadrà il contribuente dovrà
verificare se risulta pubblicata la deliberazione relativa
al 2012 che, risulta valida anche per il 2013. Nell'ipotesi
in cui non risulti pubblicata sul sito neanche la
deliberazione per l'anno 2012, il contribuente non potrà far
altro che applicare le aliquote fissate dalla legge (si veda ItaliaOggi del 20/03/2013).
Casa coniugale
Per quanto riguarda l'applicazione dell'Imu alla ex casa
coniugale, per legge «l'assegnazione della casa coniugale
al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di
separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione
degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso
effettuata a titolo di diritto di abitazione». Questo, «in
ogni caso», fa propendere per l'interpretazione in base
alla quale il diritto di abitazione deve prevalere in tutte
le ipotesi in cui l'assegnazione della casa coniugale al
coniuge sia disposta con provvedimento giudiziale.
Fa eccezione il caso in cui il legislatore ha disciplinato
espressamente la fattispecie, come è avvenuto con l'art. 6
della legge 27.07.1978, n. 392, il quale prevede che «in
caso di separazione giudiziale, di scioglimento del
matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello
stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore
l'altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa
familiare sia stato attribuito dal giudice a quest'ultimo».
I tecnici del Ministero hanno precisato che in questa
ipotesi il legislatore ha previsto direttamente la
successione nel contratto di locazione da parte del coniuge
assegnatario, che, pertanto, utilizza l'immobile sulla base
di un titolo giuridico diverso da quello del diritto reale
di abitazione previsto, dall'art. 4, comma 12-quinquies del
dl n. 16 del 2012.
Tali valutazioni portano alla conclusione che quest'ultima
norma opera solo se l'immobile assegnato sia di proprietà,
interamente o pro-quota, del coniuge non assegnatario e in
quello in cui lo stesso immobile sia stato concesso in
comodato, ma non se esso sia oggetto di un contratto di
locazione
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Termine di
presentazione della dichiarazione IMU concernente i
fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non
iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione
di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente
contabilizzati. Quesito (Ministero
dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze,
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D. L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche
recate dall’art. 1, comma 380, della legge 24.12.2012, n.
228. Quesiti in materia di pubblicazione delle deliberazioni
concernenti le aliquote, di pagamento della prima rata
dell’imposta e di assegnazione della casa coniugale
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle
Finanze,
risoluzione 28.03.2013 n. 5/DF). |
TRIBUTI:
La moschea è sempre esente dall'Ici
Per il riconoscimento delle agevolazioni fiscali agli
immobili adibiti al culto prevale la sostanza sulla forma.
Dunque, un immobile destinato a moschea non paga l'Ici anche
se è iscritto in catasto come opificio. Nonostante questa
destinazione sia solo parziale.
Lo ha stabilito la
commissione tributaria regionale di Milano, sezione XIII,
con la sentenza 28.12.2012 n. 176.
Per i giudici d'appello, prevale l'uso effettivo dei locali
sia sull'accatastamento sia sulla formale indicazione degli
scopi statutari di chi utilizza l'immobile. Infatti,
l'immobile in questione ancorché catastalmente classificato
come «D/1» (opificio) e non come «E/7» (fabbricato per
l'esercizio di culto), di fatto era utilizzato come luogo di
culto, in determinate fasce orarie della giornata, e luogo
di ritrovo degli iscritti a un'associazione.
Secondo la
commissione, queste attività «rappresentano una ulteriore
manifestazione dell'esercizio del culto della religione
islamica che detta precise regole di accoglienza e di
assistenza dei propri fedeli». Peraltro viene richiamata
nella sentenza una pronuncia del tribunale di Lecco, che
aveva riconosciuto l'edificio come luogo di culto utilizzato
dalla comunità di religione musulmana.
In effetti l'articolo 7, comma 1, lettera d), del decreto
legislativo 504/1992 riconosce l'esenzione ai fabbricati, e
loro pertinenze, destinati esclusivamente all'esercizio del
culto, purché compatibile con i principi contenuti negli
articoli 8 e 19 della Costituzione. Esercitare in privato il
culto è un diritto costituzionalmente garantito a tutti.
Del resto la Cassazione (sentenza 6316/2005), a proposito di
un fabbricato utilizzato dal vescovo, ha affermato che è
esente dall'Ici, anche se non si tratti di immobile avente
finalità dirette di culto, a condizione che venga destinato
allo svolgimento delle funzioni pastorali. Per i giudici di
legittimità, il primo scopo di un ordine religioso è la
formazione di comunità in cui si esercita la vita
associativa quale presupposto per la catechesi, l'elevazione
spirituale dei membri e la preghiera in comune.
Pertanto, la classificazione catastale di un fabbricato non
può condizionare il riconoscimento di un'agevolazione
fiscale. L'esenzione spetta agli enti non commerciali anche
se l'inquadramento catastale dell'immobile non sia coerente
con la loro attività istituzionale. La situazione di fatto
prevale rispetto all'accatastamento del bene, considerato
che per la normativa Ici quello che conta è la destinazione
concreta dell'immobile, a prescindere dal dato formale
(articolo ItaliaOggi del 27.03.2013). |
TRIBUTI: Niente Tarsu su garage, cantine e pertinenze.
La corte conti Abruzzo sconfessa un
consolidato orientamento giurisprudenziale.
La tassa smaltimento rifiuti solidi urbani (Tarsu) non è
dovuta sui locali destinati a garage, cantine, solai e altri
locali accessori o pertinenziali di abitazioni.
Questa è la conclusione a cui è recentemente giunta la
sezione regionale di controllo dell'Abruzzo della Corte dei
conti, con il
parere 25.03.2013 n. 24.
Un
comune abruzzese aveva investito la sezione regionale
competente di alcune questioni riguardanti l'applicazione
della Tarsu, chiedendo se fosse possibile non applicare
sanzioni ed interessi in relazione al recupero del tributo
calcolato sulle superfici di locali accessori o
pertinenziali di case di civile abitazione, non dichiarate a
seguito di indicazioni verbali all'epoca fornite
dall'ufficio competente e di provvedere contemporaneamente
al rimborso delle somme già pagate a tale titolo da taluni
contribuenti destinatari di avvisi di accertamento definiti
con adesione.
A parere dei magistrati contabili abruzzesi la richiesta
dell'ente merita accoglimento, poiché non è possibile
irrogare sanzioni e richiedere interessi su di un tributo
non dovuto, in quanto i locali accessori di abitazioni non
sono soggetti alla Tarsu. Per giungere a tale conclusione
vengono invocate alcune sentenze della Ctr Sicilia per le
quali la tassa sui rifiuti non è dovuta per i locali
accessori di abitazioni (es. sentenza, sez. di Catania, n.
483/34/11).
La decisione si basa sul contenuto della
circolare del min. Finanze n. 95/E/1994, secondo la quale
«devono considerarsi esclusi dal calcolo della superficie
rilevante per l'applicazione della tassa sui rifiuti urbani
quei locali il cui uso è del tutto saltuario ed occasionale
e nei quali comunque la presenza dell'uomo è limitata
temporalmente a sporadiche occasioni e a utilizzi marginal».
Da qui i giudici siciliani hanno concluso che il garage
privato è luogo adibito al ricovero di uno o più veicoli e
quand'anche la persona vi si trattenga per tempi non brevi,
non è plausibile ipotizzare che ne derivino rifiuti.
I magistrati della Sezione regionale di controllo
dell'Abruzzo sembrano però non condividere l'ormai
consolidato orientamento contrario sia della prassi che
della giurisprudenza. L'art. 62, comma 1, del dlgs 507/93
stabilisce che sono soggetti al tributo tutti i locali e le
aree scoperte occupati o detenuti, a qualsiasi uso adibiti,
a esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie
di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti
nel territorio comunale. Il successivo comma 2 esonera
dall'applicazione della tassa i locali e le aree che non
possono produrre rifiuti per la loro natura, per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate
nella denuncia originaria o di variazione e siano
debitamente riscontrate in base ad elementi oggettivi
direttamente rilevabili o da idonea documentazione.
La questione è stata affrontata dalla Corte di cassazione la
quale, tuttavia, è giunta a conclusioni opposte a quelle
della Sezione regionale di controllo abruzzese. La sentenza
n. 2202/2011 ritiene infatti tassabili i garage e le
autorimesse proprio sulla scorta del principio per il quale
vi è una presunzione legale di produttività di rifiuti
derivante dall'occupazione o dalla detenzione di locali ed
aree, considerando che l'impossibilità di produrre rifiuti
negli stessi non può essere presunta dal giudice tributario,
ma è onere del contribuente indicare nella denuncia
originaria o di variazione le obiettive condizioni di
inutilizzabilità.
Ad analoga decisione perviene, sulla scorta dei medesimi
principi, la sentenza della Suprema corte, n. 11351 del
06/07/2012, proprio cassando la sentenza n. 483/34/11 della Ctr Sicilia invocata dai magistrati abruzzesi a fondamento
del loro convincimento. Anche la prassi ministeriale
conferma da tempo tale orientamento. La stessa circolare n.
95/1994, a base della decisione della Corte abruzzese, non
intendeva includere tra i locali non tassabili «con
sporadica presenza dell'uomo» i garage, come dimostra quando
evidenzia che «non è previsto alcun abbattimento per i
locali a più bassa potenzialità di produzione di rifiuti
rispetto alle restanti parti del complesso (es. cantina o
garage a servizio di abitazioni)».
Anche le successive rm n. 149/1998 e n. 45/E/1999
ribadiscono l'applicazione del tributo sui locali accessori.
In particolare la seconda evidenzia come il riferimento
all'esclusione dal tributo dei locali con sporadica presenza
dell'uomo, contenuto nella circ. n. 95/1994, deve intendersi
riguardante le superfici caratterizzate da usi meramente
occasionali e nettamente distanziati nel tempo diversi da
quelli domestici e come la tariffa relativa alle abitazioni
è già una tariffa media, che tiene conto della minore
potenziale produzione di rifiuti dei locali accessori. Le
medesime conclusioni valgono oggi per la Tares, data la
sostanziale coincidenza del presupposto impositivo
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
TRIBUTI: Tributi
locali. Basta che lo preveda il Prg - Non servono i
documenti attuativi.
Per l'Imu l'area è edificabile anche se non si può costruire.
La qualifica di area edificabile ai fini dell'Imu prescinde
dalle concrete possibilità di sfruttamento edificatorio del
suolo e deriva esclusivamente dall'inclusione del bene
nell'ambito dello strumento urbanistico generale.
La nozione di area edificabile nell'ordinamento tributario è
sancita nell'articolo 36, comma 2, Dl n. 223/2006. A mente
di tale disposizione, sono edificabili tutte le aree così
qualificate dallo strumento urbanistico generale, anche solo
adottato dal comune, a prescindere dall'esistenza dello
strumento attuativo. Ciò significa che ai fini fiscali la
qualificazione in esame discende da criteri meramente
formali (l'inclusione nel piano regolatore), più che
sostanziali. Potrebbe quindi accadere, come nel caso
proposto dal lettore, che sia considerata edificabile anche
un'area sulla quale non è possibile al momento costruire
assolutamente nulla.
Alla luce di questi principi di diritto, dunque, il terreno
in possesso del lettore deve essere trattato come
edificatorio per l'Imu. La circostanza che l'indice di
edificabilità sia basso, inoltre, non comporta che una quota
del bene possa essere trattata come terreno agricolo, ma che
il valore unitario dell'intera area edificabile sia
determinato in ragione delle effettive condizioni
urbanistiche.
In altri termini, posto che l'imponibile Imu è pari al
valore di mercato al primo gennaio di ciascun anno, ne
discende che tale valore dovrà essere influenzato sia
dall'effettivo indice di edificabilità sia dalle prospettive
temporali di costruzione. È infatti evidente che se il tempo
per la monetizzazione dell'investimento è piuttosto lungo il
valore del bene non potrà essere elevato. Lo stesso dicasi
se le possibilità di costruzione non consentono uno
sfruttamento intensivo del bene.
Vale da ultimo segnalare che il comune ha solo il potere di
indicare valori di orientamento per i contribuenti ma non di
determinare la base imponibile dell'imposta. La
determinazione dell'imponibile, infatti, è riservata al
legislatore statale. Questo significa che se il contribuente
ritiene eccessivo l'importo deliberato dal comune egli potrà
discostarsene. In caso di successivo contenzioso con l'ente,
si potranno far valere le ragioni di parte, meglio se
supportate da una perizia di un esperto.
Si evidenzia peraltro che, in presenza di una dichiarazione
infedele, il comune irroga la sanzione dal 50% al 100%
dell'imposta dovuta. Il termine per la notifica degli avvisi
di accertamento è il 31 dicembre del quinto anno successivo
a quello in cui è stata commessa la violazione
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.03.2013). |
TRIBUTI:
Acconto Imu 2013, vietato deliberare in ritardo
Per l'acconto Imu 2013 fa da spartiacque la data del 23.04.2013. Termine ultimo utile per i comuni con i conti
in ordine per deliberare le nuove aliquote per
l'appuntamento di giugno 2013. Se la delibera arriva in
ritardo è possibile che a giugno si dovranno usare le
aliquote in vigore nel 2012 e rimandare il tutto al 2014
anche per il saldo 2013 di dicembre.
È questo, secondo
quanto risulta a ItaliaOggi l'orientamento che potrebbe
prevalere nella stesura di un nuovo intervento di prassi del
dipartimento delle finanze sulla campagna Imu 2013.
Accantonate, dunque, tutte le promesse elettorali, rimaste
sulla carta, la macchina organizzativa si è già messa in
moto iniziando a verificare i tempi di approvazione delle
delibere con i tempi di approvazione concessi ai comuni non
in regola con i conti e quelli invece in equilibrio.
È previsto infatti un doppio binario per i comuni che
presentano conti in squilibrio e per i comuni con i conti in
ordine in relazione al calendario di approvazione delle
delibere Imu.
Nel primo caso i comuni hanno tempo fino al 30.09.2013 per deliberare sui propri conti e in merito anche all'Imu.
Mentre i comuni con i conti in ordine devono fare
riferimento al termine del 23 aprile per approvare le
eventuali correzioni alle aliquote. L'orientamento che
potrebbe essere recepito nella circolare del dipartimento,
secondo quanto risulta a ItaliaOggi, in riferimento ai
comuni con i conti in squilibrio, che deliberano tra il
primo maggio e il 30 settembre, è quello di andare a far
pagare a giugno con le aliquote Imu in vigore nel 2012 e a
dicembre applicare una sorta di conguaglio 2013.
Discorso diverso e con i tempi più stretti per i comuni con
i conti in ordine. Per questi ultimi infatti arrivare con
una delibera successiva al 23 aprile sforando il termine del
primo maggio significherebbe precludersi la possibilità di
applicare variazioni di aliquota per l'Imu 2013. Se ne
riparlerebbe infatti nel 2014.
È questa una linea interpretativa che troverebbe il consenso
della consulta dei Caf (centri di assistenza fiscale) che
per esigenze organizzative e rispetto ai tempi normativi
prendono come riferimento la decorrenza del 1° maggio per
avviare la propria campagna di analisi delle delibere e
preparazione dei bollettini di versamento e assistenza ai
contribuenti. Ma i nodi da sciogliere sulla campagna Imu
2013 non finiscono qui. Intanto nel puzzle degli adempimenti
sulla dichiarazione Imu manca all'appello il codice tributo
per chi è arrivato oltre il termine del 4 febbraio e vuole
ravvedersi.
Nella pratica dunque non è ancora possibile
applicare il ravvedimento operoso per la dichiarazione Imu.
Resta poi sul tappeto un'altra questione non da poco: alla
consulta dei Caf sono arrivate segnalazione di comuni che
vorrebbero far pagare l'Imu seconda casa limitatamente alla
stanza che il privato, nella propria abitazione dove ha la
residenza, ha affittato. Non considerando che ai fini Imu il
requisito è quello della residenza e non quello reddituale
(articolo ItaliaOggi del
20.03.2013). |
TRIBUTI: Il terreno incolto non paga Imu.
Va invece versata l'Irpef sulla base del reddito dominicale. Le
risposte ai temi dei lettori. La tassa locale non è dovuta
nelle zone montane e collinari.
DOPPIO VANTAGGIO/
I fabbricati rurali a uso strumentale non scontano il
tributo locale ma neppure quello sui redditi.
I terreni incolti di collina e di montagna, essendo esenti
dall'imposta municipale, scontano l'Irpef; la precisazione è
contenuta nella
circolare 11.03.2013 n. 5/E dell'agenzia delle Entrate.
Il quadro normativo è quello dell'articolo 8 del Dlgs
23/2011, in base al quale gli immobili soggetti all'imposta
municipale, se non locati, non devono assolvere l'Irpef
sulla rendita fondiaria. Si ricorda che tale agevolazione si
applica ai titolari di redditi fondiari e quindi soltanto
alle persone fisiche e alle società semplici; questa
agevolazione si concretizza per la prima volta nella
prossima dichiarazione dei redditi Unico 2013.
Qualora invece questi immobili usufruiscano di qualche
esenzione dall'imposta municipale ricadono
nell'assoggettamento a Irpef. È proprio il caso dei terreni
agricoli situati in zone di collina e di montagna (circolare
n. 9 del 14.06.1993) i quali, ai sensi dell'articolo 7
del Dlgs 504/1992, sono esclusi dall'imposta municipale.
Quindi per questi terreni i proprietari devono assolvere
l'Irpef sul reddito dominicale rivalutato dell'80 per cento.
La stessa regola vale per i terreni incolti, per i quali la
circolare n. 3/DF/2012 ha previsto in generale
l'assoggettamento all'imposta municipale. Tuttavia, se tali
terreni sono collocati in collina o in montagna scatta
l'esclusione dall'Imu in quanto non costituiscono una
categoria autonoma di immobili ma appartengono alla
categoria dei terreni agricoli (non essendo né aree
edificabili né fabbricati).
Sul tema è illuminante la circolare 5/E/2013 che, citando la
risposta fornita dal governo a un'interrogazione
parlamentare, ha ribadito l'esclusione da Imu per i terreni
incolti collocati in collina o in montagna.
In particolare in questa circostanza il ministero delle
Finanze ha precisato che, ancorché letteralmente l'articolo
7 del Dlgs 504/1992 preveda l'esenzione per i soli terreni
agricoli, l'interpretazione corretta è quella basata su una
lettura sistematica della norma.
Ciò porta a far rientrare nell'ambito di applicazione
dell'esenzione dall'imposta municipale, disposta per i
terreni ricadenti in aree montane o in zone collinari, anche
i terreni non coltivati. A parere del Ministero questo
orientamento risulta altresì confermato dalle istruzione
alla compilazione alla dichiarazione Imu (paragrafo 3.2) ove
viene decretata l'esenzione per i tutti i terreni ricadenti
in territori montani o collinari senza più far riferimento
ai soli terreni agricoli.
Ne deriva che l'intento del legislatore non può che essere
quello di escludere dall'assoggettamento all'imposta anche i
terreni incolti.
Quindi i terreni non coltivati situati in collina e in
montagna per effetto della esclusione da Imu devono
assolvere l'Irpef. Si ricorda tuttavia che ai sensi
dell'articolo 31 del Tuir, in presenza di mancata
coltivazione per un'intera annata agraria e per cause non
dipendenti dalla tecnica agraria, il reddito dominicale si
assume nella misura del 30% mentre il reddito agrario non
concorre a formare il reddito complessivo.
Doppia esenzione, invece, per i fabbricati rurali a uso
strumentale di cui all'articolo 9, comma 3-bis, del Dl
557/1993 situati in comuni classificati montani o parzialmente
montani, di cui all'elenco dei comuni italiani predisposto
dall'Istat. In questo caso le costruzioni rurali che sono
esenti da Imu non assolvono nemmeno l'Irpef, alla luce
dell'esclusione a regime da imposizione diretta contenuta
nell'articolo 42 del Tuir
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.03.2013). |
TRIBUTI:
L'Imu distingue coniugi e non.
Imposta a carico dell'assegnatario ma non del convivente. Diversi i trattamenti di tributo e bonus per
separati-divorziati rispetto a famiglie di fatto.
L'Imu distingue le coppie sposate da quelle di fatto.
Diverso è, infatti, il trattamento per i coniugi separati o
divorziati ai fini del pagamento dell'Imu rispetto alle
famiglie di fatto. Normalmente è il possesso di diritto di
un immobile che obbliga al pagamento dell'imposta
municipale.
L'unica eccezione è rappresentata dal coniuge assegnatario
dell'immobile che, in base a quanto disposto dall'articolo
13 del dl «salva-Italia» (201/2011), è obbligato al
pagamento dell'Imu anche nei casi in cui non sia né
proprietario né titolare di altro diritto reale di godimento
sul bene.
Il legislatore, in sede di conversione del dl
16/2012, ha posto a carico del coniuge assegnatario
dell'immobile l'obbligo di pagare il tributo. L'articolo 4,
comma 12-quinquies, del dl sulle semplificazioni fiscali
prevede espressamente che, solo per l'Imu, l'assegnazione
della casa coniugale a favore di uno dei coniugi, disposta a
seguito di provvedimento di separazione legale,
annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili
del matrimonio, «si intende in ogni caso effettuata a titolo
di diritto di abitazione».
Ma molti contribuenti interessati alla questione si pongono
questa domanda: chi è debitore dell'Imu nel caso in cui il
giudice ordinario assegni l'immobile a uno dei conviventi,
che non sia il proprietario della casa familiare adibita a
propria residenza e dimora? Per famiglia di fatto si intende
l'unione tra due persone che, pur non avendo contratto
matrimonio tra loro, convivono more uxorio. Nonostante la
giurisprudenza ordinaria tenda a riconoscere alle coppie di
fatto gli stessi diritti assicurati dalla legge a quelle
sposate, anche volendo forzare il dato normativo non è
possibile ritenere che la disciplina Imu rivolta
espressamente al coniuge assegnatario, per quanto concerne
il soggetto obbligato al pagamento del tributo, possa essere
applicata al convivente assegnatario dell'immobile con
provvedimento giudiziale. La soggettività passiva, infatti,
deve essere stabilita solo ex lege e non può essere
attribuita attraverso interpretazioni estensive.
Pertanto,
laddove la norma individua come soggetto obbligato al
pagamento dell'Imu il coniuge assegnatario, non può
ritenersi che lo stesso trattamento giuridico possa valere
anche per il convivente assegnatario della casa familiare.
Del resto, per «coniuge» si intende ognuna delle due persone
che sono unite in matrimonio. Pertanto, il convivente
titolare dell'immobile è tenuto a pagare la nuova imposta
locale. Tra l'altro, non può neppure fruire del trattamento
agevolato per l'abitazione principale, considerato che
essendo l'immobile assegnato all'ex convivente non può
adibirlo a propria residenza e dimora abituale, come
richiesto dall'articolo 13. Così come non ha diritto alla
detrazione d'imposta per i figli affidati dal giudice al
convivente.
Soggetti passivi. L'Imu è dovuta dai contribuenti per anni
solari, proporzionalmente alla quota di possesso
dell'immobile e in relazione ai mesi dell'anno per i quali
il bene è stato posseduto. Se il possesso si è protratto per
almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero.
Va precisato che la prova della proprietà o della titolarità
dell'immobile non è data dalle iscrizioni catastali, ma
dalle risultanze dei registri immobiliari. In caso di
difformità è tenuto al pagamento dell'Imu il soggetto che
risulta titolare da questi registri (Commissione tributaria
regionale del Lazio, prima sezione, sentenza 90/2006).
Quindi, per l'assoggettamento agli obblighi tributari non è
probante quello che risulti iscritto in catasto.
Oltre al proprietario e all'usufruttuario, sono soggetti
passivi anche il superficiario, l'enfiteuta, il locatario
finanziario, i titolari dei diritti di uso e abitazione,
nonché il concessionario di aree demaniali. Rientra tra i
diritti reali, poi, il diritto di abitazione che spetta al
coniuge superstite, in base all'articolo 540 del codice
civile. Non è soggetto al prelievo fiscale, invece, il nudo
proprietario dell'immobile. Allo stesso modo, non sono
obbligati al pagamento dell'imposta il locatario,
l'affittuario e il comodatario, in quanto non sono titolari
di un diritto reale di godimento sull'immobile, ma lo
utilizzano sulla base di uno specifico contratto. Che il
semplice possesso non obblighi al pagamento lo ha chiarito
la Cassazione (sentenza 18476/2005), per l'Ici, a proposito
del coniuge assegnatario dell'immobile, in caso di
separazione.
Secondo la Cassazione, se il giudice assegnava
in passato a un coniuge l'abitazione dell'ex casa coniugale,
il soggetto assegnatario non era tenuto al pagamento
dell'Ici. Il giudice non ha, infatti, il potere di
costituire diritti reali di godimento sull'immobile, quali
quelli di uso e abitazione, ma può decidere solo in ordine
all'attribuzione di un diritto personale sulla casa
familiare a favore di un coniuge. In base alla vecchia
normativa Ici, l'assegnatario aveva solo un diritto di
godimento del bene di natura personale e non reale. Solo per
l'Imu è stato posto a carico dell'assegnatario dell'immobile
l'obbligo di pagare il tributo.
Bisogna inoltre ricordare che l'utilizzo di un immobile o il
possesso di fatto non possono essere inquadrati
giuridicamente come diritto d'uso.
In base all'articolo 1021 del codice civile, chi è titolare
di questo diritto può servirsi della cosa che ne forma
oggetto e, se è fruttifera, può raccogliere i frutti per
quello che è necessario ai bisogni personali.
L'uso, dunque, è un diritto reale di godimento che
attribuisce al titolare la facoltà di usare e godere della
cosa, in modo diretto, per il soddisfacimento di un bisogno
attuale e personale. Questo diritto viene costituito per
contratto, testamento o usucapione
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.03.2013). |
TRIBUTI: Il rudere paga l'Imu quando è recuperabile. Cassazione.
Imponibili anche i fabbricati collabenti.
IL PRINCIPIO/
La Corte ha equiparato a un'area fabbricabile un terreno
agricolo occupato da resti di immobili da demolire.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 5166/2013 ha ritenuto
che la cessione unitaria di un terreno agricolo con
sovrastanti fabbricati ex rurali collabenti, destinati alla
demolizione e alla ricostruzione come fabbricati civili, va
considerata come cessione di area fabbricabile.
I giudici di Piazza Cavour prendono le mosse proprie dalla
normativa Ici, ricordando che l'area edificabile costituisce
un genere articolato nelle due specie dell'area edificabile
di diritto, così qualificata in un piano urbanistico, e
dell'area edificabile di fatto, vale a dire del terreno che,
pur non essendo urbanisticamente qualificato, può nondimeno
avere una vocazione edificatoria di fatto, in quanto sia
potenzialmente edificatorio anche al di fuori di una
previsione programmatica.
Nel caso analizzato dai giudici di legittimità la natura di
area edificabile è stata riconosciuta sulla base di una
suscettibilità edificatoria unitaria del terreno a
prescindere dal fatto che l'area fosse inserita, dallo
strumento urbanistico generale, in zona agricola.
Il principio di diritto enunciato risolve il problema
applicativo relativo ai fabbricati collabenti, normalmente
accatastati in categoria catastale F2. Si tratta di
fabbricati con un alto livello di degrado, pericolanti o
diroccati, non utilizzabili e per questo accatastati senza
rendita catastale. A seguito dell'emersione dei fabbricati
ex rurali, iniziata con il Dl 262/2006, molti di questi
fabbricati sono stati accatastati proprio in categoria F2.
Questi fabbricati, in realtà, sono da assoggettare come area
fabbricabile in quanto lo strumento urbanistico comunale
normalmente ne prevede il recupero edilizio, anche se nei
limiti della cubatura esistente. Si tratta quindi di aree
fabbricabili previste direttamente dallo strumento
urbanistico, ai sensi dell'articolo 2 del Dlgs 504/1992, e
non di fabbricati che possono essere attratti ad imposizione
solo in caso di ristrutturazione, ai sensi dell'articolo 5
della normativa Ici.
Naturalmente, il fabbricato collabente situato in una zona
del territorio comunale dove è comunque precluso il recupero
edilizio, come nelle fasce di rispetto di un fiume, sarà
escluso dall'Ici ed anche dall'Imu, non essendo né un
terreno, né un fabbricato con rendita, né un'area
fabbricabile.
La Cassazione, con la sentenza citata, completa dopo
vent'anni di applicazione dell'Ici, il quadro di riferimento
per le aree fabbricabili, costituito da una stratificazione
di sentenze della Corte di Cassazione (sezioni unite 30.11.2006, n. 25506) e della Corte Costituzione (27.02.2008, n. 41) e da un susseguirsi di norme,
terminate con l'articolo 36 del Dl 223/2006 che considera
area fabbricabile, ai fini di tutte le imposte, comunali ed
erariali, l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base
allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune,
indipendentemente dall'approvazione della regione e
dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo.
Ovviamente l'articolato quadro giurisprudenziale e normativo
è integralmente applicabile anche per l'Imu (articolo Il Sole 24 Ore del
18.03.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Quali
sono le aree escluse dalla Tares?
(18.03.2013 - link a www.ambientelegale.it). |
TRIBUTI: Immobili fantasma all'appello.
Scade il 2 aprile il termine per la regolarizzazione. Entro
lo stesso termine il ricorso in Commissione contro i
provvedimenti catastali.
Scade il 2 aprile il termine per la presentazione da parte
dei contribuenti degli atti di aggiornamento dei fabbricati
non dichiarati in catasto ai quali l'Agenzia del territorio
ha attribuito la rendita presunta. Gli interessati possono
regolarizzare la loro posizione presentando gli atti di
aggiornamento catastale entro 120 giorni dalla pubblicazione
del comunicato dell'Agenzia nella Gazzetta Ufficiale, al
quale è allegato l'elenco dei comuni interessati
dall'attività di attribuzione della rendita presunta.
Considerato che il comunicato è stato pubblicato il 30.11.2012, il termine per la regolarizzazione scade il
prossimo 2 aprile. In caso contrario i contribuenti sono
soggetti al pagamento delle sanzioni amministrative. Entro
lo stesso termine è possibile presentare ricorso contro i
provvedimenti catastali innanzi alla commissione tributaria
provinciale competente per territorio.
Al comunicato dell'Agenzia del territorio del 30 novembre
scorso è allegato l'elenco dei comuni interessati dalla
seconda fase dell'attività di attribuzione della rendita
presunta ai fabbricati cosiddetti fantasma. Sul sito
internet dell'Agenzia è ancora disponibile per la
consultazione l'elenco delle particelle del catasto terreni
e le corrispondenti unità immobiliari del catasto edilizio
urbano alle quali è stata attribuita la rendita presunta.
Gli atti di aggiornamento devono essere presentati entro 120
giorni dalla pubblicazione del comunicato nella Gazzetta
Ufficiale. Mentre i termini per la proposizione del ricorso
(60 giorni) iniziano a decorrere trascorsi 60 giorni dalla
data di pubblicazione del comunicato. Quindi, sia per gli
aggiornamenti che per l'impugnazione dei provvedimenti
adottati dall'Agenzia il termine di scadenza è fissato al 2
aprile, poiché il 30 marzo è sabato e i due giorni
successivi sono festivi.
In effetti, dal 2011 l'Agenzia del territorio può
attribuire, provvisoriamente, la rendita presunta (in attesa
della rendita definitiva) agli immobili non dichiarati in
catasto. Le modalità e i criteri per l'attribuzione della
rendita presunta sono indicate in un provvedimento del
direttore del Territorio del 19.04.2011, pubblicato sul
sito dell'Agenzia. L'articolo 19, comma 8, del decreto legge
78/2010 convertito, con modificazioni, dalla legge 122/2010,
ha imposto l'obbligo ai titolari di diritti reali sugli
immobili non dichiarati di presentare la dichiarazione di
aggiornamento catastale. L'Agenzia del territorio sulla base
di nuove informazioni connesse a verifiche
tecnico-amministrative, effettuate con telerilevamento e con
sopralluogo sul terreno, infatti, monitora costantemente il
territorio, individuando, in collaborazione con i comuni, i
fabbricati fantasma. Decorso il termine di legge (7 mesi)
senza che il titolare dell'immobile abbia provveduto
all'accatastamento, l'Agenzia è legittimata ad adottare il
provvedimento attribuivo della rendita presunta.
Se per gli immobili ai quali è stata attribuita la rendita
presunta i soggetti obbligati non presentano gli atti di
aggiornamento, scattano le sanzioni amministrative che sono
state quadruplicate. Il 75% dell'importo delle sanzioni è
devoluto ai comuni in cui sono ubicati gli immobili
accertati
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2013 -
tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Imu, riduzione discrezionale.
Variabile l'effetto sostitutivo per gli immobili merce.
La circolare 5 riconosce l'imposta per gli
stabili non produttivi di redditi fondiari.
Nessun effetto sostitutivo per gli immobili merce. Se però
sono destinati alla rivendita e non locati, è possibile una
riduzione discrezionale e a tempo, dell'aliquota
applicabile.
Con la
circolare 11.03.2013 n. 5/E (si
veda ItaliaOggi del 12/03/2013) sono stati esaminati i
rapporti tra l'imposta municipale sperimentale (Imu) e le
imposte sui redditi, come l'Ires, l'Irpef e le addizionali,
il tutto in relazione a quanto prescritto dal comma 1,
dell'articolo 8 del dlgs 23/2011, inerente al federalismo
fiscale.
Se dal un lato sono numerose le fattispecie per cui
quando l'immobile è assoggettato a imposta municipale
fuoriesce dalla tassazione diretta, vi sono altrettanti casi
dove l'effetto sostitutivo appena indicato, non esplica i
propri effetti. Emblematico è infatti il caso dei terreni
destinati all'esercizio delle attività agricole, di cui
all'art. 2135 del codice civile, soggetti a tassazione
fondiaria, ai sensi dell'articolo 32 del dpr n. 917/1986.
Per l'allevamento di animali, infatti, se si sviluppa con
mangimi ottenibili per almeno il 25% dal terreno,
l'affittuario dichiara il reddito agrario e il proprietario,
persona fisica, oltre a versare il tributo municipale, deve
anche pagare l'Irpef e le relative addizionali. In questo
caso, pur non rendendosi applicabile l'effetto sostitutivo,
non riduce, in quanto esente, l'imposizione diretta
sull'immobile strumentale agricolo collocato in aree
montane. Il tutto solo se rispettoso dei requisiti oggettivi
di ruralità, di cui al comma 3-bis, dell'articolo 9 del dl
n. 557/1993. Si tratta infatti, tra gli altri, dell'ufficio
dell'impresa agricola, dell'abitazione concessa in affitto
ai dipendenti e degli immobili destinati alla protezione
delle piante, alla conservazione dei prodotti agricoli, al
ricovero degli animali e all'agriturismo.
Posto il principio
generale per cui tutti gli immobili esenti dall'Imu scontano
le imposte sui redditi, pagano pegno anche i terreni
collocati in zone collinari o montane, come delimitati
dall'articolo 15 del dlgs n. 984/1977, e quelli destinati ad
attività diverse da quelle agricole, come le cave e i
parcheggi. Si conferma quindi l'assoggettamento
all'imposizione diretta per gli immobili non produttivi di
redditi fondiari, di cui all'articolo 43 del Tuir, con
l'eccezione di quelli non locati utilizzati in modo
promiscuo dal professionista.
Pertanto, in tutti quei casi
in cui non opera l'effetto sostitutivo, si determina un
notevole aggravio del prelievo fiscale. Tra questi, il caso
degli immobili locati, degli immobili di soggetti Ires e
degli immobili-merce appartenenti alle imprese. Si verifica
quindi l'assenza di un regime sostitutivo per gli immobili
delle imprese, per i quali l'Imu è sempre dovuta, ai sensi
del comma 1, dell'articolo 9 del dlgs n. 23/2011 e sui quali
l'imprenditore paga anche le imposte dirette, poiché
componente del reddito d'impresa come rimanenza.
Per detti ultimi beni quindi, l'unico possibile vantaggio è
quello inerente alla riduzione dell'aliquota da parte del
comune fino allo 0,38%. Per un periodo superiore a tre anni
rispetto all'ultimazione dei lavori, l'aliquota ridotta si
rende applicabile però, solo fino a che permane la
destinazione alla vendita del fabbricato e a condizione che
l'immobile non sia locato
(articolo ItaliaOggi del 14.03.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Equitalia, procedure di vetro.
Accesso agli atti con i nomi dei funzionari in chiaro. Tar
Lazio accoglie il ricorso di un contribuente che aveva
chiesto i dati sulle proprie cartelle.
Accesso agli atti, e ai nomi dei responsabili dei
procedimenti di Equitalia a tutto campo. Equitalia deve
indicare i nomi dei responsabili dei procedimenti relativi
alle cartelle esattoriali quando, in sede penale, il
funzionario responsabile invoca la presenza di direttive
superiori e non fornisce le informazioni.
E non solo. Al contribuente devono essere forniti tutti gli
atti e i provvedimenti anche con estremi ignoti, gli atti e
i documenti dell'istruttoria relativi alle cartelle in capo
al contribuenti, nonché tutti i documenti di prassi
amministrativa relativa alla richiesta del contribuente Che
devono essere mostrati, o per usare il linguaggio tecnico,
messi in ostensione di fronte alla richiesta del
contribuente.
Insomma un diritto di accesso amministrativo a
tutto campo, quello riconosciuto dal TAR Lazio-Roma, Sez. III, nella
sentenza 13.03.2013 n. 2660, con cui ha
condannato Equitalia dichiarando illegittimo il suo
silenzio. Di più, il Tar ha concesso 30 giorni di tempo alla
società per la riscossione per preparare la documentazione
richiesta e consegnarla al ricorrente. Una vera e propria
operazione trasparenza sulle cartelle esattoriali.
Il Tar ha
dunque accolto le richieste di un avvocato che ha presentato
ricorso contro il silenzio rifiuto di Equitalia (in
particolare Equitalia Sud per la provincia di Roma)
sull'istanza di accesso con cui chiedeva di prendere visione
e estrarre copia di tutta la serie di documenti sottesi a
una iscrizione ipotecaria per cartelle dal valore inferiore
agli 8 mila euro. La richiesta era legata alla preparazione
della strategia difensiva del contribuente in contenzioso
penale proprio a seguito di una lite tributaria con
Equitalia per le cartelle in questione.
I giudici
amministrativi innanzitutto rilevano che l'accesso ai
documenti è un diritto soggettivo di cui il giudice
amministrativo conosce in giurisdizione esclusiva e il cui
giudizio ha per oggetto la verifica della spettanza del
diritto in questione piuttosto che la verifica della
sussistenza dei vizi di legittimità dell'atto
amministrativo. «Tanto che», dice la sentenza, «il giudice
può direttamente ordinare l'esibizione dei documenti
richiesti, sostituendosi all'amministrazione». Per il Tar,
nella vicenda, esiste un interesse concreto, diretto e
attuale del ricorrente all'ostensione richiesta per
«esigenze di difesa in giudizi che lo vedono direttamente
coinvolto, sia nei confronti del responsabile
dell'iscrizione ipotecaria contestata sia in relazione a
querela che ha ricevuto in relazione ai medesimi fatti».
Per
i giudici la richiesta del contribuente non contrasta con
gli orientamenti del diritto amministrativo nel senso che la
«giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che, ai
sensi dell'art. 22 l. n. 241/1990, il soggetto che detiene la
documentazione oggetto di istanza di ostensione non deve
delibare la fondatezza della pretesa sostanziale per la
quale occorrano tali atti o sindacare sulla utilità
effettiva di questi, in quanto il diritto d'accesso è
conformato dalla legge per offrire al titolare, più che
utilità finali (caratteristica, questa, ormai riconoscibile
non solo ai diritti soggettivi, ma anche agli interessi
legittimi), poteri autonomi di natura procedimentale volti
ad implementare la tutela d'un interesse (o bisogno)
giuridicamente rilevante, per cui il limite di valutazione
della pubblica amministrazione sulla sussistenza d'un
interesse concreto, attuale e differenziato all'accesso ai
documenti, che è correlativamente pure il requisito di
ammissibilità della relativa azione, si sostanzia solo nel
giudizio estrinseco sull'esistenza di un legittimo bisogno
differenziato di conoscenza in capo a chi richiede i
documenti»,
I giudici dunque bocciano la linea di difesa di Equitalia
sud in ordine alla carenza di legittimazione attiva del
ricorrente. Per il Tar infatti il ricorrente ha
sufficientemente chiarito nell'atto introduttivo di avere
necessità della documentazione richiesta non nel giudizio
tributario ma in un giudizio in sede penale nei confronti
del funzionario responsabile che invocava la presenza di
direttive superiori per procedere
(articolo ItaliaOggi del
20.03.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Tosap.
Autotutela blocca riscossione.
Niente riscossione coattiva della Tosap se pende un ricorso
in autotutela del contribuente. E se quest'ultimo ha già
incassato una sentenza favorevole in appello sulla medesima
questione (per un'annualità diversa), i giudici tributari di
primo grado devono conformarsi al verdetto.
È quanto ha
deciso la Ctp di Brindisi con la
sentenza 11.03.2013 n. 108/2/13.
Un contribuente, difeso
dall'avv. Maurizio Villani di Lecce, ricorreva contro una
cartella emessa dal concessionario della riscossione per il
mancato pagamento della tassa di occupazione temporanea di
spazi e aree pubbliche, risalente al 1994. Il giudizio era
stato riassunto: in primo grado, infatti, la Ctp si era
dichiarata incompetente, ma la Ctr Puglia aveva riconosciuto
la giurisdizione tributaria, rimandando quindi le carte alla
Ctp.
Secondo il contribuente l'esattoria non poteva
iscrivere a ruolo il tributo in quanto l'avviso di
accertamento da cui era derivata l'iscrizione era stato
impugnato in sede amministrativa: prima davanti alla Dre
Puglia e poi, a seguito del diniego, presso le finanze, che
non si era mai espresso. Ai sensi degli artt. 67 e 68 del
dpr 43/1988, il mancato versamento Tosap può dare luogo alla
riscossione coattiva in pendenza di un ricorso tributario.
Tali disposizioni, per la Ctp, non trovano però applicazione
nel caso dell'azione di autotutela amministrativa, in quanto
«secondo quanto risultante dagli atti processuali, il
ricorso non è ancora deciso in via definitiva» e quindi
l'accertamento non ha carattere di esecutività. Peraltro,
sul medesimo argomento il contribuente aveva già ottenuto il
verdetto favorevole della Ctr Puglia, sez. Lecce, con
sentenza 115/23/10, passata in giudicato.
«Poiché la
questione di diritto oggetto del contendere è analoga»,
conclude la Ctp Brindisi, «per non dire identica a quella
che ha formato oggetto del ricorso in appello deciso dalla Ctr
con sentenza passata in giudicato, questa commissione ha
comunque il dovere di uniformarsi ex art. 2909 c.c. e ciò
anche ove (e non è questo il caso in questione) ritenesse di
non condividere il principio affermato»
(articolo ItaliaOggi del
22.03.2013). |
TRIBUTI: Case inagibili esenti dall'Irpef.
Sugli immobili già si applica l'Imu. Anche se ridotta. La
circolare dell'Agenzia delle entrate ha richiamato un
precedente datato 2012.
I contribuenti non sono tenuti a pagare l'Irpef sui
fabbricati inagibili, poiché questi immobili non sono esenti
dall'Imu. I titolari di fabbricati inagibili o inabitabili,
infatti, pagano l'imposta in misura ridotta. Quindi, non
sono soggetti al pagamento delle imposte sui redditi.
Lo ha
chiarito l'Agenzia delle entrate con la
circolare 11.03.2013 n. 5/E
(si veda ItaliaOggi di ieri).
Secondo l'Agenzia, per gli immobili inagibili per i quali
siano rispettate tutte le prescrizioni contenute
nell'articolo 13, comma 3, lett. b), del decreto «salva
Italia» (201/2011), è dovuta solamente l'Imu. Per questi
fabbricati l'Imu è dovuta in misura ridotta, in quanto la
base imponibile è pari al 50 per cento. Dunque, non possono
essere considerati esenti e, per l'effetto, «opera l'effetto
di sostituzione dell'Irpef».
In effetti, l'articolo 8 del decreto sul Federalismo
municipale (23/2011) dispone in via di principio che la
nuova imposta locale sostituisce, per la componente
immobiliare, l'imposta sul reddito delle persone fisiche e
le relative addizionali dovute per i redditi fondiari
relativi ai beni non locati. Inoltre, l'articolo 9 dello
stesso decreto stabilisce che sono comunque assoggettati
alle imposte sui redditi e alle relative addizionali, «ove
dovute», gli immobili esenti dall'Imu.
La circolare delle
Entrate richiama una precedente circolare ministeriale
3DF/2012, con la quale è stato già precisato che la
locuzione «ove dovute» «è finalizzata a ribadire che, nel
momento in cui si verifica un'esenzione ai fini Imu, devono
comunque continuare ad applicarsi le regole ordinarie
proprie che disciplinano l'Irpef e le relative addizionali».
Pertanto, sono assoggettati alle imposte sui redditi solo
gli immobili esenti dall'imposta comunale.
Per i fabbricati inagibili o inabitabili il legislatore non
aveva, nel momento in cui è stata istituita la nuova imposta
locale, previsto alcun trattamento agevolato. Solo con
l'articolo 4 del dl 16/2012, che ha integrato l'articolo 13,
è stata disposta la riduzione al 50% della base imponibile.
Della stessa riduzione possono fruire i fabbricati di
interesse storico o artistico. È previsto che lo stato
d'inagibilità debba essere accertato dall'ufficio tecnico
comunale con perizia a carico del proprietario, che è tenuto
ad allegare idonea documentazione alla dichiarazione. In
alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare una
dichiarazione sostitutiva.
Per l'Ici, ma il principio è applicabile anche all'Imu, la
giurisprudenza ha sostenuto che spetti il trattamento
agevolato anche nei casi in cui l'interessato non abbia
presentato la dichiarazione d'inagibilità, purché sia noto
all'amministrazione comunale lo stato dell'immobile. In
queste situazioni la base imponibile deve essere ridotta al
50%, a condizione che il fabbricato non venga di fatto
utilizzato. La riduzione è però limitata al periodo
dell'anno durante il quale sussiste l'inagibilità.
È
evidente che le condizioni dell'immobile vanno accertate
dall'ente impositore, sia se il contribuente alleghi idonea
documentazione alla richiesta di riduzione dell'imposta, sia
se presenti dichiarazione sostitutiva e autocertifichi
questa situazione. Per avere diritto al beneficio previsto
dalla legge, però, l'istanza deve essere inoltrata nel
momento in cui il fabbricato è inagibile, al fine di
consentire all'ente di verificare la dichiarazione del
soggetto interessato.
Infine, bisogna ricordare che in base all'articolo 59, comma
1, lettera h), del decreto legislativo 446/1997, il comune
aveva la facoltà di introdurre nel regolamento che la
riduzione dell'imposta spettasse solo quando il degrado del
fabbricato non fosse superabile con interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria. Con l'introduzione
dell'Imu questa disposizione è stata espressamente abrogata
(articolo ItaliaOggi del 13.03.2013
- tratto da www.escostampa.it). |
TRIBUTI: Tarsu alberghi come le case. Se manca l'attività di ristorazione.
Per gli alberghi che all'interno della struttura non hanno
un'attività di ristorazione non sono giustificate tariffe
Tarsu più elevate rispetto alle civili abitazioni.
Lo ha
stabilito il TAR Puglia-Lecce (Sez. II), con la
sentenza
12.03.2013 n. 570.
Il Tar ha ritenuto illegittima la
delibera del comune di Brindisi che aveva fissato tariffe Tarsu maggiorate rispetto alle abitazioni. Quindi, ha
accolto il ricorso presentato dall'associazione albergatori
della provincia di Brindisi, poiché l'amministrazione
comunale non aveva operato la dovuta distinzione tra le
varie strutture ricettive.
Secondo il giudice
amministrativo, «può considerarsi giustificato un regime di
tassazione più elevato per gli alberghi con servizio di
ristorazione, in considerazione del fatto che l'esercizio di
un'attività di questo tipo (che, di regola, non è limitata
ai soli clienti dell'albergo) può determinare una produzione
quantitativamente e qualitativamente significativa di
rifiuti». Invece, un albergo che non eroga servizi di
ristorazione «manifesta una capacità di produrre rifiuti
pari o, addirittura, inferiore a quella delle abitazioni
private».
Questa pronuncia, però, non è in linea con il
principio più volte affermato dalla Cassazione (sentenze
8278/2008, 302/2010 e ordinanza 12859/2012), secondo cui i
comuni sono legittimati a fissare tariffe più alte per le
attività alberghiere perché potenzialmente producono più
rifiuti delle abitazioni. Sulla questione emerge da tempo un
evidente contrasto tra giudici di legittimità e di merito.
Alcune commissioni tributarie hanno escluso che le
amministrazioni comunali possano stabilire tariffe più
elevate rispetto alle civili abitazioni, poiché l'articolo
68 del decreto legislativo 507/1993, con una formulazione
piuttosto infelice, prevede che «in via di massima»
dovrebbero essere inquadrate nella stessa categoria degli
alberghi.
In realtà, ex lege, l'articolazione delle categorie e
delle eventuali sottocategorie deve essere fatta, ai fini
della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo
conto dei gruppi di attività e dell'utilizzazione degli
immobili
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013). |
TRIBUTI: Tares,
sconti a carico dell'ente. Bonus
extra coperti da risorse diverse
Il comune può concedere riduzioni tariffarie e agevolazioni
«atipiche», anche se non previste dalla legge, purché non
comportino un aumento della tassazione per i contribuenti
soggetti al pagamento della Tares. Quindi, coloro che sono
soggetti al prelievo non devono pagare di più. La copertura,
infatti, deve essere assicurata da risorse diverse dai
proventi del tributo di competenza dell'esercizio. Mentre,
per i benefici fiscali concessi dalla norma di legge il
minor gettito è giustificato dalla minore produzione di
rifiuti.
Lo ha precisato il ministero dell'economia e delle finanze
nelle nuove linee guida per la redazione del piano
finanziario e l'elaborazione delle tariffe.
Secondo il ministero, le agevolazioni atipiche possono
essere iscritte nel piano economico-finanziario, purché
siano «controbilanciate da un eguale contributo a carico
del comune». Invece, per quelle contemplate
dall'articolo 14 del dl Monti (201/2011), considerata la
loro «minor attitudine a fruire del servizio pubblico», il
minor gettito, suddiviso in quote fisse e variabili, «deve
essere inserito tra i costi del Pef».
In effetti, al di là dei benefici elencati dalla norma, il
comune può deliberare ulteriori agevolazioni. A patto, però,
che il mancato gettito venga coperto da risorse diverse dai
proventi del tributo. Il consiglio comunale può deliberare
altre riduzioni ed esenzioni, che vanno iscritte in bilancio
come autorizzazioni di spesa. La relativa copertura deve
essere assicurata da risorse diverse dai proventi del
tributo di competenza dell'esercizio al quale si riferisce
l'iscrizione. Altrimenti, visto che devono essere coperti i
costi del servizio, le somme riscosse avrebbero un'incidenza
negativa sul quantum dovuto dai contribuenti soggetti
al prelievo.
L'articolo 14, poi, disciplina espressamente alcune
agevolazioni tariffarie, riconoscendo al comune la facoltà
di stabilire, con regolamento, riduzioni del tributo dovuto
in presenza di determinate situazioni, in cui si presume che
vi sia una minore capacità di produzione di rifiuti. A
questi benefici viene però fissato un tetto massimo. La
riduzione della tariffa non può superare il limite del 30%.
Il trattamento agevolato può essere concesso per: abitazioni
con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per
uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e
aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate
da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei
mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso
abitativo. Oltre a queste riduzioni tariffarie, meramente
facoltative, sono previste agevolazioni che spettano ai
contribuenti ex lege.
Per esempio, le riduzioni per locali e aree situati nelle
zone in cui non è effettuata la raccolta, per le quali il
tributo è dovuto nella misura del 40% della tariffa. Questa
misura massima deve essere graduata tenendo conto della
distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella
zona perimetrata o di fatto servita. Percentuale che scende
al 20% in caso di mancato o irregolare svolgimento del
servizio. Le agevolazioni si applicano anche alla
maggiorazione, destinata alla copertura dei servizi
indivisibili prestati dall'amministrazione comunale
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Rapporti tra l’IMU e le imposte sui redditi -
Chiarimenti (Agenzia delle Entrate,
circolare 11.03.2013 n. 5/E). |
TRIBUTI: Cosa
è il prototipo di regolamento Tares? (11.03.2013
- link a www.ambientelegale.it). |
TRIBUTI:
Onlus, esenzione Imu elastica.
Agevolazione salva per i beni concessi ad altri non profit.
I chiarimenti del ministero: c'è più
tempo per adeguare lo statuto al regolamento.
Un ente non commerciale che concede in comodato un immobile
a un altro ente non profit che svolga un'attività con
modalità non commerciali ha diritto all'esenzione Imu, anche
se non lo utilizza direttamente. Questi enti, inoltre, hanno
ancora tempo per adeguare atti costitutivi e statuti, perché
il termine del 31.12.2012 fissato dal regolamento
ministeriale non è perentorio.
Questi chiarimenti sono stati
forniti dal dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia, con le risoluzioni 3 e 4 del 04.03.2013.
La presa di posizione del ministero non è però in linea con
le pronunce sia della Corte costituzionale sia della
Cassazione, secondo cui per fruire dell'esenzione Ici (ma la
stessa regola dovrebbe valere per l'Imu) l'ente non
commerciale avrebbe dovuto non solo possedere, ma anche
utilizzare direttamente l'immobile.
Nella risoluzione
4/2013, invece, viene data una lettura a dir poco elastica
delle tesi giurisprudenziali, in quanto viene ritenuto
fruibile il beneficio fiscale anche nei casi in cui
l'immobile posseduto da un ente non commerciale venga
concesso in comodato a un altro ente, che svolga le attività
elencate dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto
legislativo 504/1992 (ricreative, culturali, didattiche,
sportive, assistenziali, sanitarie e così via).
A maggior
ragione, secondo il ministero, se l'immobile venga dato «in
comodato a un altro ente non commerciale appartenente alla
stessa struttura dell'ente concedente», purché
l'utilizzatore fornisca all'ente non profit «tutti gli
elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento
degli obblighi tributari sia di carattere formale sia
sostanziale». A proposito di adempimenti, viene poi chiarito
che la data del 31.12.2012 imposta dal regolamento
ministeriale (dm 19.11.2012 n. 200) per adeguare atti
costitutivi e statuti «non deve considerarsi perentoria».
Va ricordato che la disciplina Imu ha confermato l'esenzione
per gli immobili posseduti e utilizzati dagli enti non
commerciali, fissando però regole diverse rispetto all'Ici.
L'articolo 7, comma 1), lettera i), riconosce l'esenzione
alle attività elencate dalla norma svolte dagli enti purché
non abbiano natura esclusivamente commerciale. In effetti,
l'articolo 91-bis del dl liberalizzazioni (1/2012), in sede
di conversione in legge (27/2012), ha previsto che gli enti
ecclesiastici e non profit pagano l'Imu se sugli immobili
posseduti vengono svolte attività didattiche, ricreative,
sportive, assistenziali, culturali e via dicendo con
modalità commerciali.
Tuttavia, sono state apportate delle modifiche alla
disciplina delle agevolazioni Ici riconoscendo, in presenza
di determinate condizioni, un'esenzione parziale.
Infatti, qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione
mista, l'esenzione si applica solo sulla parte nella quale
si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia
identificabile. La parte dell'immobile dotata di autonomia
funzionale e reddituale permanente, però, deve essere
iscritta in catasto e la rendita produce effetti a partire
dal 01.01.2013.
Nel caso in cui non sia possibile accatastarla
autonomamente, l'agevolazione spetta in proporzione
all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve
risultare da apposita dichiarazione dell'ente interessato.
Non a caso il comma 3 dell'articolo 91-bis prevede
l'emanazione di un regolamento che contenga norme di
dettaglio nei casi in cui gli immobili abbiano
un'utilizzazione mista e per le quali non sia possibile
accatastare separatamente una parte dell'unità immobiliare
nella quale si svolge l'attività commerciale. Provvedimento
attuativo che è stato già adottato.
Sono invece soggetti all'Imu gli immobili posseduti dalle
fondazioni bancarie, anche se hanno la natura di enti non
commerciali. Non possono, infatti, fruire dell'esenzione dal
pagamento dell'imposta municipale, a prescindere dalle
attività esercitate. Lo ha precisato il dipartimento delle
finanze del ministero dell'economia con la risoluzione
1/2013.
Il dipartimento, oltre ad aver chiarito che gli enti non
commerciali non erano tenuti a presentare la dichiarazione
Imu entro il 04.02.2103, per il cui adempimento bisogna
attendere l'approvazione del relativo modello, in cui verrà
indicato il termine di presentazione, ha anche ricordato che
l'articolo 9, comma 6-quinquies, del dl «salva enti»
(174/2012) dispone che, in ogni caso, l'esenzione Imu per
gli enti non commerciali non si applica alle fondazioni
bancarie.
Nonostante questi enti siano persone giuridiche private
senza fini di lucro, dotate di autonomia statutaria e
gestionale, che perseguono scopi di utilità sociale e di
promozione dello sviluppo economico (articolo ItaliaOggi
Sette dell'11.03.2013). |
TRIBUTI:
Fabbricati strumentali in «D».
Immobili agricoli, aliquota Imu decisa dalla nota catastale.
IMPOSTA MOLTIPLICATA/
Senza l'annotazione in visura scattano la richiesta piena al
7,6 per mille di competenza statale e l'eventuale aumento
locale.
Il problema dell'aliquota Imu applicabile dal 2013 ai
fabbricati strumentali all'attività agricola rappresenta
l'ennesima incognita per i Comuni, alle prese con la
predisposizione dei bilanci preventivi.
La nuova scansione dell'imposta dettata dall'articolo 1,
comma 380, lettera h), della legge 228/2012 prevede infatti
che il gettito derivante dagli immobili produttivi
classificati nel gruppo D sarà riservato allo Stato, ad
aliquota standard dello 0,76%, maggiorabile dai Comuni fino
all'1,06%.
Anche i fabbricati rurali strumentali accatastati in
categoria D10 costituiscono indubbiamente immobili
produttivi, in relazione ai quali l'articolo 13, comma 8 del
Dl 201/2011 (non abrogato) continua tuttavia a prevedere,
come nello scorso anno, l'applicazione di una aliquota dello
0,2%, riducibile allo 0,1% da parte del Comune.
Non essendo stato previsto che i possessori di questi
immobili possano versare l'imposta sulla base dell'aliquota
agevolata a favore dello Stato, il gettito dei fabbricati
rurali rimarrà di competenza dell'ente locale; tanto più che
i rurali strumentali non sono necessariamente accatastati in
D10, ma possono rientrare in categoria ordinaria (C6 o C2
destinato al ricovero di mezzi o attrezzature agricole, ma
anche D1 o D7 destinati allo svolgimento di attività di
trasformazione di prodotti agricoli), dal momento che -ai
sensi del Dm Finanze del 26.07.2012 e della Circolare
2/2012 dell'agenzia del Territorio- il riconoscimento dei
requisiti di ruralità è legato non più all'attribuzione
della categoria A6 e D10, ma all'inserimento di apposita
annotazione in visura, a prescindere dalla categoria
catastale. Siccome questi immobili devono essere
assoggettati a un trattamento fiscale unitario, è evidente
che non tutti i fabbricati produttivi di categoria D
potranno essere chiamati a versare l'imposta allo Stato, in
quanto, in presenza di un fabbricato iscritto in D1, D7 o
D8, ma strumentale all'attività agricola, con annotazione
riportata in visura, il gettito rimarrà di competenza del
Comune e l'aliquota non potrà che rimanere quella ridotta.
Al contrario, rimarrà di competenza esclusiva dello Stato il
gettito di un immobile di categoria D che, pur essendo
strumentale all'attività agricola, sia privo della relativa
annotazione catastale; che viene quindi ad assumere valore
costitutivo non soltanto per la determinazione dell'aliquota
applicabile (dallo 0,1% all'1,06%, con un aumento di oltre
dieci volte) ma anche per l'individuazione del soggetto a
cui l'imposta dovrà essere versata. Il tutto tenendo ferma
la possibilità per lo Stato di variare (articolo 1, comma
380, lettera i) della legge 228/2012) non solo l'aliquota
applicabile, ma anche la stessa individuazione dei
fabbricati di categoria D che dovranno versare l'imposta
allo Stato, per garantire l'esatta compensazione tra la
nuova riserva statale e la quota erariale 2012 ora devoluta
ai Comuni.
Poiché il differenziale di gettito che lo Stato si dovrà
assicurare dall'imposta del 2013 resta ancora da definire in
modo preciso, il legislatore ha infatti previsto che tali
dati potranno essere modificati a seguito della verifica del
gettito 2012 entro il 31.03.2013.
Solo una volta accertati questi dati sarà possibile
individuare il gettito 2013 dei singoli Comuni e la quota di
imposta che ogni Ente dovrà destinare a finanziare il nuovo
Fondo di solidarietà comunale, all'interno di un quadro
normativo che evidenzia una situazione assolutamente in
divenire, in cui, allo stato attuale, appare impossibile
stabilire in modo preciso quali saranno gli esatti confini
della quota di imposta che lo Stato si riserverà nel 2013 in
relazione ai fabbricati di categoria D produttivi,
coinvolgendo in questa incertezza anche le modalità
applicative dell'imposta ai fabbricati strumentali (articolo Il Sole 24
Ore dell'11.03.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
TRIBUTI: Imu per agricoltori.
Domanda
I coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli devono
presentare la dichiarazione Imu? Sempre, cioè in qualsiasi
caso?
Risposta
Come precisato dal Ministero dell'economia e delle finanze,
Dipartimento delle finanze-Direzione legislazione tributaria
e federalismo fiscale, con la risoluzione n. 2/DF del 18.01.2013: «Se i coltivatori diretti e gli imprenditori
agricoli professionali avevano già dichiarato tale
condizione soggettiva ai fini Ici, e nell'ipotesi in cui
questa continua a persistere anche in vigenza dell'Imu,
detti soggetti non sono, ovviamente, tenuti a presentare
nuovamente la dichiarazione Imu, dal momento che il comune è
già in possesso delle informazioni necessarie per il
riconoscimento delle agevolazioni previste dalla legge, vale
a dire il moltiplicatore di cui al c. 5 dell'art. 13 del dl
n. 201/2011 e la cosiddetta franchigia di cui successivo
comma 8-bis» (articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.03.2013). |
TRIBUTI: Tares, smaltire i rifiuti costerà.
Tassa più salata per i comuni che investono in green.
Il ministero dell'economia ha pubblicato le linee
guida sull'applicazione della tariffa.
Pagheranno una Tares più salata i cittadini di quei comuni
che hanno deciso di investire somme rilevanti in beni e
servizi necessari per lo smaltimento dei rifiuti
(macchinari, impianti eccetera): tali costi, infatti,
dovranno essere caricati sulla tariffa.
Il Ministero dell'economia e della finanze indica ai comuni
il percorso da seguire per la gestione della nuova tassa sui
rifiuti e i servizi istituita a partire da quest'anno.
Sul sito ministeriale, infatti, sono state pubblicate ieri
le linee guida per la redazione del piano
economico-finanziario e la determinazione delle tariffe.
Alle amministrazioni locali spetta il compito di predisporre
il piano economico e finanziario e di determinare le tariffe
per le utenze domestiche e non domestiche. L'obiettivo
primario è quello di garantire la copertura integrale dei
costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani. Secondo
il Ministero, il metodo da seguire «è costituito da un
complesso di regole, metodologie e prescrizioni per
determinare, da un lato, i costi del servizio di gestione e,
dall'altro, l'intera struttura tariffaria applicabile alle
varie categorie di utenza». La tariffa deve essere
commisurata - almeno nella versione «tributaria», alle
quantità e qualità di rifiuti prodotti per unità di
superficie, rapportate agli usi e alla tipologia di attività
svolte. La Tares è un'entrata tributaria, ma va ricordato
che i comuni che sono in grado di misurare i rifiuti
effettivamente conferiti, possono optare per la gestione del
servizio attraverso una tariffa puntuale, avente natura
corrispettiva.
Il piano finanziario deve contenere il programma degli
interventi richiesti dalla normativa ambientale, gli
acquisti di beni o servizi e la realizzazione di impianti.
Deve inoltre essere specificato se il servizio è affidato a
terzi. Al piano va allegata una relazione sul modello
gestionale e organizzativo prescelto e sulla qualità dei
servizi. Nella elaborazione del piano una importanza
particolare rivestono i profili economico-finanziari.
Annualmente occorre porre in rilievo i flussi di spesa e i
fabbisogni occorrenti a fronteggiarli, indicando anche gli
aspetti patrimoniali ed economici della gestione. In
effetti, è dal piano che bisogna partire per determinare le
tariffe e per adeguarle di anno in anno. Del resto, come
recita l'articolo 14, comma 23, del dl 201/2011, è il
consiglio comunale che deve approvare le tariffe Tares entro
il termine fissato da norme statali per l'approvazione del
bilancio di previsione, «in conformità al piano finanziario»
del servizio di gestione dei rifiuti urbani. Competente alla
redazione del piano è il soggetto che svolge il servizio.
La tariffa Tares deve essere composta da una quota
determinata in relazione ai costi del servizio di gestione
dei rifiuti (investimenti per le opere e relativi
ammortamenti), e da una quota rapportata alle quantità di
rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei
costi di gestione, compresi quelli di smaltimento. Sotto
quest'aspetto la norma del dl Monti (articolo 14 del dl
201/2011), che ha istituito il nuovo regime di prelievo, si
uniforma alla previsioni che il legislatore aveva già
stabilito per la Tia1 e la Tia2. Le stesse regole valgono
anche per i rifiuti assimilati agli urbani. I comuni possono
applicare un coefficiente di riduzione proporzionale alle
quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di
aver avviato al recupero.
Nelle linee guida viene illustrato il percorso che gli enti
devono osservare per determinare la tariffa. In particolare,
la metodologia tariffaria si articola nelle seguenti fasi:
individuazione e classificazione dei costi del servizio;
suddivisione dei costi tra fissi e variabili; ripartizione
dei costi fissi e variabili in quote imputabili alle utenze
domestiche e alle utenze non domestiche; calcolo delle voci
tariffarie, fisse e variabili, da attribuire alle singole
categorie di utenza. L'articolo 14 impone l'integrale
copertura dei costi del servizio. Quindi, sia quelli di
investimento che di esercizio. Tuttavia, le voci di costo (spazzamento,
raccolta, trasporto e via dicendo) sono solo quelle elencate
dal regolamento sul metodo normalizzato (dpr 158/1999).
Regolamento che si applicherà a regime, in quanto la legge
di Stabilità (228/2012) ha abrogato la norma che prevedeva
l'emanazione di un nuovo provvedimento attuativo
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2013 - link a www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Tariffe
della Tares determinate dal Consiglio.
LA PREVISIONE/
L'aggiornamento alle linee guida delle Finanze affrontano il
tema della competenza.
Le tariffe della Tares dovranno essere approvate dal
consiglio comunale, con una doppia deroga: al Testo unico
degli enti locali (articolo 42, comma 2, lettera f, del
decreto legislativo 267/2000), che assegna le delibere
tariffarie alla competenza generale della Giunta, e al
decreto Sviluppo-bis (articolo 34, comma 23, del Dl 179/2012)
che invece ha trasferito la competenza tariffaria sui
servizi a rete agli ambiti territoriali ottimali (Ato).
La normativa Tares scritta nel decreto salva-Italia
(articolo 14, comma 23, del Dl 201/2011) costituisce infatti
una disciplina speciale, che vince quindi sulle regole
generali previste dalle norme appena citate.
La spiegazione è del dipartimento Finanze, che diffondendo
ieri una versione aggiornata e rivista delle Linee guida e
del modello di regolamento per la Tares ha risolto in questo
modo una possibile empasse sulle competenze a deliberare le
tariffe.
Il problema nasce in particolare dal decreto Sviluppo-bis,
che nel tentativo di rilanciare il ruolo degli ambiti
ottimali previsti dalla manovra-bis del 2011 (articolo 3-bis
del Dl 138/2011) ma mai decollati in molte Regioni, aveva
trasferito a loro «le funzioni di organizzazione dei servizi
pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi
quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di scelta
della forma di gestione, di determinazione delle tariffe
all'utenza per quanto di competenza». Gli ambiti
territoriali ottimali, però, in molte parti d'Italia non ci
sono ancora, o sono solo ai nastri di partenza, e ciò
avrebbe contribuito a elevare il già consistente tasso di
confusione che regna intorno al nuovo tributo sui rifiuti
nato in sostituzione di Tia e Tarsu.
In una prima versione delle Linee guida (si veda Il Sole 24
Ore del 18 febbraio) le indicazioni ministeriali sembravano
aver ignorato il problema, che nelle nuove istruzioni
diffuse ieri trova invece una spiegazione tecnica. La
competenza è del consiglio comunale in base alla gerarchia
delle norme, secondo il principio che la disciplina
"speciale", tagliata su misura, vince sempre su quelle
generali.
Il chiarimento è importante, anche se da solo ovviamente non
basta a dissipare la nebbia che ancora avvolge le
amministrazioni locali alle prese con il debutto del nuovo
tributo. A parte i problemi di liquidità prodotti dal rinvio
"elettorale" della prima rata a luglio, che impone alle
aziende di lavorare "gratis" per oltre metà dell'anno, la
stessa definizione delle tariffe è un compito non semplice.
Ogni Comune è infatti inserito in un ambito, e solo i piani
d'ambito redatti dai gestori e approvati dagli Ato (o dai
consigli dove l'Ato non c'è) possono offrire la base per
determinare una tariffa che copra integralmente i costi.
Anche per questa ragione, si ritiene che i Comuni possano
deliberare i bilanci preventivi anche senza le tariffe Tares,
rimandando a un secondo momento (entro il termine generale
del 30 giugno) le scelte su questo versante
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2013). |
TRIBUTI: Imu non profit, enti in rivolta.
Fa discutere l'esenzione per i beni dati in comodato.
Gli uffici tributi dei comuni contestano la tesi
sostenuta dalle Finanze nella circolare n. 4.
La
risoluzione ministeriale 04.03.2013 n. 4/DF, sostiene
che nella particolare ipotesi in cui l'immobile posseduto da
un ente non commerciale venga concesso in comodato a un
altro ente non commerciale per lo svolgimento di una delle
attività meritevoli di cui al c. 1, lett. i), dell'art. 7 del dlgs n. 504/1992, possa trovare applicazione l'agevolazione in
oggetto, sì da esentare dall'Imu come dall'Ici il possessore
sebbene non utilizzatore del detto immobile.
Secondo il Mef poiché a seguito del comodato d'uso gratuito,
l'ente concedente non ritrae alcun reddito non si realizza
una manifestazione di ricchezza e di capacità economica, che
avrebbe al contrario giustificato un apporto contributivo
alla spesa pubblica e quindi l'imposizione. Tale ottica di
valutazione pare trascurare che l'art. 7 lett. i) del dlgs
n. 504/1992, trova la sua ratio non già nell'evitare la
tassazione di una ricchezza non realizzata ovvero una
capacità contributiva inespressa, bensì è una disposizione
di indubbio contenuto e funzione premiale per specifiche
attività di particolare rilevanza sociale svolte dagli enti
non commerciali in quegli specifici immobili. È quindi una
norma di incentivazione ma rimane pur sempre un'agevolazione
tributaria e come tale di natura eccezionale e quindi di
stretta interpretazione (S.U. n. 28160/2008).
Come è noto,
il diritto vivente, in interpretazione costituzionalmente
orientata anche in considerazione delle ordinanze della
Corte cost. n. 429/2006 e n. 19/2007, impropriamente
richiamate dalla stessa risoluzione n. 4/Df, ha elaborato la
condizione soggettiva dell'utilizzazione diretta degli
immobili da parte dell'ente possessore, escludendo che il
beneficio possa spettare in caso di utilizzazione indiretta,
pur se assistita da finalità di pubblico interesse (cass.
ord. n. 3843/2013, cass. sent. n. 7385/2012).
La necessaria
coincidenza tra ente rientrante nella categoria dell'art. 73
c. 1 del Tuir nella sua veste di proprietario (o titolare di
altro diritto reale sul bene e come tale soggetto passivo
Ici/Imu) ed ente che utilizza l'immobile stesso è requisito
pacifico e non più disputabile (cass. sent. n. 2821/2012 e
n. 4502/2012). Sulla scorta della interpretazione
consolidata del giudice di legittimità non appare per nulla
convincente l'argomentare del Mef che con eccessiva
disinvoltura sterilizza la conditio sine qua non della
necessaria coincidenza soggettiva tra utilizzatore
dell'immobile e soggetto passivo Ici/Imu. Né pare
condivisibile la omologazione soggettiva tra concedente a
titolo gratuito ed effettivo utilizzatore svolgente attività
meritoria, atteso che il trasferimento della detenzione non
può certo ritenersi per il concedente come una forma di
esercizio diretto dell'attività meritoria istituzionale,
anzi la concessione si manifesta in via oggettiva come una
forma di non utilizzo.
Tra l'altro, la Corte di cassazione
ha già da tempo affrontato la questione della concessione in
uso gratuito escludendo categoricamente la esenzione per i
beni immobili non direttamente utilizzati per lo scopo
istituzionale e ciò indipendentemente dalla natura gratuita
o onerosa con la quale ne risultasse ceduto ad altri
l'utilizzo (cass. nn. 21329-21330/2008, cass. nn.
22201-22202-22203). Conclusivamente, la risoluzione
ministeriale non offre alcun nuovo elemento di
interpretazione di spessore tale da poter prevedere
un'inversione di rotta della Cassazione quanto meno nelle
ipotesi di concessione gratuita a diverso ente.
Merita, invece, approfondimento la fattispecie della
concessione ad altro ente commerciale appartenente alla
stessa struttura dell'ente concedente per lo svolgimento di
attività meritoria. Anche in questo caso la gratuità della
concessione non rileva ma ciò che deve essere verificato è
l'immedesimazione tra concedente e utilizzatore. Se la
struttura organizzativa di detti enti, seppur giuridicamente
distinti è la medesima ben può ritenersi sussistente la
utilizzazione diretta del concedente. Come già indicato
dalla Cassazione (n. 2821/2012) al fine di ravvisare
l'utilizzazione diretta necessita dare rilevanza diretta e
specifica al fatto concreto e alle reali connotazioni
economiche, piuttosto che al limite della distinta alla
forma giuridica.
Quindi nell'ipotesi in cui si verifichi in
fatto e in diritto che l'ente utilizzatore sia una
articolazione organizzativa dell'ente concedente, tale
peculiarità del rapporto di legame, sostiene la
raffigurazione della utilizzazione diretta seppure per via
di altro soggetto, dell'ente concedente e quindi, il diritto
di godere della esenzione ex art. 7, lett. i), del dlgs n.
504/1992. Solo per quest'ultima ristretta fattispecie, la
risoluzione n. 4 Df si manifesta in linea con
l'interpretazione consolidata e pacifica dell'ambito
applicativo della esenzione per gli enti non profit, mentre
l'allargamento del documento di prassi ai soggetti non
legati appare clamorosamente disallineato rispetto al
diritto vivente e non convincente oltre che non nuovo nelle
argomentazioni spese
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2013). |
TRIBUTI: Risoluzione
ministeriale amplia la portata dell'agevolazione per il non
profit. Esenzione Imu a maglie larghe.
Vale anche se il bene è dato in comodato ad altro ente.
L'esenzione dall'imposta municipale propria (Imu) opera
anche se l'immobile posseduto da un ente non commerciale è
concesso in comodato a un altro ente non commerciale per lo
svolgimento di una delle attività meritevoli stabilite dalla
legge. Si allargano, quindi, le maglie dell'esenzione Imu.
È questo l'innovativo principio stabilito dalla
risoluzione 04.03.2013 n. 4/DF del dipartimento Finanze del Mef, che
offre una rilettura della giurisprudenza che si era
consolidata in materia di Ici sulle norme di esenzione
inserite nell'art. 7, comma 1, lettera i), del dlgs 30
dicembre 1992, n. 504, che viene espressamente richiamato ai
fini Imu dall'art. 9, comma 8, del dlgs 14.03.2011, n.
23.
Questa norma, che è stata «ritoccata» dall'art. 91-bis del
dl 24.01.2012, n. 1, prevede l'esenzione dall'Imu per
gli immobili «utilizzati» dagli enti non commerciali
«destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non
commerciali di attività assistenziali, previdenziali,
sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e
sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16,
lettera a), della legge 20.05.1985, n. 222».
Sia la Corte costituzionale che la Cassazione hanno sempre
sostenuto che l'esenzione può essere riconosciuta solo se
l'immobile è «posseduto» dall'ente non commerciale ed
«utilizzato» direttamente dallo stesso.
Più volte la Corte di cassazione ha affermato a chiare
lettere che l'art. 7, comma 1, lettera i), del dlgs n. 504
del 1992 esige la duplice condizione dell'utilizzazione
diretta degli immobili da parte dell'ente possessore e
dell'esclusività della loro destinazione ad attività
peculiari che non siano produttive di reddito. Logica
conclusione è stata che l'esenzione non poteva essere
riconosciuta nel caso di utilizzazione indiretta, ancorché
assistita da finalità di pubblico interesse.
È stata proprio la Corte costituzionale con le ordinanze n.
429 del 19.12.2006 n. 19 del 26.01.2007 a
ribadire tale concetto, pur pronunciandosi sull'art. 59,
comma 1, lett. c), del dlgs 15.12.1997, n. 446, che
non trova applicazione per l'Imu, giacché non è più
espressamente richiamato dall'art. 14, comma 6, del dlgs n.
23 del 2011.
Bisogna tuttavia tener conto del fatto che la fattispecie
oggetto di contenzioso costituzionale era ben diversa,
poiché si riferiva ad un immobile che il soggetto passivo
dava in locazione (e non in comodato) a un ente non
commerciale che vi esercitava una delle attività agevolate.
Detto soggetto, quindi, ritraeva un reddito dall'immobile, e
questa circostanza, di fatto sintomatica di capacità
contributiva, non è stata ritenuta idonea a giustificare
l'attribuzione del beneficio fiscale.
Da tale assunto i tecnici del ministero arrivano ad
affermare che nell'ipotesi in cui l'ente non commerciale
concede l'immobile in comodato -che è essenzialmente
gratuito- ad altro ente non commerciale, non ritraendo da
tale concessione alcun reddito, può beneficiare
dell'esenzione dall'Imu.
L'ente non commerciale concedente, in sostanza, si
troverebbe nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato
se avesse utilizzato direttamente l'immobile per lo
svolgimento di una delle attività meritevoli, beneficiando,
quindi, dell'esenzione.
Come si legge nella risoluzione ministeriale «questa
considerazione appare coerente con i principi ricavabili
dalle citate pronunce sia della Corte costituzionale sia
della Corte di cassazione proprio perché la concessione in
comodato, che è un contratto essenzialmente gratuito, non
costituisce, chiaramente, una manifestazione di ricchezza e
di capacità economica che avrebbe, al contrario,
giustificato un concreto apporto contributivo alla spesa
pubblica e, quindi, l'imposizione ai fini Imu».
L'esenzione dall'Imu deve essere riconosciuta anche
nell'ipotesi in cui l'immobile è concesso in comodato a un
altro ente non commerciale appartenente alla stessa
struttura dell'ente concedente, per lo svolgimento di una
delle attività agevolate.
Con la nuova interpretazione che esplora un campo mai
affrontato dalla giurisprudenza di legittimità si allargano
sicuramente le maglie dell'esenzione Imu, anche se il campo
di azione deve esser tuttavia limitato al solo svolgimento
di attività meritevoli individuate dalla norma agevolativa.
Resta fermo, però, che l'ente non commerciale che utilizza
l'immobile è escluso dal campo di applicazione dell'Imu
poiché non è il soggetto passivo del tributo. Come
adempimento a suo carico nella risoluzione viene individuato
quello di fornire all'ente non commerciale che gli ha
concesso l'immobile in comodato tutti gli elementi necessari
per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi
tributari
(articolo ItaliaOggi del
05.03.2013). |
TRIBUTI:
Oggetto: Imposta municipale propria (IMU) di cui all'art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Esenzione per
gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali. Art. 7,
comma 1, lett. i), del D.Lgs. 30.12.1992, n. 504. Immobili
concessi in comodato
Ministero dell'Economia e delle Finanze,
risoluzione 04.03.2013 n. 4/DF). |
TRIBUTI:
Oggetto: Imposta municipale propria (IMU) di cui all'art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Esenzione per
gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali. Art. 7,
comma 1, lett. i), del D.Lgs. 30.12.1992, n. 504. Art. 7 del
Regolamento 19.11.2012, n. 200. Adeguamento dello statuto e
dell'atto costitutivo
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
risoluzione 04.03.2013 n. 3/DF). |
TRIBUTI:
Tares.
Domanda
Gradirei avere qualche notizia sulla Tares.
Risposta
La Tares è la nuova tassa sui rifiuti che è in vigore dal
primo gennaio 2013. È un tributo, previsto, da più di un
anno, dal decreto Salva-Italia, e viene a sostituire la
Tassa smaltimento rifiuti solidi urbani (Tarsu) o, per i
comuni in cui essa è applicata, la Tassa di igiene
ambientale (Tia). Sua peculiare caratteristica, oltre quelle
proprie della Tarsu o della Tia, è quella di finanziare
anche i cosiddetti Servizi indivisibili, forniti dagli enti
locali, cioè i servizi comunali di cui beneficia l'intera
collettività. Per detti servizi, infatti, non è possibile
effettuare una suddivisione in base all'effettiva
percentuale di utilizzo da parte di ogni singolo cittadino.
Detti servizi vanno individuati, a titolo di esempio, nella
manutenzione delle strade, nell'illuminazione pubblica ecc.
Pertanto, la Tares, oltre che coprire i costi per la Tarsu o
la Tia, deve garantire la totale copertura dell'onere
sostenuto per gli annessi servizi indivisibili; deve pure
assicurare un introito aggiuntivo di trenta centesimi o di
quaranta centesimi (se la percentuale viene innalzata dal
comune) al metro quadrato per finanziare i suddetti, annessi
servizi indivisibili.
I soggetti tenuti al pagamento della Tares sono tutti coloro che, a qualsiasi titolo, utilizzano
un bene immobile, e, quindi, non soltanto i proprietari di
case. I termini di versamento erano, all'origine, gennaio,
aprile, giugno, dicembre 2013. Il termine di gennaio è stato
spostato, con un recente provvedimento del governo, a luglio
prossimo.
La Tares ha costi maggiori per il cittadino, rispetto alla
precedente tassazione in materia. Vi è un aumento, come su
detto, di trenta o quaranta centesimi per metro quadrato,
che si traduce in maggiori oneri sia per le famiglie, sia
per le imprese. Si spera che i comuni adottino, in materia,
regolamenti «virtuosi», che tengano conte delle
specifiche esigenze della famiglia e degli operatori
economici (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.03.2013). |
TRIBUTI:
Cosiddetti camion-vela.
Domanda
I cosiddetti camion-vela sono soggetti all'imposta sulla
pubblicità agevolata o a titolo normale?
Risposta
Dal quadro normativo di riferimento contenuto nel decreto
legislativo numero 507, del 15.11.1993, si desume che,
in materia di imposta sulla pubblicità, ricade nella
previsione degli articoli 5, 6 e 12, comma 1, del decreto
legislativo numero 507, del 15.11.1993, citato, che
disciplina la pubblicità ordinaria, l'esercizio
dell'attività pubblicitaria visiva effettuata con mezzi e
strumentazione installati su veicoli costruiti o
strutturalmente trasformati per l'esclusivo e/o prevalente
esercizio di tale attività pubblicitaria.
Pertanto, la
disposizione del successivo articolo 13 del predetto decreto
legislativo numero 507, viene disciplinare il diverso caso
in cui l'attività pubblicitaria venga espletata, installando
i mezzi pubblicitari, per periodi di tempo anche limitati,
su veicoli di uso pubblico o privato, i quali continuano a
mantenere le caratteristiche strutturali e la destinazione
d'uso propria.
Nel caso dei cosiddetti camion-vela, la
particolare peculiarità del mezzo, all'uopo realizzato o
trasformato e concretamente utilizzato per l'esclusivo
esercizio dell'attività pubblicitaria, porta ad affermare
che, nella fattispecie, si verte in tema di pubblicità
ordinaria. Quindi, come affermato dalla Corte di cassazione,
sezione tributaria, con la sentenza del 13.04.2012,
numero 5858, «spetta al contribuente, che intenda sostenere
l'utilizzazione esclusiva e/o prevalente del veicolo per uso
pubblico o privato, fornire la prova di tali circostanze».
Una diversa interpretazione porterebbe a sostenere un
accorgimento (trasformazione del mezzo in camion-vela)
sostanzialmente elusivo (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.03.2013). |
TRIBUTI: Veicoli in genere.
Domanda
Per una pubblicità dall'interno della mia autovettura sono
tenuto al pagamento dell'imposta comunale sulla pubblicità?
Risposta
In tema di imposta comunale sulla pubblicità e sulle
pubbliche affissioni (Ip) è principio consolidato e
condiviso dalla dottrina e dalla giurisprudenza (Corte di
cassazione sentenze numero 15654 del 12.08.2004; numero
17852 del 03.09.2004) secondo il quale qualsiasi mezzo
di comunicazione con il pubblico che risulti,
indipendentemente dalla ragione e finalità della sua
adozione, obiettivamente idoneo a far conoscere
indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili
acquirenti e utenti il nome e il prodotto di un'azienda, è
soggetto a imposta sulla pubblicità ai sensi degli articoli
5 e 6 del decreto legislativo numero 507, del 15.11.1993, restando irrilevante che detto mezzo di comunicazione
assolva pure a una funzione reclamistica o propagandistica.
Ora, in tema di pubblicità visiva effettuata per conto
proprio o altrui all'interno e all'esterno di veicoli in
genere, di vetture autofilotranviarie, battelli, barche e
simili, di uso pubblico o privato trova applicazione il
disposto dell'articolo 13 del predetto decreto legislativo
numero 507, del 15.11.1993, che costituisce una
previsione eccezionale rispetto alla generale previsione
dell'articolo 12 del medesimo decreto legislativo.
Ne consegue che, alla luce della normativa vigente, la
pubblicità sui predetti mezzi di trasporto è soggetta al
pagamento della relativa imposta comunale sulla pubblicità e
sulle pubbliche affissioni, con costi inferiori anche
connessi alle differenze di imposta in base alle classi di
appartenenza fra diversi comuni.
Al riguardo si rimanda pure alla sentenza della Corte di
cassazione, sezione tributaria, del 13.04.2012, numero 5858 (articolo ItaliaOggi Sette del
04.03.2013). |
TRIBUTI:
Il marchio di fabbrica paga l'imposta sulla pubblicità.
Il marchio di fabbrica in cima alle gru fa scattare
l'imposta di pubblicità. Non è, invece, soggetto al prelievo
il pannello recante la scritta Postamat situato sugli
sportelli automatici del circuito postale.
È quanto ha
affermato la 3° sezione della Ctp Reggio Emilia con le
sentenze 03.03.2013 nn. 122 e 141.
Le gru. Nel primo caso una società contestava l'imposta di
pubblicità applicata dalla locale concessionaria incaricata
dal comune. Per il ricorrente, attivo nella
commercializzazione di gru, mancavano i presupposti
soggettivi per l'applicazione del tributo. I segnali
distintivi del produttore, infatti, vengono apposti sugli
impianti senza conoscere le località nelle quali saranno poi
installati, né potendo sapere in anticipo se sarà poi
apposta altra pubblicità dei terzi utilizzatori.
La tesi
però, non ha convinto i giudici reggiani. Secondo la Ctp «si
rilevano segni grafici di notevoli dimensioni», che sì
rappresentano il logo distintivo dell'impresa costruttrice
delle stesse attrezzature, «ma anche, senza dubbio, un
chiaro e autonomo messaggio pubblicitario verso il pubblico,
idoneo a rendere nota alla massa indeterminata di eventuali
possibili acquirenti il nome e il prodotto dell'azienda». Da
qui il rigetto del ricorso.
Postamat. La seconda vicenda vedeva, invece, protagoniste le
Poste italiane. La concessionaria per la riscossione
dell'imposta pubblicitaria aveva notificato la pretesa di
132 euro in relazione al pannello recante la scritta Postamat installato su uno sportello presente nel territorio
comunale. Per dirimere la questione i giudici hanno
richiamato l'art. 17, comma 1, lett. b), del dlgs 507/1993,
che esenta dal prelievo gli avvisi al pubblico con superfici
inferiori a mezzo metro quadrato.
«Al di là del presupposto oggettivo», ha sottolineato
il collegio, «gli strumenti in esame non possono essere
certamente classificati come portatori di messaggi
pubblicitari, ma devono più correttamente essere
classificati come strumento di informazione per facilitare
la fruizione di un determinato servizio». Ricorso
accolto e accertamento annullato
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2013). |
TRIBUTI: Denunce Tares senza doppioni.
Vale la dichiarazione Tarsu-Tia.
I contribuenti non sono tenuti a presentare la dichiarazione
Tares se hanno già denunciato l'occupazione degli immobili
per Tarsu e Tia. Il silenzio equivale a conferma dei dati
comunicati. La dichiarazione deve essere presentata
direttamente agli uffici comunali oppure a mezzo del
servizio postale o in via telematica. In quest'ultimo caso
può essere trasmessa dal comune già compilata. L'interessato
deve solo sottoscriverla. È però provvisoriamente valida
anche la dichiarazione non sottoscritta.
Sono queste le
previsioni ministeriali contenute nel
prototipo del
regolamento Tares. Dunque, il ministero dell'economia e
della finanze conferma la tesi che l'obbligo di presentare
la dichiarazione non deve essere assolto se l'immobile è
stato già denunciato per la Tarsu o la Tia, a meno che non
intervengano variazioni.
È demandato ai comuni il compito di
fissare un termine per la denuncia delle occupazioni
effettuate a partire dal 2013 e di approvare il nuovo
modello. La dichiarazione va sottoscritta dal soggetto che
occupa l'immobile. Se non sottoscritta è però
provvisoriamente valida, ma non sono sospese le richieste di
pagamento. Deve essere presentata direttamente agli uffici
comunali oppure può essere spedita per posta tramite
raccomandata con avviso di ricevimento o inviata in via
telematica con posta certificata. Qualora sia attivato un
sistema di presentazione telematica il comune provvede «a
far pervenire al contribuente il modello di dichiarazione
compilato, da restituire sottoscritto».
Naturalmente, questo
presuppone che gli uffici comunali siano già in possesso dei
dati del contribuente, comunicati nel momento in cui fanno
richieste di residenza, rilascio di licenze, autorizzazioni
o concessioni. Del resto, già in presenza di queste istanze
i comuni devono invitare i contribuenti a presentare la
dichiarazione nel termine previsto. Nello schema di
regolamento Tares viene specificato quale deve essere il
contenuto della dichiarazione. Viene infatti posto in
rilievo che la disciplina di legge non è esaustiva.
Tuttavia, secondo il ministero, «è agevolmente desumibile
dalla funzione dell'atto, diretto a comunicare al comune gli
eventi rilevanti per l'applicazione del tributo al caso
concreto». In particolare vanno dichiarati: le
generalità del contribuente, i dati dell'utenza (ubicazione,
superficie, utilizzo), la data di inizio dell'occupazione,
la composizione del nucleo familiare, ma solo per le utenze
domestiche dei non residenti, nonché eventuali cause che
danno diritto ad agevolazioni fiscali, riduzioni tariffarie
o esclusioni.
Nelle dichiarazioni degli immobili a destinazione ordinaria
(classificati nelle categorie catastali A, B e C), inoltre,
devono essere indicati obbligatoriamente: dati catastali,
numero civico di ubicazione degli immobili e numero interno,
se esistente. Lo prevede l'articolo 1, comma 387, della
legge di stabilità (228/2012) che ha apportato delle
modifiche al nuovo regime di prelievo sui rifiuti. In
seguito a queste modifiche, anche per l'anno in corso la
tassa va calcolata sulla superficie calpestabile e non più
su quella catastale.
Questo parametro, quindi, deve essere preso a base per tutti
gli immobili a prescindere dalla loro destinazione,
ordinaria o speciale. Si passerà alla commisurazione del
tributo sulla superficie catastale solo quando verranno
allineati i dati degli immobili a destinazione ordinaria e
quelli riguardanti la toponomastica e la numerazione civica,
interna e esterna, di ciascun comune
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Tassati i ruderi recuperabili.
La potenzialità edificatoria rende l'area soggetta a Imu.
La Cassazione sull'edificabilità di
terreni con fabbricati rurali destinati alla demolizione.
Sono edificabili, e di conseguenza tassabili, i terreni sui
quali insistono fabbricati rurali destinati alla
demolizione, in relazione ai quali è consentito il recupero
a uso civile.
È quanto stabilito nella sentenza 01.03.2013 n. 5166 resa
dalla V Sez. della Corte di Cassazione.
La fattispecie. Il processo scaturisce da un ricorso
proposto dal ricorrente avverso la sentenza resa da una
Commissione tributaria regionale che, in accoglimento della
tesi dell'amministrazione finanziaria, aveva qualificato
come edificabile un terreno pervenuto in successione e
successivamente ceduto. Tale terreno costituiva un corpo
unico sul quale a suo tempo erano stati eretti fabbricati
rurali destinati però a essere demoliti per poi erigere
nuovi fabbricati, ma a uso di civile abitazione.
Peraltro, solo su una parte del terreno potevano essere
costruiti i nuovi fabbricati; il che ha indotto il
contribuente a prospettare due distinti e graduati motivi di
ricorso, il primo attinente alla tassabilità della
fattispecie, il secondo volto a eventualmente ridimensionare
la quota di plusvalenza tassabile in proporzione alla
quota-parte di terreno sul quale, appunto, venivano eretti i
detti fabbricati civili.
La sentenza. La sentenza, confermando la pronuncia di
secondo grado, ritiene che il terreno oggetto di
compravendita sia da qualificare come edificabile, da qui la
ritenuta tassabilità dello stesso. Ma precisa che nemmeno la
domanda subordinata può essere accolta, in quanto il
giudice, avendo qualificato la complessiva operazione come
«unitaria», ha individuato un criterio che, a monte, non
consente di frazionare la vendita in due operazioni autonome
(cessione di terreno agricolo; cessione di terreno
edificabile).
La Corte in motivazione fa riferimento a precedenti pronunce
che, seppur relative al medesimo tema, affrontavano la
questione con un diverso angolo visuale. Vediamo perché.
Si legge nella sentenza che ai fini della determinazione
della base imponibile, evidentemente agli effetti delle
imposte dirette, e dunque, per quanto qui interessa, con
riguardo all'art. 67 Tuir, che disciplina i redditi diversi,
la nozione di area edificabile racchiude le due sub-specie
di:
- Area edificabile di diritto.
- Area edificabile di fatto.
La prima è evidentemente quella così qualificata in un piano
urbanistico, mentre la seconda è quella edificabile nel
senso che, pur non essendo urbanisticamente qualificata come
edificabile, lo è di fatto in quanto potenzialmente tale
anche al di fuori di una previsione programmatica. Sul punto
la sentenza parla espressamente di edificabilità non
programmata, o fatturale, o potenziale.
Ma in concreto? La sentenza individua alcuni elementi che
sono sintomatici di tale edificabilità «fattuale»:
- vicinanza al centro abitato;
- sviluppo edilizio raggiunto dalle zone adiacenti;
- esistenza di servizi pubblici essenziali;
- presenza di opere di urbanizzazione primaria;
- collegamento con i centri urbani già organizzati;
- in via residuale, esistenza di «qualsiasi altro elemento,
obiettivo di incidenza sulla destinazione urbanistica».
La sentenza poi prosegue richiamando la nozione di
edificabilità racchiusa nella disciplina dell'Ici e
dell'indennità di espropriazione: anche tali provvedimenti
richiamano una nozione di edificabilità di fatto: elemento
che finisce per divenire situazione giuridica oggettiva
nella quale può venirsi a trovare un bene immobile e che
influisce sul suo valore (articolo ItaliaOggi Sette del
13.05.2013). |
TRIBUTI:
Il perimetro normativo dell'area edificabile.
La sentenza 01.03.2013 n. 5166 della Corte di Cassazione riporta in auge il
concetto di edificabilità «di fatto».
Il concetto era già
stato definito, tra l'altro, dalla sentenza 9131/2006 della
Suprema corte, secondo la quale si ha edificabilità «di
fatto» quando il terreno –pur non essendo urbanisticamente
pianificato– può avere una vocazione edificatoria, che «si
identifica attraverso una serie di fatti indici quali, tra
l'altro, la vicinanza al centro abitato, lo sviluppo
edilizio assunto dalle zone adiacenti, l'esistenza di
servizi pubblici essenziali, la presenza di opere di
urbanizzazione primaria, il collegamento con centri urbani
già organizzati».
La sentenza 5166/2013 ora aggiunge come
altro indice «l'esistenza di qualsiasi altro elemento
obbiettivo di incidenza sulla destinazione urbanistica,
quale, ad esempio» in un'area agricola, l'ottenimento di
«una concessione edilizia per il recupero di fabbricati
civili con opera di demolizione nuova costruzione». In
precedenza, alle stesse conclusioni era giunta la sentenza
7950/2003 e la pronuncia a Sezioni unite 172 del 23.04.2001.
Sul piano legislativo, l'articolo 37, comma 3, del Dpr
327/2001 (il Testo unico dell'espropriazione per pubblica
utilità) aveva stabilito che ai fini della determinazione
dell'indennità di esproprio «si considerano le possibilità
legali ed effettive di edificazione». Mentre l'articolo 2
del Dlgs 504/1992 (la legge istitutiva dell'Ici) aveva
definito l'area edificabile come quella «utilizzabile a
scopo edificatorio...in base alle possibilità effettive di
edificazione determinate secondo i criteri previsti agli
effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica
utilità».
Per dirimere i contrasti interpretativi
verificatisi a ogni livello, l'articolo 36, comma 2, del Dl
223/2006 ha definitivamente sancito che «un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo
edificatorio in base allo strumento urbanistico generale
adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione
della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo».
Insomma, poiché è stato finalmente definito cosa
si intende per «area edificabile», ogni rilevanza
dell'edificabilità «di fatto» dovrebbe essere sopita.
Almeno due dati contrastano, però, con questa conclusione:
non solo la sentenza 5166/2013 della Cassazione, ma anche il
fatto che la normativa introduttiva dell'Imu «propria» e
dell'Imu «sperimentale» (l'articolo 13, commi 1 e 2, del Dl
201/2011) ha fatto testuale rimando, tra l'altro,
all'articolo 2 del Dlgs 504/1992 in tema di Ici (e quindi
anche al concetto di edificabilità «di fatto»), per definire
il perimetro degli immobili cui appunto va applicata l'Imu.
Nonostante questo, si può fondatamente ritenere che, al di
là del campo dell'indennità di espropriazione (dove non può
non aver rilievo lo specifico stato di un dato immobile), e
quindi nel campo tributario, dell'edificabilità «di fatto»
ci si possa dimenticare, al cospetto della definizione di
edificabilità sopravvenuta con il Dl 223/2006: quanto
all'Ici/Imu, la norma del 2006 senz'altro abroga quella
precedente; mentre la sentenza della Cassazione interviene
nel 2013 ma con riferimento a una fattispecie di plusvalenza
maturata nel 1999 e giudicata in primo grado nel 2005.
Anche perché, se il concetto di edificabilità «di fatto»
fosse vigente, su questo spinoso tema regnerebbe
l'incertezza invece della chiarezza portata dal legislatore
del 2006: non si saprebbe se la vendita di queste aree sia
soggetta a Iva o a imposta di registro, se la vendita generi
plusvalenza tassabile in capo al venditore, e se –in sede
di donazione e si successione– si possano utilizzare o meno
i coefficienti di valutazione catastale
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.04.2013). |
febbraio 2013 |
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APPALTI SERVIZI
- TRIBUTI: Pubblicità stradale con gara.
È obbligatoria per affidare spazi in concessione.
L'adunanza plenaria del Consiglio di stato:
necessario garantire la concorrenza.
È obbligatoria la gara per l'affidamento in concessione di
spazi pubblicitari stradali; si tratta di gare con offerte
in aumento («al rialzo») motivate dal fatto che gli spazi
pubblicitari sono contingentati in ogni comune e che occorre
garantire la libera concorrenza.
È il Consiglio di Stato,
adunanza plenaria
sentenza 25.02.2013 n. 5, a chiarire
definitivamente la questione posta dal Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione Sicilia con
ordinanza n. 653 del 2012.
La materia è trattata in più
sedi: nella normativa sulla viabilità, che sottopone gli
impianti, per la sicurezza del traffico veicolare, ad
autorizzazione comunale se collocati nei centri abitati
(art. 23, comma 4, del codice della strada dlgs n. 285 del
1992), in quella sulla tutela dei beni culturali e
paesaggistici [articoli 49 e 153 del codice dei beni
culturali e del paesaggio (dlgs n. 42 del 2004)], se gli
impianti incidano su tali profili, e nella normativa
tributaria, posta in particolare dal dlgs n. 507 del 1993 (e
poi dal dlgs n. 446 del 1997).
Sul tema dell'assegnazione
degli spazi pubblici disponibili per gli impianti
pubblicitari ad affissione diretta, in giurisprudenza erano
emersi due indirizzi. Il primo, sposato dal giudice che ha
rimesso la questione all'Adunanza plenaria e risalente a una
pronuncia del Consiglio di stato del 2007, poggia la sua
tesi sul fatto che le imprese, titolari di un diritto alla
libera attività di affissione diretta (ai sensi della
pronuncia della Corte costituzionale n. 355 del 2002),
sarebbero sottoposte soltanto ad autorizzazione onerosa, ai
sensi degli articoli 23 del codice della strada e 53 del
relativo regolamento attuativo, con un «prezzo» (tariffa)
pagato dall'autorizzato anche per compensare l'occupazione
del suolo pubblico. Il secondo indirizzo del Consiglio di
stato del 2009, prevalente anche a livello di Tar, parte
dalla considerazione che il «mercato dell'uso degli impianti
pubblicitari privati in ambito cittadino è, allo stato
attuale, contingentato, a motivo della limitatezza degli
spazi disponibili», con conseguente obbligo per i comuni di
determinare «la quantità degli impianti
pubblicitari».
Pertanto in questa ottica lo strumento idoneo
a garantire la libera iniziativa economica non può che
essere quello della concessione degli spazi tramite gara.
Diversamente, infatti, sarebbe del tutto inibito a nuovi
operatori l'accesso ad un mercato che resterebbe riservato a
quanti hanno conseguito in passato le autorizzazioni all'uso
degli spazi più remunerativi.
L'adunanza plenaria sposa
questo secondo indirizzo partendo dalla conferma della
considerazione generale per cui la collocazione degli
impianti pubblicitari commerciali su aree pubbliche urbane è
vincolata dalla naturale limitatezza degli spazi disponibili
all'interno del territorio comunale e ulteriormente
ristretta per effetto dei vincoli sia di viabilità, sia di
tutela dei beni culturali, gravanti sul territorio. Di
fatto, quindi, tale assetto configura un vero e proprio
«mercato contingentato» determinato da una scarsa risorsa
pubblica, cioè il suolo pubblico. La sentenza delinea
quindi, in questo ambito, un rapporto tra l'ente locale e
privato che non può che essere di natura concessoria, sotto
forma di concessione di area pubblica.
Per l'adunanza
plenaria è quindi «corretto allocare l'uso degli spazi
pubblici contingentati con gara, dovendosi altrimenti
ricorrere all'unico criterio alternativo dell'ordine
cronologico di presentazione delle domande accoglibili, che
è di certo meno idoneo ad assicurare l'interesse pubblico
all'uso più efficiente del suolo pubblico e quello dei
privati al confronto concorrenziale».
Per assicurare il perseguimento del principio di tutela
della concorrenza nell'esercizio dell'attività economica
privata incidente sull'uso di risorse pubbliche occorre
quindi riferirsi all'istituto della concessione tramite gara
dell'uso di beni pubblici per l'esercizio di attività
economiche private, che risulta del tutto coerente anche con
i principi comunitari, in particolare di non
discriminazione, di parità di trattamento e di trasparenza.
In particolare la concessione di un'area pubblica fornisce
un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato
(come è nella specie e quindi la gara si impone come
strumento a presidio e tutela del principio, fondamentale,
della piena concorrenza. Si tratterà, ovviamente, di una
gara con offerte in aumento, «al rialzo», per
l'assegnazione di una concessione con durata temporale
prefissata
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Tares, deroghe ad ampio raggio.
Niente imposta per i locali che non producono rifiuti.
I chiarimenti nello schema tipo di regolamento
predisposto dal dipartimento finanze.
Non sono soggetti alla Tares i locali e le aree che non
possono produrre rifiuti o che non comportano, secondo la
comune esperienza, la produzione di rifiuti in misura
apprezzabile per la loro natura o per il particolare uso cui
sono stabilmente destinati.
A chiarirlo è lo schema-tipo di
regolamento predisposto dal Dipartimento delle Finanze per
agevolare il compito dei comuni, chiamati a disciplinare il
nuovo tributo che, dallo scorso 1° gennaio, ha sostituito Tarsu e Tia.
Il presupposto della Tares, ai sensi dell’art. 14, comma 3,
del dl 201/2011 è dato alternativamente dal possesso,
dall’occupazione o dalla detenzione di locali o aree
scoperte, indipendentemente dal loro uso, purché
potenzialmente in grado di produrre rifiuti. Quest’ultimo
aspetto, ovvero la suscettibilità delle diverse tipologie di
immobili a produrre rifiuti, aveva generato, nella vigenza
della Tarsu, un ampio contenzioso.
L’art. 62 del dlgs
507/1993, infatti, contemplava, al comma 1, una presunzione
legale di produttività di rifiuti collegata alla detenzione
e all’occupazione (non era contemplato il possesso), mentre
il successivo comma 2 escludeva «gli immobili che non
possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell’anno».
La disciplina relativa alla Tares, invece,
sembra ricollegare il presupposto non al fatto in sé del
possesso/occupazione/ detenzione dell’immobile, bensì alla
idoneità oggettiva dello stesso a produrre rifiuti.
L’ambito delle esclusioni, pertanto sembra essere più ampio
di quello rilevante ai fini della Tarsu, come confermato
dall’art. 8 della bozza di regolamento predisposta dalle
Finanze, che esonera dal tributo, oltre agli immobili che
non possono produrre rifiuti, anche quelli che non
comportano una produzione «in misura apprezzabile», secondo
la comune esperienza. Tale previsione, che certamente
include gli immobili inutilizzati (espressamente richiamati
dalla disciplina Tarsu), lascia notevoli margini di flessibilità ai comuni, che possono individuare le ipotesi di
esclusione adattandole alla specifica situazione locale.
Le
linee-guida individuano a titolo esemplificativo le
fattispecie più diffuse, fra cui: le unità immobiliari
adibite a civile abitazione prive di mobili e suppellettili
e sprovviste di contratti attivi di fornitura dei servizi
pubblici a rete; le superfici destinate al solo esercizio
di attività sportiva (ma non quelle con usi diversi, quali
spogliatoi, servizi igienici, uffici, biglietterie, punti
di ristoro, gradinate); i locali stabilmente riservati a
impianti tecnologici (vani ascensore, centrali termiche,
cabine elettriche, celle frigorifere, locali di essicazione
e stagionatura senza lavorazione, silos); le unità
immobiliari per le quali sono stati rilasciati, anche in
forma tacita, atti abilitativi per restauro, risanamento
conservativo o ristrutturazione edilizia (limitatamente al
periodo dalla data di inizio dei lavori fino alla data di
inizio dell’occupazione); le aree impraticabili o intercluse
da stabile recinzione; le aree adibite in via esclusiva al
transito o alla sosta gratuita dei veicoli.
Tale elenco
potrà essere modificato e integrato dai singoli comuni,
anche mediante l’individuazione di altre fattispecie: ad
esempio, lo schema di regolamento approvato dalla Regione
autonoma Valle d’Aosta include anche soffitte, ripostigli,
stenditoi, lavanderie, legnaie e simili limitatamente alla
parte del locale con altezza inferiore a metri 1,60.
Anche
per la Tares (come per la Tarsu), l’esclusione è subordinata
alla duplice condizione dell’indicazione di tali circostanze
nella denuncia (originaria o di variazione) ed alla
sussistenza di elementi di riscontro obiettivi direttamente
rilevabili o comprovati da idonea documentazione. Qualche
dubbio rimane in merito alla ripartizione dell’onere della
prova in caso di contestazioni. A parere di chi scrive
rimane fermo l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di
legittimità rispetto alla Tarsu, secondo cui la prova
contraria atta a dimostrare la inidoneità del bene a
produrre rifiuti è ad esclusivo carico del contribuente,
dovendo il soggetto attivo (ovvero il comune) dimostrare
solo il fatto oggettivo dell’occupazione/ detenzione (si
veda Cass. n. 14770 del 15.11.2000).
Peraltro, lo
scheda di regolamento predisposto dal ministero prevede
(art. 8, comma 3) che «nel caso in cui sia comprovato il
conferimento di rifiuti al pubblico servizio da parte di
utenze totalmente escluse da tributo verrà applicato il
tributo per l’intero anno solare in cui si è verificato il
conferimento, oltre agli interessi di mora e alle sanzioni
per infedele dichiarazione».
Tale formulazione pare
riferirsi ai soli casi di conferimento abusivo di rifiuti
da parte di utenze che siano state interamente escluse dalla
Tares, ma potrebbe fornire appigli ai contribuenti per
invocare un’inversione dell’onere della prova. È quindi
opportuno che i comuni ne circoscrivano la portata ai
predetti casi
(articolo ItaliaOggi Sette del
25.02.2013). |
TRIBUTI: La Tares comunale dimentica i rifiuti speciali.
La maggiorazione segue le regole della quota ambiente.
Dal 1° gennaio è entrato in vigore il nuovo tributo a
copertura dei servizi indivisibili dei Comuni, anche se di
"comunale" c'è ben poco, visto che la misura base, pari a
0,30 euro al mq di superficie imponibile, e che secondo le
stime del Governo vale un miliardo di euro, andrà tutta allo
Stato. Ai Comuni rimane comunque la possibilità di
incrementare il tributo di altri 0,10 euro, riservandosene
il gettito.
Peraltro, sul fronte del "riversamento" allo Stato le regole
sono ancora da definire, anche alla luce delle varie
modifiche succedutesi nel corso del 2012. L'articolo 14,
comma 13-bis, Dl 201/2011, prevede una riduzione del
soppresso fondo sperimentale di riequilibrio, ora sostituito
dal fondo di solidarietà comunale, in «misura
corrispondente» al gettito derivante dalla maggiorazione
standard; si prevede inoltre che in caso di incapienza
ciascun Comune deve versare allo Stato le somme residue.
La normativa nulla dispone in merito al criterio di
quantificazione degli importi dovuti allo Stato, se in base
a una stima una tantum, o a poco attendibili superfici
catastali o, infine, a una rendicontazione puntuale degli
incassi registrati da ogni singolo Comune. Considerato che,
rispetto al testo originario, è oggi previsto il pagamento
esclusivamente con F24 o con bollettino postale
centralizzato - i cui modelli ancora non sono stati
approvati - sarebbe auspicabile che fossero individuati due
codici tributo, uno per il tributo sui servizi indivisibili
di competenza statale e uno per quello di competenza
comunale, in modo tale che ci sia un riversamento diretto
nelle casse dello Stato, come già avviene per l'Imu. Ciò
eviterebbe inutili e dispendiose rendicontazioni.
Lo stesso sistema peraltro potrebbe essere usato anche per
il tributo provinciale di tutela dell'ambiente.
Nel prototipo di regolamento Tares predisposto dall'Economia
si ricorda che la maggiorazione per i servizi indivisibili
ha natura di imposta addizionale rispetto al tributo sui
rifiuti (che ha invece natura di tassa), di cui assume il
medesimo presupposto.
Questo porta ad applicare alla maggiorazione sui servizi le
stesse esclusioni, riduzioni, agevolazioni ed esenzioni
applicabili al tributo sui servizi. Così le aree e i locali
sui cui si producono rifiuti speciali non assimilati sono
esclusi sia dal tributo sui rifiuti che da quello sui
servizi. O ancora, le percentuali di riduzione da applicare
alle superfici in cui vi è contestuale produzione di rifiuti
urbani e speciali, saranno applicabili anche al tributo sui
servizi.
Oltre ad agevolazioni che si traducono in riduzione di
superficie vi sono agevolazioni che si applicano sotto forma
di riduzione della tariffa, come quelle assicurate a chi
effettua la raccolta differenziata, alle abitazioni occupate
dai residenti esteri e altre ancora previste dalla normativa
o che possono essere decise autonomamente dai Comuni con il
regolamento Tares.
L'articolo 14, comma 21, Dl 201/2011, prevede che tutte
queste agevolazioni, riduzioni ed esenzioni si applicano
anche al tributo sui servizi indivisibili, sia di competenza
statale che comunale
(articolo Il Sole 24 Ore del
25.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Fabbricati
inabitabili.
Domanda
Ai fini dell'Imposta municipale propria (Imu), i fabbricati
inabitabili godono delle agevolazioni?
Risposta
Il legislatore, con l'introduzione dell'Imposta municipale
propria (Imu), ha tracciato il quadro normativo di
riferimento applicabile alla detta imposta. Esso è stato
delineato e circoscritto in maniera espressa dalle
disposizioni recate dall'articolo 13 del decreto legge 06.12.2011, numero 201, convertito dalla legge 22.12.2011, numero 214, dagli articoli 8 e 9 del decreto
legislativo numero 23 del 14.03.2011, dall'articolo
91-bis del decreto legge 24.01.2011, numero 1,
convertito, con modificazioni, dalla legge numero 16 del
2012.
Ciò comporta che le agevolazioni stabilite, in materia di
Imposta comunale sugli immobili (Ici), non sono più
applicabili in materia di Imposta municipale propria (Imu).
Al riguardo la Corte di cassazione, con la sentenza del 12.01.2012, numero 288, ha puntualizzato che le
agevolazioni in materia tributaria non possono implicare
un'interpretazione analogica o estensiva onde farvi
comprendere ipotesi non espressamente previste.
Pertanto, le agevolazioni stabilite in materia di Imposta
comunale sugli immobili (Ici) non sono applicabili
all'Imposta municipale propria (Imu), a meno che non siano
espressamente richiamate dalle disposizioni dalla nuova
normativa. E la nuova normativa Imu, in tema di agevolazioni
stabilisce, con il disposto dell'articolo 13, comma 3, del
decreto legge 06.12.2011, numero 201, convertito dalla
legge 22.12.2011, numero 214, che la base imponibile è
ridotta del 50%:
- per i fabbricati di interesse storico o artistico di cui
all'articolo 10 del decreto legislativo 22.01.2004,
numero 42, recante il «Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, numero 137»;
- per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di
fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell'anno
durante il quale sussistono dette condizioni
(articolo ItaliaOggi Sette del
25.02.2013). |
TRIBUTI: Pubbliche
affissioni.
Domanda
Quali cartelli sono soggetti all'imposta comunale sulla
pubblicità e sulle pubbliche affissioni?
Risposta
L'articolo 5 del decreto legislativo numero 507, del 1993,
dispone, in ordine alla funzione pubblicitaria dei cartelli
esposti, che la diffusione dei messaggi pubblicitari
effettuata attraverso forme di comunicazione visive o
acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle
pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al
pubblico o che sia da tali luoghi percepibile è soggetta
all'imposta sulla pubblicità prevista da detto decreto.
I
messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica
allo scopo di promuovere la domanda di beni o di servizi,
ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto
pubblicizzato si considerano rilevanti ai fini
dell'imposizione summenzionata. La Corte di cassazione, con
la sentenza del 22.07.1993, ebbe ad affermare che è
soggetto all'imposta sulla pubblicità qualsiasi mezzo di
comunicazione con il pubblico, il quale risulti,
indipendentemente dalla ragione e finalità della sua
esposizione, oggettivamente idoneo a far conoscere
indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili
acquirenti e utenti il nome o il prodotto dell'azienda.
La stessa Corte di cassazione, con la sentenza del
03.09.2004, numero 17852, ha puntualizzato che è soggetto
all'imposta sulla pubblicità qualsiasi mezzo di
comunicazione con il pubblico che, indipendentemente dalla
ragione e finalità della sua adozione, risulti
obiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente
alla massa indeterminata di possibili acquirenti ed utenti
il nome, l'attività ed il prodotto dell'azienda
(articolo ItaliaOggi Sette del
25.02.2013). |
TRIBUTI: Le
linee guida delle Finanze. Tares, sconti solo sulla parte
fissa
Le agevolazioni Tares si applicano sulla parte fissa e su
quella variabile della tariffa. Questa regola vale per le
utenze domestiche e non domestiche. Le riduzioni tariffarie
possono essere riconosciute anche alle occupazioni
stagionali, purché la loro durata non superi i 183 giorni
nel corso dello stesso anno solare. Per le attività
commerciali e industriali è invece richiesto che l'uso
stagionale degli immobili risulti da licenza rilasciata
dall'autorità competente o da dichiarazione
dell'interessato.
Lo ha chiarito il ministero delle finanze
nelle
linee guida al prototipo di regolamento Tares che
possono adottare i comuni.
Secondo il ministero, contrariamente a quello che ritiene la
dottrina, le riduzioni tariffarie, anche per le utenze
domestiche, si applicano sia sulla parte fissa che sulla
parte variabile della tariffa. Nelle linee guida, inoltre,
viene precisato che per attività stagionale si intende
quella di durata non superiore a 183 giorni nel corso dello
stesso anno solare. Mentre, per le utenze non domestiche la
natura stagionale dell'attività deve essere comprovata dalla
licenza rilasciata dagli organi competenti o deve risultare
«da dichiarazione rilasciata dal titolare a pubbliche
autorità».
Le riduzioni tariffarie, per il ministero, vanno
riconosciute «dalla data di effettiva sussistenza delle
condizioni di fruizione se debitamente dichiarate e
documentate nei termini di presentazione della dichiarazione
iniziale o di variazione». Tuttavia, per i residenti nel
comune, la riduzione deliberata per l'occupante unico
dell'immobile spetta anche in mancanza di specifica
dichiarazione.
In effetti, i comuni hanno il potere di concedere, con
regolamento, riduzioni tariffarie per particolari situazioni
espressamente individuate dalla legge. Il consiglio
comunale, tra l'altro, può deliberare agevolazioni Tares,
oltre quelle già previste, purché l'ente abbia le risorse
economiche per finanziarle. I benefici fiscali concessi dal
comune si applicano non solo alla tassa, ma anche alla
maggiorazione dovuta dai contribuenti sui servizi
indivisibili. L'articolo 14 del dl 201/2011 disciplina le
agevolazioni tariffarie, riconoscendo al comune la facoltà
di stabilire riduzioni del tributo dovuto in presenza di
determinate situazioni in cui si presume che vi sia una
minore capacità di produzione di rifiuti.
A queste riduzioni
viene però fissato un tetto massimo. La riduzione della
tariffa non può superare il limite del 30%. In particolare,
questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con
unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso
stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree
scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da
soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di 6 mesi
all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo.
Tutte le agevolazioni, dunque, si applicano anche alla
maggiorazione, destinata alla copertura dei servizi
indivisibili prestati dall'amministrazione comunale. Questa
previsione, però, non ha senso perché tra i due tributi che
convivono all'interno della Tares non c'è alcun legame e i
presupposti sono del tutto diversi. L'estensione alla
maggiorazione può costituire un freno per i comuni nella
scelta di deliberare eventuali agevolazioni. Considerato che
il gettito della maggiorazione standard (0,30 euro al metro
quadrato) comporta una corrispondente riduzione dei
trasferimenti erariali. Quindi, minori risorse per gli enti
(articolo ItaliaOggi del
19.02.2013). |
TRIBUTI: Tariffe Tarsu-Tia non retroattive. Vale lo Statuto del contribuente.
Le regole contenute nello Statuto dei diritti del
contribuente valgono anche per delibere e regolamenti
comunali. Questi atti, infatti, non possono avere efficacia
retroattiva, se non nei limiti stabiliti da norme di legge.
Pertanto, le tariffe deliberate per Tarsu o Tia oltre il
termine stabilito dalla legge possono essere applicate solo
dall'anno successivo alla loro approvazione.
Lo ha affermato
il TAR Sicilia-Catania, Sez. II, con la
sentenza
18.02.2013 n. 547.
Per il Tar Sicilia, le delibere con le quali i comuni
fissano le tariffe per la Tarsu o la Tia, se risultano
tardive, non possono «essere retroattivamente applicate». In
questi casi, quindi, devono «intendersi prorogati i
precedenti piani tariffari o i precedenti regimi».
L'applicazione retroattiva, in effetti, si pone in contrasto
con i principi contenuti nello Statuto dei diritti del
contribuente. Del resto, l'articolo 3 della legge 212/2000
stabilisce che le disposizioni tributarie non possono avere
effetto retroattivo e che, relativamente ai tributi
periodici, le modifiche si applicano solo dal periodo
d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata
in vigore delle norme che le prevedono. Naturalmente, la
regola vale anche per delibere e regolamenti comunali.
Una
parziale deroga al principio dello Statuto è rappresentata
dall'articolo 1, comma 169, della Finanziaria 2007 (legge
296/2006), richiamato nella motivazione della sentenza, che
impone agli enti locali di deliberare le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la
data fissata da norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione. Queste deliberazioni, anche se
approvate successivamente all'inizio dell'anno d'imposta,
purché entro il termine per il bilancio preventivo, hanno
effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento. Tuttavia,
in caso di mancata approvazione entro il suddetto termine,
le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in
anno.
Va ricordato che l'amministrazione comunale deve motivare la
delibera che prevede un aumento delle tariffe per coprire i
costi del servizio di smaltimento dei rifiuti. Non si può
invocare genericamente la necessità di assicurare la
copertura totale della spesa, senza fornire dati certi sullo
scostamento tra entrate e costo del servizio (Consiglio di
stato, sentenza 5616/2010). Per stabilire in una determinata
entità l'importo dell'aumento, occorre indicare spese ed
entrate
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2013). |
TRIBUTI:
Raccolta rifiuti, rischio paralisi in tutta Italia.
Le aziende incasseranno dopo luglio la prima rata della
Tares: in molti casi non è esclusa l'interruzione del
servizio.
EFFETTI COLLATERALI/
Le nuove regole fanno anche saltare milioni di Rid e
addebiti automatici finora utilizzati dagli utenti delle
multiutility.
Mentre le nuove regole sui pagamenti imporrebbero ai privati
di onorare i propri debiti in 30 giorni e ai soggetti
pubblici di pagare le fatture in 60, la disciplina Tares
impone alle aziende che raccolgono e smaltiscono i rifiuti
di effettuare gratis un servizio essenziale per almeno 8-9
mesi. Anche se in ritardo, gli obblighi di pagamento
complicheranno la vita di milioni di utenti, che in questi
anni hanno attivato i Rid automatici o pagato in un'unica
bolletta i servizi diversi (per esempio rifiuti ed energia)
offerti loro dalle multiutility. Le nuove regole prevedono
infatti solo l'F24 o il bollettino postale, con incasso
diretto al Comune, per cui milioni di versamenti automatici
o multipli sono destinati a saltare.
Se la complicazione per gli utenti emergerà solo con
l'estate, il corto-circuito degli incassi sta già
determinando in queste settimane la paralisi amministrativa
nella gestione ambientale delle città italiane, e nelle
prossime settimane rischia di moltiplicare i casi
dell'emergenza rifiuti.
L'origine è nella sequela di rinvii elettorali della prima
rata Tares, il nuovo tributo che da quest'anno deve
sostituire le tasse e tariffe sui rifiuti andate in pensione
a fine 2012. Il decreto salva-Italia ha infatti abrogato le
vecchie discipline a partire dallo scorso 1° gennaio, ma la
Tares che dovrebbe intervenire al loro posto è stata
rinviata prima ad aprile e poi a luglio da un Parlamento in
scadenza desideroso di spostare le richieste tributarie ai
cittadini lontano dalle elezioni politiche di febbraio e
dalle amministrative di maggio. Per i bilanci degli utenti
in realtà cambia poco. La cifra da pagare nel 2013 sarà in
ogni caso superiore a quella versata nel 2012 per due
ragioni: i costi di raccolta e smaltimento vanno coperti
integralmente con il tributo -secondo un criterio che fino
a ieri era stato raggiunto in modo universale nei soli
Comuni a tariffa Tia, 1.300 su 8.100- e a questo si
aggiunge una maggiorazione comunale (30 centesimi a metro
quadro, elevabili a 40) per finanziare i «servizi
indivisibili» come la manutenzione delle strade e
l'illuminazione pubblica. Proprio la maggiorazione, che ha
permesso allo Stato di tagliare preventivamente un miliardo
di euro ai fondi dei Comuni scaricandone i costi sui
cittadini, ha impedito di prorogare nel 2013 la tassa e la
tariffa ambientale rimaste in vigore fino a dicembre.
La pioggia dei rinvii, quindi, non ha effetti pratici sui
portafogli dei cittadini, ma tira una bordata praticamente
mortale ai conti delle imprese, che in queste settimane
stanno cominciando ad affrontare una crisi di liquidità
difficilmente gestibile. I mezzi e gli impianti vanno fatti
girare tutti i giorni, gli stipendi devono essere pagati
tutti i mesi, ma l'intera macchina dovrebbe viaggiare
"gratis" fino alla fine di luglio, o meglio fino a
settembre-ottobre quando le prime bollette si tradurranno in
incassi effettivi. Con il classico effetto a catena:
l'assenza di liquidità si scaricherà sui fornitori, cioè le
aziende in genere private che ai gestori dell'igiene urbana
vendono i mezzi e le attrezzature. A questo anello della
catena scattano gli interessi di mora dell'8,75% a carico
dei debitori che non pagano entro i 30-60 giorni previsti
dalla normativa (il Dlgs 192/2012) che ha tradotto in
italiano la direttiva europea.
L'ultima proroga è stata approvata dal Parlamento contro il
parere del Governo Monti, e nelle scorse settimane il
sottosegretario all'Ambiente Tullio Fanelli ha ipotizzato il
varo di un nuovo decreto governativo che anticipi la prima
rata della Tares, ma solo il nuovo Parlamento uscito dalle
urne potrebbe convertirlo. «In questi giorni –spiega
Daniele Fortini, il presidente di Federambiente
(l'Associazione italiana servizi pubblici ambientali)–
abbiamo inviato una lettera al presidente del Consiglio e ai
ministri dell'Ambiente e dello Sviluppo economico, e dai
contatti avuti con i vertici ministeriali ci aspettiamo un
incontro a breve. I tempi però sono strettissimi e l'urgenza
dei problemi non ammette timidezze».
Ma come accennato i problemi della Tares non sono solo di
calendario: la nuova disciplina che prevede solo pagamenti
con F24 o bollettino postale costringerà a rivedere i
meccanismi di versamento attuati in particolare da parecchie
multiutility come per esempio Hera, perché farà saltare i
versamenti automatici con Rid e quelli elettronici con i Mav.
Una complicazione in più, che farà "apprezzare" anche
agli utenti, oltre che alle aziende, tutta la tortuosità del
nuovo tributo ambientale (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Rifiuti. Nelle istruzioni dell'Economia la disciplina
speciale prevale sulle regole del Dl Sviluppo-bis.
Il Comune decide la tariffa.
Le linee guida sulla Tares «ignorano» la competenza degli
Ato.
Dal 1° gennaio è entrata in vigore la Tares, ma sono ancora
pochi i Comuni che hanno approvato il regolamento, e ancor
di meno quelli che hanno approvato le tariffe, complici
anche la proroga a giugno del termine di approvazione del
bilancio di previsione e la scadenza a luglio della prima
bolletta.
Un valido supporto per la predisposizione delle delibere
comunali sono le «Linee guida» per l'applicazione della Tares diffuse dal ministero dell'Economia (si veda anche Il
Sole 24 Ore dell'8 febbraio), nelle quali si analizzano
anche due punti molto controversi: il soggetto competente ad
approvare le tariffe e la definizione di «misurazione
puntuale», nel caso di applicazione della tariffa
corrispettivo.
Sul soggetto legittimato ad approvare le tariffe Tares si
erano create alcune incertezze a causa dell'articolo 34 del
Dl 179/2012, il quale prevede che anche nel settore dei
rifiuti urbani, la «determinazione delle tariffe all'utenza
per quanto di competenza» spetti unicamente agli enti di
governo degli Ato.
Questa disposizione è però completamente ignorata dal
ministero dell'Economia che valorizza invece esclusivamente
la disciplina speciale contenuta nell'articolo 14 del Dl
201/2011, dove si individua come soggetto attivo d'imposta
il Comune e si attribuisce al consiglio comunale la
competenza ad approvare tariffe e regolamento per
l'applicazione del tributo. D'altro canto, sarebbe stato
difficile ipotizzare una scissione tra soggetto che approva
le tariffe e soggetto che approva il regolamento, visto che
le scelte regolamentari, come le riduzioni e le esenzioni,
inevitabilmente si riflettono sulle tariffe.
Sulla tempistica, il ministero ribadisce che la delibera di
approvazione delle tariffe costituisce un atto autonomo e
precedente rispetto all'approvazione del bilancio, non
risultando configurabile un'approvazione implicita delle
tariffe con il varo del bilancio. Le affermazioni,
condivisibili in punto di diritto, non considerano però che
le tariffe devono essere approvate sulla base di un piano
finanziario redatto dal gestore e approvato dall'Ato; se i
due soggetti, in assenza di un termine fissato per legge,
non redigono e non approvano il piano, il Comune è
impossibilitato ad approvare le tariffe.
In questa
situazione, dando atto dell'impossibilità di approvare le
tariffe per assenza del piano finanziario, sarebbe legittimo
approvare il bilancio preventivando un'entrata pari al costo
presunto del servizio, rinviando a un secondo momento
l'approvazione delle tariffe, fermo restando che queste
dovranno comunque essere approvate entro il 30.06.2013.
È evidente poi che in sede di approvazione delle tariffe,
eventuali scostamenti tra entrate o costi inizialmente
iscritti in bilancio andranno corretti con una delibera di
variazione di bilancio.
Altra importante precisazione contenuta nelle linee guida
riguarda la tariffa corrispettivo. Il Comune, se ha
realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di
rifiuti conferiti al servizio pubblico, può prevedere
l'applicazione di una tariffa corrispettivo. Il ministero ha
condivisibilmente ritenuto che l'aggettivo «puntuale»
comporti il riferimento ai rifiuti «effettivamente
prodotti -o meglio conferiti- dalla singola utenza».
Eventuali altri criteri di misurazione medi o presuntivi non
legittimano la tariffa corrispettivo (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
L'Imu dei rurali spetta ai sindaci
L'«INFORTUNIO»/
La riserva statale sostenuta dalle Finanze nelle risposte di
Telefisco non trova giustificazioni nella normativa.
La riserva d'imposta statale dell'Imu, pari allo 0,2% sui
fabbricati rurali di categoria D, non è prevista da nessuna
norma di legge e pertanto non può essere applicata. Né allo
scopo è sufficiente una risposta delle Finanze a un quesito
di Telefisco (si veda Il Sole 24 Ore del 1° febbraio). Il
dipartimento, per quanto autorevole, non è legibus solutus.
Il problema nasce dal comma 380 dell'articolo unico della
legge di stabilità 2013 (legge 228/2012). In forza di tale
norma, l'Imu è interamente attribuita ai Comuni, con la sola
eccezione di una quota di imposta in favore dello Stato,
calcolata in misura pari allo 0,76% sui soli fabbricati di
categoria D. Per evitare di creare eccessivi cali di gettito
nei Comuni ad alta intensità industriale o ricettiva, è
inoltre previsto che le amministrazioni possano elevare
dello 0,3% l'aliquota base, introitando l'intera eccedenza
deliberata.
Si è posto il quesito se la riserva in esame fosse
applicabile anche ai fabbricati rurali strumentali,
classificati nella categoria D10, atteso che per questi la
legge impone l'aliquota massima dello 0,2%. Stante la
chiarezza della disposizione di legge, è tuttavia evidente
che le soluzioni al quesito possono essere solo due: o la
quota statale dello 0,76% si applica oppure non si applica.
Non pare proprio che possa neppure prospettarsi una terza
via, che individui una quota diversa da quella di legge.
Si è dell'avviso che la risposta corretta è quella di
escludere i rurali strumentali dalla riserva statale, per
una pluralità di ragioni. In primo luogo, l'aliquota massima
di legge è in questo caso dello 0,2%, ed è evidente che una
compartecipazione statale al gettito del tributo comunale
non può mai risolversi in una surrettizia elevazione
dell'aliquota legale.
La legge di stabilità individua la misura della riserva
statale richiamando il comma 6 dell'articolo 13, D.L. n.
201/2011, mentre i rurali strumentali sono nel comma 8.
La risposta data dalle Finanze ai quesiti di Telefisco
appare pertanto spiazzante e priva di supporto normativo.
Secondo il Dipartimento delle politiche fiscali, infatti,
per i fabbricati rurali di categoria D la riserva statale
sussiste ma opera nei limiti dello 0,2%. La risposta sembra
per di più adombrare la possibilità che il comune intervenga
sull'aliquota, riducendola allo 0,1%. È però evidente che
una delibera comunale non può mai avere effetto su di una
quota statale.
Ne deriva che sugli immobili D rurali l'intero gettito deve
essere attribuito ai comuni.
Quanto ai controlli sui fabbricati D, premesso che potrebbe
dubitarsi dell'estensione della quota erariale anche al
gettito da accertamento, è ovvio che essi spettino agli enti
locali. L'interesse del Comune potrebbe consistere
nell'acquisizione del gettito afferente alle sanzioni, posto
che la riserva dello Stato riguarda unicamente l'imposta (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: La Tares non si autoliquida.
Necessari avvisi di pagamento da parte del comune.
Chiarezza dalle linee guida delle Finanze sul
prototipo di regolamento. L'Anci: rinviare.
La Tares non va versata dai contribuenti in
autoliquidazione. Deve invece essere pagata solo in seguito
alla spedizione degli avvisi di pagamento da parte dei
comuni, che devono specificare in dettaglio per ogni utenza
le somme dovute per tributo, maggiorazione e tributo
provinciale.
Questo importante chiarimento è contenuto nelle
linee guida ministeriali sul prototipo di regolamento Tares.
Il tutto mentre ieri l'Anci ha chiesto di spostare la
partenza della tares al prossimo anno. «La previsione di
luglio della Tares è insostenibile», pertanto «sia cambiata
o sia posticipata al 2014, altrimenti avremo un ulteriore
aggravio per le casse dei comuni», ha detto il presidente
dell'Anci, Graziano Delrio, durante la conferenza stampa sui
dati del gettito effettivo dell'Imu (si veda altro articolo
in pagina).
Tornando alle linee guida, vengono dunque confermate le
vecchie modalità di pagamento, che per tanti anni sono state
utilizzate per la riscossione sia della Tarsu che della Tia.
Nelle linee guida viene precisato che, pur essendo
«scomparso il sistema di riscossione ordinario tramite ruoli
che caratterizzava la Tarsu», è stato ritenuto opportuno,
«per ragioni di continuità», mantenere la prassi che prevede
l'invio ai contribuenti di «inviti di pagamento», che devono
indicare le somme da versare e le relative modalità e
termini. Pertanto, il comune riscuote il tributo comunale
sui rifiuti e i servizi inviando ai contribuenti, «anche per
posta semplice», inviti di pagamento che specificano per
ogni utenza le somme dovute per tributo, maggiorazione e
tributo provinciale, suddividendo l'ammontare complessivo
nel numero di rate previste dalla legge o deliberate
dall'ente stesso.
Per il 2013 la prima rata si verserà a
luglio, in seguito alle modifiche apportate all'articolo 14
del decreto «salva Italia» (201/2011) dall'articolo 1, comma
387, della legge 228/2012. Non è escluso un ulteriore
intervento normativo che anticipi la scadenza ad aprile. I
comuni, però, possono posticipare ulteriormente la scadenza.
Hanno inoltre il potere di variare sia i termini che il
numero delle rate di versamento. La legge di stabilità,
infatti, ha introdotto modifiche alla disciplina della Tares
sul fronte della riscossione.
Fino al 31.12.2013 la
gestione del tributo o della tariffa puntuale possono essere
affidati ai soggetti che hanno gestito lo smaltimento
rifiuti e le attività di accertamento e riscossione di Tarsu,
Tia1 e Tia2. Tributo e maggiorazione possono essere pagati
con l'F24 o con bollettino di conto corrente postale. Le
somme vanno versate direttamente al comune, in quattro rate
trimestrali scadenti nei mesi di gennaio, aprile, luglio e
ottobre. Fino alla determinazione delle nuove tariffe le
somme dovute vanno pagate in acconto, commisurato
all'importo versato nel 2012. Per le nuove occupazioni
effettuate a partire dal 2013, invece, la tassa va calcolata
tenendo conto delle tariffe deliberate nell'anno precedente.
Il conguaglio dovrà essere effettuato con la rata da pagare
dopo la determinazione delle tariffe.
Anche la maggiorazione
va pagata nella misura standard, fissata in 0,30 euro al
metro quadrato, senza applicazione di sanzioni e interessi,
contestualmente al tributo o alla tariffa, alla scadenza
delle prime tre rate. Con l'ultima rata potrà essere operato
il conguaglio, qualora il comune dovesse decidere di
aumentarla fino a 0,40 euro. È consentito il pagamento in
unica soluzione entro il mese di giugno di ciascun anno. In
caso di omesso o insufficiente versamento, come per le altre
entrate tributarie, si applica la sanzione del 30% prevista
dall'articolo 13 del decreto legislativo 471/1997.
Naturalmente il versamento con l'F24, alternativo al
pagamento del tributo con il bollettino di conto corrente
postale, consente di operare le compensazioni con altri
debiti fiscali del contribuente. Nella relazione
ministeriale viene posto in rilievo che l'obbligo di
riscossione spontanea da parte del comune è in linea con le
recenti modifiche in materia di riscossione delle entrate
degli enti locali. Mentre per la riscossione coattiva
l'articolo 14 fa salva la scelta regolamentare dell'ente di
affidare l'incarico a Equitalia o ad altro concessionario
iscritto all'albo ministeriale
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Immobili
senza utenze esclusi dalla Tares.
Non sono soggette al pagamento della Tares le unità
immobiliari destinate a civili abitazioni prive di mobili e
di allacci alle reti idriche e elettriche.
Sono queste le
indicazioni contenute nelle linee guida ministeriali per
l'applicazione del nuovo tributo sui rifiuti e i servizi.
Nel prototipo di regolamento Tares, infatti, viene precisato
che non sono soggetti al tributo i locali e le aree che non
possono produrre rifiuti o che non comportano, «secondo la
comune esperienza, la produzione di rifiuti in misura
apprezzabile per la loro natura o per il particolare uso cui
sono stabilmente destinati». E tra le unità immobiliari
escluse dal prelievo rientrano quelle «adibite a civile
abitazione prive di mobili e suppellettili e sprovviste di
contratti attivi di fornitura dei servizi pubblici a rete».
La tesi ministeriale, però, si pone in contrasto con quanto
sostenuto dalla Cassazione e dai giudici di merito. Tra
l'altro, anche la relazione governativa sull'articolo 14 del
dl 201/2011, che ha istituito il nuovo balzello, chiarisce
che il legislatore, laddove assoggetta al tributo gli
immobili «suscettibili di produrre rifiuti», ha inteso
recepire «il consolidato orientamento della Corte di
cassazione, riconducendo l'applicazione del tributo alla
mera idoneità dei locali e delle aree a produrre rifiuti,
prescindendo dall'effettiva produzione degli stessi».
In realtà, la Cassazione ha sempre posto dei limiti rigidi
per l'esonero dal pagamento della tassa, che è dovuta a
prescindere dal fatto che il contribuente utilizzi
l'immobile. Vanno esclusi solo gli immobili non utilizzabili
(inagibili, inabitabili, diroccati) o improduttivi di
rifiuti.
Anche il presupposto Tares è l'occupazione,
detenzione o conduzione di locali e aree scoperte a
qualsiasi uso adibiti. Non sono soggetti solo gli immobili
che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per
il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno. Pertanto insuscettibili di produrre
rifiuti, come quelli situati in luoghi impraticabili,
interclusi o in stato di abbandono. Il contribuente può fare
ricorso solo a queste prove vincolate per dimostrare che
l'immobile sia inidoneo a produrre rifiuti e quindi non
soggetto al pagamento.
Mentre nella normativa Tarsu si faceva riferimento agli
immobili «oggettivamente utilizzabili», nel decreto Monti si
usa l'espressione «suscettibili di produrre rifiuti». Il
risultato però è lo stesso. Tant'è che viene richiamata
nella relazione ministeriale la giurisprudenza della
Cassazione, che da più di 10 anni ha affermato in maniera inequivoca che il tributo è dovuto dal contribuente se
l'immobile sia oggettivamente utilizzabile, ancorché
soggettivamente inutilizzato per scelta del titolare.
Per la
prima volta il principio è stato affermato con la sentenza
16785 del 30.11.2002. Successivamente, con le sentenze
9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Questo
orientamento è stato seguito anche dai giudici di merito. La
commissione tributaria regionale di Palermo (sentenza
121/2012) ha infatti sostenuto che l'attivazione delle
utenze non è decisiva ai fini del pagamento della tassa
rifiuti. Magazzini e locali di deposito sono soggetti al
prelievo anche se non hanno allacci alle reti idriche e
elettriche.
Infine la Suprema Corte, con la recente ordinanza 1331 del
21.01.2013, ha ribadito che la prova fornita dal
contribuente di aver cessato un'attività commerciale o
industriale non lo esonera dal pagamento della tassa
rifiuti. Non rileva, dunque, la scelta del titolare di non
utilizzare l'immobile
(articolo ItaliaOggi del 12.02.2013). |
TRIBUTI: Tares, pagheranno le imprese.
A carico delle aziende gli sconti concessi dai sindaci.
Le indicazioni nello schema tipo di regolamento e
nelle linee guida diffuse giovedì.
Le imprese pagheranno gli sconti Tares concessi dai sindaci
alle abitazioni civili per incentivare la raccolta
differenziata.
La conferma arriva dallo
schema-tipo di regolamento comunale
relativo al nuovo tributo su rifiuti e servizi diffuso dal
dipartimento delle Finanze, insieme a dettagliate «Linee
guida», la scorsa settimana (si veda ItaliaOggi dell'8
febbraio).
La Tares (istituita dall'art. 14 del dl 201/2011 per
razionalizzare il sistema di imposizione sui rifiuti) deve
garantire, infatti, la copertura integrale dei costi dei
servizi di raccolta e smaltimento.
Una delle conseguenze di questo vincolo è che le riduzioni
per la raccolta differenziata riferibili alle utenze
domestiche deve essere addebitata a quelle non domestiche
(quali attività commerciali, industriali, artigianali,
professionali e produttive in genere).
Il peso in termini finanziari di questa sorta di «partita di
giro», precisano le linee guida ministeriali, è rimesso alla
scelta discrezionale di ciascun ente locale «senza obbligo
di specifica motivazione sul punto». È ovvio, però, che si
tratta di una scelta che andrà attentamente calibrata,
specialmente nei comuni che finora hanno applicato la Tarsu,
al fine di non appesantire ulteriormente il carico fiscale
sui soggetti produttivi, che quasi certamente dovranno anche
scontare un aggravio dell'Imu.
Le Finanze chiariscono anche alcuni altri aspetti dubbi
della disciplina relativa alla Tares.
Il primo riguarda l'evidente contrasto esistente fra l'art.
14, c. 23, del dl 201, che rimette ai comuni la
determinazione delle tariffe, e l'art. 34, c. 23, del dl
179/2012, che invece assegna tale competenza agli enti
regionali di governo degli ambiti e dei bacini territoriali
ottimali.
Quest'ultima disposizione viene completamente ignorata,
riaffermando indirettamente la piena competenza dei consigli
comunali, ferma restando la necessità che le tariffe siano
conformi al piano finanziario del servizio di gestione dei
rifiuti approvato dall'Autorità dell'ambito territoriale
ottimale o dai diversi soggetti individuati a livello
regionale.
Lo schema di regolamento, inoltre, elenca dettagliatamente i
locali e le aree escluse dalla tassazione per inidoneità a
produrre rifiuti: fra queste rientrano anche le aree adibite
in via esclusiva alla sosta gratuita dei veicoli (ad
esempio, il parcheggio di un supermercato), che secondo
alcuni interpreti avrebbero dovuto essere soggette.
Arriva poi la conferma che la tariffa corrispettiva
alternativa ai tributi può essere istituita solo dai comuni
che dispongono di sistemi di misurazione puntuale della
quantità di rifiuti conferiti dalla singola utenza, oggi
presenti in poche realtà.
Sempre riguardo alla tariffa corrispettiva, un'ulteriore
precisazione concerne le modalità di determinazione del
costo del servizio, dopo che la l 228/2012 ha abrogato la
previsione (art. 14, c. 12, del dl 201) che la rimandava ad
un apposito regolamento statale. Anche in tal caso, come per
il tributo, si applicano le disposizioni del dpr 158/1999.
Tuttavia, secondo i chiarimenti del ministero, i comuni non
sono vincolati al rispetto puntuale dei coefficienti
stabiliti dal c.d. «metodo normalizzato», ma sono liberi di
muoversi liberamente all'interno della forchetta compresa
fra il minimo e il massimo.
Infine, rimangono ancora alcune incertezze riguardo alla
riscossione.
La legge 228 ha stabilito che essa, oltre che gestita
direttamente dai comuni, possa anche essere affidata agli
attuali gestori, fermo restando, però, l'obbligo di
versamento diretto al comune.
Per i piccoli comuni, però, tale obbligo mal si concilia con
quello di gestire in forma associata (insieme alle altre
funzioni fondamentali), anche quelle relative ai rifiuti,
che per espressa previsione di legge includono la
riscossione dei relativi tributi.
Al riguardo, si ritiene che il gettito della Tares possa
essere attribuito direttamente alle unioni, salvo i casi in
cui i sindaci optino per il modello alternativo della
convezione.
Del resto, in base all'art. 32, c. 7, del Tuel, alle unioni
(e non ai singoli comuni associati) competono gli introiti
derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui
servizi ad esse affidati (articolo
ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013). |
TRIBUTI: La legge di stabilità ha abrogato il comma con la riserva
per l'Erario.
Imu statale sulle imprese con «buco» normativo.
Il divieto di agevolazioni privo di base nelle regole.
La risposta del ministero dell'Economia in merito al gettito
Imu 2013 dei fabbricati rurali, data alla manifestazione
Telefisco 2013 (si veda Il Sole 24 Ore del 01.02.2013), complica ancor di più l'incerto quadro normativo
dell'imposta, aprendo la strada a possibilità interpretative
ed applicative che sarebbero pericolose per le entrate dello
Stato.
La legge di stabilità ha modificato per il 2013 le regole di
riparto tra Stato e Comuni del gettito Imu. L'articolo 13,
comma 11, del Dl 201/2011, che attribuiva allo Stato la
riserva di una quota dell'imposta pari alla metà
dell'importo dovuto ad aliquota di base di tutti gli
immobili, ad eccezione dell'abitazione principale e delle
pertinenze, oltre che dei fabbricati rurali ad uso
strumentale, è stato soppresso.
Il gettito Imu verrà incassato tutto dai Comuni, fatta
eccezione per i fabbricati di categoria D, per i quali è
prevista la riserva allo Stato del gettito calcolato
applicando l'aliquota standard dello 0,76 per cento. È
lasciata comunque la possibilità ai Comuni di aumentare sino
a 0,3 punti percentuali l'aliquota, riservandosene il
gettito.
Nel ridisegnare il nuovo riparto tra Stato e Comuni il
legislatore non è però intervenuto con il bisturi ma con la
mannaia, eliminando integralmente il comma 11 dell'articolo
13, che prevedeva che il gettito dell'Imu dovuta per i
fabbricati rurali strumentali fosse interamente riservato ai
Comuni. Con l'abrogazione della norma, il gettito relativo
ai fabbricati strumentali classificati in categoria D/10,
essendo questi «fabbricati produttivi di categoria D»,
dovrebbe essere riservato, secondo il Ministero
dell'Economia, allo Stato. La tesi ministeriale, sebbene
aderente al dato letterale della norma, apre a parecchie
incertezze.
Un primo profilo è rappresentato dalla circostanza che non
tutti i fabbricati rurali strumentali sono accatastati in
categoria D, potendosi accatastare, in base al decreto del
ministero dell'Economia del 26.07.2012, anche in altra
categoria, ad esempio C/2, ma con l'annotazione che si
tratta di fabbricati rurali. Quindi, si avrebbero fabbricati
strumentali, quelli con categoria D, il cui gettito sarebbe
riservato allo Stato, e fabbricati strumentali, quelli
iscritti nelle altre categorie catastali con l'annotazione
di ruralità, il cui gettito sarebbe riservato ai Comuni. È
difficile intravedere una razionalità fiscale in questa
distinzione, mentre è facile vedere un'inutile complicazione
per gli agricoltori.
Inoltre, nell'Imu 2013 è prevista la riserva allo Stato del
gettito dei fabbricati D con applicazione dell'aliquota
standard dello 0,76 per cento, ma la normativa (articolo 13,
comma 8) prevede ancora oggi per i fabbricati rurali
strumentali l'applicazione della aliquota base dello 0,2 per
cento, peraltro non aumentabile ma solo riducibile sino allo
0,1 per cento. Secondo il ministero dell'Economia, si
continuerebbe ad applicare l'aliquota dello 0,2 per cento,
facendo salva anche la possibilità per i Comuni di disporre
l'eventuale riduzione.
A ben vedere, la tesi ministeriale, che autorizza il Comune
a intervenire sulla quota statale, troverebbe un suo
fondamento nella soppressione dello stesso comma 11, che
conteneva anche il divieto per i Comuni di deliberare
riduzioni che potessero incidere sulla quota statale. Ma se
si aderisce a tale tesi, si dovrà anche ammettere che come
il Comune può ridurre l'aliquota base dei fabbricati rurali
così potrà ridurre anche l'aliquota base dei fabbricati di
categoria D.
È evidentemente impossibile lasciare ai Comuni la
discrezionalità di abbassare l'aliquota standard, come
confermato dal dipartimento Finanze che impone di rivedere
le aliquote ai Comuni che prevedevano agevolazioni per
questi immobili (si veda Il Sole 24 Ore del 6 febbraio). Per
chiudere il cerchio, però, occorre che il legislatore
intervenga nuovamente, ripristinando il comma 11 soppresso.
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Stessa categoria, trattamenti diversi
Secondo l'amministrazione finanziaria anche nel 2013
i fabbricati strumentali all'attività agricola godono
dell'aliquota agevolata anche se sono accatastati nella
categoria D, per la quale in genere la legge di stabilità
prevede la riserva statale del gettito ad aliquota standard
dello 0,76%.
Proprio la riserva statale, secondo le Finanze,
impedisce ai Comuni di prevedere sconti sui capannoni delle
imprese: questa riserva era però contenuta nell'articolo 13,
comma 11, del Dl 201/2011, abrogato dalla legge di stabilità (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: La
diatriba sul riconoscimento retroattivo della ruralità. Sul
recupero dell'Ici pregressa per i comuni è game-over.
Per il recupero dell'imposta comunale degli immobili (Ici)
pregressa sui fabbricati rurali, per i Comuni è «game over».
Recentemente la giurisprudenza di merito (C.T. Regionale di
Bologna, sentenza 65/12/12) e, soprattutto, le disposizioni
contenute nell'art. 7, dm 26/07/2012 (Gazzetta Ufficiale n.
185 del 09/08/2012) hanno sancito la definitiva chiusura
della «diatriba» in corso, sul riconoscimento «retroattivo»
della ruralità ai fini del citato tributo locale.
I comuni hanno, recentemente, intensificato l'emissione di
avvisi di accertamento e liquidazione dell'Ici relativa al
quinquennio 2007/2011, molto spesso con carenza di
motivazione, asserendo che non esiste una norma specifica di
esenzione, ma soprattutto che senza la categoria specifica
(A/6 per le unità abitative e D/10 per i fabbricati
strumentali), la ruralità non può essere riconosciuta per i
periodi pregressi.
Molti di questi enti, nei dinieghi alle numerose istanze di
autotutela, hanno precisato che, pur tentando di riconoscere
l'esenzione dal tributo a detti immobili, la variazione
catastale richiesta dalla recente giurisprudenza di
legittimità (su tutte, Cassazione Ss.Uu. 21/08/2009 n. 18565
e 18570) è condizione necessaria per l'ottenimento della
qualifica e, di conseguenza, dell'esenzione.
Detto principio, peraltro, è stato codificato dal comma
2-bis, dell'art. 7, dl n. 70/2011 che ha anche previsto un
termine per la presentazione delle domande di variazione,
tese all'ottenimento della citata specifica categoria;
termine fissato definitivamente al 30 settembre scorso, a
cura del comma 19, dell'art. 3, dl n. 95/2012. A molti
comuni, però, è sfuggito il passaggio del dl n. 201/2011
(lettera d-bis, comma 14 e comma 14-bis, dell'articolo 13)
che ha, di fatto, riportano all'indietro la situazione,
attraverso la quale si dispone che la ruralità è un
requisito di natura esclusivamente «oggettiva» e che
prescinde dalla categoria catastale (sul tema, ministero
delle finanze, circ. 3/DF/2012), nonostante la conferma
della Suprema Corte (Cassazione, sentenza n. 11081/2012)
della necessità di ottenere la categoria specifica.
Infatti, recentemente è stato pubblicato il dm 26/07/2012,
di attuazione del comma 14-bis, dell'art. 13, dl n. 201/2011
appena richiamato, con il quale sono state definite le
modalità di inserimento negli atti catastali della
sussistenza dei requisiti di ruralità degli immobili oggetto
della domanda di variazione di categoria, con il quale sono
stati fissati due principi sacrosanti, riguardanti
rispettivamente la portata (effetti) dell'annotazione della
ruralità e la sanatoria degli anni pregressi. Sul punto, è
chiaro il comma 2, dell'art. 7, dm 26/07/2012 con il quale
il legislatore ha testualmente dichiarato che «la
presentazione delle domande e l'inserimento negli atti
catastali dell'annotazione producono gli effetti previsti
per il riconoscimento del requisito di ruralità (?) a
decorrere dal quinto anno antecedente a quello di
presentazione della domanda».
Di fatto, la richiesta di variazione catastale eseguita
entro lo scorso 30 settembre, autocertificata dal
proprietario o dal titolare del diritto reale sull'immobile,
comporta una mera indicazione (annotazione) in Catasto e non
il cambio di categoria, per qualsiasi genere di fabbricato
(abitativo o strumentale); di fatto, il locale, destinato,
per esempio, a deposito attrezzi che non possiede
caratteristiche da D/10 (dimensioni ridotte) resta iscritto
nella categoria specifica (per esempio, C/2) con annotazione
di «fabbricato rurale», se in possesso dei requisiti
(Agenzia del territorio, circolare n. 2/T/2012).
In secondo luogo, la presentazione delle domande e
l'inserimento dell'annotazione di possesso dei requisiti di
ruralità producono effetti «retroattivi» a decorrere dal
quinto anno antecedente a quello di presentazione, ai sensi
del citato art. 7, dm 26/07/2012; ciò sta a significare che,
a prescindere dalla tipologia dell'immobile (abitativo o
rurale), l'annotazione eseguita equivale a categoria
speciale assegnata (A/6 o D/10), ancorché la categoria del
compendio rimanga quella originaria, ancorché diversa da
quella speciale.
A prescindere da tali disposizioni, che
risultano trancianti e definitive, anche la giurisprudenza
di merito sta consolidando tale orientamento, giacché per
taluni giudici aditi (la più recente, Ctr Bologna, sentenza
n. 65/12/12) il riconoscimento della ruralità è stato
sancito da tempo dai commi 3 e 3-bis, dell'art. 9, del dl n.
557/1993, dopo l'intervento innovatore del dl 159/2007 (art.
42-bis), per effetto della portata «interpretativa»
delle disposizioni
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Le
Finanze hanno messo a punto per i comuni un prototipo di
regolamento del tributo. La Tares con l'invito a pagare.
L'ente può mantenere la prassi delle richieste bonarie.
Tares con invito al pagamento. Consentito ai comuni di
tenere in vita la prassi che prevede l'invio ai
contribuenti, senza formalità di notifica, di inviti di
pagamento che indicano le somme da versare e le relative
modalità e termini entro i quali eseguire detti adempimenti.
Agli enti accordata anche la possibilità di modificare sia
il numero che la scadenza delle rate di versamento, che deve
comunque avvenire tramite conto corrente postale o modello
F-24.
È quanto si legge nel
prototipo di regolamento relativo alla
tassa rifiuti e servizi pubblicato sul sito del Ministero
dell'economia e delle finanze (unitamente alle
linee guida per la predisposizione delle delibere e dei
regolamenti concernenti le entrate tributarie locali e
strumenti prototipali), sul quale gli operatori del
settore possono inviare consigli e rilievi anche critici
validi per eventuali future edizioni del prototipo di
regolamento.
La disciplina statale è contenuta nell'art. 14 del dl 06.12.2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla
legge 22.12.2011, n. 214, che è stato oggetto di
notevoli cambiamenti da parte dell'art. 1, comma 387, della
legge 24.12.2012, n. 228, e cioè della legge di
stabilità per l'anno 2013. Il prototipo di regolamento Tares
(che da quest'anno ha preso il posto di Tarsu, Tia1 e Tia2)
recepisce tutte le novità apportate al nuovo tributo, le
razionalizza e propone uno strumento che ogni ente locale
può adeguare alle proprie esigenze finanziarie ed
organizzative. Ma non è vincolante per i comuni.
Il primo chiarimento presente nel regolamento è il suo
ambito di applicazione, che è limitato a disciplinare il
solo tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, vale a dire
un'entrata di natura tributaria, mentre non riguarda in
alcun modo la tariffa con natura corrispettiva prevista ai
commi da 29-32 dell'art. 14 del dl n. 201 del 2011, che i
comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale
della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico
possono prevedere, con regolamento, in luogo del tributo.
Uno dei punti di maggiore incertezza è stato sempre
rappresentato dai criteri per l'individuazione del costo del
servizio di gestione dei rifiuti e per la determinazione
della tariffa. Sul punto si ricorderà che l'originaria
formulazione dell'art. 14 del dl 201 del 2012 prevedeva
l'emanazione di un regolamento entro il 31.10.2012 e
solo in via transitoria, l'applicazione delle disposizioni
del dpr 27.04.1999, n. 158, e cioè il cosiddetto «metodo
normalizzato» per definire la Tia1.
La nuova norma ribalta la situazione in quanto rende
definitiva l'applicazione del decreto in questione,
circostanza che se da un lato rassicura i comuni che avevano
adottato la Tia, dall'altro mette in crisi gli enti rimasti
nel regime Tarsu e pertanto non avvezzi all'utilizzo di tali
regole. L'art. 13 del regolamento precisa che la tariffa
Tares è commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie
di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione
agli usi e alla tipologia di attività svolte.
Precisa,
inoltre, che la tariffa è determinata sulla base del piano
finanziario con deliberazione del consiglio comunale, da
adottare entro la data di approvazione del bilancio di
previsione relativo alla stessa annualità. Un altro aspetto
affrontato nell'art. 11 del regolamento riguarda la
determinazione della superficie tassabile, che in base alle
novità introdotte dalla legge di stabilità, equivale a
quella calpestabile dei locali e delle aree suscettibili di
produrre rifiuti urbani e assimilati. E ciò almeno fino al
definitivo allineamento tra i dati catastali relativi alle
unità immobiliari a destinazione ordinaria ed i dati
riguardanti la toponomastica e la numerazione civica interna
ed esterna di ciascun comune che dovrebbe permettere di
addivenire alla determinazione della superficie
assoggettabile al tributo pari all'80% di quella catastale,
e cioè della superficie che l'originaria formulazione del
comma 9 dell'art. 14, era considerata tassabile. Ai fini
dell'applicazione del tributo si considerano, quindi, le
superfici dichiarate o accertate ai fini della Tarsu, della
Tia1 e della Tia2.
Il tributo provinciale per l'esercizio delle funzioni di
tutela, protezione e igiene dell'ambiente. Dovuto dai
soggetti passivi del tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi, detto tributo provinciale, commisurato alla
superficie dei locali e delle aree assoggettabili al tributo
comunale, è applicato nella misura percentuale -non
inferiore all'1% né superiore al 5%- deliberata dalla
provincia sul solo importo del tributo comunale.
La maggiorazione per i servizi indivisibili. Gli artt. 29 e
30 sono, invece, dedicati alla maggiorazione applicata alla
tariffa Tares a copertura dei costi relativi ai servizi
indivisibili dei comuni. Detta maggiorazione, si legge nelle
note all'articolo «ha natura di imposta addizionale rispetto
al tributo sui rifiuti (che ha invece natura di tassa), di
cui assume il medesimo presupposto». La maggiorazione è
dovuta dalle utenze domestiche e non domestiche, in misura
pari al prodotto tra l'aliquota vigente stabilita e la
superficie soggetta alla Tares.
L'aliquota base della
maggiorazione è pari, per ogni tipologia di utenza, a 0,30
euro per ogni metro quadrato di superficie imponibile; il
consiglio comunale può modificare solo in aumento detta
misura elevandola fino a 0,40 euro per metro quadrato, anche
graduandola in ragione della tipologia dell'immobile e della
zona ove lo stesso è ubicato.
La riscossione.
Il pagamento del tributo, della tariffa corrispettivo e
della maggiorazione deve avvenire di norma in quattro rate
trimestrali a gennaio, aprile, luglio e ottobre, con facoltà
di effettuare il pagamento in unica soluzione entro giugno.
È stata poi, come detto, prevista nel testo l'alternativa
accordata dalla legge ai comuni, che possono modificare sia
il numero che la scadenza delle rate di versamento.
Lo strumento che i contribuenti devono utilizzare è il
bollettino di conto corrente postale, o il modello di
pagamento unificato F-24. Nel regolamento si è ritenuto
opportuno, per ragioni di continuità, mantenere la prassi
invalsa presso i comuni che prevede l'invio ai contribuenti,
senza formalità di notifica di «inviti di pagamento»
che indicano le somme da versare e le relative modalità e
termini entro i quali eseguire detti adempimenti
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
TRIBUTI: Tia
senza presunzioni
La Tia non ammette presunzioni. Il contribuente è tenuto a
pagare per i rifiuti effettivamente conferiti. Non può
essere conteggiato il quantitativo prodotto in base al
numero degli svuotamenti dei contenitori.
Lo ha affermato la
Commissione tributaria di primo grado di Trento, I Sez., con la
sentenza 13.09.2012 n. 94.
Il
regolamento comunale, che la Commissione tributaria ha
ritenuto illegittimo, stabilisce che per il calcolo della
parte variabile della tariffa si considerano validi tutti
gli svuotamenti, effettuati nella fase di raccolta,
necessari a garantire la pulizia del contenitore assegnato
alla singola utenza. Mentre le disposizioni di legge
impongono che il quantum dovuto dall'utente sia rapportato
alla quantità dei rifiuti conferiti.
Per i giudici
tributari, dunque, non può ritenersi rispondente alle regole
stabilite dalla norma nazionale il criterio adottato per
comodità, di conteggiare il quantitativo di rifiuti
conferiti in base al numero degli svuotamenti secondo il
principio del cosiddetto «vuoto per pieno».
La possibilità
concessa all'amministrazione dalla delibera provinciale di
conteggiare il rifiuto conferito utilizzando il criterio del
volume o del peso, non può porsi in contrasto con i principi
ispiratori della Tia che impongono all'ente «di calcolare
l'effettiva quantità di rifiuti prodotta dal contribuente».
In realtà, però, il dlgs 22/1997 e il dpr 158/1999,
richiamati nella pronuncia, consentono alle amministrazioni
che non siano in grado di misurare i rifiuti conferiti di
fare ricorso a presunzioni.
Di recente il Consiglio di
stato, sez. VI, con sentenza 6208/2012, ha affermato che il
regolamento statale sul metodo normalizzato con il quale
viene determinata la tariffa rifiuti, da quest'anno
applicato alla Tares, non viola la normativa comunitaria,
anche se consente ai comuni l'uso di criteri presuntivi non
rapportati all'effettiva produzione di rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
gennaio 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Pagamenti
illegittimi per la Corte dei conti.
Catasto, per le città planimetrie gratis.
CODICE DELLA PA DIGITALE/
Il Territorio può chiedere compensi solo per «costi
eccezionali» connessi a servizi finalizzati a particolari
esigenze.
La Corte dei Conti dell'Emilia Romagna (parere
31.01.2013 n. 37)
ribadisce l'obbligo per le amministrazioni di rendere
accessibili i dati ogni volta che siano necessari per lo
svolgimento di compiti istituzionali di un'altra
amministrazione, senza oneri a carico di quest'ultima.
Alla Corte dei Conti si sono rivolti alcuni Comuni per avere
conferma della legittimità dei pagamenti pretesi
dall'agenzia del Territorio per la fornitura in formato
digitale delle planimetrie catastali e degli elaborati
planimetrici delle unità immobiliari urbane.
La richiesta delle planimetrie catastali era motivata con la
necessità di implementare i sistemi informativi comunali,
anche per i controlli urbanistici oltre che per i tributi
locali e per la partecipazione all'accertamento dei tributi
erariali.
La Corte ricorda che l'articolo 50 del Dlgs 82/2005 prevede
che qualunque dato trattato da una Pa, nel rispetto della
normativa sulla protezione dei dati personali, è reso
accessibile e fruibile alle altre amministrazioni, e che
l'articolo 59 precisa che nell'ambito dei dati territoriali
di interesse nazionale rientra la banca dati catastale
gestita dal Territorio (incorporata dal 01.12.2012
nell'agenzia delle Entrate). Le regole per l'utilizzo dei
dati catastali sono state definite con il decreto del
direttore del Territorio del 13.11.2007, nel quale si
precisa che sono a carico della Pa richiedente solo
«eventuali costi eccezionali» sostenuti dall'Agenzia per
realizzare ed erogare servizi specifici connessi a
particolari esigenze.
Il Territorio, per fornire ai Comuni le planimetrie
catastali, chiede la fornitura di un supporto magnetico e
circa 0,20 euro a planimetria. Questa pretesa è stata
ritenuta illegittima dalla Corte in quanto i costi
eccezionali non sono giustificati se connessi alle modalità
di erogazione dei dati e non alla peculiare natura del
servizio richiesto.
Il tema della fruibilità e della gratuità dei dati è stato
affrontato molteplici volte dal legislatore, e da ultimo
anche in fatto di Tares, laddove l'articolo 14 del Dl
201/2011 prevede al comma 37 che i Comuni possano richiedere
dati e notizie a uffici pubblici oppure a enti di gestione
di servizi pubblici in esenzione da spese e diritti.
Sarebbe però necessario affrontare in modo organico una
volta per tutte questo problema, e non solo con riferimento
alle banche dati gestite dalle Pubbliche amministrazioni ma
anche alle banche dati pubbliche gestite in modo
privatistico, quali il registro nazionale delle imprese,
gestito da Infocamere, e soprattutto l'archivio della
motorizzazione, gestito da Aci e Motorizzazione, il cui
accesso è pagato dai Comuni a caro prezzo (articolo Il Sole 24 Ore del
25.03.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI: Il catasto è
gratis.
Banca dati aperta per i comuni.
Corte conti Emilia: da pagare solo i servizi extra.
L'accesso dei Comuni alla banca dati catastale deve essere
totalmente gratuito. All'amministrazione richiedente deve
restare a carico solo l'eventuale costo collegato alla
richiesta di servizi specifici e prestazioni straordinarie.
È quanto ribadisce la sezione regionale di controllo della
Corte dei Conti per l'Emilia Romagna, nel testo del
parere
31.01.2013 n. 37.
Nei fatti, il Comune di Anzola dell'Emilia comunicava che,
per necessità di implementare il proprio sistema informativo
territoriale, per l'esecuzione di controlli in materia di
tributi comunali e per attuare le disposizioni in materia di
partecipazione dei comuni alle attività di accertamento
fiscale, richiedeva all'ufficio provinciale dell'Agenzia del
territorio l'accesso alla banca dati catastali, ricevendo il
nulla osta subordinato alla richiesta di un corrispettivo.
Pertanto, il primo cittadino del comune istante ha sollevato
dubbi sulla legittimità dei corrispettivi pretesi in tal
senso dall'ufficio del Territorio.
La Corte rispondeva rilevando che, sul punto, soccorrono
numerose disposizioni legislative. In primo luogo,
l'articolo 50, comma 2, del dlgs n. 82/2005, ove si prevede
che qualunque dato trattato dalle pubbliche amministrazioni,
nel rispetto delle norme sulla privacy, è reso accessibile e
fruibile alle altre amministrazioni, qualora l'utilizzazione
del dato sia necessaria per lo svolgimento di compiti
istituzionali delle amministrazioni richiedenti.
In più, ha rimarcato la Corte nella sua attenta disamina,
nel testo del decreto legge n. 78/2010 (artt. 18 e 19), che
disciplina la collaborazione dei comuni all'accertamento
tributario e contributivo, è espressamente sancito che ai
comuni viene garantito l'acceso gratuito all'Anagrafe
Immobiliare, così da permettere alle stesse amministrazioni
comunali la «piena accessibilità e interoperabilità»
con le banche dati dell'Agenzia del territorio.
Pertanto, da questo corollario normativo, si legge nel
parere della Corte, emerge inequivocabilmente un generale
principio di gratuità per l'accesso dei comuni alla banca
dati catastale.
A carico del comune richiedente può ricadere soltanto il
costo legato all'effettuazione di servizi connessi a
particolari e straordinarie esigenze
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2013
- link a www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Tasse locali, aliquote modificabili fino
al 30/9. Ma si rischia il caos.
I comuni e le province che devono ripristinare gli equilibri
finanziari possono modificare le aliquote e le tariffe di
tributi locali fino al 30 settembre di ogni anno. Sono così
a rischio la certezza delle aliquote, in particolare quelle
dell'Imu.
Questa preoccupante novità è contenuta il comma 444
dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 che,
nell'intervenire sull'art. 193, comma 3, del Tuel, accorda
ai comuni e alle province che sono tenuti a ripristinare gli
equilibri finanziari, la possibilità di modificare le
tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria
competenza entro la data indicata al comma 2, dello stesso
art. 193, vale a dire il 30 settembre di ciascun anno.
Tutto ciò «in deroga all'articolo 1, comma 169, della
legge 27.12.2006, n. 296», che costituisce una delle
norme basilari del sistema dei tributi locali e che è
destinato a vacillare di fronte a una disposizione così
stramba. Infatti fino a oggi in base a detta norma vi erano
alcune fondamentali certezze, e cioè che:
- il termine di deliberazione delle tariffe e delle aliquote
dei tributi di competenza degli enti locali è stabilito
nella data fissata da norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione;
- le suddette deliberazioni, anche se approvate
successivamente all'inizio dell'esercizio, purché entro il
termine stabilito per la deliberazione del bilancio di
previsione, hanno effetto dal 1º gennaio dell'anno di
riferimento;
- le deliberazioni relative alle aliquote e alle tariffe per
i tributi locali sono automaticamente confermate nel caso in
cui l'ente non deliberi, modificandole, entro i termini di
approvazione del bilancio di previsione.
L'unico elemento di incertezza era ogni anno
l'individuazione dell'esatto termine stabilito per la
deliberazione del bilancio di previsione, che veniva spesso
fatto slittare ora con legge ora con un decreto
ministeriale, a seconda delle necessità manifestate dagli
enti locali.
Ebbene, se da un lato l'art. 1, della legge n. 228 del 2012,
offre al comma 381, un elemento di certezza fissando al
30.06.2013 il termine per l'approvazione del bilancio di
previsione per l'anno 2013, dall'altra il comma 444 consente
ai comuni e alle province di modificare le aliquote ben
oltre detta data.
Il termine del 30 settembre si ricava dal rinvio effettuato
dalla norma in esame al comma 2, dello stesso art. 193 che
delinea la procedura in base alla quale l'organo consiliare
dell'ente locale provvede al controllo degli equilibri
generali di bilancio apportando, in caso di squilibrio, i
necessari provvedimenti. La norma non consente, però, in
alcun modo ai comuni ed alle province di modificare le
aliquote o le tariffe dei tributi locali.
Ciò sarà, invece, possibile, a partire dal 2013, proprio
grazie alle modifiche apportate al comma 3 del citato art.
193 del Tuel dal comma 444 della legge di stabilità, che con
la sua dirompente portata finisce in concreto per minare il
sistema tributario locale, determinando l'estrema incertezza
dei contribuenti in ordine alla misura del tributo, che
potrà variare fino al 30 settembre di ogni anno.
Non va sottovalutato, inoltre, l'effetto deleterio che tale
norma provoca soprattutto in materia di Imu. Infatti per
tale tributo a decorrere dall'anno di imposta 2013, l'art.
13, comma 13-bis, del dl 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, ha introdotto
una forma di pubblicità costitutiva della misura del
tributo.
Detta norma prevede infatti, che le deliberazioni di
approvazione delle aliquote e della detrazione dell'Imu
devono essere inviate esclusivamente per via telematica per
la pubblicazione nello stesso sito informatico di cui
all'art. 1, comma 3, del dlgs 28.09.1998, n. 360, vale a
dire il sito previsto per la pubblicazione delle
deliberazioni in materia di addizionale comunale all'Irpef,
www.finanze.it. La norma precisa, inoltre, che l'efficacia
delle deliberazioni decorre dalla data di pubblicazione nel
sito informatico in questione e gli effetti delle
deliberazioni stesse retroagiscono al 1º gennaio dell'anno
di pubblicazione nel sito informatico, a condizione che
detta pubblicazione avvenga entro il 30 aprile dell'anno a
cui la delibera si riferisce. Detto invio deve avvenire
entro il termine del 23 aprile; in caso di mancata
pubblicazione entro il termine del 30 aprile, le aliquote e
la detrazione si intendono prorogate di anno in anno.
È indispensabile, quindi, un urgente «aggiustamento»
del un sistema che, ancor prima di decollare, è già
destinato a rimanere a terra.
Con la norma in questione si è creato, infatti, un gran
pasticcio che se da un lato può avvantaggiare i comuni che
possono rifare i conti tranquillamente fino a settembre,
crea un gran caos ai contribuenti che si vedono cambiare le
carte in tavola all'ultimo momento (articolo
ItaliaOggi del 25.01.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Tares prorogata a luglio. Sì definitivo
della Camera anche alla gestione rifiuti in Campania.
Enti locali. Slitta il termine per
pagare la prima rata del prelievo che costerà un miliardo in
più.
La Tares slitta a luglio. Con l'approvazione definitiva
della conversione in legge del Dl 1/2013, ieri alla Camera,
l'articolo 1-bis, introdotto dal Senato, posticipa, per il
solo anno 2013, al mese di luglio il termine di versamento
della prima rata del tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi, disciplinato all'articolo 14, comma 35, del Dl 211
del 2011, precedentemente fissato in gennaio e poi spostato
al mese di aprile dalla legge di stabilità 2013. Sempre
ferma restando la facoltà, per i Comune, di posticipare
ulteriormente tale termine.
Gli altri provvedimenti contenuti nel Dl 1/2013 prevedono
una serie di modifiche all'attuale disciplina dei rifiuti.
L'articolo 1 proroga il regime speciale vigente in Campania,
che attribuisce alle province la gestione delle attività di
raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e differisce
l'entrata in vigore del divieto di smaltire in discarica i
rifiuti che non possono essere ulteriormente valorizzati
attraverso il riciclaggio.
Viene anche messa a regime la disciplina dei Raee (Rifiuti
di apparecchiature elettriche ed elettroniche). L'articolo 2
proroga fino al 31.12.2013 gli incarichi dei Commissari per
le emergenze ambientali (tra cui la nave Concordia).
L'articolo 2-bis interviene sui contributi in favore dei
soggetti residenti nelle regioni colpite dal sisma in Emilia
del maggio 2012, in modo da coprire integralmente le spese
per la riparazione, il ripristino o la ricostruzione degli
immobili.
Tra gli altri, il Governo ha accolto l'ordine del giorno
presentato da Simonetta Rubinato (Pd), il cui gruppo ha
peraltro votato a favore della proroga, con cui si impegna
ad assumere le iniziative necessarie a rimediare
all'introduzione della Tares: «Il rinvio del pagamento
della prima rata a luglio 2013, approvato la scorsa
settimana dal Senato –spiega Simonetta Rubinato– non risolve
i problemi. Anzi, li complica ulteriormente, perché le
famiglie si troveranno a pagare un vero e proprio salasso,
aggiuntivo all'Imu».
Il rinvio del pagamento della Tares è strettamente legato
all'appuntamento elettorale, anche se ufficialmente è legato
alla possibilità per il nuovo Governo di rivederne
l'impianto; alla commissione Ambiente del Senato era stato
chiesto con un emendamento del presidente D'Alì anche per «restituirle
la sua natura di tariffa contro un servizio corrisposto».
Federambiente, però, aveva sottolineato i rischi del mancato
afflusso di liquidità agli operatori.
Il nodo è quello economico, infatti: la Tares prevede una
componente legata alla raccolta e smaltimento rifiuti, che
deve coprire il costo del servizio, ma anche una «maggiorazione»
da 30 centesimi al metro quadrato (elevabile a 40 dal
Comune) per pagare i «servizi indivisibili». Quindi,
sicuramente almeno un miliardo in più per i contribuenti:
oneri che sotto elezioni non era il caso di chiedere.
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Le novità approvate
01 | LA PROROGA
Viene posticipato per il solo anno 2013, al mese di luglio
il termine di versamento della prima rata Tares,
precedentemente fissato al mese di aprile dalla legge di
stabilità 2013. In ogni caso i Comuni possono posticipare
ulteriormente il termine
02 | IN CAMPANIA
Prorogato anche il regime speciale vigente in Campania, che
attribuisce alle province la gestione delle attività di
raccolta e di smaltimento dei rifiuti urbani e differisce
l'entrata in vigore del divieto di smaltire in discarica i
rifiuti non riciclabili
03 | RAEE
Viene anche messa a regime la disciplina dei Raee (Rifiuti
di apparecchiature elettriche ed elettroniche), in
precedenza provvisoria
04 | COMMISSARI
Proroga al 31.12.2013 degli incarichi dei Commissari per le
emergenze ambientali a Giugliano (Na) e Castelvolturno (Ce),
allo stabilimento Stoppani del comune di Cogoleto (Ge), alle
isole Eolie e al naufragio della nave Concordia all'Isola
del Giglio
05 | SISMA IN EMILIA
I contributi in favore dei soggetti residenti nelle regioni
colpite dal sisma in Emilia del maggio 2012, dovranno
coprire integralmente le spese per la riparazione, il
ripristino o la ricostruzione degli immobili (articolo
Il Sole 24 Ore del 23.01.2013 - link a
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Le violazioni Tarsu si ripetono tutti
gli anni.
L'obbligo di presentare la dichiarazione
Tarsu si rinnova di anno in anno. Quindi, se viene omessa o
è infedele la sanzione deve essere applicata anche per gli
anni successivi al primo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza
21.01.2013 n. 1334.
Per i giudici di piazza Cavour, nonostante la norma di legge
consente al contribuente di limitarsi a denunciare le sole
variazioni intervenute dopo la presentazione della
dichiarazione originaria, senza dover assolvere all'obbligo
tutti gli anni, «qualora la denunzia sia stata
incompleta, infedele oppure omessa, l'obbligo di formularla
si rinnova di anno in anno». Dunque, l'inottemperanza a
questo obbligo deve essere sanzionata «anche per gli anni
successivi al primo».
Questa regola è applicabile anche al nuovo tributo sui
rifiuti e i servizi (Tares), istituito dal 2013, considerato
che l'articolo 14 del dl 201/2011 dispone che a ogni
annualità corrisponde un'obbligazione tributaria autonoma.
Le sanzioni sono analoghe a quelle previste per la Tarsu
anche nel quantum. La sanzione per omissione della
dichiarazione è fissata in un minimo del 100% fino a un
massimo del 200% del tributo evaso, mentre quella per
infedeltà è stabilita entro le percentuali del 50% (minima)
e del 100% (massima), sempre commisurata all'entità del
tributo dovuto. In presenza di una violazione relativa alla
dichiarazione (infedeltà o omissione), la sanzione deve
essere irrogata per ciascuna annualità per la quale il
contribuente l'ha commessa.
La Cassazione giudica infondata la tesi sostenuta dai
giudici di merito, secondo cui la sanzione debba essere
irrogata solo per il primo periodo d'imposta, mentre per
quelli successivi, non sussistendo l'obbligo della
dichiarazione, l'unica sanzione applicabile sarebbe quella
del 30%, prescritta per i versamenti irregolari. Il fatto
che sia previsto un unico obbligo dichiarativo non vuol dire
che sia contestabile solo una volta la violazione. L'obbligo
è unico nel momento in cui viene assolto.
Pertanto, fino a che non viene posto in essere l'adempimento
richiesto dalla legge, sussiste sempre la violazione che si
ripete nel corso dei vari anni d'imposta. Il fatto che il
contribuente abbia il dovere giuridico di porre rimedio
all'infedeltà o all'omissione determina una ripetizione
dell'originaria violazione (articolo
ItaliaOggi del 02.02.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
G. Debenedetto,
Tares - nuovo tributo sui rifiuti e sui servizi - NOVITÀ
della L. 228/2012 (link a
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
TRIBUTI: Condono con
limiti temporali. Delibera della
corte conti Campania sui tributi locali.
Sono illegittimi i condoni dei tributi locali adottati dai
comuni per le annualità successive al 2002.
Lo ha affermato
la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la
Campania, con il
parere 17.01.2013 n.
10.
Per i giudici contabili, sono illegittimi i condoni «a
catena» che i comuni hanno deliberato per gli anni
successivi al 2002.
La norma che ha previsto la sanatoria, infatti, «deve essere
oggetto di stretta interpretazione», in quanto ha «natura di
evento eccezionale nell'ambito dell'ordinamento giuridico» e
«non consente alcuna interpretazione estensiva». Non è
possibile, secondo la Corte, fare ricorso al condono per «un
arco temporale indefinito». Dunque, deve essere limitato ai
periodi di imposta antecedenti al 01.01.2003, data di
entrata in vigore dell'articolo 13 della legge 289/2002 che
lo ha istituito.
Questa interpretazione, però, si pone in contrasto con
quanto sostenuto dal ministero dell'economia e delle
finanze, il quale più volte ha sostenuto che la facoltà dei
comuni di istituire, con regolamento, la definizione
agevolata delle violazioni tributarie non fosse soggetta a
limiti temporali. Peraltro, anche la Cassazione non si è
espressa in maniera univoca sulla questione. Sebbene con la
sentenza 12679/2012 ha giudicato illegittima la delibera del
comune di Roma che aveva istituito il condono delle liti
pendenti instaurate dopo l'entrata in vigore della
Finanziaria 2003 e ha ritenuto l'amministrazione comunale
priva del potere di deliberare la sanatoria a distanza di
anni da quando il legislatore gli ha riconosciuto questa
facoltà.
Si legge nella motivazione della sentenza che la
possibilità per il contribuente di conseguire la sospensione
del giudizio in corso, in seguito alla presentazione
dell'istanza di condono, è ancorata dall'articolo 13 alla
presenza di due presupposti: che si tratti di obblighi
tributari sorti prima della sua entrata in vigore, vale a
dire fino al 31.12.2002, e che, alla stessa data, la
procedura di accertamento o i procedimenti contenziosi in
sede giurisdizionale fossero già stati instaurati. Mancando
questi requisiti il condono è illegittimo, in quanto il
potere non è esercitabile sine die.
In realtà, molti comuni hanno adottato la sanatoria anche
per gli anni successivi al 2002, considerato che l'articolo
13 è tuttora vigente e non pone dei limiti temporali. La
Finanziaria 2003 ha attribuito agli enti locali la facoltà
di prevedere eventuali forme di condono sui tributi di loro
competenza. Quindi, il potere di disciplinare con
regolamento la riduzione dell'ammontare delle imposte e
tasse loro dovute, escludendo o riducendo gli interessi e le
sanzioni a carico del contribuente.
L'unico obbligo imposto ex lege, nel rispetto dello Statuto del contribuente (legge
212/2000), riguarda il termine minimo che deve intercorrere
tra l'entrata in vigore del regolamento e la scadenza degli
adempimenti a carico degli interessati. E' stata infatti
lasciata agli enti la facoltà di fissare autonomamente il
termine per regolarizzare le violazioni commesse, purché non
inferiore a 60 giorni dalla data di pubblicazione dell'atto
regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
TRIBUTI:
Corte dei conti. Il bonus non trova spazio nei regolamenti.
Imu, niente incentivi contro l'evasione.
IL CONFRONTO CON L'ICI/
Non è stato riprodotto il meccanismo della vecchia imposta
con i premi per chi recupera somme non versate.
In mancanza di una legge che disciplini la materia come
accadeva per l'Ici, non è possibile per i regolamenti
comunali riconoscere gli incentivi al personale per la lotta
all'evasione Imu.
A dirlo è la Corte dei Conti del Veneto,
Sez. controllo, nel
parere 16.01.2013 n. 22.
A vietarlo, secondo la Corte, è prima di tutto il principio
di onnicomprensività, che trova fondamento nel l'articolo 2,
commi 3 e 24, del Dlgs 165/2001 per i dirigenti e
nell'articolo 45 per i dipendenti.
In virtù di questo principio, nulla è dovuto, oltre al
trattamento economico fondamentale e accessorio stabilito
dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una
prestazione che rientra nei suoi doveri d'ufficio.
Solo la legge può derogare all'omnicomprensività, prevedendo
ulteriori specifici compensi o addirittura la possibilità di
una diversa strutturazione del trattamento economico, sia
sul piano qualitativo sia su quello quantitativo.
La Corte inoltre, facendo il parallelo con la ben diversa
disciplina in materia di Ici, evidenzia che in assenza di
una specifica disposizione di legge, il Comune non è
autorizzato a prevedere compensi incentivanti per gli
accertamenti Imu in favore del personale dipendente. Per
l'Ici, infatti, la previsione era contenuta nell'articolo 58
del Dlgs 446/1997.
Tale facoltà era poi stata confermata nel d.l. 201/2011.
Tuttavia con la legge 44/2012, di conversione del decreto
legge n. 16/2012, è stata eliminata l'estensione della
disciplina (e il riferimento legislativo) contenuta
originariamente nel Dlgs 23/2011, stralciando il richiamo
all'articolo 59 citato: di conseguenza la previsione
derogatoria –afferente quindi i soli compensi Ici- deve
essere considerata di stretta interpretazione, come
affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte, che ha
escluso l'utilizzo dello strumento regolamentare per erogare
compensi incentivanti per le entrate locali diverse dall'Ici
(Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la
Lombardia, deliberazione 577/2011 del 10.11.2011), o,
per l'attività di recupero dei tributi erariali (Corte dei
Conti, sezione regionale di controllo per la Sardegna,
deliberazione 127/2011 del 21.12.2011).
Argomenti favorevoli non possono essere tratti dall'articolo
52 del Dlgs 446/1997 e della potestà regolamentare generale
per introdurre nel regolamento Imu una disposizione sugli
incentivi al personale.
In conclusione nessun incentivo Imu per il personale addetto
alla riscossione che cosi perde un beneficio presente nella
disciplina Ici anche se a ben vedere la finalità ossia
incentivare il personale al recupero dell'evasione
nell'interesse dell'ente rimane comune alle due imposte (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
TRIBUTI:
Dichiarazione Imu non per tutti. Gli
enti non profit non dovranno presentarla entro il 4/2.
Risoluzione delle Finanze rinvia
l'adempimento all'approvazione di un apposito modello.
Gli enti non commerciali devono presentare la dichiarazione
Imu solo quando sarà approvato l'apposito modello di
dichiarazione previsto dalla legge e non entro il prossimo
04.02.2013. La dichiarazione relativa agli immobili degli
enti non commerciali deve essere unica e riepilogativa di
tutti gli elementi rilevanti ai fini Imu.
A chiarirlo è la
risoluzione 11.01.2013 n. 1/Df della Direzione
legislazione tributaria e federalismo fiscale del
Dipartimento delle finanze del Mef.
Un ulteriore elemento di chiarezza che si aggiunge
tempestivamente alla farraginosa serie di norme che si sono
accavallate in materia di Imu.
In sintesi, il quesito proposto ai tecnici del ministero
riguarda l'individuazione dell'esatto termine di
presentazione della dichiarazione Imu per gli enti non
commerciali. La domanda non è certo peregrina, in quanto:
►
da un lato il comma 12-ter
prevede che per gli immobili per i quali l'obbligo
dichiarativo è sorto dal 01.01.2012, i soggetti passivi
devono presentare la dichiarazione entro 90 giorni dalla
data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del dm
30.10.2012 con cui è stato approvato il relativo modello;
pertanto poiché detta pubblicazione è avvenuta il
05.11.2012, la scadenza del termine di presentazione della
dichiarazione è fissata al 04.02.2013;
►
dall'altro il regolamento
19.11.2012, n. 200 di attuazione del comma 3 dell'art.
91-bis, del dl 24.01.2012, n. 1, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, che ha dettato
le nuove regole per l'esenzione degli immobili degli enti
non commerciali, all'art. 6 stabilisce che «gli enti non
commerciali presentano la dichiarazione di cui all'art. 9,
comma 6, del dlgs 14.03.2011, n. 23, indicando distintamente
gli immobili per i quali è dovuta l'Imu, anche a seguito
dell'applicazione del comma 2 dell'art. 91-bis, del dl n. 1
del 2012, nonché gli immobili per i quali l'esenzione dall'Imu
si applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale
degli stessi, secondo le disposizioni del presente
regolamento. La dichiarazione non è presentata negli anni in
cui non vi sono variazioni».
A questo punto era legittimo chiedersi quale fosse il
comportamento più corretto da tenere di fronte all'ormai
prossima scadenza dichiarativa.
La risposta offerta dal Dipartimento delle finanze si ricava
proprio dalla lettura delle norme coinvolte, nonché dalle
istruzioni allegate al dm 30 ottobre 2012, di approvazione
del modello di dichiarazione Imu; in queste, infatti:
● nel paragrafo 1.2 è stato espressamente previsto il rinvio
all'approvazione di un apposito modello di dichiarazione per
gli enti non commerciali;
● al paragrafo 1.3, dedicato ai casi per i quali sussiste
l'obbligo dichiarativo è stato chiarito che per gli enti in
questione l'obbligo dichiarativo sussiste anche per gli
immobili esenti, ai sensi della lett. i), comma 1, dell'art.
7 del dlgs 30.12.1992, n. 504.
Ciò comporta, dunque, che la dichiarazione Imu relativa agli
immobili degli enti non commerciali debba essere unica e
riepilogativa di tutti gli elementi relativi alle diverse
fattispecie che possono verificarsi. Questa deve essere,
perciò, presentata su un apposito modello che, in realtà,
deve ancora essere approvato con decreto ministeriale, nel
quale verrà precisato anche il termine entro il quale la
dichiarazione in questione dovrà essere presentata.
Detta soluzione, oltre a tranquillizzare al momento gli enti
non commerciali, che con molta probabilità sono ancora alle
prese con i calcoli proporzionali delle superfici
eventualmente utilizzate a fini commerciali, appare in linea
sia con le esigenze di semplificazione degli adempimenti dei
contribuenti e sia con la necessità di razionalizzare degli
strumenti a disposizione degli impositori in sede di
verifica dell'esatto adempimento dell'obbligazione
tributaria.
La risoluzione si conclude ricordando una novità che si è
aggiunta alle norme in materia di esenzione, vale a dire il
comma 6-quinquies che è stato aggiunto all'art. 9 del dl
10.10.2012, n. 174 dalla legge di conversione 07.12.2012, n.
213, il quale dispone che «in ogni caso, l'esenzione
dall'imposta sugli immobili disposta dall'articolo 7, comma
1, lettera i), del decreto legislativo 30.12.1992, n. 504,
non si applica alle fondazioni bancarie di cui al decreto
legislativo 17.05.1999, n. 153».
La nuova norma che esclude dal campo di applicazione delle
esenzioni Imu le fondazioni bancarie comporta, dunque, che
queste siano assoggettate al normale trattamento riservato
ai soggetti passivi del tributo comunale e che ove siano in
possesso di immobili per i quali l'obbligo dichiarativo è
sorto dal 01.01.2012 devono rispettare l'ordinario termine
di presentazione della dichiarazione Imu fissato al prossimo
4 febbraio (articolo
ItaliaOggi del 12.01.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Tares, tributo in autoliquidazione da
pagare com l'F24.
La legge di stabilità 228/2012 conferma
la nascita della Tares. Con il 01.01.2013 scompariranno
tutte le vigenti forme di prelievo sui rifiuti (Tarsu, Tia1,
Tia2) per lasciare spazio a un tributo a struttura binomia
articolato in tassa sui rifiuti e imposta sui servizi
indivisibili.
Gli interventi dell'ultima ora accolgono in parte le
richieste dei comuni senza rinunciare al nuovo tributo. Il
comma 9 dell'articolo 14 del dl 201/2011 viene completamente
riscritto individuando nel dpr 158/1999, recante il metodo
normalizzato della Tia Ronchi, l'unica fonte normativa da
utilizzare per la determinazione delle nuove tariffe.
Per le unità immobiliari a destinazione ordinaria,
transitoriamente, si utilizzerà la superficie calpestabile
considerando valide le superfici dichiarate o accertate ai
fini Tarsu, Tia 1 e Tia 2, almeno fino a quando non si
procederà alle operazioni di allineamento della banca dati
catastale per l'applicazione del criterio dell'80% della
superficie catastale, che rimane quello preferito dal
legislatore. A tal fine, viene previsto l'obbligo di
inserire nella dichiarazione i dati catastali e l'ubicazione
delle unità immobiliari a destinazione ordinaria. Il comma
35 del citato articolo 14, di regolazione della fase di
riscossione, viene completamente riscritto confermando la
struttura di un tributo in autoliquidazione.
In primo luogo, solamente per l'anno 2013, è ammesso
l'affidamento della gestione del tributo, o della tariffa di
cui al comma 29, ai soggetti che, alla data del 31.12.2012
svolgono, anche disgiuntamente, il servizio di gestione dei
rifiuti, accertamento e riscossione, della Tarsu, Tia1,
Tia2. Si tratta di una facoltà di affidamento diretto
scritto in deroga all'articolo 52 del dlgs 446/97, fondato
invece sul criterio della selezione pubblica. Il carattere
eccezionale della norma è insito nella stessa durata,
circoscritta all'anno 2013. La formulazione flessibile,
scritta per un affidamento in concessione, consente di
ricorrere al gestore attuale dei rifiuti, anche dove non
gestiva il prelievo, o alle società iscritte all'albo già
affidatarie del servizio di accertamento e riscossione.
Di rilievo la modalità di riscossione che rimette al centro
dell'attenzione, come accade per l'Imu, lo strumento della
delega di pagamento F24, accompagnato dal bollettino
postale, al quale si applicano le disposizioni dello stesso
articolo 17 in quanto compatibili. Si tratta della stessa
formulazione adottata per il bollettino Imu incassato sul
conto dello stato. La sorte definitiva del canale di
versamento sarà concretizzata da apposito decreto
ministeriale che dovrà favorire la possibilità di modelli di
pagamento precompilati. Trova conferma la scadenza temporale
delle quattro rate di versamento fissate per gennaio,
aprile, luglio, ottobre con la possibilità per i comuni di
agire con potestà per variare le scadenze.
Per l'anno 2013, la prima rata è comunque posticipata ad
aprile, con la possibilità di slittare ulteriormente il
termine; l'importo in acconto è commisurato al versamento
eseguito nell'anno 2012 a titolo di Tarsu o Tia, rinviando
la definizione dell'importo al conguaglio, da applicare con
le nuove tariffe calcolate col metodo del dpr 158/99 senza
fasi transitorie per la copertura totale dei costi.
Confermato che il tributo e la maggiorazione sono versati
esclusivamente al comune, inciso che, contestualizzato nel
canale F24, sembra indicare la destinazione delle somme
trasferite dalla struttura di gestione, come già visto per
l'Imu sperimentale. Il restyling della norma mantiene di
fondo l'impostazione originaria della Tares limitandosi a
dei correttivi necessari per garantire il finanziamento del
servizio nel 2013.
L'operazione applicativa sarà di grande impatto soprattutto
per i comuni che non avevano introdotto correttivi sulla
base del dpr 158/1999. Resta la possibilità di introdurre la
tariffa corrispettiva prevista dal comma 29 ancora
condizionata alla misurazione puntuale della quantità di
rifiuti conferiti al servizio pubblico, restando così
disattese le richieste avanzate dalle società di gestione
dei rifiuti per facilitare l'introduzione del corrispettivo.
La nuova norma rende evidente il tentativo di trasformare un
tipico tributo in liquidazione dell'ente, che si era
caratterizzato per le difficili dinamiche di riscossione
nella fase bonaria di riscossione diretta, in una modalità
in autoliquidazione da parte del cittadino, alla pari dell'Imu,
pur restando la facoltà di trasmettere modelli precompilati
per facilitare gli adempimenti (articolo
ItaliaOggi del 12.01.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
I comuni possono stabilire agevolazioni
Tares a 360°.
Spetta ai comuni il potere di concedere,
con regolamento, riduzioni tariffarie e esenzioni per il
nuovo tributo sui rifiuti e i servizi. Il consiglio
comunale, infatti, può deliberare agevolazioni Tares, oltre
quelle già previste dalla legge, purché l'ente abbia le
risorse economiche per finanziarle. I benefici fiscali
concessi dal comune si applicano non solo alla tassa, ma
anche alla maggiorazione dovuta dai contribuenti sui servizi
indivisibili.
L'articolo 14 del dl 201/2011 disciplina le agevolazioni
tariffarie, riconoscendo al comune la facoltà di stabilire,
con regolamento, riduzioni del tributo dovuto in presenza di
determinate situazioni, in cui si presume che vi sia una
minore capacità di produzione di rifiuti. A queste riduzioni
viene però fissato un tetto massimo. La riduzione della
tariffa non può superare il limite del 30%. Nello specifico,
questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con
unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso
stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree
scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da
soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di 6 mesi
all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo.
Oltre a queste agevolazioni tariffarie, meramente
facoltative, sono contemplate riduzioni che spettano ai
contribuenti ex lege. Per esempio, le riduzioni per
locali e aree situati nelle zone in cui non è effettuata la
raccolta, per le quali il tributo è dovuto nella misura del
40% della tariffa. Questa misura massima deve essere
graduata tenendo conto della distanza dal più vicino punto
di raccolta rientrante nella zona perimetrata o di fatto
servita. La percentuale scende al 20% in caso di mancato o
irregolare svolgimento del servizio. La stessa misura si
applica nel caso di interruzione del servizio, dal quale
possa derivare un danno o un pericolo di danno alle persone
o all'ambiente.
La riduzione obbligatoria della tariffa è inoltre disposta
per le utenze domestiche ed è finalizzata a incentivare la
raccolta differenziata. Per le utenze non domestiche,
invece, va applicato un coefficiente di riduzione
proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero. Tuttavia,
al di là dei benefici elencati espressamente dalla norma, il
comune può deliberare ulteriori agevolazioni, come indicato
nella relazione governativa, «per ragioni meritevoli di
considerazione, anche non collegate alla capacità di
produzione dei rifiuti». A patto, però, che il mancato
gettito venga coperto da risorse diverse dai proventi del
tributo.
L'articolo 14, comma 19, stabilisce che il consiglio
comunale può deliberare «ulteriori riduzioni ed esenzioni».
Ma queste agevolazioni vanno iscritte in bilancio come
autorizzazioni di spesa e la relativa copertura deve essere
assicurata da risorse diverse dai proventi del tributo di
competenza dell'esercizio al quale si riferisce
l'iscrizione. Altrimenti, visto che le somme riscosse devono
coprire integralmente i costi del servizio, gli ulteriori
benefici fiscali avrebbero un'incidenza negativa sul quantum
dovuto dai contribuenti soggetti al prelievo (articolo
ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
I terreni incolti pagano l'Imu. Esenti
solo aree destinate a coltivazioni e allevamento.
Una nota dell'Ifel che produce effetti
anche sulla determinazione dell'Irpef.
I terreni montani «incolti» devono pagare l'Imu. Ad
affermarlo è stata l'Ifel (il braccio destro in campo
fiscale dell'Associazione dei comuni) la quale, con la
nota 03.01.2013, ha ritenuto che l'esenzione
dall'imposta spetta solo ai terreni «agricoli», cioè
quelli adibiti ad una delle attività di cui all'art. 2135
c.c. (coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di
animali e attività connesse).
Si tratta di una questione che coinvolge anche l'Irpef,
atteso che il reddito dominicale dei terreni non affittati
deve essere assoggettato all'imposta sui redditi solo in
caso di esenzione dall'Imu.
Imu.
L'Ifel, dopo aver premesso che, ai fini dell'Imu, non
esistendo una definizione di terreno «incolto» occorre fare
riferimento a quella più generale di «terreno»
(intendendosi per tale l'insieme delle particelle che non
sono qualificabili né come «aree edificabili», né
come «terreni agricoli»), sottolinea due aspetti. Il primo è
che ai terreni «incolti», contrariamente a quanto potrebbe
trasparire dalla circolare 3/DF/2012 e dalle istruzioni alla
dichiarazione Imu che sul punto si prestano a qualche
«ambiguità interpretativa», non si può applicare lo stesso
regime previsto per quelli «agricoli» (tranne il caso,
disciplinato dall'art. 13, comma 5, del dl 201/2011, in cui
il possessore sia un agricoltore iscritto nell'apposita
previdenza).
Il secondo, e più importante, è che tutti i benefici
riconosciuti dalla legge ai terreni, compresa l'esenzione di
cui all'art. 7, lett. h), del dlgs 504/1992 (richiamata dal
combinato disposto degli art. 9 del dlgs 23/2011 e 13, comma
13, del dl 201/2011), si riferiscono, in modo espresso ed
inequivoco, ai «terreni agricoli» come definiti
dall'art. 2, lett. c), del dlgs 504/1992. Dal che ne
conseguirebbe, sempre secondo la fondazione dell'Anci, che i
terreni situati nei comuni ricadenti in aree montane o di
collina (ed elencati nella circolare 9/1993) sono esenti da
Imu solo se adibiti all'esercizio delle attività indicate
nell'art. 2135 c.c.
Ne risulta, per converso, che i terreni «incolti» sono
assoggettati all'imposta ovunque essi si trovino. E poco
conta, sempre a parere dell'Ifel, che le istruzioni
ministeriali alla dichiarazione Imu, nel richiamare la norma
riguardante l'esenzione in questione, non riportino dopo la
parola «terreni» la qualificazione «agricoli»:
non può essere, infatti, che un «provvedimento
amministrativo» vada a modificare un'impostazione
normativa che disciplinando (per di più) un'esenzione non
può neppure essere oggetto di un'interpretazione analogica.
La condivisibile opinione espressa dall'Ifel non pare
trovare ostacolo neppure nella circostanza che le istruzioni
ministeriali assumono forza di decreto (ex art. 1 dm
31/10/2012), essendo inconfutabile l'illegittimità di una
norma regolamentare che si ponesse in contrasto con la
legge.
Irpef.
Ancorché non sia stato oggetto di analisi da parte dell'Ifel,
va evidenziato come l'inquadramento ai fini dell'Imu dei
terreni montani «incolti» riverberi effetti anche
sull'Irpef. Infatti, dall'anno d'imposta 2012 (dichiarazioni
dei redditi 2013) se i terreni non sono affittati,
l'esenzione dall'Imu determina la debenza dell'Irpef sia sul
reddito dominicale che su quello agrario. Al contrario,
l'assoggettamento all'Imu produce l'esclusione dall'Irpef
del (solo) reddito dominicale.
Seguendo l'interpretazione fornita dall'Ifel, si arriva
pertanto alla conclusione che tutti i terreni diversi da
quelli adibiti ad una delle attività agricole di cui
all'art. 2135 c.c., anche se posti in comuni montani, sono
assoggettati all'Imu ma non all'Irpef (limitatamente al
reddito dominicale) (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2013). |
TRIBUTI:
Rifiuti. Sovrapposizione Ato-Comune.
Sulle tariffe Tares caos competenze. Le
tariffe della Tares devono essere approvate dagli enti
regionali costituiti e disciplinati dalle normative di
settore.
Ai sensi dell'articolo 34, comma 23, della legge 221/2012,
(conversione del secondo decreto sviluppo), sono infatti
unicamente gli enti di governo degli ambiti o bacini
territoriali ottimali a esercitare le funzioni di
organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di
rilevanza economica (rifiuti compresi), di scelta della
forma di gestione e affidamento, di determinazione delle
tariffe e di controllo.
La norma si pone in evidente contrasto con la disciplina
istitutiva della Tares (articolo 14, Dl 201/11), secondo la
quale il Consiglio comunale deve approvare le tariffe del
tributo entro il termine fissato per l'approvazione del
bilancio di previsione, in conformità al piano finanziario
del servizio di gestione dei rifiuti urbani, redatto dal
soggetto che svolge il servizio stesso e approvato dal
l'autorità competente.
Poiché soggetto attivo del tributo è il Comune, deve essere
il Consiglio comunale a deliberare eventuali riduzioni ed
esenzioni, la cui copertura finanziaria deve essere
assicurata con risorse della fiscalità generale.
La disciplina integrativa recata dalla legge di stabilità
2013 (legge 228/2012) non chiarisce la competenza in materia
di approvazione delle tariffe, esponendo al rischio di
impugnazione gli atti eventualmente adottati in violazione
di legge per incompetenza assoluta dell'organo deliberante.
Il comma 387 dell'articolo unico consente ai Comuni, in
deroga all'articolo 52 del Dlgs 446/1997, di affidare, fino
al 31.12.2013, la gestione del tributo o della tariffa ai
soggetti che, al 31.12.2012, svolgono, anche disgiuntamente,
il servizio di gestione dei rifiuti e di accertamento e
riscossione della Tarsu, della Tia 1 o della Tia 2.
Il versamento del tributo o della tariffa nonché della
maggiorazione di 0,30 euro a metro quadrato (elevabile fino
a 0,40 dal Consiglio comunale) deve essere effettuato con
F24 o con conto corrente postale intestato esclusivamente al
Comune.
Per quest'anno, il termine di versamento della prima rata è
posticipato ad aprile, ferma restando la facoltà del Comune
di deliberare una scadenza successiva.
Sino alla determinazione delle tariffe l'importo delle rate
è calcolato in acconto, commisurandolo a quanto versato
nell'anno precedente a titolo di Tarsu, Tia 1 o Tia 2 e
tenendo conto della maggiorazione di 0,30 euro a metro
quadrato. L'eventuale conguaglio per maggiorazioni fino a
0,40 euro è invece effettuato con l'ultima rata.
I tempi di pagamento del servizio di igiene urbana da parte
dei Comuni non coincidono, per l'anno 2013, con i tempi di
riscossione del tributo o della tariffa. Lo squilibrio
finanziario potrebbe compromettere seriamente la gestione
della liquidità degli enti e comportare il ricorso ad
anticipazioni di tesoreria, i cui costi produrrebbero
necessariamente incrementi tariffari a carico dei
contribuenti (articolo
Il Sole 24 Ore del 07.01.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
anno 2012 |
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TRIBUTI:
Tia, legittime le presunzioni. Il dpr
attuativo del decreto Ronchi non viola le norme Ue.
Palazzo Spada ammette l'utilizzo del
metodo normalizzato per calcolare la tariffa rifiuti.
Il regolamento statale sul metodo
normalizzato con il quale viene determinata la tariffa
rifiuti, e che da quest'anno deve essere applicato alla
Tares, non viola la normativa comunitaria, anche se consente
ai comuni l'utilizzo di criteri presuntivi non rapportati
all'effettiva produzione di rifiuti. Del resto, le regole
europee non impongono agli stati membri un metodo preciso
per finanziare il costo di smaltimento dei rifiuti urbani.
Quindi, il comune di Prato ha legittimamente deliberato il
coefficiente massimo di produzione per gli alberghi con
ristorazione, perché è un dato di comune esperienza che
questa attività sia potenzialmente produttiva di rifiuti in
misura maggiore rispetto ad altre utenze.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, VI Sez., con la
sentenza 04.12.2012 n. 6208.
Per i giudici di palazzo Spada, «il diritto comunitario
non impone agli stati membri un metodo preciso quanto al
finanziamento del costo dello smaltimento dei rifiuti
urbani, anche perché è spesso difficile, persino oneroso,
determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da
ciascun detentore».
In effetti l'articolo 6 del dpr 158/1999, vale a dire il
regolamento attuativo del decreto Ronchi (22/1997) che
disciplina il metodo normalizzato della Tia, ai fini del
calcolo della tariffa relativo alle utenze non domestiche
consente di applicare un sistema presuntivo per determinare
la quota variabile, rapportato alla superficie dell'utenza e
al coefficiente di produzione. Secondo i giudici
amministrativi, il coefficiente di produzione è il «coefficiente
potenziale in kg/mq anno che tiene conto della quantità di
rifiuto minima e massima connessa alla tipologia di attività».
Pertanto è corretto l'operato dell'amministrazione, che ha
distinto le superfici delle utenze domestiche e di quelle
non domestiche, determinando la tariffa in base ai
coefficienti indicati nella tabella allegata al regolamento
statale, «poiché non è irragionevole ritenere che un
albergo con ristorante possa produrre rifiuti in quantità
cinque volte superiore rispetto a quelli prodotti dalle
utenze domestiche».
Anche secondo la Cassazione (ordinanza 12859/2012) i comuni
sono legittimati a fissare tariffe maggiorate per le
attività alberghiere, perché potenzialmente producono più
rifiuti delle abitazioni. La maggiore capacità produttiva di
rifiuti di un esercizio alberghiero rispetto a una civile
abitazione è un fatto incontestabile e un dato di comune
esperienza. Tra l'altro, non assume alcun rilievo neppure il
carattere stagionale dell'attività, il quale può
eventualmente dar luogo a speciali riduzioni d'imposta,
rimesse alla discrezionalità dell'ente impositore.
Sono dunque ammissibili le presunzioni previste dal dpr
158/1999 per determinare la tassa sui rifiuti prodotti. Dal
2013 queste regole si applicano anche al nuovo tributo sui
rifiuti e i servizi (Tares), che sostituisce i vecchi regimi
di prelievo Tarsu e Tia1. L'articolo 14 del dl salva-Italia
(201/2011), in seguito alle modifiche apportate dalla legge
di stabilità (228/2012), prevede che le disposizioni
contenute nel dpr 158/1999 devono essere applicate a regime
anche per la Tares e non più in via transitoria, come
stabilito in un primo momento, fino all'emanazione di un
nuovo regolamento che avrebbe dovuto definire i criteri per
l'individuazione del costo del servizio di gestione dei
rifiuti e per la quantificazione della tariffa.
Tuttavia, l'uso delle presunzioni non deve creare
discriminazioni tra i contribuenti. Il Tribunale
amministrativo regionale per la Sardegna, seconda sezione,
con la sentenza 551/2012, ha infatti dichiarato illegittimo
il regolamento comunale che prevede per la determinazione
della Tia dovuta dai soggetti non residenti criteri e
coefficienti di calcolo basati sul numero dei componenti del
nucleo familiare desunto dalla superficie degli immobili. Né
può essere ritenuta valida la giustificazione di avere fatto
ricorso alla presunzione solo perché il dato reale è
difficile accertarlo attraverso le risultanze anagrafiche.
Questo meccanismo presuntivo è stato ritenuto del tutto
inattendibile, in quanto un immobile di notevole ampiezza
può essere utilizzato da un numero ristretto di occupanti (articolo
ItaliaOggi del 04.01.2013 - tratto da
www.corteconti.it). |
TRIBUTI:
I terreni agricoli non rincarano.
Se a fianco c'è un terreno edificabile.
La rettifica del valore di un terreno agricolo non può
essere giustificata dalla sua «edificabilità di fatto»; per
cui, né le adiacenze del terreno a un altro terreno
edificabile, né la circostanza che l'acquirente disponga di
una potenziale volumetria (proveniente da un'altra area) a
questo asservibile, legittimano la rettifica.
Sono le interessanti conclusioni che si leggono nella
sentenza 25.10.2012 n. 144/65/2012 emessa dalla sede
staccata di Brescia della Commissione Tributaria Regionale
di Milano.
La sentenza in commento fissa dei precisi paletti al potere
di accertamento dei terreni agricoli e, in definitiva,
stabilisce che il valore di un terreno debba essere
strettamente legato alla destinazione urbanistica, che ne
determina il valore oggettivo; «Di conseguenza»,
precisa il Collegio regionale, «nessuna valenza può
assumere il richiamo dell'Agenzia delle entrate al principio
della «edificabilità di fatto», non contemplato da alcuna
disposizione normativa per le aree censite in catasto».
La Commissione prosegue l'esame delle norme e rileva come le
norme legislative vigenti dispongano espressamente che il
riferimento debba essere alle risultanze ufficiali vigenti,
a livello urbanistico, al momento della cessione.
Per quanto concerne le norme di riferimento esse sono: ai
fini Ici, l'articolo 2, comma primo, lettera b), del dlgs
n.504/1992 nella formulazione introdotta dall'articolo
11-quaterdecies comma sedicesimo dl n. 203/2005, che dispone
che un'area è da considerare comunque fabbricabile se è
utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento
urbanistico generale, indipendentemente dall'adozione di
strumenti attuativi del medesimo.
Analogamente, ai fini delle imposte dirette, l'articolo 67,
comma primo, lettera b), del dpr n. 917/1986 (Nuovo Tuir) fa
riferimento alla «utilizzazione edificatoria secondo gli
strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione».
La Commissione rileva come l'accertamento erariale sia
basato su un valore non corrispondente alle caratteristiche
oggettiva dell'area compravenduta, bensì è stato determinato
con la comparazione con una compravendita riguardante un
terreno contiguo avente natura edificabile, e dunque,
diversa e più pregiata (articolo ItaliaOggi del
18.01.2013). |
anno 2009 |
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EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI:
Imposta sui cartelli edili.
I cartelli edili informativi, obbligatori ai sensi dell'art.
9 dpr 447/1991 e circolare 1729/UL del 1990, scontano
l'imposta di pubblicità quando eccedono il mezzo metro
quadrato.
Il concetto è stato ribadito con sentenza 24.02.2009 n.
59/1/09 dalla ctp di Reggio Emilia.
Il ricorso riguardava una società edile di persone, che si
opponeva all'avviso di accertamento per imposta comunale
della pubblicità. Tale avviso era stato emesso per un
cartello esposto presso un cantiere, obbligatorio, ai sensi
del citato art. 9 dpr 447/1991 e della circolare 1729/UL del
1990. La normativa vigente impone l'obbligo di esporre,
presso ogni cantiere apposito cartello con l'indicazione dei
soggetti che prendono parte alle opere ivi eseguite.
La parte ricorrente eccepiva che l'esposizione del cartello
doveva essere interpretata nel senso di adeguamento a tale
obbligo previsto dalla normativa, non costituendo tale
esposizione, quindi, alcuna forma di pubblicità, ovvero da
ricomprendersi fra le attività previste in esenzione ai
sensi dell'art. 17, comma 1, dlgs 507/1993.
Con proprie controdeduzioni, la società concessionaria,
parte resistente, insisteva sulla regolarità
dell'accertamento, argomentando, nel merito, che il cartello
esposto all'esterno del cantiere, da parte della società
edile, conteneva un chiaro messaggio pubblicitario ed era di
dimensioni maggiori al mezzo metro quadrato. Tale
argomentazioni erano suffragate, dalla parte resistente,
tramite apposita documentazione fotografica allegata alle
controdeduzioni depositate.
La commissione tributaria di Reggio Emilia, udite le parti
in pubblica udienza, ribadisce che le insegne appartenenti
alla società ricorrente, assolvono un obbligo regolamentare,
cosi come stabilito dal dpr 447/1991, contemporaneamente,
però, è fuor di dubbio che rappresentano anche un messaggio
pubblicitario.
Dall'avviso di accertamento della società concessionaria,
continua la commissione, nonché dalla documentazione
fotografica allegata, si evince che il cartello esposto ha
dimensioni superiori al mezzo metro quadrato. Dimensioni che
eccedono quelle stabilite per fruire dell'esenzione (articolo
ItaliaOggi del 26.03.2009, pag. 30). |
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