dossier TRIBUTI LOCALI |
settembre 2019 |
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PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
antievasione IMU e TARI solo se il bilancio è approvato entro il 31
dicembre.
Gli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere
corrisposti solo se l'ente approva tassativamente il bilancio di previsione
entro il 31 dicembre dell'anno precedente.
È questa l'importante indicazione contenuta nel
parere 18.09.2019 n. 52 della sezione regionale di controllo della
Corte dei conti dell'Emilia Romagna.
Il quesito
Il comma 1091, articolo 1, della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, derogando al limite previsto dall'articolo
23, comma 2, del Dlgs 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ciò premesso un ente locale
ha chiesto alla Corte dei conti dell'Emilia Romagna se il termine per
l'approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31
dicembre dell'anno di riferimento (così come indicato nell'articolo 163,
comma 1, del Tuel) o può essere correttamente riferito al termine differito
(come previsto dal successivo comma 3, dell'articolo 163 del Tuel), con
specifica legge e/o decreti ministeriali.
La risposta
Per i giudici contabili la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre
dell'anno di riferimento e non anche il termine differito.
D'altronde «nell'ipotesi in cui il bilancio di previsione dell'ente non sia
approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all'articolo 163 limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale. E ciò in base alla sottesa
considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell'ente che
non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva
approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una
gestione di tipo provvisorio dell'ente e limitata a specifiche attività».
Conclusioni
La posizione assunta dalla magistratura contabile emiliana spiazza molti
enti locali che hanno seguito l'indicazione fornita dall'Ifel nella nota di
approfondimento al comma 1091 della legge di bilancio 2019 dello scorso 28
febbraio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.03.2019).
L'istituto, infatti, aveva ritenuto soddisfatta la condizione imposta dalla
legge anche con l'approvazione del bilancio di previsione entro i termini
prorogati dal decreto ministeriale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
Imu solo con bilancio entro il 31 dicembre.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti
dell'Emilia Romagna mette in seria crisi l'erogazione dell'incentivo Imu e
Tari introdotto dall'ultima legge di bilancio.
Il
parere 18.09.2019 n. 52
ha stabilito infatti che solo gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione entro il 31 dicembre possono stanziare le somme previste per
l'incentivazione del personale.
La norma della legge di bilancio
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza,
aveva reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere somme
incentivanti in favore del personale addetto al raggiungimento degli
obiettivi del settore entrate. Subordinando tuttavia questa facoltà ad
alcune condizioni. In primo luogo, si tratta di una scelta facoltativa,
rimessa alla discrezione degli enti locali interessati.
Inoltre, la destinazione di una somma non superiore al 5 per cento del
maggior gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti Imu e Tari
dell'esercizio fiscale precedente al potenziamento delle risorse comunali
degli uffici entrate e al trattamento accessorio del personale impiegato nel
raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, è subordinata
all'approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Il rispetto del termine di approvazione del bilancio
La norma aveva ingenerato dei dubbi sull'individuazione dei suddetti
termini. In particolare per il bilancio di previsione, poiché l'articolo 151
del Dlgs 267/2000 stabilisce che il bilancio di previsione deve essere
approvato entro il 31 dicembre dell'anno precedente, prevedendo tuttavia che
«i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell'Interno,
d'intesa con il ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la
conferenza Stato-città e autonomie locali, in presenza di motivate esigenze.
L'Ifel, nella nota del 28.02.2019, ritiene che la condizione richiesta dalla
norma è comunque soddisfatta laddove l'ente approvi il bilancio entro i
termini stabiliti dal decreto ministeriale di proroga.
La Corte dei conti dell'Emilia Romagna, con la deliberazione sopra
richiamata, ha invece ritenuto che il termine per l'approvazione del
bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento di cui
all'articolo 163, comma 1, del Dlgs 267/2000 e non anche il termine
differito di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ciò in quanto l'articolo
163 del Tuel limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività
tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
La Corte sostiene, infatti, che l'ente, nel caso di mancata approvazione del
bilancio nel termine, versa in una fase di criticità in quanto non è in
grado di corrispondere al fondamentale obiettivo dell'approvazione del
bilancio di previsione, dal che discende ex lege una gestione di tipo
provvisorio e limitata a specifiche attività.
La conclusione è tranchant. L'ente che non ha rispettato il termine del 31
dicembre, pur rispettando il termine fissato dal decreto di proroga, non può
stanziare per quell'anno (l'esercizio di riferimento) il fondo calcolato
sugli accertamenti Imu e Tari. Mettendo fuori gioco la maggior parte dei
Comuni italiani.
Considerazioni
Questa conclusione, a modesto parere di chi scrive, non tiene tuttavia conto
che laddove il legislatore, per consentire agli enti di beneficiare di
eventuali norme agevolative, ha voluto vincolare l'approvazione del bilancio
di previsione alla data del 31 dicembre, lo ha fatto espressamente. Si
pensi, ad esempio, al comma 905 dell'articolo 1 della medesima legge di
bilancio, che ha concesso agli enti che approvano il bilancio entro il 31
dicembre di non applicare alcuni limiti di spesa e di essere dispensati da
alcuni adempimenti, oppure all'analoga norma contenuta nell'articolo 21-bis,
comma 2, del Dl 50/2017.
L'aver fatto riferimento genericamente al termine previsto dal Tuel è indice
della volontà della norma di tenere conto di eventuali differimenti del
termine, sovente dovuti peraltro a cause non imputabili agli enti locali.
Inoltre, seppure è vero che l'ente che non approva il bilancio entro il 31
dicembre si trova a operare nei primi mesi dell'anno successivo in esercizio
provvisorio, tuttavia non si comprende come questa circostanza possa
impedire all'ente di stanziare le somme relative al fondo con l'approvazione
del bilancio di previsione (o meglio dopo l'approvazione del rendiconto
dell'esercizio precedente), incidendo i vincoli dell'esercizio provvisorio
sull'ente solo fino all'approvazione del documento contabile previsionale.
Una siffatta interpretazione appare molto penalizzante, considerando che
spesso i Comuni sono costretti ad approvare il bilancio dopo il termine
ordinario del 31 dicembre (peraltro sempre storicamente prorogato) a causa
delle mancate certezze sulle risorse disponibili, definite solitamente dallo
Stato a ridosso della fine dell'anno, con l'approvazione della legge di
bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO -
TRIBUTI: Con
riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei
dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune
all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della
legge n. 145 del 2018, il termine per l’approvazione del bilancio deve
intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000.
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Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula
seguente richiesta di parere: con riferimento alla possibilità di istituire
l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi
erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del
disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se
il termine per l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con
riferimento al 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000 o può essere correttamente riferito al termine
differito, ai sensi dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con
apposita legge e/o decreti ministeriali”.
...
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno
di riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non
anche il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n.
267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1,
comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio
regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso,
relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI,
nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal
conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di
qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2,
del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al
personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate,
anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune
all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005,
n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il
beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento
tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica
qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare
risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali
alla condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti dall’art.
163, comma 1, Tuel1, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di
previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno
precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non
sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all’art. 163 citato, limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità
in cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al
fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di
previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo
provvisorio dell’ente e limitata a specifiche attività.
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11. Se il bilancio di previsione non è approvato
dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione
finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della
contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione
provvisoria. Nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti
nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione
o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti
determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e
degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato.
2. Nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro
il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il
bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma
3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei
corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per
l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria. Nel corso della
gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da
provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate
dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni
patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria
l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già
assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali
esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le
spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte
e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare
che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente.
3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto
del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151,
primo comma, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa
con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. Nel corso
dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e
gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate
riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri
interventi di somma urgenza. Nel corso dell'esercizio provvisorio è
consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.
4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria l'ente trasmette al tesoriere l'elenco dei residui presunti alla
data del 1° gennaio e gli stanziamenti di competenza riguardanti l'anno a
cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria previsti
nell'ultimo bilancio di previsione approvato, aggiornati alle variazioni
deliberate nel corso dell'esercizio precedente, indicanti -per ciascuna
missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e l'importo del fondo
pluriennale vincolato.
5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare
mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi
precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3, per importi
non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del
bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già
impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo
pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) tassativamente
regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in
dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il
mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti,
impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti.
6. I pagamenti riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi
di cui al comma 5 sono individuati nel mandato attraverso l'indicatore di
cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
7. Nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le
variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle
riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie
alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni
riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi
in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento
delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della
gestione dei dodicesimi (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52). |
luglio 2019 |
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TRIBUTI: I
Comuni di questa Unione lamentano che molti titolari di
esercizi non sono in regola con i pagamenti di tasse e
tributi locali e vorrebbero condizionare l'efficacia delle
autorizzazioni alla regolarizzazione, analogamente a quanto
effettuato per il DURC in altri settori.
E' possibile e legittima una delibera di questo genere?
Una risposta positiva è stata data a tale quesito, che
rappresenta una problematica diffusissima a livello
nazionale, con la L. 28.06.2019, n. 58 "Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 30.04.2019, n.
34, recante misure urgenti di crescita economica e per la
risoluzione di specifiche situazioni di crisi"
(cosiddetto Decreto Crescita).
La norma introdotta dispone "Gli enti locali competenti
al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei
relativi rinnovi, alla ricezione di segnalazioni certificate
di inizio attività, uniche o condizionate, concernenti
attività commerciali o produttive possono disporre, con
norma regolamentare, che il rilascio o il rinnovo e la
permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica
della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte
dei soggetti richiedenti".
L'art. 15-ter in questione, inserito durante l'esame presso
la Camera dei deputati, consente agli enti locali di
subordinare alla verifica della regolarità del pagamento dei
tributi locali da parte dei soggetti richiedenti il rilascio
di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi
rinnovi, inerenti attività commerciali o produttive.
Tale previsione, per essere applicabile, deve passare da una
approvazione mediante delibera consiliare nella forma del
regolamento comunale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34
L. 28.06.2019, n. 58, art. 1
(10.07.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
TRIBUTI:
La salvaguardia degli equilibri di bilancio e la modifica
delle tariffe ed aliquote dei tributi comunali.
Domanda
In vista dell’ormai prossima salvaguardia degli equilibri di
bilancio (art. 193 del TUEL) entro il mese di luglio, è
possibile deliberare una riduzione delle aliquote dei
tributi comunali?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento al comma 3 dell’art.
193 del TUEL. Esso prevede che ai fini della salvaguardia
degli equilibri di bilancio, fermo restando quanto stabilito
dal successivo art. 194, comma 2, in materia di
rateizzazione dei debiti fuori bilancio riconosciuti come
legittimi, per l’anno in corso e per i due successivi
possono essere utilizzate le seguenti risorse:
a) le possibili economie di spesa;
b) tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti
dall’assunzione di prestiti e di quelle con specifico
vincolo di destinazione;
c) i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali
disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento
a squilibri di parte capitale.
Solo in ultima battuta, qualora non vi si possa provvedere
con le modalità sopra elencate è possibile impiegare la
quota libera del risultato di amministrazione.
Per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga
all’art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n. 296,
l’ente può infine modificare le tariffe e le aliquote
relative ai tributi di propria competenza entro la data
ultima del 31 luglio di ogni anno, contestualmente
all’adozione del provvedimento consiliare di salvaguardia
degli equilibri di bilancio. Il suddetto comma 169 della L.
296/2006 prevede che le tariffe e le aliquote relative ai
tributi siano deliberate entro la data fissata da norme
statali per la deliberazione del bilancio di previsione.
Se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio,
purché entro il suddetto termine, esse hanno comunque
effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento. In caso di
mancata approvazione entro detto termine, si intendono
prorogate di anno in anno le tariffe e le aliquote già
vigenti. La leva fiscale è pertanto uno degli strumenti che
il Legislatore ha messo a disposizione degli enti locali per
fronteggiare situazioni di squilibrio del proprio bilancio
che dovessero emergere in sede di salvaguardia.
In merito alla possibilità di ridurre le tariffe e le
aliquote relative ai propri tributi la risposta al quesito
del lettore è negativa. In tale senso si è infatti espresso
il Mef con risoluzione n. 1/DF del 29/05/2017, nella quale
si afferma che: “(…) la variazione delle aliquote e delle
tariffe contemplata da tale ultima disposizione –in quanto
costituisce una delle misure preordinate al ripristino del
pareggio di bilancio, da esperire laddove “i dati della
gestione finanziaria facciano prevedere un disavanzo”– deve
necessariamente consistere in un aumento delle aliquote o
tariffe medesime, non potendosi invocare l’esigenza di
salvaguardare gli equilibri di bilancio al fine di procedere
ad una modifica in diminuzione oltre il termine del bilancio
di previsione. (…)”.
Lo stesso orientamento era già stato formulato dalla Corte
dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Calabria,
nella deliberazione n. 5 del 30.01.2014, nella quale si
precisava come, in virtù dell’art. 193, comma 3, del TUEL, “(…)
nel solo caso in cui risulti necessario per il ripristino
degli equilibri di bilancio, l’ente locale può modificare
(evidentemente in aumento) le tariffe e le aliquote relative
ai tributi di propria competenza” entro il termine
previsto dalla norma stessa.
Quindi, concludendo: un eventuale manovra sulle tariffe e
aliquote tributarie può essere, in sede di salvaguardia,
solo in aumento. Fino allo scorso anno ciò poteva essere
fatto solo per i tributi esclusi dal blocco disposto
dall’art. 1, comma 26 della L. 208/2015 (ovvero: TARI e
contributo di sbarco).
In tal senso si era espressa la Corte dei Conti, Sezione
regionale di controllo per la Lombardia, con parere n. 133
del 27.04.2016. Da quest’anno l’aumento può invece avvenire
su tutti i tributi locali, essendo venuto meno il suddetto
blocco a partire dal 01/01/2019 (01.07.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
aprile 2019 |
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APPALTI - TRIBUTI: Compensazione
fra debiti per prestazioni rese a favore del comune e crediti tributari.
Domanda
Il mio ufficio ragioneria deve pagare la fattura di una ditta fornitrice per
una prestazione resa a favore del comune. La ditta, tuttavia, è destinataria
di un avviso di accertamento IMU già notificato dall’ufficio tributi e
divenuto definitivo, ad oggi ancora impagato.
E’ possibile procedere alla loro compensazione?
Risposta
Il quesito del lettore propone un caso non certo infrequente per gli enti
locali, in cui il comune si trova ad essere contemporaneamente debitore e
creditore verso il medesimo soggetto. Come noto gli uffici ragioneria, prima
di procedere all’emissione dei mandati di pagamento di importo superiore a
cinquemila euro già devono procedere alle verifiche previste dall’art.
48-bis del dPR 602/1973.
Quest’ultimo infatti stabilisce che le amministrazioni pubbliche di cui all’
articolo 1, comma 2, del dlgs. 30.03.2001, n. 165, e le società a prevalente
partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il
pagamento di un importo superiore a cinquemila euro, verifichino, anche in
via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento
derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare
complessivo pari almeno a tale importo. In caso affermativo, non procedono
al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione
competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di
riscossione delle somme iscritte a ruolo.
Nell’ipotesi prospettata dal lettore, dove il comune stesso è soggetto
creditore, si ritiene che debba trovare applicazione, per analogia, l’art.
23 del dlgs. 472/1997. Questo, al comma 1, prevede infatti che “Nei casi
in cui l’autore della violazione o i soggetti obbligati in solido, vantano
un credito nei confronti dell’amministrazione finanziaria, il pagamento può
essere sospeso se è stato notificato atto di contestazione o di irrogazione
della sanzione o provvedimento con il quale vengono accertati maggiori
tributi, ancorché non definitivi. La sospensione opera nei limiti di tutti
gli importi dovuti in base all’atto o alla decisione della commissione
tributaria ovvero dalla decisione di altro organo”. Il successivo comma
2 stabilisce che “In presenza di provvedimento definitivo, l’ufficio
competente per il rimborso pronuncia la compensazione del debito.”.
Si ritiene che detta procedura (ovvero la compensazione fra il debito del
comune con la ditta per la prestazione resa, ed il credito tributario
vantato dal comune stesso verso quest’ultima) non sia una semplice facoltà,
bensì un vero e proprio obbligo. La tesi è altresì confermata anche
dall’art. 8, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, di cui
alla L. 212/2000, laddove si stabilisce che “L’obbligazione
tributaria può essere estinta anche per compensazione”.
Si ritiene infine opportuno che tale previsione trovi adeguata conferma
anche all’interno del regolamento comunale delle entrate tributarie
dell’ente stesso, con la previsione di un articolo ad hoc.
Dal punto di vista contabile, infine, la compensazione dovrà essere
rispettosa del principio di bilancio dell’integrità, come previsto dall’art.
162, comma 4, del TUEL. Sarà necessario pertanto che l’ufficio ragioneria
emetta l’ordinativo di pagamento a valere sul relativo capitolo di spesa e
l’ordinativo di incasso sul corrispondente capitolo di entrata. L’operazione
non darà luogo ad alcun movimento monetario in caso di compensazione
integrale.
Viceversa, in caso di compensazione parziale, ovvero nell’ipotesi in cui
l’importo del debito dell’ente sia superiore all’importo del credito
tributario vantato, il movimento monetario in uscita riguarderà la sola
differenza a debito dell’ente (29.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
TRIBUTI: Impianti
elettrici accatastabili. E tassabili. Comuni a
caccia di nuove basi imponibili.
La crisi economica oramai decennale,
insieme ai sempre minori trasferimenti da parte dello Stato, spinge gli enti
locali, al fine di non aggravare il carico impositivo con maggiori aliquote
nei confronti dei soggetti già stabilmente accertati quali contribuenti, a
verificare la correttezza nei confronti di questi ultimi delle loro basi
imponibili ma, soprattutto, a ricercarne di nuove.
Un esempio, al riguardo, è rappresentato dai soggetti proprietari di
impianti, costituiti da cabine e reti per la distribuzione dell'energia
elettrica i quali avrebbero dovuto includere nella stima di detti impianti
gli elementi caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio,
tale da realizzare un unico bene complesso, prescindendo dalla transitorietà
di detta connessione (per esempio le ciminiere, le pompe, i ventilatori, le
caldaie, le turbine).
Tali soggetti, approfittando di un contrasto giurisprudenziale (poi risolto
dal dl 44/2005) e di prassi (risolto dalla circolare dell'Agenzia del
Territorio n° 6/T del 30/11/2012), hanno spesso ritenuto di non essere
tenuti a presentare alcuna dichiarazione di aggiornamento catastale al fine
di includere nel classamento già accettato dall'Agenzia del Territorio gli
elementi, sui quali non vi era la citata uniformità di prassi e di
giudicato.
Già da alcuni anni, però, diversi enti locali hanno cercato di tradurre in
base imponibile la rilevanza dell'insistenza su un'area di detti impianti
(caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio accatastato)
applicando un concetto già presente nel Regio decreto 652 del 1939, secondo
il quale si considera unità immobiliare urbana ogni parte dell'immobile che
di per sé stessa è utile a produrre un reddito proprio (autonomia funzionale
e reddituale).
Questo ha portato alla formulazione di ricorsi contro le pretese impositive
degli enti locali: dopo giudizi ondivaghi da parte dei magistrati tributari,
un punto fermo sembra sia stato conseguito attraverso la
sentenza 11.04.2019 n. 10125 della Corte di
Cassazione, Sez. V civile, la quale ha stabilito che «il mancato
accatastamento determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto
irragionevole) esenzione dall'Ici, in contraddizione con il principio
costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva
capacità contributiva».
Pertanto bene ha fatto il comune, una volta constatata la rilevanza
catastale degli impianti, a procedere con l'emissione degli avvisi di
accertamento. E' comunque da sottolineare il fatto che i giudici hanno
riconosciuto l'incertezza normativa: ciò ha comportato la non applicazione
delle sanzioni.
Prima che si formasse tale orientamento da parte della Cassazione, tuttavia,
è intervenuto il legislatore a ridurre l'impatto economico sugli operatori
con la legge 208/2015 (cosiddetta «svuotaimpianti»), la quale prevede
che la rendita degli opifici non debba comprendere gli impianti stabilmente
infissi al suolo (cosiddetti «imbullonati»): in tal modo tale rendita
viene significativamente ridotta.
Analogo contrasto in giurisprudenza e nella prassi, si ritrova a proposito
della classificazione catastale di cave, miniere, saline, laghi, stagni da
pesca e tonnare, che l'articolo 18 del Regio decreto 08.10.1931 n. 1572
esclude dalla stima fondiaria e che l'Agenzia del territorio, con nota prot.
75779 del 04.11.2008, ritiene debbano essere iscritte al catasto fabbricati
in base a quanto disposto dall'articolo 2 del decreto ministeriale 28/1998:
in esso si precisa che l'unità immobiliare è costituita da una porzione di
fabbricato, o da un fabbricato, o da un insieme di fabbricati ovvero da “un'area”,
che, nello stato in cui si trova e secondo l'uso locale, presenta
potenzialità di autonomia funzionale e reddituale.
Appare pertanto utile che gli enti locali tentino di recuperare attraverso
gli accertamenti tributari il gettito sinora non accertato su tutte queste
fattispecie (articolo ItaliaOggi del 29.06.2019).
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MASSIMA
4. Il motivo è privo di pregio.
Occorre premettere che, come emerge dagli scritti difensivi
e dalla stessa sentenza impugnata, la società Enel presentò la
dichiarazione Docfa con riferimento ai soli edifici che contengono
la centrale di produzione idroelettrica e, sulla base della rendita
allora proposta, la società ricorrente versò l'imposta comunale per
l'anno 2005, omettendo di versare l'imposta comunale per gli
impianti e gli immobili serventi la centrale, non denunciati con la
menzionata procedura.
In assenza di rendita attribuita sia pure provvisoriamente a
detti impianti (sbarramento del Ba., area serbatoio
Ba., canale di raccolta e area esterna), il criterio utilizzabile
per determinare la base imponibile dell'Ici con riferimento a detti beni era
quello fondato sul valore di bilancio alla stregua del
disposto dell'art. 5 cit., secondo il quale la base imponibile Ici di
immobili ad uso industriale, appartenenti al gruppo D, deve
essere determinata attraverso il criterio del valore contabile ossia
sull'ammontare al lordo delle quote di ammortamento che risulta
dalle scritture contabili.
Sennonché, in mancanza della dedotta produzione da parte
dell'Enel della documentazione contabile richiesta
dall'amministrazione comunale, quest'ultima ha provveduto alla
determinazione della rendita sulla base di una stima redatta da
un professionista incaricato da Bim che ha determinato il valore
adottando il criterio comparativo con immobili similari agli
impianti non dichiarati, come consentito dal quarto comma
dell'art. 5 cit., che è stato abrogato solo con la legge finanziaria
n. 296/2006.
L'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504,
stabilisce che, per i fabbricati non iscritti in catasto (diversi da
quelli di cui al precedente comma 3), il valore va determinato
"con riferimento alla rendita dei fabbricati similari già iscritti".
Per la determinazione del valore degli immobili classificati in
cat. D non iscritti e privi di rendita la mancanza della "distinta
contabilizzazione in bilancio" non permette, difatti, il calcolo del
valore secondo la previsione di cui all'art. 5, terzo comma, del
d.lgs. n. 504 del 1992, ma consente solo l'applicazione della
regola residuale ivi contenuta nell'art. 5, quarto comma, secondo
la quale il valore ai fini I.C.I. deve essere stabilito con riferimento
a fabbricati "similari" già iscritti in catasto (Cass. n. 6609/2013;
Cass. n. 16916 del 2009).
Ed invero -quando trattasi di immobili classificati in cat. D non
iscritti privi di rendita- deve esser riaffermato il principio per cui
deve ritenersi che il legislatore abbia inteso prevedere due criteri tra di
loro subordinati. E cioè dapprima
viene il cosiddetto criterio contabile ex art. 5, comma 3, d.lgs. n.
504 del 1992 e secondariamente il più generale criterio di cui
all'art. 5, comma 4, stesso d.lgs. del calcolo della rendita a mezzo
del confronto con immobili "similari" già censiti.
5. Quanto alla dedotta insussistenza del potere impositivo
dell'ente comunale, in virtù dei commi 335 e 336 della l. n. 311
del 2004 e della l. n. 662 del 1996, art. 3, comma 58, alla
stregua dei quali il comune richiede agli interessati la
presentazione di atti di aggiornamento e se i soggetti interessati
non ottemperano alla richiesta, gli uffici dell'Agenzia del territorio
provvedono alla iscrizione in catasto dell'immobile non
accatastato, si osserva quanto segue.
Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. nn.
5784, 10489 e 21532 del 2013; n. 11477/2018) dalla quale non
vi sono ragioni per discostarsi, il classamento può avvenire
alternativamente o in forza della I. n. 662 del 1996, art. 3, comma
58, oppure ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, commi 335 e
336.
L'opposta interpretazione fa leva sulle disposizioni normative
introdotte dall'art. 1, commi 337 e 336, della legge
30.12.2014 nr. 311 (finanziaria 2005) che avrebbero
«definitivamente sancito la configurazione del sistema dei
rapporti tra contribuente ed amministrazioni preposte alla
determinazione delle rendite catastali nel senso che la deroga alla
efficacia ex nunc degli atti di attribuzione e modificazioni delle
rendite decorrente solo dalla loro notificazione, a cura dell'ufficio
del territorio competente, ai soggetti intestatari della partita, ai
sensi dell'art 74 - è prevista ai fine di sanzionare la renitenza
all'obbligo di presentazione della denuncia catastale».
In realtà le norme citate consentono ai Comuni di avvalersi motu
proprio di uno strumento procedurale per promuovere
l'adeguamento catastale alla reale situazione del patrimonio
immobiliare al fine di garantire maggiore equità fiscale e
contrastare fenomeni di evasione fiscale.
Ne consegue che, come insegna questa Corte (cfr. Cass.
4336/2015), la disciplina di cui all'art. 1, commi 336 e 337, l. 311
del 2004 si applica nel caso in cui sia il Comune a richiedere ai
titolari dei diritti reali la presentazione di atti di
aggiornamento per immobili non dichiarati in catasto.
Nella fattispecie in esame non si verte nella suesposta ipotesi in
quanto l'attribuzione catastale agli immobili di proprietà della
società Enel non è avvenuta su richiesta del Comune secondo la
procedura disciplinata dall'art. 1, comma 336, legge citata.
Nel caso di specie, come in quello considerato nella sentenza n.
19196 del 2006, il Comune «non si è affatto sostituito all'Ufficio
competente nel potere a questi spettante di attribuzione della
nuova rendita all'immobile», ma, constatata la rilevanza catastale
degli impianti, si è mantenuto nell'esercizio dei suoi poteri di
liquidazione e di accertamento dell'imposta, limitandosi a non
riconoscere l'esenzione dei beni in questione (cfr. anche Cass. n.
1706/2016).
La disposizione che impone al comune l'obbligo di richiedere
all'ufficio competente l'attribuzione della rendita nell'ipotesi di
negligenza del contribuente, non esclude il potere del Comune di
provvedere alla determinazione della rendita provvisoria ex art. 5
cit.
L'omessa dichiarazione di taluni beni e il mancato accatastamento
determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto
irragionevole) esenzione dall'ICI, in contraddizione con il principio
costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva
capacità contributiva.
Alla luce del doveroso rispetto di
siffatto principio, l'omessa dichiarazione non può (e non poteva
nemmeno prima del 2006) costituire un impedimento al
riconoscimento della sua imponibilità, in particolare ove tale
mancato accatastamento sia stato determinato da un'omissione
del contribuente, che non abbia provveduto a denunciare al
Catasto i cespiti (Cass. n. 19196 del 2006).
Nelle ipotesi di debenza dell'ICI a seguito di omessa
presentazione della dichiarazione relativamente a immobili non
iscritti in catasto, il Comune può procedere ad accertamento
senza dover preventivamente chiedere l'atto di classamento
all'Agenzia del Territorio (Cass. n. 15534 del 2010): né risulta, o
viene dedotto, che vi sia stata una richiesta da parte della società
contribuente di un accatastamento diverso da quello (o di una
variazione di quello) sulla cui base agisce il Comune ai fini della
determinazione della base imponibile. Sotto questo profilo non
sussiste un difetto di legittimazione passiva del Comune.
Per tali ragioni anche detto motivo è infondato.
Per quanto attiene alla censura specifica relativa all'assenza di
redditualità degli impianti, vale osservare che con l'articolo 1-quinquies del DL n. 44/2005 è stato disposto che "ai sensi e per
gli effetti dell'art. 1, comma 2, della Legge n. 212/2000, l'art. 4
del regio decreto n. 652/1939, convertito con modificazioni dalla
Legge 1249/1939, limitatamente alle centrali elettriche, si
interpreta nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono
costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse,
anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi
mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico
bene complesso. Pertanto, concorrono alla determinazione della
rendita catastale, ai sensi dell'art. 10 del citato regio decreto
legge, gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili
costruiti per le speciali esigenze dell'attività industriale di cui al
periodo precedente anche se fisicamente non incorporati al
suolo".
Tanto precisato, i giudici di legittimità hanno affermato che, in
virtù di quanto disposto dal sopra menzionato articolo 1-quinquies
(norma di natura strettamente interpretativa), le centrali
elettriche non possono escludere gli impianti mobili dal computo
della rendita catastale ai fini dell'Ici, in quanto esse costituiscono
una parte essenziale dell'impianto fisso, senza le quali verrebbe
meno la classificabilità dell'unità immobiliare come centrale
elettrica.
In buona sostanza, questa Corte ha ritenuto che i serbatoi, le
ciminiere, le pompe, i ventilatori, le caldaie, i canali sono elementi
essenziali costitutivi del bene "centrale elettrica", ovvero impianti
necessari al ciclo di produzione dell'energia elettrica, in quanto è
"impossibile separare l'uno dall'altro senza la sostanziale
alterazione del bene complesso... che non sarebbe più nel caso di
specie, una centrale elettrica" (Cass. n. 24060/2006; n.
4030/2012), poiché anch'essi costituiscono una componente
strutturale ed essenziale della centrale stessa, sicché questa
senza quelle non potrebbe più essere qualificata tale, restando
diminuita nella sua funzione complessiva ed unitaria ed
incompleta nella sua struttura (v. Cass. n. 3354 del 2015).
Precisando, altresì, che "In tema di classamento di immobili e
con riferimento all'attribuzione della rendita catastale alle centrali idroelettriche, il D.L. 31.03.2005, n. 44, art.
1-quinquies
convertito in L. 31.05.2005, n. 88, includendo nella stima gli
elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili caratterizzati
da una connessione strutturale con l'edificio, tale da realizzare un
unico bene complesso, e prescindendo dalla transitorietà di detta
connessione nonché dai mezzi di unione a tal fine utilizzati, impone di
tener conto, nel calcolo della rendita, anche del valore
delle turbine, le quali si configurano come elementi essenziali
della centrale, incorporati alla stessa e non separabili senza una
sostanziale alterazione del bene complesso".
Tale disposizione, in quanto volta a dirimere un contrasto
ermeneutico insorto relativamente alla situazione specifica delle centrali elettriche, non appare irragionevole né introduce
un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri beni
classificabili nel gruppo catastale D, tenuto conto della
disomogeneità degl'immobili inclusi in tale categoria, né infine
contrasta con il principio della capacità contributiva, la cui
violazione non è prospettabile in riferimento alla determinazione
della rendita catastale, che non costituisce un'imposta né un
presupposto d'imposta (Cass. n. 13319 del 2006).
Questa
impostazione ermeneutica è stata sostanzialmente seguita anche
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2008,
allorché è stata investita della questione dì legittimità
costituzionale del ricordato del D.L. 31.03.2005, n. 44, art.
1-quinquies.
In proposito, il giudice delle leggi ha affermato che "il
legislatore ha inteso risolvere il contrasto interpretativo con
riferimento alle centrali elettriche (che si era determinato nella
giurisprudenza della Corte di Cassazione), senza innovare il
concetto di immobile per incorporazione, quale emergente dalla
normativa esistente ed evidenziato dalla giurisprudenza in
precedenza richiamata. L'unico effetto (del D.L. 31.03.2005,
n. 44, art. 1-quinquies) è quello di considerare immobili le centrali
elettriche, senza alcuna possibilità per il giudice di fornire una
diversa interpretazione, ma non anche quello di escludere dal
novero degli immobili per incorporazione le altre costruzioni pure
se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che
naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo.
Tutte le infrastrutture diverse dai fabbricati delle centrali, come
gallerie, pozzi, laghi, dighe, turbine, condotte etc., che non
costituivano pertinenze delle stesse, sono beni da sottoporre ad
imposizione".
6. Con la seconda censura, si lamenta violazione degli artt. 1 e 25
del R.D. 1775/1933 e dell'art. 18 del R.D. 08.10.1931, ex art. 360
n. 3 c.p.c., per avere i giudici territoriali escluso la rilevanza, ai
fini impositivi, della gestione in concessione delle opere
idrauliche, in quanto le norme citate escludono dalla stima
fondiaria i laghi con superficie stabilmente occupata per la relativa
industria, ragion per cui le opere idrauliche in questione non sono
suscettibili di attribuzione di rendita catastale.
Deduce la
ricorrente che le sorgenti, fluenti e lacuali, anche se
artificialmente estratte dal suolo acquistano attitudine ad usi di
pubblico interesse e quindi inglobati nelle acque pubbliche, il che
consente il ritorno allo stato, al temine della concessione, delle
opere di raccolta e di derivazione delle acque, degli adduttori delle
acque.
7. Anche detta censura è priva di pregio.
Nel caso di specie, le aree cd. "scoperte", lo sbarramento e il
canale, risultano indispensabili al concessionario del bene
demaniale per svolgere la propria attività imprenditoriale; ciò che
conta ai fini ICI è che ogni area sia suscettibile di costituire
un'autonoma unità immobiliare, potenzialmente produttiva di
reddito.
In particolare, la censura riguarda l'insussistenza dei presupposti per l'imposizione tributaria ai fini ICI ex artt. 1 e 3
della legge 504 del 1992 perché i beni per i quali è stata rilevata
l'omessa presentazione della dichiarazione ICI, in particolare gli
impianti (sbarramento e area serbatoio Baghetto, canale
raccolta e area esterna), attraverso i quali l'ente sfrutta in concessione
le risorse idriche, appartengono al demanio dello
Stato e non alla società concessionaria che non sarebbe quindi
soggetto passivo di imposta.
9. Sennonché, con la l. 1643/1962 le acque pubbliche sono
state affidate ex lege in concessione all'Enel e secondo l'art. 18
legge 23/12/2000 nr. 388 in caso di concessioni su aree demaniali
il concessionario di un bene è soggetto passivo ai fini del
pagamento dell'imposta comunale sugli immobili, come
espressamente prevede la norma. Pertanto appare corretto e
dovuto il recupero dell'imposta ICI da parte del Comune
sussistendone i presupposti impositivi.
Del resto, la CTR ha accertato, con valutazione di fatto, non
censurabile in sede di legittimità, che la concessione per derivare
acqua non ha alcuna attinenza con le opere in questione. |
gennaio 2019 |
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TRIBUTI:
TOSAP, tocca alle Sezioni unite sciogliere il rebus sul soggetto
passivo.
Riguardo il contrasto sorto su estensione e attribuzione della soggettività
passiva della tassa sull'occupazione di suolo pubblico (Tosap), cioè
sull'interpretazione dell'articolo 39 del Dlgs 507/1993, con l'ordinanza
interlocutoria 24.01.2019 n. 2008 la Sez. V civile della Corte di
Cassazione ha rimesso gli atti al primo presidente della stessa.
La vicenda
La commissione tributaria di prima istanza riteneva corretto l'operato della
società di riscossione che per conto del Comune azionava la pretesa
impositiva nei confronti del concessionario per la gestione delle reti
idriche, applicando l'articolo 39 del Dlgs 507/1993, in forza del contratto
di affitto di ramo di azienda della gestione della rete idrica che aveva col
proprietario della rete.
Viceversa, il contribuente opponeva alla propria legittimazione passiva
tributaria il non essere né il proprietario della rete idrica né il titolare
della concessione di occupazione del suolo pubblico, qualità sussistenti in
capo alla società proprietaria della rete.
A parere della Cassazione, i
giudici tributari hanno indebitamente attribuito qualità soggettiva
individuabile in capo alla titolare della concessione di gestione della rete
idrica comunale, a seguito di contratto di affitto di ramo di azienda,
quando esso, tuttavia, non è idoneo a trasferire anche la diversa
concessione o autorizzazione già rilasciata alla proprietaria della rete
idrica per l'occupazione del suolo pubblico.
La concessione Tosap è contenuta in un atto amministrativo, emesso da un
ente locale a favore di un soggetto ben determinato, il proprietario della
rete, il cui trasferimento in capo a un soggetto diverso non presuppone
l'espletamento di un'attività negoziale, ma funzione provvedimentale della
pubblica amministrazione, esternata previa verifica dei presupposti di
legge, individuando altro soggetto titolare della concessione o
autorizzazione occupativa.
È da censurare, pertanto, a parere del giudice di legittimità, la
conclusione raggiunta dalla commissione tributaria, che identifica proprio
nel contratto di fitto di ramo di azienda, la legittimazione passiva al
tributo, equiparabile al concessionario dell'occupazione di suolo pubblico
di cui all'articolo 39.
Ponendosi, piuttosto, il dubbio se tenuta al pagamento fosse ugualmente la
società quale concessionaria della gestione della rete idrica, in qualità di
occupante di fatto del suolo pubblico di insistenza della rete idrica.
Esistono almeno tre orientamenti, comunque, che non consentono una chiara
individuazione del soggetto passivo obbligato al pagamento del tributo.
Primo orientamento...
Deve attribuirsi valore alla sussistenza di concessione o autorizzazione,
essendo rilevante l'occupazione di fatto soltanto quando sia constatato che
l'occupazione del suolo sia avvenuta in assenza di titolo abilitativo in via
di mero fatto e quindi abusivamente.
...secondo...
La Tosap deve essere pagata da chi occupa il suolo pubblico,
indipendentemente dell'esistenza della concessione o autorizzazione.
...e terzo
Tenuto al tributo è il soggetto titolare di concessione o autorizzazione
occupativa, salvo ammettere l'eventualità di una responsabilità solidale
anche in capo all'occupante di fatto. In realtà, la solidarietà passiva non
è prevista dall'articolo 39, mentre la regola generale stabilita
dall'articolo 1294 del codice civile presuppone una fattispecie co-debitoria
originaria.
In conclusione
La risoluzione della questione interpretativa è dirimente anche per le
implicazioni di sistema e le interferenze di principio in rapporto alle
caratteristiche di necessaria tassatività e determinatezza che la norma
impositiva deve necessariamente avere e che non può consentire di colpire
soggetti non precisamente ed espressamente individuati.
Per di più, casi come quelli che vedono, da parte di una medesima
infrastruttura l'occupazione di suolo o sottosuolo pubblico della società
proprietaria della rete, solitamente anche concessionaria, affidata alla
simultanea gestione di plurime società erogatrici-occupanti di fatto (come
trasporti, telecomunicazioni, energia) non è disciplinata né con riferimento
al quantum dovuto da ogni singolo operatore, né in ordine all'imputazione
soggettiva della Tosap.
Pertanto, vista la presenza di orientamenti tra loro opposti che coinvolgono
la tassatività e determinatezza della norma impositiva, sussistono i
presupposti per un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sull'esatta
interpretazione dell'articolo 39 Dlgs 507/1993 e, segnatamente,
sull'estensione della soggettività passiva Tosap, a seconda che l'occupante
di fatto di suolo pubblico possa essere chiamato a rispondere del tributo
anche in presenza, ovvero solo in mancanza, di un soggetto titolare di
concessione o autorizzazione all'occupazione, chiarendo, poi, se tale
responsabilità operi in via esclusiva, assorbente o solidale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2019). |
dicembre 2018 |
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TRIBUTI:
Esonero
TOSAP passi carrai.
Domanda
Questo ente applica la tassa per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche
(TOSAP) e vorrebbe abolire il tributo sui passi carrabili. E’ possibile?
Risposta
Prima di rispondere al quesito è opportuno premettere che tra le occupazioni
permanenti una posizione del tutto specifica è assunta dai passi carrabili,
la cui disciplina originaria (art. 44 del d.lgs. 507/1993) è stata in buona
parte riscritta con la l. 549/1995 (collegata alla finanziaria 1996).
In particolare, la determinazione della superficie da assoggettare ad
imposizione avviene con criteri in parte forfettari, assumendo l’apertura
del passo carrabile per la profondità convenzionale di un metro lineare.
L’ammontare della tassa per metro quadrato, applicabile ai passi carrabili,
è pari a quella ordinaria, stabilita per le altre occupazioni permanenti,
ridotta alla metà. Tale riduzione peraltro non dipende dalla discrezionalità
degli enti impositori, ma è dovuta in base alla legge.
I comuni hanno, invece, la facoltà di applicare il COSAP (canone per
l’occupazione di spazi ed aree pubbliche: art. 63 del d.lgs. 446/1997) in
alternativa alla TOSAP, oppure rimanere in TOSAP ma non applicare la tassa
sui passi carrabili (esonero, peraltro, estensibile ad altre fattispecie,
tra cui le autovetture adibite a trasporto pubblico o privato nelle aree
pubbliche e le condutture idriche necessarie per l’attività agricola nei
comuni classificati montani).
Invero, per quanto riguarda il quesito sull’esonero dei passi carrabili, non
si rinviene nel d.lgs. 507/1993 alcuna previsione specifica ma occorre fare
riferimento a norme contenute in altri provvedimenti legislativi e, in
particolare, nell’art. 6, comma 63, lett. a), della l. 549/1995, e nell’art.
6-quater, comma 4, della l. 410/1997 (che ha introdotto il comma 63-bis
all’art. 6 della l. 549/1995).
In particolare, l’art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995 stabilisce
che i comuni, anche in deroga agli artt. 44 e seguenti del d.lgs. 507/1993,
possono con apposite deliberazioni “stabilire la non applicazione della
tassa sui passi carrabili”.
Inoltre, l’art. 6-quater, comma, 3 della l. 410/97 (di conversione del d.l.
29/9/1997 n. 328) consente ai comuni di attribuire alla relativa delibera
effetto retroattivo.
I comuni hanno pertanto la facoltà, con propria deliberazione, alla quale
può essere attribuita efficacia retroattiva, di esonerare dalla TOSAP le
occupazioni realizzate con passi carrabili per gli anni nei quali non sia
stata applicata la tassa (art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995;
art. 6-quater, comma 3, della l. 410/1997; Ministero Finanze risoluzione
10/02/1999 n. 19/E).
Si evidenzia, infine, che il Ministero delle Finanze ha ritenuto legittimo
il comportamento dell’ente che abbia disciplinato in sede regolamentare
l’applicazione del beneficio dell’esenzione ai soli passi carrabili di uso
agricolo (Risoluzione n. 101/E del 04/07/2000), vale a dire i passi
carrabili utilizzati da veicoli agricoli o da mezzi comunque impiegati
nell’esercizio normale delle attività di cui all’art. 2135 c.c. (17.12.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
settembre 2018 |
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TRIBUTI: Notifiche
avvisi accertamento PEC.
Domanda
È possibile effettuare, da parte dell’ufficio tributi, la notifica degli
avvisi di accertamento a mezzo posta elettronica certificata (PEC)?
Risposta
Occorre premettere che nel nostro ordinamento giuridico ci sono diverse
disposizioni che consentono di effettuare la notifica a mezzo posta
elettronica certificata (PEC).
La prima, di carattere generale, è contenuta nel codice di procedura civile.
Si tratta dell’art. 149-bis del c.p.c. (disposizione introdotta nel 2010)
che consente di effettuare la notifica a mezzo PEC, ma impone l’utilizzo
dell’agente notificatore, quindi l’ufficio non può procedere direttamente
nei confronti del contribuente.
La seconda, di carattere settoriale, è contenuta nell’art. 26 del Dpr
602/1973 e riguarda la notifica a mezzo PEC o con raccomandata AR della
cartella di pagamento (la c.d. cartella esattoriale emessa da Equitalia, ora
Agenzia delle Entrate-Riscossione).
Una terza disposizione, anch’essa di carattere settoriale, riguarda la
notifica a mezzo PEC dei verbali al codice della strada ed è contenuta
nell’art. 20 del d.l. 69/2013 conv. L. 98/2013, la cui attuazione è rimessa
ad un decreto ministeriale, adottato solo recentemente (si veda il DM
Interno del 20/2/2018).
Per quanto riguarda i tributi locali, il comma 161 della legge n. 296/2006
consente di effettuare la notifica degli avvisi di accertamento “anche a
mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento”. E’ quindi
possibile notificare gli avvisi di accertamento dei tributi comunali con
semplice raccomandata a.r. (busta bianca), in alternativa alla notifica a
mezzo posta prevista per gli atti giudiziari (ex legge 20/11/1982 n. 890)
effettuata con la busta verde.
Per quanto riguarda la notifica degli avvisi di accertamento a mezzo PEC,
inizialmente la giurisprudenza si è mostrata piuttosto oscillante, in parte
contraria (cfr. CTP di Milano n. 6087/2014), in parte favorevole (cfr. CTP
Matera n. 447/2015, CTP Bergamo n. 16672016).
Poi nel 2016 è stata introdotta una disposizione che consente di effettuare
la notifica degli atti tributari a mezzo PEC, a partire dal 01.07.2017. Si
tratta dell’art. 7-quater commi da 6 a 8 del D.L. 193/2016 conv. L.
225/2016, norma tuttavia non riferita espressamente ai tributi locali
trattandosi di un’integrazione all’art. 60 del DPR 600/1973, riguardante la
notifica degli atti di accertamento delle imposte sui redditi. Risulta
quindi dubbia la possibilità di effettuare la notifica a mezzo PEC per gli
avvisi di accertamento dei tributi locali.
La questione è stata recentemente risolta dal d.lgs. n. 217 del 13/12/2017
(art. 7, comma 1-quater), in vigore dal 27.01.2018, secondo cui “I
soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, notificano direttamente presso i
domicili digitali di cui all’articolo 3-bis i propri atti, compresi i
verbali relativi alle sanzioni amministrative, gli atti impositivi di
accertamento e di riscossione e le ingiunzioni di cui all’articolo 2 del
regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, fatte salve le specifiche disposizioni
in ambito tributario. La conformità della copia informatica del documento
notificato all’originale è attestata dal responsabile del procedimento in
conformità a quanto disposto agli articoli 22 e 23-bis”.
La norma consente pertanto di notificare gli atti di accertamento e le
ingiunzioni fiscali a mezzo PEC e quindi la risposta al quesito è positiva.
In ordine al procedimento da seguire, va evidenziato in particolare che la
relata di notifica, creata con word, open office, ecc., deve essere
trasformata, senza scansione, direttamente in PDF testo e firmata
digitalmente. Un’altra regola da osservare riguarda la questione degli
allegati al messaggio.
Per essere valido, l’allegato deve essere firmato digitalmente e avere
un’estensione del file p7m. Infine, la notifica via PEC può dirsi
perfezionata per il soggetto notificante nel momento in cui viene generata
la ricevuta di accettazione prevista dall’articolo 6, comma 1, del D.P.R.
11.02.2005, n. 68, mentre, per il destinatario, nel momento in cui viene
generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 6, comma 2,
del D.P.R. n. 68/2005 (art. 3-bis, comma 3, della L. 53/1994)
(24.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
agosto 2018 |
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TRIBUTI: Canone
per interramento di condutture di pubblici
servizi
E' illegittimo
l’assoggettamento al canone non ricognitorio,
previsto dall’art. 27 del codice della
strada, nelle ipotesi di utilizzo del
sottosuolo della sede stradale che -come nel
caso di condutture elettriche- non
impediscano o limitino in alcun modo la
fruizione pubblica della sede viaria, ferma
restando la legittima imposizione del canone
per il tratto di tempo durante il quale le
lavorazioni di posa e realizzazione
dell’infrastruttura a rete impediscono la
piena fruizione della sede stradale.
Il codice della strada ha assoggettato a
canone unicamente le occupazioni idonee a
sottrarre il bene all’uso pubblico (id est:
peso imposto al bene pubblico) ciò che non
accade nell’ipotesi di occupazioni che si
sostanzino nell’interramento di condutture
finalizzate all’esercizio di pubblici
servizi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.08.2018 n. 2030 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Oggetto della domanda di annullamento
proposta con il ricorso in epigrafe sono il
regolamento con il quale il Comune di
Carnate ha disciplinato l’applicazione del
canone non ricognitorio previsto dall’art.
27 del d.lgs. n. 285 del 1992 nonché il
conseguente atto applicativo.
Parte ricorrente ritiene che detto
regolamento contrasti con il parametro
normativo di riferimento avendo
illegittimamente assoggettato al canone di
cui trattasi gli «impianti elettrici
insistenti sia sul suolo sia nel sottosuolo
di proprietà comunale» in violazione
disposizioni di carattere «speciale»
(art. 120 r.d. M. 1775/1933, art. 1, c. 6,
l. n. 239 del 2004, art. 4 l. n. 1501/1961 e
art. 6 d.m. n. 258/1998). Osserva, altresì,
che ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. n. 285
del 1992 il canone deve essere, in tesi,
determinato sulla base sia del peso imposto
al bene pubblico, sia del lucro che il
concessionario trae dall’utilizzazione del
bene stesso.
Con nota del 28.10.2013, in applicazione di
siffatta disciplina, il Comune ha chiesto il
pagamento delle relative somme previa
trasmissione, da parte della Società, di
taluni dati inerenti all’impianto.
...
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di
difetto di interesse sollevata da parte
resistente sul rilievo che la nota del
28.10.2013, pur nella sua configurazione di
elemento istruttorio e malgrado non sia
stata impugnata, in realtà costituisce atto
rilevante che esprime la valutazione
dell’Amministrazione di ritenere la
particolare fattispecie compresa nella
previsione regolamentare come tale
assoggettabile al canone patrimoniale (TAR
Lombardia, Milano, n. 265 del 2018).
Sul punto deve essere evidenziato che, a
differenza del precedente di questo
Tribunale dato dalla sentenza n. 1078/2018
riguardante un caso in cui il Comune aveva
trasmesso una mera comunicazione di avvenuta
adozione del regolamento, nella vicenda per
cui è causa l’Amministrazione ha evidenziato
i criteri da applicarsi per la
quantificazione delle somme ed ha richiesto
alla ricorrente la conferma dei dati
contenuti nelle cartografie in possesso
dello stesso Comune, circostanza, questa,
che dà atto della ‘soggettività passiva’
della ricorrente.
Nel merito il ricorso è meritevole di
accoglimento.
Come si è detto, parte ricorrente ha
evidenziato che in realtà il d. lgs. n. 285
del 1992 ha assoggettato a canone unicamente
le occupazioni idonee a sottrarre il bene
all’uso pubblico (id est: peso
imposto al bene pubblico) ciò che non accade
nell’ipotesi di condutture elettriche quali
quelle nel caso di specie installate dalla
ricorrente.
La questione, in relazione ad analoghe
controversie, è stata già solcata dalla
giurisprudenza la quale ha, in modo del
tutto condivisibile, ritenuto che, in
realtà, nessuna norma primaria autorizzi le
amministrazioni locali ad applicare il
canone non ricognitorio di cui all’art. 27
del Codice della Strada ad occupazioni che
si sostanzino nell’interramento di
condutture finalizzate all’esercizio di
pubblici servizi.
Sul punto ritiene il Collegio di non dovere
discostarsi dall’approdo interpretativo del
Giudice d’appello secondo cui,
valorizzando una lettura del Codice
della Strada «come corpo normativo inteso
alla sicurezza delle persone nella
circolazione stradale, e rispetto al quale
interesse generale le sue norme sono
evidentemente serventi», è stata esclusa
la legittima esigibilità del canone non
ricognitorio nelle ipotesi di utilizzo del
sottosuolo della sede stradale le quali
-come nel caso che qui rileva- non
impediscano o limitino in alcun modo la
fruizione pubblica della sede viaria, ferma
restando la legittima imposizione del canone
per il tratto di tempo durante il quale le
lavorazioni di posa e realizzazione
dell’infrastruttura a rete impediscono la
piena fruizione della sede stradale.
Ne discende l’accoglimento della domanda di
annullamento del Regolamento impugnato. |
giugno 2018 |
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TRIBUTI: I
bassi consumi svelano la prima casa fittizia. Lo scarso uso di elettricità
cancella l’esenzione Ici/Imu per l’abitazione principale.
La Corte di Cassazione (Sez.
VI civile -
ordinanza 07.06.2018 n. 14793) giudica decisivo per il
disconoscimento dell'abitazione principale ai fini Ici i bassi consumi
elettrici. Decisione importante anche per l’Imu, soprattutto per le case
turistiche.
La norma Ici qualificava come abitazione principale quella dove il soggetto
passivo avesse la residenza anagrafica. Precisava poi che l’abitazione
principale è quella in cui c’è la dimora abituale di contribuente e
famiglia. Quindi, in Ici poteva esserci un’abitazione principale anche senza
di residenza anagrafica.
Nell'Imu l’abitazione principale è quella in cui proprietario e famiglia «dimorano
abitualmente e risiedono anagraficamente». Non basta la residenza, serve
la dimora abituale. Se i famigliari hanno stabilito dimora abituale e
residenza in immobili diversi nel Comune, le agevolazioni si applicano per
un solo immobile.
Per le Finanze (circolare
18.05.2012 n. 3/DF),
se i componenti del nucleo hanno stabilito residenza e dimora abituale in
due abitazioni in due Comuni diversi, è possibile considerale entrambe
abitazioni principali.
La Cassazione conferma la sentenza di secondo grado che ha «ritenuto che
l'elemento presuntivo dei bassi consumi elettrici nel triennio fosse una
sufficiente fonte di convincimento per ritenere superata la presunzione di
residenza effettiva nel Comune di Rio dell’Elba, fondata sulle risultanze
anagrafiche, in quanto, elemento sintomatico di una presenza nell'abitazione
oggetto d'imposizione non abituale».
La sentenza è importante perché individua indici presuntivi sulla
sussistenza della dimora abituale, quindi rilevanti anche ai fini Imu, utili
per intercettare quei casi di “spacchettamento” tipico delle case
turistiche. Oltre ai consumi ridotti e all'assenza del medico curante,
rileva il lavoro o la frequenza scolastica dei figli in altro Comune.
Contrariamente a quanto sostenuto nella circolare n. 3/2012, anche la sola
circostanza che componenti dello stesso nucleo abbiano la residenza in
Comuni diversi è determinante, perché anche la norma Imu qualifica come
abitazione principale quella dove il soggetto passivo «e il suo nucleo
familiare» dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2018).
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MASSIMA
Con ricorso in Cassazione affidato a un unico motivo, nei cui
confronti il comune di Rio nell'Elba ha resistito con controricorso, i
ricorrenti impugnavano la sentenza della CTR della Toscana, sezione di
Livorno, relativa ad alcuni avvisi d'accertamento ICI per il 2008-2010, per
il mancato riconoscimento dell'agevolazione riferita all'immobile adibito ad
abitazione principale.
I ricorrenti deducono il vizio di violazione di legge, in particolare,
dell'art. 2729 c.c. e dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504/1992, in
relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., in quanto, i giudici
d'appello avevano ritenuto bastevole un solo elemento presuntivo, quello
relativo alla esiguità dei consumi elettrici, per non riconoscere ai fini
ICI il diritto all'agevolazione prevista per l'abitazione principale, pur in
presenza di residenza anagrafica presso l'immobile oggetto di controversia.
Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma
semplificata.
Il motivo di ricorso è infondato.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello che "In
tema di ICI, ai fini del riconoscimento dell'agevolazione prevista dall'art.
8 del d.lgs. n. 504 del 1992 per l'immobile adibito ad abitazione
principale, le risultanze anagrafiche rivestono un valore presuntivo circa
il luogo di residenza effettiva e possono essere superate da prova
contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento e suscettibile di
apprezzamento riservato alla valutazione del giudice di merito"
(Cass. ord.
n. 12299/2017,
n. 13062/2017).
Nel caso di specie, premesso che il ricorso rispetta i criteri di cui agli
artt. 360 e 366 c.p.c., i giudici d'appello,
con accertamento di fatto sufficientemente motivato, hanno
ritenuto, in disparte la scelta
del medico curante effettuata dai ricorrenti presso altro comune,
che l'elemento presuntivo dei bassi consumi elettrici nel triennio,
fosse una sufficiente fonte di convincimento, per ritenere superata la
presunzione di residenza effettiva nel comune di Rio dell'Elba, fondata
sulle risultanze anagrafiche, in quanto, elemento sintomatico di una
presenza nell'abitazione oggetto d'imposizione non abituale.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in
dispositivo. |
maggio 2018 |
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TRIBUTI: Dimore
diverse, esenzione Ici ko. Coniugi non separati legalmente.
Dimore diverse, esenzione Ici ko Se marito e moglie dimorano abitualmente in
due immobili diversi, e non sono separati legalmente, nessuno dei coniugi ha
diritto a fruire dell'esenzione Ici riconosciuta dalla legge per
l'abitazione principale.
È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
17.05.2018 n. 12050.
Per la Cassazione, un'abitazione può essere ritenuta principale soltanto se
nella stessa dimorano sia il contribuente che i suoi familiari, con la
conseguenza che «per il sorgere del diritto alla detrazione non è
sufficiente che il contribuente dimori abitualmente nell'unità immobiliare
se il coniuge, non separato legalmente, dimori altrove». L'articolo 8
decreto legislativo 504/1992, che disciplinava l'esenzione Ici, riconosceva
l'esenzione per l'immobile adibito a dimora del contribuente e dei suoi
familiari.
Sulla questione si sono espressi in maniera diversa giudici di legittimità e
di merito. Per esempio, la Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo,
IV Sez., con la sentenza 692/2017, ha stabilito che se uno dei
coniugi risiede per motivi di lavoro in un comune diverso da quello in cui
dimorano i propri familiari, non perde il diritto all'esenzione Ici per
l'immobile adibito ad abitazione principale. Gli impegni di lavoro, infatti,
giustificano una frattura della convivenza abituale all'interno della stessa
casa, ma non fanno venir meno la destinazione ad abitazione principale della
famiglia dell'unità immobiliare.
Va posto in rilievo che la nozione di prima casa per l'Imu è un po' diversa
rispetto a quella prevista per l'Ici dal citato articolo 8. In base a quanto
disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale si
intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come
unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare
dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
Tuttavia, nel caso in cui
i componenti del nucleo familiare abbiano fissato la dimora abituale e la
residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le
agevolazioni per l'abitazione principale e per le relative pertinenze in
relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile. Per
pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle
classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima
di una per ciascuna categoria, anche se iscritte in catasto unitamente
all'immobile adibito ad abitazione.
In presenza delle condizioni di legge gli immobili adibiti ad abitazione
principale sono esenti, tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1,
A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il
trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione (articolo
ItaliaOggi del 04.07.2018).
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MASSIMA
Con ricorso in Cassazione affidato a due motivi, illustrati da
memoria, nei cui confronti il comune di Bologna non ha spiegato difese
scritte, i ricorrenti -coniugi separati di fatto- impugnavano la sentenza
della CTR dell'Emilia Romagna, relativa a due avvisi d'accertamento ICI 2004
per il mancato riconoscimento dell'agevolazione riferita all'immobile
adibito ad abitazione principale.
Con un primo motivo denunciano il vizio di violazione di legge, in
particolare, dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504/1992 anche in rapporto
al combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost. in quanto, erroneamente, i
giudici d'appello avevano negato ai fini ICI il diritto all'agevolazione
prevista per l'abitazione principale ai coniugi separati di fatto solo
perché non separati giudizialmente.
Con un secondo motivo, i medesimi ricorrenti denunciano il vizio di
violazione di legge, in particolare, dell'art. 1, comma 161, della legge
296/2006, in quanto, erroneamente, i giudici d'appello, avevano ritenuto
tempestivi gli avvisi d'accertamento ICI riguardanti l'anno d'imposta 2004,
notificati il 24.12.2010, benché il termine di decadenza fosse spirato il
31.12.2009.
Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma
semplificata.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello che "In
tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della
detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi,
salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del
d.lgs. n. 504 del 1992 (come modificato dall'art. 1, comma 173, lett. b),
della l. n. 296 del 2006, con decorrenza dall'01.01.2007), occorre che il
contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo
propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla
detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo (in
applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata,
che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che l'immobile
"de quo" costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non della di lui
moglie)" (Cass. ord.
n.
15444/2017, Cass. ordd.
n. 12299/2017,
n. 13062/2017, 12050/2010).
Nel caso di specie, per affermazione degli stessi ricorrenti, le distinte
abitazioni oggetto degli atti impositivi non costituivano, nell'anno in
contestazione, dimora abituale non solo propria ma neppure del proprio
nucleo familiare.
Anche il secondo motivo appare infondato, dal momento che gli avvisi
avevano ad oggetto non già la rettifica di dichiarazioni o denunce infedeli,
incomplete o inesatte, bensì proprio l'omessa presentazione della
dichiarazione ICI; con conseguente applicabilità del termine del 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o la denuncia
dovevano essere presentate (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2), in
quanto, i coniugi erano tenuti a denunciare ai fini ICI fin dal 2004 (con
termine per l'adempimento entro il 31.07.2005) la cessazione della
situazione di dimora di entrambi nello stesso immobile.
Pertanto, alla data di notifica degli atti impositivi, il 24.12.2010, l'ente
impositore non era decaduto dalla potestà impositiva, essendo l'accertamento
intervenuto entro il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo
dalla scadenza dell'obbligo di dichiarazione.
Va, infine, disattesa l'eccezione di giudicato sollevata dai ricorrenti in
memoria con riferimento alla sentenza della Commissione tributaria regionale
dell'Emilia Romagna n. 763/8/16 del 21.03.2016, passata in giudicato, che,
per le annualità 2005 e 2006 e previo accertamento della separazione di
fatto tra i coniugi Gi.Ge. e Pa.Sa., ha riconosciuto spettare ad entrambi i
nominati contribuenti l'agevolazione per l'abitazione principale.
Infatti nel presente giudizio il giudice di appello non ha compiuto nessun
accertamento sulla separazione di fatto tra i suddetti coniugi, limitandosi
su tale punto a richiamare le deduzioni degli appellanti, ma ha soltanto
statuito in diritto,
affermando il principio generale che un'abitazione può
essere ritenuta principale soltanto se nella stessa dimorano sia il
contribuente che i suoi familiari, con la conseguenza che «per il sorgere
del diritto alla detrazione...non è sufficiente che il contribuente dimori
abitualmente nell'unità immobiliare se...il coniuge, non separato
legalmente, dimori altrove», per giungere alla conclusione «che
nessuno dei due immobili, abitati in via esclusiva uno dalla Sa. e
l'altro dal Ge., può essere considerato abitazione principale ai sensi
della norma in commento».
Pertanto, essendo diversi i presupposti in fatto accertati nella sentenza di
appello del presente giudizio (abitazione in due differenti immobili da
parte di coniugi non separati legalmente) e quelli oggetto dell'accertamento
effettuato nella sentenza n. 763/8/16 (trasferimento della dimora abituale «per
la frattura del rapporto di convivenza, cioè di una situazione di fatto
consistente nella inconciliabilità della prosecuzione della coesistenza,
sotto lo stesso tetto, delle persone legate dal rapporto coniugale», con
conseguente superamento della presunzione di coincidenza tra "casa
coniugale" e "abitazione principale"), deve concludersi che il
giudicato formatosi sulla sentenza n. 763/8/16 non ha efficacia vincolante
nel presente giudizio.
Infatti, il principio di diritto affermato nella sentenza n. 763/8/16 è
riferito ad una fattispecie concreta fondata sull'accertamento della
separazione di fatto dei coniugi contribuenti, ossia della frattura del
rapporto di convivenza per la inconciliabilità della prosecuzione della
coesistenza, mentre i principio di diritto affermato al giudice di appello
nel presente giudizio ha riguardato il differente presupposto di fatto
dell'abitazione dei due coniugi non separati legalmente in due differenti
immobili.
La mancata predisposizione di difese scritte da parte dell'ente impositore,
esonera il Collegio dal provvedere sulle spese Va dato atto della
sussistenza dei presupposti, per il versamento, da parte del ricorrente,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso. |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Il diritto di accesso è riconosciuto come diritto
soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del
quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a
divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale
vincolata.
Le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione”
ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”.
Dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso.
L’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso”.
Va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel
senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura
di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in
senso ampio in termini di utilità per la difesa di un
interesse giuridicamente rilevante.
La “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla
L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di
accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo.
In definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante.
---------------
In via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi.
Deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale.
La L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
L’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma.
---------------
Come ha statuito Consiglio di Stato, ferma, in linea di
principio, l’esclusione del diritto di accesso nei
procedimenti tributari sancita dalla legge [art. 24, co. 1,
lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241], vale comunque il
comma 7, primo periodo, del medesimo art. 24, secondo il
quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti
l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici”.
La pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto
occasione di rilevare la Sezione, svolgendo considerazioni
dalle quali non vi è motivo per discostarsi in questa sede,
una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 24
conduce alle seguenti conclusioni:
I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario è
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza
nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo
e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che
sono inaccessibili i documenti relativi all’attività
investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia
di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio
alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori
di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della
conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed
operative);
II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei limiti di
legge, garantisce l’accesso a quei documenti amministrativi
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere
i propri interessi giuridici e pone come unico limite il
fatto che i documenti contengano dati sensibili o
giudiziari;
III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione
soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una
concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato>>.
Invero, si registra un orientamento giurisprudenziale oramai
costante ad avviso del quale “l'art. 24 della legge n.
241/1990, nella parte in cui esclude il diritto di accesso
con riferimento ai procedimenti tributari –per i quali
restano ferme le particolari norme che li regolano– va
interpretato nel senso che l'inaccessibilità agli atti
relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla
fase di mera "pendenza" del procedimento tributario, in
quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che
segue la conclusione del procedimento con l'adozione del
provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta
dovuta, sulla base degli elementi reddituali, che conducono
alla quantificazione del tributo”.
---------------
L'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua
proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve
qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la
documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un
rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica
soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari
consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza
a quei giudizi.
Peraltro, questo TAR ha sostenuto che il diritto di accesso
non può essere neppure subordinato all’avvio di una
controversia sulla pretesa di merito, al fine di provocare
l’ordine del giudice rivolto a un terzo o a una pubblica
amministrazione per l’esibizione di documenti ex art.
210-213 cpc.
Non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il
principio di proporzionalità, e neppure rispettoso del
principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere
che il diritto di accesso sia esercitato in prima battuta
attraverso la via giurisdizionale e attivando la
controversia di merito (in definitiva con uno scopo
esplorativo).
La sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice.
---------------
Rilevato:
- che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto,
costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati
procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati
in apposito elenco;
- che non si profila, dunque, un controllo generalizzato
sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale
indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere
l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle
medesime;
- che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di
riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di
conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel
rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel
trattamento;
- che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni relative a
persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non
necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che risultino comunque
sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente
destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla
richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le
modalità meno pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato;
- che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati
sensibili e super-sensibili;
- che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti
ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art.
4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se
effettivamente un documento contenesse un’informazione di
natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria
la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per
chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di
un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella
specifica informazione;
- che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di
proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo
ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto
professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto
di accesso risulta comunque prevalente una volta che si
accerti la necessità di disporre della documentazione per la
difesa in giudizio;
- che, su una tematica affine, questa Sezione ha affermato che “I
modelli 770 sono in effetti dichiarazioni di soggetti
privati, o di amministrazioni che agiscono come datori di
lavoro, tuttavia diventano documenti amministrativi nel
momento in cui sono acquisiti alla banca dati fiscale.
L’acquisizione determina il passaggio di tali documenti
dalla sfera privata del rapporto di lavoro alla sfera
pubblica del controllo sull’adempimento delle obbligazioni
tributarie …. Una volta entrate nella sfera pubblica, le
informazioni contenute nelle dichiarazioni inviate
all’Agenzia delle Entrate sono trattate per finalità
pubblicistiche di natura tributaria, e dunque non sono più
nella disponibilità dei soggetti tra cui è intercorso il
rapporto di lavoro. Ne consegue che i documenti contenenti i
dati fiscali possono essere oggetto di accesso da parte di
terzi, quando questi ultimi dimostrino di avere un interesse
prevalente rispetto al diritto alla riservatezza delle parti
del sottostante rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di
accesso l’unico contraddittore è l’amministrazione
tributaria, e non sussistono controinteressati da
coinvolgere necessariamente nella procedura”;
- che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che
possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti
deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione
amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le
ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un
interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti.
---------------
Evidenziato:
- che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo
ad un’informazione qualificata, a fronte del quale
l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare
gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
- che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione”
ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”;
- che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso;
- che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso”;
- che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel
senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura
di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada
intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di
un interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V – 01/08/2017 n. 3831);
- che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata
dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto
di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo
(Consiglio di Stato, sez. VI – 30/03/2017 n. 1453);
- che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante;
Atteso:
- che la Società Agricola ricorrente, che svolge attività di
allevamento di bovini e produzione di latte negli immobili
di proprietà in località “Cascina Valle” riferisce di aver
instaurato numerosi contenziosi tributari con il Comune di
Caravaggio, sugli avvisi di accertamento relativi alla tassa
rifiuti (TARSU – TARES - TARI);
- che espone di avere da ultimo notificato, in data 04/01/2018 e
innanzi alla Commissione Tributaria competente, un ulteriore
ricorso avverso l’avviso di accertamento TARI relativo
all’annualità 2016;
- che, con nota del 22/12/2017, la ricorrente ha chiesto al Comune
intimato “copia delle denunce/autocertificazioni ai fini
TARSU/TARES/TARI, verbali di sopralluogo e verifiche, Docfa,
avvisi di pagamento e/o accertamento TARSU/TARES/TARI quanto
meno per il periodo 2012/2017 e relativi alle imprese che
svolgono nel Comune di Caravaggio attività analoga a quella
della mia assistita”;
- che l’istanza è stata accompagnata dall’indicazione di 37 Società
che si troverebbero in condizioni analoghe a quelle in cui
versa la Società esponente, la quale ha addotto la necessità
di espletare attività difensiva in ambito tributario;
- che il Comune di Caravaggio, nella risposta del 22/01/2018 (doc.
1) ha accolto solo parzialmente la pretesa ostensiva,
mettendo a disposizione i documenti di interesse con
cancellazione dei dati identificativi delle Società ossia
denominazione, ubicazione, riferimenti catastali (doc. 5);
- che la difesa comunale ha precisato come, nello specifico, sia
stata fornita copia di tutta la documentazione richiesta
–ossia importi, denunce e accertamenti TARES/TARI con
eccezione dei DOCFA (non detenuti dall’Ente locale)–
oscurando i dati relativi alla ragione sociale delle Società
agricole interessate dagli avvisi, nonché i dati catastali
delle stesse;
- che ha puntualizzato come la maggior parte delle Società agricole
oggetto della richiesta, ritualmente sollecitate dal Comune,
abbiano comunicato il proprio dissenso all’accesso;
- che l’esponente lamenta che la documentazione fornita, non
permettendo di risalire all’intestatario degli avvisi e
all’ubicazione delle Società agricole indicate nell’istanza,
impedirebbe di verificare il corretto operato
dell’amministrazione comunale e l’insussistenza di eventuali
disparità di trattamento tra operatori attivi nel medesimo
settore economico;
- che non sarebbe possibile il raffronto con la realtà fattuale,
per cui verrebbe precluso il sindacato di legittimità
dell’azione amministrativa;
- che l’ulteriore tentativo di interlocuzione non ha avuto esito;
Considerato:
- che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di Stato, ad.
plenaria – 04/02/1997 n. 5);
- che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale;
- che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
- che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma
(Consiglio di Stato, sez. VI – 09/04/2018 n. 2158);
Dato atto:
- che la difesa del Comune ha affermato che i documenti richiesti
sarebbero del tutto irrilevanti per l’avvio dell’azione
giudiziaria;
- che gli stessi non sarebbero direttamente lesivi delle posizioni
giuridiche della ricorrente, non sarebbero idonei a spiegare
effetti diretti o indiretti nei suoi confronti e non
rivestirebbero influenza alcuna nel contenzioso tributario
pendente (per l’inconfigurabilità della denunciata disparità
di trattamento);
- che l’istanza si porrebbe altresì in contrasto con il disposto
dell'art. 24, comma 3, della L. 241/1990, integrando un
controllo generalizzato sull'operato della pubblica
amministrazione;
- che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede
di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a
valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse
palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento
al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
- che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra
l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva
sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento
funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del
documento richiesto (cfr. in proposito TAR Campania Napoli,
sez. VI – 29/06/2016 n. 3287);
- che, infatti, la divulgazione degli atti identificativi delle
Aziende agricole del territorio soddisfa una concreta
aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare
dell’interesse a prenderne cognizione al fine di raffrontare
le situazioni di fatto e orientare le proprie scelte
successive, anche in sede giurisdizionale;
Rilevato:
- che, come ha statuito Consiglio di Stato, sez. IV – 06/11/2017 n.
5128, ferma, in linea di principio, l’esclusione del diritto
di accesso nei procedimenti tributari sancita dalla legge
[art. 24, co. 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241],
vale comunque il comma 7, primo periodo, del medesimo art.
24, secondo il quale “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”;
- che la pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto
occasione di rilevare la Sezione (11.02.2011, n. 925;
26.09.2013, n. 4821; 13.03.2014, n. 1211), svolgendo
considerazioni dalle quali non vi è motivo per discostarsi
in questa sede, una lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 24 conduce alle seguenti conclusioni:
I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario
è temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza
nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo
e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che
sono inaccessibili i documenti relativi all’attività
investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia
di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio
alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori
di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della
conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed
operative: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2002, n. 1977);
II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei
limiti di legge, garantisce l’accesso a quei documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici e pone come unico
limite il fatto che i documenti contengano dati sensibili o
giudiziari;
III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione
soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una
concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007, n.
55; sez. V, sez. IV, 29.01.2014, n. 461; sez. V, 23.03.2015,
n. 1545)>>;
- che si registra un orientamento giurisprudenziale oramai
costante, al quale aderisce TAR Puglia Lecce, sez. II –
22/12/2017 n. 2021, che ha richiamato TAR Lombardia Brescia,
sez. II – 02/05/2017 n. 573 ad avviso del quale “l'art.
24 della legge n. 241/1990, nella parte in cui esclude il
diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari
–per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano– va interpretato nel senso che l'inaccessibilità
agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente
limitata alla fase di mera "pendenza" del procedimento
tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza
nella fase che segue la conclusione del procedimento con
l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento
dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali,
che conducono alla quantificazione del tributo (TAR Lazio,
II-ter, 3260/2017, TAR Catanzaro, sez. II, 08/03/2016, n.
469; TAR Napoli, sez. VI, 14/01/2016, n. 171; Consiglio di
Stato, sez. IV, 13/11/2014, n. 5588)” (si veda anche TAR
Sicilia Catania, sez. III – 31/07/2017 n. 1983);
Evidenziato:
- che, nel caso che occupa il Collegio, la ricorrente sostiene che
dall’istanza di accesso emerge la prova della consistenza
dell’interesse ad utilizzare nel procedimento tributario i
documenti richiesti, e che è stato rappresentato l’intento
di verificare un’eventuale disparità di trattamento ai fini
TARSU, TARI e TASI tra imprese agricole operanti nella
stessa zona;
- che i plurimi ricorsi tributari proposti attestano la sussistenza
di un effettivo legame “tra la finalità dichiarata ed il
documento richiesto” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V –
05/02/2014 n. 556);
- che l'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua
proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve
qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la
documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un
rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica
soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari
consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza
a quei giudizi;
- che, peraltro, questo TAR (cfr. sentenza sez. I – 20/05/2014 n.
535) ha sostenuto che il diritto di accesso non può essere
neppure subordinato all’avvio di una controversia sulla
pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice
rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per
l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc;
- che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio
di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di
ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto
di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via
giurisdizionale e attivando la controversia di merito (in
definitiva con uno scopo esplorativo);
- che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice.
Rilevato:
- che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto,
costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati
procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati
in apposito elenco;
- che non si profila, dunque, un controllo generalizzato
sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale
indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere
l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle
medesime;
- che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di
riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di
conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel
rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel
trattamento;
- che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni relative a
persone fisiche (e in quanto tali «dati personali»)
non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che risultino comunque
sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente
destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla
richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le
modalità meno pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato;
- che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati
sensibili e super-sensibili;
- che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti
ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art.
4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se
effettivamente un documento contenesse un’informazione di
natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria
la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per
chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di
un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella
specifica informazione;
- che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di
proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo
ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto
professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto
di accesso risulta comunque prevalente una volta che si
accerti la necessità di disporre della documentazione per la
difesa in giudizio;
- che, su una tematica affine, questa Sezione (cfr. sentenza
20/05/2014 n. 535) ha affermato che “I modelli 770 sono
in effetti dichiarazioni di soggetti privati, o di
amministrazioni che agiscono come datori di lavoro, tuttavia
diventano documenti amministrativi nel momento in cui sono
acquisiti alla banca dati fiscale. L’acquisizione determina
il passaggio di tali documenti dalla sfera privata del
rapporto di lavoro alla sfera pubblica del controllo
sull’adempimento delle obbligazioni tributarie …. Una volta
entrate nella sfera pubblica, le informazioni contenute
nelle dichiarazioni inviate all’Agenzia delle Entrate sono
trattate per finalità pubblicistiche di natura tributaria, e
dunque non sono più nella disponibilità dei soggetti tra cui
è intercorso il rapporto di lavoro. Ne consegue che i
documenti contenenti i dati fiscali possono essere oggetto
di accesso da parte di terzi, quando questi ultimi
dimostrino di avere un interesse prevalente rispetto al
diritto alla riservatezza delle parti del sottostante
rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di accesso l’unico
contraddittore è l’amministrazione tributaria, e non
sussistono controinteressati da coinvolgere necessariamente
nella procedura”;
- che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che
possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti
deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione
amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le
ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un
interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti
(Consiglio di Stato, sez. III – 05/06/2015 n. 2768) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2018 n. 479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2018 |
 |
TRIBUTI: Aree
di atterraggio non confermate esenti.
La potenzialità edificatoria di un'area che abbia perso l'edificabilità può
essere trasferita su altre aree individuate dall'amministrazione o su altre
possedute dallo stesso proprietario (così dette aree di atterraggio);
tuttavia, per poter esercitare una pretesa impositiva il diritto di
trasferimento della capacità edificatoria dovrà essere contrattualmente
concluso tra le parti.
Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza
27.04.2018 n. 2745/1/2018 emessa dalla Sez. I della Commissione
tributaria regionale del Lazio.
La ricorrente aveva impugnato un accertamento relativo a Ici per l'anno
d'imposta 2008; l'accertamento riguardava una maggiore imposta per un'area
situata nel comune di Roma e ricadente nel comprensorio di Tor Marancia. La
ricorrente aveva riferito che le volumetrie erano state individuate in un
comprensorio destinato a parco pubblico e quindi non suscettibile di
utilizzo edificatorio; il comune di Roma aveva replicato che l'area
riguardante il comprensorio di Tor Marancia, originariamente individuata
come edificabile, era stata dichiarata di interesse archeologico, con
conseguente cancellazione della stessa dalle zone a destinazione
urbanistica.
Tuttavia, era stato avviato un procedimento di perequazione
urbanistica con il trasferimento della capacità edificatoria su determinate
aree di atterraggio. Si trattava, quindi, di stabilire se a seguito di detta
perequazione, nel senso del trasferimento della potenzialità edificatoria su
di un'area diversa da quella originariamente individuata (cosiddetta di
atterraggio), fosse dovuta l'Ici relativa a questa area, in base alla
capacità edificatoria trasferita.
La Ctp di Roma ha accolto il ricorso. La
Commissione regionale del Lazio ha confermato la decisione annullando
l'accertamento del comune capitolino. I giudici regionali hanno infatti
rilevato come, nella fattispecie in esame, non veniva portato a termine il
procedimento in base al quale l'area in questione cosiddetta di atterraggio
sarebbe dunque risultata effettivamente edificabile e attribuita alla
ricorrente.
Il collegio ha rilevato come in mancanza della sottoscrizione di
un'apposita convenzione tra il comune e la società ricorrente, potesse
configurarsi soltanto un'aspettativa di edificabilità da imputare a un'altra
area, detta appunto di «atterraggio». Il collegio regionale ha concluso
ritenendo che la particolarità della situazione dedotta ammetteva la
compensazione delle spese di lite.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) La ricorrente ne aveva eccepita l'illegittimità, sostenendo che le aree
di proprietà non erano più edificabili e che le volumetrie erano state
individuate nel comprensorio di Tor Marancia che non risulta area
edificabile nel Piano regolatore, a seguito del divieto assoluto di
edificabilità nel frattempo imposto, per destinazione a parco pubblico.
Con
la sentenza impugnata, la Ctp ha accolto il ricorso, rilevando la fondatezza
dei motivi di gravame, in quanto ( ) presupposti per l'Ici sono: il possesso
di un'area edificabile, l'individualità e l'identificabilità dell'area
posseduta, la sua utilizzabilità a scopo edificatorio, il collegamento
dell'imposta con un diritto reale; ( ) Eccepisce l'appellante comune
l'illegittimità della sentenza impugnata, sostenendo: 1) l'illegittimità
della decisione in merito alla ritenuta inedificabilità dell'area
(comprensorio Tor Marancia) e della mancata assegnazione del sito di
atterraggio. L'appello proposto dal Comune di Roma Capitale è da ritenersi
infondato e va quindi respinto per i motivi di seguito esposti. ( )
Pur non essendo del tutto priva di pregio, la prospettazione dell'ente
locale non appare condivisibile, perché difetta di concretezza, valorizzando
la situazione soprattutto sotto l'aspetto teorico, quanto meno in parte
disconnesso dalla realtà effettiva, nella quale i tempi di realizzazione
della compensazione urbanistica si sono dilatati in maniera indiscutibile, a
causa della lentezza della complessa procedura amministrativa in materia,
che se si fosse conclusa in termini più tempestivi, avrebbe probabilmente
evitato l'insorgere dell'attuale controversia.
Appare decisiva la circostanza, evidenziata dalla Società ( ) che, ai fini
che qui interessano, la procedura di compensazione può dirsi essersi
conclusa, tuttalpiù (essendo in pratica ancora incompiuta), al momento
dell'adozione della delibera consiliare del comune n. 18 del 12.02.2008 e quindi in epoca successiva all'annualità di imposta contestata.
Poiché tale fatto è pacifico in atti, va ritenuto che al momento del
pagamento dell'imposta 2007 non sussisteva il presupposto per considerare la
società in possesso di un'area edificatoria ( )
In altri termini, il sorgere
del diritto del proprietario, da un lato, e la correlata pretesa impositiva
dell'ente locale, dall'altro, devono coincidere nello stesso momento. Rebus
sic stantibus, invece, la singolare situazione di limbo del diritto di
edificazione, in cui si versava ancora nell'annualità di imposta
considerata, non giustifica la pretesa impositiva, nei termini in cui è
stata contestata, rendendo non corretta la richiesta integrazione.
P.Q.M.
Rigetta l'appello. Spese compensate (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.07.2018). |
TRIBUTI: Tributi locali, per l'accertamento fa fede il timbro di spedizione.
L'avviso di accertamento Ici è legittimo se notificato entro il termine di
decadenza di 5 anni certificato dal timbro postale di spedizione, anche se
ricevuto dal destinatario oltre il termine di legge.
È quanto ha affermato
la ctr di Roma, III Sez., con la sentenza
24.04.2018 n. 2657/3/2018. La stessa regola vale anche per gli altri tributi
locali.
Si tratta di una questione che forma spesso oggetto di contenzioso,
nonostante la Corte costituzionale (sentenza 477/2002) abbia già da tempo
chiarito che i termini operano in maniera diversa per il notificante e il
destinatario. Mentre per il primo conta la data di spedizione dell'atto
impositivo, per il contribuente i termini per l'impugnazione decorrono dalla
ricezione.
Per il giudice d'appello, infatti, «al fine del perfezionarsi della notifica
per il soggetto notificante, ciò che fa fede è il termine entro cui l'avviso
di accertamento viene consegnato all'ufficio di posta». In questo senso si è
espressa la Consulta, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del
combinato disposto dell'articolo 149 del codice di procedura civile e
dell'articolo 4, comma 3, della legge 890/1982, nella parte in cui
prevedevano che la notificazione si perfezionasse per il notificante alla
data di ricezione dell'atto da parte del destinatario. Secondo la
Commissione regionale, il principio generale affermato dalla Corte
costituzionale è «riferibile ad ogni tipo di notificazione ed in particolare
a quella eseguita a mezzo del servizio postale».
Va ricordato che la Finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha fissato in modo
chiaro i termini per l'accertamento dei tributi locali e per il recupero
delle somme non versate o versate in ritardo, rispetto a quanto stabilito
dalla precedente disciplina. Anche per la riscossione coattiva è stato
imposto un termine, a pena di decadenza, per la notifica del titolo
esecutivo.
Gli enti locali, in base all'articolo unico, comma 161 della
legge 296/2006, possono accertare la mancata presentazione delle
dichiarazioni e gli omessi versamenti entro il 31 dicembre del quinto anno
successivo a quello in cui i relativi obblighi avrebbero dovuto essere
assolti dal contribuente. Entro lo stesso termine possono, inoltre,
rettificare le dichiarazioni incomplete o infedeli e irrogare le relative
sanzioni.
Per la riscossione coattiva, a mezzo cartella o ingiunzione,
l'articolo 1, comma 163, della suddetta legge ha previsto che debba essere
effettuata entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui
l'accertamento sia divenuto definitivo (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
marzo 2018 |
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TRIBUTI: Ancora
un «no» agli incentivi IMU.
Dalla Corte dei conti ancora una volta una delibera negativa rispetto alla
possibilità di prevedere incentivi per i dipendenti degli uffici tributi dei
Comuni per il recupero dell'evasione Imu, non essendo ammissibili sul tema
interventi regolamentari da parte degli enti locali.
La pronuncia
Con il
parere 29.03.2018 n. 72 la Corte dei
conti della Sicilia ha affrontato la questione degli incentivi ai dipendenti
degli uffici tributi degli enti locali per il recupero dell’evasione
tributaria.
La corte ha escluso la possibilità di prevedere tali incentivi, rammentando
che in base al principio dell’onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici, previsto dall’articolo 2, comma 3, e dall’articolo 24,
comma 3, del Dlgs 165/2001, e dall'articolo 45 del medesimo decreto, solo la
legge può prevedere qualunque forma di incentivo, insieme al Ccnl. Ciò è
quanto è disciplinato ai tempi dell’Ici con l’articolo 3, comma 57, della
legge 662/1996 e con l’articolo 59, lettera p), del Dlgs 446/1997.
In
particolare, il primo consentiva ai Comuni di destinare una quota del
gettito Ici al potenziamento dell’ufficio tributi, mentre la seconda norma
ha permesso loro di utilizzare una parte di tale gettito per incentivare gli
addetti degli uffici tributi. Il Ccnl del 01.04.1999 aveva previsto
l’erogazione ai dipendenti di incentivi stabiliti da specifiche norme di
legge (articolo 15, comma 1, lettera k).
La Corte dei conti Sicilia, riprendendo un orientamento già evidenziato
dalla Sezione regionale di controllo del Veneto (22/2013), della Lombardia
(577/2011) e della Sardegna (127/2011), ribadisce che la deroga al principio
di onnicomprensività della retribuzione non è stato previsto dalla legge
sull’Imu e non può essere introdotto da una norma regolamentare del Comune.
Le norme
In effetti, l’articolo 13 del Dl 201/2011 non richiama le norme contenute
nell’articolo 59 del Dlgs 446/1997, riferite espressamente all’imposta
comunale sugli immobili.
Sulla questione lo schema di contratto dei dipendenti degli enti locali
prevede all’articolo 18 che ai titolari di posizione organizzativa, in
aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, possono essere
erogati anche, tra l’altro, i trattamenti accessori riferiti ai compensi che
specifiche disposizioni di legge espressamente stabiliscono a favore del
personale, in coerenza con le medesime. Trattamenti tra cui la norma include
i compensi incentivanti connessi alle attività di recupero dell’evasione dei
tributi locali, in base all’articolo 3, comma 57, della legge 662/1996 e
dall’articolo 59, comma 1, lettera p), del Dlgs 446/1997.
La norma contrattuale richiama le disposizioni di legge che consentivano
l'erogazione di incentivi per il recupero dell'evasione Ici, ma non può
estendere l’applicazione degli stessi a un tributo per i quali non sono
previsti.
Anche se certo desta qualche perplessità una tale previsione riferita a un
tributo ormai abrogato da oltre 6 anni, per il quale sono anche scaduti i
termini di accertamento. Pur se va rammentato che l’Aran, con parere 1949,
ha ritenuto che «solo a conclusione dei progetti di recupero presi in
considerazione nell'anno di riferimento del contratto integrativo, sarà
certa l'entità delle risorse effettivamente riscosse e, quindi, anche
l’ammontare delle stesse, che può essere erogato sotto forma di incentivi e
secondo le regole fissate in sede di contrattazione integrativa, al
personale impegnato nei progetti stessi.
Nella determinazione di tali
risorse, evidentemente, rientreranno anche quelle che, pure oggetto delle
attività di recupero dell’evasione dell’anno di riferimento, saranno
effettivamente riscosse solo nell'anno successivo. Infatti, si tratta sempre
degli effetti delle attività poste in essere dal personale interessato dai
progetti nell'anno di riferimento e, quindi, rappresentano anche la misura
del grado di raggiungimento degli obiettivi dei progetti stessi e
dell’entità degli incentivi da riconoscere allo stesso».
Tale situazione, come più volte richiesto dall’Anutel anche a livello
ufficiale, sta generando un effetto disincentivante nei confronti dei
dipendenti degli uffici tributi degli enti locali e sta spingendo sempre di
più verso l’esternalizzazione delle attività di accertamento tributario,
esternalizzazione che se in alcuni casi può fornire un reale supporto agli
enti, comporta comunque un depauperamento di conoscenze e di capacità
specifiche all’interno dei Comuni che rischia di essere difficilmente
recuperabile in futuro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.04.2018).
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MASSIMA
In conclusione, la Sezione, in riferimento al quesito, ritiene, nel
merito, che in assenza di uno specifico intervento
legislativo di deroga al richiamato principio di onnicomprensività della
retribuzione dei dipendenti pubblici, non è legittimo riconoscere un
compenso incentivante aggiuntivo in favore del personale impiegato in
progetti di recupero dell’evasione ed elusione IMU. |
TRIBUTI:
Se il fabbricato è accatastato come unità collabente F/2, ai
fini ICI/IMU non può essere tassato quale fabbricato e
neppure come area edificabile.
Il fabbricato accatastato come unità
collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile
come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile
neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al
subentro della imposta sul fabbricato ricostruito.
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Considerato:
- che il motivo di ricorso è fondato;
- che infatti un fabbricato "collabente"
(cioè in rovina, dall'etimo latino collabi,
collapsus, ossia in collasso) come quello di specie è
privo di ogni potenzialità funzionale e reddituale;
- che infatti mentre un'area libera da cascami
edilizi versa in condizione di pronta edificabilità, un'area
impegnata da rovine come quella di specie esige interventi
di demolizione e bonifica necessari a reintegrare in
concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non
potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche
sotto il profilo della capacità contributiva del
proprietario;
- che quindi il fabbricato accatastato come unità
collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile
come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile
neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al
subentro della imposta sul fabbricato ricostruito
(art. 5, comma 6, d.lgs. n. 504 del 1992: Cass. 19.07.2017,
n. 23801);
- che inoltre la sottrazione ad imposizione del
fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria
catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base
imponibile, non può essere recuperata prendendo a
riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree
edificabili, costituita dal valore venale del terreno sul
quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede
l'imposizione ICI per le aree edificabili, e non per quelle
già edificate
(Cass. 19.07.2017, n. 17815);
- che infine l'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504
consente al contribuente, in presenza di variazioni
permanenti intervenute sull'unità immobiliare ed aventi
rilevanza sull'ammontare della rendita catastale, di
determinare l'imponibile sulla base di una rendita presunta,
costituita da quella dei fabbricati similari, fino a quando,
su richiesta del contribuente medesimo, non sia intervenuto
un nuovo accatastamento (Cass. 23.02.2010, n. 4308);
- che pertanto, nel caso di un fabbricato divenuto
inagibile, l'imponibile, fino al nuovo accatastamento, non
può essere determinato sulla base del valore dell'area
edificabile, risultante dalla demolizione del rudere
medesimo, essendo "area" e "fabbricato"
distinte categorie
(Cass. 23.02.2010, n. 4308);
- che pertanto, assorbiti gli altri motivi di ricorso, il ricorso
va accolto, entrambe le sentenze impugnate vanno cassate e,
non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve
essere decisa nel merito, con l'annullamento sia dell'avviso
di accertamento relativo all'ICI per il 2005 (r.g.n.
3551/2014) che quello relativo all'ICI per il 2006 (r.g.n.
3548/2014);
- che solo in "tempi recenti si è consolidata
una specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità
collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione
sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia
dell'area d'insistenza perché già edificata"
(Cass. 30.10.2017, n. 25774; Cass. 19.07.2017, n. 23801;
Cass. 19.07.2017, n. 17815) e che pertanto ciò impone di
compensare le spese processuali di ogni fase e grado (Corte
di Cassazione, Sez. V civile,
ordinanza 28.03.2018 n. 7653). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Istanza di rimborso di
imposte - Ufficio non competente - Trasmissione dell'istanza
all'ufficio competente - Collaborazione tra uffici della
pubblica amministrazione e tra questa ed il contribuente -
Art. 12 d.lgs. n. 347/1990 - Statuto dei diritti del
contribuente - Art. 111 Cost. - Impugnazione del
silenzio-rifiuto dell'amministrazione finanziaria -
Decadenza del contribuente dal diritto al rimborso -
Interruzione.
In tema di rimborso delle imposte sui redditi, disciplinato
dall'art. 38, secondo comma, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602,
la presentazione di un'istanza di rimborso ad un organo
diverso da quello territorialmente competente a provvedere
costituisce atto idoneo non solo ad impedire la decadenza
del contribuente dal diritto al rimborso, ma anche a
determinare la formazione del silenzio-rifiuto impugnabile
dinanzi al giudice tributario, sia perché l'ufficio non
competente (quando non estraneo all'Amministrazione
finanziaria e, nella specie, coincidente con una diversa
direzione regionale) è tenuto a trasmettere l'istanza
all'ufficio competente, in conformità delle regole di
collaborazione tra organi della stessa Amministrazione, sia
alla luce dell'esigenza di una sollecita definizione dei
diritti delle parti, ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n.
4773 del 2009; conf. n. 15180/2009, n. 2810/2009, n.
27117/2016) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 06.03.2018 n. 5203 - link a
www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Aree
edificabili, valori sanabili. Possibile rettificare l'importo determinato
dal comune.
I comuni hanno il potere di accertare i valori delle aree edificabili in
misura superiore a quelli fissati dallo stesso ente, con delibera del
consiglio comunale o della giunta, se questi valori risultino inferiori a
quelli indicati in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in
possesso o a conoscenza. La ratio della norma di legge che consente ai
comuni di fissare dei valori predeterminati ha la finalità di ridurre il
contenzioso con i contribuenti, ma non può impedire la rettifica dei valori
dichiarati che non sono in linea con i valori di mercato degli immobili.
Questo importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione,
Sez. V civile, con
l'ordinanza 02.03.2018 n. 4969.
Per la Cassazione, la fissazione dei valori delle aree fabbricabili non può
avere altro effetto che quello di autolimitare il potere di accertamento
Ici, ma la stessa regola vale per Imu e Tasi, poiché il comune si obbliga a
ritenere congruo il valore delle aree fabbricabili qualora sia stato
dichiarato dal contribuente in misura non inferiore a quella stabilita nel
regolamento comunale. I giudici di legittimità hanno posto in evidenza che
«il valore minimo delle aree edificabili integra un elemento presuntivo
suscettibile di doverosa riconsiderazione nel caso in cui il valore venale
del bene così determinato risulti contraddetto da quello, maggiore, indicato
in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in possesso o a
conoscenza».
Valori delle aree e presupposti per l'imposizione. Per Ici, Imu e Tasi il
valore di un'area edificabile deve essere determinato in base ai criteri
fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre
stabilire il valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio
dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato.
La norma
prevede che occorra fare riferimento a zona territoriale di ubicazione
dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per
eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e,
infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse
caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta
comunale, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico, ma non
sono vincolanti nella determinazione del quantum.
Possono essere anche
determinati con delibera del consiglio comunale, come nel caso in esame, ma
secondo la Cassazione non può essere un ostacolo l'indicazione preventiva se
il loro valore di mercato, risultante da atti di compravendita di beni
aventi analoghe caratteristiche, dovesse risultare di importo più elevato.
Del resto la norma sopra citata prevede un parametro ad hoc, che è il valore
di mercato delle aree.
Non è cambiato nulla per l'imposizione delle aree edificabili con la
disciplina Imu rispetto all'Ici. Così come per la Tasi, che ha la stessa
base imponibile dell'Imu. Il legislatore, infatti, richiama espressamente le
disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo
504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta
sia per la determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla
normativa Ici.
Per la qualificazione delle aree è necessario fare
riferimento al piano regolatore generale. In base all'articolo 2 del decreto
legislativo 504/1992, per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a
scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici «generali o attuativi»
oppure in base alle possibilità effettive di edificazione determinate
secondo i criteri previsti agli effetti delle indennità di espropriazione
per pubblica utilità.
Nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato, la
base imponibile Ici è data dal valore dell'area (non viene computato il
valore del fabbricato in corso d'opera), dalla data di inizio dei lavori di
costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino al momento in cui il
fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello
di ultimazione del fabbricato. In base alla finzione giuridica prevista
nella disciplina dell'imposta (art. 5, comma 6, del decreto legislativo
504/1992) durante il periodo dell'effettiva utilizzazione edificatoria anche
per demolizione e per esecuzione di lavori di recupero edilizio, il suolo va
considerato area fabbricabile, indipendentemente dal fatto che sia tale o
meno in base agli strumenti urbanistici.
Pertanto, un'area è edificabile
quando è inserita nel piano regolatore generale ed è soggetta alle imposte
locali indipendentemente dalla successiva lottizzazione del suolo. È il
comune, su richiesta del contribuente, che attesta se un'area sita nel
proprio territorio sia edificabile. Se lo strumento urbanistico è approvato
dal consiglio comunale, l'ente può dal momento dell'approvazione richiedere
il pagamento del tributo.
Cambi di destinazione.
Se il comune non comunica ai contribuenti le variazioni urbanistiche e i
cambi di destinazione dei terreni in aree edificabili, l'omissione non rende
nulli gli avvisi di accertamento pur essendo un obbligo imposto dalla legge
all'amministrazione comunale (Commissione tributaria regionale di Palermo,
sezione XXV, sentenza 4071/2016). Pertanto, l'omessa comunicazione prevista
dall'articolo 31, comma 20, della legge 289/2002 non comporta alcuna
nullità.
I titolari dei terreni divenuti edificabili sono tenuti a pagare le
imposte su un'area edificabile anche se il comune non li abbiano informati
delle variazioni apportate allo strumento urbanistico e non abbia comunicato
il cambio di destinazione del terreno (Cassazione, sentenza 15558/2009).
Tuttavia, nei casi in cui il comune non abbia provveduto a comunicare
formalmente il cambio di destinazione, e il contribuente violi l'obbligo di
dichiarazione e di versamento, si può ritenere che ricorra una causa di non
punibilità (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2018). |
febbraio 2018 |
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TRIBUTI: Tassa rifiuti, le variazioni non hanno effetto retroattivo.
Le variazioni dichiarate dai contribuenti all'amministrazione comunale non
hanno effetto retroattivo. La riduzione della superficie dell'immobile, per
pagare un importo minore a titolo di tassa sui rifiuti, deve essere
dichiarata tempestivamente. Non è possibile ottenere la riduzione della
superficie da assoggettare a tassazione, in caso d'inabitabilità parziale
dell'immobile, per il periodo precedente alla presentazione della
dichiarazione di variazione. Solo dopo la presentazione della denuncia,
infatti, l'amministrazione comunale può accertare e valutare la fondatezza
delle richieste avanzate dall'interessato.
Lo ha stabilito la Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
28.02.2018 n. 4602.
Per i giudici di piazza Cavour, la ratio è quella di «indurre il
contribuente alla sollecita presentazione della comunicazione di variazione
e, al contempo, di preservare all'ente impositore la concreta possibilità di
verificare tempestivamente, e sulla base dell'attualità di stato, il
fondamento della variazione comunicata».
Peraltro, il principio comunitario
«chi inquina paga» verrebbe meno nell'ipotesi «in cui si consentisse alla
dichiarazione di riduzione di esplicare effetto anche con riguardo ad
annualità pregresse, in ordine alle quali non sarebbe più possibile alcun
controllo di debenza da parte dell'ente impositore», in presenza di
un'asserita «pregressa non abitabilità di una porzione di locali». La
sentenza fa riferimento alla Tia, alla quale si applicano le disposizioni
sulla Tarsu. Ma gli stessi adempimenti sono imposti per la Tari.
Il principio affermato dalla Cassazione non è proprio in linea con quanto
sostenuto di recente dalla stessa Corte (sentenza 453/2018), secondo cui il
contribuente può rettificare in qualsiasi momento la dichiarazione
presentata al comune relativa ai tributi locali, per correggere errori o
omissioni, e può contestare la pretesa tributaria dell'amministrazione che
non abbia tenuto conto delle variazioni dichiarate.
In effetti, è stata
ritenuta emendabile la dichiarazione anche in sede contenziosa, perché non
ha valore confessorio né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria. Se
la modifica ha luogo prima della notifica dell'avviso di accertamento,
l'amministrazione locale ne deve tenere conto, altrimenti è obbligata a
fornire la prova contraria. Mentre, se la rettifica dell'errore avviene dopo
la notifica dell'atto impositivo, spetta al contribuente l'onere di
dimostrare la correttezza della modifica proposta, anche in sede
contenziosa.
Nella pronuncia è stata richiamata la regola già applicata alla
dichiarazione dei redditi, qualificata «una mera esternazione di scienza o
di giudizio» e quindi «emendabile e ritrattabile». La rettifica può
intervenire su tutti gli errori commessi dal contribuente, «anche non
meramente materiali o di calcolo», considerato che «non ha valore
confessorio, né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria».
Naturalmente queste diverse prese di posizione, a breve distanza di tempo,
generano confusione.
Va ricordato che per Imu, Tasi e Tari ormai c'è un termine unico per
assolvere all'obbligo di presentazione delle dichiarazioni. Devono essere
presentate entro il 30 giugno dell'anno successivo alla data di inizio del
possesso o della detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in
comune di un immobile, la dichiarazione Tari può essere presentata solo da
uno degli obbligati. Sono esonerati dall'adempimento coloro che hanno già
denunciato le superfici per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares (articolo
ItaliaOggi del 10.03.2018). |
gennaio 2018 |
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TRIBUTI: Copertura
ponteggio. Resta la pubblicità.
Il comune che autorizza dei pannelli artistici a copertura di un ponteggio
avallando anche una implicita autorizzazione alla sostituzione della
scenografia con messaggi pubblicitari non può fare marcia indietro ordinando
la rimozione degli impianti commerciali senza un preventivo annullamento in
autotutela.
Lo ha chiarito il TAR Valle d'Aosta con la
sentenza
16.01.2018 n. 4.
Il comune di Courmayeur ha autorizzato sia dal punto di vista
edilizio che paesaggistico l'installazione di pannelli a copertura di un
ponteggio edilizio.
Al momento della sostituzione dei pannelli scenografici con pannelli
pubblicitari l'amministrazione ha ordinato la rimozione degli impianti.
Contro questa decisione l'interessato ha proposto con successo ricorso al
Tar.
Siccome nella relazione tecnico-illustrativa allegata alla licenza comunale
era specificamente prevista la possibilità di sostituire i pannelli
artistici con impianti pubblicitari il comune che voleva rivedere questa
determinazione doveva esercitare il proprio potere in sede di autotutela.
Non ordinare alla ditta di rimuovere impianti pubblicitari in precedenza
implicitamente autorizzati (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.03.2018). |
TRIBUTI: Azioni
civilistiche escluse per i rimborsi
tributari.
Se un comune si rifiuta di restituire l'Ici
o altro tributo versato dal contribuente, in
seguito alla presentazione di un'istanza di
rimborso tardiva, non pone in essere un
comportamento illecito e non dà luogo a un
ingiustificato arricchimento. In questi casi
l'interessato non può proporre un'azione
civilistica di risarcimento danni, di
indebito oggettivo o di arricchimento senza
causa innanzi al giudice ordinario nel più
ampio termine di prescrizione decennale. La
competenza esclusiva a decidere spetta al
giudice tributario, sempre che l'istanza di
rimborso venga presentata nei termini di
legge.
È quanto ha affermato il TRIBUNALE civile di
Bologna, III Sez., con sentenza
12.01.2018.
Per il tribunale, non può essere invocato
dal contribuente un comportamento illecito
dell'amministrazione comunale, ex articolo
2043 del codice civile, con richiesta di
danni, o in alternativa un ingiustificato
arricchimento, solo perché ha pagato l'Ici
in misura maggiorata, rispetto a quella
dovuta, ritenendo illegittimo il rifiuto di
restituzione opposto dall'ente. Secondo il
giudice civile i comportamenti attribuiti
all'ente convenuto «costituiscono tutti
legittimo esercizio del diritto/dovere della
potestà autoritativa correttamente
esercitata». Infatti «non sussiste in
radice un comportamento illecito e men che
meno un atteggiamento anti-doveroso della
volontà».
Quindi, non c'è spazio neppure «per
l'esperita subordinata azione
d'arricchimento senza causa, disciplinata
dall'art. 2041 c.c.». Peraltro, il
contribuente ha fatto rientrare «con meri
artifici retorici» nell'ambito della
giurisdizione ordinaria, ciò che è tutelato
da quella tributaria. Il diritto al rimborso
dell'Ici o di altro tributo «non può
svolgersi secondo il modello dell'indebito
di diritto comune». È invece necessario
osservare le regole di riparto della
giurisdizione e la speciale disciplina
prevista dalle singole leggi d'imposta.
In effetti, per richiedere il rimborso di un
tributo versato e non dovuto, non è ammessa
in via alternativa l'azione di indebito
oggettivo esercitatile dal contribuente nel
termine decennale previsto dal codice
civile. Non esistono rimedi alternativi o
concorrenti alla tutela giudiziale
azionabile dal contribuente innanzi al
giudice tributario, sempre che l'istanza di
rimborso sia stata presentata entro il
termine di decadenza.
Ciò porta a escludere che, decorso il
termine di legge, il contribuente possa
esperire un'azione giudiziale davanti al
giudice tributario o ordinario per
recuperare il maggior tributo versato.
L'intervento del giudice ordinario per
ottenere il rimborso delle imposte non
dovute è ammesso, in base a quanto deciso
dalla Cassazione (sezioni unite, ordinanza
10725/2002), solo quando l'amministrazione
ha già riconosciuto il relativo diritto, ma
non ha provveduto a effettuare il rimborso.
È fondamentale, poi, il rispetto del termine
di decadenza per la presentazione
dell'istanza, previsto dalle singole leggi
d'imposta, per richiedere la tutela
giudiziale del diritto al rimborso. Per
l'Ici e gli altri tributi comunali il
termine di decadenza è cinque anni,
decorrenti dall'eseguito versamento. In caso
contrario, non si forma il silenzio-rifiuto
e si determina l'inammissibilità del ricorso
al giudice tributario, per difetto del
provvedimento impugnabile. Se l'istanza
invece è prodotta nei termini, la tutela del
diritto al rimborso può essere chiesta entro
il termine di prescrizione decennale.
Va ricordato che l'articolo 21 del decreto
legislativo 546/1992, che vale per tutti i
tributi per i quali la legge non fissa un
apposito termine (ad esempio per l'Iva),
prevede che la domanda di restituzione, in
mancanza di disposizioni specifiche, non può
essere presentata dopo due anni dal
pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno
in cui si è verificato il presupposto per la
restituzione
(articolo ItaliaOggi del
17.02.2018). |
dicembre 2017 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Accertamenti
anonimi. Bastano il timbro e le iniziali del
dirigente. CASSAZIONE/ La firma è valida
anche se non risulta leggibile.
È legittimo l'accertamento anche se non
riporta la firma del dirigente ma solo sigla
e timbro. Ma non solo. L'atto può essere
emesso sulla base dei dati raccolti dalla
Guardia di finanza nell'indagine penale
nonostante siano stati trasmessi alle
Entrate senza l'autorizzazione dell'autorità
giudiziaria.
Sono questi, in sintesi, i principi
affermati dalla Corte di Cassazione, Sez. V
civile, con la
sentenza
20.12.2017 n. 30560.
È stato quindi integralmente respinto il
ricorso di una società che lamentava
l'invalidità dell'accertamento privo della
firma leggibile e per esteso del dirigente e
motivato sui dai raccolti nell'ambito
dell'inchiesta penale.
Con riguardo al primo
aspetto gli Ermellini hanno infatti
precisato che la nullità di un atto non
dipende dalla illeggibilità della firma di
chi si qualifichi come titolare di un
pubblico ufficio, ma dall'impossibilità
oggettiva di individuare l'identità del
firmatario dell'atto, con la precisazione
che l'autografia della sottoscrizione non è
configurabile come requisito di esistenza
giuridica degli atti amministrativi.
Sul
secondo fronte il Collegio di legittimità ha
invece ribadito l'autorizzazione
dell'autorità giudiziaria, richiesta dalle
norme per la trasmissione, agli Uffici delle
imposte, dei documenti, dati e notizie
acquisiti dalla Guardia di finanza
nell'ambito di un procedimento penale, è
posta a tutela della riservatezza delle
indagini penali, e non dei soggetti
coinvolti nel procedimento medesimo o di
terzi
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2017).
---------------
MASSIMA
2.4. Il motivo, relativamente alla
censura supra sub a), non pone una
questione motivazionale, ma di
interpretazione della norma, in particolare
se il timbro del titolare dell'Ufficio,
apposto sull'avviso di accertamento,
equivalga al requisito della sottoscrizione,
richiesto dalla norma stessa.
La censura è infondata, tenuto conto delle
caratteristiche formali degli avvisi, che
recano tutti non solo il timbro ma anche la
sigla (come riscontrato dalla Corte mediante
esame dei documenti), ed «avuto
riguardo al consolidato indirizzo della
giurisprudenza di legittimità secondo cui la
nullità di un atto non dipende dalla
illeggibilità della firma di chi si
qualifichi come titolare di un pubblico
ufficio, ma dall'impossibilità oggettiva di
individuare l'identità del firmatario
dell'atto, con la precisazione che
l'autografia della sottoscrizione non è
configurabile come requisito di esistenza
giuridica degli atti amministrativi, quanto
meno quando i dati esplicitati nello stesso
contesto documentativo dell'atto consentano
di accertare la sicura attribuibilítà dello
stesso a chi deve esserne l'autore secondo
le norme positive, come è confermato dal
D.Lgs. 12.02.1993, n. 39, art. 3 il quale,
prevedendo, nel caso di emanazione di atti
amministrativi attraverso sistemi
informatici e telematici, che la firma
autografa sia sostituita dall'indicazione a
stampa, sul documento prodotto dal sistema
automatizzato, del nominativo del soggetto
responsabile, ribadisce sul piano positivo
l'inessenzialità ontologica della
sottoscrizione autografa ai fini della
validità degli atti amministrativi
(cfr. Cass. 1^ sez. 07.08.1996 n. 7234; Id.
I sez. 24.09.1997 n. 9394; id. 3^ sez.
10.02.2000 n. 1458; id. 1^ sez. 28.12.2000
n. 16204; id. 1^ sez. 22.11.2004 n. 21954,
tutte con riferimento ad
ordinanza-ingiunzione. Con specifico
riferimento alla materia tributaria: Cass.
5^ sez. 27.02.2009 n. 4757, secondo cui la
nullità della cartella di pagamento deve
essere esclusa anche in mancanza di
sottoscrizione del funzionario competente se
gli altri elementi formali consentano
inequivocabilmente di riferire l'atto
all'organo amministrativo titolare del
potere di emetterlo; id. 5^ sez. 23.02.2010
n. 4283 secondo cui "l'avviso
di mora emesso dal concessionario del
servizio di riscossione è valido, pur se
privo della sottoscrizione da parte del
funzionario competente, in quanto la carenza
di tale elemento formale non implica alcuna
menomazione né del potere del
concessionario, che dipende da rapporto "a
monte" con l'ente impositore, né della
responsabilità in ordine all'emissione del
singolo alto impositivo, sempre riferibile
nei confronti dei terzi all'ente che lo
emette, a prescindere dall'identità del
funzionario che materialmente lo esegue, né,
a fortiori, delle prerogative e del diritto
di difesa de/soggetto destinatario dell'atto"
(Cass. n. 26176/2011)». |
TRIBUTI: Uffici
postali, niente imposta sulle insegne.
Le insegne degli uffici pubblici di Poste Italiane non avendo la valenza di
messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del
bene o alla fruizione del servizio in vendita, ma limitandosi a fornire agli
interessati le informazioni per l'individuazione del luogo in cui è
possibile fruire del servizio, non scontano l'imposta sulla pubblicità se
sono al di sotto delle dimensioni che la normativa in materia prescrive per
dette installazioni.
Sono queste le precisazioni con cui la Ctp di Pavia, con la
sentenza 13.12.2017 n. 353/2/2017, accoglieva
il ricorso della società Poste Italiane contro l'avviso di accertamento con
cui le veniva contestato l'omesso versamento dell'imposta sulla pubblicità
da parte del comune di Mortara. La ricorrente fondava il ricorso proprio
sulla non corretta applicazione della disciplina relativa all'imposta
comunale sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni introdotta con dlgs
507/1993.
La stessa considera rilevanti ai fini dell'assoggettamento tutti
quei messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica che abbiano
lo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero che siano
finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato. La
ricorrente aggiungeva, inoltre, che le insegne, anche per dimensioni, non
superavano i limiti fissati dalla legge oltre i quali l'imposta era dovuta.
Pertanto la Ctp di Pavia esaminava la documentazione allegata che illustrava
funzione e dimensioni delle suddette insegne pubblicitarie. Le stesse, da
intendersi come ogni scritta in caratteri alfanumerici, completata
eventualmente da simboli o da marchi installata nella sede dell'attività,
non solo si limitavano a contraddistinguere il luogo in cui i servizi sono
resi, ma erano di superficie complessiva inferiore a 5 mq.
Il comma 1-bis
dell'art. 17 del dlgs 507/1993 istitutivo del canone sulla pubblicità,
introdotto dall'art. 10 della legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce infatti
che il canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle attività
commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede
ove si svolge l'attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva
sino a cinque metri quadrati».
Nel caso di specie la società delegata
all'accertamento e alla riscossione dal comune di Mortara utilizzava un
errato sistema di misurazione delle affissioni dell'ufficio pubblico che,
comunque, non superavano le soglie metriche fissate dalla legge ai fini
dell'assoggettamento all'imposta. La Ctp Pavia, pertanto, accoglieva il
ricorso, annullando l'atto di accertamento.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(Omissis) Con l'avviso di accertamento di cui in epigrafe, il Concessionario
del servizio I. srl, addetto al servizio accertamento e riscossione
dell'imposta comunale sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni
del comune di Mortara, accertava a carico della ricorrente
Società Poste italiane spa ( ) ai fini dell'imposta sulla pubblicità per
l'anno 2016, la somma complessiva di € 153,00 per imposta dovuta, interessi
moratori, sanzioni e spese.
Motivi dell'impugnazione.
La società Poste italiane spa proponeva ricorso contestando l'avviso in
epigrafe ed eccependo: in via preliminare e assorbente la violazione e falsa
applicazione dell'art. 17, comma 1-bis, dlgs 507/1993 e della risoluzione del
ministero dell'economia e delle finanze 24/04/2009, n. 2F. La società contesta
infatti di aver omesso il versamento dell'imposta di pubblicità in quanto
questo non era dovuto: la I. srl avrebbe infatti effettuato un calcolo
errato della superficie delle insegne recanti la scritta Poste italiane e
Mortara
( )
Motivi della decisione.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Dalla disamina della
documentazione allegata risulta evidente che le insegne non hanno valenza di
messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del
bene o alla fruizione del servizio in vendita, bensì vanno inquadrate nella
categoria degli avvisi al pubblico e svolgono la mera funzione di fornire
agli interessati le informazioni atte a facilitare e individuare la
fruizione dei servizi resi e la loro sede. ( )
A ciò si deve aggiungere che
nessuna di esse, oltre che anche complessivamente, supera le superfici
minime esenti previste dal legislatore. Il dlgs 507 del 1993, innovato
dall'art. 10, comma 1, lett. C legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce che
l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e
di produzione di beni e di servizi, che contraddistinguono la sede ove si
svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 mq.
( ) nella fattispecie, non viene superato il limite massimo di esenzione dei
5 mq. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.
Le stesse si liquidano a
favore di Poste Italiane in complessivi 200,00, oltre accessori di legge
dovuti.
P.Q.M. Accoglie il ricorso e condanna il comune di Mortara alla rifusione
delle spese del grado liquidate in complessivi 200,00, oltre accessori di
legge dovuti
(articolo
ItaliaOggi Sette del 03.04.2018). |
novembre 2017 |
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TRIBUTI: Locali
agricoli, tassa sui rifiuti assimilati.
I rifiuti prodotti nei fabbricati destinati
all'attività agricola non possono essere
considerati rifiuti solidi urbani. In
mancanza di assimilazione dei rifiuti
agricoli ai rifiuti urbani, industriali o
artigianali, quindi, la richiesta della
tassa è illegittima.
Lo ha stabilito la sezione seconda della Ctp
di Pavia, nella sentenza 16.11.2017 n.
307/2/2017.
Nel caso specifico, il comune di Travacò
Siccomario (comune della provincia di Pavia
posto a 2 chilometri a Sud dal capoluogo,
tra il Ticino e il Po) notificava un avviso
di accertamento a un coltivatore diretto.
L'Ufficio del comune, nell'atto, richiedeva
la Tarsu per l'anno 2011 sui locali
destinati a residenza ed esercizio
dell'attività agricola. L'applicazione della
tassa rifiuti alle superfici produttive di
rifiuti agricoli e ai fabbricati rurali
coincide con quella relativa ai rifiuti
speciali delle attività industriali.
Pertanto, il comune potrà applicare la tassa
alle superfici ove si producono i rifiuti
assimilati, e quindi anche i locali
destinati a capannone o a magazzino
agricolo, solo se avrà provveduto ad
assimilare i rifiuti speciali provenienti
dalle attività economiche, e dunque anche
quelli provenienti dall'attività agricola;
il tutto, sempre che non venga dimostrato
che si tratta di locali inidonei a produrre
rifiuti, a norma dell'art. 62, comma 2, del
dlgs n. 507/1993.
Occorre ricordare che l'art. 66, comma 4,
del dlgs n. 507/1993, ha disposto la facoltà
per i comuni di prevedere nel regolamento la
riduzione della tassa rifiuti in misura non
superiore al 30% per gli agricoltori che
occupano la parte abitativa della
costruzione rurale. In seguito, l'art.
12-bis del dl 20.06.1996, n. 323, convertito
dalla legge 28.12.1995, n. 425, ha stabilito
che i comuni possono prevedere l'esenzione
dalla tassa rifiuti dei fabbricati rurali,
utilizzati come abitazione da produttori e
lavoratori agricoli, sia in attività che in
pensione, e che siano situati in zone
agricole. La portata della norma è stata
ampiamente chiarita con la risoluzione del
Ministero dell'economia e delle finanze n.
272/E del 30/12/1996.
Tuttavia, nel caso specifico, i rifiuti
prodotti nell'esercizio di una attività
agricola, stante la loro specifica e
intrinseca natura (i rifiuti vengono
dispersi in campagna e utilizzati come
concime) non possono essere considerati
rifiuti solidi urbani. Peraltro la loro
assimilazione ai rifiuti urbani o a quelli
industriali o artigianali non era neanche
rinvenibile nel regolamento Tarsu del Comune
accertatore.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA
SENTENZA
[omissis] La contribuente ha presentato
ricorso avverso l'avviso di accertamento n.
1/2016 emesso per l'anno 2011 dal comune di
Travacò Siccomario in materia di Tarsu
(tassa smaltimento rifiuti urbani).
Poiché la ricorrente è coltivatrice diretta,
conduce un fondo rustico con annessi
fabbricati destinati a residenza ed
esercizio della propria attività agricola. È
da precisare che poiché i rifiuti prodotti
nei fabbricati destinati all'esercizio
dell'attività agricola sono qualificati
(materia fecale e altre sostanze naturali
non pericolose utilizzate nell'attività
agricola) vengono smaltiti direttamente
dall'opponente mediante dispersione in
campagna.
OSSERVA
la Commissione che i rifiuti, prodotti nei
fabbricati destinati all'esercizio
dell'attività agricola, non possono
considerarsi rifiuti solidi urbani, stante
la loro specifica e intrinseca natura, la
quale appunto per questo fa sì che essi
vengano dispersi in campagna.
Peraltro la loro assimilazione ai rifiuti
urbani o a quelli industriali o artigianali
non è neanche rinvenibile nel Regolamento
Tarsu del Comune accertatore.
PQM annulla l'atto impugnato. Spese
compensate
(articolo ItaliaOggi
Sette del
22.01.2018). |
TRIBUTI:
Tosap - Esenzioni.
Fermo restando che l’articolo 49, d.lgs.
507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è
prevista l’esenzione dal pagamento della tosap, l’articolo
82 del d.lgs. 117/2017, contenente il Codice del Terzo
settore, consente agli enti locali di introdurre, nel
proprio regolamento, un’ulteriore ipotesi di esenzione,
oltre che di riduzione, dal pagamento della tassa in esame,
che si aggiunge a quelle già contemplate dal summenzionato
d.lgs. 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per
l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il
d.lgs. 460/1997, art. 21, a vantaggio esclusivo delle Onlus,
è stata ora estesa a beneficio di tutti gli enti
appartenenti al cosiddetto Terzo settore che soddisfino i
seguenti requisiti:
- abbiano la veste giuridica di cui all’art. 4, d.lgs. 117/2017
(associazioni di promozione sociale, organizzazioni di
volontariato, associazioni riconosciute o non riconosciute,
eccetera);
- svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico
e sociale di cui all’art. 5 e, quindi, non abbiano per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale;
- siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del
Terzo settore.
L’Ente domanda se, alla luce dell’attuale normativa, sia
legittimo inserire, nel proprio regolamento tosap,
l’esenzione dal pagamento della tassa per manifestazioni
patrocinate dal Comune stesso e organizzate da associazioni
locali di promozione sociale, culturale e ricreativa (ad
esempio, Pro Loco).
Si svolgono, in merito al summenzionato quesito, le seguenti
osservazioni, sentito il Servizio volontariato e lingue
minoritarie della Direzione centrale cultura, sport e
solidarietà.
Fino allo scorso mese di luglio, la normativa di riferimento
al fine dell’inquadramento dell’odierno quesito era
rappresentata principalmente dal decreto legislativo
15.11.1993, n. 507 [1]
e in particolare dagli articoli 49 e 45, comma 7
[2].
Nello specifico, l’articolo 49 del decreto legislativo
507/1993 disciplina le ipotesi di esenzione dal tributo in
esame, tra le quali non rientra la fattispecie delineata
dall’ente instante [3].
L’articolo 45, comma 7, del medesimo decreto stabilisce,
invece, la riduzione della tariffa ordinaria, nella misura
dell’80 per cento, per le occupazioni temporanee realizzate
in occasioni di manifestazioni culturali oltre che politiche
e sportive. Ai sensi della disposizione da ultimo
richiamata, per le manifestazioni culturali, sportive o
politiche (ma non ricreative), la tariffa è, pertanto, pari
al 20 per cento di quella ordinaria, senza alcun potere di
modifica da parte degli enti impositori [4].
Il quadro normativo delineato era poi completato dalla
disposizione di cui all’articolo 23 della legge 07.12.2000,
n. 383 –Disciplina della associazioni di promozione sociale-
che prevedeva la possibilità, per gli enti locali, di
deliberare, a favore delle associazioni regolarmente
registrate, riduzioni -ma non esenzioni- sui tributi di
propria competenza.
In base all’articolo 21, decreto legislativo 04.12.1997, n.
460 [5],
gli enti locali potevano, inoltre, prevedere la possibilità
di riconoscere agevolazioni ed esenzioni in favore dei
soggetti qualificabili come Onlus [6].
Il contesto normativo sopra illustrato è stato parzialmente
riscritto in seguito all’emanazione del decreto legislativo
03.07.2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore
[7], che,
con l’articolo 102, rispettivamente comma 1, lettera a) e
comma 2 lettera a), ha abrogato, tra gli altri, l’articolo
23 della legge 383/2000 e l’articolo 21 del decreto
legislativo 460/1997 [8].
L’articolo 82, comma 7, del decreto legislativo 117/2017
stabilisce la possibilità, per i Comuni, di “deliberare
nei confronti degli enti del Terzo settore che non hanno per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei
tributi di loro competenza e dai connessi adempimenti”
[9] [10].
È necessario, ora, richiamare le particolari disposizioni
che segnano l’entrata in vigore dell’articolo 82, comma 7.
Poiché la summenzionata disposizione prevede, per gli enti
locali, la possibilità di deliberare esenzioni o riduzioni
tributarie, la norma stessa potrebbe dare luogo, seppure
indirettamente, a delle forme di aiuti di stato. Il
legislatore del Codice ha, così, previsto che l’articolo 82
non entri in vigore insieme alla maggior parte delle
disposizioni del decreto legislativo, ma ne ha previsto
un’applicazione differita: o in via transitoria dal
01.01.2018 (soltanto a beneficio di Onlus, organizzazioni di
volontariato e associazioni di promozione sociale) o,
comunque, subordinatamente all’autorizzazione della
Commissione europea, chiamata a verificare la compatibilità
di alcune delle disposizioni del Codice stesso con il
Trattato comunitario ed i principi di quest’ultimo posti a
tutela del mercato unico europeo [11].
Ed invero, ai sensi dell’articolo 104, comma 2, del decreto
legislativo 117/2017, salvo quanto previsto dal comma 1, le
disposizioni del titolo X, che disciplinano il “Regime
fiscale degli enti del terzo settore”, tra cui quella
dell’articolo 82, comma 7 “si applicano agli enti
iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore a
decorrere dal periodo di imposta successivo
all'autorizzazione della Commissione europea di cui
all'articolo 101, comma 10, e, comunque, non prima del
periodo di imposta successivo di operatività del predetto
Registro”.
Ai sensi del medesimo articolo 104, comma 1, tra gli altri,
l’articolo 82, comma 7, si applica, sebbene in via
transitoria, a decorrere dal 01.01.2018 e fino al periodo di
imposta di entrata in vigore delle disposizioni di cui al
titolo X, secondo quanto indicato dal già richiamato comma
2, a favore delle Onlus iscritte negli appositi registri,
delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri
di cui alla legge 11.08.1991, n. 266, nonché alle
associazioni di promozione sociale iscritte nei registi
nazionali e regionali di cui alla legge 383/2000
[12].
Si rammenta che, per l’articolo 4 del Codice del Terzo
settore, sono, tra gli altri, “enti del Terzo settore le
organizzazioni di volontariato, le associazioni di
promozione sociale … le associazioni, riconosciute o non
riconosciute, … gli altri enti di carattere privato diversi
dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo
di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di
interesse generale in forma di azione volontaria o di
erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di
mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed
iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del summenzionato decreto
legislativo 117/2017: “Gli enti del Terzo settore …
esercitano in via esclusiva o principale una o più attività
di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di
lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in
conformità alle norme particolari che ne disciplinano
l'esercizio, le attività aventi ad oggetto: … d) … le
attività culturali di interesse sociale con finalità
educativa; … f) interventi di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive
modificazioni; … i) organizzazione e gestione di attività
culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale,
incluse attività, anche editoriali, di promozione e
diffusione della cultura e della pratica del volontariato e
delle attività di interesse generale di cui al presente
articolo; … k) organizzazione e gestione di attività
turistiche di interesse sociale, culturale o religioso; … t)
organizzazione e gestione di attività sportive
dilettantistiche”.
Richiamata la normativa di riferimento per la fattispecie in
esame, si espongono le seguenti riflessioni.
Fermo restando che l’articolo 49, decreto legislativo
507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è
prevista l’esenzione dal pagamento del tributo, a decorrere
dal periodo di imposta successivo alla predetta
autorizzazione della Commissione europea e, comunque, non
prima del periodo di imposta successivo all’operatività del
Registro unico nazionale del terzo settore, ma, in via
transitoria, a decorrere dal 01.01.2018, a favore di Onlus,
organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione
sociale, purché iscritte negli appositi registri, l’articolo
82 del Codice del Terzo settore consente agli enti locali di
introdurre, nel proprio regolamento tosap, un’ulteriore
ipotesi di esenzione, oltre che di riduzione, dal pagamento
della tassa in esame che si aggiunge a quelle già
contemplate dal summenzionato decreto legislativo 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per
l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il
decreto legislativo 460/1997, articolo 21, a vantaggio
esclusivo delle Onlus, è stata ora estesa a beneficio di
tutti gli enti appartenenti al cosiddetto Terzo settore che
soddisfino i seguenti requisiti:
- abbiano la veste giuridica di cui all’articolo 4, decreto
legislativo 117/2017 (associazioni di promozione sociale,
organizzazioni di volontariato, associazioni riconosciute o
non riconosciute, eccetera);
- svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico
e sociale di cui all’articolo 5 e, quindi, non abbiano per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale;
- siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del
Terzo settore.
In attesa del pronunciamento della Commissione europea su
alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo
117/2017, tra le quali, per quanto qui di interesse,
l’articolo 82, comma 7, che prevede la possibilità, per
tutti gli enti locali, di introdurre, nei propri
regolamenti, ipotesi di esenzione dal pagamento dei tributi
di propria competenza ed in attesa dell’istituzione ed
operatività del Registro unico nazionale per gli enti del
Terzo settore, la disposizione di riferimento rimane,
comunque, l’articolo 49, decreto legislativo 507/1993; e
soltanto per le organizzazioni di promozione sociale, le
Onlus, e le organizzazioni di volontariato anche l’articolo
82, comma 7, decreto legislativo 117/2017, che troverà
applicazione, in via transitoria, a decorrere dal 01.01.2018
(secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1, decreto
legislativo 117/2017).
Conservano, inoltre, valore tutte le osservazioni che questo
Servizio ha già espresso in precedenti pareri in merito alle
esenzioni dal pagamento della tosap, al carattere tassativo
dei casi di dispensa dal pagamento dei tributi ed in merito
all’impossibilità di applicare istituti quali
l’interpretazione analogica ed estensiva alle norme di
natura eccezionale [13].
In conclusione, conformemente alle argomentazioni sopra
esposte, si evidenzia, quanto all’interrogativo sottoposto
all’attenzione dello scrivente, che la fattispecie di
esenzione delineata dall’ente locale –esenzione a favore
delle associazioni locali di promozione sociale culturale e
ricreativa– ferma restando l’applicazione dell’articolo 49,
decreto legislativo 507/1993 e dei suoi limiti, potrebbe
essere ricondotta nel campo di applicazione dell’articolo
82, comma 7, e degli articoli 4 e 5, decreto legislativo
117/2017, con i vincoli temporali di entrata in vigore della
disposizione in materia di tributi locali (articolo 82,
decreto legislativo 117/2017), come sanciti dagli articoli
104, commi 1 e 2 e 101, comma 10, medesimo decreto.
L’ipotesi di occupazione, descritta dall’ente instante, non
può, quindi, essere esonerata dal pagamento della tassa in
esame ai sensi dell'articolo 49 del decreto legislativo
507/1993, in quanto non riconducibile nel suo ambito di
applicazione, riferibile alle sole occupazioni espressamente
e tassativamente individuate dalla medesima norma. La
fattispecie illustrata dal Comune potrebbe, tuttavia, essere
dispensata dal pagamento del tributo, a titolo facoltativo
e, quindi, per volontà del medesimo ente, con apposito atto
deliberativo, in conformità alle previsioni di cui
all’articolo 82, comma 7, decreto legislativo 117/2017,
secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1: e cioè,
in via transitoria, dal 01.01.2018 fino al periodo di
imposta successivo all’autorizzazione della Commissione
europea ed, in ogni caso, fino al periodo di imposta
successivo all’operatività del Registro unico nazionale
degli enti del terzo settore, soltanto a beneficio delle
organizzazioni di volontariato, delle associazioni di
promozione sociale e delle Onlus, purché iscritte negli
apposti registri disciplinati dalle rispettive leggi di
settore.
Ottenuta l’autorizzazione della Commissione europea ed
intervenuta l’operatività del summenzionato Registro, l’ente
locale potrà, invece, deliberare l’esenzione dalla tosap a
beneficio di enti del terzo settore, diversi da quelli
appena richiamati ed in via definitiva anche a beneficio di
questi ultimi, purché regolarmente iscritti nel relativo
Registro unico nazionale, quando entreranno pienamente in
vigore le disposizioni del titolo X, tra cui quella
dell’articolo 82, comma 7, nel rispetto dei termini, già
ampiamente illustrati, di cui all’articolo 104, comma 2 e
101, comma 10; fermi, in tutti i casi, i requisiti di cui
agli articoli 4 e 5 del medesimo decreto.
L’esenzione ipotizzata dall’ente potrà, quindi, essere
conforme alle previsioni del legislatore statale (articolo
82, comma 7, decreto legislativo 117/2017), detentore
esclusivo, nel nostro ordinamento giuridico, della potestà
legislativa primaria in materia di tributi locali
[14] ed
essere, conseguentemente, inserita, con apposito atto
deliberativo, nel regolamento dell’ente locale in materia di
tosap.
---------------
[1] La legge citata si intitola “Revisione
ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e
del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle
province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti
solidi urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n.
421, concernente il riordino della finanza territoriale”.
[2] Si rammenta come la tosap sia regolamentata dalla legge dello
Stato solo per ciò che concerne le disposizioni generali
(articoli 38-57 del decreto legislativo 507/1993). Per le
norme di applicazione è fatto, invece, rinvio ai regolamenti
comunali (si legga “Memento Pratico Fiscale anno 2008”,
Francis Lefebvre, Ipsoa, pagg. 1154-1155 e “Guida operativa
ai tributi locali”, Il Sole 24 Ore, seconda edizione, pag.
141, 147). Nella specifica e puntuale applicazione della
tosap, oltre alla legge statale, i Comuni devono, quindi,
utilizzare lo strumento regolamentare. L’articolo 40 del
decreto legislativo 507/1993 prescrive, invero, agli enti
impositori, di approvare il regolamento per l’applicazione
della tassa in esame, individuando anche un contenuto minimo
che deve essere sempre assicurato all’interno dell’atto
deliberativo in discorso. Esiste, quindi, una parte del
regolamento che l’ente locale deve necessariamente
sviluppare, a fronte di una solamente eventuale. Il
contenuto eventuale sarà regolato in base alla particolare
realtà ed alle specifiche esigenze del Comune, in accordo
con il principio di legalità sancito dall’articolo 23 della
Costituzione e con i limiti espressamente contenuti
nell’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo
15.12.1997, n. 446. L’ente locale deve, quindi,
obbligatoriamente prevedere, all’interno del proprio
regolamento, la disciplina generale delle occupazioni
permanenti e temporanee, con la determinazione di eventuali
aumenti o riduzioni di tariffa, in corrispondenza delle
varie fattispecie individuate dalla legge. L’articolo 52 del
decreto legislativo 446/1997 contiene una norma fondamentale
per la disciplina della potestà regolamentare generale dei
Comuni e ne ha rafforzato l’autonomia già loro attribuita.
Con l’emanazione del decreto legislativo 446/1997, sono,
invero, intervenute importanti modifiche in materia di
gestione del tributo in esame, proprio perché con l’articolo
52 del suddetto decreto, è stata attribuita agli enti locali
un’ampia autonomia regolamentare, relativamente alla
disciplina delle proprie entrate. In tal senso, si legga “La
tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche: i
lineamenti generali del tributo” di Luca Bonadonna, in
“Tributi locali e regionali”, n. 5/2006, pag. 714. Sul
potere regolamentare del Comune in materia di tosap, si
legga anche il parere datato 12.11.2014, protocollo n.
29322, emesso dallo scrivente e consultabile nella relativa
banca dati.
[3] L’articolo 3, comma 67, della legge 28.12.1995, n. 549 apporta
una deroga all’applicazione del decreto legislativo
507/1993, in materia di tosap, ma tale deroga, non
contemplata per le occupazioni in esame, prevede l’esonero
dall’obbligo del pagamento della tassa per manifestazioni o
iniziative a carattere politico, nelle sole circostanze in
cui l’area occupata non sia superiore ai 10 metri quadrati.
Sono politiche quelle manifestazioni poste in essere da
partiti, gruppi politici riconosciuti o da organizzazioni
sindacali dirette al raggiungimento di tale specifica
finalità (Ministero delle finanze, circolare del 25.03.1994,
n. 13/E). Si legga “Guida operativa ai tributi locali”,
cit., pag. 146. Va rilevato, quindi, che, ex articolo 3,
comma 67, legge 549/1995, nei soli confronti dei soggetti
promotori di iniziative a carattere esclusivamente politico,
è disposta l’esenzione dalla tosap, se la superficie
occupata non supera i dieci metri quadrati. Si legga, al
riguardo, “Manuale dei tributi locali”, Maggioli editore, V
edizione, pag. 337.
[4] Si legga, al riguardo, “Manuale dei tributi locali”, cit., pag.
337.
[5] Intitolato “Riordino della disciplina tributaria degli enti non
commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità
sociale”.
[6] L’articolo 21, del decreto legislativo in discorso stabiliva,
infatti, che i Comuni “possono deliberare nei confronti
delle Onlus la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei
tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti”.
[7] Il testo normativo ora richiamato è stato pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 02.08.2017 ed è entrato il vigore il
giorno successivo.
[8] Ai sensi dell’articolo 102, comma 2, lettera a), del decreto
legislativo 117/2017, l’articolo 21 della legge 460/1997 è
abrogato a decorrere dal termine di cui all’articolo 104,
comma 2, medesimo decreto, ovverosia a decorrere dal periodo
di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione
europea di cui all’articolo 101, comma 10, su alcune
disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore,
autorizzazione da richiedere a cura del Ministero del lavoro
e delle politiche sociali. L’abrogazione, comunque, non sarà
efficace prima del periodo di imposta successivo
all’operatività del Registro unico nazionale del Terzo
settore.
[9] Tale possibilità è contemplata in relazione a tutti i tributi
locali diversi dall’imposta municipale propria e dal tributo
per i servizi indivisibili, per i quali l’esenzione dal
pagamento è prevista alle condizioni e nei limiti di cui
comma 6 del medesimo articolo 82.
[10] La disposizione ora richiamata riprende, parzialmente,
estendendone la previsione non solo alle riduzioni ma anche
alle esenzioni, quella contenuta, in relazione alle
associazioni di promozione sociale, nell’articolo 23 della
legge 383/2000, abrogata dall’articolo 102, comma 1, lettera
a) del decreto legislativo 117/2017 e conferma, per le
Onlus, quella contenuta nell’articolo 21 della legge
460/1997, parimenti abrogato dal decreto legislativo
117/2017, nei termini di cui dall’articolo 102, comma 2,
lettera a) e 104, comma 2.
[11] Ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea (nella versione
consolidata, a fronte dell’entrata in vigore il 01.12.2009
del Trattato di Lisbona, firmato, a Lisbona, il 13.12.2007,
dai rappresentanti dei ventisette Stati membri dell’Unione
stessa) “alla Commissione sono comunicati in tempo utile
perché presenti le sue osservazioni, i progetti diretti a
istituire o modificare aiuti”. Se ritiene che un progetto
non sia compatibile con il mercato interno dell’Unione, la
Commissione inizia senza indugio una specifica procedura e
“lo Stato membro interessato non può dare esecuzione alle
misure progettate prima che tale procedura abbia condotto ad
una decisione finale”.
[12] Ai sensi dell’articolo 104, comma 1, decreto legislativo
117/2017, le disposizioni di cui all’articolo 82 “si
applicano in via transitoria a decorrere dal periodo di
imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017
(quindi dal 01.01.2018 n.d.r.) e fino al periodo d'imposta
di entrata in vigore delle disposizioni di cui al titolo X
secondo quanto indicato al comma 2, alle Organizzazioni non
lucrative di utilità sociale di cui all'articolo 10, del
decreto legislativo 04.12.1997, n. 460 iscritte negli
appositi registri, alle organizzazioni di volontariato
iscritte nei registri di cui alla legge 11.08.1991, n. 266,
e alle associazioni di promozione sociale iscritte nei
registri nazionali, regionali e delle provincie autonome di
Trento e Bolzano previsti dall'articolo 7 della legge
07.12.2000, n. 383”.
[13] Si leggano i pareri datati 19.08.2010, protocollo n. 13660,
19.09.2013, protocollo n, 26839, emessi dallo scrivente e
consultabili nella relativa banca dati, oltre che il più
recente parere datato 14.09.2017, protocollo n. 9264,
parimenti consultabile nella relativa banca dati.
[14] In tal senso, Corte Costituzionale, 22-24.02.2006, n. 75, ove
si legge che l’articolo 117, comma 2, lettera e), Cost.
riserva, al legislatore nazionale, la competenza esclusiva
nella materia del sistema impositivo, essendo i tributi
erariali istituiti da legge dello Stato e da questa
disciplinati, salvo quanto espressamente rimesso
all’autonomia dei Comuni. Si legga “Limiti al potere di
introdurre per via regolamentare esenzioni ed agevolazioni
nella disciplina dei tributi locali (nota a Corte Cost. n.
75/2006)” di Andrea Giovanardi, in “Rivista di diritto
tributario”, n. 7-8/2006, II, pagg. 545 e ss. (07.11.2017
- link a
www.regione.fvg.it). |
ottobre 2017 |
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TRIBUTI:
Pagamento IMU e TASI appartamento in costruzione.
Domanda
Come considerare, ai fini IMU e TASI, un appartamento in
corso di costruzione (senza rendita) nel caso di fabbricato
composto anche da altre unità immobiliari già finite ed
accatastate? Inoltre, in caso di pagamento dovuto, occorre
sanzionare il contribuente?
Risposta
Le categorie catastali fittizie F3 ed F4 (rispettivamente
“in corso di costruzione” e “in corso di definizione”) sono
da considerarsi provvisorie, dai 6 ai 12 mesi, con
possibilità di ottenere la proroga con la presentazione di
un’apposita dichiarazione del proprietario circa la mancata
ultimazione dell’immobile (cfr. Agenzia del Territorio,
Circolare n. 4/2009).
Si tratta, tuttavia, di una prassi totalmente disattesa, con
la conseguenza che dopo anni si ritrovano diversi immobili
ancora accatastati in tali categorie, ancorché
“provvisorie”.
Ciò posto, l’imponibilità come area fabbricabile dell’unità
immobiliare accatastata in F3 è stata recentemente affermata
dalla Cassazione con sentenza n. 11694 del 11.05.2017,
che ha sancito il seguente principio di diritto: “in tema di
imposta comunale sugli immobili, l’accatastamento di un
nuovo fabbricato nella categoria fittizia delle unità in
corso di costruzione non è presupposto sufficiente per
l’assoggettamento ad imposta del fabbricato stesso, salva la
tassazione dell’area edificatoria e la verifica sulla
pertinenza del classamento”.
Pertanto, nel caso di edificio composto da un’unica unità
immobiliare con categoria catastale F3 (in corso di
costruzione), si deve prendere come riferimento il valore
dell’intera area edificabile, quale base imponibile per il
calcolo dell’IMU e della TASI.
Nel caso, invece, di edificio composto da più unità
immobiliari di cui solo una in corso di costruzione
(fattispecie descritta nel quesito), l’IMU e la TASI devono
calcolarsi sul valore dell’area fabbricabile in misura
proporzionale alla quota di incidenza dell’unità non
ultimata rispetto a tutte le unità che insistono sull’intera
area fabbricabile. Ad esempio, se l’edificio è composto da
quattro unità immobiliari con caratteristiche simili (da
considerarsi a lavori completati), di cui tre finite e una
in corso di costruzione, si può prendere come riferimento il
25% del valore dell’area edificabile.
Infine, in ordine alle sanzioni, si ritiene sussistente
l’esimente delle obiettive condizioni di incertezza sulla
portata applicativa della norma (ex art. 5, comma 2, del
d.lgs. 472/1997 e art. 10, comma 3, della l. 212/2000),
trattandosi di un orientamento giurisprudenziale recente ed
in presenza di pregresse indicazioni contrastanti di
Cassazione e prassi ministeriale (cfr. Cass. n. 10735/2013 e
n. 5166/2013, MEF risoluzione n. 8/DF del 22/7/2013) (23.10.2017 - link a
www.publika.it). |
TRIBUTI:
Niente prelievo sul collabente privo di rendita.
I fabbricati collabenti, iscritti in catasto con la
categoria F2, senza attribuzione di rendita, non sono
soggetti a Ici né come fabbricati né come area fabbricabile.
Tanto, finché non si procede alla competa demolizione
dell’unità in esame.
La precisazione è contenuta nella
sentenza 11.10.2017 n. 23801
della Corte di Cassazione, Sez. V civile, che conferma il
precedente in materia della sentenza 17815/2017.
Il comune aveva emesso un accertamento Ici nei riguardi di
un immobile risultante in catasto nella categoria F2, privo
di rendita. L’accertamento aveva ad oggetto, in realtà, non
già il fabbricato bensì l’area di sedime dello stesso,
qualificata come area fabbricabile alla luce delle
previsioni dello strumento urbanistico.
La Suprema corte ha tuttavia annullato l’avviso di
accertamento procedendo a una sintetica ricostruzione degli
elementi strutturali dell’Ici, valevole anche per l’Imu,
stante la sostanziale identità di disciplina.
Viene in primo luogo evidenziata la diversità concettuale
tra fabbricato inagibile e fabbricato collabente. Nel primo
caso, si è di fronte ad una unità che ha perso parte delle
sue potenzialità funzionali per effetto di eventi
sopravvenuti. Ad essa compete pertanto la riduzione a metà
della base imponibile. Nella fattispecie di fabbricati
collabenti, invece, si è a cospetto di immobili che sono
privi di qualunque forma di potenziale utilizzabilità per il
possessore, tant’è che gli stessi sono iscritti in catasto
senza attribuzione di rendita.
In entrambe le situazioni, tuttavia, è configurabile una
unità immobiliare riconducibile alla nozione di fabbricato,
circostanza questa che esclude la possibilità di ravvisare
sia l’area edificabile che quella di terreno agricolo.
D’altra parte la tripartizione nell’applicazione
dell’imposta (fabbricati, aree fabbricabili e terreni
agricoli) è tassativamente tipizzata nella disciplina di
riferimento, di tal che non appare ipotizzabile un
quartum genus, nella forma dell’«area edificata».
La conclusione della Suprema corte è dunque nel senso che,
sino a quando il fabbricato collabente risulterà così
identificato in catasto, lo stesso non potrà in alcun modo
essere assoggettato a imposizione, né come fabbricato, per
totale mancanza di base imponibile, né come area
edificabile. Tale situazione tuttavia cessa di esistere
quando si provvede alla totale demolizione dei “resti”
del fabbricato, poiché in questa eventualità l’area di
risulta, ove potenzialmente edificabile, va considerata come
suolo fabbricabile.
In proposito, si ricorda peraltro che l’area ove in concreto
si svolgono lavori di edificazione è comunque qualificata
come fabbricabile, anche in deroga a eventuali difformi
previsioni urbanistiche (articolo 5, comma 6, del Dlgs
504/1992, richiamata anche nell’Imu).
Nella precedente sentenza 17815/2017 è stato, inoltre,
segnalato che i Comuni possono reagire a eventuali
comportamenti elusivi dei contribuenti, contestando
l’accatastamento in F2. Ciò accade ad esempio quando l’unità
non è individuale o perimetrabile (articolo Il Sole 24
Ore del 12.10.2017).
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MASSIMA
1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione
degli artt. 2 e 5 d.lgs. 504/1992, per aver il giudice
d'appello ritenuto tassabile come area edificabile l'area
d'insistenza di un fabbricato di categoria F/2 (c.d. unità
collabenti).
2. Il motivo è fondato.
La Corte ha avuto modo di precisare che non
è tassabile come area edificabile l'area d'insistenza di un
fabbricato diroccato e tuttavia non demolito, mentre è
tassabile l'area di risulta della demolizione
(Cass. 23.02.2010, n. 4308).
Ciò deve essere ribadito, poiché
l'insistenza di un fabbricato riconoscibile per tale esclude
che venga in autonomo rilievo l'area di sedime, come si
evince dall'art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. 504/1992 («...
considerandosi parte integrante del fabbricato l'area
occupata dalla costruzione ...»).
Il regime tributario del fabbricato inagibile si diversifica
poi in rapporto all'incidenza del deterioramento sulle
potenzialità funzionali e reddituali del bene, le quali
costituiscono indice di capacità contributiva:
a) il fabbricato semplicemente inagibile ha una potenzialità
marginale e pertanto sconta l'imposta con riduzione del 50%
(art. 8, comma 1, d.lgs. 504/1992);
b) il fabbricato collabente (cioè in rovina, dall'etimo latino
collabi, collapsus) è privo di ogni potenzialità
e va pertanto esente da imposta, sin quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora va tassata come tale, fino al subentro della
tassazione del fabbricato ricostruito (art. 5, comma 6,
d.lgs. 504/1992).
3. Vale il seguente principio di diritto: «in
tema di imposta comunale sugli immobili, il fabbricato
accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a
non essere tassabile come fabbricato in quanto privo di
rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino
a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia
all'area fabbricabile, che da allora è tassabile come tale,
fino al subentro della tassazione del fabbricato ricostruito».
Discostatasi da questo principio attraverso il richiamo di
un precedente non conferente (Cass. 01.03.2013, n. 5166,
relativa alla c.d. edificabilità di fatto), la sentenza deve
essere cassata in accoglimento del primo motivo di
ricorso.
4. Non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve
essere decisa nel merito, con l'annullamento dell'avviso di
accertamento; restano assorbiti il secondo e terzo motivo di
ricorso, entrambi concernenti il profilo accessorio delle
sanzioni.
5. Solo in tempi recenti si è formata una
specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità
collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione
sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia
dell'area d'insistenza perché già edificata
(Cass. 19.07.2017, n. 17815): ciò impone di compensare le
spese processuali di ogni fase e grado.
6. Nella discussione d'udienza, il Pubblico Ministero ha
manifestato dissenso rispetto a questo orientamento di
legittimità, assumendo che:
i) l'unità collabente sia catastalmente irrilevante, perciò
incapace di negare l'autonoma considerazione fiscale
dell'area d'insistenza;
ii) detta esegesi implichi il paradosso dell'integrale esonero
impositivo dell'area edificata con fabbricato collabente,
area invece tassata come edificabile se libera da tale
fabbricato.
7. Ritiene il Collegio di poter assicurare continuità alla
recente giurisprudenza della Corte, osservando che:
i) l'unità collabente ha una sua propria rilevanza
catastale, seppur a fini meramente identificativi, cioè
senza attribuzione di rendita (art. 3, comma 2, lett. b,
d.m. 28/1998);
ii) l'area libera da cascami edilizi versa in condizione di pronta
edificabilità, mentre l'area impegnata da rovine esige
interventi di demolizione e bonifica necessari a reintegrare
in concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non
potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche
sotto il profilo della capacità contributiva del
proprietario
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 11.10.2017 n. 23801). |
luglio 2017 |
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TRIBUTI:
a. il fabbricato collabente iscritto in conforme
categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò
non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs.
504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5
d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e
l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può
essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a
riferimento la base imponibile costituita dal valore venale
dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge
prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei
terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella
già edificata;
c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da
cessione di area edificabile, non può essere considerata
tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di
risanamento conservativo per la quale la normativa comunale
preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento
delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di
incrementi volumetrici.
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§ 5. Si ravvisa invece la fondatezza delle doglianze
concernenti la violazione o falsa applicazione, ex art. 360,
1° co., n. 3, cod. proc. civ., della normativa Ici di
riferimento (quarto e quinto motivo di
ricorso).
La tesi della società contribuente -secondo cui (ric. pag.7)
"nulla risulta quindi dovuto ai fini Ici: i fabbricati
sono collabenti e privi di rendita e quindi non soggetti
all'imposta, e le aree sulle quali essi insistono non sono
né agricole (stante la presenza su di esse degli ex
opifici), né edificabili (stante il dettato dello strumento
urbanistico)"- deve trovare accoglimento nei termini che
seguono.
In forza dell'articolo 5 d.lgs. 504/1992, nel caso di area
edificata la base imponibile Ici è determinata dal valore
del fabbricato (1° co.); per í fabbricati iscritti in
catasto, tale valore è stabilito applicando un determinato
moltiplicatore alla rendita catastale vigente al 1° gennaio
dell'anno di imposizione (2° co.); la base imponibile è
invece costituita dal valore dell'area, considerata
fabbricabile, allorquando nell'anno di imposizione vi sia
utilizzazione edificatoria in corso dell'area stessa,
demolizione di fabbricato ovvero realizzazione di interventi
di recupero ai sensi dell'articolo 31, 1° co., legge
457/1978 lett. c), d) ed e) (6° co.).
L'applicazione di queste prescrizioni al caso di specie
induce ad escludere la fondatezza dell'avviso di
accertamento e liquidazione opposto; relativo a fabbricati
in stato di rovina e, come tali, iscritti fin dal 1999 in
categoria catastale F/2. L'attribuzione di questa categoria
(prevista dal D.M. Finanze 28/1998) presuppone infatti che
il fabbricato si trovi in uno stato di degrado tale da
comportarne l'oggettiva incapacità di produrre
ordinariamente un reddito proprio; per tale ragione
l'iscrizione in catasto avviene senza attribuzione di
rendita, ed al fine "della sola descrizione dei caratteri
specifici e della destinazione d'uso" (art. 3, 2° co.,
D.M. cit.).
In assenza di rendita, viene meno -secondo la su richiamata
disciplina istitutiva- la stessa materia determinativa della
base imponibile.
Non varrebbe obiettare, con il Comune, che l'iscrizione in
categoria catastale F/2 si presterebbe, secondo tale
interpretazione, a facile elusione dell'imposta mediante
qualificazione catastale come 'collabenti' di
fabbricati invece ancora suscettibili di apprezzabile
rilievo economico ed appetibilità commerciale.
In tale situazione, certamente possibile, sussisterebbero
infatti i presupposti per impugnare tale classificazione,
facendone emergere la sua difformità rispetto allo stato di
fatto; e ciò tenendo anche presente quanto stabilito dalla
nota 29439/2013 della Direzione Centrale Catasto e
Cartografia dell'Agenzia delle Entrate, secondo la quale
l'attribuzione della categoria in oggetto (tanto alle
abitazioni quanto ai fabbricati produttivi) "non è
ammissibile quando l'unità immobiliare è censibile in
un'altra categoria, o quando l'unità non è individuabile o
perimetrabile".
Ora, nel caso di specie non di questo si discute; dal
momento che l'effettiva spettanza, agli immobili della
ex-acciaieria, della classificazione catastale F/2 di
collabenza da essi conseguita (con quanto ne deriva in
ordine alla inesistenza di rendita ed alla inidoneità alla
produzione di reddito imponibile) non è stata posta in
discussione nemmeno dall'amministrazione comunale, così da
costituire -quantomeno per l'annualità Ici di riferimento-
un dato obiettivo e certo di causa.
Altro è a dire che, esclusa sul fabbricato, l'imposizione
Ici dovrebbe colpire l'area di insistenza del fabbricato
medesimo.
Si tratta di tesi che la commissione tributaria regionale ha
ritenuto di accogliere osservando come, nella specie, vi
fossero gli estremi per reputare "edificabile l'area già
edificata"; e ciò in forza di un programma di
fabbricazione e di un decreto assessoriale "che
consentono per gli opifici industriali già esistenti
interventi di manutenzione".
Questa soluzione non è giuridicamente corretta.
Va infatti considerato che gli elementi della fattispecie
impositiva sono prestabiliti dalla legge secondo criteri di
certezza e tassatività, e che -nel caso dell'Ici- la legge
sottopone ad imposta (art.1 d.lgs. 504/1992) unicamente (il
possesso di) queste tre ben definite tipologie di beni
immobili: fabbricati, aree fabbricabili, terreni agricoli.
Come sì è detto, il fabbricato iscritto in
categoria catastale F/2 non cessa di essere tale sol perché
collabente e privo di rendita; lo stato di collabenza ed
improduttività di reddito, in altri termini, non fa venir
meno in capo all'immobile -fino all'eventuale sua completa
demolizione- la tipologia normativa dì 'fabbricato'.
Tanto è vero che la mancata imposizione si giustifica, nella
specie, non già per assenza di 'presupposto' ex arti
cit., ma per assenza di 'base imponibile' (valore
economico pari a zero) ex art. 5 cit..
Sennonché, esclusa la rilevanza tassabile
del fabbricato collabente, l'imposizione Ici non potrebbe
essere 'recuperata' dall'amministrazione comunale
facendo ricorso ad una base imponibile tutt'affatto diversa:
quella attribuibile all'area di insistenza del fabbricato.
Ciò perché quest'ultima non rientra in nessuno dei
presupposti Ici, trattandosi all'evidenza di area già
edificata, e dunque non di area edificabile.
L'inconciliabilità fra queste due ultime
nozioni non è solo concettuale, ma anche giuridica; dal
momento che, diversamente ragionando, si verrebbe
inammissibilmente ad introdurre nell'ordinamento -in via
interpretativa- un nuovo ed ulteriore presupposto d'imposta,
costituito appunto dall'"area edificata".
In tal senso si è già pronunciata questa corte di cassazione
(sent. n. 4308/2010) la quale -investita di una fattispecie
analoga alla presente- ha ritenuto che la decisione del
giudice di secondo grado, volta a consentire il ricalcolo
dell'Ici sulla base del valore attribuito all'area
edificabile sulla quale sussisteva un fabbricato fatiscente,
non potesse ritenersi corretta; dal momento che "non
sono parificabili, per scelta del legislatore, l'ipotesi
dell'area risultante dalla demolizione di un rudere e quella
dell'immobile dichiarato inagibile ma non demolito; con la
conseguenza che, in tale ultima ipotesi, il giudice di
merito non può stabilire una categoria nuova ed ulteriore
rispetto a quelle previste dal legislatore".
Osserva il Comune che, come rilevato dal giudice di appello,
l'area già sede della ex-acciaieria può essere fatta oggetto
di interventi edilizi di recupero e manutenzione
straordinaria, sebbene limitati alla conformazione
originaria ed alla volumetria esistente; e che, in ragione
di ciò, essa mantiene una apprezzabile appetibilità
commerciale, tanto da poter essere destinata ad impieghi
edilizi speculativi mediante, appunto, ricostituzione dei
fabbricati fatiscenti.
Nel caso di specie è in effetti pacifico che i terreni
dov'era situato l'opificio dismesso, ancorché ricadenti in
un più ampio ambito destinato a verde agricolo ('Zona E'),
mantenevano, in base al PRG, la pregressa destinazione
urbanistica di impiego produttivo- industriale, sebbene per
la sola realizzazione di interventi di manutenzione; e
tuttavia l'argomento dedotto dal Comune non può dirsi
dirimente.
Va intanto considerato che la presente controversia ha ad
oggetto, non già il valore commerciale ipoteticamente
attribuibile all'area in questione nella prospettiva
dinamica della sua futura valorizzazione edilizia ed
urbanistica, ma soltanto i presupposti dell'imposizione Ici
relativi ad una determinata annualità (2002).
Sicché non sembra che possa qui prescindersi dal dato
oggettivo e pacifico in uso, secondo cui in tale annualità
(ferma restando la riconsiderazione della fondatezza della
pretesa impositiva del Comune con riguardo ad annualità
successive, nel corso delle quali quella valorizzazione
abbia, in ipotesi, trovato sbocco concreto), si verteva
appunto e soltanto di un fabbricato collabente fatto oggetto
di conforme ed incontestata iscrizione catastale; non
dedotto in alcun intervento in corso, né in alcuna
convenzione o pratica amministrativa pendente di recupero e
valorizzazione edilizia (con conseguente esclusione altresì
dell'ipotesi di cui al 6° co. dell'art. 5 d.lgs. 504/1992).
Oltre a ciò, deve comunque considerarsi errato lo stesso
richiamo alla edificabilità dell'area di insistenza del
fabbricato fatiscente.
Soccorre, in proposito, quanto già osservato -con riguardo
ad immobili della Acciaieria di Sicilia spa e siti in
Campofelíce di Roccella- da Cass. ord. nn. 20160-3/14 (Ici
2003-2006); secondo cui "non può essere
considerata edificabile l'area inserita dallo strumento
urbanistico nella zona omogenea A 'residenziale storica di
risanamento conservativo' ancorché per tale area la
normativa comunale preveda solo interventi edilizi di
recupero e risanamento delle costruzioni esistenti, senza
possibilità di incrementi volumetrici".
Si tratta di conclusione armonica rispetto all'indirizzo di
legittimità formatosi in materia di plusvalenze reddituali
realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni
suscettibili di utilizzazione edificatoria, secondo gli
strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione
stessa [art. 81, comma 1, lett. B), T.U.I.R., ora art. 67]:
Cass. nn. 15631/2014; 4150/2014; 15321/2013.
I motivi di ricorso in esame vanno pertanto accolti,
mediante affermazione del principio secondo cui:
a. il fabbricato collabente iscritto in conforme
categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò
non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs.
504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5
d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e
l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può
essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a
riferimento la base imponibile costituita dal valore venale
dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge
prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei
terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella
già edificata;
c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da
cessione di area edificabile, non può essere considerata
tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di
risanamento conservativo per la quale la normativa comunale
preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento
delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di
incrementi volumetrici
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 19.07.2017 n. 17815). |
maggio 2017 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
I diritti edificatori.
DOMANDA:
Vorremmo sapere se i cosiddetti diritti edificatori, ossia
quelle cubature non legate ad una specifica area edificabile
ma che possono essere utilizzate in altre zone del
territorio comunale oppure essere acquistate e vendute,
siano o meno soggette ad IMU ed eventualmente in che misura.
RISPOSTA:
Il diritto urbanistico statale o regionale prevede diversi
istituti giuridici volti a trasferire le capacità
edificatorie, che sono suscettibili di incidere sul valore
venale dell’area fabbricabile, tra i quali si menzionano i
seguenti:
- Trasferimento di cubatura; in virtù delle
prescrizioni dello strumento urbanistico, è possibile cedere
una quota di cubatura edificabile per consentire ad un altro
soggetto di disporre della minima estensione di terreno
richiesta per l’edificazione, oppure di realizzare una
volumetria maggiore di quella consentita dalla superficie
del suo fondo,
- Traslazione del diritto ad edificare; il
titolare del diritto ad edificare già assentito (tramite
permesso di costruire o altro titolo), quando non possa più
esercitare tale diritto a causa di un sopravvenuto vincolo
non urbanistico (ad esempio, di tipo paesaggistico), ha
facoltà di chiedere di esercitarlo su un’altra area del
territorio comunale, della quale abbia disponibilità,
-
Diritto di rilocalizzazione, in base al quale il
proprietario di un edificio, che dovrà essere demolito, o la
cui esistenza è incompatibile con la realizzazione di opere
pubbliche, potrà ricostruirlo in un’altra zona di sua
proprietà nell’ambito dello stesso comune, anche in deroga
alle limitazioni derivanti dal piano regolatore generale. Il
diritto, con il consenso del comune, è trasferibile a terzi.
La natura di tali diritti è stata a lungo controversa; a
proposito del diritto di rilocalizzazione previsto dalla
legge regionale dell’Emilia Romagna, n. 38 del 01.12.1998, l’Agenzia delle Entrate, con R.M. 233/E del 20.08.2009 ha chiarito che esso è strutturalmente assimilabile
alla categoria dei diritti reali di godimento. E’ questa la
strada seguita recentemente dal legislatore: l’art. 5, co.
3, del d.l. 70/2011 ha stabilito la trascrivibilità nei
registri immobiliari dei contratti che trasferiscono,
costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque
denominati, integrando le previsioni dell’art. 2643 c.c.
In ogni caso, il trasferimento dei diritti edificatori ha
effetto sulla determinazione dell'IMU: con tali negozi
giuridici, si modifica la valutazione del suolo
fabbricabile, la cui base imponibile è determinata anche in
funzione delle potenzialità edificatorie; i diritti
trasferiti non costituiscono un’area fabbricabile autonoma,
ma viene inciso, unicamente, il valore venale dei terreni
interessati. In conclusione, i diritti edificatori non hanno
una tassazione autonoma ma sono rilevanti nella valutazione
dell’area fabbricabile, quando sono ad essa legati (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
aprile 2017 |
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TRIBUTI: Notifiche
a mezzo posta, un pieno di insidie.
Dalle notifiche a mezzo posta degli atti
tributari un pieno di insidie per i
contribuenti.
Secondo una recentissima sentenza della
Corte di Cassazione alle notifiche fiscali
si applica infatti la disposizione contenuta
nell'articolo 1335 del codice civile secondo
la quale «ogni dichiarazione diretta a una
determinata persona si reputa conosciuta nel
momento in cui giunge all'indirizzo del
destinatario, se questi non prova di essere
stato, senza sua colpa, nell'impossibilità
di averne notizia».
Se questa tesi dei giudici di legittimità
(Sez. V civile) contenuta nella
sentenza
26.04.2017 n. 10245, dovesse affermarsi, ne
deriverebbero gravi conseguenze per i
contribuenti.
In quanto si verrebbe ad affermare che la
notifica è giunta a buon fine anche quando
l'atto venga consegnato ad un soggetto che
si trovi in loco del tutto per caso, come un
conoscente del figlio del destinatario
oppure, al limite, a chi si è introdotto
abusivamente nella proprietà altrui. Ponendo
sul destinatario l'onere della prova -difficile e quasi diabolica- di essere
stato senza colpa nell'impossibilità di
avere notizia della circostanza.
In ambito tributario infatti a seguito della
notifica scatta un breve termine entro il
quale il debitore deve contestare nelle
forme di legge la pretesa del Fisco (in
genere ricorrendo alla giustizia
tributaria); se egli resta inerte la pretesa
fiscale si «consolida», cioè si ha per
definitivamente accertata.
Di qui l'enorme rilievo che assumono del
diritto tributario le norme sulla notifica
degli atti impositivi.
Per quanto sopra illustrato molto spesso
accade che il contribuente venga a
conoscenza della pretesa fiscale solo quando
inizia la procedura di riscossione coattiva.
E in quel momento affermi di non aver avuto
notizia dell'atto di accertamento. Ma questa
sua asserita ignoranza è irrilevante se
l'atto impositivo è stato notificato,
secondo regole e prassi che tendono ad
avvantaggiare il Fisco, ad esempio
consentendogli di ricorre al servizio
postale; né è necessaria la prova che il
contribuente abbia ricevuto materialmente
l'atto impositivo, ma è sufficiente che esso
sia giunto in un'area, come la buca delle
lettere, ove il contribuente avrebbe potuto
prenderne visione; o a mani di una persona
che si può presumere gli consegni la
missiva.
Legge e regolamento postale individuano poi
i soggetti cui l'atto inviato per posta può
essere consegnato; si tratta di un elenco
piuttosto ampio, ma ove la consegna avvenga
a chi non ha alcun legame con il
contribuente e con il luogo della notifica,
sarebbe logico ritenere che la notifica non
sia andata a buon fine.
Nei rapporti di diritto civile invece il
creditore non è collocato in una posizione
istituzionale di vantaggio rispetto al
debitore, e perciò la notifica informa
soltanto il debitore di quanto da lui si
pretende; ed impedisce il venir meno del
diritto (per prescrizione o decadenza). Ma
il debitore non ha, di regola, alcun onere
di replicare alla richiesta pervenutagli. E
se il creditore vorrà realizzare il suo
diritto dovrà rivolgersi al giudice, avanti
al quale il debitore potrà difendersi.
Dunque nei rapporti privati la applicazione
dell'art. 1335 del codice civile produce
effetti limitati Mentre l'applicazione del
medesimo principio alla notifica degli atti
tributari produce effetti negativi
dirompenti per il presunto debitore. E
simile applicazione estensiva dell'art. 1335
pare tradisca la funzione della norma, che
è, inserita nel libro quarto (delle
obbligazioni) nel capo II (dei contratti in
generale) del codice civile; e quindi non è
stata concepita per regolare un rapporto
pubblicistico come quello tributario, che è
fondato non sul consenso contrattuale, bensì
sul potere impositivo dello Stato
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017). |
marzo 2017 |
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TRIBUTI:
Giurisdizione del giudice tributario per le controversie
sulla restituzione di canoni per installazione di mezzi
pubblicitari non dovuti.
---------------
Giurisdizione – Pubblicità – Canone installazione di
mezzi pubblicitari – Restituzione somma indebitamente
versata – Diniego del Comune – Controversia – Art. 19, comma
1, lett. g), d.lgs. n. 546 del 1992 – Giurisdizione giudice
tributario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice tributario, ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett.
g), d.lgs. 31.12.1992, n. 546, la controversia avente ad
oggetto il diniego, opposto da un Comune, restituzione del
canone, previsto dall'art. 62, d.lgs. 31.12.1997, n. 446, di
installazione dei mezzi pubblicitari, asseritamente versato
in eccedenza al dovuto nel periodo 2005/2013, costituendo
una mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità e
conservando, quindi, la qualifica di tributo propria di
quest'ultima (1).
---------------
(1)
Ad avviso del Tar sussiste quindi la giurisdizione del
giudice tributario ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. g,
d.lgs. 31.12.1992, n. 546, il quale annovera tra gli atti
impugnabili innanzi alla Commissione tributaria “il
rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi,
sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non
dovuti”.
Il Tar ha escluso possa richiamarsi, a sostegno della
propria giurisdizione, l’indirizzo giurisprudenziale secondo
cui deve essere affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo in materia di impugnazione di regolamenti o
di deliberazioni comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, in quanto il ricorso in
questione si incentra sulla natura indebita del pregresso
pagamento del tributo e sull’obbligo di restituzione da
parte del Comune, stante la dedotta illegittimità del canone
fissato relativamente al periodo 2005/2013 (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 20.03.2017 n. 438
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: La
violazione di circolari ministeriali non può costituire
motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della
violazione di legge; posto che esse non contengono norme di
diritto, bensì mere disposizioni di indirizzo uniforme
interno all'Amministrazione da cui promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di
meri atti amministrativi non provvedimentali, e che
escludono che esse possano fondare posizioni di diritto
soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione
stessa.
A questa regola non si sottraggono le circolari
dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri
discrezionali nella determinazione delle imposte dovute,
regolata per legge), le quali non vincolano né i
contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto,
anch'esse esenti dal controllo di legittimità
---------------
§ 3. Con il terzo motivo di ricorso ci si duole di
violazione o falsa applicazione della circolare dell'Agenzia
delle Entrate n. 6/E del 06.02.2007, e dell'articolo 52
decreto legislativo 446/1997 (potestà regolamentare dei
Comuni in materia di tributi locali); per avere la
Commissione Tributaria Regionale ritenuto legittimo l'avviso
di rettifica, nonostante che quest'ultimo -in violazione
della circolare- si fosse basato, nella stima non di un
fabbricato ma di un'area edificabile non urbanizzata, sui
listini OMI, invece che sulle valutazioni rese dai Comuni a
fini ICI.
La censura è inammissibile nella parte in cui intende far
valere la violazione della circolare dell'Agenzia delle
Entrate n. 6/E del 06.02.2007; è invece infondata nella
parte in cui deduce la violazione o falsa applicazione della
disciplina legislativa in materia di determinazione del
valore venale degli immobili e dei diritti reali
immobiliari.
Per quanto concerne il primo aspetto, va qui
riaffermato che la violazione di circolari ministeriali non
può costituire motivo di ricorso per cassazione sotto il
profilo della violazione di legge; posto che esse non
contengono norme di diritto, bensì mere disposizioni di
indirizzo uniforme interno all'Amministrazione da cui
promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di
meri atti amministrativi non provvedimentali, e che
escludono che esse possano fondare posizioni di diritto
soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione
stessa. A questa regola non si sottraggono le circolari
dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri
discrezionali nella determinazione delle imposte dovute,
regolata per legge), le quali non vincolano né i
contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto,
anch'esse esenti dal controllo di legittimità (Cass. n.
16612/2008; n. 11449/2005).
Né può omettersi di considerare come la stessa circolare qui
invocata dai contribuenti comunque dettasse,
nell'indicazione dei parametri valutativi di fabbricati e
terreni edificabili, prescrizioni puramente indicative e non
cogenti nemmeno per gli stessi uffici accertatori
destinatari: "per le aree fabbricabili, gli uffici
'potranno' fare riferimento alle determinazioni di valore
eventualmente adottate dai Comuni ..."
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 08.03.2017 n. 5937). |
febbraio 2017 |
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TRIBUTI: Tari,
giudici senza poteri su agevolazioni e sconti.
Il giudice non può sostituirsi all'amministrazione comunale
nella scelta di concedere sconti, agevolazioni, riduzioni e
esenzioni Tari. Spetta al comune il potere di riconoscere
con regolamento eventuali benefici fiscali. La commissione
tributaria può solo censurare le norme regolamentari in
presenza di macroscopiche violazioni di legge.
E quanto ha affermato la Ctr di Firenze, Sez. X, con la
sentenza 09.02.2017 n. 375.
Dunque, per il giudice d'appello non è possibile riconoscere
un'agevolazione per la tassa rifiuti se l'amministrazione
non l'ha prevista nel regolamento e può censurare il suo
comportamento solo se rileva una violazione di legge.
Il
regolamento della tassa rifiuti deliberato dal comune di
Campo nell'Elba è stato ritenuto in linea con le previsioni
di legge dalla commissione regionale «in considerazione del
fatto che la normativa consente ai comuni una certa
discrezionalità in ordine alla possibilità di prevedere
sconti, agevolazioni, riduzioni e esenzioni. Nell'ambito di
tale potere discrezionale, il suo esercizio parrebbe quindi
essere censurabile solo in presenza di macroscopiche
violazioni di legge che nel caso in esame non è dato
ravvisare».
In effetti, le amministrazioni comunali hanno
ampi poteri sui benefici fiscali per il tributo sui rifiuti.
Oltre alle agevolazioni che devono essere assicurate ai
contribuenti ex lege, gli enti hanno la facoltà di concedere
riduzioni tariffarie e esenzioni tendenzialmente legate alla
minore produzione di rifiuti. Possono stabilire con
regolamento riduzioni tariffare, senza limiti, e esenzioni
anche legate al reddito familiare. Le agevolazioni Tari,
infatti, possono essere collegate alla capacità contributiva
dei contribuenti, desunta dagli indicatori della situazione
economica (Isee). L'articolo 1 della legge di Stabilità 2014
(147/2013) consente di ridurre il carico del prelievo in
capo a soggetti in condizioni di difficoltà
economico-sociale.
La concessione di agevolazioni
facoltative non è limitata alle riduzioni, ma può arrivare
fino alle esenzioni. Possono essere deliberate riduzioni
tariffarie che, a differenza della Tares, non sono più
soggette alla soglia massima del 30%, o esenzioni per
particolari situazioni espressamente individuate dalla
legge. Le riduzioni della tassa per il servizio di
smaltimento possono essere riconosciute in presenza di
situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità
di produzione di rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2017). |
TRIBUTI: La
classificazione catastale decide l'esenzione.
Cassazione sull'ici. rilevanza
all'autocertificazione presentata da una coop.
L'esenzione Ici spetta per i fabbricati strumentali
all'attività agricola solo se sono inquadrati catastalmente
nella categoria D/10.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, che ha però dato rilevanza all'autocertificazione
presentata sul possesso dei requisiti da parte di una
società cooperativa per i 5 anni precedenti, ancorché
l'istanza di variazione catastale in categoria D/10 fosse
stata presentata 2 anni dopo (2009) rispetto all'anno
d'imposta accertato dal comune (2007).
Infatti con la
sentenza 27.01.2017 n. 2115 ha
respinto il ricorso della cooperativa e ha sostenuto che per
avere diritto all'esenzione Ici non conta che il fabbricato
sia strumentale all'attività agricola, ma è necessario che
sia classificato nella categoria D/10; mentre con la
sentenza 08.02.2017 n. 3350, pur affermando
questa regola, ha accolto il ricorso proposto dalla stessa
società cooperativa, per la medesima annualità, anche se le
controparti erano due comuni diversi, facendo leva
sull'autocertificazione. In entrambi i casi decisi gli
immobili erano iscritti nella categoria D/8.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che l'istanza di
variazione catastale nella categoria D/10 presentata nel
2009 potesse avere efficacia nel 2007, nonostante l'immobile
fosse inquadrato nella categoria D/8, in presenza di
un'autocertificazione attestante il possesso dei requisiti,
alla quale è stata riconosciuta un'efficacia retroattiva ai
fini del classamento.
Questo vuol dire che la società
cooperativa ha autocertificato una data situazione che si
pone in palese contrasto con l'istanza di variazione
catastale presentata nel 2009 all'Agenzia del territorio e,
soprattutto, con la classificazione catastale che il
fabbricato aveva nell'anno d'imposta accertato (2007).
Il
principio che si ricava dalle due pronunce in commento è che
2 casi analoghi possono essere trattati dallo stesso giudice
in maniera diversa. Va posto in rilievo che agli immobili
accertati, che hanno formato oggetto delle pronunce della
Cassazione, era stata attribuita la stessa categoria
catastale (D/8).
Del resto sulla materia de qua la Cassazione, anche di
recente, ha cambiato posizione sui requisiti per fruire del
trattamento agevolato Ici sui fabbricati rurali e ha rivisto
la tesi espressa con alcune pronunce emanate nel 2015. Con
la sentenza 16179/2016 ha chiarito che vanno ritenute
isolate le pronunce del 2015 con le quali aveva ritenuto
esenti dall'imposta comunale i fabbricati rurali, in
presenza dei requisiti di legge, a prescindere dal loro
inquadramento catastale. Dunque, ha stabilito che non va
dato seguito alle sentenze con le quali è stato sostenuto
che conta solo la ruralità degli immobili per avere diritto
ai benefici fiscali.
I possessori di fabbricati utilizzati
per l'esercizio dell'attività agricola possono reclamare
l'esenzione Ici solo se hanno ottenuto l'iscrizione
catastale di questi immobili nelle categorie A/6 (destinati
ad abitazione) o D/10 (destinati alla manipolazione,
trasformazione e vendita di prodotti agricoli). Ciò
costituisce «un presupposto necessario ed indefettibile» per
l'esclusione del fabbricato dall'assoggettamento all'Ici
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2017). |
settembre 2016 |
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TRIBUTI:
Applicazione imposta comunale pubblicità ONLUS.
Il D.Lgs. n. 507/1993 disciplina,
all'art. 5, il presupposto dell'imposta sulla pubblicità,
nonché, agli artt. 16 e 17, le ipotesi di riduzione ed
esenzione di tale tributo con particolare riferimento, tra
gli altri, agli organismi che non perseguono finalità di
lucro (tali sono le ONLUS).
In particolare, ai sensi dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993,
presupposto di applicazione dell'imposta sulla pubblicità è
la diffusione di messaggi pubblicitari (comma 1): ai fini
dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi
nell'esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma
2).
Ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997, gli enti locali
possono prevedere in generale per le ONLUS l'esenzione dalla
suddetta imposta sulla pubblicità.
Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta di esenzione
permanente dal pagamento dell'imposta di pubblicità da parte
di una associazione locale di donatori di sangue, di cui ha
verificato la natura di ONLUS, e chiede se, avuto riguardo
alle previsioni del D.Lgs. n. 460/1997 e a quelle del
proprio regolamento in materia di pubblicità e pubbliche
affissioni [1],
possa essere disposta la riduzione o l'esenzione permanente
dal tributo.
Si precisa che l'attività di consulenza di questo Servizio è
finalizzata a fornire un supporto giuridico in generale agli
enti locali, nella materia posta, che questi possono
utilizzare per la soluzione dei casi concreti che si
presentano al loro operare, in relazione alle loro
specificità. In particolare, l'interpretazione e
applicazione di norme regolamentari emanate dai comuni,
nell'esercizio della loro potestà normativa, compete
unicamente agli enti medesimi. Per cui, solo in via
collaborativa, si esprimono le considerazioni che seguono.
L'art. 10, D.Lgs. n. 460/1997, precisa che sono
organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) le
associazioni, i comitati, le fondazioni, le società
cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o
senza personalità giuridica, ove ricorrano i presupposti e
le condizioni fissati dalla norma medesima.
Ai soggetti che, ai sensi dell'art. 10 richiamato, possono
qualificarsi ONLUS, il legislatore ha riconosciuto
particolari agevolazioni, soprattutto di carattere fiscale,
subordinati alla necessaria iscrizione all'Anagrafe delle
ONLUS (art. 11, D.Lgs. n. 460/1997).
Specificamente, in materia di tributi locali, l'art. 21,
D.Lgs. n. 460/1997, prevede che i comuni, possono deliberare
nei confronti delle ONLUS la riduzione o l'esenzione dal
pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi
adempimenti [2].
Per quanto concerne specificamente l'applicazione
dell'imposta comunale sulla pubblicità ai soggetti ONLUS, il
regolamento dell'Ente in materia di imposta di pubblicità e
pubbliche affissioni, nello stralcio riportato nel quesito,
relativo alla riduzione e all'esenzione dall'imposta,
prevede, tra i casi di riduzione, quello 'per la
pubblicità effettuata da comitati, associazioni, fondazioni
ed ogni altro ente che non abbia finalità di lucro'
[3], quali
le ONLUS. Mentre, per quanto concerne l'esenzione, il
regolamento comunale, così come riportato nel quesito, non
sembra contemplare alcune ipotesi di esenzione per gli enti
senza fini di lucro.
Sul piano dell'ordinamento statale, il D.Lgs. n. 507/1993
disciplina, agli artt. 16 e 17, le ipotesi, rispettivamente,
di riduzione e di esenzione dell'imposta di pubblicità. La
riduzione è prevista, tra l'altro, 'per la pubblicità
effettuata da comitati, associazioni, fondazioni ed ogni
altro ente che non abbia finalità di lucro' (art. 16).
Può trattarsi, invero, della pubblicità mediante insegne,
cartelli, locandine, targhe (Pubblicità ordinaria, di cui
all'art. 12), oppure della pubblicità a mezzo striscioni
(come riferito nel caso in esame), contemplata all'art. 15
(Pubblicità varia), assoggettata alla stessa tariffa
prevista dall'art. 12.
Per quanto concerne, invece, le ipotesi di esenzione
dall'imposta di cui si tratta, il D.Lgs. n. 507/1993 indica,
con riferimento ai soggetti non aventi finalità di lucro,
quella specifica per 'le insegne, le targhe e simili
apposte per l'individuazione delle sedi di comitati,
associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non persegua
scopo di lucro' (art. 17, comma 1, lett. h).
In generale, emerge dalle norme richiamate come i soggetti
non aventi fine di lucro possono essere destinatari della
riduzione o dell'esenzione dall'imposta di pubblicità. La
ricorrenza dei presupposti dell'una o dell'altra fattispecie
deve essere valutata dagli enti in relazione alle
particolarità dei casi concreti.
Con particolare riferimento al caso di specie, l'Ente
osserva, peraltro, che sugli striscioni esposti
dall'associazione locale (ONLUS) 'non viene pubblicizzata
alcuna attività economica né evento di raccolta fondi'.
Ne deriva la necessità che l'Ente valuti innanzitutto la
ricorrenza del presupposto di applicazione dell'imposta di
pubblicità, che, avuto riguardo al dettato normativo come
esplicitato dalla giurisprudenza, sembra poggiare sulla
natura economica dell'attività pubblicizzata. Ai sensi
dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993, infatti, presupposto
dell'imposta sulla pubblicità è 'la diffusione di
messaggi pubblicitari' (comma 1), e ai fini
dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi
nell'esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma 2)
[4]. La
valutazione di un tanto, nel caso specifico, è rimessa
all'autonomia dell'Ente.
Rimane ferma, ovviamente, la possibilità per l'Ente di
prevedere in generale l'esenzione per le ONLUS espressamente
del tributo locale di cui si tratta, in via regolamentare,
ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997.
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 3, D.Lgs. 15.11.1993, n. 507
(Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla
pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della
tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei
comuni e delle province nonché della tassa per lo
smaltimento dei rifiuti urbani a norma dell'art. 4 della
legge 23.10.1992, n. 421, concernente il riordino della
finanza territoriale), il comune è tenuto ad adottare
apposito regolamento per l'applicazione dell'imposta sulla
pubblicità e per l'effettuazione del servizio delle
pubbliche affissioni.
[2] La norma è espressione della potestà regolamentare
generale degli enti locali di cui all'art. 52 del D.Lgs. n.
446/1997, che riconosce ai Comuni e alle Province il potere
di disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche
tributarie, salvo per quanto attiene alla individuazione e
alla definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti
passivi e della aliquota massima dei singoli tributi, la cui
determinazione è riservata alla legge. Per quanto non
regolamentato si applicano le disposizioni di legge vigenti.
[3] Analogamente prevede la normativa statale, come
specificato subito nel prosieguo.
[4] Precisa la giurisprudenza che presupposto impositivo è
la 'pubblicità (economica)' attinente all'attività economica
di un soggetto imprenditoriale, distinta dalla legge nelle
due specie della 'propaganda (economica)', che consiste
nella trasmissione di conoscenza di prodotti e servizi
dell'impresa al fine di incrementarne la domanda, e
dell''attività di relazioni pubbliche', che consiste nella
trasmissione di conoscenza sul soggetto imprenditoriale allo
scopo di migliorarne l'immagine presso il pubblico dei
consumatori, che domandano i beni e i servizi di
quell'impresa. La prima è una pubblicità (economica) diretta
(dei beni e dei servizi); la seconda è una pubblicità
(economica) indiretta (degli stessi beni e degli stessi
servizi). Cfr. Cass. civ., Sez. V, 06.11.2009, n. 23573.
Conformi sul collegamento dei messaggi pubblicitari
all'esercizio di un'attività economica: Cass. civ., sez.
trib., 11.02.2015, n. 2629; Commissione tributaria
provinciale, Ascoli Piceno, sez. V, 21.09.2010, n. 219, che
ha escluso la sussistenza del presupposto impositivo nel
caso di esposizione di uno striscione senza alcun
collegamento con un'attività imprenditoriale.
In ordine al concetto di impresa, la Cassazione civile, sez.
trib., 16.07.2010, n. 16722, richiama la consolidata
giurisprudenza della Corte di giustizia, nell'ambito del
diritto alla concorrenza, secondo cui la nozione di impresa
abbraccia qualsiasi entità che eserciti un'attività
economica (Corte di giustizia UE, sez. VI, 23.04.1991, n. 41
e 11.12.1997, n. 55), e costituisce un'attività economica
qualsiasi attività consistente nell'offrire beni o servizi
su un determinato mercato (Corte di giustizia UE, sez. V,
18.06.1998, n. 35).
In questo senso, v.: Cass. civ., sez. I, 28.11.1995, n.
12319, secondo cui il messaggio pubblicitario, per essere
soggetto all'imposta in esame, deve avere il suo punto di
riferimento nella produzione o vendita di merci o nella
fornitura di servizi, e ciò anche se si ritiene non
essenziale che tale attività sia posta in essere da un
soggetto organizzato ad impresa; Cass. civ., sez. V,
27.06.2005, n. 13823, che ha ritenuto che le scritte sulle
fiancate delle navi recanti il nome e il logo della
compagnia navale non devono essere assoggettate all'imposta
sulla pubblicità, in quanto sprovviste dello scopo di
promuovere la domanda di beni e di servizi per la società di
appartenenza e di pubblicità, ma hanno lo scopo di
indirizzare i passeggeri che hanno già acquistato il
biglietto verso la nave su cui imbarcarsi (06.09.2016
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agosto 2016 |
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TRIBUTI:
Pertinenza dell'abitazione principale.
Ai fini all'imposta municipale propria,
la nozione di pertinenza dell'abitazione principale si
rinviene nell'art. 817, primo comma, del codice civile
(«Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a
servizio o ad ornamento di un'altra cosa.»).
La giurisprudenza individua i presupposti e delinea i
caratteri della pertinenza, precisando che, in materia
fiscale, la prova dell'asservimento pertinenziale, che grava
sul contribuente, deve essere valutata con maggior rigore
rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non
avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il
prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la
tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del
cespite'.
Il Comune richiede un parere in merito alla correttezza, o
meno, dell'accettazione -ai fini dell'imposta municipale
propria- della dichiarazione di pertinenzialità
[1],
rispetto all'abitazione principale, di due fabbricati,
effettivamente adibiti a stalla [2],
ancorché diversamente accatastati nelle categorie C/2 e C/6,
atteso che la Cassazione civile afferma che «Se la scelta
pertinenziale non è giustificata da reali esigenze
(economiche, estetiche, o di altro tipo), non può avere
valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che
impone la tassazione in ragione della reale natura del
cespite» [3].
Occorre, anzitutto, chiarire che, in relazione alla
problematica rappresentata, questo Ufficio non può che
limitarsi a fornire, in via meramente collaborativa,
elementi utili ad individuare la nozione ed i caratteri
della pertinenza, considerato che la materia oggetto di
quesito ricade nell'ambito della competenza dell'Agenzia
delle entrate, alla quale il Comune deve rivolgersi
direttamente per acquisire il relativo parere
[4].
L'art. 13, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n.
214, dispone -per quanto qui rileva- che l'imposta
municipale propria «non si applica al possesso
dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa,
ad eccezione di quelle classificate nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9» e stabilisce che per
pertinenze dell'abitazione principale «si intendono
esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali
C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità
pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali
indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità
ad uso abitativo».
La disciplina dell'imposta municipale propria (così come era
avvenuto per quella riguardante la previgente imposta
comunale sugli immobili) non fornisce la nozione di
pertinenza, cosicché questa va necessariamente rinvenuta
nell'art. 817, primo comma, del codice civile, in base al
quale «Sono pertinenze le cose destinate in modo
durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa.». Il
secondo comma dello stesso articolo dispone, poi, che «La
destinazione può essere effettuata dal proprietario della
cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima.».
La predetta nozione civilistica consente, dunque, di
affermare che le pertinenze sono costituite da
un'aggregazione di cose mobili o immobili in cui l'una,
secondaria, è subordinata al servizio o all'ornamento
dell'altra, principale, in un 'rapporto di
complementarità funzionale', che lascia inalterate
l'individualità e l'autonomia giuridica dei singoli beni,
che vengono uniti dal trattamento giuridico.
[5]
In via generale, la giurisprudenza afferma che:
- l'insorgenza del vincolo pertinenziale richiede la
contemporanea presenza di due presupposti, consistenti nel
collegamento funzionale tra la cosa accessoria e la cosa
principale (elemento oggettivo) e nell'effettiva volontà
dell'avente diritto di destinare una cosa a servizio o ad
ornamento dell'altra (elemento soggettivo);
[6]
- il vincolo funzionale che lega tra loro la cosa principale
e la pertinenza non può avere un contenuto qualsiasi ad
libitum del titolare, ma deve realizzare effettivamente un
miglior sfruttamento o una maggiore utilizzazione della cosa
principale, di cui deve fornire un riscontro effettivo e
attuale. [7]
Con riferimento all'applicazione dell'istituto in ambito
tributario, la Cassazione civile sancisce che:
- l'attribuzione della qualità di pertinenza si fonda sul
criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e
concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra;
[8]
- per l'art. 817 del codice civile 'le cose' si
considerano 'pertinenze' di 'un'altra cosa'
non semplicemente perché poste a 'servizio o ad ornamento'
della stessa ma solo se tale destinazione sia
(soggettivamente ed oggettivamente) 'durevole',
ovverosia presenti segni concreti esteriori dimostrativi
della volontà del titolare di imporre a quelle cose uno
degli scopi considerati dalla norma civilistica;
[9]
- in materia fiscale, stante l'indisponibilità del rapporto
tributario, la prova dell'asservimento pertinenziale, che
grava sul contribuente, deve essere valutata con maggior
rigore rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non
avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il
prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la
tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del
cespite'; [10]
- la 'simulazione' di un vincolo di pertinenza, ai
sensi dell'art. 817 del codice civile, al fine di ottenere
un risparmio fiscale, va inquadrata nella più ampia
categoria dell'abuso di diritto. [11]
Parte delle predette indicazioni sono ribadite, in sede
interpretativa, dalla circolare n. 3/DF dd. 18.05.2012
[12] del
Ministero dell'economia e delle finanze.
---------------
[1] Dichiarazione prodotta di recente ed in virtù della
quale il contribuente richiede il rimborso dell'imposta
versata negli anni 2012 e 2013.
[2] L'Ente segnala che il contribuente, persona fisica, non
svolge alcuna attività di tipo agricolo-imprenditoriale e
che nel 2014 egli ha concesso in locazione ad un'azienda
agricola le pertinenze in questione, relativamente alle
quali l'Agenzia delle entrate ha riconosciuto il carattere
di ruralità.
[3] Sez. trib., 30.11.2009, n. 25127 e 29.10.2010, n. 22128.
[4] In www.agenziaentrate.gov.it sono riportate le
istruzioni concernenti il ricorso all'istituto
dell'interpello ed è precisata la differenza tra questo e
l'attività di consulenza giuridica svolta dall'Agenzia delle
entrate.
[5] V. Consiglio di Stato - Sez. V, sent. 17.11.2014, n.
5615.
[6] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit..
[7] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit., il
quale soggiunge che il vincolo pertinenziale «non può,
quindi, consistere in una semplice dichiarazione di volontà
[...], ma deve estrinsecarsi in un comportamento
riconoscibile da terzi».
[8] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., 10.11.2010, n. 22844 e
30.12.2015, n. 26077; Sez. VI, 17.02.2015, n. 3148.
[9] Sez. trib., n. 22128/2010, cit. e 08.11.2013, n. 25170.
[10] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e
n. 25170/2013, cit..
[11] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e
n. 25170/2013, cit., che richiamano la pronuncia delle SS.UU.
23.12.2008, n. 30055, nel cui ambito è stato, tra l'altro,
affermato che «non può non ritenersi insito
nell'ordinamento, come diretta derivazione delle norme
costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non
può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto,
pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione,
di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili
che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale».
[12] «Imposta municipale propria (IMU). Anticipazione
sperimentale. Art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201,
convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214. Chiarimenti». V.
il paragrafo 6 (08.08.2016 -
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luglio 2016 |
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TRIBUTI: Ici
e Imu su aree pertinenziali. Siti tassati se accatastati
separatamente dal fabbricato. Il principio nella sentenza n.
1844 della Ctr Bologna che vale anche ai fini della Tasi.
Si restringono sempre di più le maglie per l'intassabilità
delle aree edificabili che sono ritenute dai contribuenti
pertinenze dei fabbricati. La questione non è di poco conto
perché la regola ha implicazioni ad ampio raggio e produce
effetti sia per i tributi locali, Ici, Imu e Tasi, sia per i
tributi erariali.
La Commissione tributaria regionale di Bologna, Sez. XII,
con la sentenza 04.07.2016 n. 1844, infatti, ha
affermato che un'area edificabile pertinenziale è soggetta
al pagamento dell'Ici, ma il principio vale anche per Imu e
Tasi, se accatastata separatamente dal fabbricato.
Dunque, è necessario un accatastamento unitario dei due
immobili, con l'attribuzione di un'unica rendita.
Sulla questione de qua ci sono poche certezze poiché la
Cassazione ha più volte modificato il proprio orientamento.
Ha comunque stabilito che l'accatastamento separato dei due
immobili non è d'impedimento all'intassabilità dell'area
come pertinenza del fabbricato. Tesi che è in netto
contrasto con quanto sostenuto da tempo dall'Agenzia delle
entrate.
Per quanto concerne le condizioni richieste per evitare
l'assoggettamento a imposizione delle aree pertinenziali non
c'è stata nel corso dell'ultimo decennio un'uniformità di
vedute né all'interno della Cassazione né tra i giudici di
merito.
La Cassazione, anche con la recente sentenza 8367/2016, non
ha imposto l'accatastamento unitario tra area e fabbricato,
ma ha precisato che tra i due immobili deve sussistere «un
vincolo d'asservimento durevole, funzionale o ornamentale
delle aree al fabbricato, con il fine di migliorarne le
condizioni d'uso, la funzionalità e il valore».
E la prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale grava
sul contribuente. Del resto, sottolineano i giudici di
legittimità, la mera «scelta» pertinenziale avrebbe l'unica
funzione di eludere il prelievo, per ottenere un risparmio
fiscale. Quindi, darebbe luogo a un abuso del diritto.
Le prese di posizione della Cassazione. Con la sentenza
5755/2005 la Cassazione ha stabilito che quando si tratta di
pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze
catastali, ma la destinazione di fatto.
L'area che costituisce, di fatto, pertinenza di un
fabbricato non è soggetta a Ici, come area edificabile,
anche se iscritta autonomamente al catasto.
Con questa pronuncia non ha posto alcun vincolo o
adempimento a carico del contribuente.
Successivamente ha riconosciuto il beneficio solo nei casi
in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo
dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di
variazione (sentenza 19638/2009).
Sia in passato che con l'ultima pronuncia (8367/2016) ha
sempre ritenuto irrilevante la circostanza che un'area
pertinenziale e una costruzione principale siano censite
catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere
assoggettate a tassazione come un unico bene.
Il vincolo pertinenziale, però, deve essere visibile e va
rilevato dallo stato dei luoghi, altrimenti i due immobili
sono soggetti a imposizione autonomamente.
Sempre la Cassazione, con la sentenza 17035/2004, richiamata
nella motivazione della sentenza 19638/2009, aveva chiarito
che per le aree pertinenziali non si introduce alcuna
particolare e nuova accezione di pertinenza, ma,
semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va
fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale,
dall'articolo 817 del Codice civile.
Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze le
cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento
di un'altra cosa.
Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole
destinazione della cosa accessoria a servizio o ornamento di
quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di
creare la destinazione.
Il contrasto tra i giudici di merito. Le divergenze emergono
soprattutto tra i giudici di merito sul trattamento fiscale
delle aree pertinenziali. Di segno opposto, in effetti, è la
pronuncia della Ctr di Milano rispetto a quella emanata
dalla Ctr di Bologna. La Ctr di Milano, sezione XIX, con la
sentenza 14/2016, ha stabilito che un terreno può essere
qualificato pertinenziale anche se non è accorpato
catastalmente a un fabbricato.
La «graffatura», vale a dire l'unione dei due beni immobili
in catasto, agevola l'attività di controllo dell'ente
impositore, ma non può essere considerata decisiva per
attribuire al terreno natura pertinenziale.
Per i giudici lombardi, il fatto che un terreno non sia
censito al catasto urbano unitamente al fabbricato destinato
ad abitazione non può comportare il disconoscimento delle
agevolazioni «prima casa», contrariamente a quanto sostenuto
dall'Agenzia delle entrate. In realtà, secondo la
commissione regionale, «la normativa in materia di imposta
di registro non prevede alcuna limitazione tassativa
rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale
di un fabbricato, ai fini di potere fruire delle cosiddette
agevolazioni «prima casa», ma solo una elencazione
esemplificativa»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
giugno 2016 |
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APPALTI - TRIBUTI: Baratto
amministrativo senza limiti temporali. Corte dei conti. Il
coordinamento con la riforma degli appalti.
Le disposizioni sul baratto
amministrativo del Dl 133/2014 devono essere coordinate con
le nuove norme introdotte dagli articoli 189 e 190 del
Codice dei contratti pubblici, che delineano una più ampia
prospettiva di coinvolgimento dei cittadini.
La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto, con il
parere 21.06.2016 n. 313
ha rilevato che il quadro normativo è molto articolato e
composto da disposizioni accomunate dalla prospettiva di
valorizzare il principio di sussidiarietà, che viene assunto
nel Dlgs 50/2016 attraverso le attività che possono essere
esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle
loro formazioni sociali, come canone dell’azione
amministrativa nell’ambito della tutela del territorio e
della manutenzione di esso, traducendosi per le
amministrazioni interessate nella possibilità di adottare
forme procedimentali semplificate.
Il parere individua le differenze tra l’articolo 24 del Dl
133/2014 e le nuove disposizioni del Codice dei contratti,
evidenziando che queste ultime esprimono la facoltà di
attivare contratti di partenariato sociale da parte di tutti
gli enti territoriali (mentre l’articolo 24 li riserva ai
Comuni) e che la stessa esenzione o riduzione dei tributi
non è più prevista necessariamente per un periodo limitato.
Inoltre, le agevolazioni contemplano la previsione della
possibilità di affidare la valorizzazione delle vie e piazze
mediante iniziative culturali di vario genere. In tutti
questi casi il riconoscimento specifico del ruolo che i
cittadini svolgono nel perseguimento di interessi generali è
connotato dal Dlgs 50/2016 in modo molto più ampio.
La Corte dei conti fornisce nella deliberazione una serie di
chiarimenti specifici sull’applicazione dell’istituto. In
primo luogo, viene precisato che se gli interventi
dell’articolo 24 sono realizzati dai cittadini non avendo a
presupposto agevolazioni tributarie, ma in forma di
volontariato, queste attività dovrebbero essere ricondotte a
organismi strutturati, in grado di farsi carico degli oneri
assicurativi. Se invece gli interventi dei cittadini sono
correlati a riduzioni o agevolazioni tributarie è necessario
che sussista un rapporto di stretta inerenza tra queste
facilitazioni e le attività di cura e valorizzazione del
territorio che i cittadini possono realizzare, dovendo tener
conto che i servizi, sostitutivi del pagamento delle imposte
locali.
La prestazione offerta dal cittadino deve quindi
corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali
agevolate, ma la delibera assunta dall’ente deve motivare la
decisione di avvalersi del baratto sulla base di un’attenta
valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la
convenienza, anche economica, della scelta.
Gli articoli 189 e 190 del Codice dei contratti ora evolvono
il quadro, collegandolo alle riduzioni o esenzioni di
tributi; la compensazione tra debiti (o crediti) di cui solo
uno esistente, essendo l’altro futuro ed eventuale, può
essere applicata solo a seguito dell’integrale e
soddisfacente realizzazione dell’opera o del servizio.
In questo rapporto, le prestazioni richieste ai beneficiari
di provvidenze comunali stanziate non possono che rivestire
forme di collaborazione sociale senza corrispettività con il
contributo economico elargito. Pertanto non possono essere
qualificati come rapporto di lavoro e nemmeno essere
computati nel calcolo delle spese di personale.
Le agevolazioni connesse al baratto amministrativo, secondo
la Corte dei conti del Veneto, non possono essere fruite
dalle imprese, perché si verificherebbe un’elusione delle
regole di evidenza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016). |
maggio 2016 |
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TRIBUTI:
Tributi locali, condono a tempo.
La definizione agevolata delle violazioni tributarie è un
evento eccezionale e ha un ambito temporale sempre limitato.
I comuni, dunque, non possono istituire con regolamento il
condono dei tributi locali a loro scelta per un tempo
indefinito. La sanatoria prevista dalla legge 289/2002,
infatti, non era proiettata nel futuro, ma riguardava solo
le violazioni commesse negli anni antecedenti alla sua
entrata in vigore.
Lo ha chiarito la Corte dei conti, sezione regionale di
controllo per la Campania, con il
parere
20.05.2016 n. 143.
Nel caso
in esame, il comune di Ottaviano ha chiesto alla sezione
regionale di controllo della Corte dei conti se fosse
possibile prevedere con regolamento la definizione agevolata
delle violazioni tributarie commesse dai contribuenti fino
al 2014, escludendo le sanzioni e gli interessi. Per i
giudici contabili, non si possono introdurre fattispecie di
condono per un periodo indefinito, ancorché la legge non
fissi espressamente l'ambito di operatività della sanatoria.
L'articolo 13 della legge 289/2002 «deve essere oggetto di
stretta interpretazione considerato che l'istituzione di
meccanismi di «definizione agevolata» relativamente ad
obblighi rimasti totalmente o parzialmente inadempiuti da
parte di contribuenti ha (o dovrebbe avere) indubbiamente
natura di evento eccezionale nell'ambito dell'ordinamento
giuridico».
Pertanto, il 31.12.2002 rappresenta «un
limite temporale invalicabile» per la regolarizzazione di
errori e omissioni. Al riguardo il Tar Sicilia, prima
sezione, con la sentenza 1765/2014, ha affermato che è
illegittimo per eccesso di potere il regolamento comunale
che ha istituito il condono delle violazioni commesse dai
contribuenti in materia di tassa rifiuti a distanza di sette
anni dall'entrata in vigore della legge che ha dato ai
comuni questa facoltà.
Anche per il Tar il condono dei
tributi locali poteva essere deliberato solo per gli
obblighi «precedentemente non adempiuti» alla data di
entrata in vigore della legge stessa, limitatamente ai
periodi d'imposta antecedenti il 2003. Del resto l'esercizio
di un potere in materia tributaria da parte dell'ente
locale, una volta spirato il termine previsto dalla legge
statale autorizzativa, «comporta la carenza del potere
medesimo».
Con quest'ultimo parere i giudici contabili si sono
allineati alla tesi della Cassazione che ha già preso
posizione sulla questione, dichiarando illegittima la
delibera del comune di Roma che aveva istituito il condono
delle liti pendenti instaurate dopo l'entrata in vigore
della Finanziaria 2003. La sezione tributaria della Corte di
cassazione, con le sentenze 12675 e 12679/2012, ha precisato
che la sanatoria era ammessa solo per gli obblighi non
adempiuti dal contribuente fino al 2002 e per i procedimenti
contenziosi già pendenti.
I comuni, quindi, non hanno il potere di deliberare la
sanatoria a distanza di anni da quando il legislatore gli ha
riconosciuto questa facoltà. Nonostante l'articolo 13 della
legge 289/2002 non ponesse alcun limite temporale e non ne
condizionasse l'efficacia alle violazioni commesse e alle
controversie instaurate fino all'entrata in vigore della
norma.
La Finanziaria 2003 ha attribuito agli enti locali il
potere di disciplinare con regolamento la riduzione
dell'ammontare delle imposte e tasse loro dovute, escludendo
o riducendo gli interessi e le sanzioni a carico del
contribuente. L'unico obbligo imposto espressamente ex lege,
nel rispetto dello Statuto del contribuente (legge
212/2000), riguardava il termine minimo che doveva
intercorrere tra l'entrata in vigore del regolamento e gli
adempimenti posti a carico del contribuente.
Era poi lasciata agli enti la scelta di fissare
autonomamente il termine entro il quale fosse possibile
regolarizzare le violazioni commesse, purché non inferiore a
60 giorni dalla data di pubblicazione dell'atto
regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2016). |
TRIBUTI: Gestori di acqua, energia e tlc esenti dal canone
concessorio.
Servizi a rete. Il Consiglio di Stato ribadisce il recente
cambio di giurisprudenza.
Non è dovuto
il canone concessorio se l’occupazione dei servizi a rete
non impedisce in tutto o in parte la fruizione della strada.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato
-Sez. V- con la
sentenza
12.05.2016 n. 1926, confermando l’annullamento di un
regolamento comunale istitutivo del canone concessorio non
ricognitorio.
Finisce così l’ampio contenzioso degli ultimi anni tra
Comuni e gestori di acqua, gas, energia elettrica e
telecomunicazioni. La materia del contendere non riguarda la
Tosap (o il Cosap) ma l’applicazione del canone previsto
dall’articolo 27 del Codice della strada, che molti Comuni
hanno istituito con regolamento, poi impugnato assieme alle
richieste di pagamento inviate ai gestori dei servizi a
rete.
Per comprendere le dimensioni del fenomeno va
considerato che nel 2015 sono state depositate ben 65
sentenze (in particolare dal Tar Milano), in prevalenza
negative per gli enti locali, che si sono visti annullare i
regolamenti con evidenti ripercussioni sui bilanci. Da qui
l’appello al Consiglio di Stato, che si era peraltro già
pronunciato a fine 2014, attribuendo al canone in questione
la patente di legittimità (sentenza n. 6459/2014).
Ma il vento è cambiato. Una prima avvisaglia si è avuta con
l’ordinanza n. 1191 del 7 aprile scorso dello stesso
Consiglio di Stato, che dava atto di un orientamento
favorevole alla tesi comunale, ma riteneva di pervenire a
diverse conclusioni per «prevalenti ragioni testuali e
sistematiche». Le stesse parole della sentenza depositata
ieri all’esito dell’udienza pubblica tenutasi proprio il 7
aprile insieme a tanti altri appelli sul canone. Si
attendono quindi altre sentenze dello stesso tenore, che
conferma la decisione del Tar Milano (sentenza n. 1130/2015)
sia pure per ragioni in parte diverse.
In particolare i giudici di Palazzo Spada evidenziando che
il canone concessorio stradale non può essere richiesto a
fronte di qualunque utilizzo della strada, ma solo in caso
di utilizzo che impedisca in tutto o in parte la pubblica
fruizione. Pertanto la pretesa sarà legittima solo durante
la fase di posa in opera dell’infrastruttura a rete,
trattandosi di lavori che occupano la sede stradale.
In sostanza, contrariamente a quanto affermato con sentenza
n. 6459/2014, il Consiglio di Stato esclude ora la
possibilità di esigere il canone non ricognitorio in tutte
le ipotesi di utilizzo del sottosuolo stradale che non
impediscono o limitano l’uso pubblico della sede viaria,
come nel caso delle infrastrutture idriche a rete. Un
settore peraltro nel quale vige un principio di tendenziale
gratuità della messa a disposizione della rete idrica
(articolo 153 Dlgs 152/2006).
Lo stesso dicasi anche per le
reti di telecomunicazioni (articolo 93 Dlgs 259/2003), ma in
questo caso il nodo interpretativo è stato definitivamente
sciolto dal legislatore con l’articolo 12 del Dlgs 33/2016,
che vieta l’applicazione di altri oneri. Per tutti gli altri
gestori (acqua, gas ed energia elettrica), lo stop al canone
è invece arrivato dal Consiglio di Stato (articolo Il Sole 24 Ore del
13.05.2016). |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti prescritta in 5 anni dalla cartella.
Dopo la notifica della cartella di pagamento relativa alla
tassa comunale sui rifiuti, l'agente della riscossione ha a
disposizione cinque anni di tempo per riscuotere le somme o
per notificare atti interruttivi: altrimenti, la pretesa si
estingue ed è possibile formulare l'eccezione in sede di
impugnazione dell'intimazione di pagamento.
È quanto si legge nella
sentenza
06.05.2016 n. 3940/05/16 della Ctp di Milano,
depositata lo scorso 6 maggio.
Un condominio del capoluogo meneghino proponeva ricorso
contro l'intimazione di pagamento notificata da Equitalia,
basata su sette cartelle di pagamento di pagamento relative
alla Tarsu. Tutte le cartelle erano state notificate oltre 5
anni prima rispetto all'intimazione, ed erano divenute
definitive per mancata impugnazione; il condominio eccepiva
l'intervenuta prescrizione della pretesa.
Si costituiva in giudizio l'Agente della riscossione,
sostenendo che la prescrizione, dopo la cartella di
pagamento, fosse decennale, a prescindere dalla natura del
credito in esazione.
La Ctp di Milano ha accolto il ricorso, osservando in primis
che la definitività amministrativa della pretesa,
determinata dalla mancata impugnazione della cartella di
pagamento, non è mai equiparabile alla definitività di una
sentenza che, ai sensi dell'articolo 2953 del codice civile,
produce l'effetto di dilatare il termine di prescrizione a
10 anni. Per cui, il termine di prescrizione, dopo la
notifica della cartella, rimane quello proprio del tributo a
cui la stessa si riferisce.
Nel caso di specie, osserva la Ctp, deve rilevarsi che la
tassa comunale sui rifiuti si configura quale prestazione
periodica e, come tale, soggetta alla prescrizione
quinquennale stabilita dall'articolo 2948, comma 4, del
codice civile, secondo cui «si prescrivono in cinque anni (
) 4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve
pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
Il collegio richiama una sentenza della Cassazione (n.
4283/2010) nella quale si afferma che i tributi locali sono
elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico,
caratterizzati da una causa debendi di tipo continuativo,
suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo, in
relazione alla quale l'utente è tenuto ad una erogazione
periodica.
All'accoglimento del ricorso, la Ctp ha fatto seguire la
condanna alle spese in capo all'Agente della riscossione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'applicazione del termine breve di cinque anni
(in luogo di quello ordinario di dieci anni) è stata
affermata dalla Cassazione con sentenza del 23.02.2010. In particolare la Cassazione sostiene che i tributi
locali (a differenza di quelli erariali) sono «prestazioni
periodiche» e, come tali, rientrano nell'ambito di
applicazione dell'articolo 2948, comma 4, del Codice civile,
che stabilisce appunto la prescrizione quinquennale.
I
tributi locali (tassa per lo smaltimento rifiuti, per
l'occupazione di suolo pubblico, per concessione di passo
carrabile, contributi di bonifica) -dice la Corte- sono
«elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico
caratterizzati da una ''causa debendi'' di tipo continuativo
suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo in
relazione alla quale l'utente è tenuto a una erogazione
periodica, dipendente dal prolungarsi sul piano temporale
della prestazione erogata dall'ente impositore, o dal
beneficio dallo stesso concesso» (Cassazione, sezione
tributaria civile, sentenza 23.02.2010, numero 4283).
Con riferimento all'asserita prescrizione e/o decadenza
della pretesa tributaria, il Collegio rileva che il
Concessionario della Riscossione, nelle proprie
controdeduzioni al ricorso, non ha prodotto documentazione
attestante l'intervenuta notifica di eventuali atti
interruttivi del termine della prescrizione. Ritiene il
Collegio che la pretesa oggetto del presente ricorso,
trattandosi di tasse locali, è assoggetta al termine di
prescrizione previsto dall'art. 2948 del Codice Civile,
ossia il termine di prescrizione breve di cinque anni in
quanto trattasi di prestazioni periodiche. Inoltre a parere
del Collegio non ha effetto sul termine di prescrizione la
sospensione che era stata decretata dall'art. 1 -comma 623-
della Legge 27/12/2013 n. 147.
Ne discende quindi che l'eccezione di prescrizione della
pretesa tributaria, a parere del Collegio, va accolta.
Precisa che per le cartelle esattoriali presupposto
dell'atto impugnato vale il termine breve di cinque anni,
atteso che la prestazione tributaria non può che essere
reputata alla stregua di una prestazione periodica.
Pertanto l'attività dell'Agente della riscossione è soggetta
esclusivamente al termine ordinario di prescrizione con la
conseguenza che una volta notificata la cartella di
pagamento è possibile attivare le procedure di riscossione
coattiva entro cinque anni dalla data di notifica della
cartella stessa. Circostanza che nel caso non si è
verificata. Si ritiene che nessun atto interruttivo del
termine di prescrizione risulta peraltro notificato alla
data di decadenza della cartella di pagamento [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
TRIBUTI: Società comunali senza sconti. Gli immobili posseduti non
beneficiano dell'esenzione Imu. La Cassazione considera tassativo l'elenco dei soggetti che
non pagano l'imposta.
Un immobile posseduto da una società costituita da più
comuni e utilizzato per lo svolgimento dell'attività di
smaltimento rifiuti non ha diritto a fruire dell'esenzione
Ici.
Il principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
04.05.2016 n. 8872.
Naturalmente, la stessa regola vale per l'Imu.
Secondo la Cassazione, l'elencazione dei soggetti esenti
dall'imposta municipale è tassativa e una società di
capitali, ancorché costituita tra enti pubblici
territoriali, «non può fruire dell'esenzione, non rientrando
tra i soggetti esenti e non essendo possibile una
interpretazione analogica della norma agevolativa, siccome
norma eccezionale. A prescindere dalla ulteriore questione
se gli immobili della società siano destinati a scopi
istituzionali».
L'interpretazione dei giudici di legittimità è pienamente
condivisibile. L'esenzione Ici, ma lo stesso vale per l'Imu,
è prevista per gli immobili posseduti, oltre che dallo
stato, da regioni, province, comuni ed è condizionata dalla
destinazione effettiva che a questi viene data.
L'elencazione è tassativa, poiché tutte le norme che
prevedono agevolazioni sono di stretta interpretazione e non
è ammesso ricorrere all'analogia.
Per il riconoscimento
dell'esenzione non è sufficiente la volontà di utilizzare
l'immobile per scopi istituzionali. La destinazione deve
essere effettiva e concreta. In base all'articolo 7, comma
1, lettera a), del decreto legislativo 504/1992 non spetta
l'esenzione Ici e Imu se l'ente pubblico non fornisce la
prova che l'immobile abbia questa destinazione esclusiva.
Gli immobili, dunque, devono essere diretti a soddisfare
compiti dell'ente pubblico (sede o ufficio) che ne è
proprietario. È indispensabile che l'utilizzo avvenga in
forma immediata e diretta, e cioè da soggetti interni alla
struttura organizzativo-amministrativa dell'ente, poiché
solo in questo caso l'uso può essere caratterizzato da fini
istituzionali.
Per esempio la Commissione tributaria provinciale di Terni,
prima sezione, con la sentenza 237/2011 ha stabilito che la
provincia è tenuta a pagare l'Ici (e dal 2012 anche l'Imu)
se gli immobili non sono destinati al soddisfacimento di
compiti dello stesso ente pubblico che ne è proprietario.
Non è infatti sufficiente che li metta a disposizione di
terzi, anche se la provincia è obbligata a darli in uso allo
stato per lo svolgimento di attività didattiche (sede
universitaria).
Va ricordato che con l'introduzione dell'Imu è stato
ristretto l'ambito delle esenzioni prima riconosciute dalla
disciplina Ici. Non possono più fruire dell'agevolazione
fiscale gli immobili posseduti dalle camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura.
Non è stata riproposta l'esenzione neppure per i fabbricati
dichiarati inagibili o inabitabili che vengono recuperati
per essere destinati a attività assistenziali. Infine, con
la modifica dell'articolo 7, lettera a), sono state
ridisegnate le agevolazioni anche per gli immobili posseduti
dagli enti pubblici territoriali, poiché l'esonero dal
pagamento è limitato solo agli immobili siti sul proprio
territorio e non compete più per quelli ubicati sul
territorio di altri enti
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
aprile 2016 |
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TRIBUTI:
Pertinenze esenti se strettamente asservite.
Affinché un'area sia qualificabile come pertinenza, esente
da tassazione Ici, deve sussistere un vincolo d'asservimento
durevole delle aree al fabbricato, con il fine di
migliorarne le condizioni d'uso e il valore. In materia
fiscale, vista l'indisponibilità del rapporto, la prova
dell'oggettivo asservimento pertinenziale, che grava sul
contribuente, deve essere del resto valutata con maggior
rigore rispetto ai rapporti privatistici.
Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile,
con la
sentenza 27.04.2016 n. 8367.
Nel caso di specie (che ha riflessi anche sull'Imu) il
contribuente aveva impugnato sei avvisi di accertamento,
attraverso i quali il comune richiedeva il pagamento
dell'Ici relativamente a due aree edificabili, contigue a un
edificio di cui i ricorrenti erano proprietari.
I
contribuenti non le avevano infatti mai dichiarate, in
quanto le utilizzavano come giardino pertinenziale
dell'abitazione. Sia la Ctp che la Ctr confermavano la
correttezza degli avvisi. Il contribuente proponeva quindi
ricorso davanti alla Corte, che però lo riteneva infondato,
rilevando che le aree erano censite in catasto autonomamente
rispetto all'edificio al quale accedevano ed erano inserite
in zona territoriale omogenea B a prevalente destinazione
residenziale.
Nel caso di specie dunque la scelta pertinenziale avrebbe
avuto l'unica funzione di eludere il prelievo, in contrasto
con la reale natura del cespite, laddove la simulazione di
un vincolo di pertinenza al fine di ottenere un risparmio
fiscale può rappresentare abuso del diritto
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016).
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MASSIMA
Il motivo non è fondato.
Infatti, oggetto degli avvisi d'accertamento e liquidazione
emessi dal Comune di Ravarino e poi opposti, sono due aree,
autonomamente distinte nel catasto del predetto comune,
quali aree edificabili, in quanto inserite in zona
territoriale omogenea B a prevalente destinazione
residenziale, giusta estratti dello strumento urbanistico
allegati dalla parte resistente al presente ricorso.
Tali aree, come detto, sono censite in catasto
autonomamente, rispetto all'edificio al quale accedono e non
sono mai state fatte oggetto di dichiarazione e liquidazione
ai fini ICI (la parte contribuente, inoltre, avrebbe potuto
impugnare l'attuale classamento presso la competente sede
giudiziaria, mentre vi ha inizialmente prestato adesione,
ritenendo di beneficiare del maggior valore attribuito,
mentre, successivamente e nella presente sede, ha ritenuto
più rispondente al proprio interesse, attribuire un diverso
utilizzo all'area); questa circostanza, secondo
l'orientamento di questa Corte, non consente alla parte
contribuente di poter contestare l'atto impositivo,
deducendo la sussistenza di un asserito vincolo di
pertinenzialità; infatti, secondo l'orientamento che si
ritiene di condividere, "Il rapporto
d'ICI s'instaura attraverso la denuncia del contribuente,
mediante la quale egli dichiara la sua situazione di
possesso rilevante per l'ICI e sulla base di essa egli
stesso provvede alla liquidazione periodica dell'imposta.
L'impostazione iniziale viene variata, oltre che per
l'eventuale intervento accertativo del Comune, ogni volta
che nella situazione possessoria del contribuente
s'introduca una modificazione e il contribuente rinnovi la
dichiarazione adeguatrice...".
Nella odierna vicenda, il rapporto ICI è stato gestito come
una specie, del genere rapporto giuridico, fissato
inizialmente dal contribuente sul solo presupposto del
possesso dell'abitazione, con omissione di ogni riferimento
al possesso dei due terreni, sia a titolo di area
edificabile che di pertinenza, "...cosicché,
se lo stesso contribuente non ha affermato la sua
pertinenzialità in via di specialità, vuoi dire che egli ha
voluto lasciarlo nella sua condizione di area fabbricabile,
corrispondentemente alla regola generale. A questo
proposito, sovviene a rafforzare questa conclusione il
doveroso riconoscimento della volontà del privato di
valutare liberamente la convenienza dell'applicazione di
altre norme sulle aree fabbricabile, come quelle, per
esempio, che ne regolano l'espropriazione e la relativa
indennità...,"
(Cass. n. 19638/2009).
Pertanto, volendo fare "buon governo" delle superiori
considerazioni,
si deve ribadire che affinché un'area sia qualificabile come
"pertinenza" e, come tale, vada esente dalla
tassazione ICI, deve sussistere un vincolo d'asservimento
durevole, funzionale o ornamentale delle aree al fabbricato,
con il fine di migliorarne le condizioni d'uso, la
funzionalità e il valore; infatti, in materia fiscale,
attesa 'indisponibilità' del rapporto tributario, la
prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale che grava
sui contribuente (quando, come nella specie, ne derivi una
tassazione attenuta) deve essere valutata con maggior rigore
rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico.
Pertanto,
la mera "scelta" pertinenziale non può avere alcuna
valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
eludere il prelievo fiscale, evitando l'assoggettabilità al
precetto che impone la tassazione in ragione della reale
natura del cespite. E la possibile simulazione di un vincolo
di pertinenza, ai sensi dell'art. 817 c.c., al fine di
ottenere un risparmio fiscale, può essere inquadrata nella
più ampia categoria dell'abuso del diritto
(v. Cass. sez. un. n. 30055 del 2008).
Pertanto, secondo l'insegnamento di questa Corte "...per
qualificare come pertinenza di un fabbricato un'area
edificabile, è necessario che intervenga un'oggettiva e
funzionale modificazione dello stato dei luoghi che
sterilizzi in concreto e stabilmente lo "ius edificandi" e
che non si risolva, quindi, in un mero collegamento
materiale, rimovibile "ad libitum"..."
(Cass. n. 25127 del 2009). |
TRIBUTI: Tributi, sulle delibere fuori tempo Tar che vai sentenza che
trovi. Il caso.
Nel mese di aprile si registrano due opposte decisioni sullo
stesso argomento da parte di due Tar diversi. Tar che vai
decisione che trovi.
Stesso ricorrente, stessa materia, stesse norme di
riferimento, ma incredibilmente diverse le decisioni a cui
sono giunti il TAR Calabria-Reggio Calabria con la
sentenza
08.04.2016 n. 392 e il
TAR Friuli Venezia Giulia, con la
sentenza
22.04.2016 n. 148.
Stesso ricorrente: il ministero dell'economia e delle
finanze che ha impugnato «i regolamenti sulle entrate
tributarie per vizi di legittimità».
Stessa materia: l'approvazione delle deliberazioni comunali
in materia di tributi locali adottate dopo il termine per
l'approvazione del bilancio di previsione. Per il comune
calabrese si trattava della delibera Tari, per quello
friulano della delibera Iuc, Tari e Tasi.
Stesse norme di riferimento: l'art. 1, comma 169, della
legge 27.12.2006 n. 296, il quale stabilisce che gli
enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai
tributi di loro competenza entro la data fissata da norme
statali per la deliberazione del bilancio di previsione. E
che, in caso di mancata approvazione entro il suddetto
termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di
anno in anno.
Purtroppo da anni gli enti locali rimangono «incagliati»
nelle spire di queste disposizioni e una nutrita
giurisprudenza si è ormai consolidata in materia, che ha
enucleato una serie di principi divenuti ormai saldi, primo
fra tutti la natura perentoria del termine, che, peraltro,
«è desumibile dal dato testuale della disposizione» stessa
come ha precisato il Consiglio di stato nelle sentenze n.
3808 del 17.07.2014, n. 4409 del 28.08.2014 e n.
1495 del 19.03.2015.
Anche la sentenza del Tar per la Calabria n. 392 del 2016
non si discosta da detta impostazione e anzi evidenzia che
la norma in esame «contiene, peraltro, previsioni
sanzionatorie, come l'inapplicabilità delle nuove tariffe e
aliquote, ove approvate dopo il termine» di approvazione del
bilancio di previsione. Da ciò i giudici calabresi arrivano
ad annullare la delibera comunale approvata fuori termine.
Il Tar per il Friuli Venezia Giulia, invece, non ha neanche
affrontato il merito del ricorso, ma lo ha dichiarato
inammissibile, sostenendo, in maniera assolutamente
singolare, che «non si vede quale utilità potrebbe ottenere
il ministero ricorrente dall'annullamento delle citate
delibere, se non un mero ripristino della legalità», come se
il ripristino della legalità non fosse un principio
oggettivamente degno di tutela.
In altri termini, secondo i
giudici friulani, non è sufficiente la denuncia della
«difformità dalla legge» delle delibere impugnate, per
quanto concerne la tempistica della loro approvazione, ma
viene richiesto al Mef di dimostrare un vero e proprio
interesse ad agire, come avviene per qualsiasi soggetto che
voglia agire in giudizio.
I giudici omettono, però, di
considerare quanto stabilito dal Consiglio di stato che
nella sentenza 3817 del 17.07.2014 ha messo in chiaro
che «tale legittimazione prescinde dall'esistenza di una
lesione di una situazione giuridica tutelabile in capo allo
stesso dicastero, configurandosi come una legittimazione ex lege, esclusivamente in funzione e a tutela degli interessi
pubblici la cui cura è affidata al ministero dalla stessa
legge (cfr. Cons. stato, sez. 3, parere del 14.07.1998)».
Ci sono quindi buoni motivi per ipotizzare che la pronuncia
del Tar Friuli resti come un'unica voce fuori dal coro.
È, infine, proprio un passo della sentenza del Tar per la
Calabria che ci offre un'esplicitazione dell'interesse a
ricorrere del Mef, laddove si afferma che l'esigenza di
tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini
impone di circoscrivere il potere di determinazione delle
tariffe e delle aliquote da parte del comune entro un
margine di tempo ben definito, costituito dalla data di
approvazione del bilancio di previsione, che costituisce un
limite invalicabile alla discrezionalità
dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2016). |
TRIBUTI:
Terreno edificabile solo di fatto.
La destinazione d'uso non è sufficiente, da sola, a
qualificare come edificabile un terreno. L'edificabilità,
infatti, deve essere effettiva; in caso di mancata
edificabilità effettiva, il terreno non può mai essere
ritenuto edificabile.
È quanto si legge nella
sentenza
18.04.2016 n. 103/02/16 emessa dalla sezione seconda
della Commissione tributaria provinciale di Lecco.
La vertenza riguarda un avviso di liquidazione con cui le
Entrate di Lecco intendevano rettificare i valori dichiarati
in sede di una compravendita. Il contribuente nel ricorso
presentato alla Commissione tributaria provinciale, di Lecco
tra gli altri motivi, eccepiva anche dei vizi di merito.
Infatti, relativamente alle aree oggetto di compravendita
esiste una inedificabilità sostanziale che ne caratterizza,
appunto, il requisito sostanziale dell'edificabilità.
Nel
corso degli ultimi anni abbiamo assistito all'evoluzione del
principio secondo cui l'edificabilità di un terreno sia
strettamente legata con la destinazione urbanistica
assegnata allo stesso dagli strumenti urbanistici. Il
principio, espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione
nella sentenza n. 25506/2006, secondo cui tutti i terreni
inseriti nel Piano Regolatore generale di un comune vanno
considerati, a tutti gli effetti, edificabili, ha trovato
alcune deroghe espresse.
La Corte di cassazione, nella
sentenza n. 8609/2011, ha stabilito che i terreni inseriti
nel Piano regolatore generale come edificabili ma che siano
assoggettati al rispetto delle fasce stradali e ferroviarie
vadano equiparati, ai fini fiscali, alle aree agricole in
considerazione del fatto che gli stessi non sono, agli
effetti pratici, utilizzabili ai fini edificatori.
Lo stesso principio è stato applicato per i terreni in
trattazione nella sentenza di cui al commento. Secondo i
giudici provinciali di Lecco, infatti, «i terreni
compravenduti sono inseriti nelle zone
classificate quali «Rga» distinte dalle zone classificate «Rg»
per le quali è consentita l'effettiva edificabilità. Per
questi terreni inseriti nelle zone «Rga» (residenziali in
genere in zona A) non si applicano gli indici di
edificabilità, mentre conservano la destinazione d'uso».
Ne
deriva la sostanziale inedificabilità dei terreni
compravenduti, circostanza che, di fatto, rende del tutto
inattendibile il calcolo effettuato dall'ufficio; né possono
ritenersi giustificati i richiami agli altri atti registrati
per la comparazione, laddove manchi il requisito sostanziale
della edificabilità.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
I sigg.ri [omissis], hanno impugnato, con unico ricorso
ritualmente notificato e iscritto a ruolo, l'avviso
notificato loro dall'Agenzia delle entrate di Lecco, con
cui, il citato Ente ha rettificato il valore della
compravendita immobiliare dichiarato in sede di atto
notarile e ha provveduto alla liquidazione delle imposte di
registro, catastali e ipotecarie relative.
I ricorrenti, con
l'atto introduttivo del giudizio, lamentano: l'inesistenza
dell'avviso di rettifica per inesistenza giuridica della
notificazione; nel merito, la nullità dell'atto impugnato
per illegittimità e infondatezza dello stesso. I ricorrenti
hanno concluso chiedendo l'annullamento dell'atto. L'Ufficio
fiscale si è costituito regolarmente in giudizio,
contestando gli assunti dei ricorrenti, sostenendola
legittimità dell'accertamento e chiedendo, con le
conclusioni, il rigetto del ricorso. [omissis]
Nel merito,
il ricorso è fondato. Le norme tecniche di attuazione del Prg. vigente, prodotte dai ricorrenti, stabiliscono al punto
21.1.3, alcune prescrizioni tecniche in ordine agli indici
urbanistici di edificabilità nella zona in cui ricadono i
terreni oggetto del contratto di compravendita sul cui
valore vi è contestazione.
Tali indici appaiono riferiti
alle zone classificate quali «Rg» distinte dalle zone
classificate «Rga» per le quali è, invece stabilito che:
«Per le aree individuate con Rga (residenziali in genere in
zona A) non si applicano gli indici sopraesposti mentre
conservano efficacia le sole destinazioni d'uso».
Alla luce di tale disposizione e della non contestata
zonizzazione (Rga) dei mappali 1392 e 1393 la parziale)
sussiste, nella fattispecie, la sostanziale inedificabilità
dei terreni oggetto del contratto di compravendita. Appare
pertanto, del tutto inafferente il calcolo effettuato
dall'ufficio, al fine di giungere alla rettifica dei valori
indicati nel citato atto; né possono ritenersi giustificati
i richiami ad altri atti registrati per effettuare la
comparazione, laddove manca il requisito sostanziale della
edificabilità.
In conclusione stante: la conformazione dei
terreni, si tratta di terreni in pendio; la sussistenza dei
vincoli di destinazione, elementi sui quali non vi è
contestazione, nonché la non edificabilità degli stessi, il
valore dichiarato in compravendita, deve ritenersi congruo.
Il ricorso va pertanto, accolto. Le spese di giudizio
seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La commissione accoglie il ricorso. Condanna l'Agenzia delle
entrate al pagamento delle spese di giudizio, in favore dei
ricorrenti, che liquida in 2.576,00 oltre Iva, cpa, c.u.e il
15% per spese generali. [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Niente compensazione per giusti motivi.
In caso di soccombenza di una delle parti, è illegittima la
compensazione delle spese di giudizio «per giusti motivi»:
le spese, infatti, possono essere compensate dal giudice per
«gravi ed eccezionali ragioni», che devono trovare puntuale
riferimento in specifiche circostanze o aspetti della
controversia decisa e, in ogni caso, devono essere indicate
specificamente e non con un generico richiamo.
È quanto
ribadisce la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza
13.04.2016 n. 7345.
Il giudizio di
legittimità prendeva le mosse dal ricorso proposto da un
notaio che impugnava una sentenza della Ctr del Lazio per la
parte della decisione relativa alle spese. Nonostante,
infatti, il notaio fosse risultato completamente vittorioso
nel giudizio instaurato contro un avviso di liquidazione
(vicenda in cui veniva coinvolto come responsabile in
solido), il giudice regionale capitolino aveva disposto la
compensazione integrale delle spese di giudizio, appoggiando
la statuizione sulla frase “per giusti motivi”.
Questo,
secondo il contribuente, non era conforme ai dettami
dell'articolo 92 del cpc («se vi è soccombenza reciproca o
concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni,
esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può
compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le
parti»), norma applicabile al processo tributario e a
quello specifico giudizio (instaurato dopo il 04.07.2009). Gli ermellini hanno accolto il ricorso e cassato la
sentenza, rinviando ad altra sezione della Ctr del Lazio,
chiamata a disporre anche per quanto concerne la
liquidazione delle spese del grado di giudizio in
Cassazione.
La compensazione delle spese era una possibilità
pur prevista dall'allora vigente panorama normativo (art. 92 cpc, richiamato espressamente dall'articolo 15 del dlgs
546/1992); tuttavia, è necessario che il giudice che opti per
tale scelta, in presenza di soccombenza di una delle parti,
dedichi un congruo spazio alla motivazione specifica sul
punto, individuando delle argomentazioni valide a
sostenerla. A tal scopo, non può dirsi sufficiente una
generica locuzione «per giusti motivi», che non rispetta i
parametri fissati dalle norme.
Da precisare che l'attuale versione dell'art. 15 del dlgs
546/1992, comma 2, ha recepito espressamente i precetti di cui
al citato art. 92 cpc, disponendo che «le spese di giudizio
possono essere compensate in tutto o in parte dalla
commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza
reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni
che devono essere espressamente motivate».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] In tema di contenzioso tributario, secondo la
testuale previsione dell'art. 15, comma primo, dlgs n. 546
del 1992, la Commissione tributaria può dichiarare
compensate le spese processuali in tutto o in parte a norma
dell'art. 92, comma secondo, cpc, norma quest'ultima
emendata dalla legge 18.06.2009, n. 69, art. 45, comma
11, applicabile alla fattispecie per essere il giudizio di
primo grado iniziato dopo il 04/07/2009 (essendo in
contestazione il regime di tassazione di un mandato
irrevocabile registrato dal professionista in data
“18/07/2011” e l'impugnazione del successivo avviso di
liquidazione).
Detta norma, com'è noto, prevede che, “se vi
è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed
eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella
motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per
intero, le stese tra le parti".
Sul punto si è consolidato
l'orientamento (Cass. 20.04.2012, n. 6279) per il quale
le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi
esplicitamente nella motivazione e in presenza delle quali -o, in alternativa alle quali, della soccombenza reciproca-
il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del
giudizio, devono trovare puntuale riferimento in specifiche
circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass., ord.
15.12.2011, n. 26987) e comunque devono essere appunto
indicate specificamente (Cass., ord. 13.07.2011, n.
15413; Cass. 20.10.2010, n. 21521).
Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto
modo di precisare che “l'art. 92 cp, comma 2, nella parte in
cui permette la compensazione delle spese di lite allorché
concorrano “gravi ed eccezionali ragioni”, costituisce una
norma elastica, quale clausola generale che il legislatore
ha previsto per adeguarla ad un dato contesto
storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed
efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in
via interpretativa da parte del giudice del merito, con un
giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto
fondato su norme giuridiche” (Gas s. Sez. un., n.
2572/2012).
Erroneamente, pertanto, la Ctr ha disposto la
compensazione integrale delle spese di lite “per giusti
motivi”, in violazione della normativa vigente ratione
temporis, 3. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento
del primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, va
cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Ctr del
Lazio, in diversa composizione. Il giudice del rinvio
provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente
giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata
con rinvio, anche in ordine alla liquidazione delle spese
del presente giudizio di legittimità, alla Commissione
tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.
[omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Notifiche a mezzo posta senza relata.
Cassazione ricorda che si seguono le regole sul servizio
postale ordinario.
In tema di notificazioni a mezzo posta, non deve essere
redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica
sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è
stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo
del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a
quest'ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 c.c.
Inoltre, ai sensi dell'art. 140 cpc la
raccomandata cosiddetta «informativa» deve contenere la
semplice notizia del deposito dell'atto stesso presso la
casa comunale e, per quanto riguarda la notificazione nei
confronti di un destinatario irreperibile, non occorre che
dall'avviso di ricevimento della raccomandata informativa
del deposito dell'atto presso l'ufficio comunale risultino
tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione
effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto
da esso risultare il trasferimento, il decesso del
destinatario o altro fatto impeditivo della conoscibilità
(non della conoscenza effettiva) dell'avviso stesso.
Questi
importanti princìpi, in tema di notificazione, sono stati
espressi dalla VI Sez. civile della Corte di Cassazione
nell'ordinanza 12.04.2016 n. 7184.
I giudici di
legittimità hanno richiamato la pronuncia della Cassazione
n. 9111/2012 che, in tema di notificazioni a mezzo posta, ha
stabilito che la disciplina relativa alla raccomandata con
avviso di ricevimento, mediante la quale può essere
notificato l'avviso di liquidazione o di accertamento senza
intermediazione dell'ufficiale giudiziario, è quella dettata
dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario
per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le
disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982 attengono
esclusivamente alla notifica eseguita dall'ufficiale
giudiziario ex art. 140 cpc.
Ne consegue che, difettando
apposite previsioni della disciplina postale, non deve
essere redatta alcuna annotazione specifica sull'avviso di
ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il
plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario
deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, stante
la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c.,
superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato,
senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione.
Sempre con specifico riferimento alle formalità relative
alla notifica ai sensi dell'art. 140 cpc, in materia
tributaria, già la recente sentenza della Cassazione n.
26864/2014 ha precisato che la raccomandata cosiddetta
informativa, poiché non sostituisce l'atto da notificare, ma
contiene solo la notizia del deposito dell'atto stesso nella
casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla
L. n. 890/1982, sicché per la stessa occorre rispettare solo
quanto prescritto dal regolamento postale per la
raccomandata ordinaria.
In particolare, la Suprema Corte ha
escluso che la mancata specificazione, sull'avviso di
ricevimento, della qualità del consegnatario e della
situazione di convivenza o meno con il destinatario
determini la nullità della notificazione. Inoltre, nella
notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai
sensi dell'art. 140 cpc, non occorre che dall'avviso di
ricevimento della raccomandata informativa del deposito
dell'atto presso l'ufficio comunale, che va allegato
all'atto notificato, risulti precisamente documentata
l'effettiva consegna della raccomandata, ovvero
l'infruttuoso decorso del termine di giacenza presso
l'ufficio postale, né che detto avviso contenga, a pena di
nullità dell'intero procedimento notificatorio, tutte le
annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a
mezzo del servizio postale, dovendo invece da esso
risultare, a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso
del destinatario o altro fatto impeditivo della
conoscibilità dell'avviso stesso, come stabilito di recente
dalla sentenza della Cassazione n. 2959/2013.
Nel caso di specie, la Ctr del Lazio non si è conformata a
tali principi, avendo dichiarato la nullità della
notificazione della cartella esattoriale effettuata dal
messo notificatore ai sensi dell'art. 140 cpc, condizionando
la validità della notificazione alla riferibilità della
firma apposta sulla raccomandata di ricevimento al
destinatario della stessa, senza invece considerare
l'inutilità di siffatta verifica, una volta acclarato il
compimento della formalità dell'inoltro al destinatario
della raccomandata informativa
(articolo ItaliaOggi del 28.04.2016). |
TRIBUTI:
Ingiunzione Tarsu firmata dal funzionario.
Ingiunzione di pagamento Tarsu illegittima senza la firma
del funzionario responsabile. L'ingiunzione emanata dal
concessionario della riscossione per conto del comune deve
essere sottoscritta, a pena di nullità, dal funzionario
responsabile dell'ente, che è tenuto anche ad apporre il
visto di esecutività sulla lista di carico. Il
concessionario della riscossione non è legittimato a
sottoscrivere l'ingiunzione.
È quanto ha stabilito la Ctp di
Taranto, I Sez., con la sentenza 07.04.2016 n. 854.
Per la commissione provinciale, l'ingiunzione non è
valida senza la «necessaria e specifica sottoscrizione da
parte del funzionario responsabile del servizio». In
particolare, l'atto impugnato (ingiunzione Tarsu) «non
risulta sottoscritto e ne accompagnato dalla provata
sottoscrizione da parte del funzionario responsabile
comunale di un pur più ampio elenco di contribuenti tenuti
al pagamento della pretesa tributaria che solo avrebbe
potuto rappresentare il ruolo e sanare le singole
situazioni».
Il principio non può essere condiviso ed è
destinato a generare solo confusione, tenuto conto che non
distingue i casi in cui l'ingiunzione va sottoscritta dal
funzionario responsabile dell'ente, perché l'incarico al
concessionario è limitato alla predisposizione dell'atto,
sotto forma di appalto di servizi, da quelli in cui, invece,
l'attività di riscossione è affidata in concessione e
l'esattore è legittimato alla sottoscrizione. Fermo restando
che il funzionario è tenuto ad apporre il visto di
esecutività sulla lista di carico, ma la stessa,
contrariamente a quanto sostenuto dal giudice, non deve
essere allegata all'ingiunzione.
Nel caso in esame la Soget,
nella qualità di concessionaria del comune di Taranto, era
abilitata alla sottoscrizione dell'atto: non a caso era
stata chiamata in causa dal contribuente come parte
resistente, essendo il soggetto autore dell'atto e, quindi,
legittimato a contraddire. Non era stata opposta, infatti,
dal ricorrente la carenza di legittimazione passiva nel
processo tributario. Solo laddove l'affidamento sia limitato
alla predisposizione degli atti, con la formula dell'appalto
di servizi, il soggetto incaricato può svolgere un'attività
endo-procedimentale, di supporto all'attività dell'ente, non
può sottoscrivere gli atti, non può assumersene la paternità
giuridica e, per l'effetto, non è abilitato alla difesa
innanzi alle commissioni tributarie, perché carente di
legittimazione passiva.
L'ingiunzione è uno strumento nato
per il recupero delle entrate patrimoniali. L'articolo 52
del decreto legislativo 446/1997 ne ha esteso l'ambito di
applicazione a tutte le entrate locali, sia tributarie che
extratributarie. È un atto amministrativo recettizio, che
esplica i suoi effetti nel momento in cui si perfeziona la
notifica, ovvero quando l'intimazione viene portata a
conoscenza del destinatario.
È utilizzabile a seguito di una pretesa divenuta definitiva
o anche quando l'atto viene contestato innanzi all'autorità
giudiziaria. È un atto emanabile dopo la notifica
dell'avviso di accertamento, sempre che non venga sospeso
dal giudice, o comunque qualora vi sia un titolo esecutivo
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2016). |
marzo 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Niente
accatastamento per le reti di Tlc.
Infrastrutture. Il chiarimento è fornito dal decreto
attuativo della direttiva 2014/61.
Il decreto attuativo
della direttiva 2014/61 fa chiarezza: le infrastrutture di
reti di comunicazione elettronica non vanno accatastate. Le
infrastrutture di telecomunicazione non sono unità
immobiliari e, come tali, non vanno iscritte in catasto e
non soggiacciono alla fiscalità conseguente.
È d’impatto l’intervento del legislatore che, nell’ambito
del decreto legislativo 33/2016 attuativo della direttiva
2014/61/Ue sulla riduzione dei costi delle reti di
comunicazione elettronica ad alta velocità, ha deciso di
dare una svolta all’annosa questione dell’accatastamento
delle infrastrutture Tlc. Si tratta dei tralicci,
ripetitori, stazioni radio base, antenne -oltre alle opere
per l'installazione della rete- ancorati a muri o altri
supporti oppure impiantati dentro aree recintate.
In passato sia l’agenzia del Territorio (circolare 4/2006,
6/2012) sia la giurisprudenza si sono occupate del
trattamento catastale: la prima per affermarne l’obbligo di
accatastamento (in forma autonoma o come variazioni di
preesistenti unità immobiliari); la seconda talvolta si è
adeguata alla posizione dell’Agenzia, più spesso ha invece
accolto i ricorsi che ne sostenevano l’irrilevanza sul piano
catastale, specie in virtù dell’assimilazione alle «opere
di urbanizzazione primaria» (articolo 86, comma 3, del
Codice delle comunicazioni elettroniche).
Con il decreto legge Sblocca Italia del 2014 sembrava che la
questione fosse risolta a favore di questa seconda
interpretazione, essendo stabilito che le infrastrutture Tlc
costituiscono opere di urbanizzazione primaria.
La Corte di Cassazione però con la sentenza 24026/2015 in
materia di Ici (si veda «Il Sole 24 Ore» del 26.11.2015) ha
di recente sposato la tesi del Fisco. Invero, la Suprema
corte non ha minimamente affrontato il punto che il decreto
legge Sblocca Italia mirava a risolvere e, con scarna
motivazione, ha deciso per l’accatastamento dei ripetitori
di telefonia mobile nella categoria D.
L’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 33/2016
rimette ordine: non solo le reti ad alta velocità in fibra
ottica, ma tutte le infrastrutture comprese negli articoli
87-88 Cce, da chiunque possedute, sono da considerarsi beni
diversi dalle unità immobiliari in base al Dm 28/1998 e per
questo esclusi dall’accatastamento e dai tributi che ne
conseguono (Imu, Tasi, Ici a suo tempo).
Ciò che rileva, infatti, non è tanto l’autonomia funzionale
e reddituale di queste infrastrutture -e neppure la
destinazione a interesse collettivo per cui in passato sono
state talvolta classificate nella categoria E/3- ma il fatto
che il legislatore ne riconosca una «pubblica utilità»,
analoga per esempio a quella delle fognature o della rete
idrica. La norma, peraltro, dovrebbe avere portata
interpretativa, visto che, secondo la relazione
illustrativa, rappresenta un «chiarimento» volto a
esplicitare quanto già previsto dal Cce.
Natura questa confermata dalla sua collocazione sistematica,
nell’articolo 12 tra le «disposizioni di coordinamento»,
dove al comma 1 si ribadisce che in caso di discordanze
prevalgono le norme del Cce.
Per effetto, il Fisco e gli enti locali non solo dovranno
escludere dall’accatastamento le nuove infrastrutture di
telecomunicazione, ma anche rinunciare alle pretese di
accatastamento già avanzate (articolo Il Sole 24 Ore del
29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo limato. No
all'applicazione quando si tratta di debiti pregressi.
Dai giudici contabili emiliani i paletti
sullo scambio tasse-lavori di pubblica utilità.
Le forme di riduzione di imposte e tasse locali in cambio di
lavori eseguiti per la collettività, meglio note come
«baratto amministrativo», non possono riguardare debiti
pregressi che i cittadini hanno maturato nei confronti
dell'ente locale.
Inoltre, è necessario che sussista un rapporto di stretta
inerenza tra le riduzioni dei tributi che il comune può
deliberare e le attività di valorizzazione del territorio e
che queste siano concesse per un periodo limitato. Infine,
le agevolazioni possono essere indistintamente concesse ad
associazioni di cittadini che singoli utenti amministrati.
È quanto ha reso noto l'interessante
parere 23.03.2016 n. 27
emanato dalla Sezione regionale di controllo della Corte dei
conti per l'Emilia Romagna, con il quale, per la prima volta
sul panorama consultivo, si interviene a chiarire ambito e
portata delle disposizioni innovative contenute all'articolo
24 del decreto legge n. 133/2014, che disciplina le misure di
agevolazione della partecipazione delle comunità locali in
materia di tutela e valorizzazione dei territori.
Come noto, con tale disposizione, i comuni possono definire,
con apposita regolamentazione, interventi di decoro urbano,
pulizia e manutenzione di aree verdi, strade o beni immobili
inutilizzati, su progetti presentati da cittadini singoli o
associati, al fine di vedersi riconosciuta una esenzione o
una riduzione sui tributi inerenti il tipo di attività posta
in essere.
In risposta al comune di Bologna, la Corte emiliana ha
pertanto precisato che il «baratto amministrativo» può aver
luogo solo con un atto deliberativo dell'ente locale che
fissi i criteri e le modalità di svolgimento, secondo la
«traccia» che il legislatore ha messo nero su bianco nel
citato articolo 24 del dl n. 133/2014.
È altresì pacifico,
poi, che per la concessione di esenzioni o riduzioni deve
sussistere un rapporto di stretta inerenza tra queste e le
attività di cura e manutenzione del territorio. Detto in soldoni, un'attività di pulizia e manutenzione di un'area
verde andrà ad incidere sull'ammontare della tariffa rifiuti
e non certo sul canone di occupazione degli spazi pubblici.
Non è altresì possibile, poi, che la regolamentazione del
baratto si protragga «sine die». Come prescrive la legge,
infatti, l'esenzione o la riduzione del pagamento dei
tributi locali può essere concessa solo per un periodo
definito di tempo e per determinate attività, in ragione
«dell'esercizio sussidiario della stessa attività». Inoltre,
precisa il parere, anche se la norma, nell'indicare i
destinatari dei benefici, utilizza l'avverbio
«prioritariamente» per le comunità di cittadini, nulla vieta
che l'ente locale possa permettere anche a singoli cittadini
la concessione del baratto, dietro la presentazione di un
progetto valido.
Sulla specificità dell'oggetto del baratto, ovvero la
temporanea riduzione o esenzione di imposte locali, la Corte
è stata categorica. In dettaglio, il minor gettito è quello
che viene già definito negli stanziamenti dei bilanci di
previsione degli enti che hanno adottato il baratto
amministrativo. In nessun caso è pertanto ammissibile che si
possa consentire la riduzione di tasse ed imposte locali
afferenti a esercizi finanziari precedenti.
In primo luogo, perché difetterebbe il requisito
dell'inerenza tra agevolazione tributaria e tipologia di
attività svolta dai cittadini amministrati. Poi, perché una
simile prospettiva determinerebbe effetti pregiudizievoli
sugli equilibri di bilancio dell'ente, in considerazione che
i debiti tributari dei cittadini vengono iscritti tra i
residui attivi dell'ente
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016). |
TRIBUTI:
Stop al «baratto» senza regolamento. Tasse
locali. Corte dei conti dell’Emilia.
Il baratto amministrativo deve
essere disciplinato dall'apposito regolamento comunale e non
può riguardare i debiti pregressi dei contribuenti.
Lo ha chiarito la
Corte dei Conti Emilia Romagna con il
parere 23.03.2016 n. 27, definendo i contorni di applicabilità
dell'articolo 24 del Dl 133/2014, che consente ai comuni di
deliberare riduzioni o esenzioni di tributi a fronte di
interventi per la riqualificazione del territorio, da parte
di cittadini o associazioni. Si tratta di uno strumento che
consente ai cittadini che non riescono a far fronte al
pagamento dei tributi comunali di ottenere sconti prestando
ore di lavoro in favore della comunità.
Sul nuovo istituto è intervenuto l'IFEL (fondazione dell'Anci)
con due note del 16.10.2015 (si veda Il Quotidiano Enti
Locali & Pa del 20/10/2015) e del 22.10.2015 (si veda
Il Quotidiano Enti Locali & Pa del 27/10/2015), che vengono
ora prese in esame dalla Corte dei Conti Emilia Romagna
considerando corretta solo la prima versione, la più
restrittiva.
I giudici contabili evidenziano in primo luogo che il
principio dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria
è derogabile solo in forza di una disposizione di legge, che
nel caso del baratto amministrativo è l'articolo 24 del Dl
133/2014. L'agevolazione tributaria può essere quindi
applicata entro limiti ben circoscritti, attraverso
l'adozione di un apposito regolamento comunale ai sensi
dell'articolo 52 del Dlgs 446/1997.
Pertanto, non è possibile
introdurre il baratto amministrativo con una semplice
delibera di Giunta ma occorre seguire la via regolamentare,
con l'ulteriore conseguenza che la delibera deve essere
approvata entro il termine fissato per l'adozione del
bilancio, altrimenti ha efficacia a partire dall'anno
successivo.
Inoltre, dal punto di vista del contenuto del regolamento, è
necessario che lo stesso individui “criteri” e “condizioni”
in base ai quali i cittadini, singoli o associati, possano
presentare progetti relativi ad interventi di
riqualificazione del territorio. Interventi che possono
riguardare solo ed esclusivamente quelli previsti dalla
legge, tra cui “la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento
di aree verdi, piazze, strade, ovvero interventi di decoro
urbano” e “la valorizzazione di una limitata zona del
territorio”.
Deve poi sussistere un rapporto di stretta inerenza tra le
esenzioni e/o le riduzioni di tributi che il comune può
deliberare e le attività che i cittadini possono realizzare.
Infine, i giudici contabili precisano che non è possibile
utilizzare il baratto amministrativo per i debiti pregressi
dei contribuenti, trattandosi di un'ipotesi che: 1) non
rientra nell'ambito di applicazione della norma, difettando
il requisito dell'inerenza tra l'agevolazione tributaria e
l'attività posta in essere dal cittadino; 2) potrebbe
determinare effetti pregiudizievoli sugli equilibri di
bilancio, considerato che si tratta di debiti ormai
confluiti nella massa dei residui attivi dell'ente.
In definitiva la Corte dei Conti Emilia Romagna delinea un
modello di baratto amministrativo disatteso dalla maggior
parte dei Comuni, specie da quelli che hanno individuato
nelle morosità pregresse (anche incolpevoli) l'oggetto
principale del nuovo istituto. Comuni che ora dovrebbero
rivedere le proprie scelte, se non vogliono rischiare di
essere chiamati a rispondere di danno erariale
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.03.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
La prova dell'arrivo della raccomandata fa
presumere l'invio e la conoscenza dell'atto, mentre l'onere
di provare eventualmente che il plico non conteneva l'atto
spetta non già al mittente
bensì al destinatario.
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Merita dunque di
essere confermato il principio per cui, in
tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del
D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26 (così come, più in
generale, in caso di spedizione di plico a mezzo
raccomandata), la prova del perfezionamento del
procedimento di notificazione è assolta dal notificante
mediante la produzione dell'avviso di ricevimento, poiché,
una volta pervenuta all'indirizzo del destinatario, la
cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente
consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e
concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui
all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria
regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il
destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza
colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel
caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non
conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un
atto diverso da quello che si assume spedito).
---------------
MASSIMA
13. Il quinto, il sesto ed il settimo motivo, che in
quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente,
sono invece fondati.
13.1. In sintesi, con essi si chiede a questa Corte di
affermare il principio per cui il soggetto che proceda alla
notifica di cartella esattoriale, con la procedura di cui
all'art. 26, D.P.R. n. 602/1973, può limitarsi a consegnare
il plico chiuso all'agente postale, per la sua spedizione,
essendo assistiti da fede privilegiata ex art. 2700 cod.
civ. tanto l'accettazione quanto l'avviso di ricevimento
della raccomandata, e gravando invece sul destinatario
l'onere di superare la presunzione di conoscenza del
contenuto della raccomandata, di cui all'art. 1335 cod. civ..
13.2. Sul tema si registra, invero, una certa divaricazione
della giurisprudenza di legittimità, rispetto alla quale
questo Collegio intende però aderire all'orientamento che
risulta prevalente, in base al quale, ove
il Concessionario si avvalga della facoltà, prevista dal
D.P.R. 29.09.1913, n. 602, art. 26, di provvedere alla
notifica della cartella esattoriale mediante raccomandata
con avviso di ricevimento, ai fini del perfezionamento della
notificazione è sufficiente
-anche alla luce della disciplina dettata dal D.M.
09.04.2001, artt. 32 e 39- che la
spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al
domicilio del destinatario, senz'altro adempimento a carico
dell'ufficiale postale se non quello di curare che la
persona da lui individuata come legittimata alla ricezione
apponga la sua firma sul registro di consegna della
corrispondenza, oltre che sull'avviso di ricevimento da
restituire al mittente; ciò sarebbe confermato
implicitamente anche dal penultimo comma del citato art. 26,
secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per
cinque anni la matrice o la copia della cartella con la
relazione dell'avvenuta notificazione o con l'avviso di
ricevimento, in ragione della forma di notificazione
prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente
o dell'amministrazione
(Cass. sez. III, sentenza n. 9246 del 07.05.2015; Cass. sez.
V, sentenza n. 4567 del 06.03.2015; conf., tra le più
recenti, Cass. n. 16949/2014, n. 6395/2014, n. 11708/2011;
n. 14327/2009).
13.3. Ai predetti fini non si ritiene
invece necessario che l'agente della riscossione dia la
prova anche del contenuto del plico spedito con lettera
raccomandata, dal momento che l'atto pervenuto all'indirizzo
del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a
quest'ultimo in forza della presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 cod. civ., superabile solo se lo stesso
destinatario dia prova di essersi incolpevolmente trovato
nell'impossibilità di prenderne cognizione
(Cass. n. 15315/2014, n. 9111/2012, n. 20027/2011).
In altri termini, la prova dell'arrivo
della raccomandata fa presumere l'invio e la conoscenza
dell'atto, mentre l'onere di provare eventualmente che il
plico non conteneva l'atto spetta non già al mittente
(in tal senso, Cass. ord. n. 9533/2015, sent. n. 2625/2015,
n. 18252/2013, n. 24031/2006, n. 3562/2005),
bensì al destinatario
(in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. sez. I,
22.05.2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322/2014, n.
15315/2014, n. 23920/2013, n. 16155/2010, n. 17417/2007, n.
20144/2005, n. 15802/2005, n. 22133/2004, n. 771/2004, n.
11528/2003, n. 12135/2003, n. 12078/2003, n. 10536/2003, n.
4878/1992, 4083/1978; cfr. Cass. ord. n. 20786/2014, per la
quale tale presunzione non opererebbe -con inversione
dell'onere della prova- ove il mittente affermasse di avere
inserito più di un atto nello stesso plico ed il
destinatario contestasse tale circostanza).
13.4. In effetti, l'orientamento prevalente
risulta più rispettoso del principio generale di c.d.
vicinanza della prova, poiché la sfera di conoscibilità del
mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva
alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera
di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella
fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed
essendone perciò onerato), in ipotesi anche avvalendosi di
testimoni, che al momento dell'apertura il plico era in
realtà privo di contenuto.
13.5. Merita dunque di essere confermato il principio per
cui, in tema di notifica della cartella
esattoriale ai sensi del D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26
(così come, più in generale, in caso di spedizione di
plico a mezzo raccomandata), la prova del
perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta
dal notificante mediante la produzione dell'avviso di
ricevimento, poiché, una volta pervenuta all'indirizzo del
destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui
ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza
di cui all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e
concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui
all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria
regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il
destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza
colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel
caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non
conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un
atto diverso da quello che si assume spedito)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 18.03.2016 n. 5397).
---------------
Si legga, al riguardo, un commento:
Raccomandata: come si prova il contenuto della lettera?
(25.04.2016 - link a www.laleggepertutti.it). |
febbraio 2016 |
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TRIBUTI:
Tributi locali, blocco assoluto. Congelati il
contributo di sbarco e l'imposta di soggiorno.
I paletti della Corte conti Abruzzo: vietato
anche ridurre le agevolazioni ai contribuenti.
Nessuno spiraglio per superare il blocco
dei tributi locali.
Ai dubbi e alle incertezze sollevati dalle amministrazioni
locali sui limiti che la legge di stabilità 2016 ha fissato
agli aumenti di aliquote e tariffe, ha dato una risposta
chiara la Corte dei conti, sezione regionale di controllo
per l'Abruzzo, con il
parere 09.02.2016 n. 35, il quale ha
affermato che non esistono margini di manovra per effettuare
delle scelte di politica fiscale che possano comportare un
aumento della tassazione.
Al di là della formulazione
letterale della norma che si limita a imporre la sospensione
degli aumenti, per i giudici contabili la ratio legis è
quella di porre un freno all'innalzamento della pressione
fiscale a livello locale. Non rientra nel blocco solo ciò
che è espressamente escluso, come la Tari. Soni esonerati
dal vincolo anche gli enti locali che si trovano in uno
stato di dissesto o predissesto.
In queste settimane sono stati manifestati dei dubbi da
funzionari e dirigenti degli enti locali sui limiti del
blocco. In particolare, se è impedito istituire nuovi
tributi (imposta di soggiorno, imposta di scopo), se è
impossibile rimodulare le aliquote deliberate per
l'addizionale Irpef rapportate ai vari scaglioni di reddito
o fissare tariffe più elevate rispetto al 2015 per il nuovo
contributo di sbarco, sostitutivo dell'imposta di sbarco,
tenuto conto che è stato previsto proprio da una
disposizione di legge a partire dal 2016.
Secondo i giudici
contabili, che richiamano precedenti pareri espressi in
passato, unico obbiettivo dello stop all'aumento di imposte
e tasse negli enti locali è quello di contenere il livello
della pressione fiscale. Il blocco per il 2016 non è però
limitato solo al contenimento di aliquote e tariffe, ma
impedisce anche l'istituzione di nuovi tributi. Non va dato
rilievo alla differenza terminologica tra «aumento» e
«istituzione», poiché ciò che conta è che rimanga invariato
il carico fiscale sui contribuenti, siano essi residenti o
meno nel territorio comunale.
Ecco perché non è consentito
istituire neppure l'imposta di soggiorno, ancorché siano
soggetti al prelievo solo i non residenti. Allo stesso modo
non è possibile ridurre le agevolazioni già concesse ai
contribuenti. Sono escluse dal blocco la Tari, il cui
gettito serve a coprire integralmente il costo del servizio
di smaltimento rifiuti, e tutte le entrate che hanno natura
patrimoniale, come il canone occupazione spazi e aree
pubbliche, il canone idrico e via dicendo. Non sono soggetti
al vincolo gli enti che hanno deliberato il predissesto o il
dissesto.
L'articolo 1, comma 26, della legge di stabilità 2016
(208/2015), dunque, non consente di introdurre nuovi tributi
o aumenti di aliquote e tariffe, anche se le relative
delibere sono state adottate prima dell'entrata in vigore
della norma (1° gennaio). Peraltro, non solo è impossibile
ritoccare in aumento aliquote o tariffe, ma è anche impedito
che possano essere aboliti benefici già deliberati dagli
enti (aliquote agevolate, riduzioni, detrazioni), che
comunque inciderebbero sul carico fiscale e darebbero luogo
a un innalzamento della tassazione.
Tuttavia, questi vincoli non producono effetti per le
entrate che hanno natura patrimoniale o extratributaria. Al
riguardo, vi sono delle incertezze sulle entrate che devono
sottostare al divieto imposto dalla legge e questo dipende
anche dalla loro controversa natura. Va ricordato che il
canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap)
ha natura patrimoniale. Sono entrate patrimoniali anche il
canone idrico e il canone depurazione.
Non è ammesso
l'aumento delle tariffe, invece, per il canone installazione
mezzi pubblicitari (Cimp) che, nonostante la trasformazione
da imposta a canone eventualmente operata
dall'amministrazione comunale, mantiene la sua natura
tributaria. Soggiace al blocco anche il diritto sulle
pubbliche affissioni, ancorché non sia mai stata del tutto
pacifica la sua natura giuridica
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016). |
gennaio 2016 |
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TRIBUTI:
Sezioni Unite. Ici. Competenza verificata solo
dopo la giurisdizione.
Spetta al giudice tributario decidere sull’opposizione del
contribuente in materia di Ici e la Cassazione può rilevare
anche d’ufficio il difetto di giurisdizione ignorato dal
giudice ordinario che si era (peraltro) dichiarato
incompetente.
Con una motivazione lunga e articolata, le Sezioni Unite
civili della Corte di Cassazione (sentenza
05.01.2016 n. 29) hanno deciso una controversia nata
in provincia di Mantova su un recupero coattivo di Ici per
circa 200mila euro e portata dalla contribuente davanti al
Tribunale ordinario di Brescia, sezione staccata di Breno.
Qui il giudice aveva deciso per la propria giurisdizione,
rilevando però l’incompetenza territoriale, trasferita al
Tribunale di Mantova. Impugnato dalla contribuente in
Cassazione con istanza di regolamento di competenza,
l’intricato fascicolo è approdato alle Sezioni Unite dopo
che la Sesta civile aveva ravvisato un indirizzo non proprio
univoco sul versante della pregiudizialità -tutta
civilistica- tra regolamento di giurisdizione e quello di
competenza.
Le SU, richiamandosi tra l’altro al giudice naturale evocato
dalla Costituzione, hanno stabilito che sulla decisione del
Tribunale di Brescia non si era ancora formato il giudicato,
e che pertanto la Corte può d’ufficio rilevare il difetto di
giurisdizione che è sempre “pregiudiziale” rispetto
alla determinazione della competenza.
Quanto poi alla “titolarità” giurisdizionale del caso
specifico, le Sezioni Unite, dopo aver assimilato
l’ingiunzione fiscale emessa dal Comune in pendenza di
giudizio tributario a un normale «ruolo», hanno
conseguentemente affermato la “titolarità” esclusiva
del giudice tributario (articolo Il Sole 24 Ore del
06.01.2016). |
TRIBUTI:
Pertinenziali anche i terreni non «graffati» al
catasto.
Un terreno posto a
servizio di un edificio è pertinenza anche se non è
“graffato” al catasto.
Agevolazioni. La Ctr Lombardia ribadisce: contano
destinazione del terreno e volontà del titolare.
Lo stabilito la Ctr
Lombardia-Milano con la
sentenza
05.01.2016 n. 14/19/2016 (presidente Craveia,
relatore Monfredi).
Un notaio aveva rogato un atto di vendita di un terreno
dagli acquirenti qualificato come pertinenza di un edificio
che avevano in precedenza acquistato e per il quale avevano
ottenuto le agevolazioni fiscali “prima casa”. In base a
tale dichiarazione avevano versato l’imposta di registro al
3% e le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa.
L’ufficio aveva però ritenuto che l’acquisto del terreno non
potesse beneficiare di quelle agevolazioni, perché esso non
era censito al catasto urbano unitamente al bene principale:
non era cioè “graffato” al fabbricato abitativo, ma censito
autonomamente. Per questo era stato emesso avviso di
liquidazione, per il recupero delle maggiori imposte dovute.
Il notaio rogante aveva allora proposto ricorso e la Ctp
aveva annullato l’atto.
Ma l’ufficio aveva proposto appello chiedendo alla Ctr
Lombardia di ritenere legittimo l’avviso di liquidazione che
si basava sul dato oggettivo e documentale della mancata
“graffatura” dell’immobile qualificato pertinenza.
Secondo l’Agenzia, contrariamente a quanto vale per i beni
classificati C/2, C/6 e C/7, con riferimento ai terreni, le
circolari dell’amministrazione finanziaria (del 12.08.2005 e del 29.05.2013) prevedono che il proprietario
deve formalizzare catastalmente la sua scelta di destinare
funzionalmente e durevolmente il bene a servizio di altro
principale. Se non lo fa dimostra la sua volontà di non
destinare il terreno a servizio del fabbricato.
Anche i giudici di secondo grado hanno tuttavia disatteso le
tesi dell’ufficio, affermando che le circolari non possono
derogare alla legge.
Secondo la Ctr, infatti, la normativa in materia di imposta
di registro non prevede alcuna limitazione tassativa
rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale
di un fabbricato ai fini fiscali. Contiene invece solo
un’elencazione esemplificativa e indica due requisiti
necessari, uno oggettivo e uno soggettivo: la destinazione
durevole al servizio o ad ornamento del bene principale; e
la volontà del titolare del diritto reale sulla cosa
principale di effettuare tale destinazione.
La “graffatura” rappresenta di certo manifestazione non
equivoca di questa volontà. Ma non può al contrario
sostenersi che la mancata “graffatura” escluda
automaticamente e insuperabilmente tale volontà, perché una
tale interpretazione non sarebbe conforme alla normativa
primaria e non è previsto dal codice civile alcun obbligo di
formalizzare la scelta in sede catastale.
Nel caso al loro esame, inoltre, i giudici rilevavano che le
caratteristiche dimensionali del terreno erano in tutto
compatibili ed in linea con i limiti fissati dall’articolo 5
del Dm 02.08.1962 perché un’area scoperta potesse
considerarsi pertinenza di un’abitazione non di lusso.
L’annullamento dell’avviso di liquidazione è stato dunque
confermato con condanna dell’Agenzia al pagamento delle
spese (articolo Il Sole 24 Ore del
04.04.2016). |
dicembre 2015 |
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TRIBUTI:
Regolamento ai sensi dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica
di favorire la partecipazione della comunità locale alla
valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni
di affidare a cittadini singoli o associati determinati
interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici
pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni,
specificamente, di tributi inerenti al tipo di attività
posta in essere.
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non
aventi natura tributaria, ad avviso dell'IFEL e come
specificato dall'ANCI, istituti analoghi possono essere
attivati dall'ente, nell'ambito della disciplina
regolamentare generale delle entrate (art. 52, D.Lgs. n.
446/1997) e avvalendosi della facoltà riconosciuta dall'art.
1197 c.c., secondo cui 'il debitore non può liberarsi
eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se
di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore
consenta'.
Il Comune intende approvare il Regolamento ai sensi
dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, e chiede se sia legittimo
estendere l'agevolazione ivi prevista anche alle entrate non
tributarie, quali ad esempio le tariffe (rette per mense
scolastiche, tariffe scuolabus) ed i canoni di locazione di
immobili comunali.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprime quanto segue.
In via preliminare, si sottolinea la natura statale della
norma in oggetto da cui consegue la competenza degli organi
statali a fornire i chiarimenti in ordine all'ambito
applicativo della stessa. Le considerazioni che seguono
vengono, pertanto, espresse in via meramente collaborativa.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione
della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n.
133/2014 [1],
'i comuni possono definire con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi
su progetti presentati da cittadini singoli o associati,
purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In
relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni
possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti
al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa
per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e
per attività individuate dai comuni, in ragione
dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere.
Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di
cittadini costituite in forme associative stabili e
giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei
cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del
territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4,
della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali
favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale [2].
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai
comuni di affidare a cittadini singoli o associati
determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata
zona del territorio urbano o extraurbano
[3].
In ordine alle modalità applicative dell'agevolazione
(specificamente tributaria) prevista dall'art. 24 in
commento, il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico,
istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio e del mare [4],
ha espresso l'avviso secondo cui «l'impressione è che la
norma non autorizzi affatto gli enti locali, in modo
indiscriminato, a disporre la riduzione o l'esonero. Ma
esiga, piuttosto, un preciso rapporto di connessione 'fra
attività posta in essere' e tributo interessato».
Per quanto concerne la questione posta dall'Ente, relativa
alla possibilità di estendere l'agevolazione tributaria
prevista dall'art. 24, D.L. n. 133/2014, oltre ai tributi
anche alle tariffe e ad altre entrate extra tributarie, si
formulano alcune riflessioni -si ribadisce- in via
collaborativa, stante la competenza degli organi statali al
riguardo.
Il tenore letterale dell'art. 24 in argomento prevede
un'agevolazione (esenzione o riduzione) esplicitamente
riferita ai tributi, la cui essenza consiste nell'essere
prestazioni patrimoniali imposte dall'ente pubblico,
caratterizzate dall'attitudine (idoneità) a determinare il
concorso alla pubblica spesa dell'ente impositore, e
gravanti su tutti i cittadini aventi una retribuzione o un
reddito imponibile a fini fiscali [5].
Specificamente, deve essere riconosciuta natura tributaria a
tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazione o
in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o
in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed
il beneficio che il singolo riceve [6].
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non
aventi natura tributaria [7],
l'Istituto per la finanza e l'economia locale (IFEL),
fondazione istituita dall'Anci, nel constatare che l'ambito
di applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, si
riferisce, appunto, esplicitamente al campo dei tributi
comunali, per cui non sembrano potersi ricondurre al suo
ambito applicativo anche le entrate patrimoniali non
tributarie, ha osservato, però, che istituti analoghi
possono comunque essere attivati per tali entrate non
tributarie, in relazione alle quali l'ente locale può ancora
più flessibilmente disporre modalità alternative di
adempimento anche sotto il profilo dei pagamenti.
Un tanto l'ente potrà disporre nell'ambito della disciplina
regolamentare generale delle proprie entrate (art. 52,
D.Lgs. n. 446/1997 [8]),
e avvalendosi della facoltà riconosciutagli dall'art. 1197
cod. civ., secondo cui 'il debitore non può liberarsi
eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se
di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta'
[9].
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[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico,
istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio e del mare, ha chiarito che l'individuazione
delle attività 'in ragione dell'esercizio sussidiario', è da
intendersi, secondo ragionevolezza, nel senso fatto palese
dall'art. 118, Cost., laddove ci si riferisce solo ad
attività di interesse generale (deliberazione n. 5, del
23.02.2015).
[3] L'IFEL (Istituto per la finanza e l'economia locale,
fondazione istituita dall'ANCI), ha precisato che l'attività
cui collegare le agevolazioni non può essere individuata
liberamente dal comune, ma deve essere riconducibile alle
tipologie di attività elencate dalla norma, nel rispetto del
principio della riserva di legge, ex art. 23 della
Costituzione (nota del 16.10.2015).
[4] Deliberazione n. 5/2015, cit..
[5] C. Cost., 12.01.1995, n. 2, con specifico riferimento
alla natura tributaria del contributo per il Servizio
sanitario nazionale, specificamente finalizzato al
finanziamento della spesa pubblica sanitaria. La pronuncia è
richiamata da Cass. civ., sez. un., Ordinanza 09.01.2007, n.
123. Conformi: Corte Costituzionale 10.02.1982, n. 26, Corte
Costituzionale, 14.03.2008, n. 64; Corte Costituzionale,
11.02.2005, n. 73, tutte nel senso di qualificare il tributo
come una prestazione patrimoniale imposta e collegata alla
spesa pubblica.
[6] Cass. civ., Ordinanza 11.02.2008, n. 3171, che afferma
la natura tributaria del contributo per il Servizio
sanitario nazionale, in quanto trova applicazione a
prescindere dall'an e dal quantum dei servizi (e della
natura degli stessi) richiesti; e non ha un rapporto
sinallagmatico con l'utilizzazione del Servizio.
[7] In particolare, per le entrate cui il Comune vorrebbe
estendere l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014
(retta mensa, tariffa scuolabus), si osserva che sussiste un
nesso di sinallagmaticità (che, alla luce delle elaborazioni
giurisprudenziali riportate, non appartiene ai tributi) tra
la retta per la mensa e la fruizione del relativo servizio,
come emerge dalle considerazioni della Suprema Corte che,
relativamente al servizio di mensa nella scuola materna, ha
escluso una contribuzione, se pur ridotta, per gli utenti
che avevano dichiarato di non voler mai usufruire della
mensa, per il solo fatto di frequentare la scuola, che
invece non deve comportare alcun onere economico a loro
carico (Cass. civ., Sez. un., 04.12.1991, n. 13030). Lo
stesso, appare configurarsi un nesso sinallagmatico tra la
prestazione economica della tariffa scuolabus e
l'utilizzazione del relativo servizio di trasporto
scolastico.
[8] L'art. 52, D.Lgs. n. 446/1997 (Potestà regolamentare
generale delle province e dei comuni), riconosce ai Comuni e
alle Province il potere di disciplinare con regolamento le
proprie entrate, anche tributarie.
Su questo punto, cfr. Anci, nota del 15.09.2015.
L'Associazione, nel rispondere ad un quesito sulla portata
applicativa dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, in particolare
sulla possibilità di prevedere, con regolamento comunale,
anche riduzioni o esenzioni di canoni e di tariffe comunali,
ha affermato la possibilità per il comune, nell'esercizio
della potestà regolamentare prevista dall'art. 52, D.Lgs. n.
446/1997, di disporre ulteriori esenzioni ed agevolazioni,
in materia di entrate e tributi.
[9] Cfr. nota Anci del 26.10.2015 (03.12.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
novembre 2015 |
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TRIBUTI:
Le tipologie di interpello.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 156/2015, modificando l'art. 11 dello Statuto dei
diritti del contribuente, individua cinque tipologie di
interpello: ordinario, qualificatorio, probatorio, anti
abuso e disapplicativo disponendo che gli enti locali devono
provvedere entro il 01.07.2016 ad adeguare i propri
regolamenti.
Si chiede cortesemente di sapere: a) se le
tipologie di interpello probatorio, anti abuso e disapplicativo riguardano anche i tributi comunali o solo i
tributi erariali; b) se il termine per l'adeguamento del
regolamento comunale per la disciplina delle entrate
(contenente anche la disciplina dell'interpello) è
effettivamente il 01.07.2016 oppure se si deve
provvedere entro il termine di approvazione del bilancio
comunale (termine, quest'ultimo, da rispettare per
l'adeguamento dei regolamenti tributari).
RISPOSTA:
Il nuovo articolo 11 dello Statuto del contribuente
razionalizza le tipologie di interpello esistenti,
sistematizzandole e raggruppandole in diverse categorie, di
cui sono definiti esplicitamente i presupposti applicativi:
• interpello “ordinario” e “qualificatorio” (articolo 11,
comma 1, lettera a)
• interpello “probatorio” (articolo 11,
comma 1, lettera b)
• interpello “anti abuso” (articolo 11,
comma 1, lettera c),
• interpello “disapplicativo” (articolo
11, comma 2).
L’interpello ordinario ricalca quello già
disciplinato dal vecchio testo dell’articolo 11, trattandosi
di una richiesta volta a ottenere un parere quando
sussistano obiettive condizioni di incertezza
sull’interpretazione delle disposizioni tributarie, in
relazione alla loro applicazione a casi concreti e
personali. A questo modello generale, il legislatore
delegato, sempre nel punto a), ha affiancato l’interpello
“qualificatorio” in cui l’istanza del contribuente riguarda
la corretta qualificazione della fattispecie quando,
comunque, sussistono obiettive condizioni di incertezza alla
luce delle disposizioni tributarie applicabili alle
medesime.
La seconda tipologia menzionata dal nuovo comma 1
dell’articolo 11 è definita dallo stesso legislatore
interpello probatorio e si sostanzia in una richiesta tesa a
ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o
sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal
contribuente ai fini dell’accesso a un determinato regime
fiscale, azionabile, tuttavia, solo nei casi espressamente
previsti (quelli, appunto, contenenti l’esplicito richiamo
all’interpello di cui alla lettera c) del comma 1
dell’articolo 11).
In verità, non si tratta di una forma di
interpello nuova, ma di una categoria ampia che ricomprende
e abbraccia, sotto il cappello della formula utilizzata,
tante figure già previste dal sistema, che vengono, in
questo modo, ricondotte a unità. In questa categoria sono
ricomprese ipotesi molto eterogenee, tra cui alcune a oggi
classificate tra gli interpelli obbligatori, degradati
perciò solo a facoltativi. Un’altra categoria di interpelli
facoltativi è l’interpello anti-abuso -destinato ad
assorbire le principali fattispecie ricomprese nel capo di
applicazione dell’interpello antielusivo di cui all’articolo
21 della legge 413/1991- che costituisce il nuovo strumento
attraverso il quale il contribuente può chiedere
all’amministrazione se le operazioni che intende realizzare
costituiscano fattispecie di abuso del diritto, ai sensi del
nuovo articolo 10-bis dello Statuto.
Il comma 2 dell’art. 11
prevede, altresì, l’interpello “disapplicativo”: mutuato
dall’art. 37-bis, co. 8, del DPR n. 600/1973, consente al
contribuente di richiedere un parere all’Amministrazione in
ordine alla sussistenza delle condizioni che legittimano la
disapplicazione di norme tributarie che limitano deduzioni,
detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive
del soggetto passivo.
In questo caso, laddove l’Agenzia
fornisca una risposta negativa all’istanza, il contribuente
può fornire la dimostrazione della spettanza della
disapplicazione delle norme anche nelle successive fasi
dell’accertamento e del contenzioso. In conclusione, ad un
primo esame, sembrano applicabili ai tributi locali
esclusivamente gli interpelli ordinari e qualificatori; le
altre tipologie sembrano applicabili soltanto ai tributi
erariali.
In merito, si attende comunque una circolare
dell’Agenzia delle Entrate. L’adeguamento dei regolamenti
comunali relativamente agli interpelli potrà essere
effettuato entro il 01.07.2016; la data di approvazione
del bilancio, infatti, riguarda soltanto quelle modifiche
suscettibili di incidere sul bilancio stesso e, pertanto,
tale limitazione non si applica al caso in esame
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
TRIBUTI:
La pubblicità abusiva.
DOMANDA:
E' vero che se rileviamo un cartello o un'insegna abusiva
(in assenza di autorizzazione, ovvero scaduta) e spesso
anche non in regola con il tributo, non dovremmo emettere
avvisi di accertamento, in quanto sono i vigili ad elevare
contravvenzione ai sensi del Codice della Strada?
La motivazione sarebbe che una volta pagato il tributo, se
si dovesse andare davanti al Giudice, si perderebbe la
causa. La domanda è: ma allora non può mai esistere una
avviso di accertamento per mancata dichiarazione di inizio
pubblicità?
E tutto il tempo, magari anni, di esposizione abusiva viene
risolto solo con la contravvenzione dei vigili?
RISPOSTA:
Quanto riportato nel quesito, senza alcun riferimento
normativo o giurisprudenziale è incomprensibile.
L’applicazione della normativa tributaria è completamente
autonoma nei confronti dell’applicazione delle norme di
legge e di regolamento riguardo la mancanza di
autorizzazione all’installazione dell’impianto pubblicitario
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Gestori tlc tassati. Imu/Ici sui ripetitori di telefonia.
La Cassazione sulla classificazione degli immobili.
I ripetitori di telefonia mobile di cui sono titolari i vari
gestori telefonici (Vodafone, Telecom) sono soggetti al
pagamento dell'Ici, e anche dell'Imu, in quanto infissi al
suolo in maniera stabile e, quindi, sono da considerare a
tutti gli effetti dei fabbricati. Vanno, infatti, inquadrati
catastalmente nella categoria «D» e non nella categoria «E»,
come immobili esenti.
Lo ha affermato la
Corte di Cassazione
-Sez. V civile- con la
sentenza 25.11.2015 n. 24026.
Secondo la Cassazione, i ripetitori di telefonia mobile
devono essere classificati nella categoria «D», «in quanto
trattasi di struttura stabilmente infissa al suolo,
recintata, all'interno della quale è stato installato, su
platea di calcestruzzo, un traliccio cui sono state fissate
le antenne».
Questi immobili devono essere accatastati come
previsto dall'articolo 4 del rdl 652/1939. Tra l'altro,
precisano i giudici, la classificazione catastale nella
categoria «D» è prevista dalla circolare dell'Agenzia del
territorio n. 4/2006, che non fa riferimento solo alle
centrali eoliche, ma vale anche per i «ripetitori e impianti
similari».
Nello specifico, la circolare pone in rilievo
che: «Rilevante importanza hanno assunto nel tempo anche le
costruzioni tese a ospitare impianti industriali mirati alla
trasmissione o all'amplificazione dei segnali destinati alla
trasmissione (via cavo o etere)... la categoria da
attribuire agli immobili che le ospitano è da individuare
nel gruppo D... Tra le diverse tipologie dei manufatti in
esame ha registrato negli ultimi anni una significativa
diffusione sul territorio quella destinata a ospitare gli
impianti per la diffusione della telefonia mobile...».
La classificazione catastale. L'articolo 4 del rdl 652/39,
richiamato nella pronuncia in esame, definisce immobili
urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque
materiale costruiti, stabilmente assicurati al suolo. I
ripetitori di telefonia mobile, come gli impianti eolici,
sono degli opifici e devono essere iscritti in catasto nella
categoria D/1.
L'Agenzia del territorio ha precisato la
categoria catastale che deve essere attribuita a questi
impianti e ha fornito i chiarimenti necessari sulla
disciplina che deve essere osservata dagli uffici
provinciali per determinare la rendita. La qualificazione
della tipologia di immobili e la relativa rendita assumono
rilevanza ai fini fiscali.
Il provvedimento catastale
costituisce il parametro di riferimento per la
determinazione dell'Ici e dell'Imu. Per quanto concerne gli
impianti eolici, l'Agenzia ha affermato che rilevano le
finalità cui sono destinati questi immobili e il fatto che
Stato, Regioni e Unione europea ne incentivino la
costruzione. Il classamento è indipendente «da ogni vincolo
amministrativo o legislativo non dettante disposizioni in
materia di catasto».
Al riguardo, vanno invece richiamate le
norme (rdl 652/1939, dpr 1142/1949, dm 28/1998) che
forniscono la nozione di unità immobiliare urbana e di
rendita catastale. Sono considerate unità immobiliari le
costruzioni ancorate o fisse al suolo, di qualunque
materiale costituite, nonché gli edifici sospesi o
galleggianti, stabilmente assicurati al suolo, purché
risultino verificate le condizioni funzionali e reddituali.
La stessa natura hanno i manufatti prefabbricati, anche se
solo appoggiati al suolo, qualora gli stessi siano stabili
nel tempo e presentino autonomia funzionale e reddituale.
L'obbligo di accatastamento è stato ribadito dall'art.
1-quinquies del decreto legge 44/2005, convertito nella
legge 88/2005, di interpretazione autentica del citato
articolo 4, il quale ha stabilito che i fabbricati e le
costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti
ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria,
cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione,
parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene
complesso. Strutture e impianti, che sono tra di loro
connessi e unificati da un nesso funzionale in vista della
destinazione a una determinata utilizzazione produttiva,
rientrano nel novero degli «opifici» e devono essere
classificati catastalmente nella categoria D.
Nella stessa categoria catastale rientrano anche le centrali
elettriche. Non a caso l'Agenzia del territorio, con la
risoluzione 3/2008, ha chiarito che «le centrali elettriche
a pannelli fotovoltaici devono essere accertate nella
categoria «D/1 - opifici» e che nella determinazione della
relativa rendita catastale devono essere inclusi i pannelli
fotovoltaici, in analogia con la prassi, ormai consolidata,
adottata in merito alle turbine delle centrali elettriche».
Anche la giurisprudenza ha sostenuto che questi impianti
siano soggetti a imposizione (Corte di cassazione, sentenze
13319/2006 e 4030/2012; commissione tributaria regionale del
Lazio, sezione XX, sentenza 48/2004; Commissione tributaria
regionale della Puglia, sezione XXVII, sentenza 214/2008).
---------------
Gruppo D, conti fino ad accatastamento.
Nella disciplina Ici e Imu è previsto che per i fabbricati
iscritti in catasto il valore dell'immobile si ottiene
facendo riferimento all'ammontare delle rendite, vigenti al
1° gennaio dell'anno di imposizione.
Per i fabbricati
interamente posseduti da imprese, classificabili nel gruppo
catastale D, distintamente contabilizzati, qualora gli
stessi siano sforniti di rendita catastale, la base
imponibile Ici è costituita dai costi di acquisizione e
incrementativi contabilizzati, ai quali vanno applicati dei
coefficienti stabiliti annualmente con decreto del Ministro
delle finanze.
Il valore dell'immobile, così determinato,
può essere utilizzato fino alla fine dell'anno d'imposta nel
corso del quale viene attribuita la rendita catastale oppure
viene annotata al catasto la rendita proposta, con
l'osservanza della procedura prevista nel decreto del
ministro delle Finanze 701/1994.
Il valore, ai fini
dell'applicazione dell'Ici e dell'Imu, è determinato sulla
base delle scritture contabili fino a quando viene
presentata istanza di accatastamento. Solo dall'anno
successivo alla presentazione della suddetta istanza, il
valore del fabbricato deve essere determinato non più con
riguardo ai costi contabilizzati bensì in base al valore
catastale. Pertanto l'imprenditore, proprietario del
fabbricato di categoria D, è tenuto ad applicare il regime
del valore contabile fino alla richiesta di accatastamento.
Naturalmente, il Comune ha il potere-dovere di accertare
l'impresa titolare dei fabbricati iscritti nella categoria
«D», per i quali non è stato pagato il tributo, determinando
il quantum dovuto in base alle regole sopra citate, previste
dall'articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 504/1992
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015). |
TRIBUTI:
D.Lgs. 30.12.1992, n. 504, art. 9. Spettanza di agevolazioni
ICI a coadiuvanti agricoli.
Come rilevato dalla giurisprudenza, in
tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i
terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è
condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica
di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo
principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del
D.Lgs. 446/1997) e della conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione all'INPS (gestione ex
SCAU) è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei
primi due requisiti, il terzo requisito, relativo alla
conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma.
Il Comune chiede un parere con riferimento al riconoscimento
delle agevolazioni ICI di cui all'art. 9 del decreto
legislativo 30.12.1992, n. 504 [1],
anche a coadiuvanti agricoli. Specifica l'Ente che il
soggetto interessato è iscritto all'INPS in capo al nucleo
del coltivatore diretto, che lo stesso non conduce
direttamente i terreni (che sono condotti dal coltivatore) e
che non dichiara redditi agrari ma solo dominicali.
Atteso che non rientra nella competenza di questo Servizio
l'interpretazione di normativa statale in materia
tributaria, si suggerisce all'Ente di rivolgersi
direttamente all'Agenzia delle entrate competente per
territorio al fine di acquisire i necessari chiarimenti.
Peraltro, in via meramente collaborativa, si formulano
alcune osservazioni con riferimento alla fattispecie
prospettata.
L'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 stabilisce una riduzione
dell'imposta comunale sugli immobili (ICI) per i terreni
agricoli condotti direttamente, e a tal fine individua sia
la franchigia che le percentuali di riduzione in base al
valore dei terreni. Tale riduzione è riconosciuta a
condizione che i terreni siano posseduti e condotti da
coltivatori diretti o da imprenditori agricoli che esplicano
la loro attività a titolo principale.
La norma è stata integrata dall'art. 58, comma 2, del
decreto legislativo 15.12.1997, n. 446 [2],
il quale ha chiarito che, ai fini della riduzione in
argomento, 'si considerano coltivatori diretti o
imprenditori agricoli a titolo principale le persone fisiche
iscritte negli appositi elenchi comunali previsti
dall'articolo 11 della legge 09.01.1963, n. 9, e soggette al
corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità,
vecchiaia e malattia (...).'
Pertanto, come rilevato dalla giurisprudenza
[3], in
tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i
terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è
condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica
di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo
principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del
D.Lgs. 446/1997) e dalla conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione agli elenchi comunali
di cui alla L. 9/1963 [4]
è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei primi
due requisiti (atteso che chi viene iscritto in quell'elenco
svolge normalmente a titolo principale quell'attività legata
all'agricoltura), il terzo requisito, relativo alla
conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma 'potendo
ben accadere che un soggetto iscritto nel detto elenco poi
non conduca direttamente il fondo per il quale chiede
l'agevolazione, la quale, pertanto, non compete'.
[5]
Stando alle informazioni fornite dall'Ente instante, il
coadiuvante agricolo de quo non conduce direttamente i
terreni.
Parrebbe quindi potersi ritenere che allo stesso, carente
del presupposto essenziale della conduzione diretta, non
spetti la riduzione ex art. 9, anche a prescindere dalla
verifica della sussistenza degli altri requisiti stabiliti
dalla norma.
---------------
[1] 'Riordino della finanza degli enti territoriali, a
norma dell'articolo 4 della legge 23.10.1992, n. 421.'
[2] 'Istituzione dell'imposta regionale sulle attività
produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e
delle detrazioni dell'Irpef e istituzione di una addizionale
regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina
dei tributi locali.'
[3] Cassazione civile, sez. trib., Sentenze n. 15551 del
30.06.2010, n. 9143 del 16.04.2010, n. 214 del 07.01.2005.
[4] La compilazione degli elenchi comunali avveniva, fino al
30.06.1995, ad opera del Servizio per i contributi agricoli
unificati (SCAU). A far data dal 01.07.1995 il Servizio SCAU
è stato soppresso e le sue funzioni trasferite all'INPS, per
effetto dell'art. 19 della legge 23.12.1994, n. 724.
Inoltre, si osserva che l'iscrizione alla assicurazione
generale obbligatoria da parte del coltivatore diretto può
essere estesa da questi al proprio nucleo familiare,
comprendendo parenti e affini fino al 4° grado, sulla base
di requisiti oggettivi e soggettivi determinati dalla
normativa vigente.
[5] Cassazione civile, Sent. 1551/2015 cit. (17.11.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
ottobre 2015 |
 |
TRIBUTI:
Online il nuovo portale della giustizia
tributaria.
Dal calcolo del contributo unificato dovuto sul ricorso alla
prenotazione degli appuntamenti con la commissione
tributaria, dalla modulistica per richiedere copia delle
sentenze o il certificato di pendenza all'elenco dei
soggetti autorizzati alla difesa del contribuente presso Ctp
e Ctr.
È online il nuovo portale della giustizia tributaria,
realizzato dal Dipartimento delle finanze del Mef. Il sito,
i cui contenuti e l'erogazione dei servizi sono curati dalla
Direzione giustizia tributaria, svolgerà anche la funzione
di punto unico di accesso al processo tributario telematico,
in partenza dal prossimo 1° dicembre in via sperimentale
nelle commissioni della Toscana e dell'Umbria.
Attraverso l'indirizzo web
http://giustiziatributaria.gov.it contribuenti ed enti
impositori potranno effettuare online il deposito dei
ricorsi e degli atti processuali, come pure accedere al
fascicolo informatico del processo e consultare tutti gli
atti e i provvedimenti emanati dal giudice. Strumenti
necessari per poter fruire dei servizi del processo
tributario telematico sono il possesso di una casella di
posta elettronica certificata e di una firma digitale
valida.
Il sito contiene anche una sezione specifica dedicata alla
rassegna di giurisprudenza tributaria. Ed è proprio su
questo tema che, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, a
poche ore dal «lancio» del portale alcuni giudici hanno
sollevato qualche perplessità, relativa ai criteri di
selezione delle sentenze da parte del Mef.
Come spiegato
dalla Direzione giustizia tributaria sul sito, tuttavia, la
panoramica sulle massime «si propone di offrire risalto ad
alcune delle più interessanti pronunce segnalate dalle
commissioni tributarie», senza quindi privilegiare né quelle
pro-fisco né quelle pro-contribuente e in maniera più
tempestiva che in passato (l'aggiornamento avverrà ogni 15
giorni).
Il portale sarà utilizzabile anche dai magistrati tributari,
che potranno fruire di diversi servizi personalizzati
accessibili dalla «scrivania del giudice», tra cui la
ricerca delle sentenze delle commissioni tributarie e la
consultazione del fascicolo processuale telematico
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2015). |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo soltanto con l'inerenza.
Deliberazioni di riduzione o di esenzione di tributi
«inerenti il tipo di attività posta in essere». In cambio di
lavori fatti in tali ambiti di attività.
Con
nota di approfondimento del 16.10.2015 (si veda ItaliaOggi del 20 ottobre scorso), l'Ifel fornisce
chiarimenti per il corretto inquadramento del baratto
amministrativo e per la sua applicazione ai tributi locali.
Beneficiari del baratto amministrativo potranno essere
individuati in cittadini singoli o associati. Si
privilegeranno le «Comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute».
L'Istituto per la finanza e l'economia locale ritiene che la
riduzione o l'esenzione potrà essere concessa con riguardo
alle obbligazioni tributarie di cui è soggetto passivo
l'associazione stessa. Altro aspetto delicato afferisce il
perimetro d'intervento.
A parere dell'Ifel, l'intervento dei
cittadini dovrà riguardare un territorio da qualificare ed
essere alternativo e sostitutivo rispetto a quello del
comune. A fronte dell'intervento dei cittadini, il comune
potrà disporre deliberazioni di riduzione o esenzione di
tributi «inerenti al tipo di attività posta in essere».
La
ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera
di agevolazione al tributo di riferimento anche se in
apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività
posta in essere. Il concetto di «inerenza» del tributo per
cui si prevede l'agevolazione all'attività svolta dai
cittadini (singoli o associati), dovrà essere valutato in
sede di predisposizione della delibera di agevolazione ed
ispirato a criteri di ragionevolezza e corrispondenza tra
beneficio reso ed agevolazione concessa.
L'Ifel ritiene
opportuno basare la quantificazione economica
dell'agevolazione secondo politiche ispirate a
responsabilità e ragionevolezza del trattamento agevolativo,
specificando che il riconoscimento dell'agevolazione non
deve essere solo «legittimo» ma anche «controllabile».
Da
ultimo, l'Istituto tiene a precisare che non appare coerente
con la ratio della norma la possibilità di prevedere
riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali
debiti tributari del contribuente. La ragione è da ritrovare
nei principi di indisponibilità ed irrinunciabilità al
credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate
tributarie comunali
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
In materia di cartelloni pubblicitari posti sul muro di
recinzione del campo sportivo comunale.
Ogni
qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per
oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale
indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è
devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
---------------
La realizzazione o
l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è
consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti, da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione
titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o
installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare
tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro
normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto
dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene
pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura
pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza,
il «campo sportivo» di cui è
titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi
consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale
indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della
collettività locale);
- la regola della necessità del rilascio di una concessione
–perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato
dei luoghi– si applica pure quando si tratti della
collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non
è regolata soltanto alle disposizioni del codice della
strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del
1993), per effettuare la quale non è sufficiente la
presentazione della relativa domanda, dovendosi, al
riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione
un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con
atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con
conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente, anche l'esercizio del potere di ritiro
dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione
di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di
interesse legittimo.
---------------
Il Comune
ha comunicato alla società appellata che intendeva ritornare
in possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e
dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata
autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto,
ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la
restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli
impianti», entro un fissato termine, perché non risultava
alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della
società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto
di «comodato»: un tale contratto non può essere
giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene
pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il
rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale,
peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la
concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e
purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una
norma giuridica e sussistano i relativi presupposti,
dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui
l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per
l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie, la richiesta di restituzione dell’area
occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la
rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi
la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di
rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa,
risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del
Comune, sicché va rilevata la sussistenza della
giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi
dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente
alla gestione del bene pubblico.
---------------
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446
del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne
pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha
previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla
superficie della minima figura piana geometrica in cui è
circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di
messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di
comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle
assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali
luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del
precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a
qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio
pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte
della società appellata non può quindi rilevare come titolo
per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui
erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la
società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n.
507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma
ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di
concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su
beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione,
l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude
infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed
aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o
di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art.
9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta
comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa
per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge
dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato,
che
individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel
mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione
dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità
e, quindi, all'uso generalizzato.
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi
posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le
autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione
potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso
anche del muro di cinta.
E comunque il fatto che il Comune non abbia richiesto
preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro
suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le
anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione
del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale
interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a
percepire quanto spettante).
---------------
Spettano alla giurisdizione del giudice
ordinario non solo le controversie relative al canone per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche
quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che
l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di
spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari.
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza
formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano
nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie
le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone
previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari,
dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che costituisce una
mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità di cui
al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva, quindi, la qualifica
di tributo propria di quest'ultima, mentre spettano alla
giurisdizione del giudice ordinario le controversie
relative al canone per la concessione di spazi ed aree per
l'installazione di impianti pubblicitari.
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione
di delibere comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, va ritenuto che sulla
domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad
ottenere la condanna della società di cui trattasi ad
indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale
subita, consistente nel mancato introito del canone per
l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo
competente riguardo alla pretesa in esame il giudice
ordinario.
---------------
1.- Il Responsabile dell'Ufficio Economico Finanziario del
Comune di Ponte San Pietro, con nota prot. 8970 del 10.04.2002, ha comunicato alla s.p.a. IGPDECAUX Affissioni
che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati da
tre cartelli pubblicitari e da tre pannelli luminosi siti
nel Comune, alla via Trento e Trieste, la cui installazione
era stata autorizzata con atti prot. 5597 del 13.07.1982, prot. 6942 del
04.12.1987 e prot. 3033 del 19.04.1991, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e
1810 del c.c., alla società «la restituzione dell'area con
la contestuale rimozione degli impianti» (concedendo per
l’incombente un termine di tre mesi), dal momento che non
risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree,
assegnate in comodato (come sarebbe stato comprovato dalla
circostanza che non risultavano pagamenti a favore del
Comune per l’utilizzo dello spazio in questione).
2.- La società ha proposto il ricorso di primo grado,
chiedendo l’annullamento di tale provvedimento e per il
risarcimento del danno al TAR Lombardia, sezione di
Brescia, che, con la sentenza in epigrafe indicata, ha
respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata
dalla difesa del Comune ed ha accolto il ricorso, ritenendo
che il Comune, non avendo chiesto alcun corrispettivo per
l’uso del bene nel periodo dall’anno 1982 all’anno 2002,
aveva dimostrato di avere costantemente interpretato le
autorizzazioni all’affissione dei cartelli pubblicitari come
comprensive della fruizione del muro di cinta del campo
sportivo comunale.
Il TAR ha inoltre respinto la domanda riconvenzionale,
proposta dal Comune.
3.- Con il ricorso in appello in esame, il Comune di Ponte
San Pietro ha chiesto la riforma della sentenza del TAR,
deducendo i seguenti motivi: ...
...
9.1.- Osserva la Sezione che, al fine di accertare se con il
provvedimento impugnato il Comune abbia inteso esercitare
prerogative di natura privata o pubblica, va innanzi tutto
rilevato che l'art. 133, comma 1, lett. b), del c.p.a.,
nell'elencare le materie oggetto giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, sottrae alla sua cognizione
esclusivamente le controversie concernenti «indennità,
canoni ed altri corrispettivi» e quelle attribuite ai
Tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore
delle acque pubbliche; di conseguenza (posto che
appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le
controversie di natura meramente patrimoniale),
ogni
qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per
oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale
indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è
devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
Ciò posto, va osservato che la realizzazione o
l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è
consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti, da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione
titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o
installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare
tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro
normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto
dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene
pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura
pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 04.11.1994, n. 1257),
il «campo sportivo» di cui è
titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi
consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale
indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della
collettività locale);
- la regola della necessità del rilascio di una concessione
–perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato
dei luoghi– si applica pure quando si tratti della
collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non
è regolata soltanto alle disposizioni del codice della
strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del
1993), per effettuare la quale non è sufficiente la
presentazione della relativa domanda, dovendosi, al
riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione
un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con
atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con
conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente, anche l'esercizio del potere di ritiro
dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione
di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di
interesse legittimo (Cons. Stato, sez. V, 17.06.2015, n.
3066).
Non rileva invece esaminare quale sia l’ambito di
applicazione dell’art. 23, comma 11, del codice della
strada, che riguarda lo specifico caso di opposizione alla
sanzione amministrativa e alla conseguente misura della
rimozione di un impianto abusivo (e che non è suscettibile
di applicazione analogica, risultando una norma eccezionale,
di deroga al principio attualmente sancito dall’art. 7 del
codice del processo amministrativo, per il quale i
provvedimenti espressione di un potere pubblicistico sono
impugnabili innanzi al giudice amministrativo).
Nel caso di specie con l’atto impugnato il Comune ha
comunicato alla società appellata che intendeva ritornare in
possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e
dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata
autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto,
ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la
restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli
impianti», entro un fissato termine, perché non risultava
alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della
società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto
di «comodato»: un tale contratto non può essere
giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene
pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il
rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale,
peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la
concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e
purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una
norma giuridica e sussistano i relativi presupposti,
dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui
l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per
l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie, la richiesta di restituzione dell’area
occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la
rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi
la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di
rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa,
risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del
Comune, sicché va rilevata la sussistenza della
giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi
dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente
alla gestione del bene pubblico.
Va respinto dunque il primo motivo d’appello.
10.- Con il secondo motivo di gravame, il Comune ha
lamentato l’erroneità della sentenza appellata, nella parte
in cui essa ha argomentato nel senso che le autorizzazioni a
suo tempo rilasciate erano titoli idonei ad escludere la
natura abusiva delle affissioni, come risulterebbe anche dal
fatto che non è stato chiesto alcun corrispettivo per l’uso
del muro di cinta del campo sportivo, per il periodo
dall’anno 1982 all’anno 2002.
Ad avviso dell’appellante, il TAR avrebbe sovrapposto due
piani da tenere invece distinti (cioè il profilo delle
autorizzazioni amministrativa all’esposizione e alla
diffusione di messaggi pubblicitari e quello della fruizione
di aree e di immobili di proprietà pubblica, ma non
destinati all’utilizzazione pubblica generalizzata) e non
avrebbe tenuto conto dei principi riguardanti la necessità
della forma scritta ad substantiam, quando si tratti di
contratti con le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, è dedotto che:
- l’area in questione, in quanto appartenente al patrimonio
disponibile e quindi fruttifero, non sarebbe stata soggetta
a concessione di suolo pubblico, dovendosi invece ritenere
necessaria la stipula di un contratto, la cui mancanza
evidenzierebbe la natura abusiva delle installazioni
effettuate;
- contrariamente a quanto affermato dal TAR, il Comune
non ha mai ‘autorizzato’ per facta concludentia
la installazione;
- l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità (ai
sensi del d.lgs. n. 507 del 1993) non rileva quale titolo
per l’occupazione degli spazi in questione, risultando anche
dovuta la tassa per l’occupazione di spazi e di aree
pubbliche ovvero dei canoni di locazione o di concessione
(ex art. 13, u.c., del medesimo d.lgs.), come previsto anche
dall’art. 18 del Regolamento comunale per la pubblicità;
- il Comune fondatamente ha preteso il pagamento del
corrispettivo per l’uso di fatto del bene.
10.1.- Ritiene la Sezione che il motivo è fondato, per la
parte in cui ha dedotto l’infondatezza delle censure
formulate in primo grado, avverso il provvedimento di
autotutela.
Vanno previamente respinte le deduzioni con cui il Comune ha
dedotto che per l’utilizzo del bene in questione sarebbe
stata necessaria la stipula di un contratto: come si è sopra
rilevato in sede di reiezione della deduzione per cui non
sussisterebbe la giurisdizione amministrativa,
il
provvedimento a suo tempo emesso va qualificato come
concessione (di utilizzo) di un bene pubblico.
Quanto alla deduzione sulla spettanza di un corrispettivo
per l’uso del bene, il collegio ritiene che, alle
considerazioni sopra riportate, vadano aggiunte quelle dopo
esposte in occasione dell’esame della domanda
riconvenzionale, formulata dal Comune innanzi al TAR.
Risulta invece fondata la deduzione del Comune, secondo cui
l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità dovrebbe
far considerare insussistente il presupposto (l’occupazione
senza titolo) che ha condotto all’emanazione dell’atto
impugnato in primo grado.
L'art. 3, comma 149, lettera g), della legge n. 662 del 1996
ha attribuito ai Comuni la «facoltà, con regolamento, di
escludere l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità», di
cui al d.lgs. n. 507 del 1993, e «di individuare le
iniziative pubblicitarie che incidono sull'arredo urbano o
sull'ambiente prevedendo per le stesse un regime autorizzatorio e l'assoggettamento al pagamento di una
tariffa», nonché la «possibilità di prevedere, con lo stesso
regolamento, divieti, limitazioni e agevolazioni e di
determinare la tariffa secondo criteri di ragionevolezza e
di gradualità, tenendo conto della popolazione residente,
della rilevanza dei flussi turistici presenti nel comune e
delle caratteristiche urbanistiche delle diverse zone del
territorio comunale».
L'art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 disciplina l'attività
regolamentare dei Comuni in materia di entrate proprie; il
seguente art. 54 abilita il Comune a fissare le tariffe e i
prezzi pubblici ai fini dell'approvazione del bilancio di
previsione e il successivo art. 62 (riproducendo in sostanza
la disposizione della l. n. 662 del 1996 sopra richiamata)
affida ai Comuni il compito di disciplinare con proprio
regolamento il nuovo regime autorizzatorio in materia di
pubblicità con il pagamento di un canone in base a tariffa,
facendo riferimento -per quel che riguarda la
«individuazione della tipologia dei mezzi di effettuazione
della pubblicità esterna che incidono sull'arredo urbano o
sull'ambiente»- alle disposizioni del codice della strada
n. 285 del 1992 e del suo regolamento di attuazione (d.P.R.
n. 495 del 1992); nella stessa disposizione è previsto che
il regolamento debba disciplinare le «procedure per il
rilascio e per il rinnovo dell'autorizzazione», indicare le
«modalità di impiego dei mezzi pubblicitari», determinare la
tariffa con criteri di ragionevolezza e gradualità in
relazione agli indicati parametri, nonché che possa fissare
«con carattere di generalità divieti, limitazioni e
agevolazioni» (al comma 3); prevede infine (al comma 4) che
il Comune procede alla rimozione dei mezzi pubblicitari
privi di autorizzazione o installati in difformità da essa.
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446
del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne
pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha
previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla
superficie della minima figura piana geometrica in cui è
circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di
messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di
comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle
assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali
luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del
precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a
qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio
pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte
della società appellata non può quindi rilevare come titolo
per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui
erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la
società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n.
507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma
ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di
concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su
beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione,
l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude
infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed
aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o
di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art.
9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta
comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa
per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge
dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato,
che
individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel
mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione
dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità
e, quindi, all'uso generalizzato (Cassazione civile, sez.
trib., 27.07.2012, n. 13476).
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi
posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le
autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione
potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso
anche del muro di cinta.
E comunque il fatto che il Comune non abbia richiesto
preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro
suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le
anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione
del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale
interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a
percepire quanto spettante).
Deve in conclusione ritenersi la legittimità dell’ordine di
restituzione dell'area con contestuale rimozione degli
impianti.
10.2. Né, comunque, un titolo concessorio si sarebbe potuto
ritenere sussistente anche nel caso di effettivo pagamento
delle somme di cui il Comune lamenta la mancata
corresponsione, poiché il pagamento di tali importi non
sarebbe stato comunque equipollente al rilascio del
necessario provvedimento espresso, abilitativo dell’uso
dell’impianto.
10.3. Considerato che non sono state ritualmente riproposti
nel giudizio di appello, entro il termine per la
costituzione in giudizio, da parte della IGPDECAUX
Affissioni s.p.a., i motivi di ricorso di primo grado
dichiarati assorbiti dal primo giudice, nei limiti sopra
esposti l’appello va accolto e va conseguentemente respinto
il ricorso di primo grado introduttivo del giudizio, perché
infondato.
11.- Con il terzo motivo d’appello, il Comune ha riproposto
la domanda riconvenzionale respinta dal TAR, chiedendo,
ai sensi dell’art. 2041 del codice civile, la condanna della
società ad indennizzare il Comune della diminuzione
patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del
canone per l’affitto degli spazi in questione ed ammontante,
come risulta da una certificazione del responsabile del
Settore finanziario del Comune del 03.04.2003, a circa €
1.277 per l’occupazione dello spazio con un cartello
pubblicitario di dimensioni pari a mt. 6x3.
Tenuto conto che l’area in questione è stata occupata con
sei cartelli pubblicitari di tali dimensioni, ad avviso del
Comune il canone annuo da corrispondere all’Amministrazione
ammonterebbe ad € 7.662, da moltiplicare per il numero di
anni di occupazione abusiva, “allo stato” pari a 20, per una
somma complessiva di € 153.240,00, oltre i relativi
accessori.
Con una memoria depositata il 28.05.2015, il Comune ha
quantificato l’importo dovuto dalla società in € 229.860,00,
oltre a rivalutazione ed interessi a decorrere da ogni
annualità.
11.1.- Al riguardo la società appellata ha eccepito
l’inammissibilità della domanda formulata in primo grado,
tra l’altro, per difetto di giurisdizione, poiché le
controversie relative al pagamento dei canoni di concessione
di beni pubblici, come quelle inerenti alle pretese
creditorie dell’Amministrazione per occupazioni, anche senza
titolo, di beni pubblici, sono devolute alla giurisdizione
del giudice ordinario; ciò a nulla valendo la valenza
riconvenzionale della richiesta, sia perché, ex art. 36 del c.p.c., essa non comporterebbe deroga alla giurisdizione del
giudice adito e sia perché sarebbe precluso dal criterio di
riparto l’ottenimento in via riconvenzionale di una
pronuncia del giudice amministrativo preclusa in caso di
azione principale (a nulla valendo la pretesa del Comune di
qualificare il dedotto mancato pagamento in termini di
indebito arricchimento).
11.2.- Osserva in proposito il collegio che, ai sensi
dell'art. 133, comma 1, lett. c), del c.p.a., sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie in materia di pubblici servizi relative a
concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti
«indennità, canoni ed altri corrispettivi» (sull’ambito di
applicazione della medesima lettera c), cfr. Cons. di Stato,
sez. V, 22.01.2015, n. 247).
In generale le controversie concernenti indennità, canoni o
altri corrispettivi che rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario sono quelle con concernenti pretese di
carattere meramente patrimoniale, che derivano
dall'attuazione del rapporto instauratosi tra il privato e
la pubblica amministrazione e rispetto alle quali non è
stato esercitato un potere autoritativo a tutela di
interessi generali; va, invece, riconosciuta la sussistenza
della giurisdizione del giudice amministrativo quando la
controversia coinvolga l'esercizio di poteri discrezionali
previsti da una norma giuridica e inerenti alla
determinazione del canone, dell'indennità o di altro
corrispettivo, ovvero investa l'esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone che
incidono sull'economia dell'intero rapporto concessorio, e
non semplicemente la verificazione dei presupposti fattuali
dello stesso e la quantificazione delle somme.
Con particolare riguardo ai canoni comunali sulla
pubblicità, la Corte Costituzionale, con sentenza 21.01.2010 n. 18, ha ritenuto manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma
2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, come
modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lett. b), del d.l. n.
203 del 2005, convertito, con modificazioni, nella l. n. 248
del 2005 (censurato, in riferimento all'art. 102, comma 2,
ed alla VI disposizione transitoria della Costituzione,
nella parte in cui stabilisce che appartengono alla
giurisdizione tributaria le controversie attinenti il canone
comunale sulla pubblicità).
In tema di riparto di giurisdizione (a seguito della
sentenza n. 64 del 2008, con cui la Corte costituzionale ha
dichiarato l'incostituzionalità, per contrasto con gli art.
103 Cost. e VI disp. att. Cost., dell'art. 2, comma 2, del
d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall'art. 3-bis,
comma 1, lett. b, d.l. n. 203 del 2005, convertito nella l.
n. 248 del 2005) spettano alla giurisdizione del
giudice
ordinario non solo le controversie relative al canone per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche
quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che
l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di
spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari
(Cassazione civile sez. un. 16.04.2009 n. 8994).
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza
formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano
nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie
le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone
previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari,
dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che -come ritenuto
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 2009-
costituisce una mera variante dell'imposta comunale sulla
pubblicità di cui al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva,
quindi, la qualifica di tributo propria di quest'ultima,
mentre spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le
controversie relative al canone per la concessione di spazi
ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari
(Cassazione civile, sez. un., 07.05.2010, n. 11090).
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione
di delibere comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, va ritenuto che sulla
domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad
ottenere la condanna della società di cui trattasi ad
indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale
subita, consistente nel mancato introito del canone per
l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo
competente riguardo alla pretesa in esame il giudice
ordinario.
Resta conseguentemente assorbita l’eccezione formulata dalla
costituita società di irricevibilità della domanda in
questione.
12.- L’appello deve essere conclusivamente accolto in parte
e per l’effetto, in riforma della decisione sentenza del
TAR, va respinto il ricorso introduttivo del giudizio.
La domanda riconvenzionale riproposta in questa sede dal
Comune appellante deve essere dichiarata inammissibile per
difetto di giurisdizione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2015 n. 4857 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Niente Ici sul terreno edificabile coltivato.
Qualora un terreno edificabile sia posseduto da una società
agricola e condotto e coltivato dai soci, lo stesso non deve
essere assoggettato a Ici. Di più, qualora il terreno sia di
più comproprietari, non tutti aventi la qualifica di
agricoltore, il beneficio Ici si estende anche nei confronti
del non agricoltore, giacché la proprietà immobiliare è
comune e indivisa, nonché coltivata direttamente dagli altri
soggetti in possesso dei requisiti richiesti dalla norma. Da
ultimo, neppure il fatto che gli stessi proprietari abbiano
presentato al comune un progetto di lottizzazione può
pregiudicare l'agevolazione.
È quanto afferma la Ctr di Brescia nella sentenza
07.10.2015 n. 4358/67/15.
Il caso ha a oggetto una richiesta Ici per dei terreni
posseduti da una società agricola, costituita solo in parte
da agricoltori, comproprietari per i due terzi, i quali
risultano edificabili poiché classificati nella zona
C1,residenziale di espansione del Piano generale regolatore.
Il primo grado di giudizio si concludeva con la conferma
dell'accertamento.
L'adita Ctr di Brescia ha invece ribaltato l'esito del primo
giudizio, osservando che «in ogni caso non sono
considerati fabbricati i terreni posseduti e condotti dai
soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs n.
504 del 1992»; e vanno considerati terreni agricoli con
il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei confronti di
quei proprietari che non abbiano alcuna qualifica agricola
perché, essendo la proprietà immobiliare comune e indivisa e
nell'esclusivo possesso delle persone munite della qualifica
di coltivatore diretto, sussiste il requisito oggettivo per
il riconoscimento del trattamento Ici più favorevole anche
nei confronti degli altri comproprietari.
Il terreno di cui si discuteva, infatti, era condotto e
coltivato dalla società semplice i cui soci, per due terzi,
sono i medesimi proprietari dei terreni e, sugli stessi, la
società svolgeva attività di allevamento di bovini,
coltivazione di fondi agricoli.
Due soci, aggiunge, la Ctr, sono coltivatori diretti
iscritti nell'apposita gestione Inps, per cui, ai sensi
dell'art. 9 del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa
continuano a essere riconosciuti e si applicano i diritti e
le agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente
a favore delle persone fisiche in possesso delle predette
qualifiche.
Oltre all'accoglimento dell'appello, la Ctr ha anche
condannato il Comune al pagamento di significative spese di
giudizio.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
L'appello dei ricorrenti è fondato e va accolto.
Nel caso prospettato in cui i terreni posseduti da una
società agricola costituita solo in parte da agricoltori
comproprietari per i due terzi, risultano edificabili poiché
classificati nella zona C1, residenziale di espansione del
Piano generale regolatore vigente, la Corte di cassazione,
con la sentenza n. 15566 del 14/05/2010 depositata il
30/06/2010 ha stabilito che in ogni caso non sono
considerati «fabbricati» i terreni posseduti e
condotti dai soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9
del Dlgs n. 504 del 1992 e vanno considerati terreni
agricoli con il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei
confronti di quei proprietari senza alcuna qualifica
agricola perché, essendo la proprietà immobiliare comune e
indivisa e nell'esclusivo possesso delle persone munite
della qualifica di coltivatore diretto, sussiste il
requisito oggettivo per il riconoscimento del trattamento
Ici più favorevole anche nei confronti degli altri
comproprietari.
Poiché nella fattispecie il terreno oggetto di imposizione è
condotto e coltivato dalla società semplice i cui soci, per
due terzi, sono i medesimi proprietari dei terreni e la
società vi svolge l'attività di allevamento di bovini da
latte, coltivazione di fondi agricoli e due soci sono
coltivatori diretti iscritti nell'apposita gestione Inps,
tutti fatti non contestati dal Comune, ai sensi dell'art. 9
del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa continuano a
essere riconosciuti e si applicano i diritti e le
agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente a
favore delle persone fisiche in possesso i delle predette
qualifiche, da cui discende l'illegittimità degli atti
emessi dal Comune.
D'altra parte il Comune si è limitato a chiedere l'imposta
sulla sola presunzione della suscettibilità edificatoria dei
terreni sui quali gli stessi proprietari hanno presentato un
piano di lottizzazione, ma non ha provato il mancato
utilizzo ai fini agricoli di tali aree.
Per le motivazioni suesposte e ogni altra eccezione
disattesa restando assorbita da quanto prefato, l'appello
deve essere accolto e, alla soccombenza, deve seguire la
condanna al pagamento delle spese di giustizia che vengono
liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Commissione tributaria regionale di Milano, sezione
staccata di Brescia, sezione 67,definitivamente
pronunciando, così decide:
- in accoglimento dell'appello riforma la sentenza di primo
grado e annulla l'atto impugnato; le spese di giudizio
quantificate in euro 1.500,00 (millecinquento/00) seguono la
soccombenza
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016). |
PATRIMONIO - TRIBUTI:
Regolamento per la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio per
l'applicazione dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica
di favorire la partecipazione della comunità locale nella
valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni
di affidare a cittadini singoli o associati determinati
interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici
pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
In caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle
associazioni, la riduzione fiscale sembra poter essere
sostituita da contributi monetari qualora questi siano
corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli
associati partecipanti all'intervento, per il tributo
specifico individuato, in relazione alla tipologia delle
attività svolte.
L'Amministratore locale chiede un parere in ordine alla
legittimità di una norma contenuta nel Regolamento comunale
concernente la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio
(cosiddetto servizio di volontariato civico), per
l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014. Nello
specifico, il quesito posto riguarda la legittimità o meno
della previsione nel Regolamento di un contributo economico
alle Associazioni di volontariato in una misura percentuale
dei tributi comunali pagati dagli associati che partecipano
al servizio.
In via preliminare, si precisa che non compete a questo
Servizio la valutazione di legittimità dei contenuti degli
atti normativi emanati dai Comuni, in base alla loro
autonomia costituzionalmente riconosciuta. Il fine della
consulenza è di fornire un supporto giuridico agli enti
locali sulle questioni prospettate, affinché gli stessi
possano assumere le determinazioni più opportune nei casi
concreti, in relazione alle peculiarità che presentano.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione
della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n.
133/2014 [1],
'i comuni possono definire con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi
su progetti presentati da cittadini singoli o associati,
purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In
relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni
possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti
al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa
per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e
per attività individuate dai comuni, in ragione
dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere.
Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di
cittadini costituite in forme associative stabili e
giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei
cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del
territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4,
della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali
favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale.
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai
comuni di affidare a cittadini singoli o associati
determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata
zona del territorio urbano o extraurbano.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
consente ai Comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
Al fine di chiarire le modalità applicative dell'art. 24, si
ritiene utile riportare quanto affermato dal Comitato per lo
sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare,
secondo cui «l'impressione è che la norma non autorizzi
affatto gli enti locali, in modo indiscriminato, a disporre
la riduzione o l'esonero. Ma esiga, piuttosto, un preciso
rapporto di connessione 'fra attività posta in essere' e
tributo interessato» [2].
Ciò comporta che, in caso di riconoscimento degli incentivi
fiscali alle associazioni (come nel caso di specie), la
riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da
contributi monetari qualora questi siano corrispondenti
all'importo delle riduzioni spettanti agli associati
partecipanti all'intervento, per il tributo specifico
individuato, in relazione alla tipologia delle attività. In
tal modo, infatti, appare realizzata l'agevolazione fiscale
prevista dall'art. 24 in commento, come riduzione (o
esenzione) di tributi 'inerenti al tipo di attività posta
in essere'.
Si ritiene pertanto che il riconoscimento di contributi alle
Associazioni in misura percentuale dell'importo di un
determinato tributo versato complessivamente dai
partecipanti al progetto, richieda, ai sensi dell'art. 24,
D.L. n. 133/2014, una connessione tra detto tributo e la
tipologia di attività svolta dall'Associazione
[3].
---------------
[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Cfr. Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, Comitato per lo sviluppo del verde
pubblico, Deliberazione n. 5 del 23.02.2015.
[3] Specificamente, in via esemplificativa, sembra potersi
ravvisare una connessione tra la TARI e gli interventi di
pulizia e manutenzione di aree ed edifici pubblici (01.10.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
luglio 2015 |
 |
TRIBUTI: Scuole
paritarie, per l’esenzione servono regole su misura.
Con due
sentenze (sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226) la Corte
di Cassazione -Sez. V civile- ha accolto il ricorso con cui il comune di
Livorno aveva chiesto il pagamento dell’Ici (anni 2004-2009)
a due scuole gestite da istituti religiosi privi dei
requisiti richiesti per l’esenzione.
La Cassazione conferma il principio per cui l’esenzione Ici
prevista dalla legge 504/1992 «è subordinata alla
compresenza di un requisito oggettivo» (lo svolgimento
esclusivo nell’immobile di attività meritorie tra le quali
l’insegnamento), «e di un requisito soggettivo, costituito
dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente
pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciali». Sul
requisito oggettivo, la Corte non ha ritenuto
sufficientemente dimostrato che l’attività didattica
dell’istituto religioso si svolgesse con modalità non
commerciali.
Le sentenze –che dispongono la ripetizione del giudizio di
merito e non determinano direttamente un nuovo e definitivo
esito– possono riflettersi sull’applicazione delle
agevolazioni Imu. Il regolamento ministeriale 200/2012,
infatti, per le scuole prevede che la non commercialità
dell’attività sia verificata tramite alcuni criteri
ordinamentali e uno di tipo economico: che sia svolta «a
titolo gratuito, o dietro versamento di corrispettivi di
importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione
del costo effettivo del servizio».
Le argomentazioni delle
sentenze non prendono in considerazione gli aspetti ordinamentali, mentre riguardo al criterio economico
ritengono il corrispettivo pagato dagli utenti «fatto
rivelatore dell’esercizio dell’attività svolta con modalità
commerciali», indipendentemente dalla sua entità.
La commercialità dell’attività sottoposta a valutazione,
insomma, va sempre riconosciuta quando c’è l’attitudine alla
remunerazione dei fattori produttivi, essendo giuridicamente
irrilevante lo scopo di lucro. Se questa impostazione è
definitiva, non c’è dubbio che quasi tutte le attività
scolastiche private, tanto più se svolte in regime
“paritario” rispetto al sistema dell’istruzione pubblica,
rientrino nei criteri di “commercialità”, che precludono
l’esenzione Ici e Imu.
Il mantenimento del regime di favore per paritarie dovrà
percorrere la strada della normativa speciale di settore,
che forse dovrebbe comprendere tutte le scuole private e non
solo quelle condotte da enti non commerciali, superando così
il regime “interpretativo” adottato con il
regolamento 200/2012. Potrebbe essere di supporto la legge
62/2001, che riconosce alle scuole paritarie “senza fini
di lucro” le agevolazioni fiscali previste nel decreto
460/1997 sulle Onlus.
Diverse esenzioni e riduzioni, che però non menzionano la
fiscalità immobiliare locale, lasciando ai Comuni la facoltà
di intervenire. La dichiarata volontà politica di assicurare
un trattamento fiscale di favore al settore scolastico
privato, però, non può minare la certezza delle basi
imponibili su cui i Comuni devono poter contare stabilmente,
magari attraverso compensazioni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2015). |
TRIBUTI: Scuole paritarie soggette all'Ici.
Lo dice la Corte di Cassazione.
Le scuole paritarie gestite da un ente ecclesiastico sono
soggette al pagamento dell'Ici se gli utenti pagano un
corrispettivo, nonostante le rette richieste siano modeste e
la gestione operi in perdita. L'attività didattica non si
può ritenere svolta in forma non commerciale, ancorché si
tratti di un ente religioso, poiché non è a titolo gratuito.
Per integrare il fine di lucro è sufficiente che con i
ricavi si tenda a perseguire il pareggio di bilancio.
È
l'importante principio affermato dalla Corte di Cassazione,
con la sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226, con le quali ha anche respinto l'istanza di
annullamento delle sanzioni tributarie irrogate dal comune
di Livorno.
Per i giudici di piazza Cavour, l'attività didattica
esercitata dall'ente religioso rientra tra quelle esenti, ma
non è svolta in forma non commerciale. In realtà, per la
scuola paritaria gli utenti «pagano un corrispettivo, che
erroneamente il giudice di merito ritiene irrilevante ai
fini Ici». «Altrettanto erroneamente il giudicante
attribuisce rilevanza al fatto che la gestione operi in
perdita». È da escludere, per la Cassazione, «che
l'esenzione spetti sempre laddove l'ente si proponga
finalità diverse dalla produzione di reddito». Manca il
«carattere imprenditoriale dell'attività nel caso in cui
essa sia svolta in modo del tutto gratuito». Mentre, «per
integrare il fine di lucro è sufficiente l'idoneità, almeno
tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di
bilancio».
La Cassazione, con le pronunce in esame, ha inoltre respinto
al mittente l'istanza di disapplicazione delle sanzioni,
poiché ha ritenuto che non ci sia alcuna incertezza
oggettiva sulla materia e che le nuove regole introdotte per
l'Imu sull'esenzione per gli enti non commerciali hanno
carattere innovativo e non interpretativo. Non a caso, con
la sentenza n. 4342/2015 ha già chiarito che le disposizioni
sull'Imu non sono applicabili anche all'Ici per l'esenzione
degli immobili posseduti dagli enti non commerciali.
L'evoluzione della norma che riconosce i benefici fiscali
per una parte dell'immobile, per esempio, non può avere
effetti retroattivi. L'esenzione Ici prevista dall'articolo
7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992 era
limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati
totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate
dalla norma (sanitarie, didattiche, ricettive, ricreative,
sportive e così via) in forma non commerciale.
Le esenzioni
per Imu e Tasi, invece, spettano se sugli immobili vengono
svolte le suddette attività con modalità non commerciali,
anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione
mista. L'agevolazione, però, è limitata alla parte nella
quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia
identificabile.
La porzione dell'immobile dotata di autonomia funzionale e
reddituale permanente deve essere iscritta in catasto, con
attribuzione della relativa rendita. Se non è possibile
accatastarla autonomamente, l'esenzione spetta in
proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile
che deve risultare da apposita dichiarazione dell'ente
interessato
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2015). |
TRIBUTI: Paritarie, rischio stangata La retta fa scattare l'Imu.
La cassazione: l'attività è commerciale.
Torna sulle scuole paritarie lo spettro dell'Ici. Nodo della
questione: l'attività didattica considerata attività
commerciale. Secondo la Corte di Cassazione l'immobile
posseduto da un ente religioso e destinato all'esercizio di
una scuola paritaria è potenzialmente soggetto all'Ici,
perché la gestione di un istituto paritario si configura
come un'attività commerciale. Ago della bilancia, secondo i
giudici, la retta che le famiglie versano alla scuola
paritaria.
La Corte di Cassazione -Sez. V civile-
con la
sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226 interviene sul caso di un
ente religioso proprietario dell'immobile adibito a scuola
paritaria che aveva impugnato gli avvisi di accertamento del
comune per il pagamento dell'Ici, chiedendo l'applicazione
dell'esenzione prevista dal decreto legislativo 504 del 1992
(art. 7).
Esaminando l'evoluzione legislativa sul tema, da
una parte l'ente sottolinea che l'art. 39 del decreto legge
223 del 2006 stabilisce l'esenzione dell'Ici per gli
immobili debiti ad attività che non hanno esclusiva natura
commerciale, dall'altra i giudici dichiarano che
quell'articolo non è conforme alla disciplina comunitaria
sul divieto di aiuti di Stato alle imprese. Sul caso
concreto, poi, la Suprema Corte osserva la potenziale
sussistenza di un'attività commerciale poiché gli utenti
della paritaria pagano una retta per frequentarla. E
respinge le obiezioni dell'ente riguardo la perdita nella
gestione, perché «è irrilevante dal punto di vista giuridico
lo scopo di lucro».
L'ente quindi dovrà pagare l'Ici ma,
sentenziano i giudici, senza sanzioni vista l'obiettiva
incertezza sull'applicazione delle legge. La sentenza è
importante anche per le interpretazioni delle disposizioni
sull'Imu. Secondo le istruzioni del Miur sulla compilazione
del modello Imu Enc il carattere non commerciale
dell'attività didattica si verifica nel momento in cui le
rette degli utenti coprono solo una parte di tutto il costo
del servizio.
Le stesse istruzioni però utilizzano come
parametro di riferimento il costo medio per studente
sostenuto dallo Stato per un alunno nelle proprie scuole,
fissato dal ministero dell'economia: 5.739,17 euro per uno
studente di scuole dell'infanzia, 6.634,12 nella primaria,
6.835,85 alle medie, 6.914,31 alla superiori.
Se il
corrispettivo della paritaria non supera questo costo medio
per alunno, l'immobile è esente dall'Imu per la parte della
struttura destinata all'attività didattica. Questo però è in
contrasto con la Cassazione
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2015). |
TRIBUTI:
Istituti scolastici religiosi, dovuta l'Ici. La
Cassazione dà ragione al Comune.
La suprema Corte ha accolto il ricorso di Livorno: primo
pronunciamento di questo tipo in Italia.
La Corte di Cassazione ha riconosciuto
la legittimità della richiesta dell’Ici avanzata nel 2010
dal Comune di Livorno agli istituti scolastici del
territorio gestiti da enti religiosi.
Con la
sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226, la suprema Corte,
Sez. V civile, ha di fatto ribaltato quanto stabilito nei
primi due gradi di giudizio, sentenziando che, poiché gli
utenti della scuola paritaria pagano un corrispettivo per la
frequenza, tale attività è di carattere commerciale, “senza
che a ciò osti la gestione in perdita”.
In proposito il giudice di legittimità ha precisato che, ai
fini in esame, è giuridicamente irrilevante lo scopo di
lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei
ricavi a perseguire il pareggio di bilancio.
E cioè, il conseguimento di ricavi è di per sé indice
sufficiente del carattere commerciale dell’attività svolta.
Si ricorda che il contenzioso che vede contrapposti il
Comune ed alcuni istituti scolastici paritari, è sorto nel
2010 a seguito della notifica da parte dell’ufficio Tributi
di avvisi di accertamento per omessa dichiarazione e omesso
pagamento dell’Ici, per gli anni dal 2004 al 2009.
In particolare gli importi relativi alle scuole “Santo
Spirito” ed “Immacolata” sono pari a €
422.178,00.
Si ricorda che anche la Commissione Provinciale Tributaria
di Livorno aveva stabilito che l'ICI fosse dovuta,
respingendo i ricorsi degli istituti.
A questo punto, a seguito delle sentenze, si provvederà a
notificare anche gli importi dovuti per le annualità 2010 e
2011, imponibili a fine Ici.
Come spiega l’ufficio Tributi, è da sottolineare che questo
genere di pronunciamento da parte della Corte di Cassazione
è il primo in Italia sul tema specifico.
Queste sentenze assumono, tra l’altro, rilievo ai fini
dell’interpretazione delle disposizioni in materia di Imu,
relativamente all’imposizione fiscale dall’anno 2012.
Grande soddisfazione perché si tratta del riconoscimento
dell’ottimo lavoro svolto dagli uffici comunali i quali, con
l’obiettivo di reperire risorse e lavorare per l’equità
fiscale, da anni hanno avviato una linea tesa al recupero
dell’elusione e dell’evasione fiscale.
La vicesindaco Stella Sorgente in proposito dichiara: “Abbiamo
fatto degli incontri con le scuole interessate e l’ufficio
tributi, nei quali era stata proposta un’ipotesi di
conciliazione fra Comune e Istituti che sarebbe stata
vantaggiosa per le scuole stesse, rispetto ad un’eventuale
sentenza favorevole per il Comune da parte della Cassazione.
Successivamente ci è stato comunicato dalle scuole stesse
che avrebbero invece preferito attendere l'esito del
giudizio in Cassazione.
L’Amministrazione comunale è stata ringraziata per il
sincero atteggiamento di apertura e dialogo dimostrato, ma
non è stata accettata la proposta fatta. Pertanto, adesso
che la Cassazione si è espressa con le due sentenze, le
scuole sono costrette a pagare l’intero importo, comprensivo
delle relative sanzioni.
Ci fa piacere che questa sia la prima sentenza a livello
nazionale che riguarda immobili di questa tipologia,
destinati ad uso scolastico, affinché sia fatta
definitivamente chiarezza sulla legittimità di tali
pagamenti tributari da parte degli enti religiosi”
(commento tratto da www.comune.livorno.it). |
giugno 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Cartelli di esercizi commerciali e di vendita immobiliare.
Imposta di pubblicità.
Ai fini dell'applicazione delle
esenzioni dall'imposta di pubblicità previste dall'art. 17,
D.Lgs. n. 507/1993, in particolare di quella di cui al comma
1-bis, riferita all'insegna di esercizio, il Ministero
dell'economia e delle finanze ha richiamato la definizione
di 'insegna di esercizio' formulata dal legislatore con il
comma 6 dell'art. 2-bis del D.L. n. 13/2002, secondo cui
l'insegna è la scritta di cui all'art. 47, D.P.R. n.
495/1992, che abbia la funzione di indicare al pubblico il
luogo di svolgimento dell'attività economica.
Al riguardo, il Ministero ha precisato che l'insegna, oltre
all'indicazione del nome del soggetto o della denominazione
dell'impresa che svolge l'attività, può evidenziare anche la
tipologia e la descrizione dell'attività esercitata, nonché
i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi
offerti.
Il Comune illustra le caratteristiche di cartelli di
esercizi commerciali, in relazione ai quali chiede se sia
dovuta l'imposta di pubblicità, o se si versi, invece, nelle
ipotesi di esenzione, in particolare per le insegne di
esercizio, previste dalla normativa vigente in materia, di
cui al D.Lgs. n. 507/1993 [1].
Il Comune, con riferimento ai cartelli di vendita
immobiliare, pone altresì la questione dell'esenzione o meno
dall'imposta, in relazione alle loro misure e al luogo di
posizionamento.
Risulta opportuno precisare, in via preliminare, che
l'attività di questo Servizio consiste nella
rappresentazione in generale del quadro giuridico, normativo
e giurisprudenziale, inerente alle tematiche poste, tenuto
altresì conto delle indicazioni contenute nelle circolari
degli organi amministrativi competenti, in modo da fornire
agli enti locali un supporto per la soluzione dei singoli
casi concreti.
L'art. 17 del D.Lgs. n. 507/1993 elenca le fattispecie
pubblicitarie che godono dell'esenzione dal tributo, in
particolare, al comma 1-bis -inserito dall'art. 10, comma 1,
lett. c), L. n. 448/2001 [2]-
prevede che l'imposta non è dovuta per le insegne di
esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o
servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge
l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva
fino a 5 metri quadrati.
Il Ministero dell'economia e delle finanze è più volte
intervenuto a fornire chiarimenti in ordine alle modalità di
applicazione dell'imposta di pubblicità. E così, nelle
circolari esplicative ha sottolineato che l'esenzione di cui
al comma 1-bis è applicabile ai soli mezzi pubblicitari che
possono definirsi 'insegne di esercizio'
[3] ed ha
richiamato, al riguardo, la definizione formulata dallo
stesso legislatore con il comma 6 dell'art. 2-bis del D.L.
n. 13/2002, secondo cui l'insegna è la scritta di cui
all'art. 47 del D.P.R. n. 495/1992, che abbia la funzione di
indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività
economica, vale a dire 'la scritta in caratteri
alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da
marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi
natura, installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può
essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta'
[4].
In base a tale definizione, l'insegna, oltre all'indicazione
del nome del soggetto o della denominazione dell'impresa che
svolge l'attività, può evidenziare anche la tipologia e la
descrizione dell'attività esercitata, nonché i marchi dei
prodotti commercializzati o dei servizi offerti
[5].
Non possono, invece, essere definite 'insegne di
esercizio' le scritte relative al marchio del prodotto
venduto nel caso in cui siano contenute in un distinto mezzo
pubblicitario, che viene, cioè, esposto in aggiunta ad
un'insegna di esercizio, poiché questa circostanza manifesta
chiaramente l'esclusivo intento di pubblicizzare i prodotti
in vendita. In quest'ultimo caso, risultano esenti dal
pagamento del tributo le insegne di esercizio la cui
superficie complessiva non superi il limite dimensionale di
5 metri quadrati, mentre vanno assoggettati a tassazione i
distinti mezzi pubblicitari che espongono esclusivamente il
marchio [6].
Il Ministero ha altresì fornito delle esemplificazioni delle
scritte apprezzabili come insegne di esercizio, tra le
altre:
- la generica indicazione della tipologia dell'esercizio
commerciale (ad esempio, con la semplice scritta "Bar" o
"Alimentari");
- la precisa individuazione dell'esercizio commerciale (ad
esempio: "Bar Bianchi" o "Alimentari Azzurri");
- la generica individuazione dell'esercizio commerciale
realizzata con l'indicazione del nominativo del titolare (ad
esempio, la semplice scritta 'da Giovanni');
- l'indicazione, precisa o generica, della tipologia
dell'esercizio commerciale accompagnata nel contesto dello
stesso mezzo pubblicitario, da simboli o marchi relativi a
prodotti in vendita (ad esempio: "Bar Alfa-Caffè Beta").
Le fattispecie esemplificative del Ministero sono
espressamente dettate per andare incontro alle numerose
richieste dei comuni su casi specifici, e dovrebbero dunque
già di per sé fornire agli enti locali gli strumenti per
applicare in modo corretto l'imposta di pubblicità nelle
diverse situazioni concrete in relazione alle loro
particolarità.
In via collaborativa si possono, comunque, formulare delle
considerazioni muovendo dagli esempi indicati dal Ministero.
E così sembra potersi osservare che nelle scritte
qualificabili come insegne sono contenuti il nome
dell'operatore economico, la mera tipologia dell'attività
esercitata (bar, alimentari), il marchio commercializzato
[7],
mentre non compaiono in alcuna delle fattispecie tipizzate
riferimenti a qualità dei prodotti [8].
Peraltro, appaiono consentite anche descrizioni
dell'attività esercitata [9].
Una tale lettura appare del resto coerente con il tenore
letterale del comma 1-bis dell'art. 17 del D.Lgs. n.
507/1993, che parla di insegne di esercizio che
'contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si
riferiscono', per cui ben rientrano nella definizione quegli
elementi, quali il nome, la tipologia e la descrizione
dell'attività esercitata, nonché i marchi dei prodotti
commercializzati o dei servizi offerti [10],
idonee ad indicare al pubblico il luogo di svolgimento
dell'attività commerciale o di produzione di beni o servizi
[11].
Per quanto concerne l'assoggettamento all'imposta di
pubblicità dei cartelli di compravendita immobiliare, ai
sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 507/1993, comma 1, lett. b),
sono esenti dall'imposta, tra gli altri, gli avvisi al
pubblico riguardanti la locazione o la compravendita degli
immobili sui quali sono affissi, di superficie non superiore
ad un quarto di metro quadrato.
Al riguardo, il Comune chiede se il limite dimensionale
indicato dalla norma (un quarto di metro quadrato) sia da
intendersi riferito alla superficie complessiva dei cartelli
di compravendita (o locazione) apposti, nel senso di
ritenersi superato dalla somma degli stessi, e se detti
cartelli possano essere affissi anche sulle pertinenze
dell'immobile o nelle parti comuni del condominio.
Per quanto concerne le dimensioni dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare da rispettare per
beneficiare dell'esenzione dall'imposta di pubblicità, si
osserva che la formulazione testuale della previsione
normativa in commento, per questa specifica tipologia di
cartelli, non precisa 'superficie complessiva'. Ed
invero, laddove il legislatore ha voluto esprimersi in tal
senso, lo ha esplicitamente fatto al comma 1-bis dell'art.
17, D.Lgs. n. 507/1993, relativamente alle insegne di
attività commerciali e di produzione di beni o di servizi,
esenti dall'imposta se volte a contraddistinguere la sede
ove si svolge l'attività cui si riferiscono e se, appunto,
di 'superficie complessiva fino a 5 metri quadrati'.
Il Comune osserva che con riferimento agli avvisi al
pubblico di cui all'art. 17, comma 1, lett. b), D.Lgs. n.
507/1993, richiamato, esposti nelle vetrine o nelle porte di
ingresso dei locali, il Ministero dell'economia e delle
finanze [12]
ha riferito il relativo limite dimensionale inferiore a
mezzo metro quadrato alla superficie complessiva di detti
avvisi e chiede se sia possibile estendere queste
considerazioni, per analogia, a tutte le fattispecie della
lett. b), ivi inclusi i cartelli immobiliari.
Al riguardo, posto che per giurisprudenza costante
[13] 'le
norme che concedono esenzioni fiscali, avendo carattere
eccezionale, sono insuscettibili di interpretazione
analogica', si segnala che la Corte di Cassazione
[14] ha
invece affermato che per gli avvisi al pubblico di cui
all'art. 17, comma 1, lett. b), richiamato, l'esenzione
opera purché essi non superino, ciascuno individualmente, la
superficie di mezzo metro quadrato.
Pertanto, stante il tenore letterale della disciplina
normativa dell'esenzione dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare, che parimenti non
specifica il limite dimensionale come riferito alla
superficie complessiva, e tenuto conto di quanto affermato
di recente dalla Corte di Cassazione in ordine al rispetto
di detto limite per ciascun cartello singolarmente, si
ritiene opportuno suggerire all'Ente di chiedere un
chiarimento ai competenti organi statali specificamente per
i cartelli di compravendita/locazione immobiliare.
Allo stesso modo, si ritiene che l'interpretazione
dell'indicazione normativa dell'affissione dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare 'sull'immobile',
in particolare se la stessa vada intesa come comprensiva
anche delle pertinenze, debba provenire dai competenti
organi statali. Infatti, posta la giurisprudenza restrittiva
richiamata in ordine all'interpretazione analogica delle
norme di esenzione fiscale, si osserva che un'espressa
indicazione anche delle pertinenze è prevista dal
legislatore unicamente con specifico riferimento
all'esenzione per le insegne di esercizio (art. 1, comma
1-bis, D.Lgs. n. 507/1993), quali installate nella sede
dell'attività a cui si riferiscono o nelle pertinenze
accessorie alla stessa (art. 47, D.P.R. n. 445/1992,
richiamato) [15].
---------------
[1] D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, recante: 'Revisione ed
armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del
diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle
province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti
urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n. 421,
concernente il riordino della finanza territoriale'.
[2] L. 28.12.2001, n. 448 (Legge Finanziaria 2002).
[3] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
08.02.2002, n. 1.
[4] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
03.05.2002 n. 3; circolare 19.03.2007, n. 11159.
[5] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
19.03.2007, n. 11159; nello stesso senso, Ministero
dell'economia e delle finanze, circolare 03.05.2002 n. 3.
[6] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n.
11159/2007, cit.. Nello stesso senso, Ministero
dell'economia e delle finanze, circolare n. 3/2002, ove si
precisa, peraltro, che la presenza, nell'ambito dello stesso
mezzo pubblicitario, delle indicazioni relative al marchio
del prodotto venduto, non fa in alcun modo venire meno la
natura di insegna di esercizio; ciò del resto trova espressa
legittimazione nella stessa nozione contenuta nel citato
art. 47 del DPR n. 495 del 1992, che stabilisce, appunto,
che la scritta distintiva della sede di svolgimento
dell'attività economica può essere 'completata eventualmente
da simboli o da marchi'.
[7] Fermo restando, come chiarito sopra, che l'aggiunta di
uno o più cartelli distinti raffiguranti esclusivamente il
marchio comporta, invece, l'applicazione dell'imposta di
pubblicità su detti cartelli.
[8] E così sembrano non poter beneficiare dell'esenzione
quei cartelli ove si esaltano le qualità e i benefici dei
prodotti venduti al fine di migliorarne l'immagine con
indicazioni ulteriori rispetto a quelle identificative
dell'attività economica esercitata.
[9] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n.
11159/2007, cit..
[10] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
11159/2007, cit..
[11] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
3/2002, cit..
[12] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
11159/2007, cit..
[13] Cass. civ., sez. un., 25.05.2009, n. 11986; Cass. civ.,
sez. I, 09.08.1990, n. 8111.
[14] Cass. civ., sez. VI, 16.10.2014, n. 21966.
[15] Cfr. Cass. civ., sez. V, 30.10.2009, n. 23021; Cass.
civ., sez. V, 06.12.2011, n. 26174 (25.06.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
aprile 2015 |
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TRIBUTI: Niente rimborsi Tia con la Tari. I minori incassi con la
Tariffa diventano perdite definitive.
La Corte conti Toscana sancisce l'autonomia della Tassa
rifiuti rispetto al precedente sistema.
La Tassa sui rifiuti (Tari) non può essere usata per
rimborsare i crediti Tia non riscossi dalle precedenti
gestioni. I minori incassi derivanti dalla mancata
riscossione dei crediti maturati sotto il previgente regime
si traducono in perdite definitive a carico del soggetto
gestore.
Questa la posizione della Corte dei conti Toscana, Sez.
controllo,
espressa nel recente
parere
28.04.2015 n. 73 a seguito di richiesta
specifica da parte di un ente locale.
La Corte, pur affermando un principio del tutto
condivisibile (quello dell'autonomia del regime Tari
rispetto al previgente regime Tia), sembra tuttavia giungere
a conclusioni non pienamente convincenti e che rischiano in
realtà di mettere in crisi il fondamentale principio del
recupero totale dei costi del servizio (full cost recovery),
che peraltro la stessa Corte riconosce e afferma nel
medesimo parere. Vediamo meglio.
La vicenda specifica
La questione nasce da una richiesta di un comune della
provincia di Pistoia di poter considerare quali «costi
comuni diversi», nel piano finanziario Tari, ai fini della
determinazione della relativa tariffa, tra l'atro, i «costi
per crediti Tia-1 inesigibili», di cui sia stata accertata
la perdita, per la parte non coperta da fondo rischi o
garanzia assicurativa, temporalmente collocati nel periodo
compreso tra il 2002 e il 2012.
La richiesta si fonda in particolare sul presupposto
implicito che la tariffa debba assicurare il recupero totale
dei costi del servizio. Tale principio, noto come «full cost
recovery» costituisce dichiarata attuazione della direttiva
comunitaria 91/156/Cee, ed è stato introdotto dall'art. 49,
4° comma, dlgs 05.02.1997, n. 22, con riferimento alla
Tia-1, ed è oggi ribadito, con riferimento alla Tari,
dall'art. 1, comma 654, legge 27.12.2013, n. 147.
Lo stesso principio è recepito dal metodo normalizzato per
definire le componenti di costo da coprire con il gettito
della tariffa e i criteri di determinazione della tariffa di
riferimento relativa alla gestione dei rifiuti urbani (dpr
27.04.1999, n. 158), che correttamente include tra le
componenti di costo sia gli accantonamenti a fondo rischi
che le svalutazioni dei crediti non più esigibili.
La posizione della Corte
Nell'esaminare la questione posta alla sua attenzione la
Corte non nega il principio del full cost recovery. Al
contrario fa proprio tale principio, limitandosi
esclusivamente a precisare che esso deve essere applicato
nell'ambito di ciascun regime, senza possibilità di
sovrapposizione alcuna.
In altre parole, secondo la Corte ciascuna tariffa, «deve
essere costruita in modo da bastare a sé stessa, e non
nascere già gravata da oneri pregressi (relativi a crediti
non incassati, originati da tributi risalenti e ormai
soppressi), che avrebbero dovuto trovare idonea copertura
nel quadro dei rispettivi regimi normativi, attraverso
adeguati accantonamenti o maggiori previsioni di entrata».
È per questo motivo che nella costruzione del piano
tariffario relativo alla Tari, secondo la Corte non possono
essere inseriti elementi di costo relativi al previgente
regime di Tia. In effetti, consentire ora per allora al
Comune di considerare, ai fini della quantificazione della
tariffa, i mancati ricavi relativi ad altro tributo, non
incassati dal precedente gestore, comporterebbe il
trasferimento sull'utenza attuale di perdite, che avrebbero
dovuto gravare su una platea almeno in parte diversa di
soggetti.
Fin qui il ragionamento operato dalla Corte appare
assolutamente condivisibile, soprattutto alla luce della
diversa natura giuridica della Tari, rispetto alla Tia che
incide naturalmente anche sulla definizione dei presupposti
impositivi.
Se dunque alla luce delle ragioni sopra indicate è
condivisibile separare le vicende della Tia da quelle della
Tari, lascia invece perplessi la conclusione che sembra
raggiungere la Corte secondo la quale, nel caso in cui tali
modalità di copertura siano risultate insufficienti (e
dunque per la parte dei mancati ricavi non coperta da fondi
rischi o da maggiori entrate), «i minori incassi derivanti
dalla mancata riscossione dei crediti maturati sotto il
previgente regime si traducono in perdite definitive a
carico del soggetto gestore (e cioè, nel caso di specie, la
società in house affidataria del servizio)».
L'affermazione di tale principio, se non adeguatamente
specificato, rischia di apparire in evidente contraddizione
con il riconosciuto principio del full cost recovery. In tal
caso infatti, la società di gestione si troverebbe a vedere
non coperti una parte anche significativa dei costi di
gestione, non certo per propria responsabilità, ma solo per
la non corretta costruzione del sistema tariffario
previgente. Più propriamente, l'impossibilità di coprire i
mancati incassi dei crediti attraverso il sistema Tari
dovrebbe essere posta a carico dei soggetti regolatori (enti
locali e/o autorità) che hanno omesso di applicare il
principio del full cost recovery nella determinazione della
tariffa di riferimento.
Si può tuttavia ritenere che tale ambiguità nella posizione
della Corte sia dovuta al fatto che la società di gestione
in oggetto era una società in house e perciò non facilmente
distinguibile dal soggetto regolatore. Per cui, nel caso di
specie non vi era concretamente un interesse di un soggetto
realmente terzo rispetto al titolare della potestà
regolatoria.
Conseguentemente, ci si può ragionevolmente attendere che in
una diversa fattispecie e di fronte a una concessione di
servizi, possa essere affermato il principio che pare
certamente più adeguato secondo il quale i mancati ricavi
relativi ad altro tributo, non incassati dal precedente
gestore, vanno coperti a carico del bilancio generale del
soggetto che ha concretamente omesso di applicare il
corretto principio del recupero integrale dei costi del
servizio
(articolo ItaliaOggi dell'08.05.2015). |
gennaio 2015 |
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TRIBUTI:
Tares sul garage anche se non lo si usa.
Il contribuente paga la Tares sul garage anche se non lo
utilizza. Il prelievo fiscale scatta per il solo fatto che
il comune mette a disposizione il servizio.
Lo ha sancito la
Corte di Cassazione che, con
sentenza
07.01.2015 n. 33, ha accolto
il ricorso del comune di Catania. Insomma, per la VI Sez. civile - T la difesa del contribuente che puntava
sul mancato utilizzo del garage non ha come conseguenza una
riduzione o addirittura l'esenzione dall'imposta.
Gli
Ermellini hanno spiegato che in virtù degli artt. 62 e 64
del dlgs 507/1993, la tassa è dovuta indipendentemente dal
fatto che l'utente utilizzi il servizio, salva
l'autorizzazione dell'ente impositore allo smaltimento dei
rifiuti secondo altre modalità, purché il servizio sia
istituito, e sussista la possibilità della utilizzazione, ma
ciò non significa che, per ogni esercizio di imposizione
annuale, la tassa è dovuta solo se il servizio sia stato
esercitato dall'ente impositore in modo regolare, così da
consentire al singolo utente di usufruirne pienamente.
Infatti, il presupposto impositivo è costituito dal solo
fatto oggettivo dell'occupazione o della destinazione del
locale, a qualsiasi uso adibiti, e prescinde, quindi, del
tutto dal titolo in base al quale gli immobili sono occupati
o detenuti
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2015). |
dicembre 2014 |
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TRIBUTI: Tassa
rifiuti per il garage.
Domanda
La tassa rifiuti per un garage, anche se non produce
rifiuti, è sempre e comunque dovuta?
Risposta
No, tuttavia è onere del contribuente indicare nella
denuncia relativa al tributo (quella originaria o quella di
variazione) e fornire la prova (in base ad elementi
obiettivamente rilevabili dall'ente impositore o con altra
idonea documentazione) che il garage in questione non può
produrre rifiuti (e, quindi, non può essere assoggettato
alla tassa) per sua natura o per il particolare uso cui è
stabilmente destinato o perché si trova in condizioni di
obiettiva inutilizzabilità.
Solo in tal modo può essere
vinta la presunzione legale relativa di produzione di
rifiuti da parte dei locali posseduti o detenuti. In questo
senso si è espressa la recente ordinanza 23505/14 della
Cassazione, che ha anche sottolineato come tale
dimostrazione non sia suscettibile di essere «ritenuta in
modo presunto dal giudice», bensì dimostrata da parte del
contribuente.
Tale ordinanza fa seguito ad altre analoghe recenti pronunce
della Cassazione, tra le quali l'ordinanza 8245/2014 e le
sentenze 11351/2012 e 17703/2004
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014). |
novembre 2014 |
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TRIBUTI:
Tasi sui fabbricati demoliti.
Domanda
I fabbricati che
sono stati demoliti o che sono oggetto di restauro e
risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia o
ancora di ristrutturazione urbanistica come devono essere
considerati ai fini del Tributo sui servizi indivisibili (Tasi)?
Risposta
Come è noto, la
legge del 27.12.2013, numero 147, detta legge di
stabilità per l'anno 2014, composta di un solo articolo, al
comma 639, ha introdotto, a partire dall'anno 2014, una
nuova imposta, detta imposta unica comunale (Iuc).
Il tributo, pur definito come «imposta unica», contiene al
suo interno la componente patrimoniale, data dall'Imposta
municipale propria (Imu), e la componente relativa ai
servizi.
La componente relativa ai servizi, a sua volta, si articola:
- nella Tasi, che è un tributo dovuto per i servizi
indivisibili resi dai comuni;
- nella Tari, che è un tributo dovuto per finanziare i costi
del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti.
Ora, ai fini della Tasi, i fabbricati, individuati dalla
legge numero 457 del 1978, che sono stati demoliti o che
sono oggetto di restauro e risanamento conservativo o di
ristrutturazione edilizia o ancora di ristrutturazione
urbanistica devono essere considerati come area edificabile.
E, al riguardo, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, del decreto legge numero 223, del 2006, convertito
con la legge numero 248, del 2006, «un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo
edificatorio in base allo strumento urbanistico generale
adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione
della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI: Tasi,
la quota del proprietario.
Domanda
Quale proprietario
del bene, sono tenuto al pagamento della quota del Tributo
sui servizi indivisibili (Tasi) non versato dall'occupante
un appartamento di mia proprietà?
Risposta
La Tasi (tassa sui servizi indivisibili) è un tributo
istituito per coprire le spese sostenute dai comuni
nell'espletamento di servizi necessari per la collettività,
quali: servizi di illuminazione pubblica, servizi per la
manutenzione delle strade, servizi per la cura del verde
pubblico, servizi per la pubblica sicurezza e la vigilanza,
nonché servizi per la protezione civile, servizi per le aree
cimiteriali ecc.
Essa è dovuta, come già si è avuto modo di dire, anche
dall'occupante del bene in una misura determinata dal comune
con proprio regolamento.
Pertanto, la Tasi, per lo stesso immobile, se posseduto da
un soggetto diverso dal titolare del diritto reale, è dovuta
da due soggetti distinti, ciascuno dei quali ha un'autonoma
obbligazione tributaria. Ne consegue che, se l'utilizzatore
dell'immobile non provvede al versamento della quota di sua
spettanza, il proprietario del bene non ha alcuna
responsabilità e il comune non potrà chiedergli il
versamento del tributo, omesso dal detentore del bene.
Se i detentori del bene sono più di uno, allora la
responsabilità per il pagamento della Tasi è solidale tra i
detentori, per cui il comune, in caso di inadempienza, si
può rivolgersi all'uno o all'altro dei coobbligati per la
riscossione del dovuto
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI: Esenzione
Imu collinare.
Domanda
Proprietario di un
terreno non edificabile, vorrei conferma che anche ai fini
Imu continua a valere, come mi è stato detto, l'esenzione
prevista per i terreni collinari e montani.
Risposta
La risposta è
affermativa, almeno in linea di principio. Infatti, l'art.
7, lett. h), del dlgs n. 504/1992 (che stabiliva l'esenzione ai
fini Ici) è richiamato dalla disciplina Imu (duplice
richiamo nell'articolo 9, 8° c. del dlgs n. 23/2011 e
nell'articolo 13, 13° c. del dl «Salva Italia» n. 201/2011),
ma alla condizione, peraltro già prevista in vigenza
dell'Ici, che i terreni in questione siano «agricoli» nel
senso stabilito dall'art. 2, lett. c) del dlgs n. 504/92: ciò
significa che i terreni in questione devono essere «adibiti
all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 del
codice civile» e pertanto alla coltivazione del fondo, alla
selvicoltura, all'allevamento di animali e attività
connesse.
Il semplice possesso di terreni in comuni (o parti di
comuni) ricadenti nell'ambito dell'art. 7 del dlgs n.504/92
non è quindi sufficiente a legittimare l'esenzione da Imu.
Ricordiamo che un elenco dei predetti comuni (o zone di
essi) «ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai
sensi dell'articolo 15 della L. n. 984/1977» è allegato alla
circolare del ministero delle finanze n. 9/1993.
Segnaliamo anche che l'art. 4, c. 5-bis del dl n. 16/2012,
introdotto nella recente conversione in legge (L. n.
44/2012), ha stabilito che «Con decreto di natura non
regolamentare del ministro dell'economia e delle finanze, di
concerto con il ministro delle politiche agricole alimentari
e forestali, possono essere individuati comuni nei quali si
applica l'esenzione di cui alla lettera h) del comma 1
dell'articolo 7 del dlgs n. 504/1992, sulla base della
altitudine riportata nell'elenco dei comuni italiani
predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat),
nonché, eventualmente, anche sulla base della redditività
dei terreni». Riservandosi tale facoltà, il ministro
dell'economia può pertanto emanare, in qualsiasi momento
(non è previsto alcun termine), un decreto che modifica
radicalmente l'elenco dei comuni (attualmente sono
moltissimi) nei quali l'esenzione opera.
Ricordiamo infine, per necessaria completezza, che, sempre
nella conversione in legge del dl n. 16/2012, nell'art. 4
sono state tra l'altro, da un lato, inserite norme
agevolative per la determinazione dell'Imu relativa ai
terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti
o da imprenditori agricoli professionali e per i fabbricati
rurali strumentali ubicati in comuni montani o parzialmente
montani, dall'altro ulteriormente elevato a 135 il
moltiplicatore generale da applicare al reddito dominicale
(da rivalutare del 25%, come già si faceva per l'Ici) dei
terreni agricoli e di quelli non coltivati; resta invece
confermato a 110 il moltiplicatore previsto «per i
terreni agricoli, nonché per quelli non coltivati, posseduti
e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori
agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI:
Imu e invenduto.
Domanda
Impresa di
costruzioni edili con un magazzino di immobili invenduti a
causa della crisi economica: è vero che spetta una specifica
agevolazione Imu? Quale e in quali termini?
Risposta
L'art. 13, c. 9-bis del dl «Salva Italia» n. 201/2011 prevede: «I comuni
possono ridurre l'aliquota di base fino allo 0,38% per i
fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice
alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non
siano in ogni caso locati, e comunque per un periodo non
superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori».
Questi i
termini e le condizioni dell'agevolazione che, tuttavia, per
poter in concreto operare, deve essere espressamente
deliberata dal Comune. In mancanza, resta applicabile a tali
immobili l'aliquota ordinaria. In ogni caso, ai fini
dell'acconto da versare entro il 18 giugno prossimo
occorrerà applicare l'aliquota ordinaria di legge (0,76%) e
verificare poi se il Comune avrà deliberato (lo può fare
entro il 30 settembre) di introdurre la predetta
agevolazione e/o di modificare le aliquote rispetto a quelle
di legge.
In sede di acconto (dovuto entro il 17 dicembre)
dovrà essere versata l'imposta a conguaglio per l'intero
anno, determinata con le aliquote definitive applicabili in
ogni singolo comune e, in mancanza, con quelle di legge,
scomputando l'importo già versato a titolo di acconto.
Si segnala che anche il governo si è riservato la facoltà di
modificare le aliquote e le detrazioni con uno o più
Provvedimenti da emanare entro il termine del 10.12.2012
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Impianti fotovoltaici.
Domanda
Lessi tempo addietro un qualcosa su come calcolare l'aumento
della rendita di un immobile a seguito dell'installazione di
un impianto fotovoltaico. Potete darmene gentilmente
nozione, dal momento che non ricordo più dove la lessi?
Risposta
Verosimilmente il cortese lettore si riferisce a un «question
time» in commissione finanze della Camera del 30/04/2014. In
quella sede il sottosegretario all'economia Zanetti ebbe a
precisare che, per quel che concerne gli incrementi delle
rendite degli immobili, la variazione della rendita deve
avvenire soltanto quando l'impianto fotovoltaico «integrato»
incrementa il valore capitale (o la redditività ordinaria)
del 15%, con ulteriori salvaguardie (potenza nominale
inferiore a 3 kwt per ogni unità, potenza nominale
complessiva non superiore a tre volte il numero delle unità
immobiliari e volume dell'impianto inferiore a 150 mc per le
installazioni a terra) in presenza delle quali non risulta
obbligatoria la dichiarazione di variazione in catasto (articolo ItaliaOggi Sette del
17.11.2014). |
ottobre 2014 |
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TRIBUTI: Sottotetti.
Domanda
La mia abitazione principale, oltre ad avere la cantina e il
sottotetto, ha un altro locale di deposito, di natura
pertinenziale. Per detto locale posso godere dell'esenzione
Imu, prima casa?
Risposta
Come si è avuto modo di scrivere, la legge numero 147, del
2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), puntualizzando
meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale
propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge
numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta
imposta non si applica al possesso dell'abitazione
principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7 (C/2..Magazzini e
locali di deposito; C/6...Stalle, scuderie, rimesse, autorimesse; C/7..Tettoie
chiuse o aperte), nella misura massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali
indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità
ad uso abitativo.
Pertanto, la presenza di un locale
indicato nella planimetria catastale dell'abitazione
principale come cantina o sottotetto viene ad eliminare la
possibilità che un'unità immobiliare autonoma, iscritta in
categoria C/2, possa assurgere al ruolo di pertinenza
dell'abitazione principale anche quando sussistono tutti gli
elementi per l'uso funzionale all'abitazione.
Peraltro, lo
stesso ministero dell'economia e delle finanze, con la
circolare numero 3/DF del 18.05.2012, emanata dopo
l'entrata in vigore dell'imposta municipale propria (Imu),
ebbe ad affrontare l'ipotesi di «due pertinenze, di solito
la soffitta e la cantina, accatastate unitamente all'unità
ad uso abitativo. In tale caso, in base alle norme
catastali, la rendita attribuita all'abitazione principale
ricomprende la redditività di tali porzioni immobiliari non
connesse. Pertanto, poiché dette pertinenze, se fossero
accatastate separatamente, sarebbero entrambe classificate
in categoria C/2, per rendere operante la disposizione in
esame, si ritiene che il contribuente possa usufruire delle
agevolazioni per l'abitazione principale solo per un'altra
pertinenza classificata in categoria C/6 o C/7».
Interpretazione questa che, anche se esplicitata prima
dell'entrata in vigore della citata legge numero 147, del
2013 (legge di Stabilità per l'anno 2014), ha valenza (si
ritiene) anche dopo l'entrata in vigore di quest'ultima
legge.
È naturale che per detti spazi (soffitta, cantina),
integrati nell'abitazione principale, deve sussistere la
possibilità di una loro potenziale iscrivibilità catastale
autonoma (articolo ItaliaOggi Sette del
27.10.2014). |
TRIBUTI:
Tassa smaltimento rifiuti urbani.
Domanda
Sono proprietario di un
garage auto che per la vetustà dell'edificio è
inutilizzabile. Sono tenuto al pagamento, per esso, della
tassa sui rifiuti solidi urbani, dato che in esso non viene
prodotto alcun rifiuto?
Risposta
Il presupposto impositivo
della tassa sui rifiuti solidi urbani, ai sensi
dell'articolo 62, comma primo, del decreto legislativo
numero 507, del 1993, (analogamente è disposto in ordine
alla Tares e alla Tari), è il possesso o la detenzione di
locali suscettibili di produrre rifiuti solidi urbani. Il
successivo comma due prevede alcuni casi per i quali la
tassa non è dovuta.
Essi sono individuati nel caso in cui i locali non possono
produrre rifiuti per la loro natura o per il particolare uso
a cui essi sono destinati stabilmente e nel caso in cui sono
i predetti locali sono in condizione di obiettiva
inutilizzabilità. Questo dato deve essere indicato
esplicitamente nella denuncia originaria o di variazione
presentata al Comune.
La Corte di cassazione, all'uopo interessata, con
l'ordinanza numero 12443, del 03.06.2014, ha affermato che
la predetta normativa pone una presunzione legale in ordine
alla produzione dei rifiuti a carico del contribuente.
Infatti, per i Supremi giudici, su di esso grava l'onere di
provare l'esistenza dei presupposti per potere usufruire
dell'esenzione, come per legge.
Pertanto, nel caso, se nella denuncia originaria o in quella
di variazione, presentata al Comune competente, non sono
state evidenziate le obiettive condizioni di
inutilizzabilità del garage, la tassa per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani è dovuta (articolo ItaliaOggi Sette
del 13.10.2014). |
TRIBUTI:
Pertinenze Imu.
Domanda
Ai fini dell'Imposta
municipale propria (Imu), esiste un criterio certo per
individuare le pertinenze dell'abitazione?
Risposta
La legge numero 147, del
2013 (legge di stabilità per l'anno 2014), puntualizzando
meglio la normativa che regolamenta l'Imposta municipale
propria (Imu), portata dall'articolo 13 del decreto legge
numero 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge numero 214, del 2011, ha affermato che la suddetta
imposta non si applica al possesso dell'abitazione
principale e delle pertinenze.
Ha aggiunto, poi, che per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6, C/7, nella misura
massima di una unità pertinenziale per ciascuna delle
categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto
unitamente all'unità ad uso abitativo. La Corte di
cassazione, con la sentenza del 30.11.2009, numero 25127,
ebbe ad affermare che, ai sensi dell'articolo 817, del
codice civile, son pertinenze le cose destinate in modo
durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa.
Quindi, ai fini dell'attribuzione della qualità di
pertinenza occorre basarsi, per i Supremi giudici, «sul
criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e
concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra,
secondo la relativa definizione contenuta nell'articolo 817
del codice civile».
In materia fiscale, aggiungono i predetti giudici, «attesa
la indisponibilità del rapporto tributario, la prova
dell'asservimento pertinenziale, che grava sul contribuente
(quando, come nella specie, ne derivi una tassazione
attenuata) deve essere valutato con maggiore rigore rispetto
alla prova richiesta nei rapporti di tipo privatistico.
Se la scelta pertinenziale non è giustificata da reali
esigenze (economiche, estetiche o di altro tipo), non può
avere valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che
impone la tassazione in ragione della reale natura del
cespite» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014. |
TRIBUTI: Appartamento
da sopraelevazione.
Domanda
Si chiede se, nel caso, di appartamento risultante da
sopraelevazione, il comune poteva assoggettare a imposizione
Ici l'area su cui si sviluppava la cubatura, in relazione
alla quale era stata conseguita la concessione edilizia per
l'appartamento al primo piano dato che non vi è altra area
fabbricabile se non quella su cui insiste l'appartamento a
suo tempo realizzato al piano terreno.
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza
dell'08.05.2013, numero 10735, alla luce anche della
precedente sentenza della stessa Corte del 23.10.2006,
numero 22808, ha affermato che, ai fini dell'Imposta
comunale sugli immobili (Ici), la nozione di fabbricato, di
cui all'articolo 2, del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, rispetto all'area su cui esso insiste, è
unitaria nel senso che, una volta che l'area edificabile sia
comunque utilizzata, il valore della base imponibile, ai
fini dell'imposta, si trasferisce dall'area stessa
all'intera costruzione realizzata. Infatti, per i giudici,
la norma, per l'applicazione dell'imposta comunale sugli
immobili, sul fabbricato di nuova costruzione, individua due
soli criteri alternativi: la data di ultimazione dei lavori,
ovvero, se antecedente, quella di utilizzazione, senza alcun
riferimento alla divisione del fabbricato, in piani o
porzioni.
Pertanto, secondo la Suprema corte, richiamata la sua
precedente sentenza del 15.12.2004, numero 23347, per
la determinazione della base imponibile di un appartamento
in costruzione al primo piano dell'edificio, non trova
applicazione la normativa portata dall'articolo 5, comma 6,
del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, che
disciplina l'utilizzazione edificatoria dell'area,
individuando come base imponibile il valore dell'area
stessa, ma l'articolo 2, comma 1, lettera a), che, per
l'assoggettabilità a imposta del fabbricato di nuova
costruzione individua due criteri alternativi. Il primo
criterio è la data di ultimazione dei lavori di costruzione,
l'altro, se antecedente, quello di utilizzazione.
Ora, nel caso, di appartamento risultante da
sopraelevazione, non essendosi, per Giudici, realizzato
alcuno dei due presupposti, il comune non avrebbe dovuto
assoggettare a imposizione Ici l'area su cui si sviluppava
la cubatura, in relazione alla quale era stata conseguita la
concessione edilizia per l'appartamento al primo piano, non
essendovi altra area fabbricabile che quella su cui
insisteva l'appartamento a suo tempo realizzato al piano
terreno
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Variazione
della rendita catastale.
Domanda
Per i provvedimenti di variazione della rendita catastale di
unità immobiliare, emessi dall'Ufficio del territorio, su
richiesta del Comune, ai sensi dell'articolo 3, comma 58,
della legge 23.12.1996, numero 662, sussiste un
rigoroso obbligo di motivazione?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con l'ordinanza
del 03.02.2014, numero 2357, ha affermato, anche alla
luce di quanto deciso dalla stessa Corte con la sentenza
numero 9629, del 13.06.2012 e a modifica di precedente
orientamento della stessa Corte di cassazione, che,
l'Agenzia delle entrate, Ufficio del territorio, quando
procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classamento a
una unità immobiliare a destinazione ordinaria, deve
specificare se tale mutato classamento sia dovuto a
trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in
questione oppure a una risistemazione dei parametri relativi
alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare.
Nel primo caso, l'Agenzia delle entrate deve indicare le
trasformazioni edilizie intervenute. Nel secondo caso, il
predetto Ufficio deve indicare l'atto con cui si è
provveduto alla revisione dei parametri relativi alla
microzona, a seguito di significativi e concreti
miglioramenti del contesto urbano, rendendo così possibile
la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del
contribuente.
La Suprema corte, quindi, con la citata sentenza ha
riconfermato il proprio recente indirizzo circa la idonea
motivazione degli atti impugnati; motivazione non
integrabile dall'Ufficio, convenuto in giudizio, nel corso
del giudizio medesimo. Per i giudici, pertanto, non è più da
condividere la tesi, secondo la quale gli atti dell'Ufficio,
impugnati, debbano avere soltanto il requisito della
provocatio ad apponendum, necessaria per far
conoscere al contribuente gli elementi essenziali della
pretesa impositiva
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
TRIBUTI: Chi
paga Imu e Tasi.
Domanda
Vorrei sapere chi è tenuto al pagamento dell'Imu e della
Tasi in presenza della seguente fattispecie: firma di un
preliminare di vendita con immissione anticipata del
promissario acquirente nel possesso dell'immobile.
Risposta
Il pagamento dell'Imu sarà a totale carico del proprietario,
promittente venditore, dell'immobile. Per quel che concerne
la Tasi invece, la stessa sarà in parte a carico del
proprietario dell'immobile (promittente venditore) e in
parte dell'occupante lo stesso (promittente acquirente),
secondo le percentuali al riguardo fissate dall'apposita
delibera del Comune competente
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.10.2014). |
settembre 2014 |
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TRIBUTI: Riclassamento
con motivazione.
Domanda
Come deve essere corredato l'atto di rilassamento catastale
di un immobile affinché possa ritenersi legittimo?
Risposta
La giurisprudenza della Corte di cassazione in questi ultimi
anni ha chiarito in molte pronunce che anche gli atti
relativi al riclassamento catastale devono essere
compiutamente motivati al fine di delimitare l'ambito della
dialettica processuale e di porre il contribuente nella
condizione di potersi difendere. L'Amministrazione
finanziaria (in ciò sbagliando gravemente) molto spesso,
invece, non ottempera a tale basilare precetto.
Merita di
essere citata, tra le più recenti, la sentenza n. 16476 del
18.07.2014 nella quale la Suprema corte, confermando le
decisioni della Ctp di Napoli e della Ctr della Campania, ha
negato che l'onere della motivazione dell'atto di variazione
di classamento possa esaurirsi nell'enunciare i soli dati
della consistenza, categoria e classe acclarati
dall'Ufficio.
Questo il principio di diritto enunciato: «In tema di
revisione del classamento catastale di immobili urbani, la
motivazione non può, in conformità alla legge n. 662/1996
(art. 3, c. 58), limitarsi a contenere l'indicazione della
consistenza, categoria e classe attribuite dall'Agenzia, ma
deve specificare, ai sensi dello Statuto del contribuente
(legge 212/2000, art. 7, c. 1), a pena di nullità, a quale
presupposto (il non aggiornamento del classamento o la
palese incongruità rispetto a fabbricati similari) la
modifica debba essere associata e laddove si tratti della
constatata manifesta incongruenza tra il precedente
classamento dell'unità immobiliare e il classamento di
fabbricati similari aventi caratteristiche analoghe, l'atto
impositivo dovrà recare la specifica individuazione di tali
fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche
analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare
oggetto di riclassamento, così rispondendo alla funzione di
delimitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio
nella successiva fase contenziosa, nella quale il
contribuente, nell'esercizio del proprio diritto di difesa,
può chiedere la verifica dell'effettiva correttezza della
riclassificazione».
La sentenza ha anche precisato che «il
divieto dei motivi aggiunti, fuori dei ristretti casi
stabiliti dall'art. 24 del Dlgs n. 546/1992, è ragionevole
solo nel presupposto che all'Ufficio sia in corrispondenza
proibito di allegare i ridetti fatti in corso di processo.
Pertanto, l'avviso di classamento è nullo per difetto di
motivazione non solo quando manchi d'indicare gli immobili
serviti da comparazione, ma altresì quando non siano
indicate quali siano le caratteristiche analoghe degli
immobili comparati, ciò che è all'evidenza indispensabile a
mettere il contribuente in grado di contraddire il fatto
allegato a mezzo di specifico motivo (Cass. sez. trib. n.
21532 del 2013; Cass. sez. 6 n. 10489 del 2013)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.09.2014). |
TRIBUTI: Pertinenzialità
da dimostrare.
Domanda
Vorremmo sapere se
ai fini Imu/Ici è fondato l'assunto di pertinenzialità, e
quindi di non autonoma tassabilità, di un'area
urbanisticamente edificabile limitrofa a un fabbricato in
quanto utilizzata stabilmente come terreno per il deposito
di materiale. Il Comune pretende invece di tassarla in modo
autonomo come terreno edificabile.
Risposta
Del tema si è
occupata di recente la Ctr di Firenze (sent. n. 1067/13/14),
che, nel richiamare l'orientamento giurisprudenziale della
Cassazione, ha posto la prova della pertinenzialità a carico
del contribuente. Più in particolare, la sentenza ha
evidenziato la rilevanza della destinazione urbanistica
(ossia, la qualificazione del terreno come edificabile in
base agli strumenti urbanistici generali adottati) e la
prevalenza di tale criterio rispetto al concetto di
pertinenzialità di cui all'art. 817, 1° c., cod. civ. («Sono
pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o
ad ornamento di un'altra cosa. La destinazione può essere
effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi
ha un diritto reale sulla medesima»), essendo
irrilevante l'uso concreto che il proprietario fa dell'area
e quindi l'eventuale funzione pertinenziale svolta di fatto.
La sentenza ha così richiesto al contribuente di fornire la
prova di un effettivo e durevole asservimento pertinenziale,
non riconducibile a un mero collegamento occasionale, basato
su concreti elementi di fatto, prova rispetto alla quale
possono risultare d'ausilio anche le risultanze catastali.
Nello specifico, non è stato ritenuto sufficiente il
parziale e temporaneo utilizzo quale deposito di materiale,
reputato quale mera esigenza occasionale ovviabile facendo
ricorso a una diversa organizzazione gestionale
dell'attività produttiva, aprendosi diversamente l'accesso,
in modo strumentale, a comportamenti fiscali elusivi
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.09.2014). |
agosto 2014 |
 |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti e box auto.
Domanda
Posso pretendere di non pagare la tassa per la raccolta dei
rifiuti su un box auto chiuso in autorimessa condominiale in
quanto non produttivo di rifiuti?
Risposta
Di recente, chiamata a decidere circa l'applicabilità o meno
della tassa sulla raccolta dei rifiuti (Tarsu) a un box
auto, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso del
Comune (che nei primi due gradi di giudizio aveva avuto però
torto da parte delle Commissioni tributarie provinciale di
Catania e regionale della Sicilia) affermando che, a termini
di legge, il presupposto della Tarsu è l'occupazione o la
detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti
e che non sono soggetti alla tassa i soli locali e aree che
non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in condizioni di obiettiva inutilizzabilità,
qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia
originaria o in una denuncia presentata successivamente e
debitamente riscontrate in base a elementi obiettivi
direttamente rilevabili o idoneamente documentati
(Cassazione, sentenze n. 11351/2012 e 17703/2004).
La
Cassazione ha così concluso che la legge presume che locali
e aree, in linea generale, producano rifiuti (di regola e
per loro natura) e che se ciò non accade la prova deve
essere fornita dal contribuente, ma non può essere presunta
dal giudice
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.08.2014). |
maggio 2014 |
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TRIBUTI: Se c'è un'autorità d'ambito i comuni non possono approvare
le tariffe Tari.
I comuni non possono approvare da soli i piani finanziari e
le tariffe della tassa rifiuti (Tari) quando a tal fine è
stata costituita un'apposita autorità d'ambito o un'agenzia
a livello regionale. In caso di inerzia di quest'ultima,
l'unico modo per uscire dall'impasse è attivare il potere
sostitutivo nelle forme di legge.
Il chiarimento arriva dal
parere
08.05.2014 n. 125 della Sez.
regionale di controllo per l'Emilia Romagna della Corte dei
conti.
La questione riguarda l'art. 1, comma 683, dell'ultima legge
di stabilità (legge 147/2013): in base a tale disposizione,
il consiglio comunale deve approvare le tariffe della Tari
in conformità al piano finanziario del servizio di gestione
dei rifiuti urbani, redatto dal soggetto che svolge il
servizio stesso e approvato dal consiglio comunale o da
altra autorità competente a norma delle leggi vigenti in
materia.
In Emilia Romagna, a esempio, la legge regionale 23/2011 ha
istituito un'apposita agenzia territoriale per sovrintendere
ai servizi idrici e rifiuti. In casi come questo, la
competenza ad approvare il piano finanziario e le tariffe si
radica nell'ente sovracomunale e il consiglio comunale non
può sostituirsi a esso neppure quanto lo stesso rimane
inerte.
Per ovviare, precisano i magistrati contabili, è
necessario richiedere l'esercizio dei poteri sostitutivi
nelle modalità previste dalla normativa in materia di
mancato esercizio di funzioni da parte degli enti locali, ai
quali le predette agenzie sono riconducibili in quanto
consorzi obbligatori di enti locali. Nel caso di specie, ad
esempio, il potere sostitutivo è in capo alla regione, ai
sensi dell'art. 30 della citata legge regionale 23. Solo
laddove le autorità d'ambito non sono state (ancora)
istituite, i comuni potranno fare da sé.
Il parere si sofferma che sul contenuto dei piani
finanziari: nel caso in cui siano redatti da una autorità o
agenzia d'ambito, essi devono necessariamente considerare
anche i costi amministrativi dell'accertamento e riscossione
(i cosiddetti Carc), anche se questi siano sostenuti dal
comune. I piani, inoltre, devono comprendere anche i costi
di funzionamento del soggetto sovracomunale
(articolo ItaliaOggi del
30.05.2014). |
marzo 2014 |
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TRIBUTI:
M. Villani e I. Pansardi,
Nuovo orientamento della Cassazione sulla motivazione del
classamento (catastale) (04.03.2014 - link a
www.diritto.it). |
febbraio 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: La villa è «di lusso» se lo dice il Prg.
Conta la destinazione urbanistica dell'area come definita
prima della costruzione. Giustizia. La Corte di cassazione interviene sui requisiti
per l'ottenimento dei benefici fiscali sulla compravendita.
La prima casa
"di lusso" non può diventarlo dopo la costruzione. Se lo
strumento urbanistico, all'atto della costruzione
dell'edificio, non prevedeva che l'area fosse destinata a
"villa", l'edificio non può essere considerata di lusso.
Questo, in sostanza, il principio affermato dalla Corte di
Cassazione con la
ordinanza 11.02.2014 n. 3080.
La questione è arrivata in Cassazione dopo che l'agenzia
delle Entrate aveva perso in appello con il contribuente
sulla liquidazione delle maggiori imposte di registro,
chieste dopo aver accertato che l'abitazione, comprata nel
2005 con le agevolazioni fiscali per la prima casa, si
trovava in una zona che il piano regolatore aveva destinato
a villa o parco privato. Il contenzioso era iniziato nel
2008, con una sentenza 80/1/2008 della Commissione
tributaria provinciale di Livorno che aveva dato ragione al
contribuente ed era proseguito con la sentenza 59/10/11,
depositata il 21.04.2011, della Commissione tributaria
regionale della Toscana, che a sua volta aveva bocciato le
richieste dell'agenzia delle Entrate.
Ricordiamo che la differenza a carico del contribuente non è
di poco conto: si tratta di versare la differenza tra un
importo pagato, pari al 4% del valore fiscale dell'immobile
come imposta di registro più (all'epoca) 336 euro
complessive e fisse per le imposte ipotecaria e catastale, e
le imposte piene, pari al 10% complessivo del valore
fiscale. Inoltre, scatta una sanzione del 30% dell'imposte
complessivamente dovuta.
Premesso quindi che l'articolo 1 del Dm dell'08.08.1969
(quello cui si fa riferimento per individuare le abitazioni
"di lusso" escluse dai benefici prima casa) stabilisce che
le costruzioni considerate "di lusso" nelle aree destinate a
villa o parco privato dagli strumenti urbanistici sono tali
proprio per la destinazione dell'area e non per le loro
caratteristiche intrinseche, in questo caso si era trattato
di una modifica al Prg intervenuta nel 1999, ben dopo
l'ultimazione della costruzione nel 1990: «È tuttavia
evidente -ha affermato la Suprema Corte- come l'adozione o
l'approvazione di uno strumento urbanistico che destini
l'area a villa o parco privato debba precedere la
costruzione dell'immobile; e ciò in quanto si presuppone che
la costruzione realizzata in area destinata a villa o a
parco privato corrisponda tipologicamente al tipo di
abitazione che su quell'area può essere realizzato - villa o
parco privato. Diviene pertanto irrilevante per la
qualificazione dell'abitazione come "di lusso" l'adozione di
uno strumento urbanistico che destini l'area a "villa" o
"parco privato" successivamente alla realizzazione della
costruzione stessa».
Quindi, per la Cassazione, anche se l'acquisto oggetto di
revoca dei benefici era intervenuto dopo la variazione (nel
2005), è proprio la data di costruzione che fa fede. E ha
respinto il ricorso dell'agenzia, confermando i benefici al
contribuente acquirente (articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2014). |
gennaio 2014 |
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PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U.
29.01.2014 n. 23, suppl. ord n. 9/L, "Testo
del decreto-legge 30.11.2013, n. 133, coordinato con la
legge di conversione 29.01.2014, n. 5,
recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU,
l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia»". |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Legge di stabilità 2014 – n. 147 del 27.12.2013.
Principali misure di natura fiscale di interesse per il
settore edile (ANCE Bergamo,
circolare 17.01.2014 n. 23). |
TRIBUTI: Imposte, il catasto non fa testo.
Le risultanze catastali non forniscono piena prova della
proprietà o del possesso di un immobile, mentre l'unico
strumento di pubblicità per i beni immobili e i relativi
atti di disposizione è rappresentato dai registri
immobiliari presso l'ufficio della conservatoria. Pertanto,
quando un contribuente accertato ai fini Ici contesti la
proprietà del bene, è onere dell'amministrazione comunale
fornire adeguata prova dell'esistenza del presupposto
d'imposta, ossia la proprietà o altro diritto reale sullo
stesso che si evinca dai registri immobiliari.
È quanto si legge nella sentenza 14.01.2014 n. 57/01/14 della Ctr
di Roma, Sez. I.
In una controversia riguardante avvisi di accertamenti per
Ici, emessi dal comune di Roma relativamente a due immobili
del territorio capitolino, il contribuente contestava la
pretesa fiscale alla fonte, ovvero lamentando di non essere
affatto proprietario dell'uno e solo parzialmente dell'altro
bene. Resisteva il comune, basando la propria pretesa sulle
risultanze catastali: proprio tale circostanza ha
rappresentato l'anello debole del costrutto impositivo. «Va
rilevato», si legge in sentenza, «che in via normale
l'Ici è dovuta sulla base delle risultanze catastali, ma
davanti alle contestazioni delle stesse va dimostrata da
parte dell'ente impositore la proprietà dell'immobile ovvero
la titolarità di altro diritto».
Le risultanze catastali non danno piena prova della
proprietà, costituendo «un sistema secondario per
stabilire la proprietà di un bene immobile». L'unico
strumento idoneo, a tal scopo, «è rappresentato dalla
trascrizione immobiliare di cui all'art. 2643 del codice
civile presso l'ufficio della conservatoria dei registri
immobiliari» (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.02.2014). |
dicembre 2013 |
 |
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI:
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014) -
Selezione norme di interesse dei Comuni (ANCI,
dicembre 2013). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
OGGETTO: Impianti fotovoltaici – Profili catastali e
aspetti fiscali (Agenzia delle Entrate,
circolare 19.12.2013 n. 36/E).
---------------
Pannelli solari: ecco la circolare che mette accordo tra
fisco e catasto.
Tra la vasta casistica affrontata dal
documento di prassi, specifica attenzione è rivolta al
trattamento tributario delle tariffe incentivanti previste
dal V Conto Energia.
L’Amministrazione finanziaria, con la circolare n. 36/E del
19 dicembre, fa il punto sugli impianti per la produzione di
energia fotovoltaica, focalizzandosi, in particolare, sulle
conseguenze che derivano in materia catastale e tributaria a
seconda della qualificazione degli stessi come beni mobili o
immobili.
In via preliminare, per quanto riguarda i profili catastali,
l’odierno documento di prassi evidenzia come, ai fini del
censimento in catasto, non assume rilievo esclusivo la
facile amovibilità delle componenti degli impianti
fotovoltaici, né la circostanza che possano essere
posizionate in altro luogo mantenendo inalterata la loro
originale funzionalità e senza antieconomici interventi di
adattamento (circolare n. 4/T del 2006).
Dal punto di vista fiscale, invece, il requisito
dell’amovibilità ai fini della qualificazione degli impianti
fotovoltaici come beni mobili è essenziale (circolari n.
46/E del 2007 e n. 38/E del 2008).
Tale diversa impostazione ha pertanto reso opportuno un
intervento per dirimere le incertezze degli operatori. (...
continua) (link a www.fiscooggi.it). |
TRIBUTI: Imprese edili, Imu più leggera.
Esenzione anche per i fabbricati sottoposti a recupero.
Risoluzione delle Finanze sull'agevolazione
riconosciuta al cosiddetto magazzino.
L'esenzione dall'Imu per il c.d. «magazzino» delle imprese
edili, in vigore dal 01.01.2014, si applica anche per i
l fabbricati acquistati dall'impresa costruttrice sul quale
la stessa procede a interventi di incisivo recupero.
A stabilirlo è la
risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF
della Direzione legislazione tributaria e federalismo
fiscale del Dipartimento delle finanze del Ministero
dell'economia e delle finanze che interviene per la prima
volta sulla nuova fattispecie di esenzione dall'imposta
municipale propria introdotta l'art. 2, comma 2, del dl 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.10.2013, n. 124.
Questa norma ha disposto infatti l'esenzione dal tributo
comunale a decorrere dal 01.01.2014 per «i fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita». Detta esenzione vale fintanto che permanga tale
destinazione e purché non siano in ogni caso locati.
La questione sottoposta all'esame dei tecnici del ministero
è se nel concetto «fabbricati costruiti» possa farsi
rientrare anche il fabbricato acquistato dall'impresa
costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di
incisivo recupero, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettere
c), d) e f), del dpr 6 giugno 2001, n. 380. Non si tratta,
dunque, di semplici opere di manutenzione ordinaria degli
edifici, in quanto detto articolo del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, nell'elencare le varie tipologie di interventi
edilizi, individua in via generale:
• alla lettera c) gli «interventi di restauro e di
risanamento conservativo», gli interventi edilizi rivolti a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che ne
consentano destinazioni d'uso con essi compatibili;
• alla lettera d) gli «interventi di ristrutturazione
edilizia», rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente;
• alla lettera f) gli «interventi di ristrutturazione
urbanistica», rivolti a sostituire l'esistente tessuto
urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un
insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la
modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della
rete stradale.
La risposta positiva prende le mosse dalla considerazione
che, ai fini Imu, l'art. 5, comma 6, del dlgs 30.12.1992, n. 504, stabilisce che, in caso di utilizzazione
edificatoria dell'area, di demolizione del fabbricato, di
interventi di recupero a norma dell'art. 3, comma 1, lett.
c), d) e f), del dpr n. 380 del 2001, la base imponibile è
costituita dal valore dell'area, la quale è considerata
fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell'art. 2
del dlgs n. 504 del 1992, senza computare il valore del
fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione
dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione
ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato
costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque
utilizzato.
Da quanto esposto si può dedurre che il
legislatore ha effettuato una sorta di equiparazione tra i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero e i
fabbricati in corso di costruzione, che sono stati entrambi
considerati, ai fini della determinazione della base
imponibile Imu, come area fabbricabile fino all'ultimazione
dei lavori. Naturalmente, precisa la risoluzione, i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero
rientrano nel campo di applicazione dell'esenzione
introdotta dal citato art. 2 del dl n. 102 del 2013, solo a
partire dalla data di ultimazione dei lavori di
ristrutturazione.
Si deve, infine, annotare che il comma 1 dell'art. 2, comma
2, del dl n. 102 del 2013 ha stabilito che per l'anno 2013
non è dovuta la seconda rata dell'Imu relativa ai fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano
in ogni caso locati, mentre l'Imu resta dovuta fino al 30
giugno
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2013). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Esenzione dall’imposta municipale propria (IMU)
per il cd “magazzino” delle imprese edili. Quesito
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle
Finanze, Direzione Legislazione Tributaria e Federalismo
Fiscale,
risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF). |
novembre 2013 |
 |
PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U.
30.11.2013 n. 281 "Disposizioni urgenti concernenti
l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca
d’Italia" (D.L.
30.11.2013 n. 133). |
TRIBUTI: Bilanci.
Caos a dieci giorni dall'adozione dei
bilanci, ma la legge 102/2013 prevede
espressamente il ritorno ai vecchi tributi.
Impossibile lo stop alla Tarsu. Nonostante
la frenata del Governo, i Comuni possono
scegliere fra sei prelievi.
Nel 2013 i Comuni possono applicare sei
diverse forme di prelievo sui rifiuti.
È questo il quadro che emerge dopo
l'approvazione della legge 124/2013. Ma a 10
giorni dall'adozione dei bilanci sono ancora
molti gli enti che non hanno deciso cosa
fare, in attesa di chiarimenti ufficiali che
forse non arriveranno mai. Come la
risoluzione ministeriale che avrebbe dovuto
stoppare i Comuni con i bilanci già
approvati, cioè quelli più efficienti ma
penalizzati dall'impossibilità di tornare
indietro. Oppure come l'intervento urgente
del Governo, chiesto da più parti anche alla
luce degli ulteriori dubbi alimentati dalla
recente risposta del sottosegretario alle
Finanze (si veda Il Sole 24 Ore del 14
novembre), che mette in discussione la
possibilità di riapplicare i vecchi prelievi
(Tarsu, Tia1, Tia2). Salvo poi affermare, in
altra risposta, che i Comuni passati alla
Tarsu possono utilizzare gli stessi codici
tributo della Tares.
Il comma 4-quater dell'articolo 5 è confuso,
ma traspare chiaramente l'intenzione del
legislatore di rendere applicabili i vecchi
prelievi. Altrimenti non avrebbe alcun senso
la deroga all'articolo 14, comma 46, del Dl
201/2011 e l'espresso riferimento al «caso
in cui il Comune continui ad applicare per
l'anno 2013 la Tarsu». In sostanza
quest'anno ci sono sei alternative: Tares
ordinaria, Tares derogata, Tares
semplificata, Tarsu, Tia1, Tia2.
La prima riguarda i Comuni che applicano
integralmente l'articolo 14 del Dl 201/2011
con i criteri del Dpr 158/1999. Ma per gli
enti a Tarsu il passaggio alla Tares si è
rivelato traumatico, specie per alcune
categorie di contribuenti che si sono viste
moltiplicare le tariffe, tanto da causare
sommosse in diversi centri. Da qui
l'esigenza di introdurre alcune deroghe
all'impianto originario. Si passa così alla
seconda opzione, quella cioè offerta dal
comma 1 dell'articolo 5 del Dl 102/2013, che
consente di commisurare le tariffe sulla
base delle quantità e qualità medie
ordinarie di rifiuti, oppure applicando
appositi coefficienti.
Peccato però che il Dipartimento delle
Finanze non ha chiarito che si trattava di
criteri alternativi al Dpr 158/1999 e non
cumulativi, circostanza che invece viene
precisata nella disciplina del nuovo Trise.
Con la conseguenza di rendere difficilmente
applicabile tale opzione, di fatto superata
dalla Tares semplificata contenuta nella
parte centrale del comma 4-quater.
La norma consente di applicare i costi e le
tariffe sulla base dei criteri previsti nel
2012 (Tarsu, Tia1, Tia2), mantenendo
tuttavia la veste giuridica di Tares. Con
l'unico limite di garantire la copertura
integrale dei costi, pur senza considerare
le voci del Dpr 158/1999. Si tratta
dell'opzione al momento più gettonata
insieme al ritorno ai vecchi prelievi.
Scelta, quest'ultima, che alletta molto i
comuni a Tarsu, che continuerebbero così ad
applicare le stesse tariffe dell'anno scorso
senza la necessità di coprire integralmente
i costi del servizio.
Anche il ritorno alla Tia è possibile in
virtù della deroga al comma 46, senza che
possa costituire ostacolo il riferimento
alla sola Tarsu, riguardante però il ricorso
alla fiscalità generale dell'ente per
coprire i costi eventualmente non coperti
dal gettito della tassa. Indicazione
superflua nel caso della Tia, che agisce
nella logica del pareggio costi-ricavi e
deve ovviamente coprire i costi del servizio
in conformità al piano finanziario (articolo
Il Sole 24 Ore del 18.11.2013). |
TRIBUTI: Intoppo sul ritorno alla Tarsu.
La chance solo per chi non ha approvato il bilancio.
Il Mef spiegherà nei prossimi giorni alle amministrazioni
come abbandonare la Tares.
Solo i comuni che non hanno ancora approvato il bilancio
2013 potranno continuare ad applicare la Tarsu in vigore lo
scorso anno. Tutti gli altri dovranno restare con la Tares,
eventualmente modificando le tariffe già deliberate.
Il chiarimento è contenuto in una risoluzione che il Mef
diffonderà nei prossimi giorni per fugare i numerosi dubbi
interpretativi posti dall'art. 5 del dl 102/2013, così come
modificato in sede di conversione. In particolare, verrà
precisata la portata della seconda parte del comma 4-quater,
che consente ai comuni di continuare ad applicare anche per
quest'anno «la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi
urbani (Tarsu), in vigore nell'anno 2012».
Tale possibilità
verrà concessa solo ai comuni che (avvalendosi della proroga
al 30 novembre del relativo termine) non hanno ancora
licenziato il preventivo. Tale condizione dovrebbe essere
verificata assumendo a riferimento la data di entrata in
vigore della legge 124/2013 (che ha convertito il dl 102),
ovvero il 29 ottobre.
Al contrario, gli enti che, a tale data, hanno già approvato
il bilancio potranno soltanto modificare i criteri di
commisurazione delle tariffe, ma pur sempre all'interno del
regime Tares. Ad essi, però, sarà consentito utilizzare
tutta le altre forme di flessibilità consentite dall'art. 5.
Come chiarito dall'Anci Emilia-Romagna (si veda ItaliaOggi
di ieri), tale norma consente, nella sostanza, di applicare
la Tares nello stesso modo in cui si applicava la Tarsu,
senza la necessità di fare riferimento al piano finanziario
o ai criteri di articolazione delle categorie e delle
tariffe previste nel dpr 158/1999.
Inoltre, non vi è né
l'obbligo di considerare le componenti di costo del piano
finanziario, come il Carc, né quello di articolare le
tariffe delle utenze domestiche per numero dei componenti
della famiglia. L'unico vincolo riguarda la necessità di
dare copertura integrale dei costi, che invece non sussiste
per i comuni che potranno mantenere, anche formalmente, il
regime Tarsu: in tali casi, anzi, per espressa previsione
del comma 4-quater, «la copertura della percentuale dei
costi eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve
assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai
proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del
comune».
La circolare in via di definizione a via XX Settembre
chiarirà anche un altro aspetto importante: per chi ha già
dato il via libera al preventivo 2013, la revisione della
disciplina dei tributi potrà essere disposta mediante una
semplice variazione del documento contabile già approvato,
così come chiarito dalla precedente risoluzione dello stesso
Mef 1/2011. Non sarà, quindi, necessario procedere (come
richiesto da alcune sezioni regionali della Corte dei conti)
alla riadozione del bilancio, per la quale non ci sarebbero
i tempi tecnici prima della dead-line del 30 novembre.
Infine, da segnalare che da ieri, sul sito del Ministero
dell'interno, è consultabile il testo del Dpcm di riparto
del fondo di solidarietà comunale, il cui procedimento è in
corso di perfezionamento
(articolo ItaliaOggi del 07.11.2013). |
TRIBUTI: Imu, comodato senza tetto Isee.
L'Anci Emilia-Romagna sul dl 102.
I comuni non sono obbligati a subordinare a un valore
massimo di Isee la fruizione dei benefici «prima casa» a
favore degli immobili concessi in comodato ai parenti.
Lo
afferma l'Anci Emilia-Romagna, che nella dettagliata
nota 29.10.2013 n. 182 di prot.
interpretativa ha analizzato le principali novità
introdotte in sede di conversione del decreto Imu (dl
102/2013).
Fra queste, il documento si sofferma anche
sull'art. 2-bis, che consente ai comuni di equiparare
all'abitazione principale, ai fini dell'Imu, le unità
immobiliari (escluse quelle classificate in A/1, A/ 8 e A/9)
e relative pertinenze concesse in comodato a parenti in
linea retta entro il primo grado (ovvero da padri e figli e
viceversa) che le utilizzano come abitazione principale.
L'assimilazione è subordinata a una delibera comunale, da
adottare entro il prossimo 30 novembre.
Ogni ente è chiamato
a definire i criteri e le modalità per l'applicazione
dell'agevolazione, «ivi compreso il limite dell'indicatore
della situazione economica equivalente (Isee) al quale
subordinare la fruizione del beneficio». Tale inciso, nella
sua formulazione letterale, ha posto il dubbio se la
definizione di un livello massimo di Isee sia o meno
obbligatoria. La circolare Anci ammette che il testo si
presta a diverse interpretazioni, ma ritiene che «non via
sia l'obbligo per i comuni di subordinare il beneficio a un
determinato livello di situazione economica».
Tale scelta,
insomma, rientra nella piena discrezionalità dei sindaci,
che possono valutare se, in regime di ristrettezze
economiche, sia o meno opportuno concentrare gli aiuti sui
soggetti più in difficoltà. Come gli altri contribuenti,
quindi, anche quelli interessati dalla misura in commento
dovranno attendere il 9 dicembre, data ultima entro la quale
i provvedimenti assunti in materia di Imu dovranno essere
pubblicati sul sito istituzionale di ciascun comune.
In ogni caso, l'assimilazione a prima casa, se e nei limiti
in cui i comuni decideranno di introdurla, varrà solo ai
fini del saldo di dicembre, che non sarà dovuto se sarà
confermata l'esclusione anche della seconda rata per le
abitazioni principali. Le somme versate in acconto, quindi,
non sono in nessun caso rimborsabili
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2013). |
TRIBUTI: Rifiuti, tornano i vecchi tributi.
Per il 2013 resuscita non solo la Tarsu, ma anche la Tia.
L'opzione è consentita a tutti i
comuni. Per decidere c'è tempo fino al 30 novembre.
Resuscitano i vecchi regimi di prelievo sul servizio di
smaltimento rifiuti. Con una mossa azzardata effettuata
quasi alla fine dell'anno in corso il legislatore, in deroga
alla disciplina Tares, fa rivivere in modo confuso i tributi
sui rifiuti che erano stati abrogati. Le amministrazioni
locali, infatti, possono applicare Tarsu, Tia1 e Tia2 anche
per il 2013 e determinare i costi del servizio e le tariffe
in base ai criteri previsti e utilizzati nel 2012, fermo
restando che va versata la maggiorazione allo stato.
Possono anche derogare per la Tarsu all'obbligo di copertura
integrale dei costi del servizio, che invece è già imposto
per Tia1 e Tia2. Lo prevede l'articolo 5, comma 4-quater,
del dl 102/2013 convertito nella legge 124/2013.
Questa scelta legislativa ha colto di sorpresa anche chi
durante l'anno ha sempre auspicato una proroga al 2014 della
Tares, per le difficoltà tecniche legate alla sua
applicazione e, soprattutto, per la complessità dei criteri
di determinazione delle tariffe. Quindi, può essere data una
risposta positiva ai comuni che in questi ultimi giorni si
sono posti il problema se il ritorno ai vecchi balzelli è
consentito a tutti o solo a quelli che nel 2012 sono stati
in regime di Tarsu. L'incertezza della formulazione
letterale della norma di legge ha creato dei dubbi
interpretativi.
Tarsu, Tia1 e Tia2. In realtà, i comuni hanno facoltà di
applicare non solo la Tarsu per l'anno in corso, come si
evince in maniera più chiara dal testo dell'articolo 5, ma
anche Tia1 e Tia2. Entro il termine per l'approvazione del
bilancio di previsione (30 novembre) è consentito fare
questa scelta. Fermo restando, però, che i contribuenti sono
tenuti a pagare la maggiorazione allo stato. Com'è noto,
l'articolo 10 del dl 35/2013 ha stabilito che la
maggiorazione va pagata contestualmente all'ultima rata del
tributo, nella misura fissa di 30 centesimi al metro
quadrato, e viene incassata dallo stato. A prescindere dalle
opzioni di cui si può avvalere l'amministrazione comunale,
oltre al tributo sui rifiuti i contribuenti sono tenuti a
sborsare un'ulteriore somma a titolo di maggiorazione per i
servizi indivisibili, rapportata alle dimensioni
dell'immobile posseduto o occupato.
L'articolo 5 recita che in deroga a quanto stabilito
dall'articolo 14, comma 46, del dl 201/2011, convertito
nella legge 214/2011, il comune può determinare i costi del
servizio e le relative tariffe sulla base dei criteri
previsti e applicati nel 2012. È evidente che la norma fa
ritornare in vita le vecchie discipline abrogate, derogando
per il 2013 a quanto previsto dall'articolo 14 del dl «salva
Italia», che ha istituito la Tares. In effetti, quest'ultima
disposizione aveva abrogato tutti i tributi sui rifiuti
vigenti, compresa l'addizionale per l'integrazione dei
bilanci degli enti comunali di assistenza (ex Eca). Non ha
invece subìto modifiche il tributo per l'esercizio delle
funzioni di tutela, protezione e igiene dell'ambiente,
dovuto nella percentuale deliberata dalla provincia
sull'importo della tassa, esclusa la maggiorazione.
Peraltro, che sia possibile il ritorno alla gestione di
Tarsu e Tia trova conferma nell'ulteriore previsione
contenuta nell'ultimo periodo del comma 4-quater, nella
parte in cui viene specificato che qualora il comune scelga
di applicare la Tarsu, è consentito raggiungere lo stesso
livello di copertura dei costi del servizio dell'anno
precedente (per evitare eccessivi aumenti delle tariffe in
un momento di difficoltà economiche), facendo ricadere il
peso delle mancate entrate sull'intera platea dei
contribuenti.
Pertanto, qualora il gettito non copra tutte
le spese, gli enti possono fare ricorso a risorse diverse
dai proventi della Tarsu, derivanti dalla fiscalità
generale. Questa regola, però, vale solo per la Tarsu. Per
la tariffa «Ronchi» e per quella «puntuale», la quale ha per
espressa previsione di legge natura corrispettiva,
disciplinate rispettivamente dai decreti legislativi 22/1997
e 152/2006, l'obbligo della copertura integrale dei costi
non può essere aggirato (articolo ItaliaOggi
dell'01.11.2013). |
ottobre 2013 |
 |
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U.
29.10.2013 n. 254 "Testo
del decreto-legge 31.08.2013, n. 102, coordinato con la
legge di conversione 28.10.2013, n. 124, recante:
“Disposizioni urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità
immobiliare, di sostegno alle politiche abitative e di
finanza locale, nonché di cassa integrazione guadagni e di
trattamenti pensionistici”.
---------------
Di particolare interesse:
►
Art. 8. -
Differimento del termine per la deliberazione del bilancio
di previsione ed altre disposizioni in materia di
adempimenti degli enti locali
►
Art. 13. -
Disposizioni in materia di pagamenti dei debiti degli enti
locali
►
Art. 14. -
Definizione agevolata in appello dei giudizi di
responsabilità amministrativo-contabile |
TRIBUTI:
Oggetto: Conversione in legge del Dl n. 102/2013 – Nota di
lettura (ANCI Emilia Romagna,
nota 29.10.2013 n. 182 di prot.). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Comuni, per Imu e Tares è corsa contro il tempo.
Con la revisione delle aliquote va riadottato il bilancio.
Finanza locale. Senza modifiche
legislative non basta una delibera di variazione.
Insieme alla proroga al 30 novembre del termine per
approvare il bilancio di previsione 2013, il Dl 102/2013
differisce anche il termine per approvare o variare i
regolamenti tributari, le aliquote e le tariffe.
Questa
situazione, per usare le parole scritte dalla Corte dei
conti, sezione Autonomie, nella delibera 14.10.2013 n. 23, «si connota di particolari tratti al limite della
irragionevolezza».
A questo si aggiunge anche un serio problema di tempistica,
conseguente al dubbio se le aliquote e regolamenti possono
essere variati dopo l'approvazione del bilancio comunale, ma
comunque entro la data ultima fissata dalle norme statali.
Questo problema sembrava essere stato risolto dal Mef, che
con la risoluzione n.1/DF del 02.05.2011 aveva ammesso,
anche per gli enti con bilancio già approvato, la
possibilità di variare le delibere apportando le conseguenti
variazioni di bilancio.
Questa lettura è però stata successivamente stravolta dalla
delibera n. 431 del 2012 della Corte dei Conti, sezione
Lombardia, nella quale si sostiene che non è sufficiente una
delibera di variazione del bilancio approvato essendo
necessaria, invece, una completa riadozione del bilancio di
previsione, secondo i termini scanditi nel regolamento di
contabilità di ogni Comune, termini mediamente superiori al
mese è quindi per il 2013 quasi esauriti.
Unica possibilità è che venga finalmente accolto un
emendamento –tra l'altro già più volte proposto da Anci–
che acclari con legge la sufficienza di una delibera di
variazione.
I dati mancanti
La necessità di risolvere in fretta il problema è
amplificata dal fatto che ad oggi i Comuni non hanno ancora
tutte le informazioni necessarie a (ri)adottore il bilancio.
Basti considerare che a fine ottobre ai Comuni non è stato
ancora comunicato quanto devono versare e ricevere dal Fondo
di solidarietà comunale, visto che manca l'emanazione di un
Dpcm, sebbene nella Conferenza Stato-città e autonomie
locali l'accordo sia stato raggiunto il 25 settembre e
l'ammontare del Fondo sia stato fissato in 6,977 miliardi,
di cui circa 4,7 sono dati dal gettito Imu di competenza
comunale che dovrà essere riversato allo Stato. E qui c'è un
altro nodo irrisolto, perché non si sa come i Comuni
dovranno riversare tali somme allo Stato: se queste saranno
direttamente trattenute dagli incassi da F24 Imu oppure se
riceveranno una quota di Fondo al netto della loro quota di
alimentazione.
Non va meglio per la Tares in quanto le modifiche apportate
dalla Camera al disegno di legge di conversione del Dl
102/2013 fanno prefigurare uno scenario in cui ogni Comune
può fare quello che vuole. Solo la conversione definitiva
del decreto –avvenuta giovedì scorso– consente adesso agli
enti di decidere che regime utilizzare per il 2013.
Infine il capitolo Imu: a oggi non si conoscono le sorti
della seconda rata Imu delle abitazioni, o meglio si sa che
sarà abolita come la prima, ma non si sa se il "contributo"
compensativo ai Comuni sarà calcolato come per l'acconto e
quindi sulla base del gettito 2012 o sulla base delle
aliquote deliberate dal Comune nel 2013, o come molti
auspicano, sulla leva fiscale teorica. E anche in questo
caso diventerà difficile non mettere mano alle aliquote.
---------------
Gli ostacoli
01|PROCEDURE
Secondo la Corte dei conti dopo una delibera che varia le
aliquote o i regolamenti tributari non basta una variazione
al bilancio preventivo, serve rimettere in moto
il meccanismo di approvazione del bilancio di previsione
fino
alla riadozione
02|FONDO SOLIDARIETÀ
Nonostante l'intesa in Conferenza unificata sull'ammontare
del Fondo solidarietà (6,7 miliardi), manca un decreto che
indichi ai Comuni quanto versare e quanto ricevere dal Fondo
e che stabilisca la procedura per riversare
03|IMU
Non è ancora stabilito come i Comuni saranno compensati
anche per l'abolizione della seconda rata Imu sulle prime
case. Le ipotesi sono due: o sulla base del gettito 2012
oppure con le aliquote deliberate dal Comune
nel 2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
TRIBUTI: L'assimilazione vale per la seconda rata.
Abitazione principale. Obbligo di
residenza e dimora.
LA FACOLTÀ/
Gli enti locali possono decidere un trattamento di favore
per l'alloggio dato in comodato ai figli (compresa la
pertinenza).
Con la conversione in legge del Dl 102/2013 il Parlamento ha
introdotto, con l'articolo 2-bis, la possibilità per i
Comuni di assimilare all'abitazione principale le abitazioni
concesse in comodato a parenti, tuttavia con alcuni paletti.
Innanzitutto, per espressa previsione normativa
l'assimilazione è limitata alla seconda rata; pertanto,
quanto pagato in acconto non è rimborsabile.
Va anche precisato che, con l'assimilazione, l'abitazione in
comodato riceve lo stesso trattamento delle altre abitazioni
principali e quindi il saldo non sarà dovuto se sarà
confermata l'esclusione anche della seconda rata Imu delle
abitazioni principali.
L'abitazione in comodato deve essere utilizzata come
abitazione principale, quindi con residenza anagrafica e
dimora, da un parente in linea retta entro il primo grado,
ovvero il comodato deve essere tra padre e figlio.
L'abitazione non deve essere classificata in quelle di lusso
(A/1, A/8 e A/9) e nel caso in cui il contribuente abbia
dato in comodato più abitazioni, l'assimilazione opera per
una sola unità immobiliare. Naturalmente il trattamento di
favore riservato all'abitazione si estende anche alle
eventuali pertinenze, pur nella misura massima di un'unità
pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali C/6,
C/2 e C/7.
L'agevolazione è subordinata a una delibera comunale, che
dovrà essere adottata entro il 30.11.2013, ovvero
entro il termine previsto per l'approvazione del bilancio di
previsione 2013.
La delibera comunale dovrà essere pubblicata entro il 09.12.2013 sul sito istituzionale di ciascun comune; in
caso di mancata pubblicazione entro tale data, si applicano
le aliquote e i regolamenti dell'anno precedente.
I contribuenti potrebbero avere quindi una sola settimana di
tempo per capire se devono o non devono pagare il saldo Imu
in scadenza il 16 dicembre.
Occorrerà poi verificare le ulteriori condizioni
disciplinate dai Comuni. La normativa prevede che ciascun
Comune definisca i criteri e le modalità per l'applicazione
dell'agevolazione «ivi compreso il limite dell'indicatore
della situazione economica equivalente (Isee) al quale
subordinare la fruizione del beneficio». Ciò vuol dire che
occorrerà verificare con attenzione gli ulteriori paletti
eventualmente presenti nelle delibere Comunali, come
l'obbligo di presentare una comunicazione entro un
determinato termine, normalmente a pena di decadenza.
Per quanto riguarda l'Isee si ritiene che non vi sia
l'obbligo per i Comuni di subordinare il beneficio ad un
determinato livello di situazione economica, anche se tale
strumento, in regime di ristrettezze economiche permette di
indirizzare le poche risorse disponibili verso chi ne ha
bisogno.
Peraltro, occorre considerare che la possibilità di
assimilare all'abitazione principale quella data in comodato
a parenti è prevista anche dal disegno di legge di stabilità
2014, ma in modo diverso.
È infatti stabilito (per ora) che il Comune possa disporre
l'assimilazione prevedendo che l'agevolazione operi o
limitatamente alla quota di rendita risultante in catasto
non eccedente il valore di euro 500 oppure nel solo caso in
cui il comodatario appartenga ad un nucleo familiare con
Isee non superiore a 15mila euro annui.
Per la copertura del minor gettito Imu derivante dalle
assimilazioni deliberate per il 2013 lo Stato ha assicurato
un contributo massimo di 18,5 milioni di euro, che dovranno
essere ripartiti tra i Comuni secondo modalità che saranno
stabilite con decreto del ministero dell'Interno.
Per il 2014, invece, non è stato per ora previsto alcun
contributo statale (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013). |
TRIBUTI: Fisco e contribuenti. Il decreto legge approvato giovedì
consente ai Comuni di modificare regole e aliquote fino al
30 novembre.
Saldo Imu, tempi stretti per i conti.
Delibere pubblicate sui siti istituzionali fino al 9
dicembre - Pagamento entro il 16.
SUL FILO DI LANA/
Cittadini, Caf e professionisti dovranno concentrare i
calcoli e i versamenti in sette giorni.
Sette giorni di tempo. Dal 10 al 16 dicembre i contribuenti
dovranno consultare i regolamenti, individuare l'aliquota
Imu e quindi calcolare e versare, se dovuto, il saldo.
È questa una delle conseguenze prodotte dall'articolo 8,
comma 2, del Dl 102/2013, approvato due giorni fa dal Senato
in via definitiva e in attesa di pubblicazione sulla
«Gazzetta Ufficiale». L'articolo 8 consente ai Comuni di
adottare le delibere Imu fino al 30 novembre e di
pubblicarle nei loro siti entro il 9 dicembre. Se la
pubblicazione non avverrà entro tale data si applicheranno
gli atti adottati per il 2012.
Ai contribuenti non sarà pertanto sufficiente reperire dai
siti comunali l'aliquota applicabile agli immobili ancora
tenuti al pagamento dell'Imu: i municipi, con proprio
regolamento e fino al 30 novembre, potrebbero infatti
intervenire sulle assimilazioni all'abitazione principale
(introducendole oppure eliminandole).
Al riguardo la versione definitiva del Dl 102/2013, consente
ai sindaci di assimilare all'abitazione principale anche il
fabbricato concesso in comodato a parenti di primo grafo
(cioè figli o genitori). Il beneficio, obbligatoriamente
collegato all'Isee, comporterebbe, se deliberato dai Comuni
entro il 30 novembre, lo stesso trattamento previsto per
l'abitazione principale, ancorché con effetti limitati alla
sola seconda rata 2013.
Dall'anno prossimo, infatti, si dovrebbero applicare le
nuove regole in tema di assimilazione previste dalla legge
di stabilità 2014 appena varata dal Governo.
Ma procediamo con ordine. L'articolo 13, comma 13-bis, Dl
201/2011 dispone che le delibere concernenti aliquote,
detrazioni e regolamenti Imu debbano essere pubblicate sul
sito del ministero dell'Economia entro il 28 ottobre di
ciascun anno (con invio telematico da parte dei comuni
almeno sette giorni prima) pena l'applicazione degli atti
adottati per l'anno precedente.
Posto che il termine per l'approvazione di aliquote e
regolamenti Imu coincide con quello previsto per
l'approvazione del bilancio del comune, il differimento di
quest'ultimo termine al 30 novembre, operato dall'articolo 8
del Dl 102/2013, ha di fatto reso inoperante la scadenza del
21 ottobre. Dato ciò, lo stesso articolo 8 ha stabilito che,
per l'anno 2013, gli atti deliberativi Imu acquistano
efficacia a decorrere dalla data di pubblicazione nel sito
web del comune; tale pubblicazione deve avvenire entro il 9
dicembre e qualora ciò non si verificasse trovano
applicazione gli atti adottati per il 2012. Resta invece
ferma la scadenza per il pagamento del saldo fissata al 16
dicembre.
Contribuenti, Caf, professionisti avranno così appena una
settimana per predisporre con dati certi l'F24 a saldo.
Peraltro il Dl 102/2013 approvato dal Senato contiene
un'ulteriore novità che potrebbe impattare sul calcolo dell'Imu
dovuta a dicembre. Viene infatti previsto (articolo 2-bis)
che per l'anno 2013, e limitatamente alla seconda rata, i
comuni possono equiparare all'abitazione principale una sola
abitazione e relative pertinenze concesse in comodato a
parenti in linea retta (entro il primo grado) che le
utilizzano come abitazione principale. La novità, che
esclude dalla possibile assimilazione i fabbricati di lusso
(accatastati nelle categorie A/1, A/8 e A/9), demanda ai
comuni la definizione dei criteri e delle modalità per
l'applicazione dell'agevolazione, ivi compreso il limite
dell'Isee al quale il beneficio deve essere subordinato.
Si tratta, quindi, di un'assimilazione che si aggiunge a
quelle già consentite ai comuni riguardanti anziani,
disabili e cittadini italiani residenti all'estero.
Anche per queste fattispecie i consigli comunali potrebbero
intervenire fino al 30 novembre con evidenti ripercussioni
sul pagamento di dicembre. A decorrere dal 2014, la legge di
stabilità licenziata dal Governo prevede che le
assimilazioni consentite ai comuni (anziani, disabili,
cittadini Aire, comodati a parenti) operino o limitatamente
ai fabbricati con rendita catastale non superiore a 500 euro
oppure nel solo caso in cui il comodatario appartenga a un
nucleo familiare con Isee non superiore a 15mila euro annui (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013). |
TRIBUTI: Ogni comune censirà i servizi indivisibili
Dal prossimo anno, ogni comune dovrà censire i servizi
indivisibili erogati ai cittadini indicando analiticamente
per ciascuno di essi i relativi costi.
Lo prevede la
disciplina dettata dal disegno di legge di stabilità 2014 in
relazione alla Tasi, che insieme alla quasi omonima Tari
dovrebbe costituire il nuovo tributo comunale Trise. Si
tratterà di un'operazione tutt'altro che agevole, che
richiederà una complessa riclassificazione dei dati di
bilancio.
Come noto, il Trise si articolerà in due componenti: la
prima, denominata Tari, andrà a copertura dei costi relativi
al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati. La seconda componente, il Tasi, sostituirà,
invece, l'attuale maggiorazione Tares (quest'anno
eccezionalmente incamerata dallo Stato) per far fronte della
copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei
comuni.
Il presupposto impositivo della Tasi sarà il possesso o la
detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati, di aree
scoperte nonché di quelle edificabili, a qualsiasi uso
adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o
accessorie a locali imponibili non operative e delle aree
comuni condominiali che non siano detenute o occupate in via
esclusiva. Il tributo sarà dovuto, oltre che dai titolari di
diritti reali, anche dagli eventuali occupanti (ad esempio
locatori) in una misura stabilita dal comune fra il 10 e il
30% dell'ammontare complessivo, calcolato applicando
l'aliquota fissata dallo stesso comune entro i limiti di
legge.
Sempre i comuni, con proprio regolamento da approvare
ai sensi dell'art. 52 del dlgs 446/1997, dovranno
disciplinare le riduzioni, che tengano conto altresì della
capacità contributiva della famiglia, anche attraverso
l'applicazione dell'Isee, e procedere all'individuazione dei
servizi indivisibili ed all'indicazione analitica, per
ciascuno di tali servizi, dei relativi costi alla cui
copertura la Tasi è diretta. Quest'ultimo adempimento, del
tutto inedito, è destinato a rivelarsi di notevole
complessità attuativa. La categoria «servizi indivisibili»,
infatti, include tutti quelli che non vengono offerti «a
domanda individuale», come ad esempio l'illuminazione
pubblica, la sicurezza, l'anagrafe o la manutenzione delle
strade.
Si tratta di una gamma potenzialmente amplissima di
attività, per le quali, per di più, manca una «mappatura»
ufficiale. Per rispettare il dettato normativo, quindi, sarà
necessaria una tutt'altro che agevole operazione di
censimento delle diverse tipologie di servizi e di
riclassificazione dei dati di bilancio analoga a quella che
è stata compiuta per fornire alla Sose i dati necessari per
il calcolo dei fabbisogni standard relativi alle funzioni
fondamentali, ai sensi del dlgs 85/2010.
Se la previsione contenuta nel testo del disegno di legge di
stabilità verrà confermata, quindi, i comuni dovranno
attrezzarsi per tempo
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2013). |
TRIBUTI: Dal Comune esenzione per la casa ai figli.
Possibilità per i sindaci di estendere le agevolazioni e
aiuti per la «morosità incolpevole».
BENI MERCE/
Rientrano nella categoria del premio anche gli immobili
costruiti da imprese edili e rimasti invenduti e non
affittati.
L'esenzione Imu per i fabbricati merce delle imprese di
costruzione non copre l'imposta dovuta sino al 30 giugno.
L'assimilazione all'abitazione principale degli immobili
delle cooperative edilizia a proprietà indivisa come pure
quella relativa ai fabbricati degli appartenenti alle forze
armate opera dal 1° luglio scorso. Ai fini del pagamento
della seconda rata, inoltre, i comuni possono assimilare
all'abitazione principale il fabbricato concesso un uso
gratuito a parenti entro il primo grado.
È ricco il menu
delle novità in materia di Imu apportate in sede di
conversione del Dl 102. Non manca, infine, l'ennesima
disposizione interpretativa in materia di fabbricati rurali.
Nel decreto legge si era disposto che per i fabbricati merce
delle imprese costruttrici la seconda rata non era dovuta.
Ora si precisa che l'imposta resta dovuta fino al 30.06.2013. La conseguenza è che in sede di saldo si dovrebbero
versare i conguagli tra quanto pagato a giugno, con
l'aliquota dell'anno precedente, e quanto da liquidare con
l'aliquota dell'anno in corso. Tanto, limitatamente al
periodo di possesso fino al 30.06.2013.
Sempre con il decreto 102 si era disposta l'assimilazione
all'abitazione principale degli immobili delle cooperative
edilizie a proprietà indivisa. Viene ora stabilito che tale
assimilazione opera dal 1° luglio scorso. Questo dovrebbe
servire ad applicare in via automatica le agevolazioni per
l'abitazione principale che sono in via di approvazione con
riferimento alla seconda rata di dicembre. Lo stesso
ragionamento vale per le modifiche apportate a proposito del
fabbricato degli appartenenti alle forze armate, che si
considera abitazione principale anche se non vi è né
residenza anagrafica né dimora abituale. Si precisa, in
proposito, che l'equiparazione all'abitazione principale non
vale per gli immobili di lusso, cioè di categoria A/1, A/8 e
A/9.
Un'altra novità consiste nella previsione dell'obbligo di
presentare una denuncia con la richiesta di applicazione
delle nuove agevolazioni disposte nel Dl 102, a pena di
decadenza, entro il 30 giugno 2014, termine ordinario di
presentazione della dichiarazione Imu.
Ritorna inoltre l'assimilazione all'abitazione principale
delle case concesse in comodato a parenti in linea retta,
entro il primo grado (genitori e figli), purché non "di
lusso". L'assimilazione dipende da una delibera comunale e
vale solo per la seconda rata. I comuni possono condizionare
il beneficio al possesso di determinati requisiti
reddituali, legati anche all'Isee. L'assimilazione può
riguardare una sola unità immobiliare.
Compare un'ulteriore disposizione interpretativa (la terza)
in materia di fabbricati rurali. Questa volta si tratta
dell'efficacia delle domande di variazione catastale
presentate ai sensi dell'articolo 13, comma 14-bis, Dl
201/2011. In via interpretativa, le Finanze avevano
sostenuto che queste producevano effetti dal quinto anno
precedente. I comuni hanno contestato questa
interpretazione, rilevando che, in mancanza di una norma
espressa, le variazioni catastali operano solo per il
futuro. Oggi si recepisce l'orientamento delle Finanze e si
dispone per l'appunto che gli effetti delle variazioni
decorrano dal quinto anno precedente.
Si conferma infine che il termine per l'approvazione dei
bilanci di previsione 2013 è il 30 novembre prossimo ma si
stabilisce, altresì, che le delibere Imu devono essere
pubblicate sul sito del comune entro il 09.12.2013. In
mancanza di pubblicazione, si applicano le aliquote
dell'anno precedente.
In materia di sfratti, invece, viene disposta l'emanazione
di un decreto delle finanze che dovrà fissare i criteri per
l'accesso ai fondi da parte degli inquilini morosi
incolpevoli. Nelle more della adozione di tali criteri, le
prefetture prenderanno misure per graduare gli interventi
della forza pubblica nelle procedure di sfratto
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
TRIBUTI: Torna la Tarsu con maggiorazione.
Rifiuti. Cancellata l'abrogazione.
Orologi indietro sul prelievo sui rifiuti: dopo nove mesi di
abrogazione, torna in vita la Tarsu e probabilmente anche la
Tia1 e la Tia2.
È il risultato dell'ennesimo colpo di scena
messo in atto con la legge di conversione del Dl 102/2013.
La disciplina della Tares aveva provato a mettere ordine
nelle varie entrate esistenti, abrogando Tarsu e Tia, con
decorrenza dal 01.01.2013. Le modifiche in corso di
pubblicazione abrogano la norma abrogatrice e consentono di
ripristinare le tariffe relative al regime di prelievo
esistente nel 2012, quale esso fosse. A questo punto, è
evidente che perde totalmente di interesse la comprensione
del nuovo sistema tariffario alternativo al metodo
normalizzato, previsto nella versione iniziale del Dl 102.
In linea teorica, si segnala che dall'anno prossimo, con la
Tari, si dovrebbero comunque innovare tutti i sistemi
tariffari. Si prevede, inoltre, che se si mantiene in vita
la Tarsu resta possibile provvedere alla copertura integrale
dei costi del servizio anche con altre risorse del bilancio.
Resta, in ogni caso, dovuta la maggiorazione di 0,30 euro al
metro quadrato in favore dello Stato.
Le altre novità in materia riguardano il finanziamento delle
agevolazioni. Si dispone che il mancato gettito possa essere
alternativamente recuperato dagli stessi contribuenti Tares/Tarsu/Tia
ovvero con altre risorse del bilancio, purché nei limiti del
7% del costo del servizio. Sembra pertanto che se le
agevolazioni si spalmano sugli utenti del servizio non
esiste nessun limite quantitativo, in chiara violazione dei
principi comunitari. Sempre in tema di agevolazioni, si
prevede la possibilità di introdurre nel regolamento
comunale riduzioni e esenzioni legate all'Isee nonché al
compostaggio dei rifiuti.
Viene altresì stabilito che in caso di insufficiente
pagamento del tributo, i contribuenti non sono sanzionabili
se il comune non ha inviato loro i bollettini di versamento.
Si tratta di una novità che impatta, formalmente, solo nei
limitati casi in cui il comune ha previsto il versamento in
auto liquidazione. Nella generalità dei casi, è invece
vigente il pagamento su liquidazione d'ufficio, che
presuppone sempre l'invio di una comunicazione, in assenza
della quale il pagamento non può avvenire e dunque
l'omissione non è sanzionabile
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
TRIBUTI:
Tributi News (tratto
dalla newsletter gratuita di www.publika.it, 22.10.2013
n. 20). |
TRIBUTI: LEGGE DI STABILITA' 2014/
La Trise la paga anche l'inquilino.
Per la Tasi l'importo dovuto dall'affittuario
va dal 10 al 30%. Vita breve per la Tari.
Dal prossimo anno i contribuenti saranno tenuti a pagare il
tributo sui servizi comunali (Trise). Il nuovo balzello
contiene al suo interno due tributi diversi: il primo,
denominato Tari, serve a coprire i costi relativi al
servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di
privativa comunale; mentre il secondo, denominato Tasi, è
diretto a recuperare i costi che l'amministrazione comunale
sostiene per garantire i servizi indivisibili (trasporto,
illuminazione pubblica e così via).
Sono queste le
previsioni contenute nella bozza della legge di stabilità
approvata nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri.
Tari. Dunque la Tares va in soffitta e lascia il posto al
nuovo regime di prelievo, che dovrà coprire integralmente i
costi del servizio. Questa tassa dovrebbe avere vita breve,
per lasciare poi il posto alla Tarip, basata su sistemi
puntuali di misurazione dei rifiuti prodotti. Dovrebbe
infatti prossimamente essere emanato un regolamento
attuativo del ministro dell'ambiente che dovrà prevedere dei
criteri di misurazione puntuale dei rifiuti prodotti, nel
rispetto del principio comunitario «chi inquina paga», per
collegare il pagamento al servizio reso all'utente.
La tassa
è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo
locali o aree scoperte, a prescindere dall'uso a cui sono
adibiti. Non sono soggette al prelievo le aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni o di locali
tassabili, nonché le aree comuni condominiali a meno che non
siano occupate in via esclusiva. Quindi, viene confermata
l'esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie
di locali tassabili, cioè delle cosiddette aree non
operative. Sono obbligati in solido al pagamento anche i
componenti del nucleo familiare e coloro che usano in comune
locali e aree. Come per la Tares viene confermato il
criterio della prevalenza, vale a dire il tributo va pagato
al comune nel cui territorio insiste, interamente o
prevalentemente, la superficie degli immobili.
I soggetti tenuti al pagamento della tassa devono denunciare
la superficie calpestabile e non la superficie catastale.
Considerato che per la maggior parte degli immobili non
esiste ancora la superficie catastale, viene consentito ai
comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per
Tarsu e Tia, calcolando la tassa sulla superficie
calpestabile anche per gli immobili a destinazione ordinaria
(classificati nelle categorie A, B e C). Si passerà alla
commisurazione del tributo sulla superficie catastale solo
quando verranno allineati i dati degli immobili a
destinazione ordinaria e quelli riguardanti la toponomastica
e la numerazione civica, interna e esterna, di ciascun
comune.
Per le occupazioni temporanee il tributo è a carico dei
titolari degli immobili. Si considerano temporanee le
occupazioni di durata non superiore a sei mesi nel corso
dello stesso anno solare. Come per la Tares, l'obbiettivo è
far pagare il proprietario o il titolare di altro diritto
reale sull'immobile anche quando viene utilizzato da
inquilini o comodatari. Mentre, le regole contenute nella
disciplina Tarsu e Tia non imponevano questo trattamento per
gli usi temporanei.
Tasi. La Tasi serve a coprire i costi per i servizi
indivisibili sostenuti dai comuni. Anche i titolari di
immobili adibiti ad abitazione principale, esonerati dall'Imu,
dovranno versare l'imposta con un'aliquota massima del 2,5
per mille, calcolata sullo stesso valore dell'immobile
derivante dalla rendita catastale rivalutata. Il tributo è
infatti dovuto da chiunque possieda o detenga a qualsiasi
titolo fabbricati, aree scoperte e edificabili. Qualora vi
siano più possessori o detentori, tutti sono tenuti in
solido all'adempimento dell'obbligazione tributaria.
In caso
di detenzione temporanea di durata non superiore a sei mesi
nel corso dello stesso anno solare, il balzello è dovuto dal
titolare dell'immobile. A differenza dell'Imu, però, la
tassa sui servizi la paga anche l'inquilino nella misura che
varia dal 10 al 30%. La scelta della percentuale di
tassazione è demandata ai comuni e deve essere stabilita con
regolamento. Il tributo dovrà essere calcolato sul valore
dell'immobile preso a base per la determinazione dell'Imu.
Pertanto, occorre fare riferimento alla rendita catastale
rivalutata per i fabbricati e al valore di mercato per le
aree edificabili.
---------------
Limiti rigidi per la tassa sui servizi comunali.
I titolari di immobili adibiti ad abitazione principale il
prossimo anno dovranno versare la tassa sui servizi comunali
(Tasi) con un'aliquota massima del 2,5 per mille. Le
amministrazioni locali, infatti, possono variare l'aliquota
dall'1 al 2,5 per mille, fermo restando che hanno anche il
potere di azzerarla. Anche per le prime case di pregio,
classificate nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili
di lusso, ville e castelli), non esonerate dal pagamento
dell'Imu, il legislatore si è premurato di fissare un tetto
massimo all'aliquota.
I titolari di questi immobili non
dovranno pagare complessivamente per i due tributi (Imu e
Tasi) più di quanto dovuto per l'imposta municipale con
l'aliquota massima del 6 per mille. La stessa regola vale
per le altre tipologie di immobili e seconde case, per le
quali viene imposto come limite l'attuale aliquota massima
del 10,6 per mille.
Abitazioni principali. Spetterà ai sindaci decidere se gli
immobili adibiti a abitazione principale dovranno essere
tassati e in che misura. I fabbricati che per il 2013 hanno
fruito dell'abolizione del pagamento dell'acconto Imu
saranno tenuti a pagare la Tasi nella misura deliberata
dall'ente che va dall'1 al 2,5 per mille.
Immobili di lusso e secondo case.
Viene confermata l'imposizione sugli immobili di lusso anche
se destinati ad abitazione principale. Viene imposta
l'aliquota massima del 6 per mille, vale a dire quella
attualmente prevista per l'imposta municipale. Pertanto, la
somma dovuta per i due tributi non può superare quanto
dovuto oggi dal contribuente calcolando l'imposta con
l'aliquota massima
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
TRIBUTI:
Tassa rifiuti, resuscita la Tarsu. Decisione entro il 30/11.
Resta la maggiorazione Tares. Il
colpo di scena inserito nel decreto Imu pone però più di
un problema applicativo.
I comuni potranno decidere di abbandonare la Tares e di
continuare ad applicare anche per quest'anno il medesimo
tributo o la medesima tariffa relativi alla gestione dei
rifiuti urbani utilizzati nel 2012.
L'ennesimo colpo di scena nella grottesca vicenda del
tributo su rifiuti e servizi introdotto dal governo Monti
arriva con un emendamento alla legge di conversione del
decreto Imu (dl 102/2013), approvato alla camera. In
pratica, i sindaci potranno decidere di pensionare
anticipatamente la Tares. Dal prossimo anno, infatti,
entrerà in vigore un nuovo prelievo (il Trise), la cui
disciplina sarà definita dalla legge di stabilità in
discussione in questi giorni.
L'emendamento approvato a
Montecitorio consente di mantenere il regime (tributario o
tariffario) già applicato nel 2012. A tal fine, occorre un
«provvedimento» da adottarsi entro il termine fissato per
l'approvazione del bilancio di previsione, ovvero entro il
30 novembre. Tale scadenza sembra riguardare anche gli enti
che hanno già licenziato il preventivo, mentre la competenza
sembra essere pacificamente da attribuire ai consigli
comunali. Gli unici paletti validi per tutti i comuni
riguardano la maggiorazione per i servizi indivisibili, che
non potrà in nessun caso essere toccata, e la
predisposizione e l'invio ai contribuenti del relativo
modello di pagamento (su cui, peraltro, regna l'incertezza
più assoluta dopo il dissidio interpretativo fra Mef e Ifel).
Solo per chi intenda continuare ad applicare la Tarsu, è
previsto un ulteriore vincolo: in tal caso, si legge
nell'emendamento, «la copertura della percentuale dei costi
eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve
assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai
proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del
comune». Tale novella si inserisce in modo assai
problematico nel già caotico quadro normativo della Tares,
frutto di continue modifiche e stratificazioni successive.
Accanto alla disciplina generale contenuta nel dl 201/2011,
infatti, il testo vigente del dl 102 ha già introdotto una
modalità alternativa che dovrebbe consentire ai comuni di
staccarsi da quanto previsto dal dpr 158/1999 e rispolverare
i criteri delle tariffe Tarsu, ovvero prevedere un regime
misto, come già sperimentato da molti comuni che in regime
di Tarsu applicavano in parte i criteri della Tia. Anche
nella Tares «semplificata», peraltro, vige l'obbligo di
copertura integrale dei costi (art. 5, comma 3, del dl 102).
Ora, l'emendamento introduce una terza strada, ovvero la «continuità
di regime» fra l'anno in corso e il 2012: in tal caso,
quindi, l'obbligo di copertura integrale dei costi dovrebbe
saltare. Per questi ultimi, peraltro, si pone una questione
in più: è possibile modificare la tariffe applicate lo
scorso anno? La formulazione dell'emendamento sembrerebbe
escluderlo, imponendo di ricorrere al gettito di altri
tributi/tariffe. In senso contrario, depone, però,
l'avverbio «eventualmente»
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
TRIBUTI: Per i rifiuti rispunta la Tarsu.
Possibile applicare anche nel 2013 tasse e tariffe dell'anno
scorso. Ambiente. Via libera da un emendamento al decreto «Imu-2» -
Resta in campo la maggiorazione statale.
PER LA TARES/
Confermato l'obbligo di inviare il modello precompilato ai
contribuenti e di utilizzare per i pagamenti il bollettino
postale o l'F24.
Indietro tutta sulla Tares, che dopo mesi di contorcimenti
normativi rischia di sparire ancora prima di essere
applicata. Con l'emendamento al decreto «Imu-2» (Dl
102/2013) approvato alle commissioni Bilancio e Finanze
della Camera (primo firmatario Luca Pastorino) che riesuma
le vecchie Tarsu e Tia si apre un'autostrada per i Comuni
che intendono buttare a mare tutti i problemi del nuovo
tributo e tornare al prelievo utilizzato fino all'anno
scorso, nell'attesa che esca dalle nebbie la service tax
prevista nel 2014.
Nei 6.700 enti che applicavano la Tarsu,
questo significa rinunciare anche alla copertura integrale
dei costi del servizio, imposti dalla Tares, per tornare
alle vecchie forme di finanziamento. Con un unico vincolo:
la Tarsu o la Tia riesumate dall'emendamento dovranno essere
accompagnate dalla maggiorazione da 30 centesimi al metro
quadrato, perché vale un miliardo, va allo Stato e da questo
punto di vista la condizione del bilancio centrale non
ammette ripensamenti.
Per artigiani, ristoratori e in genere per le attività
commerciali più colpite dagli aumenti imposti dal nuovo
tributo è un'ottima notizia, naturalmente. Per le
amministrazioni locali si tratta invece di rifare per
l'ennesima volta i calcoli, su un tributo che sta
contendendo con successo all'Imu il record delle modifiche
in corso d'opera. «Siamo esterrefatti e ammutoliti, ci
arrendiamo», spiegano le aziende pubbliche del settore
riunite in Federambiente in una nota che la butta
sull'ironia (amara).
Proprio la confusione costante che circonda il tributo
spingerà moltissimi Comuni a tornare sulla vecchia strada di
Tarsu o Tia. Un altro emendamento al decreto «Imu-2», che
nella sua versione originaria impone agli enti di spedire ai
contribuenti modelli (F24 o bollettino postale) precompilati
con l'importo da pagare, ha appena stabilito che in caso di
mancato invio del modello non si applicano le sanzioni per
«insufficiente versamento». Una regola di favore per venire
incontro ai contribuenti disorientati, che però rischia di
"sanare" ex ante tutti i versamenti insufficienti e aprire
buchi nei conti di Comuni e aziende.
Le amministrazioni
infatti hanno parecchi problemi già con la prima rata, assai
meno complicata rispetto al saldo, come mostrano i casi di
città che non sono ancora riuscite ad avvertire tutti i
contribuenti sull'importo da pagare: è accaduto per esempio
a Milano, dove il Comune ha avvertito che in questi casi non
ci saranno sanzioni per i versamenti in ritardo (la scadenza
era al 30 settembre), senza ovviamente parlare di quelli
insufficienti.
I tanti correttivi piovuti sulla Tares, inoltre, non si sono
occupati di altri problemi ancora aperti sul tributo. È il
caso, per esempio, delle forme di pagamento: l'ultima rata
rimane ancora vincolata a F24 e bollettino postale, e quindi
non permette di utilizzare Mav, Rid e le altre modalità
automatiche impiegate finora. Restano tutti da chiarire
anche i criteri di calcolo "alternativi" al metodo
normalizzato introdotti dallo stesso decreto «Imu-2». Tra
nodi applicativi irrisolti e rischi di aumenti a grappolo,
saranno quindi moltissimi i Comuni che torneranno alla Tarsu,
anche se la sua mancata armonizzazione con i principi Ue
(prima di tutto quello del «chi inquina paga») ne richiedono
l'abolizione dal lontano 1997 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
TRIBUTI:
A differenza della tassa
di occupazione (costituente espressione della potestà
impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui
la legge attribuisce il valore di indice di capacità
contributiva), il canone in questione (ndr: canone
patrimoniale per la concessione di spazi e aree pubbliche
previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992) ha natura di
corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al
monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di
un bene comune.
Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso la
discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata dalla
suddivisione degli stessi in cinque classi per numero di
abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i
principi relativi al canone di concessione dettati dall’art.
27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della
strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di
discrezionalità.
---------------
Reputa il Collegio che il criterio adottato dal Comune di
fare riferimento, in metri lineari, alla proiezione
ortogonale sul suolo del lato maggiore della struttura, sia
del tutto aderente alla norma attributiva del potere, nella
parte in cui essa indirizza l’amministrazione ad incorporare
nel corrispettivo il “valore economico risultante dal
provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio che
l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in
questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di
commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata
(la quale non è indice affidabile della potenzialità di
ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali
dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non
arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario
con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.
Il primo motivo si appunta sulla previsione di
regolamento comunale che, nel disciplinare l’applicazione
del canone patrimoniale per la concessione di spazi e aree
pubbliche previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992,
individua quale criterio per la determinazione delle
tariffe, sia per i cartelloni pubblicitari che per le
pensiline: “la proiezione ortogonale sul suolo del lato
maggiore della porzione di struttura predisposta per
l’installazione dei messaggi pubblicitari al metro lineare”.
All’uopo, si lamenta che il nuovo metodo di calcolo sarebbe
in contrasto con i parametri fissati dall’art. 27 citato,
dal momento che esso non potrebbe certo considerarsi
riferito all’effettiva insistenza sul suolo, considerato
che, se un’area può occupare dello spazio e incidere sul
suolo, lo stesso non potrebbe dirsi di una linea (ovvero,
della base dell’impianto, espressa in metri lineari). Né
potrebbe rilevare, in senso contrario, la presunta remuneratività di un impianto di maggior superficie
espositiva, posto che la ratio dell’imposizione
sull’occupazione di suolo pubblico non sarebbe la pubblica
partecipazione al reddito degli impianti, bensì il
corrispettivo per l’utilizzo di una porzione di suolo
pubblico.
Per contro, il criterio previsto dal regolamento
del 2003, che fissava il canone in considerazione dei metri
quadrati risultanti dall’area ottenuta con la proiezione
ortogonale sul suolo del mezzo istallato, sarebbe stato
effettivamente parametrato sull’insistenza sul suolo,
poiché, considerando sia la lunghezza della base che lo
spessore dell’impianto, veniva identificata una specifica
porzione di spazio sottratta dal cartello all’uso pubblico
del suolo.
Per gli stessi motivi (ovvero, per violazione del
parametro dell’effettiva soggezione sul suolo posto
dall’art. 27 del d.lgs. 285/1992), sarebbe, altresì,
illegittima anche l’introduzione della differenziazione
tariffaria per l’ipotesi della pubblicità mono e bifacciale
(sia sulle pensiline che sui poster): la doppia esposizione,
infatti, non implicherebbe occupazione di una porzione di
strada maggiore rispetto a quella singola.
Il motivo non può essere accolto.
Occorre premettere che, a differenza della tassa di
occupazione (costituente espressione della potestà
impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui
la legge attribuisce il valore di indice di capacità
contributiva), il canone in questione ha natura di
corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al
monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di
un bene comune. Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso
la discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata
dalla suddivisione degli stessi in cinque classi per numero
di abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i
principi relativi al canone di concessione dettati dall’art.
27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della
strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di
discrezionalità.
La norma da ultimo citata, nel dettaglio, statuisce che: “Nel
determinare la misura della somma si ha riguardo alle
soggezioni che derivano alla strada o autostrada, quando la
concessione costituisce l’oggetto principale dell’impresa,
al valore economico risultante dal provvedimento di
autorizzazione o concessione e al vantaggio che l’utente ne
ricava". Orbene, richiamata la natura del canone in
questione, reputa il Collegio che il criterio adottato dal
Comune di fare riferimento, in metri lineari, alla
proiezione ortogonale sul suolo del lato maggiore della
struttura, sia del tutto aderente alla norma attributiva del
potere, nella parte in cui essa indirizza l’amministrazione
ad incorporare nel corrispettivo il “valore economico
risultante dal provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio
che l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in
questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di
commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata
(la quale non è indice affidabile della potenzialità di
ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali
dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non
arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario
con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.
Parimenti deve dirsi quanto al rilievo accordato dal
regolamento all’utilizzo mono -facciale o bifacciale della
struttura, poiché è finanche intuitivo che tale doppia
proiezione porta seco un maggiore valore di realizzo
economico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
G.U. 04.10.2013 n. 233 "Ripartizione del contributo ai
comuni per il ristoro del minor gettito IMU 2013" (Ministero
dell'Interno,
decreto 27.09.2013). |
TRIBUTI: Sconti senza paletti. Niente condizioni sui bonus Ici.
Ctr:
agevolazioni svincolate da obblighi dichiarativi.
Un comune non può subordinare un'agevolazione Ici a un
obbligo dichiarativo non previsto dalla legge statale. In
ogni caso, non può dichiararsi la decadenza dal beneficio
del soggetto che non abbia adempiuto a tale onere
supplementare. Gli avvisi di accertamento emessi dall'ente
locale sulla base di tale disposizione regolamentare
risultano quindi viziati da eccesso di potere.
È quanto ha
stabilito la Ctp di Campobasso con la sentenza 01.10.2013 n. 144/1/13.
Il caso in questione vedeva due fratelli ricorrere contro
una serie di rettifiche operate dall'ufficio tributi
comunale in materia di Ici.
I ricorrenti avevano adibito gratuitamente un immobile ad
abitazione principale dei propri genitori. Tuttavia, il
comune aveva proceduto alla contestazione fiscale, in quanto
il regolamento Ici adottato dall'amministrazione prevedeva
l'obbligo della presentazione di apposita preventiva
dichiarazione ai fini dell'applicazione dell'esenzione sulla
prima casa concessa in uso gratuito a parenti e/o affini
entro il 1° grado.
Una tesi che non trova però concorde i giudici molisani. Il
dl n. 223/2006, in un'ottica di semplificazione degli
adempimenti, aveva infatti soppresso l'obbligo di presentare
la dichiarazione Ici. «La pretesa del comune di Campobasso
di sottoporre il riconoscimento dell'agevolazione prima casa
per parenti e affini alla presentazione di una dichiarazione
preventiva», spiega la sentenza, «risulta assai poco
coerente con il complesso sistema impositivo dell'Ici».
Anche la Cassazione, con la pronuncia n. 13151 del 28.05.2010, si era espressa in tal senso.
Peraltro, secondo la Ctp, il comune ha anche violato il
principio di collaborazione tra cittadini ed ente impositore
previsto dall'articolo 10 della legge n. 212/2000 (Statuto
del contribuente). «Il rispetto di tale principio e della
regola del preventivo contraddittorio», osservano i
magistrati tributari, «avrebbe consentito una rapida
chiarificazione della posizione dei due contribuenti ed
evitato i costi (in termini di lavoro, tempo e denaro)
connessi agli accertamenti e ai procedimenti giudiziari in
corso». Da qui l'annullamento degli avvisi impugnati e
la condanna dell'ente alle spese di lite
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
settembre 2013 |
 |
TRIBUTI:
La tassa sui rifiuti è sempre dovuta.
In tema di Tarsu-Tia, lo smaltimento dei rifiuti ordinari in
maniera autonoma, a proprie spese, insieme a quelli
speciali, non esonera l'azienda dal pagamento della tassa
comunale. L'obbligo di versamento scatta comunque, al di là
del fatto che si utilizzi il servizio pubblico o meno.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza
27.09.2013 n.
89/22/13 emessa dalla Sez. XXII della Ctr Lombardia.
Nella sentenza menzionata, il collegio regionale lombardo
capovolge la decisione dei colleghi di prima istanza della
Ctp di Milano, che avevano annullato la pretesa del comune
di Varedo, e stabilisce che la tassa sui rifiuti è comunque
dovuta, indipendentemente dall'utilizzo del servizio
pubblico.
«In tema di autosmaltimento», osservano i giudici meneghini,
«il costo relativo alla gestione dei rifiuti solidi urbani e
di quelli assimilabili grava sui cittadini indipendentemente
dal fatto che si utilizzi il servizio medesimo».
Infatti, la Commissione precisa che il tributo è rapportato
unicamente alla superficie occupata a qualsiasi uso
destinata; solo per i rifiuti speciali, tossici, pericolosi
o nocivi, il produttore è obbligato allo smaltimento in
proprio, con l'esonero dal tributo, ferma restando la
tassazione sui rifiuti ordinari.
La legittimità della richiesta è suffragata dal fatto che il
comune si sia attenuto alle superfici dichiarate dalla
società, sulla base della denuncia dalla stessa prodotta.
Nel caso specifico, anche gli imballaggi sono stati
ricondotti dal comune alla categoria dei rifiuti speciali
non pericolosi e pertanto assimilabili agli urbani (articolo ItaliaOggi
Sette del 24.02.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Rito tributario, atti pubblici.
A processo finito sempre possibile conoscere i documenti.
La sentenza del Consiglio di stato sul diritto di accesso a
conclusione dei procedimenti.
Deve ritenersi sussistente il
diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario
ormai concluso.
Lo ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato con
sentenza 26.09.2013 n. 4821.
I giudici amministrativi hanno osservato che sebbene l'art.
24, della legge 241/1990 vada a escludere il diritto
d'accesso nei procedimenti tributari, per i quali restano
ferme le particolari norme che li regolano, «è da
ritenere che la norma debba essere intesa, secondo una
lettura della disposizione costituzionalmente orientata, nel
senso che la inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di
segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di
accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi
reddituali che conducono alla quantificazione del tributo.
In ragione di ciò deve riconoscersi il diritto di accesso
qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento,
con l'emanazione del provvedimento finale».
È stato poi osservato che si profilano precisi obblighi in
capo al concessionario alla riscossione, infatti ai sensi
dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, recante
disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito, «il
concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o
la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta
notificazione o l'avviso del ricevimento e ha l'obbligo di
farne esibizione su richiesta del contribuente o
dell'amministrazione».
Pertanto i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come
la cartella esattoriale costituisca presupposto di procedure
esecutive e, quindi, risulta strumentale alla tutela dei
diritti del contribuente la richiesta di accesso alla
cartella, in tutte le forme consentite dall'ordinamento
giuridico considerate più rispondenti ed opportune e quindi
essa deve essere rilasciata, in copia, dalla società
concessionaria al contribuente che abbia proposto, o voglia
proporre ricorso, avverso atti esecutivi iniziati nei suoi
confronti.
Una tesi diversa andrebbe a determinare una vera e propria
limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del
contribuente, o, comunque, rendere estremamente difficoltosa
la tutela giurisdizionale del contribuente che dovrebbe
impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle
cartelle. E una tale limitazione finirebbe col collidere con
i principi costituzionali posti a garanzia della tutela
giurisdizionale, oltre che con il principio, di rango
costituzionale, di razionalità
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Equitalia di vetro.
Accesso alle cartelle esattoriali. A
contenzioso concluso.
Equitalia non può negare l'accesso alle cartelle esattoriali
se la richiesta riguarda atti di un procedimento tributario
concluso.
Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 26.09.2013 n. 4821.
La controversia verte sulla richiesta di accesso proposta da
un contribuente nei confronti del concessionario della
riscossione, avente ad oggetto l'integrale produzione di
ciascuna cartella esattoriale per consentire all'interessato
di conoscere il complessivo ammontare e le relative causali
delle pretese fiscali o tributarie a suo nome.
L'istanza era stata rigettata dal momento che si trattava di
procedimenti tributari e che la richiesta del contribuente
riguardava ben 55 cartelle di pagamento.
Il Consiglio di stato ritiene il diniego illegittimo.
Infatti, sebbene l'art. 24, legge n. 241 del 1990 escluda il
diritto d'accesso, tra l'altro, nei procedimenti tributari,
per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano, è da ritenere che questa norma debba essere
intesa, secondo una lettura della disposizione
costituzionalmente orientata, nel senso che
«l'inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di
segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di
accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi
reddituali che conducono alla quantificazione del tributo».
Deve, quindi, riconoscersi il diritto di accesso qualora
l'Amministrazione abbia concluso il procedimento con
l'emanazione del provvedimento finale e quindi, in via
generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere
agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
Secondo il Collegio, dal momento che la cartella esattoriale
costituisce presupposto di procedure esecutive, la richiesta
di accesso è strumentale alla tutela dei diritti del
contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento
giuridico ritenute più rispondenti e opportune. Ritenere
diversamente implicherebbe, sostanzialmente, introdurre una
limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del
contribuente, o, in ogni caso, rendere estremamente
difficoltosa la tutela giurisdizionale del contribuente che
dovrebbe impegnarsi in una faticosa ricerca delle copie
delle cartelle. Questa limitazione colliderebbe con i
principi costituzionale che garantiscono la tutela
giurisdizionale, e con il principio, di rango
costituzionale, di razionalità
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
TRIBUTI: Tia, rifiuti speciali esonerati anche dalla quota fissa
È illegittimo il regolamento comunale sulla Tia che prevede
l'applicazione della quota fissa della tariffa per le
attività le cui superfici sono produttive di rifiuti
speciali. Queste superfici sono totalmente escluse dalla
tassazione.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, V Sez., con la
sentenza
26.09.2013 n. 4756.
La
regola vale anche per la Tarsu, la Tares e il nuovo tributo
sui rifiuti (Tari) che entrerà in vigore il prossimo anno.
Per i giudici di palazzo Spada, il comune non ha alcun
potere regolamentare di disciplinare il trattamento fiscale
dei rifiuti speciali né di deliberare «la tariffa seppure
limitata alla componente fissa». In effetti, il tributo
sui rifiuti non può essere applicato sulle superfici o sulle
aree nelle quali, per specifiche caratteristiche strutturali
o per destinazione, si producono rifiuti speciali. Tuttavia
le superfici in cui vengono prodotti anche rifiuti speciali
non sono né escluse dal tributo né esenti.
Nella determinazione della superficie non si tiene conto
solo di quella parte di essa dove si formano questi rifiuti,
allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a
proprie spese i produttori stessi in base alle norme
vigenti. Quindi, non si conteggia la parte di superficie che
ha questa destinazione nell'ambito di un immobile. E
l'esclusione dell'obbligo di conferire i rifiuti al servizio
pubblico si ha solo nei casi in cui sia fornita
dimostrazione del loro avvio al recupero, con attestazione
di ricevuta da parte dell'impresa incaricata del
trattamento.
Qualora il produttore abbia fornito la prova di aver avviato
effettivamente al recupero i rifiuti, per la relativa
superficie non è prevista la detassazione ma una riduzione
della misura della tassa che il comune ha facoltà di
stabilire con un'apposita norma regolamentare rapportata
proporzionalmente «all'entità del recupero rispetto alla
produzione complessiva dei rifiuti» (circolare del
ministero delle finanze n. 111/1999).
La riduzione della tassa può quindi essere calcolata in base
a un coefficiente di proporzionalità rispetto ai rifiuti
destinati al recupero. Fermo restando che, anche nelle
ipotesi di recupero totale dei rifiuti, idoneamente
documentato, non si ottiene l'esonero totale
dall'assoggettamento al prelievo tributario, in quanto lo
stesso è finalizzato a coprire i costi comuni e collettivi
del servizio. Spetta al contribuente provare quale parte
dell'immobile debba essere esclusa dalla tassazione
(articolo ItaliaOggi
del 16.11.2013). |
TRIBUTI:
Rifiuti. Tariffa rifiuti aree produttive.
Con l’art. 195, comma 2, lett. e), del
d. lgs. n. 152 del 2006 si è dettata una normativa chiara e
coerente con i principi comunitari, essendosi stabilito che
“non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si
formano nelle aree produttive, compresi i magazzini di
materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti
negli uffici, nelle mense, negli spacci, nei bar e nei
locali di servizio dei lavoratori o comunque aperti al
pubblico”.
In quanto non assimilabili, i rifiuti che si formano nelle
aree produttive, salve le eccezioni sopra elencate, sfuggono
al regime transitorio e si pongono al di fuori della
privativa comunale. Il che comporta che questi rifiuti non
possono essere conferiti al servizio pubblico di raccolta
dei rifiuti urbani, ma come stabilisce l’art. 188, comma 2,
lett. c), del d.lgs. n. 152 del 2006 e la remunerazione del
servizio deve essere assicurata attraverso apposita
convenzione e, quindi, attraverso un canone o tariffa
rapportata prevalentemente ai volumi e pesi conferiti
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4756 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Impossibile il passaggio dalla Tarsu alla Tia-1.
Decisione a forte rischio di contenzioso per i Comuni.
Consiglio di Stato. Ammessi in via transitoria
gli atti deliberativi già assunti.
Dopo l'entrata
in vigore del codice ambientale è possibile effettuare il
passaggio solamente alla Tia2, non più alla Tia1.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato -Sez. V- con la
sentenza 26.09.2013 n. 4756, che ha dichiarato
l'illegittimità di un regolamento comunale istitutivo della
Tia1, approvato a giugno 2011.
All'origine della controversia una norma regolamentare che
imponeva di applicare la quota fissa della Tia anche alle
superfici produttive di rifiuti speciali (non smaltiti dal
Comune), che invece avrebbero dovuto essere totalmente
escluse dalla tassazione. Disposizione ritenuta in contrasto
con il principio comunitario "chi inquina paga", di
immediata e diretta applicazione nella legislazione
nazionale.
Ma i giudici di Palazzo Spada vanno oltre, affermando che
dal 29.04.2006 –data di entrata in vigore del Dlgs
152/2006– non è più ammissibile il passaggio alla tariffa
Ronchi, in quanto soppressa. In via transitoria è invece
tollerata la vigenza degli atti deliberativi già assunti,
mentre è possibile istituire solamente la Tia2, di cui
all'articolo 238 del Dlgs 152/2006. Niente passaggio, quindi,
dalla Tarsu alla Tia1.
Il blocco
La conclusione, tuttavia, non tiene conto del blocco di
regime durato quattro anni (dal 2007 al 2010), periodo
durante il quale non era comunque possibile cambiare
prelievo, ad eccezione dei Comuni della provincia di Trento,
in quanto a legislazione speciale. Quindi il principio
affermato dal Consiglio di Stato riguarderebbe un breve
periodo del 2006 (dal 29 aprile al 31 maggio) e le ultime
due annualità di vigenza della Tarsu, cioè il 2011 e il
2012. Il Dl 208/08 consentiva infatti di effettuare il
passaggio alla "tariffa integrata ambientale (Tia)" solo in
caso di mancata approvazione, entro il 30.06.2010,
dell'apposito regolamento statale previsto dal Dlgs
152/2006.
Inoltre, nella sentenza 4756/2013 non c'è alcun
riferimento al Dlgs 23/2011, che consente ai Comuni di
continuare ad applicare i regolamenti comunali approvati in
base alla normativa concernente la Tarsu e la Tia, ferma
restando la possibilità di adottare la "tariffa integrata
ambientale". Stessa definizione utilizzata nel 2008, che non
trova tuttavia riscontro nell'articolo 238 del Dlgs 152/2006
(Tia2), riferito alla "tariffa per la gestione dei rifiuti".
Insomma, la lettura offerta dal Consiglio di Stato non è del
tutto scontata, anche perché il passaggio obbligato alla
Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura
extratributaria (così definita dal Dl 78/2010), con
rilevanti problemi di natura applicativa per mancanza di
sanzioni, di poteri di accertamento eccetera.
Lo scenario
Si apre, peraltro, uno scenario a forte rischio di
contenzioso per i Comuni, pur escludendo la possibilità di
impugnativa davanti ai Tar per scadenza dei termini. I
contribuenti potrebbero comunque contestare le richieste di
pagamento, chiedendo alle commissioni tributarie la
disapplicazione dei regolamenti istitutivi della Tia1,
ancorché con una efficacia limitata al singolo caso.
---------------
Sotto la lente
01 | Il principio
Secondo il Consiglio di Stato, dopo l'entrata in vigore del
Codice ambientale, Dlgs 152/2006, avvenuta il 29.04.2006, si poteva effettuare soltanto il passaggio dalla Tarsu
alla Tia2
02 | Il problema
La conclusione non tiene conto del fatto che per quattro
anni (dal 2007 al 2010) c'è stato un blocco di regime,
ragion per cui il principio riguarderebbe solo un mese del
2006 e gli ultimi due anni di vigenza della Tarsu (2011 e
2012).
Considerando anche che il passaggio obbligato alla
Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura
extratributaria, si prefigura la possibilità che i
contribuenti contestino le richieste di pagamento e chiedano
di disapplicare i regolamenti istitutivi della Tia1
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.10.2013). |
TRIBUTI:
Il pareggio di bilancio giustifica l'aumento dell'aliquota Imu.
I comuni possono aumentare l'aliquota di base Imu anche per
gli immobili posseduti dai soggetti per i quali la legge gli
concede la facoltà di riconoscere un trattamento agevolato.
E non è imposto all'ente di giustificare l'aumento del
prelievo con una motivazione ad hoc. L'aumento dell'aliquota
può essere finalizzato all'obbiettivo di raggiungere il
pareggio di bilancio. Il fatto che il legislatore
attribuisca all'amministrazione locale il potere di ridurre
per determinati immobili in misura percentuale l'aliquota di
base (0,76%), non le impedisce però di poterla aumentare e
di riservare lo stesso trattamento delle altre unità
immobiliari.
Per esempio, i giudici amministrativi hanno
respinto i ricorsi proposti dai titolari di immobili di
edilizia residenziale pubblica (Ater, Iacp) per il 2012, nei
casi in cui i comuni non solo non hanno assicurato il
trattamento agevolato previsto dalla legge per l'abitazione
principale, ma addirittura hanno aumentato l'aliquota di
base fissata per le seconde case. In effetti, per queste
unità immobiliari l'articolo 13 del dl Monti (201/2011)
aveva limitato il beneficio solo alla detrazione d'imposta.
Solo da quest'anno il dl sulla finanza locale (102/2013) li
equipara a tutti gli effetti all'abitazione principale.
Di
recente il Tribunale amministrativo regionale per la
Liguria, seconda sezione, con la sentenza 1088 del 19.07.2013, ha ritenuto legittima la delibera del comune che ha
aumentato l'aliquota di base per gli immobili posseduti
dalle imprese, nonostante il decreto Monti (articolo 13,
comma 9) abbia disposto la facoltà degli enti di ridurre
l'aliquota fino allo 0,4% per i soggetti Ires, vale a dire i
soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle società.
Per
il giudice amministrativo, il dl 201/2011 «ha determinato i
margini di manovra a disposizione dei comuni per realizzare
una «personalizzazione» delle aliquote a livello di singolo
ente». Con deliberazione consiliare possono modificare
l'aliquota di base, in aumento o in diminuzione, fino a 0,3
punti percentuali. Dunque, gli immobili dell'impresa possono
fruire dell'aliquota ridotta solo qualora i comuni abbiano
ritenuto di deliberare una misura di favore. Anche queste
unità immobiliari sono soggette all'aliquota di base,
«eventualmente modificabile in aumento entro il limite di
0,3 punti percentuali».
Peraltro l'aumento non richiede una
specifica motivazione, trattandosi di un atto generale.
L'aumento dell'aliquota può essere giustificato dalla
necessità di garantire il pareggio di bilancio. Tuttavia,
mentre comunemente si ritiene che non sia necessario
motivare gli atti generali, delibere Imu comprese, non c'è
uniformità di vedute in giurisprudenza sull'obbligo di
indicare le ragioni in fatto e in diritto degli aumenti
delle tariffe della tassa per lo svolgimento del servizio di
raccolta e smaltimento rifiuti.
Il Consiglio di stato
(sentenza 5616/2010) ha sostenuto che il comune deve
motivare la delibera che aumenta le tariffe Tarsu per
coprire i costi del servizio. E non si può invocare la
necessità di assicurare la copertura totale della spesa,
senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costi
del servizio
(articolo ItaliaOggi del
25.09.2013). |
ENTI
LOCALI - TRIBUTI:
Oggetto: Decreto legge 31.08.2013, n. 102 – Nota di
lettura (ANCI Emilia Romagna,
nota 19.09.2013 n. 147 di prot.).
---------------
... in materia di IMU, TARES, differimento termine
approvazione bilancio preventivo.
---------------
Chi
ha approvato i bilanci può rivedere le aliquote.
Anche i comuni che hanno già approvato il bilancio possono
rimettere mano ai propri tributi fino al 30 novembre.
Lo
afferma una nota interpretativa del decreto Imu diffusa
dall'Anci Emilia-Romagna. Ma tale interpretazione necessita
di una conferma ufficiale da parte del Mef.
Come noto, l'art. 8 del dl 102/2013 ha differito alla
predetta data il termine per l'approvazione del preventivo
per l'anno in corso. Il legislatore non si è premurato di
precisare gli effetti della proroga nei confronti degli enti
che già avevano tagliato il traguardo dell'approvazione. In
tal modo, per questi ultimi, si ripropone la querelle sulla
possibilità di modificare le proprie aliquote o i propri
regolamenti tributari anche dopo il varo del bilancio,
purché ovviamente entro la dead-line fissata per gli altri
enti.
L'Anci propende per la tesi affermativa, ritenendo
sufficiente a tal fine una semplice «variazione» del
documento contabile già perfezionato, secondo quanto
chiarito dalla risoluzione del Dipartimento delle politiche
fiscali n. 1/2011. Per la verità, la questione non pare del
tutto pacifica, in presenza di pronunce difformi della Corte
dei conti (si veda, ad esempio, il parere n. 205/2011 della
Sezione regionale di controllo per la Lombardia), che hanno
sostenuto, invece, la necessità di procedere alla «riapprovazione»
del bilancio.
Del resto, la stessa risoluzione del Mef
ribadiva l'inderogabilità del principio della variazione
della disciplina dei tributi comunali entro il termine
stabilito dalla legge per l'approvazione del bilancio,
sottolineando il carattere propedeutico al bilancio stesso
delle deliberazioni riguardanti le entrate, e ne ammetteva
una parziale deroga solo considerazione della «particolare
tempistica» delle novità all'epoca introdotte dal dlgs
23/2011 in materia di addizionale Irpef.
Sarebbe quindi opportuno che dal Mef arrivasse un nuovo
chiarimento ufficiale. Se, viceversa, dovesse prevalere una
linea interpretativa più rigida, i numerosi comuni che hanno
già approvato il bilancio 2013 aumentando l'aliquota dell'Imu
sull'abitazione principale avrebbero enormi difficoltà ad
apportare le necessarie correzioni, con forti rischi per gli
equilibri contabili se lo Stato non dovesse riconoscere loro
il rimborso integrale del mancato gettito
(articolo ItaliaOggi del
27.09.2013). |
TRIBUTI:
Aree verdi, no Ici.
Niente imposta se c'è il vincolo. La Ctr Milano: lo spazio pubblico non è edificabile.
Se un terreno è sottoposto a vincoli non può essere
assoggettato all'Ici e all'Imu. Quindi, se un'area è
compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale
a verde pubblico attrezzato il contribuente non è tenuto a
versare l'imposta municipale.
Secondo la Commissione
tributaria regionale di Milano (sentenza n. 71/2013) il vincolo
di destinazione non consente di dichiarare l'area
edificabile, poiché al contribuente viene impedito di
operare qualsiasi trasformazione del bene. In effetti, si
discute da tempo sulla legittimità dell'assoggettamento a
Ici delle aree vincolate. Del resto, la giurisprudenza sia
di merito che di legittimità non ha assunto una posizione
univoca.
Per la commissione regionale, se lo strumento urbanistico
vigente destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e
sport, rende «palese e percepibile il vincolo di utilizzo
meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità».
Nella sentenza viene richiamata una pronuncia della
Cassazione che ha fissato questo principio, che però non è
assolutamente pacifico.
I precedenti della Cassazione. Con sentenza 25672/2008 i
giudici di legittimità hanno stabilito che se il piano
regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia
destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione
urbanistica impedisce al privato di poter edificare. Dunque,
l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se
l'edificabilità è prevista dallo strumento urbanistico. La
natura edificabile delle aree comprese in zona destinata a
verde pubblico attrezzato impedisce ai privati la
trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica
di edificazione. In questi casi, la finalità è quella di
assicurare la fruizione pubblica degli spazi.
Mentre, con la sentenza 19131/2007 aveva sostenuto il
contrario e cioè che l'Ici fosse dovuta su un'area
edificabile anche se sottoposta a vincolo urbanistico e
destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore
di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a
imposizione. Con questa decisione, tra l'altro, i giudici
avevano precisato che l'Ici non «ricollega il presupposto
dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla
sua attitudine a incrementare il proprio valore o il reddito
prodotto». Il valore dell'immobile assume rilievo solo per
determinare la misura dell'imposta. L'area doveva essere
considerata edificabile anche se qualificata «standard» e
vincolata a esproprio.
Quindi, le aree edificabili sono soggette all'imposta anche
se vincolate per essere espropriate. La destinazione
edificatoria permane anche dopo la decadenza dei vincoli.
Naturalmente, i limiti incidono sul valore venale del bene.
Con l'ordinanza 16562/2011 la Suprema corte ha ribadito che
la qualifica di area fabbricabile non può ritenersi esclusa
se esistono particolari limiti che condizionano le
possibilità di edificazione del suolo. Anzi, i limiti
imposti a un terreno presuppongono la sua vocazione
edificatoria.
Con questa decisione i giudici hanno ritenuto
che i limiti imposti dal piano regolatore «incidendo sulle
facoltà dominicali connesse alle possibilità di
trasformazione urbanistico-edilizia del suolo medesimo, ne
presuppongono la vocazione edificatoria». Peraltro, la
destinazione dell'area «permane anche dopo la decadenza dei
vincoli preordinati all'espropriazione» per finalità
pubbliche. Tuttavia, i vincoli incidono «sulla concreta
valutazione del relativo valore venale e, conseguentemente,
della base imponibile». È evidente che il contribuente che
si trovi in questa situazione paga un'imposta minore, che
deve essere rapportata al ridotto valore del terreno.
La definizione di area in base al diritto comunitario. È
stato precisato dalla Cassazione (sentenza 20097/2009) che
rientra nella competenza degli stati membri della Comunità
europea la qualificazione delle aree edificabili. Ed è in
linea col sistema comunitario la scelta dello stato italiano
di fissare al momento dell'adozione dello strumento
urbanistico generale la qualificazione dell'area, anche nel
caso in cui non siano state adottate misure che consentano
l'effettiva edificazione.
L'ordinamento italiano non
contiene una definizione generale di terreno edificabile.
C'è piuttosto nel sistema fiscale una tendenza a
ricomprendere in questa categoria, per determinare la base
imponibile di alcuni tributi, e per quanto è di nostro
interesse per l'Ici e l'Imu, tutte le aree la cui
destinazione edificatoria sia prevista dallo strumento
urbanistico generale deliberato dal comune, anche in
mancanza dei previsti atti di controllo (approvazione
regionale) e degli strumenti attuativi.
In realtà non interessa, ai fini fiscali, che il suolo sia
immediatamente edificabile: quello che conta, secondo i
giudici di legittimità, è che «sia stata conclusa una
fase rilevante del procedimento per attribuire all'area la
natura edificatoria o per modificare le precedenti
previsioni che escludevano tale destinazione» (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.09.2013). |
TRIBUTI: Classamento con motivazione.
Domanda
Ho ricevuto un atto con cui il Catasto ha modificato il
classamento della mia abitazione senza alcuna precisazione
circa le sue motivazioni. Posso ricorrere?
Risposta
La risposta è affermativa. La giurisprudenza della Corte di
cassazione è consolidata nel ritenere illegittimi i
riclassamenti catastali privi di motivazione o dotati di
motivazione meramente apparente.
La recente sentenza n.
18156/2013, fra altre emesse in questi ultimi anni e in
parte in essa richiamate, ribadisce che il provvedimento di riclassamento deve esplicitare se esso sia stato adottato in
ragione di trasformazioni edilizie subite dall'unità (in tal
caso recando l'analitica indicazione di esse) o nell'ambito
di una revisione dei parametri della microzona di ubicazione
dell'immobile giustificata dal significativo scostamento del
rapporto tra valore di mercato e valore catastale rispetto
ad altre microzone comunali (in tal caso recando la
specifica menzione dei rapporti e dello scostamento
rilevato), oppure ancora in relazione alla incongruenza tra
il precedente classamento dell'unità rispetto a fabbricati
similari (in tal caso recando la specifica individuazione di
tali fabbricati, del loro classamento e delle
caratteristiche analoghe che li renderebbero similari
all'unità interessata dal rilassamento).
È, del resto, evidente che in mancanza di tali motivazioni
il contribuente non potrebbe controdedurre in modo
appropriato e sarebbe pertanto inibito rispetto al proprio
diritto di difendersi dalle pretese dell'Amministrazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.09.2013). |
TRIBUTI:
Immobili in comodato d'uso esclusi da esenzioni Imu. Per i
titolari di beni messi a disposizione niente benefici
dall'abolizione della prima tranche. La facoltà di
assimilazione non è riconosciuta agli enti locali.
I titolari degli immobili dati in comodato d'uso gratuito a
parenti, destinati ad abitazione principale, sono tenuti a
pagare l'Imu. Questi soggetti non hanno fruito della
sospensione del pagamento dell'acconto e, quindi, non
possono beneficiare dell'abolizione della prima rata
dell'imposta. E il decreto 102/2013 sull'abolizione dell'Imu
nulla innova in proposito.
I fabbricati dati in comodato non possono più essere
assimilati ex lege all'abitazione principale.
L'articolo 13 del dl Monti (201/2011), infatti, ha
parzialmente abrogato a partire dal 2012 l'articolo 59,
comma 1, del decreto legislativo 446/1997, vale a dire la
norma attributiva del potere regolamentare in materia di
imposta comunale sugli immobili, nella parte in cui
consentiva la comune di considerare abitazioni principali,
con conseguente applicazione dell'aliquota ridotta o della
detrazione, i fabbricati concessi in uso gratuito a parenti
in linea retta o collaterale, stabilendo il grado di
parentela.
Per l'Imu alcune tipologie di assimilazioni sono previste
dalla legge e i benefici spettano a prescindere dalla scelte
del comune. Per esempio, rientrano in questa casistica gli
immobili di edilizia residenziale pubblica posseduti da Iacp
o Ater, utilizzati come prima casa dai soci assegnatari
oppure gli alloggi sociali. Mentre, è demandato all'ente il
potere di assimilare alla prima casa quelli posseduti da
anziani, disabili e residenti all'estero. I proprietari di
questi immobili non pagano la prima rata Imu se i comuni li
hanno già assimilati nel 2012 all'abitazione principale (e
non hanno revocato il beneficio) o intendono farlo per il
2013, in quanto è proprio la norma di legge che prevede che
il trattamento agevolato possa essere concesso per le unità
immobiliari possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, da
anziani o disabili che spostano la residenza in istituti di
ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, nonché
per quelle possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, in
Italia dai cittadini italiani non residenti nel territorio
dello stato, a condizione che non risultino locate.
La facoltà di assimilazione, invece, non è stata
riconosciuta ai comuni per gli immobili dati in comodato
d'uso. Naturalmente nulla impedisce che il comune possa
garantire, a proprie spese, qualche beneficio fiscale (per
esempio, l'aliquota agevolata), ma non si può parlare di
assimilazione all'abitazione principale e di rimborso del
minor gettito da parte dello stato.
Va ricordato che sono rigidi i requisiti per fruire del
trattamento agevolato sugli immobili destinati ad abitazione
principale. L'articolo 13 ha fornito una nuova
qualificazione giuridica della nozione di abitazione
principale, prevedendo che si intende come tale l'unità
immobiliare nella quale il contribuente e il suo nucleo
familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano
stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in
immobili diversi situati nel territorio comunale, le
agevolazioni si applicano per un solo immobile
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2013). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Il bilancio «di previsione» non sarà modificabile.
Impossibile la manovra di salvaguardia al 30 settembre.
Dl Imu. I termini per il preventivo scadono insieme a quelli
per l'assestamento.
Gli enti locali avranno tempo fino al 30 novembre, un mese
prima della fine dell'anno, per approvare il bilancio di
previsione 2013.
La nuova proroga è stata inserita nel Dl
102 del 31.08.2013, che abroga la rata di giugno
dell'IMU sulle abitazioni principali e sulle categorie per
le quali, con il Dl 54/2013, ne era stata disposta la
sospensione. Il Dl prevede altre disposizioni sull'IMU,
rivede la Tares, spostando al 30 novembre i termini per
l'approvazione del Regolamento e delle relative tariffe.
Sono inoltre rinviati ad ulteriori provvedimenti sia
l'eliminazione della rata Imu di dicembre, sia
l'introduzione, dal 2014, della nuova service tax.
Questi i "titoli" del nuovo scenario di breve periodo della
finanza locale. Il metodo, però, va in netta contraddizione
con i principi della sana programmazione. Le conseguenze non
sono rassicuranti, almeno sul piano tecnico e contabile.
Gli enti che non hanno ancora approvato il bilancio hanno
operato finora in dodicesimi, sulla base dell'assestato
2012, i cui valori sono generalmente più alti del relativo
consuntivo. Continuare con la gestione provvisoria fino al
30 novembre significa mettere a rischio gli equilibri di
bilancio, soprattutto sulla parte corrente. Che lo Stato si
faccia carico dell'Imu abrogata è il minimo che ci si
potesse aspettare, ma si dovranno attendere ancora settimane
per l'esatta quantificazione; è, infatti, previsto un
ulteriore decreto del Ministero dell'interno, di concerto
con l'Economia.
Per i Comuni si riduce l'autonomia di agire sulla principale
leva fiscale; e per gli enti che avevano già provveduto ad
innalzare le aliquote per il 2013, tutti i programmi sono da
riesaminare. Approvare il previsionale al 30 novembre
significa, di fatto, approvare il pre-consuntivo,
inglobando, in uno, i provvedimenti della salvaguardia e
dell'assestamento. Dopo il 30 novembre, si ricorda, non sono
più possibili variazioni di bilancio. Si può ancora chiamare
bilancio di previsione un documento non più modificabile ?
E quali sono le conseguenze di questo decreto per gli enti
che hanno già approvato il loro bilancio? Di certo dovranno
adottare le necessarie variazioni di bilancio. Stando alla
tempistica dettata dal decreto, non ci sarebbero i tempi
tecnici per la manovra di salvaguardia da approvare entro il
30 settembre. Alla luce delle modifiche intervenute, che
riguardano anche la Tares, e dei rinvii a nuove disposizioni
sulla seconda rata dell'Imu, si ritiene che, come già
accaduto nel 2012, la salvaguardia dovrà essere approvata
contestualmente all'assestamento.
Guardando alle casse comunali, l'unica notizia lieta è
l'erogazione del 5 settembre del secondo acconto del Fondo
di solidarietà Comunale, la cui quantificazione complessiva
resta ancora un rebus.
In definitiva, i Comuni programmano le proprie politiche di
spesa sulla base di Imu, Tares, Fondo di solidarietà
comunale e addizionali comunali. La caratteristica che oggi
li accomuna è la totale incertezza sulla loro entità. Il
federalismo tanto auspicato avrebbe dovuto concedere agli
amministratori locali le leve sufficienti a manovrare le
politiche fiscali in funzione del proprio mandato. Così non
è. Le aspettative sulla service tax aumentano, ma nel
frattempo resta il problema degli equilibri di bilancio per
il 2013.
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Gli strumenti
01|SALVAGUARDIA
La legge prevede la possibilità che gli enti approvino la
salvaguardia entro il 30 settembre, con la possibilità di
modificare anche aliquote e tariffe. In una situazione
ordinaria, questo permette di modificare eventuali errori di
quantificazione nel preventivo o di finanziare uscite
impreviste
02|ASSESTAMENTO
Entro il 30 novembre i Comuni devono procedere
all'assestamento di bilancio, dopo il quale non è più
possibile modificare le poste dei conti che a quel punto
assumono un valore definitivo, da verificare e certificare
nel rendiconto
03|PREVENTIVO
Lo slittamento al 30 novembre previsto per il 2013 dal Dl
Imu-2 rappresenta un record nella storia dei rinvii di
termini per la chiusura dei preventivi, e di fatto rende
inutilizzabili i due precedenti strumenti per gli enti che
attendono il nuovo termine (articolo Il Sole 24 Ore del
09.09.2013). |
TRIBUTI - VARI:
Oggetto: Decreto per la casa – Novità IMU e altre misure
di sostegno al settore immobiliare (ANCE Bergamo,
circolare 06.09.2013 n. 199). |
TRIBUTI: Anziani e disabili, il comune decide sulla prima rata Imu.
Stop al versamento se gli enti non
hanno revocato il trattamento agevolato del 2012.
Abolita la prima rata Imu anche per anziani, disabili e
residenti all'estero se i comuni non hanno revocato per
l'anno in corso il trattamento agevolato riconosciuto nel
2012 per gli immobili da loro destinati ad abitazione
principale o intendono concederlo per il 2103.
Il nuovo dl
sull'imposizione immobiliare e la finanza locale, infatti,
prevedono l'abolizione della prima rata Imu per tutti gli
immobili per i quali a giugno era stata disposta la
sospensione del pagamento dell'acconto. Quindi, la
cancellazione del pagamento si estende agli immobili
assimilati all'abitazione principale.
Tuttavia, è escluso
che il beneficio possa essere applicato a due o più
immobili, anche se utilizzati di fatto come abitazione
principale, se non accorpati catastalmente. Così come non è
consentito che, quantomeno nello stesso comune, uno dei
coniugi trasferisca la propria residenza o dimora abituale
per non pagare l'imposta. Le agevolazioni sono rivolte al
nucleo familiare.
Anziani, disabili e residenti all'estero. Chi fruisce del
trattamento agevolato, anche se a seguito dell'assimilazione
degli immobili all'abitazione principale operata dai comuni,
non è tenuto a pagare l'Imu. E gli immobili posseduti da
anziani, disabili e residenti all'estero possono essere
assimilati. Per il dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia (circolare 2/2013), considerata la finalità
del legislatore di assicurare un regime di favore per
l'abitazione principale e relative pertinenze, sia nel caso
che l'assimilazione venga disposta per il 2013 «sia in
quello in cui la stessa è stata effettuata nel 2012 e non è
stata modificata nel 2013, l'assimilazione in questione
determina l'applicazione delle agevolazioni». Compresa
l'abolizione del pagamento della prima rata Imu.
I comuni, in effetti, possono estendere o ampliare i
benefici per la prima casa. Non scontano l'Imu come seconda
casa gli immobili posseduti da anziani o disabili e
residenti all'estero se il comune li ha assimilati o li
assimila all'abitazione principale. L'articolo 13 del dl
201/2011 prevede che il trattamento agevolato possa essere
concesso per le unità immobiliari possedute, a titolo di
proprietà o usufrutto, da anziani o disabili che spostano la
residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di
ricovero permanente, nonché per quelle possedute, a titolo
di proprietà o usufrutto, in Italia dai cittadini italiani
non residenti nel territorio dello stato, a condizione che
non risultino locate. Va posto in rilievo che, come per
l'Ici, il nudo proprietario non è tenuto a pagare l'Imu.
Soggetti passivi sono sempre l'usufruttuario, i titolari dei
diritti di uso, abitazione e così via.
Esenzione solo per un immobile. Secondo il dipartimento
delle finanze del ministero dell'economia (circolare 3/2012)
l'abolizione del pagamento vale solo per un immobile, in
quanto per abitazione principale s'intende l'immobile,
iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come
unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora
abitualmente e risiede anagraficamente. Il contribuente può
fruire delle agevolazioni «prima casa» per un solo immobile,
anche se utilizzi di fatto più unità immobiliari
distintamente iscritte in catasto, a meno che non abbia
provveduto al loro accatastamento unitario. I singoli
fabbricati vanno assoggettati separatamente a imposizione,
ciascuno per la propria rendita. È il contribuente a
scegliere quale destinare a abitazione principale.
Si ritiene non corretta la tesi ministeriale, poiché anche
per l'Imu, come per l'Ici, il contribuente dovrebbe avere
diritto al trattamento agevolato qualora utilizzi
contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione
principale, visto che l'articolo 13 richiede che si tratti
di un'unica unità immobiliare iscritta o «iscrivibile» come
tale in catasto. Dovrebbero essere sufficienti due
requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo. Nello
specifico, le diverse unità immobiliari devono essere
possedute da un unico titolare e devono essere contigue. Del
resto, la Cassazione più volte ha affermato che ciò che
conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale
dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere
dal numero delle unità catastali.
Peraltro, per i giudici di
legittimità, gli immobili distintamente iscritti in catasto
non importa che siano di proprietà di un solo coniuge o di
ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto
che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda
la categoria catastale delle unità che lo compongono.
Secondo la Cassazione, una interpretazione contraria non
sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il
carico fiscale sugli immobili adibiti a «prima casa». La
tesi della Cassazione, però, si pone in contrasto con quanto
affermato anche in passato dal ministero delle finanze
(risoluzione 6/2002) sui presupposti richiesti per usufruire
del trattamento agevolato Ici.
Il ministero ha infatti
precisato che due o più unità immobiliari vanno
singolarmente e separatamente soggette a imposizione,
«ciascuna per la propria rendita». Solo una dovrebbe essere
considerata anche per l'Imu come abitazione principale. Il
contribuente, per usufruire dell'agevolazione, dovrebbe
richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, per i
quali è attribuita in catasto una distinta rendita,
presentando all'ente una denuncia di variazione.
Agevolazioni per il nucleo familiare. L'esenzione Ici per
l'abitazione principale spettava per l'immobile adibito a
dimora abituale del contribuente e dei suoi familiari. Non a
caso la Corte di cassazione, con la sentenza 14389 del 15.06.2010, aveva affermato che nel caso in cui un coniuge
avesse trasferito la propria residenza in un altro immobile
non avrebbe avuto più diritto all'agevolazione fiscale, a
meno che non avesse dimostrato di essersi separato
legalmente.
In realtà, anche se la questione del comportamento elusivo
eventualmente posto in essere da uno dei coniugi ha formato
oggetto di contrastanti pronunce giurisprudenziali,
l'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992 limitava il
beneficio fiscale alla dimora abituale della famiglia.
Secondo la Cassazione, infatti, l'ubicazione della casa
coniugale «individua presuntivamente la residenza di tutti i
componenti della famiglia», «salvo che» (si aggiunge
opportunamente) «tale presunzione sia superata dalla prova»
che lo «dello spostamento... della propria dimora abituale»
sia stata causata dal «verificarsi di una frattura del
rapporto di convivenza».
Lo stesso concetto di «nucleo
familiare» viene riproposto per l'Imu, anche se le modifiche
apportate alla norma istitutiva dell'imposta suscitano dei
dubbi sugli effetti antielusivi che la Cassazione aveva
riconosciuto alla disciplina Ici. L'articolo 13 del dl Monti
(201/2011) stabilisce che per abitazione principale si
intende l'immobile «nel quale il possessore e il suo nucleo
familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente». Nel caso in cui i componenti del nucleo
familiare abbiano fissato la dimora abituale e la residenza
anagrafica in immobili diversi situati nello stesso
territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione
principale, e relative pertinenze, si applicano per un solo
immobile. La formulazione un po' contorta di questa
disposizione lascia aperta la porta a possibili
comportamenti elusivi, in quanto esclude che due coniugi
possano fruire di una doppia esenzione solo se gli immobili
sono ubicati nello stesso comune.
Quindi, se il
trasferimento formale della residenza da parte di uno dei
coniugi avviene in una seconda casa, ubicata in una località
di mare o di montagna diversa da quella di residenza
dell'altro coniuge, non vi sarebbe alcun impedimento a
fruire due volte dello stesso beneficio fiscale: entrambi
non pagherebbero la prima rata Imu. In questo caso i comuni
potrebbero contestare la sussistenza di uno dei requisiti
richiesti dalla legge, qualora possano dimostrare che la
seconda casa non viene utilizzata di fatto come dimora
abituale (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.09.2013). |
TRIBUTI: Macchine self service.
Fototessere, niente imposta sulle affissioni.
Le affissioni presenti sulle macchine per fototessere self
service che riportano informazioni sul costo del servizio e
sulle modalità di fruizione non scontano l'imposta sulla
pubblicità. Tali manifesti non possono considerarsi alla
stregua di un mezzo pubblicitario qualunque, poiché
informano il pubblico circa le caratteristiche del servizio,
peraltro non acquistabile altrove, bensì fruibile adoperando
la stessa macchina sul quale sono apposti.
In base a tali
considerazioni, la sentenza n. 65/01/13 della Ctp di Lodi ha
concluso per l'esenzione della fattispecie dall'imposta
pubblicitaria vantata dall'amministrazione comunale.
Il caso riguarda le macchinette automatiche per fare le
fototessere che si trovano solitamente nei pressi di luoghi
pubblici, quali stazioni, municipi o aeroporti. Sulla
struttura stessa dell'apparecchio elettronico, vengono di
norma apposte delle illustrazioni, contenenti slogan e
informazioni circa il costo del servizio, i tempi di
erogazione e quant'altro. Su tali affissioni, alcuni comuni
ritengono dovuta l'imposta per la pubblicità.
La Ctp di Lodi si è pronunciata in senso contrario. «Anche
se di grande formato», si legge in motivazione, «queste
illustrazioni hanno lo scopo prevalente di informare il
pubblico delle caratteristiche dell'offerta, più che di
pubblicizzare il servizio, che peraltro non è acquistabile
altrove, essendo fornito dalla stessa macchina sulla quale
sono apposte».
Per cui, non essendo prevalente lo scopo
pubblicitario, che costituisce il presupposto dell'imposta,
la Ctp ha accolto il ricorso del contribuente e concluso per
l'esenzione (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.09.2013). |
agosto 2013 |
 |
ENTI
LOCALI - TRIBUTI:
G.U. 31.08.2013 n. 204, suppl. ord. n. 66/L, "Disposizioni
urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità immobiliare,
di sostegno alle politiche abitative e di finanza locale,
nonché di cassa integrazione guadagni e di trattamenti
pensionistici"
(D.L.
31.08.2013 n. 102). |
EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI: I ruderi in catasto. Vanno iscritti, ma senza rendita.
Le Entrate: la denuncia solo per
mera identificazione.
Nessuna attribuzione di rendita catastale se il degrado dei
ruderi è tale da non produrre reddito e non ci sono
collegamenti a gas, luce e acqua. I ruderi possono essere
iscritti al catasto solo per l'identificazione, con
l'indicazione dei caratteri specifici e della destinazione
d'uso, ma non viene loro attribuita nessuna rendita. Alla
denuncia al catasto di unità collabente o rudere deve essere
allegata apposita autocertificazione attestante l'assenza di
allacciamento alle reti dei servizi pubblici dell'energia
elettrica, dell'acqua potabile e del gas. Per questi
immobili sussiste la possibilità e non l'obbligo
dell'aggiornamento dei dati catastali.
Questa è la
precisazione contenuta nella
nota 30.07.2013 n. 29440 di prot. emanata dalla direzione centrale catasto e cartografia
dell'Agenzia delle entrate.
I tecnici di prassi sottolineano
innanzitutto che i ruderi, classificati come unità collabenti nella categoria F/2, sono tali se privi della
copertura e della struttura portante, ma anche se delimitati
da muri che non abbiano almeno l'altezza di un metro. Le
condizioni di degrado devono inoltre essere tali da renderli
incapaci di produrre reddito. Secondo i tecnici del fisco
questi immobili possono essere iscritti al catasto solo per
l'identificazione, con l'indicazione dei caratteri specifici
e della destinazione d'uso, ma non viene loro attribuita
nessuna rendita.
Ai fini delle dichiarazioni di unità collabenti è pertanto necessario che il professionista che
predispone la dichiarazione su incarico della committenza:
rediga una specifica relazione, datata e firmata, riportante
lo stato dei luoghi, con particolare riferimento alle
strutture e alla conservazione del manufatto, che deve
essere debitamente rappresentato mediante documentazione
fotografica e alleghi l'autocertificazione, resa
dall'intestatario dichiarante, ai sensi degli articoli 47 e
76 del dpr 28.12.2000 n. 445, attestante l'assenza di
allacciamento delle unità alle reti dei servizi pubblici,
dell'energia elettrica e del gas.
I tecnici ribadiscono
inoltre che l'iscrizione nella categoria F/2 prevede la
presenza di un fabbricato che abbia perso del tutto la sua
capacità reddituale. Ne consegue che la stessa categoria non
è ammissibile, ad esempio, quando l'unità immobiliare che si
vuole censire, risulta ascrivibile in altra categoria
catastale, ovvero, non è individuabile e/o perimetrabile.
Le Entrate infine ricordano che l'attribuzione della
categoria F/2 a tali ruderi è regolamentata dall'articolo 3,
2 comma, del decreto del ministero delle finanze del
02.01.1998 n. 28. I ruderi per essere tali devono essere
caratterizzati da un notevole degrado che ne determina una
notevole perdita della capacità reddituale
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2013). |
TRIBUTI: Ici dovuta se c'è stata demolizione.
Sull'area.
Il contribuente è tenuto a pagare l'Ici sull'area
edificabile e non sul fabbricato utilizzato come abitazione
principale solo se gli interventi edilizi hanno comportato
la demolizione o la sostituzione di parti strutturali
dell'immobile che ne hanno impedito l'uso. È escluso il
pagamento del tributo sull'area se la famiglia dimostra di
aver continuato ad abitare nell'immobile durante il periodo
dei lavori.
È quanto ha affermato la commissione tributaria
provinciale di Brescia, sezione VIII, con la sentenza
27.08.2013 n. 129.
Per i giudici tributari, dall'esame
della documentazione presentata è emerso che i lavori
eseguiti sull'immobile non hanno comportato demolizioni, né
sostituzione di parti strutturali, né interventi che possano
averne impedito l'uso. Del resto, le fatture prodotte
relative alle utenze per energia elettrica, gas e acqua
hanno dimostrato che «la funzione abitativa non è venuta
meno e che la famiglia dei ricorrenti, anche durante il
periodo dell'intervento edilizio, ha continuato ad abitare
nello stesso stabile».
Secondo l'articolo 2 del decreto
legislativo 504/1992, richiamato per l'Imu dall'articolo 13
del decreto Monti (201/2011), per fabbricato si intende
l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel
catasto edilizio urbano, considerandosi parte integrante del
fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne
costituisce pertinenza. Il fabbricato di nuova costruzione è
soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei
lavori o, se antecedente, dalla data in cui è comunque
effettivamente utilizzato.
Infatti, nelle ipotesi di
edificazione di un fabbricato, la base imponibile Ici (o Imu)
è data dal valore dell'area dalla data di inizio dei lavori
di costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino a
quando il fabbricato è comunque utilizzato, se questo
momento è antecedente. Inoltre, in base alla finzione
giuridica prevista nella disciplina dell'imposta, il suolo
va considerato area fabbricabile, indipendentemente dal
fatto che sia tale o meno in base agli strumenti
urbanistici, anche durante il periodo dell'effettiva
utilizzazione edificatoria
(articolo ItaliaOggi del 12.09.2013). |
TRIBUTI:
Pertinenze esenti.
Senza autonomia niente Ici-Imu. Per Ctr Roma non rileva la mancata dichiarazione.
Le aree edificabili non sono autonomamente soggette al
pagamento dell'Ici e dell'Imu se sono pertinenze dei
fabbricati, anche se il contribuente non ha indicato questa
destinazione degli immobili nella dichiarazione.
La
Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza n. 163/2013)
va oltre quanto sostenuto dalla Cassazione, perché riconosce
l'intassabilità del bene anche nel caso in cui il
contribuente non abbia esposto nella dichiarazione la natura
pertinenziale dell'area.
Tuttavia, il titolare dell'immobile non è tenuto a pagare
l'imposta comunale su un'area edificabile che sia pertinenza
di un fabbricato, anche se non lo ha indicato nella
dichiarazione, purché invii una comunicazione all'ente con
lettera raccomandata con la quale lo informi della
destinazione del bene, prima che venga emanato l'atto di
accertamento.
Naturalmente, è richiesto che il rapporto pertinenziale
emerga dallo stato dei luoghi.
Per esempio, l'esistenza di un pozzo artesiano sul terreno
dal quale è possibile attingere l'acqua dal fabbricato
oppure un marciapiede o un cornicione ubicati oltre la linea
di confine del manufatto.
La sezione tributaria della Corte di cassazione (sentenza
19638/2009), invece, ha riconosciuto il beneficio solo nei
casi in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo
dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di
variazione. I giudici di legittimità, infatti, per eliminare
il contenzioso che dura da anni sull'assoggettamento a Ici
delle aree o giardini pertinenziali, hanno modellato
l'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992 che dà la
definizione di pertinenza. Mentre questa norma si limita a
stabilire che è parte integrante del fabbricato l'area
occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce
pertinenza, la Cassazione va oltre e, dando una chiave di
lettura «di conio giurisprudenziale», ha aggiunto che per
non essere assoggettata a imposizione occorre un'apposita
denuncia del contribuente sull'uso dell'area nel momento in
cui avviene la destinazione.
Dal punto di vista fiscale, poi, è irrilevante la
circostanza che un'area pertinenziale e una costruzione
principale siano censite catastalmente in modo distinto, al
fine di poter essere assoggettate a tassazione come un unico
bene o di usufruire delle agevolazioni. Come precisato dalla
commissione regionale, però, il vincolo pertinenziale deve
essere visibile e va rilevato dallo stato dei luoghi, a
prescindere dal fatto che in catasto l'area e il fabbricato
non risultino accorpati. In caso contrario, i due immobili
sono soggetti a imposizione autonomamente.
Le stesse regole valgono per l'Imu. Infatti, nulla cambia
per l'imposizione delle aree edificabili con la disciplina
della nuova imposta locale rispetto all'Ici. Anche per l'Imu
vengono richiamate le disposizioni contenute negli articoli
2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto
riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la
determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla
normativa Ici.
Per definire gli aspetti controversi della
nozione di area edificabile, il legislatore è intervenuto
due volte con norme di interpretazione autentica. L'imposta
è dovuta se l'area è inserita in un piano regolatore
generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato
dalla regione. L'articolo 36, comma 2, del decreto-legge
legge 223/2006 ha stabilito che un'area sia da considerare
fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base
allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune,
indipendentemente dall'approvazione della regione e
dall'adozione di strumenti attuativi.
La tesi della Cassazione. Secondo la Cassazione (sentenza
5755/2005) per la pertinenza di un fabbricato non contano le
risultanze catastali, ma la destinazione di fatto.
Il terreno che costituisce pertinenza di un fabbricato non è
soggetto a Ici e Imu come area edificabile, anche se
iscritto autonomamente al catasto. Sempre la Cassazione, con
la sentenza 17035/2004, ha chiarito che per le aree
edificabili non si introduce alcuna particolare e nuova
accezione di pertinenza ai fini Ici ma, semplicemente, se ne
presuppone il significato, in quanto va fatto riferimento
alla definizione fornita, in via generale, dall'articolo 817
c.c. Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze
le cose destinate in modo durevole al servizio o
all'ornamento di un'altra cosa. Pertanto, per il vincolo
pertinenziale serve sia la durevole destinazione della cosa
accessoria a servizio o ornamento di quella principale, sia
la volontà dell'avente diritto di creare la destinazione.
Accertare la sussistenza di questo vincolo comporta un
apprezzamento di fatto.
Il tributo comunale non può essere richiesto per l'assenza
di accorpamento (cosiddetta «graffatura») dell'area al
contiguo fabbricato, ancorché costituenti unità catastali
separate. L'autonomo accatastamento non rende irrilevante
l'uso di fatto del terreno come pertinenza. Tanto meno
rileva la presenza o meno di segni grafici, che sono
inconsistenti sul piano probatorio. Tuttavia, nonostante
vengano ribaditi questi principi e la rilevanza della
destinazione «di fatto» di un bene come pertinenza, non ci
si può sottrarre all'obbligo di denuncia ogni volta che
nella situazione possessoria del contribuente s'introduca
una modificazione. Se l'interessato non ha affermato la sua
pertinenzialità in via di specialità, vuol dire che ha
voluto lasciare il bene nella sua condizione di area
fabbricabile.
Pertanto, qualora voglia fruire dell'intassabilità
dell'area, è tenuto a comunicare all'ente che è destinata a
pertinenza del fabbricato sia nella denuncia originaria sia,
qualora abbia omesso questa indicazione, in una successiva
dichiarazione di variazione, che può essere presentata in
qualsiasi momento (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.08.2013). |
TRIBUTI: La Tares va pagata
entro fine 2013. L'Economia boccia
le rateazioni.
Tares 2013 va pagata dai contribuenti entro fine anno senza
alcuna possibilità per i Comuni di differire il versamento
nei primi mesi del 2014.
Lo ha chiarito il ministero
dell'Economia e delle finanze con una nota del 9 agosto
scorso emessa in sede di esame di una delibera comunale che
fissava il termine per il pagamento delle ultime due rate
nel 2014 (31 gennaio e 28 febbraio).
Il Mef evidenzia che i Comuni, nel disciplinare il numero e
la scadenza delle rate Tares 2013, incontrano il vincolo
costituito dalla riserva allo Stato della maggiorazione sui
servizi indivisibili (0,30 euro al metro quadro), il cui
gettito deve essere in ogni caso assicurato all'Erario entro
l'anno in corso. Ciò anche al fine di pervenire a un'esatta
determinazione del fondo di solidarietà comunale, del fondo
perequativo e dei trasferimenti erariali dovuti ai comuni
della Regione Siciliana e della Regione Sardegna.
A
decorrere dal 2014, infatti, la possibilità di quantificare
con precisione l'entità della maggiorazione standard è
pregiudicata dal riconoscimento della facoltà per i Comuni
sia di elevare la misura della maggiorazione sino a 0,40
euro, sia di riscuotere la Tares anche mediante «le altre
modalità di pagamento offerte dai servizi elettronici di
incasso e di pagamento interbancari», uscendo così
dall'unico canale (F24 o bollettino postale centralizzato)
che consente di individuare i flussi relativi alla
maggiorazione in questione.
La chiusura del Mef è quindi dettata da esigenze di
tracciabilità della maggiorazione Tares, anche per
consentire allo Stato di introitare entro l'anno l'importo
previsto di un miliardo di euro, cifra destinata a ridursi
se i Comuni decidessero di differire il pagamento nel 2014.
Per ovviare a tale problema l'Ifel –con nota del 10.05.2013– ha ritenuto possibile stabilire l'ultima scadenza
anche nel 2014, purché il versamento della maggiorazione
avvenga in ogni caso entro la fine del 2013. Soluzione in
realtà non del tutto conforme alla normativa, che collega il
versamento della maggiorazione all'ultima rata del tributo,
ma dettata dal buon senso di dilazionare maggiormente il
pagamento della Tares, vista la partenza travagliata del
nuovo tributo e considerato che molti comuni stanno ancora
riscuotendo la Tarsu del 2012.
Tuttavia il Mef sembra escludere anche tale opzione in
quanto contrasterebbe con le regole sulla contabilità ed in
particolare con l'articolo 179 del Tuel: in tal senso si
sarebbe peraltro espresso il Viminale.
Diversi Comuni dovranno quindi mettersi in regola e rivedere
le scelte già effettuate. Senza considerare che nel
frattempo il Governo potrebbe sostituire la maggiorazione
Tares con la service tax, eliminando così il principale
impedimento a riscuotere una parte del tributo di quest'anno
nel 2014 (articolo Il
Sole 24 Ore del 26.08.2013). |
TRIBUTI: Scadenze Tares entro il 2013.
Il gettito della maggiorazione va assicurato entro l'anno.
Lo ha chiarito il ministero
dell'economia e delle finanze in una nota inviata a un
comune.
Il comune nel disciplinare il numero e la scadenza delle
rate della Tares per l'anno 2013 incontra il vincolo
costituito dalla riserva allo stato della maggiorazione
standard.
È questa la conclusione a cui è giunto il
ministero dell'economia e delle finanze in una recente nota
inviata a un comune.
L'art. 10, c. 2, del dl 35/2013 ha
previsto che, per l'anno 2013 e in deroga alle previsioni
contenute nella disciplina della Tares a regime (art. 14, c.
35, dl 201/2011), la scadenza e il numero delle rate di
versamento del tributo sono stabilite con deliberazione,
adottata dal Consiglio comunale (circolare Mef n. 1/Df/2013),
anche nelle more della regolamentazione comunale del
tributo.
A tale proposito, mentre a regime il citato comma
35 stabilisce che la scadenza delle rate della Tares è
fissata nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre di
ogni anno, salvo diversa regolamentazione comunale, per
l'anno 2013 i comuni erano liberi di determinare le
tempistiche di pagamento del tributo, anche anticipando la
prima scadenza fissata dalla legge nel mese di luglio. Gli
enti potevano, per il 2013, derogare le norme di legge sia
per quanto concerne la scadenza delle rate che per la loro
quantificazione.
Era sorta, invece, più di qualche
perplessità sulla possibilità di stabilire termini di
pagamento del tributo riferito all'anno 2013 scadenti dopo
il 31 dicembre del medesimo anno. Ciò per effetto della
disposizione contenuta nel c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013
in virtù della quale, sempre per il 2013, la maggiorazione
alla Tares, disciplinata dall'art. 14, c.13, del dl 201/2011
e pari ad 0,30 a metro quadrato, viene riservata allo stato
e versata in unica soluzione unitamente all'ultima rata del
tributo, a mezzo del modello F24 o dell'apposito bollettino
di conto corrente postale approvato con il dm 14/05/2013 (e
non anche mediante le nuove modalità di pagamento tramite
servizi elettronici di incasso e di pagamento interbancari,
introdotte in aggiunta agli altri strumenti appena ricordati
dal citato dl 35/2013).
Come già precisato dalla circolare
del ministero dell'economia n. 1/Df del 29/04/2013, il
versamento della maggiorazione da effettuarsi in favore
dello stato è rinviato all'ultima rata del tributo, scadente
nel mese di ottobre o alla data stabilita dal comune con la
deliberazione prevista dal c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013.
La legge e la circolare appena citata nulla dicono però su
quali limiti temporali incontri la fissazione della scadenza
dell'ultima rata del pagamento da parte del comune,
spingendo taluni enti a stabilire scadenze cadenti anche nel
2014 (specie quelli che ordinariamente ponevano in
riscossione la Tarsu nell'anno successivo a quello di
competenza, nel rispetto del termine annuale di decadenza
stabilito dall'art. 72 del dlgs 507/93).
Tuttavia, come
precisato dalla recente nota del ministero, la presenza
della riserva della maggiorazione allo stato pone dei limiti
ben precisi alla potestà regolamentare comunale che, come
noto, non può estendersi oltre i tributi di propria
competenza. L'esigenza di assicurare all'erario il gettito
della maggiorazione entro il 2013 impone che il versamento
della stessa scada entro la fine del predetto anno. Ciò, in
base alla nota ministeriale, anche per la necessità di
quantificare il gettito della maggiorazione standard
(operazione che sarebbe pregiudicata negli anni successivi
dalla facoltà attribuita ai comuni di incrementare la
maggiorazione fino a 0,40 a mq e dalla possibilità di
adottare canali di pagamento diversi dal F24 e dal
bollettino postale unico nazionale).
Tuttavia, da un'attenta
lettura, la nota non pare precludere del tutto la
possibilità di riscuotere una o più rate Tares nel 2014,
premurandosi solo di precisare che in ogni caso il comune
deve porre in essere le attività necessarie ad assicurare
che la maggiorazione sia corrisposta nel 2013. In tale modo
viene lasciato spazio all'interpretazione per la quale i
comuni potrebbero fissare scadenze di versamento della Tares
anche oltre il 31/12/2013, purché la maggiorazione sia
versata, con le modalità previste dalla legge, con l'ultima
rata scadente nel 2013 (vedasi nota Ifel 10/05/2013).
Tuttavia una tale soluzione appare in contrasto con il
dettato normativo che impone il versamento della
maggiorazione in unica soluzione unitamente all'ultima rata
del tributo (art. 10, c. 2, lett. c, dl 35/2013). Per il
ministero la fissazione di scadenze oltre il 2013 desta
perplessità dal punto di vista contabile, con riferimento
all'accertamento della corrispondente entrata
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
TRIBUTI:
Imu, niente agevolazioni prima casa per Ater e Iacp.
Gli immobili posseduti dalle cooperative di edilizia
residenziale pubblica (Ater, Iacp) non hanno diritto al
trattamento agevolato che la legge ha riservato per l'Imu a
quelli adibiti a abitazione principale.
Lo ha affermato il TAR Abruzzo-Pescara, con la
sentenza
13.08.2013 n. 434.
Per il Tar il legislatore ha «inteso
favorire in via indiretta la fissazione da parte dei comuni,
compatibilmente con le esigenze di bilancio, di un'aliquota
meno onerosa nei confronti di tali alloggi». Solo nel caso
in cui la situazione finanziaria lo consenta, per i
fabbricati posseduti da Ater e Iacp, l'amministrazione
comunale può fissare un'aliquota inferiore a quella di base
(0,76%). Deciso, quindi, in senso favorevole ai comuni il
contenzioso con le aziende di edilizia residenziale
pubblica, che si trascina già dai tempi di applicazione
dell'Ici, sul trattamento fiscale degli immobili assegnati
ai soci, utilizzati come prima casa.
In varie parti
d'Italia, infatti, sono ancora pendenti le cause sulla
legittimità delle delibere comunali che non hanno
riconosciuto per gli immobili posseduti da questi enti
l'aliquota agevolata. In effetti, come posto in rilievo dal
Tar, ex lege i benefici fiscali sono limitati solo alla
detrazione d'imposta prevista dall'art. 13 del dl 201/2011
(Salva Italia).
Con l'introduzione dell'Imu è stata
prevista, per le abitazioni possedute da Ater e Iacp,
l'aliquota base ordinaria dello 0,76% per le seconde case,
con facoltà di aumentarla o diminuirla del 3%, anziché
quella agevolata dello 0,40%, contemperando il più gravoso
regime fiscale con la previsione della detrazione di 200
euro prevista per le abitazioni principali. L'art. 13 ha
lasciato, poi, ai comuni la facoltà, come già stabilito per
l'Ici fino al 2007, di fissare l'aliquota.
Del resto, solo
nel momento in cui è stata eliminata l'imposizione sulla
prima casa, Iacp e Ater sono state esentati dal pagamento
del tributo, nel periodo che va dal 2008 al 2011. A parte
questo arco temporale in cui hanno fruito dell'esenzione,
sin dal 1992, anno di istituzione dell'imposta comunale,
alle cooperative edilizie è stata riconosciuta solo la
detrazione d'imposta e non l'aliquota agevolata
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2013). |
TRIBUTI:
Ici e Imu con il diritto reale.
Domanda
Si ha un condominio in cui una parte del giardino (avente
una propria particella catastale) è stata data in uso
esclusivo permanente ad un condomino (proprietario del
negozio al piano terra) con i primi atti di vendita. Tale
diritto reale di uso esclusivo permanente risulta dagli atti
notarili di chi acquistò dalla ditta costruttrice però tale
diritto non era stato trascritto. Successivamente, senza
avvertire gli altri comproprietari (condomini), il
possessore di tale diritto ha costruito un fabbricato
commerciale e ne ha chiesto il condono edilizio. Ora, dalla
visura catastale di detta particella, risulta un fabbricato
categoria C/1. Da chi sono dovute l'Ici e l'Imu? Dalla
normativa risulterebbe che le imposte sono dovute da chi
gode del diritto reale.
Risposta
La risposta è affermativa. Ai fini Imu (così come, in
precedenza, ai fini Ici) rileva la proprietà o la titolarità
di un diritto reale di godimento sull'immobile. Ciò sia per
il pagamento dell'imposta che per gli obblighi di denuncia.
Il riferimento normativo è dato dall'art. 13 del dl n.
201/2011 (L. n. 214/2011) e dall'art. 9, c. 1 del dlgs n.
23/2011): «Soggetti passivi dell'imposta municipale propria
sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le
aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi
quelli strumentali o alla cui produzione o scambio e'
diretta l'attività dell'impresa, ovvero il titolare di
diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi,
superficie sugli stessi. Nel caso di concessione di aree
demaniali, soggetto passivo è il concessionario. Per gli
immobili, anche da costruire o in corso di costruzione,
concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il
locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta
la durata del contratto». Analoghe considerazioni valgono
anche ai fini delle imposte sui redditi (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
TRIBUTI: Sentenza
del Tar puglia.
Vecchi affidamenti non validi per Imu e Tares.
Imu e Tares sono due tributi diversi dall'Ici e dalla Tarsu.
Quindi, sono privi di effetti i contratti di affidamento
delle attività di accertamento e riscossione Ici e Tarsu in
seguito alla loro abolizione. Il concessionario non può
pretendere di mantenere in vita il rapporto con il comune
per gestire i nuovi tributi che li hanno sostituiti. Le
norme sopravvenute, che hanno istituito Imu e Tares, hanno
abolito l'oggetto delle precedenti concessioni.
Lo ha
stabilito il TAR
Puglia-Lecce, Sez. III, con la
sentenza
05.08.2013 n. 1771.
In effetti, gli articolo 13 e 14 del dl Monti (201/2011)
hanno istituito l'Imu e la Tares in sostituzione di Ici,
Tarsu e Tia. Per il giudice amministrativo, le norme
sopravvenute hanno «abolito» e non meramente «modificato»
l'oggetto delle precedenti concessioni. Quindi,
l'affidamento in concessione del servizio «deve intendersi
decaduto “ipso iure” in ragione dei nuovi provvedimenti
legislativi statali» che hanno abolito l'Ici e la Tarsu. Per
i nuovi affidamenti è necessaria la gara a evidenza
pubblica.
Le attività di accertamento e riscossione delle entrate
locali, infatti, possono essere affidate solo con gara.
Peraltro è stata cancellata la norma della Finanziaria 2002
che consentiva ai concessionari dell'imposta sulla
pubblicità di aggirare le regole sulle gare, rinegoziando i
contratti in corso con gli enti locali. L'articolo 10 della
legge europea n. 97 del 06.08.2013 ha abrogato l'articolo
10 della legge 448/2001, che dava ai comuni la facoltà di
prorogare i contratti in corso al 01.01.2002. La norma
europea dispone la cessazione di tutti gli incarichi
conferiti in base alla norma abrogata l'ultimo giorno del
terzo mese successivo alla data della sua entrata in vigore
(4 settembre), a meno che non siano già scaduti prima.
Solo per i rapporti pendenti al 01.10.2006, in seguito
alla riforma della riscossione, è ancora oggi prevista la
proroga dei contratti in corso dei comuni con Equitalia e
gli altri concessionari iscritti nell'albo ministeriale.
Alla società pubblica, che ex lege avrebbe dovuto chiudere i
rapporti con i comuni il 30 giugno scorso, per le attività
di accertamento e riscossione delle entrate di questi enti,
è stata concesso un ulteriore differimento in sede di
conversione del decreto legge 35/2013 (legge 64/2013).
L'articolo 10 del citato decreto stabilisce che le
convenzioni in corso tra comuni e Equitalia, nonché con le
società da questa partecipate, sono prorogate fino alla fine
del 2013. Il differimento fino alla fine dell'anno è stato
fissato anche per le altre società concessionarie
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2013). |
TRIBUTI: Tributi locali, vietato allargarsi.
I comuni non possono ampliare l'oggetto dei contratti.
La legge europea 2013 cancella la norma di favore
per i gestori dell'imposta sulla pubblicità.
I comuni non potranno più ampliare l'oggetto dei contratti
di affidamento del servizio di accertamento e riscossione
dell'imposta sulla pubblicità, assegnando ai concessionari
anche la riscossione di altre entrate comunali senza indire
nuove gare.
Lo vieta la legge europea 2013 approvata
mercoledì dall'aula della camera.
Il ddl di 34 articoli pone
rimedio ai numerosi casi di non corretto recepimento della
normativa Ue nell'ordinamento italiano che hanno portato
all'avvio di 10 procedure di pre-infrazione e 19 procedure
di infrazione nei confronti del nostro paese.
E tra i rilievi mossi alla legislazione italiana, Bruxelles
ha posto sotto la lente anche l'attività di riscossione
locale, un campo su cui da tempo l'Europa chiede una
maggiore apertura al mercato e alla concorrenza.
La soppressione della norma (art. 10, comma 2, legge
n. 448/2001) si è resa necessaria a seguito di una specifica
richiesta di informazioni da parte della Commissione
europea, nell'ambito del caso Eu Pilot 3452/12/Markt.
Secondo la Commissione infatti tale fattispecie di
affidamento diretto, non rispettando il principio di libera
concorrenza, avrebbe potuto generare violazioni della
normativa europea sui contratti pubblici.
In verità, fin dalla sua introduzione all'interno della
Finanziaria 2002 (legge 448/2001), l'art. 10, comma 2 (a sua
volta precisato e integrato dalla legge 75/2002) ha
rappresentato una norma molto controversa. A originarla fu
il tentativo dell'allora governo Berlusconi di compensare i
concessionari della pubblicità comunale della perdita di
introiti derivanti dall'abbattimento della soglia minima di
imposizione. In pratica, visto che cartelloni e insegne al
di sotto dei cinque metri quadri non erano più soggetti al
pagamento dell'Icp, i concessionari chiesero al governo di
poter estendere il proprio giro d'affari ad altre attività,
fino a mettere le mani su larghe fette della riscossione
locale, senza alcuna gara ad evidenza pubblica. E questo è
accaduto non solo nei piccoli comuni, ma anche in quelli
medio-grandi. Paradigmatico il caso di Brindisi dove Tributi
Italia, partendo dall'affidamento dell'accertamento e
riscossione dell'Icp, arrivò a gestire tutti i tributi
dell'ente.
Per rimediare a queste storture, da più parti gli operatori
del settore chiesero una revisione della norma che limitasse
la quota di ulteriori tributi affidabile senza gara al solo
mancato guadagno sofferto dai concessionari per l'esenzione
delle insegne sotto i cinque metri quadri. Tra i più fermi
oppositori della norma si è distinta l'Anutel
(l'Associazione che raggruppa gli uffici tributi degli enti
locali) che oggi applaude alla decisione del governo Letta
di abrogarla all'interno della legge europea 2013.
Nel provvedimento ha inoltre trovato posto un articolo che
consente ai familiari di cittadini dell'Unione europea, ai
soggiornanti di lungo periodo, ai rifugiati e ai titolari
dello status di protezione sussidiaria di poter accedere ai
ruoli della pubblica amministrazione. Anche in questo caso
le modifiche sono state originate da rilievi critici mossi
dalla Commissione europea (nell'ambito dei casi Eu Pilot
1769/11/Just e 2368/11/Home)
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
luglio 2013 |
 |
TRIBUTI:
L. Leombruni,
La TARES e il riordino
dei prelievi sui servizi di smaltimento dei rifiuti
(tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Conegliano (Treviso) - Immobili dichiarati di
interesse culturale ai sensi della legge 20.06.1909 n. 364 -
Richieste di rimborso ICI ovvero IMU - Quesito (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
nota 31.07.2013 n. 13764 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Dichiarazioni in catasto di Unità Collabenti
(categoria F/2) (Agenzia delle Entrate, Direzione
Centrale Catasto e Cartografia,
nota 30.07.2013 n. 29440 di prot.). |
TRIBUTI: Denuncia Tarsu, sanzione unica.
La sanzione per l'omessa denuncia Tarsu deve essere
applicata una sola volta. Di più. Se l'obbligo di
dichiarazione era scattato oltre cinque anni prima della
contestazione, non è dovuto alcunché.
Questi i principi che si leggono nella sentenza
26.07.2013 n. 123/02/13
della Ctp di Lecco.
Un contribuente agiva contro il comune di Calco (Lc)
per degli avvisi di accertamento relativi ad un locale per
il quale non mai stata presentata la denuncia ai fini della
Tarsu.
Interessante la parte della decisione che riguarda la
sanzione: «La sanzione per l'omessa denuncia deve essere
applicata una sola volta in relazione all'anno rispetto al
quale non è stata presentata la dichiarazione agli effetti Tarsu, atteso che tale dichiarazione non deve essere
ripetuta tutti gli anni, trattandosi di una violazione
tributaria omissiva di carattere istantaneo e non già
permanente».
Dunque, poiché l'omissione che si va a
sanzionare è punibile una sola volta, nel momento in cui è
consumata, ne deriva che, qualora l'obbligo di dichiarazione
sia insorto più di cinque anni prima della constatazione, la
sanzione non può più essere irrogata. «Infatti», afferma la Ctp, «ai sensi dell'articolo 20 del dlgs
472 del 1997, l'atto di contestazione della violazione deve
essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la
violazione».
Ciò che rileva, dunque, è valutare quando il contribuente
sia entrato in possesso del bene: da tale momento scatta
l'obbligo di denuncia e, di conseguenza, il termine
quinquennale per irrogare la sanzione relativa all'eventuale
omissione
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
TRIBUTI: La Tares si paga anche se l'immobile è inutilizzato.
È legittima la pretesa del comune di Bologna di applicare la
Tarsu a un appartamento inutilizzato. Infatti, il cambio di
residenza del contribuente, la denuncia di cessazione
dell'occupazione dell'immobile e il mancato consumo di
energia elettrica non lo esonerano dal pagamento della tassa
rifiuti. Il tributo si paga anche in caso di mancato
utilizzo del servizio di smaltimento svolto
dall'amministrazione comunale.
Lo ha ribadito la Corte di
Cassazione, con l'ordinanza 24.07.2013 n. 18022.
Per i
giudici di piazza Cavour, «dando rilevanza all'avvenuto
trasferimento della residenza anagrafica (ed alla concreta
idoneità del bene a produrre rifiuti, siccome desumibile per
presunzione dal mancato consumo delle erogazioni di energia)
il giudice del merito ha chiaramente violato le norme che
disciplinano il presupposto dell'imposta».
In effetti, sulla
questione della tassabilità degli immobili inutilizzati si
registrano prese di posizione diverse tra Cassazione,
giudici tributari e ministero dell'economia e delle finanze.
Anche le amministrazioni comunali non hanno quasi mai
applicato la regola fissata dalla Suprema corte, la quale ha
sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento
del tributo sui rifiuti, che è dovuto a prescindere dal
fatto che il contribuente utilizzi l'immobile. Ex lege,
vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non
utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati). Non ha
alcuna rilevanza la scelta soggettiva del titolare di non
utilizzare l'immobile.
Anche il mancato arredo non
costituisce prova dell'inutilizzabilità dell'immobile e
della inettitudine alla produzione di rifiuti. Un alloggio
che il proprietario lasci inabitato e non arredato si rivela
inutilizzato, ma non oggettivamente inutilizzabile. Per la
prima volta il principio è stato affermato con la sentenza
16785 del 30.11.2002. Regola ribadita con le sentenze
9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre.
Da ultimo, sempre
la Cassazione (ordinanza 1332 del 21.01.2013) ha
stabilito che l'esonero dal pagamento del tributo non spetta
neppure quando il contribuente fornisca la prova
dell'avvenuta cessazione di un'attività industriale. Il Mef
invece, nelle linee guida che ha fornito ai comuni sulla
corretta applicazione della Tares, ha precisato che non sono
soggetti al pagamento le unità immobiliari privi di mobili e
di allacci alle reti idriche e elettriche, che di fatto non
vengono utilizzat | |