dossier PATRIMONIO |
novembre 2021 |
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PATRIMONIO: Concessioni
demaniali marittime, disciplina UE, non-applicazione della norma interna,
autotutela e obbligo di gara. La sentenza dell’Adunanza plenaria.
L’Adunanza plenaria fa chiarezza sulla (non) conformità all’ordinamento UE
e, segnatamente, alla direttiva n. 2006/123/CE, della disciplina nazionale
che ha disposto nel 2018 la proroga delle concessioni demaniali marittime
fino al 2033.
L’articolata pronuncia, la quale ripercorre l’assetto
normativo e giurisprudenziale in materia, con specifico riferimento
all’obbligo di non applicazione delle norme incompatibili con l’ordinamento
europeo anche da parte delle pubbliche amministrazioni, ha approfondito
questioni di ordine sostanziale (in tema di valore provvedimentale o meno
degli atti applicativi di una norma da disapplicare) e processuale
(differimento degli effetti della decisione), di particolare rilevanza.
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Beni pubblici – Demanio marittimo – Concessioni – Finalità
turistico-ricreative – Disciplina nazionale – Proroghe o rinnovi automatici
– Illegittimità
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Beni pubblici – Demanio marittimo – Concessioni – Finalità
turistico-ricreative – Proroghe e giudicato favorevole – Prosecuzione del
rapporto in capo agli attuali titolari – Esclusione
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Beni pubblici – Demanio marittimo – Concessioni – Finalità
turistico-ricreative – Proroghe e giudicato favorevole – Rapporto in capo
agli attuali titolari – Efficacia fino al 31.12.2023
L’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di
diritto:
a) Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in
futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni
demaniali marittime per finalità turistico-ricreative –compresa la moratoria
introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19
dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34 del 2020, convertito in l. n. 77 del
2020– sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art.
49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE. Tali norme,
pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica
amministrazione (1).
b) Ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A.
(e anche nei casi in cui tali siano stati rilasciati in seguito a un
giudicato favorevole o abbiamo comunque formato oggetto di un giudicato
favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione
del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in
rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l’effetto di
cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza
legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata.
La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa
prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi
tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto
dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o
l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata,
infatti, anche il giudicato è comunque esposto all’incidenza delle
sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto
(2).
c) Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che
deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le
concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le
amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì,
nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in
conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per
finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci
sino al 31.12.2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di
una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante
qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo
intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto
con le norme dell’ordinamento dell’UE (3).
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(1-2-3) I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, resa a margine di una vicenda contenziosa riguardante il
diniego, opposto da un Comune, di proroga della concessione demaniale
marittima ex l. n. 145 del 2018, ha enunciato i principi di diritto di cui
in massima a seguito di deferimento, ex art. 99, comma 2, c.p.a., disposto
con
decreto del Presidente del Consiglio di Stato 24.05.2021, n. 160
(oggetto della
News US in data 23.06.2021).
Detto deferimento muoveva
dalla particolare rilevanza economico-sociale delle questioni, onde
assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle
amministrazioni interessate e uniformità di orientamenti giurisprudenziali.
La decisione in rassegna è coeva alla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 09.11.2021, n. 17, resa in un parallelo giudizio d’appello, inerente a
sentenza di primo grado recante diverse statuizioni.
Il deferimento era diretto a verificare i poteri e i doveri dei giudici e
dell’Amministrazione, in tutte le sue articolazioni, a fronte di leggi
statali e regionali in contrasto con la normativa europea, con particolare
riferimento all’applicabilità o meno della moratoria prevista dall’art. 182,
comma 2, d.l. 19.05.2020, n. 34, come modificato dalla legge di
conversione 17.07.2020, n. 77, alle aree soggette a concessione scaduta
al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri
nel disposto dell’art. 1, commi 682 ss., della l. 30.12.2018, n. 145.
II. – L’iter procedimentale e
contenzioso che ha condotto alla controversia dinanzi al giudice d’appello
si è così articolato:
a) la parte ricorrente in primo grado, titolare
di concessione demaniale marittima, esercita l’attività di stabilimento
balneare e, in vista della scadenza del titolo concessorio alla data del 31.12.2020, ha proposto istanza al Comune competente al fine di
conseguire la proroga fino al 31.12.2033 ex art. 1, comma 682, della
l. n. 145 del 2018;
b) il Comune ha deliberato di esprimere diniego
sull’istanza di proroga di cui alla l. n. 145 del 2018 e di rivolgere
formale interpello al concessionario al fine di conoscere se lo stesso
intendesse avvalersi della facoltà di prosecuzione dell’attività ex art. 182
del d.l. n. 34 del 2020, convertito con l. n. 77 del 2020, con contestuale
pagamento del canone per l’anno 2021 ovvero, in via alternativa, di non
avvalersi di tale facoltà e di accettare una proroga tecnica della
concessione per la durata di anni tre;
c) successivamente sono intervenuti i
provvedimenti dirigenziali di rigetto dell’istanza di proroga e della
correlata successiva istanza di annullamento in autotutela;
d) l’operatore economico, non avendo espresso
preferenza per alcuna delle due opzioni offerte dal comune e ritenendo di
avere diritto alla proroga della concessione fino al 2033, ha impugnato, con
richiesta di annullamento, il diniego nonché i provvedimenti dirigenziali
conseguenti, chiedendo, ad un tempo, l’accertamento del diritto al
conseguimento della proroga del titolo;
e) il ricorso è stato, in parte qua, accolto con
sentenza del
Tar per la Puglia, sez. st. Lecce, sez. I, 15.01.2021,
n. 73, con conseguente caducazione degli atti impugnati;
f) avverso la predetta sentenza è stato
interposto appello dalla parte pubblica e, in seno al relativo giudizio, si
è innestata la pronuncia della Plenaria in rassegna.
Il parallelo giudizio definito con la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 17
del 2021, cit., muoveva –come si è anticipato– da una statuizione di rigetto
del ricorso di primo grado (contenuta nella sentenza Tar per la Sicilia,
sez. st. Catania, sez. III, 15.02.2021, n. 504), proposto avverso il
provvedimento con il quale l’Amministrazione aveva rigettato l’istanza
dell’operatore economico privato volta ad ottenere l’estensione della
validità della concessione demaniale marittima, ai sensi della l. n. 145 del
2018.
III. – Il percorso
argomentativo seguito dall’Adunanza plenaria, che ha ricostruito l’assetto
ordinamentale ed interpretativo sul tema, è così articolato:
g) sul versante –strettamente processuale–
dell’ammissibilità degli interventi nel giudizio di primo grado:
g1) non è sufficiente a
consentire l’intervento la sola circostanza che l’interventore sia parte di
un (altro) giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a
quella oggetto del giudizio nel quale intende intervenire;
g2) osta al riconoscimento di
una situazione che lo legittimi a intervenire l’obiettiva diversità di
petitum e di causa petendi che distingue i due processi, sì da
non potersi configurare in capo al richiedente uno specifico interesse
all’intervento nel giudizio ad quem;
g3) al contrario, laddove si
ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della
sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si
finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di
interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza
endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di
iniziative anche emulative, scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui
l’intervento si riferisce;
g4) non a caso, in base a un
orientamento del tutto consolidato, nel processo amministrativo l’intervento
ad adiuvandum o ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto
titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del
ricorrente in via principale (v. ex plurimis, sul punto, Cons. Stato,
sez. IV, 29.02.2016, n. 853, in Vita not., 2016, 217);
g5) va ricordato, come ha già
chiarito da Cons. Stato, Ad. plen., 04.11.2016, n. 23 (in Guida al
dir., 2017, 2, 50, con nota di PONTE; Urbanistica e appalti, 2017, 410, con
nota di FIGUERA e oggetto della
News US in data 10.11.2016), che
risulterebbe peraltro sistematicamente incongruo ammettere l’intervento
volontario in ipotesi, come quella qui esaminata, che si risolvessero nel
demandare ad un giudice diverso da quello naturale (art. 25, comma primo, Cost.) il compito di verificare in concreto l’effettività dell’interesse
all’intervento (e, con essa, la concreta rilevanza della questione ai fini
della definizione del giudizio a quo);
g6) considerazioni in parte analoghe valgono per
l’intervento spiegato dalle associazioni di categoria sul rilievo che:
I) nel processo amministrativo la legittimazione attiva (e, dunque,
l’intervento in giudizio) di associazioni rappresentative di interessi
collettivi obbedisce a regole stringenti, essendo necessario che la
questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità
statutarie dell’associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del
provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo
istituzionale, e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai
singoli associati;
II) resta quindi preclusa ogni iniziativa giurisdizionale che non si
riverberi sugli interessi istituzionalmente perseguiti dall’associazione,
sorretta dal solo interesse al corretto esercizio dei poteri amministrativi
o per mere finalità di giustizia, finalizzate esclusivamente alla tutela di
singoli iscritti, atteso che l’interesse collettivo dell’associazione
deve identificarsi con l’interesse di tutti gli appartenenti alla categoria
unitariamente considerata e non con la mera sommatoria degli interessi
imputabili ai singoli associati;
III) per autorizzare l’intervento di un’associazione esponenziale di
interessi collettivi occorre, quindi, un interesse concreto ed attuale
(imputabile alla stessa associazione) alla rimozione degli effetti
pregiudizievoli prodotti dal provvedimento controverso;
IV) né, per le ragioni già esposte, a giustificare l’intervento può rilevare
la circostanza che la risoluzione delle questioni di diritto sottese al caso
del singolo associato possa avere una rilevanza anche sulla posizione di
altri concessionari: non può ritenersi sufficiente a radicare la
legittimazione all’intervento la necessità di sostenere una tesi di diritto
e, quindi, la mera ed astratta finalità di giustizia (cfr. Cons. Stato, Ad.
plen., 02.11.2015, n. 9, in Foro it., 2016, III, 65; Contratti Stato e
enti pubbl., 2015, 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti,
2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm.,
2016, 365, con nota di GALLI, CAVINA; Nuovo dir. amm., 2016, 3, 53, con nota
di NARDOCCI);
h) sul rapporto tra disciplina nazionale e
disciplina UE in tema di rilascio e rinnovo delle concessioni demaniali
marittime con finalità turistico-ricreative:
h1) la questione è stata già in
gran parte scandagliata dalla sentenza Corte di giustizia UE, sez. V, 14.07.2016, C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa (in Urbanistica e appalti,
2016, 1211, con nota di BOSCOLO; Riv. regolazione mercati, 2016, 2, 160, con
nota di SQUAZZONI; Riv. regolazione mercati, 2016, 2, 182, con nota di
SANCHINI; Dir. trasporti, 2017, 519, con nota di ANCIS; Riv. dir. navigaz.,
2017, 213, con nota di LIBERATOSCIOLI; Dir. maritt., 2017, 714, con nota di
MOZZATI, VERMIGLIO; Giornale dir. amm., 2017, 60, con nota di BELLITTI; Riv.
it. dir. turismo, 2016, 17, 41, con nota di NICOTERA; Riv. it. dir. turismo,
2018, 45, con nota di PRADA) la quale ha affermato, in sintesi, i seguenti
principi:
I) l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva n. 2006/123/CE deve essere
interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale che prevede la
proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime in essere per
attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di
selezione tra i potenziali candidati;
II) l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una
normativa nazionale che consente una proroga automatica delle concessioni
demaniali pubbliche in essere per attività turistico-ricreative, nei limiti
in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo;
h2) anche dopo la sentenza
della Corte di giustizia, nonostante essa sia stata recepita da una copiosa
giurisprudenza nazionale, il dibattito sulla compatibilità eurounitaria
della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege è continuato,
soprattutto in ambito dottrinale, allorché si è negato che il diritto UE
imponga l’obbligo di evidenza pubblica per il rilascio delle concessioni
demaniali marittime con finalità turistico-ricreative; in questa
prospettiva, si è apertamente contestata:
I) l’applicabilità sia dei principi generali a tutela della concorrenza
desumibili dall’art. 49 TFUE;
II) l’applicabilità dell’art. 12 della
direttiva n. 2006/123/CE;
h3) l’applicabilità dell’art. 49 TFUE è stata
messa in discussione ritenendo mancante nel caso di specie il requisito
dell’interesse transfrontaliero certo, il cui accertamento è stato rimesso
dalla Corte di giustizia alla valutazione del giudice nazionale;
h4) rispetto all’applicazione
dell’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE sono stati mossi due ordini di
obiezioni:
I) il primo volto a sostenere l’assenza della risorsa naturale scarsa
(requisito la cui sussistenza la Corte di giustizia ha demandato al giudice
nazionale);
II) il secondo, volto radicalmente ad escludere la possibilità
di far rientrare le concessioni demaniali marittime con finalità
turistico-ricreative nella nozione di autorizzazione di servizi e, quindi,
nel campo di applicazione dell’art. 12 della citata direttiva;
h5) tali obiezioni non sono
condivisibili e deve essere ribadito il principio secondo cui il diritto UE
impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o
lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica,
con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la
proroga automatica ex lege fino al 31.12.2033 delle concessioni in
essere;
i) quanto all’applicabilità dell’art. 49 TFUE, va
evidenziato che:
i1) la Corte di giustizia, con
sentenza sez. VI, 07.12.2000, C-324/98, Telaustria e Telefonadress (in
Corriere giur., 2001, 489, con nota di FERRONI; Urbanistica e appalti, 2001,
487, con nota di LEGGIADRO; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2000, 1419,
con nota di GRECO) ha chiarito che qualsiasi atto dello Stato che stabilisce
le condizioni alle quali è subordinata la prestazione di un’attività
economica è tenuto a rispettare i principi fondamentali del Trattato e, in
particolare, i principi di non discriminazione in base alla nazionalità e di
parità di trattamento, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva, con un
“adeguato livello di pubblicità” che consenta l’apertura del relativo
mercato alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle
relative procedure di aggiudicazione;
i2) le ragioni di fondo alla
base di tale giurisprudenza giustificano la loro applicazione ad ogni
fattispecie (anche non avente carattere puramente negoziale per il diritto
interno) che dia luogo a prestazione di attività economiche o che comunque
costituisca condizione per l’esercizio di dette attività, sicché:
I) quando
sia accertato che un contratto (di concessione o di appalto), pur se si
collochi al di fuori del campo di applicazione delle direttive, presenti un
interesse transfrontaliero certo, l’affidamento, in mancanza di qualsiasi
trasparenza, di tale contratto ad un’impresa con sede nello Stato membro
dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento
a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere
interessate a tale appalto;
II) l’interesse transfrontaliero certo consiste nella capacità di una
commessa pubblica o, più in generale, di un’opportunità di guadagno offerta
dall’Amministrazione anche attraverso il rilascio di provvedimenti che non
portano alla conclusione di un contratto di appalto o di concessione, di
attrarre gli operatori economici di altri Stati membri (cfr., quanto agli
indici identificativi dell’interesse transfrontaliero certo, Corte di
giustizia UE, Corte di giustizia UE, sez. IV, 06.10.2016, C-318/15, Tecnoedi Costruzioni Srl, in Foro amm., 2016, 229, citata come “Corte di
giustizia, 06.10.2016, n. 318”; 15.05.2008, C-147/06, C-148/06, Soc. Secap, in Urbanistica e appalti, 2008, 10, 1123, con nota di BALOCCO;
Appalti & Contratti, 2008, 7, 81, con nota di GRECO; Giornale dir. amm.,
2008, 11, 1103, con nota di PASQUINI; Guida al dir., 2008, 27, 107, con nota
di MEZZACAPO; Guida enti locali, 2008, 47, 68, con nota di BECCARIA);
i3) con riferimento al
“mercato” delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative,
tali criteri devono evidentemente essere “adattati”, tenendo conto della
particolarità del settore di mercato che viene in considerazione; j)
l’obbligo di evidenza pubblica discende, comunque, dall’applicazione
dell’art. 12 della c.d. direttiva n. 2006/123/CE, che prescinde dal
requisito dell’interesse transfrontaliero certo (Corte di giustizia UE,
grande sezione, 30.01.2018, C360/15 e C31/16, College van Burgemeester
en Wethouders van de gemeente Amersfoort e Visser Vastgoed Beleggingen, in
Foro amm., 2018, 3, punto 103) , limitandosi il giudice nazionale ad
accertare il requisito della scarsità della risorsa naturale (Corte di
giustizia UE, sez. V, 14.07.2016, C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa, cit.);
k) le conclusioni cui è giunta nel 2016 la Corte
di giustizia sono state, specie nell’ambito del dibattito dottrinale,
oggetto di tentativi di confutazione secondo i seguenti argomenti volti a
dubitare della immediata applicabilità della direttiva a fattispecie quale
quella oggetto di giudizio:
k1) sarebbe stata necessaria
una preventiva armonizzazione delle normative nazionali applicabili in tale
settore;
k2) la direttiva n.
2006/123/CE, se applicata alle concessioni demaniali con finalità
turistico-ricreativa, comporterebbe un’armonizzazione delle disposizioni
legislative e regolamentari degli Stati membri in materia di turismo,
ponendosi così in contrasto con quanto oggi prevede l’art. 195 TFUE;
k3) la concessione di beni
demaniali non rientrerebbe comunque nella nozione di autorizzazione di
servizi, sul rilievo che –tra l’altro– gli oggetti dei due provvedimenti
permissivi (concessione demaniale e autorizzazione alla prestazione del
servizio) corrono su binari paralleli e non si confondono, con conseguente
estraneità della concessione demaniale al campo applicativo dell’art. 12
della direttiva n. 2006/123/CE;
k4) le aree demaniali
marittime, fluviali o lacuali non potrebbero in ogni caso considerarsi
risorse scarse: mancherebbe, quindi, anche in fatto, il presupposto per
applicare la norma della direttiva servizi;
k5) in ogni caso la direttiva
n. 2006/123/CE e, in particolare, l’art. 12, sarebbe priva del livello di
dettaglio e di specificità necessario ai fini della diretta applicabilità,
in assenza di un puntuale recepimento da parte del legislatore nazionale.
Non si tratterebbe, in altri termini, di una direttiva self-executing;
l)
nessuno di tali argomenti risulta meritevole di condivisione. Ciò in
considerazione che:
l1) l’obiettivo della la direttiva n. 2006/123/CE, la
cui base giuridica va individuata nel Capo II e nel Capo IV TFUE, è:
I)
eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio,
garantendo l’implementazione del mercato interno e del principio
concorrenziale ad esso sotteso (Corte di giustizia UE, grande sezione, 30.01.2018, C360/15 e C31/16, cit., punto 104) e non di “armonizzare” le
discipline nazionali che prevedono ostacoli alla libera circolazione;
II)
istituire un quadro giuridico generale a vantaggio di un’ampia varietà di
servizi (“qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una
determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse
naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano
una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie
di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata
pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e
completamento”, artt. da 9 a 13);
l2) la portata conformativa dell’art. 12
citato sulle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa non si
riverbera in modo diretto sulla politica nazionale in materia di turismo: il
rilascio della concessione rappresenta, infatti, solo una precondizione per
l’esercizio dell’impresa turistica (nella specie lo stabilimento balneare),
la cui attività, successivamente al rilascio, non è certo governata dalla
normativa contenuta nella direttiva (la Corte di giustizia ha espressamente
affermato che essa “si applica a numerose attività in costante evoluzione,
tra le quali figurano i servizi collegati con il settore immobiliare, nonché
quelli nel settore del turismo” (Corte di giustizia UE, grande sezione, 22.09.2020, C-724/2018 e C-727/2018, in Corriere giur., 2020, 1561,
punto 35);
l3) l’obiettivo (art. 1) è quello di “stabilire le disposizioni
generali che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di
stabilimento dei prestatori nonché la libera circolazione dei servizi,
assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi”:
ciò al fine, appunto, di rendere possibile l’attuazione della libera
circolazione dei servizi nel mercato interno;
l4) una lettura
sostanzialistica degli effetti economici del provvedimento di concessione
evidenzia come, a prescindere dalla qualificazione giuridica che esso riceva
nell’ambito dell’ordinamento nazionale, procuri al titolare vantaggi
economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull’assetto
concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi: ne
discende che il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale
(marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a
quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad
esso, un’attività d’impresa erogando servizi turistico-ricreativi va
considerato, nell’ottica della direttiva n. 2006/123/CE, un’autorizzazione
di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara;
l5) ci si trova al cospetto di
una risorsa “scarsa”:
I) il concetto di scarsità va, invero, interpretato in
termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della “quantità” del
bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza,
della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali
concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio che tramite esso
viene immesso sul mercato e della concreta disponibilità di aree ulteriori
rispetto a quelle attualmente già oggetto di concessione;
II) la valutazione
della scarsità della risorsa naturale, invero, dipende essenzialmente
dall’esistenza di aree disponibili sufficienti a permettere lo
svolgimento della prestazione di servizi anche ad operatori economici
diversi da quelli attualmente “protetti” dalla proroga ex lege (in molte
Regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere
oggetto di concessione, che nella maggior parte dei casi coincide con la
percentuale già assentita);
l6) la direttiva n. 2006/123/CE deve
considerarsi self-executing sul rilievo che:
I) il livello di dettaglio che
una direttiva deve possedere per potersi considerare self-executing dipende,
invero, dall’obiettivo che essa persegue e dal tipo di prescrizione che è
necessaria per realizzare il risultato;
II) da tale punto di vista, l’art.
12 della direttiva persegue l’obiettivo di aprire il mercato delle attività
economiche il cui esercizio richiede l’utilizzo di risorse naturali scarse,
sostituendo, ad un sistema in cui tali risorse vengono assegnate in maniera
automatica e generalizzata a chi è già titolare di antiche concessioni, un
regime di evidenza pubblica che assicuri la par condicio fa i soggetti
potenzialmente interessati;
III) rispetto a tale obiettivo, la disposizione
ha un livello di dettaglio sufficiente a determinare la non applicazione
della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege fino al 2033 e ad
imporre, di conseguenza, una gara rispettosa dei principi di trasparenza,
pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mutuo riconoscimento e
proporzionalità;
IV) deve, pertanto, affermarsi l’incompatibilità
comunitaria della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e
generalizzata delle concessioni già rilasciate;
m) anche la moratoria
emergenziale prevista dall’art. 182, co. 2, d.l. n. 34 del 2020 presenta
profili di incompatibilità comunitaria del tutto analoghi a quelli fino ad
ora evidenziati, dovendosi affermare che "più che essere funzionale al
“contenimento delle conseguenze economiche prodotte dall’emergenza
epidemiologica” da COVID-19, la reiterata proroga della durata delle
concessioni balneari prevista dalla legislazione italiana scoraggia […] gli
investimenti in un settore chiave per l’economia italiana e che sta già
risentendo in maniera acuta dell’impatto della pandemia” (cfr. correlata
lettera di costituzione in mora della Commissione UE);
n) non sussistono i presupposti, nel caso di
specie, per disporre un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, ricorrendo
una delle situazioni in presenza delle quali, in base alla c.d.
“giurisprudenza Cilfit” (di recente, ribadita, sia pure con alcuni
correttivi volti a renderla più flessibile, dalla
Corte di giustizia UE,
grande camera, nella sentenza 06.10.2021, C-561/19, Consorzio Italian
Management e Catania Multiservizi (oggetto della
News US in data 03.11.2021), in presenza di una questione che è stata già oggetto di
interpretazione da parte della Corte di giustizia: gli argomenti invocati
per superare l’interpretazione già resa dal giudice europeo non sono in
grado di sollevare ragionevoli dubbi;
o) è pacifico il potere della p.a. di non
applicazione delle norme nazionali in contrasto con l’ordinamento UE e ciò
con riferimento non soltanto ai regolamenti ma anche alle direttive
self-executing (cfr. i principi espressi in Corte cost. 11.07.1989, n.
389, in Foro it., 1991, I; Corte di giustizia CE, 22.06.1989, C-103/88,
in Riv. dir. internaz. privato e proc., 1989, 71; Cons. Stato, sez. V, sez.
V 06.04.1991, n. 452, in Foro amm., 1991, 1076);
p) la legge nazionale in
contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché
contenuta in una direttiva self-executing, non può essere applicata né dal
giudice né dalla pubblica amministrazione, senza che sia all’uopo necessario
sollevare una questione di legittimità costituzionale (Corte cost., 08.06.1984, n. 170 (in Foro it., 1984, I, 2062, con nota di TIZZANO; Giust. civ.,
1984, I, 2353, con nota di SOTGIU; Dir. comunitario scambi internaz., 1984,
193, con nota di CAPELLI DONNARUMMA; Giur. it., 1984, I, 1, 1521, con nota
di BERRI; Dir. e pratica trib., 1984, II, 1073, con nota di MARESCA; Giur.
cost., 1984, I, 1222, con nota di GEMMA);
q) un sindacato di costituzionalità in via
incidentale su una legge nazionale anticomunitaria è oggi possibile solo se
tale legge sia in contrasto con una direttiva comunitaria non self-executing
oppure, secondo la recente teoria della c.d. doppia pregiudizialità, nei
casi in cui la legge nazionale contrasti con i diritti fondamentali della
persona tutelati sia dalla Costituzione sia dalla Carta dei diritti
fondamentali UE (cfr., in particolare, Corte cost., 10.05.2019, n. 112,
in Guida al dir., 2019, 26, 64, con nota di BRICCHETTI; Dir. pen. e proc.,
2020, 197, con nota di ACQUAROLI; Giur. comm., 2019, II, 1279, con nota di
AMATI; Giur. cost., 2019, 1364, con nota di ANZON DEMMIG); Corte cost. 21.03.2019, n. 63 (in Foro it., 2019, I, 2663;
21.02.2019, n. 20 (in
Foro it., 2020, I, 125, con nota di TRAPANI, nonché oggetto della
News US in
data 04.03.2019; Giur. cost., 2019, 226, con nota di REPETTO; Giornale
dir. amm., 2019, 601, con nota di AVEARDI; Guida al dir., 2019, 12, 90, con
nota di PONTE; Dir. informazione e informatica, 2019, 79, con nota di
POLLICINO, RESTA; Riv. corte conti, 2019, 1, 227, con nota di CHIATANTE;
Dir. Internet, 2019, 57, con nota di MARONGIU); Corte cost., 14.12.2017, n. 269 (in Foro it., 2018, I, 26, in Foro it., 2018, I, 405, con nota
di SCODITTI, in Giust. pen., 2017, I, 321, con nota di DELLI PRISCOLI, in
Giur. cost., 2017, 2925, con note di SCACCIA, REPETTO, FEDELE, in Riv. dir.
internaz., 2018, 282, in Riv. giur. trib., 2018, 105, con nota di FERRARA,
in Corriere trib., 2018, 684, con nota di MISCALI, erroneamente indicata in
Corte cost. n. “289/17”);
r) nessun legittimo affidamento può discendere in
capo agli operatori dalle proroghe ex lege della durata delle concessioni
demaniali sul rilievo che:
r1) la lettera di messa in mora della Commissione
europea del 03.12.2020, nel rilevarne l’insussistenza, ricorda che
“secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un
certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte”:
I) “in primo luogo,
rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti
autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato
dall’amministrazione”;
II) “in secondo luogo, tali rassicurazioni devono
essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono”;
III) “in terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle
norme applicabili”;
r2) in termini più generali si è affermato che, “qualora
un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere
l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, egli non
può invocare il beneficio della tutela del legittimo affidamento nel caso in
cui detto provvedimento venga adottato” (Corte di giustizia CE, sez. I, 14.10.2010, C-67/09, Nuova Agricast Srl e Cofra Srl, in Foro it., 2013, IV,
313, con nota di GRASSO);
r3) d’altronde, la necessità dell’assoggettamento
delle concessioni demaniali principi di concorrenza ed evidenza pubblica
emergeva, ancor prima della direttiva n. 2006/123/CE, dalla procedura di
infrazione UE del 2008, dalla coeva segnalazione AGCM e dalla giurisprudenza
(si vedano: Corte cost., 18.07.2011, n. 213 in Dir. trasporti, 2012,
441, con nota di CUCCU; 20.05.2010, n. 180, in Dir. trasporti, 2011,
167, con nota di FIORILLO; Giur. cost., 2010, 2161, con nota di ESPOSITO;
Riv. dir. navigaz., 2011, 311, nota di SALAMONE, SIMONE; Cons. Stato, sez.
V, 31.05.2007, n. 2825, in Dir. trasporti, 2008, 463, con nota di
CALLERI; sez. IV, 25.01.2005, n. 168, in Urbanistica e appalti, 2005,
329, con nota di CARANTA);
s) sul rapporto tra effetti (sul provvedimento
applicativo) della disapplicazione della norma interna in contrasto con
l’ordinamento UE e l’esercizio dei poteri di autotutela:
s1) secondo la
stessa giurisprudenza comunitaria, il principio di primazia del diritto UE
di regola non incide sul regime di stabilità degli atti (amministrativi e
giurisdizionali) nazionali che risultino comunitariamente illegittimi;
s2)
in linea di principio, quindi, va escluso un obbligo di autotutela (o anche
di riesame), a maggior ragione laddove il provvedimento amministrativo
risulti confermato da un giudicato;
s3) si possono richiamare, a tal proposito, con specifico riferimento alla
questione dell’obbligo di autotutela su un atto amministrativo
comunitariamente invalido, le sentenze Corte di giustizia CE 12.02.2008, C-2/06, Kempter (in Rass. trib., 2008, 1190, con nota di BARTOLOTTA;
Dir. comm. internaz., 2008, 437, con nota di LAJOLO, MILANO; Guida al dir.-Dir.
comunitario e internaz., 2008, 2, 52, con nota di CASTELLANETA; Dir.
comunitario scambi internaz., 2008, 463, con nota di LOMBARDO; Giust. amm.,
2008, 1, 177, con nota di DE LUCA; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2008,
1517, con nota di CORTESE) e 13.01.2004, C-453/00, Khune (in Giornale
dir. amm., 2004, 723, con nota di DE PRETIS; Urbanistica e appalti, 2004,
1151, con nota di CARANTA; Dir. comunitario scambi internaz., 2004, 485, con
nota di GATTINARA; Guida al dir., 2004, 11, 111, con nota di MONDINI; Giust.
amm., 2004, 176, con nota di TULUMELLO), in cui la Corte UE, pur escludendo
la sussistenza di un generalizzato obbligo di autotutela o di riesame,
individua alcune condizioni in presenza delle quali tale obbligo sussiste,
anche in presenza di giudicato che abbia escluso l’illegittimità del
provvedimento medesimo;
s4) nel caso di specie, tuttavia, non si pone
propriamente una questione di autotutela amministrativa su provvedimenti
amministrativi sul rilievo che:
I) l’atto di proroga è un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla
stessa direttamente riconducibile (Cons. Stato, sez. VI, 18.11.2019 n.
7874, in Foro it., 2020, III, 65, con nota di TRAVI A.; Riv. dir. navigaz.,
2019, 827, con nota di MONTESANO);
II) la formulazione letterale dell’art. 1, comma 682, della l. n. 145 del
2018 non lascia spazio a dubbi, perché la norma direttamente dispone che le
concessioni demaniali già rilasciate “vigenti alla data di entrata in vigore
della presente legge hanno una durata, con decorrenza dalla data di entrata
in vigore della presente legge, di anni quindici” (sull’ambito oggettivo di
applicabilità della disposizione è intervenuto il d.l. n. 104 del 2020);
III) la proroga del termine avviene, quindi, automaticamente, in via
generalizzata ed ex lege, senza l’intermediazione del potere amministrativo,
trattandosi di una legge-provvedimento che non dispone in via generale e
astratta, ma, intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete,
recepisce e “legifica”, prorogandone il termine, le concessioni demaniali
già rilasciate, con una fonte di regolazione del rapporto che torva la sua
base nella legge e non nel provvedimento;
IV) conseguentemente, se la proroga è direttamente disposta per legge ma la
relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché
in contrasto con il diritto UE,
l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset, come se non si
fosse mai prodotto;
V) l’Amministrazione, dunque, non esercita alcun potere
di autotutela (con i vincoli che la caratterizzano): se l’atto eventualmente
adottato dall’amministrazione svolge la sola funzione ricognitiva (e nei
termini appunto in cui svolga questa sola funzione), mentre l’effetto
autoritativo è prodotto direttamente dalla legge, la non applicabilità di
quest’ultima impedisce il prodursi dell’effetto autoritativo della proroga
(il provvedimento di secondo grado in cui si esprime l’autotutela non può
avere ad oggetto una disciplina contenuta nella legge), dovendosi rinvenire
una natura ricognitiva nel provvedimento adottato dalla p.a.;
s5) analoghe
considerazioni valgono anche nei casi in cui sia intervenuto un giudicato
favorevole al concessionario demaniale:
I) ferma restando l’importanza che
il principio dell’autorità di cosa giudicata –in applicazione dei principi
di certezza e stabilità del diritto e dei rapporti giuridici di cui è
espressione la res iudicata, diventati essi stessi princìpi non solo degli
Stati membri ma anche del diritto UE– riveste sia nell’ordinamento
giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali (Corte di
giustizia UE, sez. IV, 11.09.2019, C-676/17, Oana Mădălina Călin, con
ulteriori richiami; sez. I, 16.03.2006, C-234/04, Rosmarie Kapferer, in
Guida al dir., 2006, 14, 109, con nota di CASTELLANETA; 01.06.1999,
C-126/97, Eco Swiss, in Foro it., 1999, IV, 470, con nota di BASTIANON; Dir.
e pratica società, 1999, 16, 81, con nota di DITTA; in termini cfr. anche
Cons. Stato, Ad. plen., 09.04.2021, n. 6, oggetto della
News US in data
20.04.2021 e Cass. civ., sez. V, 27.01.2017, n. 2046), nel caso di
specie, tali principi vanno adeguati tenendo conto che il giudicato incide
su un rapporto di durata (qual è appunto quello che deriva dal rilascio o
dal rinnovo della concessione demaniale);
II) sotto tale profilo, va,
infatti, ricordato che le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte
di giustizia hanno la stessa efficacia vincolante delle disposizioni
interpretate (Cons. Stato, Ad. plen. 09.06.2016, n. 11, in Foro it.,
2017, III, 186, con nota di VACCARI; Giornale dir. amm., 2017, 372, con nota
di CARBONARA e oggetto della
News US in data 24.06.2016);
III) esse sono
equiparabili ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un
procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non
coperto dal giudicato (come accade quando viene in considerazione un
rapporto di durata) determina non un conflitto ma una successione
cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica (id
est: per quella parte di rapporto non coperta dal giudicato, non vi sono
ostacoli a dare immediata attuazione allo jus superveniens di derivazione
comunitaria, sicché l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che
ha disposto la proroga ex lege delle concessioni demaniali determina il
venir meno degli effetti della concessione, in conseguenza della non
applicazione della disciplina interna);
t) sul differimento della non
applicazione della norma interna in contrasto con l’ordinamento UE mediante
la modulazione degli effetti temporali della decisione (da attuarsi secondo
i principi espressi in
Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n. 13, in
Foro it., 2018, III, 145, con nota di CONDORELLI; Foro amm., 2017, 2377;
Urbanistica e appalti, 2018, 373, con nota di FOLLIERI; Riv. giur.
urbanistica, 2018, 123, con nota di ROSSA; Rass. avv. Stato, 2018, fasc. 1,
134, con nota di VITULLO e MUCCIO; Riv. giur. edilizia, 2018, I, 130; Dir.
proc. amm., 2018, 1133, con nota di CASSATELLA; Riv. giur. edilizia, 2018,
I, 1022, con nota di APERIO BELLA e PAGLIAROLI; Riv. amm., 2018, 94; la
stessa decisione è stata inoltre oggetto della
News US in data 08.01.2018, alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina ed in
giurisprudenza):
t1) il notevole impatto (anche sociale ed economico) che la
immediata non applicazione, nel caso di specie, può comportare, specie in un
contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi
normativi stratificatisi nel corso degli anni, giustifica il differimento in
avanti degli effetti della decisione;
t2) la deroga alla retroattività trova
fondamento nel principio di certezza del diritto (in tal senso, e con
riferimento all’ordinamento UE, Corte di giustizia CE, 15.03.2005,
C-209/03, Bidar, in Guida al dir., 2005, 16, 102, con nota di CORRADO);
t3)
nel caso di specie, peraltro, la graduazione degli effetti è resa necessaria
dalla constatazione che la regola in base alla quale le concessioni balneari
debbono essere affidate in seguito a procedura pubblica e imparziale
richiede di prevedere un intervallo di tempo necessario per svolgere la
competizione, nell’ambito del quale i rapporti concessori continueranno a
essere regolati dalla concessione già rilasciata;
u) conclusivamente sono
stati enunciati i principi di cui in massima.
IV. – Per completezza si
segnala quanto segue:
v) sull’ammissibilità dell’intervento in ipotesi di interventore parte di un (altro) giudizio in cui venga in rilievo una
quaestio iuris analoga a quella oggetto del giudizio nel quale intende
intervenire:
v1)
Cons. Stato, Ad. plen., sentenza non definitiva 02.04.2020, n. 10 (in
Foro it., 2020, III, 379, nonché oggetto della
News US in data 14.04.2020, citata nella sentenza in rassegna; Guida al dir., 2020, 21, 108, con
nota di GIZZI; Merito, 2020, 5, 69, con nota di CHIARELLI; Urbanistica e
appalti, 2020, 670, con nota di MIRRA; Foro amm., 2020, 722, con nota di
GRIGNANI; Giornale dir. amm., 2020, 505, con nota di MOLITERNI; Nuovo
notiziario giur., 2020, 463, con nota di PALMIERI; Rass. avv. Stato, 2020,
2, 91, con nota di BELLI; Giur. it., 2021, 157, con nota di INGEGNATTI; Foro
amm., 2020, 1374, con nota di IANNOTTA; www.giustamm.it, 2020, 6, con nota
di SESSA; Riv. giur. urbanistica, 2020, 954, con nota di AGNOLETTO);
v2)
Cons. Stato, Ad. plen., 04.11.2016, n. 23, cit.;
w) sulla modulabilità
degli effetti dell’annullamento (anche giustiziale, oltre che
giurisdizionale) del provvedimento amministrativo, cfr.:
Cons. Stato, sez.
I, parere 30.06.2020, n. 1233 (oggetto della
News US in data 13.07.2020 alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), il quale ha
evidenziato che:
w1) la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. IV,
10.05.2011, n. 2755, in Urbanistica e appalti, 2011, 927, con nota di
TRAVI; Riv. neldiritto, 2011, 1228, con nota di RONCA; Guida al dir., 2011,
fasc. 26, 103 (m), con nota di LORIA; Giornale dir. amm., 2011, 1310 (m),
con nota di MACCHIA; Giur. it., 2012, 438, con nota di FOLLIERI; Riv. giur.
ambiente, 2011, 818, con nota di DE FEO, TANGARI; Dir. proc. amm., 2012,
260, con nota di GALLO, GIUSTI; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2012, 566, con
nota di AMOROSO, ANNUNZIATA, con riferimento all’illegittimità del piano
faunistico venatorio della regione Puglia, per omesso svolgimento del
procedimento di valutazione ambientale strategica):
I) si è espressa nel
senso della configurabilità di una tale possibilità, non solo sul rilievo
della potenziale compromissione degli equilibri ambientali derivanti
dall’eliminazione degli effetti del piano originariamente approvato, ma
anche in ragione del contenuto delle pretese fatte valere dalla parte
ricorrente;
II) il principio di effettività della tutela giurisdizionale
“nella declinazione desumibile tanto dalle fonti sovranazionali (articoli 6
e 13 della CEDU), quanto da quelle interne (articoli 24 e 113 della
Costituzione), imponeva una modulazione temporale dell’efficacia tipica del
dictum giudiziale, in vista della necessità di assicurare una soddisfazione
non meramente formale dell’interesse fatto valere con la domanda”;
III) il
riconoscimento di deroghe alla naturale retroattività degli effetti
caducatori non incontrerebbe alcuna preclusione nelle norme sostanziali e
processuali, laddove rispettivamente disciplinano l’annullamento in
autotutela degli atti amministrativi (art. 21-nonies l. n. 241 del 1990) e i
contenuti delle sentenze che dispongono l’annullamento del provvedimento
impugnato (art. 24, comma 1, lett. a), c.p.a.);
IV) i poteri valutativi
esercitabili dal giudice in ordine all’efficacia del contratto stipulato
sulla base dell’aggiudicazione illegittima, ai sensi degli artt. 121 e 122
c.p.a., costituirebbero un ulteriore indice normativo a sostegno della
compatibilità sistematica di pronunce che, accertata la difformità dell’atto
a contenuto generale rispetto al parametro legale, escludono la produzione
di effetti caducatori sino all’adozione del nuovo provvedimento da parte
dell’amministrazione;
V) in considerazione dalla ascrivibilità della
disciplina ambientale al novero delle competenze concorrenti fra Stati
membri e istituzioni UE, gli interessi fatti valere in tale ambito materiale
devono essere tutelati dai giudici nazionali secondo livelli di garanzia non
inferiori rispetto a quelli assicurati dal diritto eurounitario. In questo
senso, le disposizioni di cui all’art. 264 TTFUE, specie nella parte in cui
affidano alla Corte di giustizia UE la facoltà di precisare gli effetti
dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi, troverebbero
ingresso nell’ordinamento interno in qualità di principi idonei a garantire
una tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche soggettive dedotte
in giudizio;
w2) sulla base dei medesimi argomenti, Cons. Stato, Ad. plen.,
22.12.2017, n. 13, cit., ha ammesso la configurabilità di deroghe
all’efficacia retroattiva delle pronunce con cui il giudice della
nomofilachia modifica orientamenti giurisprudenziali consolidati;
w3) il
cosiddetto prospective overruling, tuttavia, condivide con la graduazione
della portata caducatoria delle sentenze di annullamento, null’altro che la
comune riconducibilità alle tecniche di governo dell’efficacia delle
pronunce giurisdizionali;
w4) “l’elaborazione di principi di diritto
innovativi rispetto all’orientamento precedentemente consolidato, in quanto
formulati in sentenze dichiarative di interpretazione intese a rendere
manifesto il significato dell’originario dato normativo, esprime una
naturale tendenza alla retroazione dei nuovi canoni esegetici. Tuttavia, a
fronte della potenziale lesione di controinteressi di rango costituzionale,
l’operatività del revirement giurisprudenziale può essere limitata alle
sole fattispecie che vengano in rilievo posteriormente alla pubblicazione
della nuova decisione”;
w5) la giurisprudenza di legittimità ha precisato
che l’ammissibilità di interventi nomofilattici con efficacia ex nunc è
subordinata alla cumulativa presenza dei seguenti requisiti:
I) la nuova
interpretazione incida su norme processuali;
II) il mutamento
giurisprudenziale sia stato imprevedibile e
sopravvenga a un distinto orientamento consolidato nel tempo, in modo da
indurre la parte a un ragionevole affidamento sulla perdurante validità
dell’indirizzo anteriore;
III) l’overruling precluda l’esercizio del diritto
di azione o di difesa delle parti;
w6) in senso conforme e in applicazione
dei presupposti precisati dalla giurisprudenza di legittimità, la
giurisprudenza amministrativa ha escluso la differibilità nel tempo dei
principi di diritto enunciati in tema di riapertura delle graduatorie ad
esaurimento e di superamento della pregiudiziale amministrativa nella
domanda di risarcimento del danno;
w7) la citata sentenza
Cons. Stato, Ad.
plen., 22.12.2017, n. 13, si discosta da tale orientamento in quanto
giunge ad estendere la portata del prospective overruling anche all’esegesi
di norme a contenuto sostanziale;
w8) in ogni caso, il potere di disporre la
decorrenza ex nunc degli effetti delle sentenze a contenuto interpretativo
non può assimilarsi alle tecniche di modulazione della portata caducatoria
delle pronunce costitutive di annullamento degli atti illegittimi, le quali,
lungi dall’incidere sulla stabilità di precedenti giurisprudenziali
consolidati, contengono un accertamento circa la legittimità o
l’illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato in vista della
soddisfazione di un interesse protetto dall’ordinamento nazionale. Le prime,
invece, individuano il momento a partire dal quale il nuovo orientamento
interpretativo deve essere applicato;
w9) pertanto, l’indagine sulla
graduazione degli effetti dell’annullamento non può “che essere condotta
sulla base di criteri distinti rispetto a quelli cui la giurisprudenza
ordinaria e amministrativa ricorre per giustificare la praticabilità del prospective overruling”;
w10) le principali critiche mosse dalla dottrina
avverso la graduazione degli effetti caducatori delle sentenze di
annullamento sono le seguenti:
I) nel sistema della giustizia amministrativa
il contenuto tipico dell’azione di annullamento, consistente nella
eliminazione del provvedimento illegittimo dalla realtà giuridica, sarebbe
violato dalle decisioni con cui il giudice dispone il mantenimento
dell’efficacia dell’atto impugnato nelle more dell’ulteriore esercizio del
potere. La natura costitutiva della sentenza di annullamento imporrebbe la caducazione degli atti impugnati e i relativi effetti demolitori sarebbero
radicalmente indisponibili;
II) vi sarebbero dei profili di contrasto con
l’art. 113, comma 3, Cost., ai sensi del quale la legge determina quali
organi della giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica
amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa;
III) la necessaria intermediazione legislativa nella definizione dei poteri
di annullamento osterebbe all’autonoma gestione giudiziaria dell’efficacia
delle pronunce costitutive, dal momento che la produzione del risultato
demolitorio potrebbe essere legittimamente escluso nelle sole ipotesi
predeterminate dalla fonte primaria;
IV) il principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato non consentirebbe al giudice di modulare il contenuto
del decisum in senso difforme rispetto alla pretesa annullatoria fatta
valere con la domanda di parte;
V) anche gli argomenti di diritto positivo
dedotti dalla giurisprudenza amministrativa non sarebbero ritenuti idonei a
pervenire al risultato della modulazione degli effetti della sentenza;
w11)
non sono condivisibili i rilievi critici mossi dalla dottrina, con
riferimento al contenuto tipico delle pronunce costitutive di annullamento:
I) in esito al complesso percorso evolutivo che vede la pretesa alla
soddisfazione del bene della vita acquisire una valenza centrale entro la
struttura dell’interesse legittimo, la disciplina processuale delle azioni
esperibili a fronte dell’esercizio del potere richiede un costante
adeguamento interpretativo alle esigenze di effettività imposte dalla
cognizione di una posizione giuridica soggettiva sostanziale;
II) la
considerazione del moderno schema dei rapporti di diritto pubblico, nel
quale il bene della vita inciso dall’esercizio del potere diviene elemento
costitutivo di una situazione giuridica soggettiva sostanziale, esige la
costruzione di un apparato rimediale idoneo ad assicurare a quest’ultima una
protezione adeguata alla sua intrinseca natura;
III) il canone di
effettività della tutela giurisdizionale si pone a fondamento di un sistema
atipico di azioni, la cui esperibilità garantisce la soddisfazione di
interessi giuridicamente rilevanti mediante strumenti processuali non
necessariamente coincidenti con quelli espressamente previsti dalla legge;
IV) l’atipicità dell’apparato rimediale può presentare anche una
declinazione di tipo contenutistico, nella misura in cui la decisione del
giudice esprima una sintesi degli interessi in conflitto non astrattamente
predeterminabile dal legislatore;
V) quindi, l’estensione dell’oggetto della
cognizione al rapporto giuridico controverso, al di là dei confini imposti
dal mero scrutinio di legittimità dell’atto impugnato, può giustificare il
riconoscimento di poteri valutativi in ordine alla perduranza degli effetti
dell’atto illegittimo, nell’ottica del bilanciamento fra le esigenze di
tutela fatte valere dalla parte ricorrente e i controinteressi generali e
particolari rilevanti nel caso concreto;
VI) la domanda di annullamento
contiene sempre il quid minus della domanda di mero accertamento
dell’illegittimità con effetti non retroattivi o non eliminatori e, sotto il
profilo
dei poteri del giudice, l’attribuzione del potere di decidere quando
annullare l’atto illegittimo può implicare anche il potere, meno incisivo di
stabilire da quando far decorrere la portata della sentenza di annullamento
dell’atto;
w12) con riferimento alla violazione della riserva di legge
prevista dall’art. 113, comma 3, Cost., nella parte in cui richiede
l’intermediazione legislativa per determinare i casi e gli effetti
dell’annullamento giurisdizionale:
I) nessuna norma di diritto sostanziale o
processuale espressamente preclude l’individuazione di deroghe alla portata
retroattiva delle pronunce a contenuto demolitorio;
II) il vigente assetto
processuale, oltre a rimettere al giudice la valutazione circa la necessità
dell’annullamento dell’atto illegittimo, accentua il carattere conformativo
delle decisioni adottabili: il combinato disposto degli artt. 30, comma 1, e
34, comma 1, lett. c), c.p.a. consente la proposizione di domande atipiche
di condanna, le quali, se formulate contestualmente ad altra azione, possono
condurre alla pronuncia di sentenza di accoglimento che obbliga
l’amministrazione all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione
giuridica soggettiva dedotta in giudizio;
III) la dichiarazione di efficacia
dell’atto illegittimo sino al nuovo esercizio del potere da parte
dell’amministrazione rinviene quindi nella disciplina processuale di rango
primario un fondamento normativo;
w13) con riferimento alla incompatibilità
fra le tecniche di modulazione degli effetti demolitori e il principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato:
I) l’oggetto dell’azione di
annullamento comprende la domanda di accertamento circa l’illegittimità
dell’atto impugnato;
II) ne discende che la pronuncia con cui il giudice
sospende provvisoriamente la produzione dell’effetto eliminatorio della
sentenza o stabilisce che l’atto illegittimo sia annullato senza far
retroagire gli effetti della caducazione, non può ritenersi difforme
rispetto ai contenuti del petitum;
w14) in chiave sistematica, le deroghe
alla retroattività delle sentenze di annullamento del contratto, previste
dagli artt. 1443 e 1445 c.c. a tutela dell’incapace e del terzo
subacquirente, confermano la validità dell’orientamento che ammette la
modulazione degli effetti delle pronunce demolitorie, ove tale soluzione sia
imposta dalla necessità di proteggere adeguatamente gli interessi dedotti in
giudizio;
w15) la soluzione della modulabilità degli effetti dell’atto trae
fondamento nell’evoluzione del sindacato del giudice che si è trasformato da
giudizio di mera conformità dell’atto a un determinato parametro normativo a
giudizio sul legittimo esercizio della funzione amministrativa con
riferimento al rapporto;
w16) anche la giurisprudenza ha rilevato che
l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale ma si
rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e
inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita,
la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che
si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un
pregiudizio; conseguentemente si aprono le porte ad un giudizio sul rapporto
regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa
sostanziale azionata;
w17) l’impostazione accolta si pone in continuità con
l’indirizzo adottato dalla giurisprudenza eurounitaria;
w18) la Corte di
giustizia UE ritiene infatti di poter decidere, di volta in volta, sugli
effetti dell’annullamento nel caso di riscontrata invalidità di un
regolamento e anche nei casi di impugnazione delle decisioni, delle
direttive e di ogni altro atto generale; w19) ai sensi dell’articolo 264 TFUE, se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia UE dichiara nullo e può
precisare gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati
definitivi;
w20) la giurisprudenza europea ha in diversi casi ritenuto di
mantenere gli effetti dell’atto impugnato per un determinato periodo di
tempo sul presupposto che l’annullamento con effetto immediato avrebbe
potuto arrecare un pregiudizio grave e irreversibile dell’efficacia delle
misure imposte dall’atto caducato;
w21) anche l’analisi delle tradizioni
giurisprudenziali straniere (in specie francese) dimostra il diffuso
riconoscimento di deroghe alla retroattività delle sentenze di annullamento;
w22) risponde meglio al principio dell’effettività della tutela
giurisdizionale la possibilità di modulare gli effetti dell’annullamento il
quale:
I) dovrà, tuttavia, essere utilizzato in modo accorto e solo nelle
ipotesi in cui si renda necessario per una migliore tutela degli interessi
fatti valere nel giudizio in confronto con quelli pubblici e privati
coinvolti, anche al fine di evitare che le esigenze di effettività della
tutela trasmodino in situazioni di incertezza giuridica o amministrativa;
II)
potrà intervenire in tutte le ipotesi in cui occorre evitare che
l’annullamento di un atto dell’amministrazione possa generare una condizione
amministrativa di vuoto regolatorio, tale da determinare effetti
peggiorativi della posizione giuridica tutelata con il
ricorso, nel senso di pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita
che l’interessato aspira a conseguire o mantenere;
x) la casistica delle
pronunce volte a modulare nel tempo gli effetti caducatori della sentenza
presenta –tendenzialmente– il comune denominatore dell’esigenza di
garantire la corretta applicazione del diritto eurounitario, soprattutto in
campo ambientale, rispetto al quale la caducazione immediata dei
provvedimenti impugnati darebbe luogo (come negli emblematici casi appena
citati di Cons. Stato, sez. I, parere 30.06.2020, n. 1233 e Cons. Stato,
sez. IV, 10.05.2011, n. 2755) ad effetti opposti a quelli che la
disciplina sovranazionale intende tutelare. Ciò induce a sottolineare come:
x1) una cosa sia definire il potere modulatorio della pronuncia in
situazioni in cui vengono in rilievo aspetti di rilevanza eurounitaria da
salvaguardare, per il quali lo stesso ordinamento UE ammette (id est:
sostanzialmente impone, cfr. Corte di giustizia, v. sentenza grande sezione,
28.02.2012, C-41/11, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne, in
Riv. giur. ambiente, 2012, 566, con nota di GRATANI; Foro amm.-Cons. Stato,
2012, 3102, con nota di FELIZIANI; Riv. quadrim. dir. ambiente, 2013, 3, 51,
con nota di GIUSTI) il differimento degli effetti della pronuncia al fine di
garantire immediata effettività al diritto UE;
x2) altra cosa sia
individuare, più in generale, il fondamento ontologico, che sembra non
essere ancora nitidamente definito, di tale potere in ogni ulteriore caso,
posto dalla giurisprudenza in termini di “non esclusione” (fermo restando
che pur deponendo i fondamentali richiami al principio di effettività della
tutela, alla regola di atipicità delle azioni nel c.p.a. o a specifiche
disposizioni codicistiche nel senso del radicamento di tale potere, diverse
sono le critiche della dottrina riferite alla modulazione degli effetti del
nuovo principio di diritto espresso in sede nomofilattica: cfr. nota di
CONDORELLI a Cons. Stato, sez. VI, 03.12.2018 n. 6858, in Foro it.,
2019, III, 238);
y) per una casistica (più o meno) recente di decisioni, tra
le diverse, che involgono il differimento degli effetti della decisione:
y1) Tar per l’Emilia Romagna, sez. I, 19.04.2021, n. 388 che ha negato il
differimento della pronuncia caducatoria richiesta dal controinteressato in
un giudizio avente ad oggetto una procedura selettiva, sul rilievo che la
modulazione degli effetti caducatori nei termini avanzati finirebbe col
dequotare “il petitum stesso dell’azione giurisdizionale attivata dalla
ricorrente e cioè la possibilità dell’acquisizione del bene della vita
preclusa ab origine dalla adottata determinazione di esclusione della
candidata al concorso in questione (rivelatasi illegittima), il che è
inammissibile”;
y2) Cons. Stato, Sez. III, 24.02.2016, n. 748 (in Giur.
it., 2016, 1722, con nota di SCOCA) in tema di scioglimento di consiglio
comunale per infiltrazione mafiosa, secondo cui “L'efficacia temporale
dell'annullamento può, peraltro, essere limitata alla sua operatività ex nunc (e, cioè, dalla pubblicazione della presente decisione), in conformità
alla richiesta formulata oralmente in udienza pubblica dal difensore dello
S. e in coerenza con il contestuale ed equilibrato soddisfacimento in via
integrale dell'interesse morale del ricorrente e di quelli pubblici
implicati dal commissariamento (per il periodo in cui ha prodotto i suoi
effetti)”;
y3) Cons. Stato, sez. III, 16.02.2021, n. 1409 (in Foro amm., 2021, 265), la quale ha accolto l’appello “ai soli fini della
adozione, da parte del Comune appellato e con effetto ex nunc -sulla base
del potere di questo Giudice di modulare l'effetto conformativo della
propria pronuncia a seguito della citata sentenza CGUE- di nuovi atti
concernenti la cessione della farmacia, considerato che il protrarsi,
ulteriormente nel tempo, di un assetto contrattuale basato su norme
nazionali ritenute in contrasto con quelle eurounitarie costituirebbe
violazione diretta degli effetti di una pronuncia immediatamente vincolante
della CGUE, che, avendo interpretato la norma, ne ha ritenuto ex tunc la
illegittimità, e per la quale soltanto l'esercizio del consentito potere, da
parte di questo Giudice, di adeguamento anche temporale degli effetti
conformativi, può condurre alla non irretroattività degli effetti, così
come, seppure in via subordinata, chiesto dalle parti appellate”;
y4) Tar
per la Sicilia, sez. st. Catania, sez. I, 30.04.2019, n. 966, secondo
cui, in materia di piano paesaggistico, “poiché […] il piano impugnato
rileva anche ai fini del rispetto della normativa ambientale europea (cfr.
art. 36 delle Norme di attuazione del medesimo piano) altrimenti violata, il
Collegio deve disporre che la integrale caducazione dei provvedimenti
impugnati sia differita, in avanti, fino alla riadozione delle eventuali
misure di salvaguardia (art. 143, c. 9 d.lgs. n. 42 del 2004) da parte
dell'Assessorato regionale dei beni culturali e, comunque, fino a non oltre
180 giorni dalla pubblicazione della […] sentenza, periodo nel quale essa
spiega unicamente effetti conformativi”;
y5) Cons. Stato, sez. III, 09.07.2013, n. 3636 (in Riv. regolazione mercati, 2015, 2, 199, con nota di
MARRA), secondo cui “Il mantenimento degli effetti di una delibera
annullata, seppur in via temporanea ed eccezionale, risponde ad una logica
precisa, dichiaratamente ispirata al principio del buon andamento (art. 97 Cost.)”;
y6) Cons. Stato, sez. III, 07.01.2013, n. 21 (in Riv.
regolazione mercati, 2015, 2, 199, con nota di MARRA), secondo cui “Al fine
di prevenire possibili difficoltà
in sede esecutiva ed in osservanza del principio del buon andamento, appare
opportuno consentire in via straordinaria all'autorità di disporre il
mantenimento degli effetti della stessa delibera; naturalmente rimane fermo
l'obbligo di prestare ottemperanza alla presente sentenza con la
corrispondente sollecitudine”;
y7) Tar per il Lazio, sez. II-ter, 13.07.2012, n. 6418 (in Arch. giur. oo. pp., 2012, 1503), secondo cui:
I)
di regola, in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa,
l'accoglimento dell'azione di annullamento comporta l'annullamento con
effetti ex tunc del provvedimento risultato illegittimo, con salvezza degli
ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa, che può anche
retroattivamente disporre con un atto aventi effetti "ora per allora";
II)
tuttavia, quando l'applicazione di tale regola risulterebbe incongrua e
manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto con il principio di effettività
della tutela giurisdizionale, la regola dell'annullamento con effetti ex tunc dell'atto impugnato a seconda delle circostanze deve trovare una
deroga, o con la limitazione parziale della retroattività degli effetti o
con la loro decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti
dell'annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi;
III)
la legislazione ordinaria non preclude al giudice amministrativo l'esercizio
del potere di determinare gli effetti delle proprie sentenze di
accoglimento, atteso che, da un lato, la normativa sostanziale e quella
processuale non dispongono l'inevitabilità della retroattività degli effetti
dell'annullamento di un atto in sede amministrativa o giurisdizionale (cfr.
art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 ed art. 34, comma 1, lett. a, c.p.a.),
dall'altro, dagli artt. 121 e 122 c.p.a. emerge che la rilevata fondatezza
di un'azione di annullamento può comportare l'esercizio di un potere
valutativo del giudice, sulla determinazione dei concreti effetti della
propria pronuncia. Tale potere valutativo, attribuito per determinare la
perduranza o meno degli effetti di un contratto, va riconosciuto al giudice
amministrativo in termini generali quando si tratti di determinare la
perduranza o meno degli effetti di un provvedimento;
IV) il giudice
amministrativo, nel determinare gli effetti delle proprie statuizioni, deve
ispirarsi al criterio per cui esse devono produrre conseguenze coerenti con
il sistema, e cioè armoniche con i principi generali dell'ordinamento e,
soprattutto, con quello di effettività della tutela;
y8) Tar per
l’Abruzzo, sez. st. Pescara, 13.12.2011, n. 693 (in Urbanistica e
appalti, 2012, 707, con nota di FOÀ), secondo cui:
I) “Il giudice può
annullare le norme tecniche di attuazione del prgc con decorrenza dal
momento in cui è mancata la sottoposizione a valutazione ambientale
strategica ed alla verifica di conformità alla pianificazione sovraordinata,
ordinando al comune di sottoporre la variante alla valutazione ambientale e
di conformità alla pianificazione superiore entro un termine di otto mesi,
usufruendo eventualmente delle norme di salvaguardia; la decorrenza del
termine comporta la perdita di efficacia della variante e la reviviscenza
della precedente normativa, con obbligo dell'amministrazione di
rideterminarsi”;
II) “Ove l'efficacia ex tunc dell'annullamento risulti
incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto con il principio di
effettività della tutela giurisdizionale, il giudice amministrativo può
disporre la limitazione parziale della retroattività degli effetti o la loro
decorrenza ex nunc o disporre esclusivamente gli effetti conformativi; tale
potere valutativo spetta al giudice amministrativo in termini generali,
quando si tratti di determinare la perduranza o meno degli effetti di un
provvedimento; in applicazione del principio di cui all'art. 1 del codice
del processo amministrativo (sulla «tutela piena ed effettiva»), il giudice
può emettere le statuizioni che risultino in concreto satisfattive
dell'interesse fatto valere e deve interpretare coerentemente ogni
disposizione processuale”;
z) il differimento degli effetti temporali della
pronuncia nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di
giustizia UE (tra le diverse):
z1) Corte cost., 17.03.2021, n. 41 (in Dir. e pratica lav., 2021, 8069);
z2) Corte di giustizia UE, grande sezione,
25.06.2020, C-24/19 (in Foro it., 2020, IV, 419, secondo cui “Qualora
risulti che una valutazione ambientale, ai sensi della direttiva n.
2001/42/CE, avrebbe dovuto essere realizzata prima dell'adozione
dell'ordinanza e della circolare sulle quali si fonda un'autorizzazione
relativa all'installazione e alla gestione di impianti eolici contestata
dinanzi al giudice nazionale, cosicché tali atti e tale autorizzazione non
sarebbero conformi al diritto dell'Unione, tale giudice può mantenere gli
effetti dei citati atti e di tale autorizzazione solo qualora il diritto
interno glielo consenta nell'ambito della controversia di cui è investito, e
qualora l'annullamento di detta autorizzazione possa avere significative
ripercussioni sull'approvvigionamento di energia elettrica dell'intero Stato
membro interessato, e unicamente per il lasso di tempo strettamente
necessario per rimediare a tale illegittimità; spetta al giudice del rinvio,
se del caso, procedere a tale valutazione nella controversia principale”;
z3) Corte di giustizia UE, sez. VI, 27.06.2019, C-597/17, Belgisch
Syndicaat van Chiropraxie, in Foro it., 2019, IV, 460, secondo cui “In
circostanze come quelle di cui al procedimento principale, un giudice
nazionale non può avvalersi di una disposizione nazionale che lo autorizza a
mantenere taluni effetti di un atto annullato per conservare
provvisoriamente l'effetto di disposizioni nazionali che esso ha dichiarato
incompatibili con la direttiva n. 2006/112/CE fino a quando tali
disposizioni siano rese conformi con la direttiva di cui trattasi, al fine,
da una parte, di limitare i rischi della mancanza di certezza del diritto
derivanti dall'effetto retroattivo di tale annullamento e, dall'altra, di
evitare l'applicazione di un regime nazionale anteriore a tali disposizioni
incompatibile con la direttiva stessa”;
z4) Corte cost., 11.02.2015,
n. 10 (in Foro it., 2015, I, 1502, con nota di ROMBOLI; id. 2015, I, 1922,
con nota di TESAURO; Riv. giur. trib., 2015, 384, con nota di BORIA;
Corriere trib., 2015, 958, con nota di STEVANATO; Riv. dir. trib., 2014, II,
455, con note di RUOTOLO, CAREDDA; Dir. e pratica trib., 2015, II, 436, con
nota di CAMPODONICO; Giur. it., 2015, 1324, con note di COSTANZO,
MARCHESELLI, PINARDI SCAGLIARINI; Dialoghi trib., 2015, 62, con note di
GALLIO, SOLAZZI BADIOLI, STEVANATO, LUPI; Giur. cost., 2015, 45, con note di
ANZON DEMMIG, GROSSO, PUGIOTTO, GENINATTI SATÈ; Riv. neldiritto, 2015, 1055,
con nota di PIROZZI; Giur. cost., 2015, 585, con nota di NOCILLA; Riv. dir.
trib., 2015, II, 3, con note di FEDELE, CROCIANI; Dir. e pratica trib.,
2015, II, 905, con note di MISTRANGELO, ZANOTTI; Riv. trim. dir. trib.,
2015, 981, con note di AMATUCCI);
z5) in materia di concorsi, cfr. Corte di
giustizia UE grande sezione, 27.11.2012, C-566/10P, Repubblica
italiana contro Commissione, in Foro it., 2013, IV, 63, con nota di GRASSO
(l’Autore ha evidenziato che in quel caso “la decisione dispiegherà i suoi
effetti soltanto come precedente giacché, nel caso concreto, al fine di
preservare il legittimo affidamento dei candidati prescelti, la Corte di
giustizia ha ritenuto opportuno non rimettere in discussione i risultati dei
concorsi espletati. In precedenza, la Corte di giustizia […] aveva affermato
che qualora una prova di un concorso generale bandito per la costituzione di
una riserva di assunzioni venga annullata, i diritti di un ricorrente che
non ha superato tale prova sono adeguatamente tutelati se la commissione
giudicatrice e l’autorità che ha il potere di nomina riesaminano le loro
decisioni e cercano una soluzione equa per il suo caso senza che sia
necessario modificare i risultati del concorso nel loro complesso o
annullare le nomine effettuate in esito allo stesso; si tratta infatti di
conciliare gli interessi dei candidati svantaggiati da un’irregolarità
commessa in occasione di un concorso e gli interessi degli altri
candidati”);
aa) sugli effetti di vincolo della decisione della Corte di
giustizia UE resa in sede di rinvio pregiudiziale anche rispetto a qualsiasi
altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima
disposizione di diritto: Cons. Stato, Ad. plen., 09.06.2016, n. 11, cit.
e giurisprudenza ivi richiamata;
bb) sulla idoneità di una norma
sopravvenuta (cui si equipara una sentenza della Corte di giustizia UE) ad
incidere sopra un rapporto disciplinato da un giudicato:
bb1) Cass. civ., sez. lav., 17.08.2018, n. 20765, secondo cui “In ordine
ai rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che
eventualmente ne costituiscano il contenuto, sui quali il giudice pronuncia
con accertamento su una fattispecie attuale ma con conseguenze destinate ad
esplicarsi anche in futuro, l'autorità del giudicato impedisce il riesame e
la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già
risolte con provvedimento definitivo, il quale pertanto esplica la propria
efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l'unico limite
di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto
materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento”;
bb2) Cons. Stato,
sez. IV, 20.04.2016, n. 1551, ivi i richiami alle pronunce della
Plenaria che sul tema sono intervenute (Ad. plen., 09.02.2016, n. 2, in
Foro it., 2016, III, 185; 13.04.2015, n. 4, id., 2015, III, 265; 15.01.2013, n. 2 cit.;
03.12.2008, n. 13, in Giornale dir. amm.,
2009, 147, con ampia nota di riferimenti di DE LEONARDIS; 11.05.1998, n.
2, in Foro it., 1998, III, 297; 21.02.1994, n. 4, id., Foro it., 1994,
III, 313; 08.01.1986, n. 1, id., 1986, III, 97);
bb3) Cons. Stato, sez.
V, 03.05.2012, n. 3547, in Foro it., 2012, III, 612, con nota di TRAVI;
cc) sull’obbligo di evidenza pubblica per i contratti attivi della p.a.:
Cons. Stato, comm. sp., parere 10.05.2018, n. 1241 (in Giur. it., 2018,
1979, con nota di MEALE);
dd) sul rapporto fra leggi provvedimento e atti
amministrativi successivi adempitivi:
dd1) va rilevato che:
I) la pronuncia
in rassegna reca elementi di novità, nel senso che esclude la configurabilità dell’esercizio autotutela ove la legge produca direttamente
determinati effetti giuridici (nella specie di proroga automatica della
concessione demaniale) e, ad un tempo –per ineludibili ragioni di certezza
giuridica– sostiene l’obbligo della pubblica amministrazione al ritiro dei
meri provvedimenti attuativi;
II) una siffatta impostazione può
astrattamente determinar effetti in punto di giurisdizione del giudice
amministrativo stagliandosi, al cospetto di essa, comportamenti di mero
fatto in relazione ai quali la pubblica amministrazione non esercita poteri
autoritativi;
dd2) sulle leggi provvedimento, da ultimo:
I)
Corte cost., 29.03.2021, n. 49 (oggetto della
News US in data 03.05.2021, alla quale
si rinvia per ogni ulteriore approfondimento sulla nozione di
legge-provvedimento, sulla compatibilità con l’architettura costituzionale e
sulla riserva di amministrazione);
II) Corte cost., 23.06.2020, n. 116
(in Foro it., 2020, I,
3715, con nota di D'AURIA G., DELLA VALLE; Giur. cost., 2020, 1308, con nota
di PINELLI), secondo cui:
- “la Corte, nel sanzionare l’intervento
legislativo regionale, non si è limitata a prendere atto del contrasto con
il principio fondamentale formulato dalla legge statale, ma ha anche
valorizzato il ruolo svolto dal procedimento amministrativo
nell’amministrazione partecipativa disegnata dalla legge 07.08.1990, n.
241”;
- “il portato delle numerose pronunce in materia è stato di recente
puntualizzato nel senso che il procedimento amministrativo costituisce il
luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto «[è] nella sede procedimentale […] che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli
interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con
l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da
ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e
comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e
tutela. La struttura del procedimento amministrativo, infatti, rende
possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione,
nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione
dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 07.08.1990, n. 241[…]:
efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza. Viene in tal modo
garantita, in primo luogo, l’imparzialità della scelta, alla stregua
dell’art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed
efficace, dell’interesse primario, in attuazione del principio del buon
andamento dell’amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.»” (sentenza
05.04.2018, n. 69, in Riv. giur. ambiente, 2018, 335, con nota di BOEZIO,
GALDENZI; Dir. agr., 2018, 321, con nota di BUTTURINI; Id., 2020, 45, con
nota di CAMILLERI);
- “l’insistente valorizzazione delle modalità
dell’azione amministrativa e dei suoi pregi non può evidentemente rimanere
confinata nella sfera dei dati di fatto, ma deve poter emergere a livello giuridico-formale, quale limite intrinseco alla scelta legislativa, pur
senza mettere in discussione il tema della “riserva di amministrazione” nel
nostro ordinamento”;
- “In effetti, se la materia, per la stessa
conformazione che il legislatore le ha dato, si presenta con caratteristiche
tali da enfatizzare il rispetto di regole che trovano la loro naturale
applicazione nel procedimento amministrativo, ciò deve essere tenuto in
conto nel vagliare sotto il profilo della ragionevolezza la successiva
scelta legislativa, pur tipicamente discrezionale, di un intervento
normativo diretto”;
dd3) sulla impugnazione diretta davanti al G.A. della legge provvedimento:
Cons. Stato, sez. IV 22.03.2021, n. 2409, secondo cui “È inammissibile,
per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso con il quale si impugni in
via diretta dinanzi al giudice amministrativo un atto avente forza di legge,
chiedendone l’annullamento previa rimessione alla Corte costituzionale della
relativa questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che nella
specie si tratti di una legge-provvedimento”;
ee) sull’obbligo di rinvio
pregiudiziale, cfr.
News US, in data 08.11.2021, a
Corte di giustizia
UE, grande sezione, 06.10.2021, C-561/19, Consorzio Italian Management e
Catania Multiservizi, cit. e giurisprudenza (e relative ulteriori News US
sul tema ivi richiamate);
ff) in dottrina:
ff1) sulla proroga delle
concessioni demaniali marittime: R. TRUDU, La nuova proroga delle
concessioni demaniali marittime deve essere disapplicata, in Azienditalia,
2019, 6, 889; G. MARCHEGIANI, La proroga al 2033 delle concessioni balneari
nell’ottica della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea,
in Urbanistica e appalti, 2021, 2, 153; G. ASTEGIANO, S. PETRILLI,
L’affidamento o il rinnovo della gestione di un bene demaniale deve avvenire
tramite gara, in Azienditalia, 2021, 6, 1180;
ff2) sul differimento degli
effetti della pronuncia giurisdizionale: A. TRAVI, Accoglimento
dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto
illegittimo, in Urbanistica e appalti, 2011, 8, 937; R. VILLATA, Ancora
spigolature sul nuovo processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011,
857; C. E. GALLO, I poteri del giudice amministrativo in ordine alle proprie
sentenze di annullamento, ivi, 2012, 285; E. FOLLIERI, L’ingegneria
processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2012, II, 438;
ff3) circa
l’obbligo di non applicazione norme nazionali in contrasto col diritto UE e
segnatamente con direttive autoesecutive v.: G. TESAURO, Manuale di diritto
dell’Unione Europea, Napoli, 2020, 2799 ss.; R. BARATTA, Il sistema
istituzionale dell’Unione Europea, Milano, 2020, 200 ss. Sostiene l’A. che
“La giurisprudenza ha individuato i requisiti che determinano l’effetto
diretto preclusivo nel contenuto vincolante della disposizione. L’effetto
diretto applicativo –di una singola norma (non di un atto complessivamente
considerato)– è dato dalla chiarezza, precisione, completezza di contenuto
(la norma dunque contiene gli elementi necessari per essere applicata in
concreto) e infine dalla non condizionalità (la norma non richiede altre
valutazioni discrezionali agli Stati membri, né alle istituzioni); in altri
termini, quest’ultimo presuppone che la norma sia dotata di un contenuto
dispositivo compiuto e immediatamente applicabile.
La sentenza della
Corte che accerta l’effetto diretto ha natura dichiarativa e non
costitutiva: l’effetto diretto è dunque un attributo che la norma possiede
ab origine a decorrere dalla sua entrata in vigore o dalla scadenza del
periodo transitorio se di diritto primario. L’effetto diretto è quindi
intrinsecamente retroattivo. Peraltro, in ipotesi eccezionali la Corte ha
ridotto gli effetti nel tempo della sentenza, limitandoli ai soli rapporti
giuridici sorti ex post.
In Defrenne la Corte, dopo aver chiarito che la
parità di trattamento nelle retribuzioni tra lavoratori di sesso maschile e
femminile è uno dei principi fondamentali dell’Unione sancito dai Trattati
(art. 157(1), TFUE) e che tale principio doveva essere applicato
direttamente dai giudici nazionali dinanzi ai quali i singoli potevano
invocarlo, ha stabilito che –eccezionalmente per considerazioni di certezza
del diritto e tenuto conto delle implicazioni che la sentenza avrebbe avuto
sull’impiego pubblico e privato– non potevano essere rimesse in discussione
le retribuzioni relative al passato; pertanto, l’effetto diretto non poteva
essere fatto “valere a sostegno di rivendicazioni relative a periodi di
retribuzione anteriori alla data della sentenza” (sent. 08.04.1976,
43/75, cit., punti 71-75).
Analogamente, la Corte ha ritenuto che anche il
regime professionale privato (di prestazioni pensionistiche) ricadeva nella
sfera applicativa del principio della parità di retribuzione il cui effetto
diretto era stato accertato in Defrenne; tuttavia, tale effetto non poteva
incidere sui rapporti giuridici pregressi perché, in caso contrario,
l’equilibrio finanziario di numerosi regimi pensionistici avrebbe rischiato
di essere “retroattivamente sconvolto” (sent. 17.05.1990, C-262/88, Barber, ECLI:EU:C:1990:209). […] Come si intuisce, l’effetto diretto è
rafforzato dal principio del primato del diritto dell’Unione: le
disposizioni dotate di effetto diretto sono invocabili dinanzi alle autorità
nazionali e prevalgono sulle norme interne incompatibili determinando così
il divieto di applicare il diritto interno difforme (effetto diretto
preclusivo).
Effetto diretto e primato non sono qualità facilmente
dissociabili. Le sentenze della Corte che recano un accertamento preclusivo
impediscono l’applicazione del diritto interno difforme e si ergono a
protezione dell’effettività del diritto dell’Unione nei confronti delle
autorità statali in virtù dei principi della primazia del diritto
dell’Unione e della leale cooperazione, i quali si impongono anche all’autorità
amministrativa (art. 4(3), commi 2 e 3 TUE).
Ora, l’effetto diretto
preclusivo del diritto interno difforme è frutto di un procedimento logico
scomponibile in tre momenti: in una prima fase, è necessario confrontare
norma interna e disposizione dell’Unione per identificare l’esistenza di un
contrasto tra esse; in una seconda fase, si accerta se l’incoerenza non sia
in realtà apparente perché componibile in base all’interpretazione conforme
(v. infra § 3); solo nella terza e ultima fase, in via di extrema ratio, si
disapplica il diritto interno in ragione della primazia del diritto
dell’Unione.
In queste prime fasi l’effetto diretto della disposizione
europea non presuppone la completezza e il carattere incondizionato della
stessa, ma più semplicemente richiede che essa possiede carattere vincolante
in capo allo Stato membro. A sua volta, l’effetto diretto applicativo è
logicamente successivo e si produce a condizione che la norma europea sia
chiara precisa e incondizionata. Come si vede, l’effetto diretto della
disposizione sovranazionale assume rilievo in tutte le fasi del confronto
con il diritto interno, sostituendosi propriamente ad esso solo al temine di
quel procedimento.
L’effetto diretto applicativo della disposizione europea
si determina in pratica –colmando il vuoto normativo creatosi nel diritto
interno in seguito all’accertamento preclusivo– qualora la pretesa
individuale fatta valere dinanzi all’autorità statale non possa prescindere
dall’applicazione della norma europea, perché la sola disapplicazione del
diritto interno difforme non è sufficiente a garantire i diritti individuali
protetti dal diritto dell’Unione: solo in questo caso la norma dell’Unione
diviene fonte di diritti individuali. Se invece la pretesa dedotta in
giudizio o dinanzi all’organo amministrativo è tutelabile sulla base della
sola rimozione degli effetti del diritto interno (effetto diretto
preclusivo), quest’ultimo può essere sufficiente per garantire l’effettività
del diritto sovranazionale nella fattispecie dedotta in giudizio. Come
accennato, l’obbligo di assicurare il primato del diritto dell’Unione sulla
norma interna incompatibile è rivolto ai giudici nazionali e agli organi
della pubblica amministrazione.
Nella sentenza Costanzo (22.06.1989,
C-103/88, Costanzo, cit.), la Corte ha stabilito che, al pari del giudice
nazionale, anche gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti
territoriali, sono tenuti ad applicare le disposizioni produttive di effetti
diretti e a disapplicare le norme nazionali difformi.
Tuttavia,
l’amministrazione, a differenza del giudice, non dispone del potere di
rinvio pregiudiziale, ancorché l’accertamento degli effetti impeditivo e
applicativo/sostitutivo spesso necessiti dell’accertamento interpretativo
della Corte di giustizia a fronte di un testo normativo complesso: in virtù
dell’art. 19(1), TUE, ad essa spetta di chiarire i primi due passaggi sopra
indicati, nonché la ricorrenza delle condizioni che presiedono all’effetto
diretto. E ciò è tanto più vero se si considera che tali accertamenti
presuppongono la padronanza dei criteri interpretativi del diritto
dell’Unione elaborati dalla Corte di giustizia nel corso di decenni di
progressivo affinamento. Insomma, l’ipotesi che l’amministrazione possa
svolgere i compiti insiti nei momenti del procedimento logico-argomentativo
sopra richiamati, senza l’intervento della Corte di giustizia, è di ardua
percorribilità.
Ciò nonostante, il rilievo dell’eccessiva responsabilità
gravante sull’amministrazione, e quello, correlato, del livello elevato di
conoscenza del diritto dell’Unione egualmente gravante su di essa, non sono
stati oggetto di specifica considerazione da parte della stessa Corte.
Per
questo motivo, l’effetto
preclusivo in capo alle autorità amministrative nazionali dovrebbe essere
circoscritto al solo contrasto con il diritto dell’Unione che dia luogo a
una violazione manifesta accertata da una previa pronuncia della Corte di
giustizia. Il primato della norma produttiva di effetto diretto sulla
disposizione interna incompatibile costituisce una garanzia minima che non
fa venir meno la necessità di abrogare o modificare la disposizione interna
incompatibile”
(Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 09.11.2021 n. 18 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: E'
illegittima l'ordinanza sindacale di sgombero di un'area comunale,
abusivamente occupata nonché recintata, poiché viziata da incompetenza.
Il ricorso, che ha ad oggetto un’ordinanza di sgombero
di un’area comunale occupata abusivamente dal ricorrente, va accolto, in
quanto è fondato l’assorbente motivo dell’incompetenza del Sindaco,
trattandosi di atto gestionale.
Invero, come noto, la ripartizione delle competenze amministrative tra gli
organi politici e quelli burocratici va effettuata in base al principio
generale di distinzione fra atti di gestione e atti d’indirizzo, che trova
riscontro non solo nell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, ma
altresì, in termini generali, nell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 30.03.2001,
il quale comporta che tutta l’attività gestionale rientra, unitamente alle
scelte che le sono inerenti, nella sfera delle competenze dirigenziali, e
non in quella degli organi politici.
Nella specie viene in considerazione un’ordinanza di sgombero di un’area
abusivamente occupata, la quale rientra nella competenza dirigenziale, senza
che a diversa conclusione possa addivenirsi sulla base del mero richiamo
fatto dal Sindaco al comma 4-bis dell’art. 54 del TUELL, che presuppone e
non fonda il potere di adozione dell’atto, che nella specie, come detto, è
mancante.
---------------
... per l’annullamento:
- dell’ordinanza sindacale n. 13 del 23.04.2020, notificata il
giorno 23 successivo, con la quale il Sindaco ha ordinato “lo sgombero
per il rilascio immediato dell’area di proprietà del Comune di Cattolica
Eraclea, ricadente sulle Via Filippo Turati - Arciprete Sebastiano Gentile,
con la relativa bonifica e ripristino dello stato dei luoghi”;
...
Con ricorso, notificato il 20.06.2020 e depositato il 16 luglio successivo,
il signor Mi.Fa. ha chiesto l’annullamento, previa sospensiva e vinte le
spese, dell’ordinanza n. 13 del 23.04.2020, con cui il Sindaco del Comune di
Cattolica Eraclea gli ha intimato di sgomberare l’area ivi indicata, in
quanto di proprietà pubblica e dallo stesso abusivamente occupata, nonché
recintata, per i seguenti motivi:
1) Violazione degli artt. 7 e 10-bis della l. n. 241 del 1990.
2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del TUELL. Difetto
dei presupposti e della motivazione. Sviamento e incompetenza.
3) Eccesso di potere sotto i profili: della carenza di motivazione;
del difetto di motivazione; della violazione del principio del legittimo
affidamento.
Si è costituito in giudizio il Comune di Cattolica Eraclea che ha depositato
una memoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso, poiché infondato,
vinte le spese.
...
Il ricorso, che ha ad oggetto un’ordinanza di sgombero di un’area comunale
occupata abusivamente dal ricorrente, va accolto, in quanto è fondato
l’assorbente motivo dell’incompetenza del Sindaco, trattandosi di atto
gestionale.
Invero, come noto, la ripartizione delle competenze amministrative tra gli
organi politici e quelli burocratici va effettuata in base al principio
generale di distinzione fra atti di gestione e atti d’indirizzo, che trova
riscontro non solo nell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, ma
altresì, in termini generali, nell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 30.03.2001,
il quale comporta che tutta l’attività gestionale rientra, unitamente alle
scelte che le sono inerenti, nella sfera delle competenze dirigenziali, e
non in quella degli organi politici (in termini CGA, sez. giur., 17.06.2016,
n. 173).
Nella specie viene in considerazione un’ordinanza di sgombero di un’area
abusivamente occupata, la quale rientra nella competenza dirigenziale, senza
che a diversa conclusione possa addivenirsi sulla base del mero richiamo
fatto dal Sindaco di Cattolica Eraclea al comma 4-bis dell’art. 54 del TUELL,
che presuppone e non fonda il potere di adozione dell’atto, che nella
specie, come detto, è mancante.
Tale considerazione era già stata fatta negli stessi termini nell’ordinanza
cautelare di accoglimento, nella quale si era, altresì, fatto esplicito
riferimento alla circostanza che “rimaneva impregiudicato il
potere/dovere del Comune di riadottare l’atto, ove ritenga accertata, alla
stregua della convenzione relativa al piano di lottizzazione, l’occupazione
di un’area pubblica, mediante ordinanza dirigenziale”
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 01.07.2021 n. 2134 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Come noto, la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini
del relativo riparto tra giudice ordinario (G.O.) e giudice amministrativo (G.A.), rileva
il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato in funzione non
solo e non tanto della concreta pronuncia chiesta al giudice, bensì della causa petendi,
ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio,
individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati.
Nel caso in esame l’esponente non contesta uti singulus, quale cittadino
appartenente alla collettività cui pertiene l’uso pubblico della via,
l’esistenza del potere del Comune di concedere a tempo indeterminato ad uno
o ad alcuni soggetti (frontisti e residenti) l’uso particolare ed
eccezionale di una porzione della strada demaniale o privata gravata da
diritto demaniale di uso pubblico: fattispecie che, configurando una
possibile carenza di potere in astratto (per difetto della norma attributiva
della potestà pubblicistica), sarebbe rimessa alla cognizione del G.O..
Invero, il ricorrente, in qualità di proprietario immobiliare confinante con
la via oggetto dell’avversata trasformazione, censura lo scorretto esercizio
del potere autorizzatorio e di controllo dell’Amministrazione civica
sull’intervento edilizio, radicando così una controversia attribuita alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133,
comma 1, lett. f) c.p.a..
---------------
1. Il signor Lu.Ve. si ritiene leso dalla costruzione di una rampa in
pietra sulla scalinata di via Caduti Pievesi, lamentando che l’immutazione
dello stato dei luoghi –consentendo l’utilizzo di una porzione della
salita, prima interamente pedonale, con moto e scooter– arreca turbamento
alla quiete della propria limitrofa abitazione. Esperisce, quindi, sia
un’azione demolitoria, impugnando i titoli edilizi e paesaggistici
legittimanti l’opera, sia un’azione contra silentium, denunziando la mancata
risposta dell’Amministrazione al proprio atto di significazione e diffida.
2. In punto di fatto occorre premettere che la salita in parola è una tipica
crêuza ligure, ossia una via stretta e ripida, che fende verticalmente il
versante collinare di Pieve Ligure, raggiungendo i fondi ivi collocati e
collegandosi a mezza costa con la viabilità comunale che attraversa Pieve
Alta (cfr. doc. 16 ricorrente e doc. 10 resistente).
Il signor Iv.Gu., proprietario di un immobile che affaccia sul viottolo,
dopo avere conseguito i titoli edificatori e paesistici gravati, ha
modificato l’ultimo tratto della salita, sostituendo i preesistenti gradoni
con un nuovo manufatto in pietra, consistente per circa metà della larghezza
del passaggio in una rampa e per la restante parte in una scalinata, divise
da una ringhiera in ferro (v. fotografie sub. docc. 14-15-17 ricorrente e
doc. 9 resistente). Ha altresì installato, in cima allo scivolo, una sbarra
motorizzata, circoscrivendo così la possibilità di accesso ai soli soggetti
autorizzati, frontisti e residenti della zona, mentre la parte pedonale è
rimasta percorribile da chiunque.
L’opera è stata realizzata in forza della deliberazione della Giunta
comunale in data 19.10.2015, recante l’approvazione del progetto,
dell’autorizzazione paesaggistica del 23.02.2016 e della S.C.I.A. in
data 18.03.2016 (non vi è invece alcuna D.I.A. in data 18.03.2016, la
cui menzione nella comunicazione di fine lavori costituisce un evidente
refuso). Il signor Gu. ha iniziato i lavori il 21.03.2016 e li ha
ultimati il successivo 3 agosto (cfr. docc. 5 e 8 resistente).
Va infine rilevato che la delibera giuntale e l’autorizzazione paesistica
fanno riferimento ad una “rampa per mezzi agricoli”, mentre di fatto il
nuovo passaggio viene utilizzato per transitare con motoveicoli (v.
fotografie sub doc. 14 ricorrente).
3. Si osserva preliminarmente che la natura giuridica della salita
denominata via Caduti Pievesi (v. targa toponomastica, doc. 14 ricorrente) è
controversa fra le parti: il ricorrente sostiene che rientrerebbe nel
demanio stradale comunale ex art. 824 cod. civ.; l’Amministrazione obietta
che si tratterebbe di una via privata (formatasi da tempo immemore ex
collatione agrorum privatorum), soggetta a servitù di pubblico transito ex
art. 825 cod. civ. (c.d. strada vicinale di uso pubblico).
Al riguardo, premesso che è comunque riservato al giudice ordinario
l’accertamento con efficacia di giudicato del carattere demaniale o privato
con diritto reale di pubblico uso di una strada (trattandosi di questione
attinente a situazioni giuridiche di diritto soggettivo: cfr., ad esempio,
Cass. civ., sez. I, 15.07.2020, n. 15033), il Collegio non reputa
necessario lo scrutinio del tema in parola, nemmeno in via incidentale, non
rivestendo concreta rilevanza ai fini del presente giudizio.
Sempre in via preliminare, si ritengono opportune le seguenti precisazioni
in punto di giurisdizione.
Come noto, la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini
del relativo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva
il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato in funzione non
solo e non tanto della concreta pronuncia chiesta al giudice, bensì della
causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in
giudizio, individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati (cfr., fra
le tante, Cons. St., sez. III, 24.03.2020, n. 2071; Cass. civ., sez. un.,
ord. 14.01.2020, n. 416; Cass. civ., sez. un., ord. 17.07.2017, n.
17618).
Nel caso in esame l’esponente non contesta uti singulus, quale cittadino
appartenente alla collettività cui pertiene l’uso pubblico della via,
l’esistenza del potere del Comune di concedere a tempo indeterminato ad uno
o ad alcuni soggetti (frontisti e residenti) l’uso particolare ed
eccezionale di una porzione della strada demaniale o privata gravata da
diritto demaniale di uso pubblico: fattispecie che, configurando una
possibile carenza di potere in astratto (per difetto della norma attributiva
della potestà pubblicistica), sarebbe rimessa alla cognizione del G.O.
(sulla possibilità di agire in giudizio uti civis, con i mezzi ordinari di
tutela, a difesa del diritto di uso pubblico cfr., ex multis, Cons. St.,
sez. II, 12.05.2020, n. 2999; per un’ipotesi affine di carenza di potere
in astratto si veda TAR Veneto, sez. III, 09.10.2017, n. 897).
Invero, il ricorrente, in qualità di proprietario immobiliare confinante con
la via oggetto dell’avversata trasformazione, censura lo scorretto esercizio
del potere autorizzatorio e di controllo dell’Amministrazione civica
sull’intervento edilizio, radicando così una controversia attribuita alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133,
comma 1, lett. f) c.p.a. (cfr., ex aliis, Cons. St., sez. IV,
10.10.2018, n. 5820)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 12.05.2021 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2021 |
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PATRIMONIO: Danni causati all’auto da una buca.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà
tener conto che quanto più questo e suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato,
tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del
danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile
all’ente e l’evento dannoso.
(Nella specie, la Corte ha ritenuto non operante la presunzione di
responsabilità a carico dell’ente ex art. 2051 c.c., in un caso di sinistro
stradale causato da una buca presente su una strada di solito usata da mezzi
agricoli, atteso che le condizioni della strada avrebbero richiesto una
maggiore prudenza alla guida)
(Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 03.02.2021 n. 2525
- massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
ORDINANZA
I due motivi all'esame non censurano
adeguatamente la motivazione della sentenza d'appello impugnata, che è,
peraltro, coerente con l'orientamento in materia di questa Corte (oramai
risalente e del quale non constano significative evoluzioni, sì veda Cass.
n. 23919 del 22/10/2013 Rv. 629108 - 01): «L'ente proprietario d'una
strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2031 cod. civ.,
per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di
pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa,
salvo che si accerti la concreta possibilità per l'utente danneggiato di
percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più
questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'adozione di
normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della
vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il
nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e l'evento dannoso.
(Nella specie, la S.C. ha ritenuto che non operasse la presunzione di
responsabilità a carico dell'ente ex art. 2031 cod. civ., in un caso di
sinistro stradale causato da una buca presente sul manto stradale, atteso
che il conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle buche,
per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle).». |
gennaio 2021 |
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PATRIMONIO: Responsabilità da cattiva manutenzione delle pubbliche strade.
La responsabilità da cose in custodia presuppone che il soggetto al quale
sia imputata sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere
di sorveglianza, di modifica dello stato dei luoghi ed esclusione che altri
vi apportino modifiche.
Quindi, per le strade aperte al traffico è
configurabile la responsabilità dell’ente pubblico, a meno che questi non
dimostri di non aver potuto fare nulla per evitare il danno e l’ente
proprietario non può fare nulla solo quando la situazione che provoca il
danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di
diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso
che solo quest’ultima, al pari dell’eventuale colpa esclusiva del
danneggiato in ordine al verificarsi del fatto, integra il fortuito, quale
scriminante della responsabilità del custode.
In sintesi, agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico
transito è sempre applicabile l’art. 2051 c.c. in riferimento alle
situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione e la
responsabilità può essere esclusa dal fortuito, individuabile questo in
relazione a quelle situazioni di pericolo provocate dagli stessi utenti,
ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello
stato della cosa che, nel caso di specie, non è dato individuare
(TRIBUNALE di Benevento, sentenza 07.01.2021 n. 10 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ottobre 2020 |
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PATRIMONIO: La percepibilità del pericolo occulto.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà
tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato,
tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del
danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile
all’ente e l’evento dannoso.
Ne deriva che la possibilità per il danneggiato
di percepire agevolmente l’esistenza di una situazione di pericolo incide
sulla concreta configurabilità del nesso eziologico fra la cosa ed il danno
e pone in risalto il comportamento colposo del danneggiato
(TRIBUNALE di L’Aquila, sentenza 29.10.2020 n. 481 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
agosto 2020 |
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PATRIMONIO: G.U.
27.08.2020 n. 213 "Definizione dei parametri per la determinazione delle
tipologie dei piccoli comuni che possono beneficiare dei finanziamenti
previsti dalla legge 06.10.2017, n. 158" (Ministero dell'Interno,
decreto 10.08.2020). |
PATRIMONIO: Condotta incauta del danneggiato e prova liberatoria per il custode.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere
con l’ordinaria diligenza un’anomalia stradale, vale ad escludere la
configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità ex art. 2051
c.c. della p.a. per difetto di manutenzione della strada pubblica (nel caso
specifico la Corte ha confermato la sentenza di primo grado che, in un caso
di caduta di pedone dovuta a buca, aveva escluso l’imprevedibilità e
l’invisibilità dell’alterazione del fondo stradale, sia soggettiva che
oggettiva, sia in ragione delle dimensioni della buca –cm. 20 di profondità
e cm. 30 di diametro-, sia della sua localizzazione, in quanto la buca pur
essendo prossima al marciapiede si trovava ad una distanza tale da essere
ben visibile, nonostante il dislivello della banchina, sia delle condizioni
meteorologiche – primo pomeriggio di una giornata di agosto con buone
condizioni di visibilità, non piovosa)
(Corte di Appello Roma, Sez. I, sentenza 24.08.2020 n. 4003 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
luglio 2020 |
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PATRIMONIO: Danni per difetto di manutenzione del demanio stradale.
Le violazioni del codice della strada ad opera del danneggiato non sono tali
da interrompere il nesso eziologico fra il difetto di manutenzione del
demanio stradale da parte dell’ente locale e l’evento stesso, ma assumono
rilevanza ai fini del riconoscimento di un concorso di colpa del danneggiato
idoneo a diminuire, in proporzione dell’incidenza causale, la responsabilità
del danneggiante.
(Nella specie: il danneggiato è caduto dalla bicicletta a causa di una buca
situata sul manto stradale ed ha inciso il fatto che il sinistro è avvenuto
in pieno giorno, su un tratto di strada rettilineo e con asfalto asciutto in
quanto si tratta di circostanze che inducono a ritenere che, usando la
dovuta diligenza il danneggiato si sarebbe verosimilmente accorto della
presenza della buca sulla strada e avrebbe potuto limitare la velocità alla
quale procedeva sulla sua bicicletta, riducendo così l’entità delle lesioni
riportate a seguito della caduta, per tali motivi la responsabilità del
danneggiato ha inciso nella misura del 30%)
(TRIBUNALE di Firenze, Sez. II, sentenza 04.07.2020 n. 1570 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
maggio 2020 |
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PATRIMONIO: Responsabilità della PA: quando è esclusa?
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente
danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione
di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e
della conseguente responsabilità della Pubblica Amministrazione per difetto
di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di
pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione
di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve
considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel
dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto
comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso
(TRIBUNALE di Brindisi, sentenza 19.05.2020 n. 629 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO:
Le locazioni nella fase dell'emergenza Covid-19.
DOMANDA:
Questa Amministrazione ha concesso in locazione i locali di un bar
unitamente alla licenza per 6 anni, dal 04.02.2020 al 03.02.2026. A seguito
dell'emergenza COVID il bar ha chiuso l'attivita nei mesi di marzo, aprile e
per la prima metà di maggio. Sta riaprendo ora con tutte le limitazioni
dettate dalla necessità di contenimento del contagio.
Il gestore ha fatto pervenire richiesta di azzeramento del canone per i
periodi di chiusura e di riduzione per il periodo in cui dovranno giocoforza
servire meno clienti a causa delle regole di distanziamento.
Considerato che il decreto "Cura Italia" contiene delle disposizioni
in merito agli affitti privati mentre noi non ne abbiamo trovate per questo
tipo di attività, chiediamo se sia possibile aderire alla richiesta di
azzeramento e sulla base di quale normativa, per non incorrere nel caso di
danno erariale, se un azzeramento comporti una necessità di proroga del
contratto nella misura corrispondente ai mesi di chiusura e, infine, se sia
configurabile una diminuzione del canone.
Si tenga presente che l'attività era molto vitale e che il bar in questione
era un centro di ritrovo utile alla comunità
RISPOSTA:
L’art. 65 del D.L. n. 18/2020 convertito con Legge n. 27/2020 (cd. “Decreto
Cura Italia”) ha previsto che, al fine di contenere gli effetti negativi
derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza
epidemiologica da Covid19, venga riconosciuto ai soggetti esercenti attività
d’impresa, per l’anno 2020, un credito d’imposta nella misura del 60%
dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di
immobili rientranti nella categoria catastale C/1.
Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione e non si
applica alle attività che sono state identificate come essenziali (es.
farmacie, parafarmacie, punti vendita di generi alimentari di prima
necessità, ecc.). Detto credito d’imposta, non concorre alla formazione del
reddito ai fini dell’Ires e dell’Irap.
Fatta eccezione per tale vantaggio fiscale, nel nostro ordinamento non
esiste una norma specifica che permetta al conduttore di ottenere la
sospensione o la riduzione del canone di locazione nel caso si verifichino
cause imprevedibili o di forza maggiore.
La possibilità di modificare il canone è dunque demandata alle parti del
contratto. Sarà pertanto possibile chiedere al locatore la sospensione o la
riduzione del canone, ma il medesimo non è in alcun modo obbligato ad
accettare una revisione.
Nel caso del verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili che rendono
eccessivamente onerosa la prestazione oggetto del contratto di locazione, il
conduttore può chiedere la risoluzione del contratto ai i sensi dell’art.
1467 C.c.. Tale norma prevede infatti che “nei contratti a esecuzione
continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di
una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di
avvenimenti straordinari e imprevedibili la parte che deve tale prestazione
può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti
dall’articolo 1458”.
Con specifico riguardo ai contratti di locazione di immobili adibiti ad
attività industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico
l’art. 27 della Legge n. 392/1978 prevede che “indipendentemente dalle
previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può
recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi
da comunicarsi con lettera raccomandata”.
Il rispetto delle misure di contenimento relative all’emergenza
epidemiologica da “Covid-19” potrebbe aver creato al conduttore un
danno economico-finanziario tale da incidere significativamente
sull’andamento dell’attività, causandogli uno squilibrio finanziario che non
rende più sostenibile il pagamento del canone di locazione, ovvero
l’utilizzo dell’immobile.
In proposito è opportuno ricordare che l’art. 91 del Decreto “Cura Italia”
sopra citato ha aggiunto il comma 6-bis all’art. 3 del D.L. n. 6/2020
convertito con Legge n. 13/2020, in base al quale il rispetto delle misure
di contenimento relative all’emergenza epidemiologica da “Covid-19” è
sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli
artt. 1218 e 1223 del Cc., della responsabilità del debitore, anche
relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a
ritardati o omessi adempimenti.
Pertanto, nel caso in cui il conduttore sia impossibilitato ad adempiere
correttamente alle scadenze di pagamento dei canoni a causa dell’emergenza “Covid–19”,
il medesimo potrà chiedere la sospensione dei pagamenti, senza che ciò
costituisca presupposto per la decadenza del contratto o l’applicazione di
interessi moratori. Rimane comunque nella discrezionalità del locatore la
decisione se accettare o meno tale richiesta.
Premesso quanto sopra e tenuto conto degli strumenti giuridici che il nostro
ordinamento mette a disposizione del conduttore, il medesimo potrà quindi
richiedere la risoluzione del contratto oppure una sospensione del canone di
locazione sino al termine del periodo di emergenza.
Nulla osta, ovviamente, alla possibilità per le parti di procedere alla
rinegoziazione del canone di locazione al posto della risoluzione del
contratto, anche tenuto conto che in base allo stesso articolo 1467 C.c. “la
parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di
modificare equamente le condizioni del contratto”.
In proposito si aggiunga quanto previsto dall’art. 1464 C.c. in base al
quale “quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente
impossibile, l'altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della
prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non
abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale”.
In caso di impossibilità parziale della prestazione, dunque, la norma
richiamata consente alla parte che subisce la detta impossibilità di
richiedere la riduzione della prestazione da essa dovuta oppure, in
alternativa, il recesso dal contratto.
Rientrano, pertanto, nella sfera di applicabilità della norma da ultimo
richiamata, tutti i casi in cui una prestazione sia diventata parzialmente
impossibile per cause non addebitabili al locatore
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
marzo 2020 |
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PATRIMONIO: L'ufficio
tecnico di questo Comune ha in corso lavori di ristrutturazione per un
miglioramento delle prestazioni energetiche generali e specifiche di alcuni
ambientali che sono stati i finanziati nell'ambito di un progetto nazionale
(D.Dirett. 10.07.2019) ed è in attesa di conoscere eventuali disposizioni di
proroga, annunciate come imminenti.
Ci sono novità sia per questo che per altri finanziamenti eventualmente in
scadenza?
Il Ministero dello Sviluppo Economico con D.Dirett. 10.07.2019 "Modalità
di attuazione dell'intervento a sostegno delle opere di efficientamento
energetico e sviluppo territoriale sostenibile realizzate dai comuni" ha
dato attuazione al D.L. 30.04.2019, n. 34, recante: «Misure urgenti di
crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi»,
convertito, con modificazioni, dalla L. 28.06.2019, n. 58 che prevede
l'assegnazione di contributi ai comuni per interventi di efficientamento
energetico e sviluppo territoriale sostenibile, come individuati al comma 3
del medesimo articolo.
Recentemente è stata pubblicata (con entrata in vigore il 01/03/2020) la L.
28.02.2020, n. 8 "Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 30.12.2019, n. 162, recante disposizioni urgenti in materia di
proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche
amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica" (cosiddetto "Milleproroghe")
che contiene almeno 2 disposizioni di interesse nello specifico settore per
gli Enti locali:
1) L'art. 1 comma 8-ter che differisce al 30.06.2020 il termine
entro cui i comuni beneficiari di contributi per interventi di
efficientamento energetico e sviluppo territoriale sono obbligati ad
iniziare l'esecuzione dei lavori (il differimento del termine previsto si
applica ai comuni che non hanno potuto provvedere alla consegna dei lavori
entro il termine fissato al 31.10.2019, per fatti non imputabili
all'amministrazione). La norma dispone "8-ter. Il termine di cui all'art.
30, comma 5, decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28.06.2019, n. 58, è differito al 30.06.2020, per i comuni che
non hanno potuto provvedere alla consegna dei lavori entro il termine del
31.10.2019, per fatti non imputabili all'amministrazione".
2) L'art. 1 comma 10-septies che differisce dal 15.01.2020 al
15.05.2020, il termine per la richiesta del contributo da parte degli enti
locali, a copertura della spesa di progettazione definitiva ed esecutiva per
interventi di messa in sicurezza del territorio, e proroga, altresì, dal
28.02.2020 al 30.06.2020, il termine per la definizione dell'ammontare del
previsto contributo, attribuito a ciascun ente locale. La norma dispone "Per
l'anno 2020, il termine di cui all'articolo 1, comma 52, della legge
27.12.2019, n. 160, è differito dal 15 gennaio al 15 maggio e il termine di
cui all'articolo 1, comma 53, della citata legge n. 160 del 2019 è differito
dal 28 febbraio al 30 giugno. Sono fatte salve le richieste di contributo
comunicate dagli enti locali dopo il 15.01.2020 e fino alla data di entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Pertanto potrete fruire del differimento approvato con il Milleproroghe per
i lavori descritti nel quesito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34,
art. 30 - D.Dirett. 10.07.2019 del Ministero dello Sviluppo Economico - L.
27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 52 - D.L. 30.12.2019, n. 162 - L.
28.02.2020, n. 8
(11.03.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
febbraio 2020 |
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PATRIMONIO: L'ufficio
patrimonio di questa Regione chiede di conoscere se, relativamente a
contratti di locazione di immobili di proprietà, debba procedere ai sensi
del codice degli appalti (anche in relazione agli obblighi di tracciabilità)
o se l'ente possa procedere in autonomia applicando le norme del Codice
Civile.
L'art. 17 del Codice degli appalti (D.Lgs. 18.04.2016, n. 50) "Esclusioni
specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi" dopo le
modifiche apportate dal D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 esclude dal proprio campo
di applicazione i contratti "a) aventi ad oggetto l'acquisto o la
locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni,
fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali
beni".
Tale esclusione non determina in automatico la piena libertà di azione
dell'Amministrazione in quanto, come riconosciuto dalla giurisprudenza "Gli
artt. 4 e 17, lett. a), del codice dei contratti vanno interpretati nel
senso che per i contratti attivi e passivi della P.A., ad oggetto l'acquisto
o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili, si
devono rispettare i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità
di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela
dell'ambiente ed efficienza energetica previsti dall'art. 4 per tutti i
contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione
oggettiva del codice, e spetta all'ANAC la relativa vigilanza e il controllo
ai sensi dell'art. 213 del D.Lgs. n. 50/2016".
In tale ottica l'ANAC con Comunicato 16.10.2019 del Presidente "Indicazioni
relative all'obbligo di acquisizione del CIG e di pagamento del contributo
in favore dell'Autorità per le fattispecie escluse dall'ambito di
applicazione del codice dei contratti pubblici" ha previsto
l'applicazione a tali contratti degli obblighi di tracciabilità mediante
acquisizione del codice identificativo gara (smart-cig) a prescindere
dall'importo.
Pertanto, allo stato attuale, pur fuori dal campo di applicazione del codice
degli appalti, la disciplina applicabile ai contratti di locazione vede
comunque l'applicazione di taluni principi e del vincolo di tracciabilità
propri della disciplina generale in materia di contratti pubblici.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 17
- D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 - Comunicato 16.10.2019 del Presidente ANAC
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 29.01.2020, n. 720 - Cons. Stato Sez. comm. spec.
Parere, 10.05.2018, n. 1241
(26.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PATRIMONIO:
Opponibilità a terzo di servitù di veduta acquisita per usucapione.
L’acquisto della servitù può avvenire, tra l’altro, per
usucapione, ove si tratti di servitù apparenti, cioè quelle al cui esercizio
sono destinate opere visibili e permanenti (artt. 1031 e 1061 c.c.).
Per quanto riguarda la proprietà di immobili e i diritti reali immobiliari,
l’usucapione costituisce modo di acquisto a titolo originario, che avviene
ex lege, in virtù del possesso continuato per venti anni (art. 1158 c.c.).
Ai sensi dell’art. 2651 c.c., è suscettibile di trascrizione la sentenza da
cui risulti l’acquisto per usucapione di una servitù: trattasi di sentenza
dichiarativa, la cui trascrizione ha funzione di sola pubblicità-notizia,
non quella di risolvere i conflitti tra acquirenti a titolo derivativo e
acquirenti a titolo originario.
In proposito, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo il quale
il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e l’acquisto per usucapione
è sempre risolto a favore del secondo, indipendentemente dalla trascrizione
della sentenza che accerta l’usucapione e dell’anteriorità della
trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione
dell’acquisto a titolo derivativo.
Ne deriva che il Comune, che ritenga di aver acquistato un diritto di
servitù per usucapione, può far valere nei confronti del terzo acquirente
del fondo servente detto diritto reale per il fatto della sua venuta ad
esistenza, ex lege, al ricorrere dei presupposti di legge, ai sensi
dell’art. 1158 c.c., non necessitando a tal fine la trascrizione.
Il Comune riferisce che un edificio di sua proprietà (fondo dominante)
possiede una servitù di veduta di fatto su altro edificio di proprietà
privata (fondo servente) giacente a confine.
Detta servitù si è protratta per oltre venti anni pacificamente e senza
interruzioni; peraltro non è stata accertata con sentenza del Giudice e
quindi non è stata trascritta nei registri immobiliari. Posto che l’immobile
privato è stato di recente venduto ad un terzo, il Comune chiede se è
legittimato a pretendere nei suoi confronti il rispetto della servitù di cui
si tratta.
Ai sensi dell’art. 1031 c.c., la costituzione delle servitù può avvenire:
a) in attuazione di un obbligo di legge (servitù coattive);
b) per volontà dell’uomo (contratto, testamento: si tratta delle
c.d. servitù volontarie, art. 1058, c.c.);
c) per usucapione;
d) per destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.)
In particolare, poste le circostanze riferite dal Comune relative al
protrarsi pacifico della servitù per oltre venti anni, si osserva che ove si
tratti di servitù apparente, la stessa può sorgere anche per usucapione
ventennale.
L’istituto dell’usucapione riguarda infatti la proprietà e i diritti reali
di godimento, ad eccezione delle servitù non apparenti, che ricorrono quando
non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio (art.
1061 c.c.) [1].
Specificamente, le servitù apparenti sono quelle al cui esercizio sono
destinate opere –anche formatesi naturalmente [2]–,
visibili e permanenti, obiettivamente finalizzate all’esercizio della
servitù: tali cioè da appalesare in modo non equivoco, per la loro struttura
e funzione, l’esistenza di un peso gravante sul fondo servente
[3], al proprietario di
quest’ultimo [4].
Quanto all’usucapione, l’art. 1158 c.c., in tema di beni immobili e diritti
reali immobiliari, prevede che il possesso continuato per venti anni fa
acquisire al possessore – attraverso l’istituto dell’usucapione – la
titolarità del diritto reale (proprietà, diritti reali di godimento)
corrispondente alla situazione di fatto esercitata. L’usucapione
costituisce, dunque, un modo di acquisto a titolo originario della proprietà
e dei diritti reali minori, che avviene ex lege, nel momento stesso
in cui matura il termine normativamente previsto.
Le peculiarità dell’istituto dell’usucapione si ripercuotono
sull’atteggiarsi della trascrizione degli acquisti per usucapione, atteso
che la trascrizione riguarda atti e dunque non si presta a rispecchiare
vicende di acquisto a titolo originario.
Sono, invece, suscettibili di trascrizione, ai sensi dell’art. 2651 c.c., le
sentenze da cui risulta acquistato per usucapione un diritto di proprietà o
un diritto reale di godimento di cui ai nn. 1, 2 e 4 dell’art. 2643, tra
cui, per quanto di interesse, il diritto di servitù.
Ed invero, l’usucapiente può avere interesse, per eliminare ogni incertezza
in ordine al suo acquisto ovvero per ottenere un titolo utile per la
trascrizione, a promuovere un giudizio di accertamento dell’intervenuta
usucapione [5],
che, in ogni caso, si concluderebbe con una sentenza avente valore
dichiarativo e non già costitutivo.
La trascrizione di detta sentenza dichiarativa (ove vi sia), ai sensi
dell’art. 2651 c.c. richiamato, ha funzione di sola pubblicità-notizia, cioè
di rendere noti determinati fatti o atti ai terzi, ma non quella di
risolvere i conflitti tra acquirenti a titolo derivativo e acquirenti a
titolo originario [6].
In proposito, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo il quale
il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e l’acquisto per usucapione
è sempre risolto a favore del secondo, indipendentemente dalla trascrizione
della sentenza che accerta l’usucapione e dell’anteriorità della
trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione
dell’acquisto a titolo derivativo [7].
Calando questi principi nel caso di specie, ne conseguono alcune
considerazioni per quanto riguarda l’(avvenuto) acquisto per usucapione del
diritto di servitù e relativamente ai rapporti tra il Comune e il terzo
acquirente che vorrebbe sopraelevare l’edificio di proprietà privata (fondo
servente), impedendo così l’esercizio della servitù di veduta di cui
trattasi.
Sotto il primo profilo, si osserva che il possesso ininterrotto del diritto
reale di servitù per oltre venti anni –riferito dal Comune– è astrattamente
idoneo a determinare in favore del Comune l’acquisto a titolo originario di
detto diritto reale, ai sensi dell’art 1158 c.c., ove, beninteso, si tratti
di una servitù apparente.
In proposito, con specifico riferimento all’acquisto per usucapione di una
servitù di veduta, la Corte di cassazione ha affermato che la visibilità
delle opere destinate all’esercizio della servitù deve far capo ad un punto
d’osservazione non necessariamente coincidente col fondo servente –ipotesi
normale, ma non per questo esclusiva– ma anche esterno al fondo servente,
purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso
in cui le opere siano visibili da una pubblica via [8].
Per converso, per giungere a ritenere la non visibilità delle finestre che
si aprono sul fondo oggetto della veduta (fondo servente), deve essere
dimostrata l’esistenza di una situazione di fatto tale che il proprietario
di detto fondo non abbia avuto possibilità alcuna di vederle dal suo fondo e
da alcun luogo viciniore [9].
L’accertamento delle circostanze che integrano l’usucapione di una servitù
di veduta è da farsi caso per caso [10]
ed in ipotesi di contestazione l’eliminazione di ogni incertezza al riguardo
può derivare da una sentenza che accerti un tanto, che il Comune riferisce
non esservi stata.
Il Comune, che ritenga di aver acquistato il diritto di servitù
sull’edificio (fondo servente) per usucapione, può lo stesso far valere
detto diritto nei confronti del terzo acquirente [11]:
ed invero –come suesposto– il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e
l’acquirente per usucapione è sempre risolto a favore dell’acquirente per
usucapione, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta
l’usucapione e della sua anteriorità rispetto alla trascrizione
dell’acquisto a titolo derivativo.
E questo poiché, come detto sopra, la trascrizione della sentenza da cui
risulti acquistato un diritto per usucapione, ex art. 2651 c.c., ove vi
fosse, avrebbe solo funzione di pubblicità - notizia, e non quella di
risolvere il conflitto tra acquirente a titolo originario e acquirente a
titolo derivativo [12].
Pertanto, a fronte della domanda del Comune se sia legittimato a pretendere
il rispetto della servitù di veduta nei confronti del terzo acquirente, si
osserva che il Comune può far valere detto diritto reale per il fatto della
sua venuta ad esistenza, ex lege, al ricorrere dei presupposti di
legge, ai sensi dell’art. 1158 c.c., non necessitando a tal fine la
trascrizione.
---------------
[1] V. Cass., sez. un., 21.11.1996, n. 10285, secondo cui il requisito
dell’apparenza è necessario per l’acquisto della servitù per usucapione.
[2] Ad es. un sentiero creatosi per effetto del calpestio, v. Cass.
27.05.2009, n. 12362.
[3] V. Cass. 31.05.2010, n. 13238.
[4] Cass. civ., sez. II, 24.09.2014, n. 24401.
[5] V. Cass. 26.04.2011, n. 9325.
[6] La sentenza avente contenuto dichiarativo non rientra, infatti, tra gli
atti costitutivi di diritti reali, di cui all’art. 2643. c.c. –che al n. 14
menziona specificamente le sentenze che operano la costituzione, il
trasferimento o la modificazione del diritto di proprietà e di diritti reali
di godimento– soggetti a trascrizione, al fine di renderli opponibili a
terzi, ai sensi dell’art. 2644 c.c.
In particolare, quest’ultima norma codicistica prevede che gli atti
(costitutivi di dritti reali) soggetti a trascrizione, di cui all’art. 2643
c.c., non hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno
acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto anteriormente
alla trascrizione degli atti medesimi.
[7] Cass. civ., sez. II, 06.12.2000, n. 15503; Cass. civ., sez. II,
28.01.1985, n. 443.
[8] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[9] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[10] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[11] Ove questi contesti il fatto dell’avvenuto verificarsi dell’usucapione,
si renderà, peraltro, necessario l’accertamento del Giudice.
[12] Come, invece, avviene per la trascrizione degli atti costitutivi di
diritti reali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2643 e 2644 c.c.
(v. nota 12) (20.02.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quando
la natura del corso d’acqua rileva solo strumentalmente, non avendo gli atti
impugnati, diretti a perseguire altri fini, immediata incidenza sul regime
delle acque pubbliche, non vi è ragione per adire le competenze specifiche
del Tribunale superiore delle acque pubbliche.
---------------
Nel regime anteriore a quello introdotto alla l. 05.01.1994, n. 37, art. 4
(che, nel sostituire il testo dell'art. 947 c.c., ha espressamente escluso,
per il futuro, tale eventualità), la sdemanializzazione tacita dei beni del
demanio idrico non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia
più adibito anche da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in
presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà
della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di
rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendo desumersi una
volontà di rinunzia univoca e concludente da una situazione negativa di mera
inerzia o tolleranza.
---------------
L’art. 826 Cod. civ. stabilisce al terzo comma che “Fanno parte del
patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e
dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di
uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico
servizio”.
Tenuto conto di tale ultima locuzione, consolidata giurisprudenza afferma
che l’inclusione di un bene nel patrimonio indisponibile comunale richiede
la sussistenza di due requisiti congiunti: la manifestazione di volontà
dell’ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso
atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di
destinare quel determinato bene a un pubblico servizio; l’effettiva e
attuale destinazione del bene a pubblico servizio.
---------------
1. In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’eccezione di
carenza di giurisdizione del giudice amministrativo a favore del giudice
ordinario o del Tribunale delle acque pubbliche, spiegata dal resistente
Comune di Ospitaletto a mezzo di memorie difensive.
L’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a
conoscere della controversia è, infatti, inammissibile, laddove formulata,
come nel caso di specie, solo in note defensionali e non con tempestiva
proposizione di specifico motivo di appello incidentale contro la sentenza
di primo grado, in conformità all’art. 9 Cod. proc. amm., per il quale il
difetto di giurisdizione nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto
con specifico motivo avverso il capo della pronunzia impugnata che in modo
implicito o esplicito ha statuito sulla giurisdizione (ex multis,
Cons. Stato, V, 11.03.2019, n. 1612; 17.09.2018, n. 5439; III, 04.08.2015,
n. 3842).
Nel caso in esame, ricorre la seconda delle predette ipotesi, avendo la
sentenza appellata espressamente statuito sulla giurisdizione del giudice
amministrativo, respingendo l’eccezione di difetto di giurisdizione di
questo a favore del giudice ordinario, spiegata nel giudizio di primo grado
dallo stesso Comune di Ospitaletto.
Ne deriva l’impossibilità, in seno al presente giudizio, in carenza di
proposizione sul punto di un rituale motivo di appello, di contestare la
potestas iudicandi; né osta all’applicazione della regola codicistica,
come ritiene il Comune, il fatto che l’eccezione sia stata arricchita in
appello mediante l’ulteriore indicazione di altro giudice asseritamente
competente (Tribunale superiore delle acque pubbliche): la contestazione
infatti è pur sempre rivolta a sovvertire il capo di sentenza relativo alla
giurisdizione amministrativa ritenuta dal primo giudice, che, in difetto di
proposizione di uno specifico motivo di appello, è passata in giudicato.
Vale comunque rilevare che gli atti di autotutela possessoria per cui è
causa, come meglio in fatto, sono diretti non a ripristinare la funzione del
canale irriguo da tempo in disuso e allo stato ricoperto, bensì a recuperare
la relativa area di sedime per la costruzione di un’opera pubblica.
Si rende pertanto applicabile il principio ripetuto in giurisprudenza
secondo cui quando la natura del corso d’acqua rileva solo strumentalmente,
non avendo gli atti impugnati, diretti a perseguire altri fini, immediata
incidenza sul regime delle acque pubbliche, non vi è ragione per adire le
competenze specifiche del Tribunale superiore delle acque pubbliche (Cass.
Sez. un., 27.04.2005, n. 896; 27.10.2006, n. 23070; 17.04.2009, n. 9149;
19.04.2013, n. 9534; 21.03.2017, n. 7154; Cons. Stato, IV, 30.06.2017, n.
3230; V, 11.07.2016, n. 3055).
1.1. Sempre in via preliminare, deve rilevarsi l’inammissibilità delle
difese comunali anche laddove sostengono che gli atti gravati, diversamente
da quanto ritenuto dal primo giudice, non costituirebbero espressione dell’autotutela
possessoria di cui all’art. 823, secondo comma del Codice civile,
trattandosi di meri inviti al rilascio, non integranti neanche una vera e
propria attività provvedimentale: anche tale questione non può essere
rimessa in discussione nel presente giudizio, avendo formato oggetto di una
espressa qualificazione da parte della sentenza appellata, che è sul punto
rimasta inoppugnata.
2. Passando al merito dell’appello, si osserva che il primo giudice ha
richiamato il pacifico orientamento giurisprudenziale che afferma che la
tutela amministrativa accordata ai beni demaniali dall’art. 823, secondo
comma Cod. civ. sia estendibile anche ai beni del patrimonio indisponibile.
In applicazione del predetto principio, ha ritenuto la legittimità degli
atti di autotutela possessoria adottati dal Comune di Ospitaletto, rilevando
la loro afferenza a un’area appartenente al demanio idrico o comunque al
patrimonio indisponibile comunale.
Ciò posto, ferma la correttezza del predetto principio generale, tali
conclusioni non possono qui trovare conferma.
3. Va innanzitutto escluso, in uno al quarto motivo di appello, che
l’area possa ritenersi attualmente ricompresa nel patrimonio idrico comunale
per la presenza al suo interno di un canale irriguo da tempo in disuso e
ormai ricoperto.
Restano pertanto assorbite le ulteriori difese sul punto svolte dagli
appellati, che hanno eccepito per un verso la violazione del divieto di
integrazione postuma della motivazione dell’atto amministrativo, facendo
rilevare che la natura demaniale idrica del bene è stata invocata dal
Comune, che nel secondo atto gravato aveva affermato che la striscia di
terreno in parola apparteneva al patrimonio indisponibile dell’Ente, solo in
corso di causa, per altro verso che lo stesso Comune non ha assolto l’onere
su di esso incombente di dimostrare in giudizio che il bene abbia
effettivamente natura pubblica.
3.1. Il primo giudice, per affermare che l’area in parola fa parte del
demanio idrico, si è fondato sul fatto storico della presenza di un canale
irriguo risultante dalle cartografie catastali. Di contro, ha reputato
irrilevante sia che esso non emergesse dalla mappatura del reticolo idrico
minore del 2003, recepita nel piano regolatore generale comunale, perché
avente mero valore dichiarativo, sia che la funzione irrigua fosse oramai da
tempo completamente esaurita a causa dell’intensa attività edificatoria
realizzata nell’intera zona.
Ha poi escluso la sdemanializzazione tacita del bene idrico, osservando che
la modifica definitiva dei luoghi, nella parte più vicina al canale irriguo
in parola, è avvenuta solo nel 2005, con la copertura del canale realizzata
in occasione della presentazione di una dichiarazione di inizio attività per
la costruzione di un edificio residenziale e l’ampliamento di un fabbricato
preesistente, ovvero quando era già vigente il relativo divieto, introdotto
dall’art. 4 della l. 37/1994.
Tale ultima ricostruzione, in particolare, non convince, dovendosi rilevare,
di contro, in accoglimento delle censure svolte dagli interessati con la
prima parte del quarto motivo di appello, la sdemanializzazione tacita del
bene in epoca anteriore al 1994.
3.2. Sul tema, la giurisprudenza ha affermato il principio per cui “nel
regime anteriore a quello introdotto alla l. 05.01.1994, n. 37, art. 4 (che,
nel sostituire il testo dell'art. 947 c.c., ha espressamente escluso, per il
futuro, tale eventualità), la sdemanializzazione tacita dei beni del demanio
idrico non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più
adibito anche da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in
presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà
della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di
rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendo desumersi una
volontà di rinunzia univoca e concludente da una situazione negativa di mera
inerzia o tolleranza” (Cass., Sez. un. n. 12062 del 2014; 03.03.2016, n.
4189).
Nel caso di specie si ravvisano le predette condizioni positive.
In particolare, la circostanza che il canale irriguo non sia da lungo tempo
più adibito all’uso pubblico è elemento incontestatamente emergente dal
fascicolo di causa, così come è incontestato che il ripristino della
funzione irrigua non è il presupposto dei provvedimenti gravati:
l’Amministrazione procedente ha infatti espressamente ricollegato l’ordine
di sgombero di cui trattasi alla realizzazione di un’opera pubblica del
tutto svincolata da tale funzione.
Tanto chiarito, emerge che l’Amministrazione comunale non è estranea alla
sottrazione del bene alla funzione idrica a suo tempo avvenuta, ma ne è anzi
il principale attore, avendone determinato l’avvio a partire dall’atto di
acquisto del mappale 133, avvenuto nel 1973 allo scopo di costruire la
palestra contestualmente edificata. Tale costruzione ha infatti determinato,
come emerge dalla perizia depositata in primo grado dagli appellanti,
l’edificazione del canale nel tratto interessato dall’opera pubblica,
avvenuta negli anni '70-'80, e la costruzione di un muro all’interno della
proprietà comunale a opera della stessa Amministrazione, che ha isolato
dalla stessa la striscia di terreno poi inglobata nel giardino degli
appellanti.
Non si tratta, pertanto, di una mera tolleranza o inerzia, bensì di una
condotta positiva, che non può non essere interpretata come riconoscimento
della irrilevanza della funzione irrigua del canale presente in tale
terreno, che, del resto, è rilevabile anche alla luce della successiva
urbanizzazione della zona, che la stessa perizia, precisato non trattarsi di
un canale di scolo delle acque, descrive nei seguenti termini: “L’ex
canale in passato possedeva funzione di canale irriguo per i terreni posti a
sud del canale stesso, ma tale funzione è venuta meno nel momento in cui
sono cominciate le edificazioni sia a sud che a nord dello stesso, dagli
atti esaminati risulta che sul mappale 133 la palestra è stata realizzata
già negli anni 70, mentre a sud per quanto riguarda il mappale dei
ricorrenti il primo stabile, posto più a sud, è stato edificato nel 1985,
mentre ad est il parco è stato realizzato nella seconda metà degli anni 90
ed il polo scolastico è stato realizzato nel 2003”.
Nel descritto contesto, non è dato comprendere da quali elementi il primo
giudice tragga la conclusione che “è verosimile che fino a quel momento
[ovvero sino al momento della ulteriore copertura del canale realizzata nel
2005] l’utilità del canale irriguo non fosse ancora venuta meno, o non
completamente”, e che “è verosimile, e perfettamente ragionevole, che
il muro servisse a proteggere i frequentatori della palestra dalla presenza
del fosso, senza interferire con la funzione irrigua rispetto ai terreni
collocati a una quota inferiore verso sud…”: si tratta, infatti, di
asserzioni dichiaratamente ipotetiche, che non trovano vieppiù alcun
riscontro oggettivo nel fascicolo di causa, mentre non vi è dubbio che il
Comune era nella condizioni di poter dimostrare in giudizio in vario modo,
laddove effettivamente sussistente, l’utilità residua del canale irriguo nel
periodo intercorrente tra il 1973 e il 2005, ciò che, invece, non ha fatto.
Inoltre, la persuasività delle predette affermazioni del primo giudice è
ulteriormente sconfessata dalla stessa sentenza appellata, laddove
riferisce, contraddittoriamente, che “era evidente già all’epoca della
costruzione della palestra comunale, negli anni ’70, che la presenza del
canale irriguo era destinata a recedere rispetto alle prospettive di
urbanizzazione dell’intera zona … ”, soprattutto considerando che tale
urbanizzazione, sempre per quanto attiene alla ulteriore copertura del
canale del 2005, risulta realizzata mediante DIA, che è strumento che, pur
non implicando necessariamente una espressa autorizzazione comunale, non
esclude il potere di controllo amministrativo sull’edificazione privata,
che, tra l’altro, avendo a oggetto, in tesi, la copertura di un canale
irriguo ancora in funzione, non poteva certo passare inosservata.
Ne deriva che non può dirsi che l’immutazione definitiva dello stato del
canale sia avvenuta nel 2005 a opera esclusiva della DIA menzionata dal
primo giudice, in quanto essa non ha costituito altro che l’inevitabile
conseguenza di un processo originatosi ben in precedenza, per effetto delle
scelte via via compiute dall’Amministrazione comunale a partire dalla
realizzazione della palestra negli anni ‘70, che ha comportato la
sottrazione, senza prospettiva di ritorno, del bene idrico alla sua
destinazione.
Sulla base di tali evidenze, non può condividersi neanche l’irrilevanza che
il primo giudice ha conferito alla mancata mappatura del canale irriguo nel
reticolo minore idrico del 2003, recepito dal vigente PRG del Comune di
Ospitaletto: la valenza meramente dichiarativa di tale cartografia non può
infatti trasformare in prova l’assenza di qualsiasi elemento attestante
l’uso pubblico del bene nel periodo intercorrente tra l’emanazione della
legge del 1994 e la DIA del 2005.
4. Va altresì esclusa l’appartenenza dell’area in parola al patrimonio
comunale indisponibile, come affermato sia dal giudice di prime cure che dal
Comune di Ospitaletti nel secondo provvedimento oggetto di impugnativa
Il primo giudice ha sul punto considerato che l’Ente ha acquistato il
mappale in cui è ricompresa l’area per cui è causa nel 1973 al fine di
realizzare la palestra comunale, nonché, comunque, l’intendimento del Comune
di includere la stessa area (già erroneamente ritenuta soggetta al regime
del demanio idrico) nel proprio patrimonio indisponibile, per effetto del
suo previsto asservimento a due beni di tale patrimonio (plesso scolastico e
palestra comunale).
Tali elementi non sono però sufficienti.
4.1. L’art. 826 Cod. civ. stabilisce al terzo comma che “Fanno parte del
patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e
dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di
uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico
servizio”.
Tenuto conto di tale ultima locuzione, consolidata giurisprudenza afferma
che l’inclusione di un bene nel patrimonio indisponibile comunale richiede
la sussistenza di due requisiti congiunti: la manifestazione di volontà
dell’ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso
atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di
destinare quel determinato bene a un pubblico servizio; l’effettiva e
attuale destinazione del bene a pubblico servizio (tra tante, Cons. Stato,
VI, 29.08.2019, n. 5934; IV, 30.01.2019, n. 513; Cass. Civ., Sez. un.,
25.03.2016, n. 6019; 28.06.2006, n. 14685; II, 16.12.2009, n. 26402;
09.09.1997, n. 8743).
Il secondo requisito nel caso di specie è del tutto insussistente.
Come sopra già rilevato, nel corso degli anni ’70 il Comune, successivamente
al suo acquisto, ha realizzato sul mappale n. 133, nel cui ambito insiste la
striscia di terreno ora rivendicata dal Comune, la palestra comunale, e ha
contestualmente delimitato l’area a ciò destinata mediante l’edificazione di
un muro in cemento armato, escludendo tale striscia.
La predetta porzione di area non è dunque asservita alla palestra, ed è,
allo stato, inglobata nel giardino di proprietà degli appellanti, che, per
l’effetto, l’hanno da tempo adibita a un uso privato, che è rimasto
incontestato sino all’adozione degli atti di cui si discute.
Nel descritto contesto, il Comune non può utilmente invocare ai fini per cui
è causa la destinazione prevista nell’atto di acquisto, che non è
sufficiente ad assoggettare il bene al regime del patrimonio indisponibile (Cons.
Stato, 06.12.2007, n. 6259; Cass. Civ., Sez. un., 28.06.2006, n. 14865), ove
la relativa destinazione non divenga poi effettiva.
E’, pertanto, fondata la censura di cui pure al quarto motivo di
appello, con cui gli interessati sostengono l’erroneità della conclusione
del primo giudice che annovera la porzione di area in parola tra i beni
comunali indisponibili, perché fondata su una destinazione al pubblico
servizio “pro futuro”, laddove la giurisprudenza sottolinea la
necessità della sua concreta ed attuale esistenza, con conseguente
fondatezza anche del quinto motivo, con cui gli interessati deducono
l’insussistenza dei presupposti per il ricorso allo strumento dell’autotutela
possessoria, da cui sono esclusi, come rilevato anche dal primo giudice, i
beni del patrimonio disponibile (Cass. Civ., Sez. un., 03.12.2010, n. 24563)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.02.2020 n. 1123 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
gennaio 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U.
28.01.2020 n. 22 "Revisione delle reti stradali relative
alle Regioni Emilia Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto"
(D.P.C.M.
21.11.2019). |
PATRIMONIO: Sinistri su strada aperta al pubblico transito.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più
questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di
normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della
vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il
nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Cosenza, Sez. I, sentenza 20.01.2020 n. 127 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 02.01.2020, "Programma
degli interventi prioritari sulla rete viaria di interesse
regionale - Aggiornamento 2019" (deliberazione
G.R. 09.12.2019 n. 2604). |
dicembre 2019 |
|
PATRIMONIO: L’avvalimento
nelle concessioni.
Domanda
È corretto consentire l’istituto dell’avvalimento una concessione decennale
di gestione di una struttura pubblica?
Risposta
L’istituto dell’avvalimento ai fini della partecipazione alle procedure di
gara, in particolare a quelle inerenti le concessioni, trova disciplina
nell’art. 172, co. 2, del d.lgs. 50/2016, in base al quale si stabilisce
che: “Per soddisfare le condizioni di partecipazione di cui al comma 1,
ove opportuno e nel caso di una particolare concessione, l’operatore
economico può affidarsi alle capacità di altri soggetti, indipendentemente
dalla natura giuridica dei suoi rapporti con loro. Se un operatore economico
intende fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, deve dimostrare
all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore che disporrà
delle risorse necessarie per l’intera durata della concessione. Per quanto
riguarda la capacità finanziaria, la stazione appaltante può richiedere che
l’operatore economico e i soggetti in questione siano responsabili in solido
dell’esecuzione del contratto. Alle stesse condizioni, un raggruppamento di
operatori economici di cui all’articolo 45 può fare valere le capacità dei
partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti. In entrambi i casi si
applica l’articolo 89”.
Il richiamo all’art. 89, ovvero norma che definisce l’istituto dell’avvalimento
nelle procedure di aggiudicazione di appalti, fa ritenere in modo chiaro, la
volontà del legislatore nazionale di consentirne il ricorso anche nel caso
di procedure finalizzate all’affidamento di concessioni.
Tuttavia a differenza degli appalti, nelle concessioni si chiede alla
pubblica amministrazione di fare delle concrete valutazioni in ordine
all’opportunità di consentire la possibilità di affidarsi alla capacità di
altri soggetti, e quindi eventualmente di limitare nella disciplina speciale
di gara il ricorso a tale istituto.
La natura stessa di una concessione, quale contratto che presenta spesso una
durata importante, rende inadatto l’istituto dell’avvalimento, proprio per
la concreta difficoltà nella dimostrazione, all’amministrazione
aggiudicatrice, circa la capacità dell’operatore partecipante di poter
effettivamente disporre, per tutta la durata del contratto, e quindi per un
periodo ad esempio ultradecennale, delle risorse necessarie.
Soprattutto quando si tratta dei requisiti di capacità tecnica ed
organizzativa nelle concessioni ove l’oggetto principale è una gestione
complessiva, proprio per la difficoltà di valutare e considerare tutti quei
fattori e quegli elementi che incidono concretamente sull’equilibrio
economico e finanziario.
Pertanto, fermo restando la natura dell’istituto dell’avvalimento che la
giurisprudenza considera di applicazione generale e volto a consentire la
più ampia partecipazione, nel caso di concessioni, è necessario valutare
l’opportunità, in base agli specifici affidamenti, di introdurre negli atti
di gara delle clausole che ne limitino il ricorso (18.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ottobre 2019 |
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PATRIMONIO:
Oggetto: DPR 151/2011 Attività n. 80 - Gallerie stradali più lunghe di
500 metri - Adempimenti procedurali e tecnici - Indirizzi applicativi
(Ministero dell'Interno, Dipartimento VV.F.,
nota 31.10.2019 n. 16510 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PATRIMONIO:
OGGETTO: acquisto di terreno comunale da parte di amministratore del
Comune tramite permuta – sussistenza di un interesse pubblico – divieto di
cui all’art. 1471 c.c. e all’art. 15 del Regolamento comunale –
applicabilità – parere
(Legali Associati per Celva,
nota 29.10.2019 -
tratto da www.celva.it).
---------------
Il Comune di La Thuile ha sottoposto alla nostra attenzione, per il
tramite del CELVA, quesito avente ad oggetto le modalità di applicazione
dell’art. 1471 c.c., recante “Divieti speciali di comprare”, nonché
dell’art. 15 del Regolamento comunale per la disciplina delle alienazioni di
beni immobili. (...continua). |
PATRIMONIO: L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito.
In tema di responsabilità civile, l’ente proprietario di una strada aperta
al pubblico transito risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di
manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse
alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti
la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere
con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo e, nel compiere tale
ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è
suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali
cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima
incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso
eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 02.10.2019 n. 1116
- massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
settembre 2019 |
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PATRIMONIO: Collocazione
di dossi rallentatori.
Domanda
L’amministrazione comunale, al fine di moderare la velocità
nell’attraversamento del centro abitato, è intenzionata ad installare dei
rallentatori di velocità, tipo i classici dossi gialli.
Qual è la normativa e quali sono i limiti a riguardo?
Risposta
Il regolamento di esecuzione del Codice della strada (D.P.R. 495/1992)
all’art. 179 dal titolo “rallentatori di velocità”, disciplina
tipologia e modalità di tali strumenti atti a far rispettare appunto i
limiti di velocità.
Ai sensi dell’art. 179 si possono distinguere due tipologie di rallentatori:
le bande trasversali e i dossi artificiali.
Le bande trasversali possono essere ad effetto ottico, acustico o vibratorio
e si possono adottare su tutte le strade. I commi 2 e 3 della norma indicano
come devono essere realizzati i tre diversi sistemi.
I dossi artificiali, invece, possono essere posti esclusivamente su “strade
residenziali”. Il codice della strada, all’art. 2, non contiene la
classificazione di “strada residenziale”: è dunque necessario
riferirsi alla definizione di “zona residenziale” di cui il punto 58
dell’art. 3 del Codice che definisce la zona residenziale come la “zona
urbana in cui vigono particolari regole di circolazione a protezione dei
pedoni e dell’ambiente, delimitata lungo le vie d’accesso dagli apposi
segnali di inizio e fine”.
In tal senso la circolare del Ministero dell’Interno n. 300/A/45182/103 del
07.09.1999 chiarisce che, al fine di poter collocare i dossi rallentatori, è
necessario delimitare l’area interessata e qualificarla come “residenziale”
(1).
La seconda parte del comma 5, dell’art. 179 del Regolamento di attuazione,
precisa inoltre che, per i dossi, “ne è vietato l’impiego sulle strade
che costituiscono itinerari preferenziali dei veicoli normalmente impiegati
per servizi di soccorso o di pronto intervento”.
In conclusione va sottolineato, alla luce di quanto sopra descritto, che i
dossi subiscono molte limitazioni circa la loro collocazione. Inoltre, è
stato verificato che spesso, chi ha ottenuto la collocazione dei dossi al
fine di limitare la velocità dei veicoli che transitano vicino alla
proprietà privata, successivamente chieda che vengano rimossi per i rumori e
le vibrazioni prodotti dal passaggio di veicoli pesanti.
È consigliabile pertanto valutare attentamente l’eventuale collocazione di
tali rallentatori.
---------------
(1)“Attesa l’assenza nel Codice di una specifica definizione della
normativa di strada residenziale, mentre per converso, com’è noto, la
disposizione dell’art. 3, comma 1, n. 58, del Codice fornisce la definizione
di zona residenziale, appare possibile identificare dette aree, solo sulla
scorta della zonizzazione prevista dai singoli strumenti urbanistici
generali (PP.RR.GG.) ed in particolare facendo riferimento alle zone
territoriali omogenee (opportunamente identificate nelle apposite
cartografie) nelle quali la definizione e le modalità di intervento fanno
capo alle normative tecniche di attuazione dei medesimi strumenti
urbanistici generali, in relazione alle disposizioni del Codice della
Strada”
(27.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO - TRIBUTI:
Pubblicità
su rotatorie.
Domanda
È possibile utilizzare le rotatorie per collocare dei cartelli pubblicitari
della ditta che si occupa della manutenzione della stessa; inoltre è
possibile posizionare dei manifesti o striscioni al fine di pubblicizzare
manifestazioni, eventi di varia natura o sagre paesane?
Risposta
Spesso le amministrazioni comunali optano per la collocazione nelle aiuole
all’interno delle rotatorie stradali di supporti di vario genere che
pubblicizzano aziende, generalmente florovivaistiche, le quali, in cambio di
tale pubblicità, si fanno carico della manutenzione delle aiuole stesse.
Durante il periodo primaverile ed estivo è aperta anche la stagione delle
manifestazioni locali.
La rotatoria diventa spazio per pubblicizzare gli eventi, spesso con
striscioni o cartelli che, per forma, dimensioni e posizionamento, non
garantiscono la sicurezza stradale.
Tecnicamente la rotonda è assimilabile ad un incrocio (intersezioni a raso):
ai sensi dell’art. 23, comma 1 e dell’art. 51, commi 3 e 4, del Regolamento
di esecuzione e attuazione del Codice della strada, l’installazione di
cartelli, insegne d’esercizio e di altri mezzi pubblicitari è vietata, con
sanzioni pecuniarie elevate, oltre alla rimozione, in caso di inosservanza.
L’ente proprietario potrà quindi essere chiamato a rispondere nel caso di
eventuali sinistri: tali cartelli pubblicitari sono di per sé motivo di
distrazione e reale pericolo per la sicurezza stradale.
Si rimanda, per completezza, alla circolare del Ministero delle
infrastrutture e dei Trasporti del 18.04.2012, n. 1699.
C’è da segnalare però, in conclusione, che, tra le modifiche al Codice della
strada in discussione in queste settimane alla Camera dei Deputati, c’è una
norma che consentirebbe la possibilità di derogare a tale divieto assoluto.
Il comma 7-bis dell’art. 23 del Codice della strada, che con ogni
probabilità verrà inserito, avrà infatti il seguente tenore: “In deroga
al comma 1, ultimo periodo, al centro delle rotatorie nelle quali vi sia
un’area verde, la cui manutenzione è affidata a titolo gratuito a società
private o ad altri enti, è consentita l’installazione di un’insegna di
esercizio dell’impresa o ente affidatario, fissata al suolo. Per
l’istallazione dell’insegna di cui al presente comma si applicano in ogni
caso le disposizioni di cui al comma 4.” (20.09.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
luglio 2019 |
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PATRIMONIO: La
verifica dell'interesse culturale dei beni.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 42/2004, introduce all'art. 12 il procedimento
per la verifica dell’interesse culturale dei beni mobili ed
immobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli enti
pubblici ed alle persone giuridiche private senza fine di
lucro.
L’art. 12 prevede che tutti i beni che siano opera di autore
non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre
cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se
immobili, siano sottoposti all'accertamento dell’interesse
culturale attraverso una procedura che prevede l’invio dei
dati identificativi e descrittivi delle cose immobili e
mobili ai fini della valutazione di merito da parte dei
competenti uffici del Ministero.
Un Comune riceve da un soggetto privato la proposta di
cessione, a titolo oneroso, del diritto di utilizzo della
propria banca dati, formata da documenti di testo e
fotografici pubblici e privati, riguardanti la storia del
Comune, dalle origini fino alla sua costituzione formale,
avvenuta oltre 60 anni fa.
Tale banca dati costituisce un vero e proprio archivio
storico, dal 1857 al 1960, comprendente foto del paese,
mappe del litorale dell’IGM di F., mappe catasto terreni,
etc.
Le fonti archivistiche consultate e dalle quali è stata
tratta la documentazione che si vorrebbe cedere, a titolo
oneroso, al Comune proviene da Archivi di Stato, di Comuni e
Province, Archivi parrocchiali, universitari e dell’Agenzia
delle Entrate.
Si chiede di conoscere se, a vostro parere:
- tale proposta rientri nella particolare attività di vendita o
commercio di archivi o singoli documenti o beni librari,
particolarmente delicata poiché potrebbe coinvolgere anche
beni culturali sottoposti a tutela, ai sensi del citato
decreto legislativo;
- alla luce della normativa vigente, sia onere del Comune eventuale
cessionario dei beni, sottoporre la proposta del soggetto
privato alla previa vigilanza della competente
soprintendenza archivistica e bibliografica per
l’autorizzazione o dichiarazione di interesse culturale,
ovvero avvalersi della collaborazione del Comando
Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
O se, al contrario, spetti al cedente la verifica de quo,
prima di intraprendere ogni azione di vendita/donazione
della banca dati in oggetto.
RISPOSTA:
Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è stato già
oggetto di modifiche introdotte con i due decreti
legislativi nn. 156 e 157 del 24.03.2006 ed è in attesa di
ulteriore revisione per impulso del Ministero dei Beni
Culturali.
Sul piano squisitamente operativo uno degli aspetti,
maggiormente problematici è rappresentato proprio dal
procedimento di verifica di interesse culturale di cui
all’art. 12 di cui al quesito.
Così come confezionata la disposizione legislativa ha
comportato difficoltà interpretative -riguardanti
specialmente le limitazioni soggettive da applicare al
procedimento di che trattasi- tra i fruitori della norma e
gli stessi soggetti chiamati ad applicarla.
Il procedimento amministrativo per dettato normativo
stabilisce con chiarezza che può essere avviato d’ufficio o
su richiesta dei singoli soggetti cui i beni appartengono,
ma non esprime una altrettanto chiara individuazione dei
diversi termini iniziali del procedimento nelle due ipotesi.
Con tutta probabilità nella mente del legislatore il fulcro
sta nella ricezione della documentazione relativa al bene da
sottoporre a verifica da parte dell’Agenzia del Demanio,
indipendentemente dal suo avvio nelle distinte ipotesi.
In buona sostanza la durata del procedimento è fissata in
gg. 60, di cui 30 per il completamento della istruttoria
(Soprintendenza). Ferma ogni fondata perplessità sul
rispetto dei termini fissati nonostante la dichiarazione di
perentorietà, ci sembra interessante il fatto che il
risultato della verifica, connesso all’inserimento in un
archivio informatico per finalità di monitoraggio del
patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi,
estende le disposizioni procedimentali "...omissis...” anche
agli immobili appartenenti alle regioni, gli altri enti
pubblici territoriali nonché alla proprietà degli altri enti
ed istituti pubblici (comma 12).
Ciò che a noi precipuamente interessa è di individuare
l’ambito soggettivo di applicazione per eventualmente
escludere dal regime normativo il caso descritto dal
quesito.
In proposito va detto che ciascun provvedimento individua i
soggetti destinatari del provvedimento finale riferito al
c.d. procedimento di verifica dell’interesse.
In rapida sintesi facendo riferimento anche alle
disposizioni che li nominano, i soggetti sono:
a) le Amministrazioni dello Stato (D.L. n. 269/2003, d.lgs. n.
42/2004 e D.M. 28.02.2005);
b) le Regioni, le Province, le Città metropolitane ed i Comuni
(norme c/s);
c) enti ed istituti pubblici (norme c/s);
d) persone giuridiche private senza fine di lucro (D.M.
25.01.2005);
e) istituti ed enti religiosi (Accordo 08.03.2005).
Si può agevolmente notare che trattasi di soggetti pubblici
o ad essi equiparati. Esiste poi un regime differenziato di
tutela per le cose di interesse storico artistico in
relazione alla natura giuridica dei soggetti cui le cose
appartengono –privati o “pubblici”- (già dalla legge
n. 1089/1939).
Tra i due regimi differenziati l’elemento discriminante è
rappresentato dal modo di individuazione dei beni oggetto di
tutela.
Per i privati, infatti, occorre un provvedimento ad hoc
dell’Amministrazione –debitamente notificato- che assoggetti
il bene al regime di vincolo, mentre per quei soggetti
definibili “pubblici” l’assoggettamento alla tutela
avviene ex lege, ovverosia attraverso disposizioni
ad hoc.
Tra i privati si devono far rientrare tutti quei soggetti
che dotati di personalità giuridica non perseguano un fine
di lucro, come ad esempio gli enti ecclesiastici legalmente
riconosciuti, associazioni, le fondazioni e le altre
istituzioni private che abbiano acquistato la personalità
giuridica mediante un formale riconoscimento, ma senza fini
di lucro.
Un ulteriore criterio da tenere come parametro di
riferimento è costituito dal diverso livello dell'interesse
che il bene deve avere per assumere la qualità di bene
culturale.
I soggetti interessati da tale procedimento sono anche i
privati e le persone giuridiche private con scopo di lucro,
con la conseguenza che “trattandosi in definitiva di
competizione di diversi interessi entrambi di rango
costituzionale, quale quello alla tutela del patrimonio
artistico da un lato, e quello della proprietà privata
dall'altro” (Cons. Stato, sez. VI, 27.08.2001, n. 4508,
in Riv. giur. ed., 2001, I, p. 1167) è stato previsto un
procedimento particolarmente rigoroso e tuzioristico.
Stando al citato principio, per i beni pubblici (ed
assimilati) l'interesse di riferimento è solo quello "semplice"
(art. 10 comma primo) e cioè senza altra aggettivazione,
mentre per i beni dei privati l'interesse deve essere
«particolarmente importante» [art. 10, comma 3, lettera a)]
e addirittura "eccezionale" per i beni indicati nel
citato dispositivo (lettera e)
Per i beni di appartenenza privata, quindi, il regime di
tutela viene rinviato al momento della relativa
dichiarazione o, per meglio dire, al momento dell'inizio
della fase procedimentale, individuato dalla norma nella
comunicazione dell'avvio del procedimento (articolo 14 comma
1).
Sembra anche opportuno segnalare in proposito che
l’obiettivo è quello di tutelare in maniera preventiva tutti
quei beni che, per la loro natura e per la loro
appartenenza, rivestono un potenziale interesse culturale,
dall'altro la necessità di un procedimento che consenta la
liberalizzazione della circolazione (esigenza quest'ultima
particolarmente avvertita allorché si è attuata una politica
di alienazione di parte del patrimonio pubblico).
In ordine alla efficacia, è prevalente l'opinione che il
provvedimento ha natura meramente dichiarativa in quanto
concernente una qualità oggettiva del bene, “in esso
intrinsecamente presente”. Quest'ultima tesi -che in
passato la Corte costituzionale ha fatto propria respingendo
ogni dubbio di incostituzionalità della L. n. 1089/1939 ed
ogni tentativo di pretendere la corresponsione di un
indennizzo a ristoro del pregiudizio derivante
dall'imposizione del vincolo- appare preferibile, ove si
consideri che l'interesse culturale di un bene non viene
creato dal provvedimento amministrativo, che si limita a
riconoscerlo, rivelarlo e dichiararlo pubblicamente, ma
esiste sin dall'origine.
La giurisprudenza amministrativa regionale ci è d’ausilio
nel ricordarci che, come ogni provvedimento amministrativo
la dichiarazione deve essere supportata da una valida
motivazione con particolare riguardo “all'esistenza degli
elementi fattuali e di giudizio giustificativi
dell'interesse artistico o storico atto a determinare
l'imposizione del vincolo, così da rendere possibile la
ricostruzione dell'iter logico seguito dall'amministrazione”
(Tar Veneto, sez. II, 29.10.1996, n. 1801, in Giur. mer.,
1997, p. 603), nonché “deve accertare il collegamento dei
beni e della loro utilizzazione con gli accadimenti della
storia e della cultura, individuando l'interesse
particolarmente importante del bene, che può dipendere o
dalla qualità dell'accadimento che col bene appare collegato
o dalla particolare rilevanza che il bene stesso ha
rivestito per la storia politica, militare, della
letteratura, dell'arte e della cultura” (C.d.S., Sez.
VI, 24.03.2003, n. 1496).
CONCLUSIONI
Quale che sia il procedimento di verifica, esso spetta al
MIBAC (Ministero per i beni e le attività culturali), in
ordine alla esistenza o meno dell'interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico (categoria questa
ultima entro la quale potrebbe astrattamente rientrare il
caso esposto dal quesito).
Si ricorda anche che l'attivazione su richiesta della parte
si fonda sulla possibilità che, attraverso tale procedura,
si ottenga la liberalizzazione del bene da ogni vincolo in
ordine alla tutela ed alla circolazione.
L'esito della verifica, che viene proposta d'ufficio o su
richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono
(comma 2 articolo 12), può risultare negativo ovvero
positivo.
Qualora nelle cose sottoposte a verifica non sia stato
riscontrato l'interesse sopra evidenziato, le cose medesime
sono escluse dal regime di tutela (comma 4, articolo 12).
Si ricorda per completezza di trattazione che avverso la
dichiarazione di cui all'articolo 13 è ammesso ricorso al
Ministero, per motivi di legittimità e di merito, entro
trenta giorni dalla notifica della dichiarazione (articolo
16).
Fermo restando quanto sopra chiarito e salva la possibilità
da parte del privato interessato di avviare il procedimento
di verifica - diretto non di certo all’ente locale coinvolto
- chi scrive ritiene che, salvo smentita da parte
dell’Organo Ministeriale valutatore, dei beni immateriali in
questione, per come descritti dal quesito e consistenti in
una mera, se pure finalizzata e tematica raccolta
documentativa e di quant'altro concernente la storia
culturale e sociale del Comune, non sarà positivamente
riscontrato, accertato e dichiarato l’interesse culturale ex
art. 12 del Codice.
In ogni caso, soltanto successivamente ad un eventuale
riscontro positivo, l’amministrazione locale potrà valutare
l’ipotesi di acquisizione del bene al proprio patrimonio, a
titolo grazioso o oneroso rispettando ogni disposizione
legislativa (Tuel) e regolamentare (Regolamento di
Contabilità) al fine di adottare dei legittimi e regolari
provvedimenti comunali acquisitivi
(tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO: Acquisto
complesso immobiliare da destinare a nuova sede protezione
civile.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011,
introdotto dall’art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo
modificato dall’art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017,
stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all’acquisto
di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a
comprovarne l’indispensabilità e l’indilazionabilità,
nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori
rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
L’art. 1, c. 905, lett. d), L. n. 145/2018, stabilisce che,
a decorrere dall’esercizio 2019, il suddetto comma 1-ter non
si applica ai comuni e alle loro forme associative che
approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il
bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il
31 dicembre.
L’art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall’art.
11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui
all’art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall’art. 1,
c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali
del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Il Comune riferisce di avere individuato un capannone nella
zona industriale ove vorrebbe trasferire la nuova sede della
protezione civile ed espone che per detto capannone e per il
terreno su cui insiste è stato emesso avviso d’asta
giudiziaria per l’unico complesso immobiliare, cui il Comune
vorrebbe partecipare quale offerente, autorizzato da
delibera consiliare ai sensi dell’art. 42 del D.Lgs. n.
267/2000 (TUEL), e motivando l’iniziativa con il
perseguimento della cura di uno specifico interesse
pubblico.
Sulla legittimità di detta operazione, il Comune
chiede un parere, avuto riguardo al divieto di acquisto per
gli amministratori dei beni affidati alla loro cura, di cui
all’art. 1471 c.c.
L’art. 1471 c.c., stabilisce che “non possono essere
compratori nemmeno all’asta pubblica, né direttamente, né
per interposta persona”, tra gli altri, “gli amministratori
dei beni dello Stato, dei comuni, delle province o degli
altri enti pubblici, rispetto ai beni affidati alla loro
cura”.
Il divieto in commento è sancito a pena di nullità (art.
1471, ultimo comma, c.c.) ed è volto a garantire che chi
amministra beni pubblici abbia a tutelare effettivamente gli
interessi affidati alle sue cure e non contrapponga o
sovrapponga ad essi il proprio personale interesse
[1]. Si
tratta dunque di una norma che mira a scongiurare situazioni
di conflitto di interessi in cui possono incorrere gli
amministratori comunali, rispetto ai beni del comune
[2],
cioè ai beni dell’ente amministrato
[3].
Nel caso di specie, è il Comune che intende acquistare il
complesso immobiliare di cui si tratta per destinarlo alla
nuova sede della protezione civile, per cui non viene in
considerazione il divieto di acquisto di cui all’art. 1471
c.c., riferito al divieto per gli amministratori, nella loro
persona, di acquistare beni di proprietà comunale.
Peraltro, per quanto concerne gli acquisti di immobili da
parte degli enti locali, vengono in considerazione vincoli
finanziari in tema di contenimento della spesa pubblica, in
relazione ai quali, sentito il Servizio finanza locale di
questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato
dall’art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere
dall’01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di
stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del
Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento.
Le disposizioni
di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali
che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a
valere su risorse stanziate con apposita delibera del
Comitato interministeriale per la programmazione economica o cofinanziate dall’Unione europea ovvero dallo Stato o dalle
regioni e finalizzate all’acquisto degli immobili stessi. La
congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio
previo rimborso delle spese.
L’art. 1, comma 905, lett. d), L. n. 145/2018
[4]
, ha
previsto che a decorrere dall’esercizio 2019, ai comuni e
alle loro forme associative che approvano il bilancio
consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio preventivo
dell’esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell’anno
precedente non trovano applicazione, tra l’altro, le
disposizioni di cui all’art. 12, comma 1-ter, D.L. n.
98/2011.
Sul piano dell’ordinamento regionale, l’art. 11, c. 11, L.R.
n. 5/2013, come novellato dall’art. 11, c. 5, L.R. n.
6/2013, prevede che le disposizioni di cui all’art. 12, D.L.
n. 98/2011, come modificato dall’articolo 1, comma 138,
della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali
della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Alla luce del quadro normativo delineato, compete all’Ente
verificare nel caso concreto la possibilità di procedere
all’acquisto del complesso immobiliare di cui si tratta,
accertando la ricorrenza dei presupposti legittimanti
richiesti dalla normativa statale, oppure la possibilità di
applicare la norma regionale citata. A quest’ultimo
riguardo, si precisa che la stessa postula che nei decreti
di assegnazione dei fondi regionali di finanziamento vi sia
la specifica previsione delle somme a disposizione per
l’acquisto degli immobili di interesse.
---------------
[1] Cfr. Consiglio nazionale del notariato. Ufficio Studi,
Dizionario giuridico del notariato: nella casistica pratica,
Giuffrè, 1006, p. 396.
[2] Cfr. Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari
interni e territoriali, pareri del 6 aprile 2009 e 22.11.2004. Il Ministero dà un’interpretazione ampia
della locuzione “amministratori” destinatari del divieto,
comprensiva del Sindaco, degli assessori, dei consiglieri,
in considerazione della valenza generale che riveste
l’individuazione delle categorie degli amministratori
effettuata dal comma 2 dell’art. 77 del TUEL.
Nel senso di un’accezione ampia della nozione di
amministratori di cui all’art. 1471, anche la giurisprudenza
di merito: Appello Milano, 28.04.1961, GI, 1961, I, 2,
538, richiamata da Consiglio nazionale del notariato.
Ufficio Studi, op. cit., p. 397.
Sulla scia di detto orientamento, questo Servizio ha
affermato l’applicazione del divieto ex art. 1471, c. 1, n.
1, c.c., agli organi di governo dell’ente locale, e dunque
sindaco, assessori, consiglieri: v. nota n. 8965 del 31.05.2007 e nota n. 7440/2017.
[3] Cfr. Francesco Caringella, Giuseppe De Marzo, Manuale di
diritto civile, Volume 3, Giuffrè Editore, 2008, p.1068.
[4] Recante: “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2009 e bilancio pluriennale per il triennio
2019-2021” (24.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: Estinzione
concessione cimiteriale a seguito di estumulazione.
In caso di concessione rilasciata per la
tumulazione in loculo comunale di salma individuata nel
contratto, in dottrina e in giurisprudenza si ritiene che l’estumulazione
del feretro determini l’estinzione della concessione per
esaurimento della funzione.
Il Comune riferisce di una concessione cimiteriale, della
durata di novantanove anni, con la quale è stato attribuito
al concessionario ed eredi l’uso di un loculo
[1] per
l’“inumazione” (rectius tumulazione)
individuale della salma (del figlio del concessionario)
indicata nel contratto. Gli eredi del concessionario,
successivamente deceduto, hanno fatto istanza al Comune di
estumulare dal loculo detta salma, al fine di ridurla in
cassetta ossario e ritumularla nello stesso loculo, ove
hanno manifestato la volontà di riporre in futuro anche la
salma della madre [2].
Il Comune ritiene di poter accogliere la domanda di
estumulazione, mentre è dell’avviso di non consentire la
tumulazione nel loculo di cui si tratta di un feretro
diverso da quello del soggetto nominalmente individuato
nella concessione, in quanto osserva che il loculo è stato
concesso per un determinato scopo e di conseguenza l’estumulazione
determina l’estinzione della concessione per esaurimento
della finalità per cui la stessa è stata fatta. Sulla
correttezza o meno di siffatta impostazione il Comune chiede
parere.
Sentita l’Area promozione salute e prevenzione della
Direzione centrale salute, politiche sociali e disabilità,
si esprime quanto segue.
Si premette che l’attività di questo Servizio consta nel
fornire un supporto giuridico generale sulle questioni poste
dagli enti, che possa essere di aiuto per la soluzione dei
casi concreti che li riguardano, in relazione alle loro
peculiarità.
Si precisa altresì che questo Servizio non è deputato ad
esprimere considerazioni sugli atti negoziali stipulati
dall’Ente, la cui interpretazione compete solo alle parti da
cui provengono e, in ultima istanza, al giudice competente
eventualmente adito.
Un tanto premesso, in via collaborativa si esprimono le
seguenti considerazioni.
Dalla lettura del contratto di concessione, emerge che il
Comune dà e concede e il privato contraente “accetta, si
obbliga e stipula per sé ed eredi l’uso del loculo …per
inumazione della salma” della persona ivi identificata.
In particolare, per quanto concerne gli eredi, nel contratto
si specifica che alla morte del concessionario “il
diritto di uso, relativo al loculo concesso, passerà alla
morte del concessionario agli eredi”, con l’espressa
riserva che il “Comune non riconoscerà mai, per i
relativi diritti ed obblighi, che uno solo degli eredi”,
da designarsi nei modi ivi stabiliti.
Il diritto di uso concesso non potrà in nessun modo e per
nessun titolo essere ceduto ad altri, eccettuato quanto
previsto per gli eredi.
Dalle espressioni sopra richiamate, sembrerebbe che il
contratto attribuisca al concessionario e agli eredi il
diritto di tumulare nel loculo il feretro del soggetto ivi
espressamente e nominativamente indicato.
A voler assumere, muovendo dal tenore letterale del
contratto, che il Comune abbia concesso e il concessionario
abbia accettato (per sé e i suoi eredi) l’uso del loculo per
la tumulazione di una salma specifica, questo porterebbe a
ritenere che l’estumulazione di quel feretro determini
l’estinzione della concessione per esaurimento della
finalità per cui questa era stata chiesta ed ottenuta.
E così, con specifico riferimento all’ipotesi del posto a
tumulazione individuale (colombario, loculo, a seconda delle
denominazioni localmente usate, che possono essere
variamente diversificate) concesso “esclusivamente”
per il feretro di defunto determinato o comunque per il
quale l’atto di concessione specifichi che la concessione è
stata fatta per accogliervi quel determinato feretro, la
dottrina ha osservato che qualora venga richiesta l’estumulazione
del feretro di destinazione, si ha l’effetto che viene ad
esaurirsi il fine originario per cui era sorta la
concessione e, conseguentemente, si ha l’estinzione della
concessione [3].
Peraltro, si ribadisce che, trattandosi di atto negoziale,
la relativa interpretazione compete unicamente alle parti,
con la conseguenza che il Comune potrebbe anche aderire ad
un’interpretazione del contratto di concessione diversa da
quella che appare corrispondente al tenore letterale dello
stesso.
Al riguardo, risulta ad ogni modo utile suggerire al Comune
di regolamentare espressamente l’istituto della concessione
di loculi di proprietà comunale, per uso esclusivamente di
salma determinata oppure per uso del concessionario e dei
suoi familiari, anche per quanto concerne la fattispecie
dell’estinzione.
---------------
[1] Trattasi di loculo di proprietà del Comune.
[2] Della persona la cui salma è ivi tumulata.
[3] Sereno Scolaro, Le concessioni cimiteriali, Maggioli,
2008, pagg. 220-222. Lo stesso autore osserva inoltre che,
nel caso in cui invece, a fronte di una concessione d’uso
stipulata per una determinata salma, il loculo venisse
utilizzato per altra persona, si avrebbe la fattispecie
della decadenza della concessione per inadempimento
contrattuale, consistente nel fatto del mancato uso del
loculo per la destinazione impressa nell’atto di concessione
(cfr. Sereno Scolaro, La polizia mortuaria, op. cit, p.
280). Si veda anche TAR Parma 12.06.2006, n. 290, che
evidenzia come la concessione cimiteriale sia strettamente
connessa e subordinata alla permanenza in loco della salma e
si estingua quando questa sia estumulata. Cfr. nota n. 1956
del 13.02.2018 di questo Servizio
(04.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia.
La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia non si
applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali
ogni volta che sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia
possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sul bene
stesso. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta
dello stesso da parte di terzi sono solo figure sintomatiche
dell’impossibilità della custodia da parte della Pubblica Amministrazione,
mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del demanio
stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato
causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso
Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche,
essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito
(TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 02.07.2019 n. 1701 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
giugno 2019 |
|
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Comune di Villeneuve - rete fognaria pubblica -
interferenza con lavori di nuova costruzione - richiesta di
spostamento delle condotte - parere (Legali Associati
per Celva,
nota 21.06.2019 - tratto da www.celva.it). |
aprile 2019 |
|
PATRIMONIO:
Cimiteri, illegittima la riserva agli islamici.
È illegittima la clausola di una convenzione con la quale un comune ha
stabilito che nel reparto islamico del cimitero debbano essere accolti solo
i defunti di quella religione, appositamente attestata da un Centro
islamico.
Lo ha sancito il TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, con la
sentenza 20.04.2019 n. 383.
Comune di Bergamo e Centro culturale islamico onlus avevano stipulato una
convenzione che designava quest'ultima come assegnataria di un'area sulla
quale essa avrebbe provveduto alla realizzazione del reparto cimiteriale
riservato e separato, a sua cura e spese.
Tale convenzione prevedeva che il
Centro si impegnasse ad accogliere nel proprio cimitero tutti i defunti di
quella religione. In seguito, per fare fronte all'incremento della richiesta
di sepolture islamiche, il comune aveva previsto l'inclusione nel reparto
speciale islamico –appositamente ed opportunamente orientato e organizzato
secondo le esigenze della liturgia coranica– di un'ulteriore area.
In
occasione di tale ampliamento, però, il comune aveva parzialmente modificato
il contenuto della convenzione, prevedendo che nel reparto islamico del
cimitero venissero accolti tutti i defunti di quella religione con la
preventiva attestazione della professione della fede islamica da parte del
Centro culturale islamico di Bergamo. In mancanza dell'attestazione il
comune avrebbe disposto l'ordinaria inumazione nel campo comune del cimitero
di Bergamo.
Con ricorso alcune associazioni islamiche avevano subito
impugnato tale modifica, che avrebbe violato i principi costituzionali
relativi al diritto di libertà dell'espressione religiosa, subordinando la
sepoltura nel settore islamico all'attestazione della fede islamica
demandata a un soggetto privato quale l'Associazione centro culturale
islamico onlus, senza, peraltro, fissare criteri o vincoli. Il Tar accoglie
il ricorso.
Deve, infatti, ritenersi illegittima la clausola successivamente
apposta dall'ente locale. In particolare il collegio ha osservato che tale
clausola è in contrasto con i principi costituzionali che garantiscono la
libertà di religione e della sua professione. Libertà che risulta
chiaramente violata nel momento in cui la possibilità di accedere al rito
funebre islamico per il deceduto è subordinata all'acquisizione, da parte
dei parenti, di una certificazione attestante la fede islamica dello stesso,
rilasciata da un soggetto privo di alcuna legittimazione in tal senso,
trattandosi di una mera associazione privata
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019). |
PATRIMONIO: Responsabilità dell’ente pubblico.
L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito risponde, ai
sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Infatti, nella materia de qua sussiste una
presunzione di responsabilità dell’ente proprietario di una strada aperta al
pubblico transito, ai sensi dell’art. 2051 c.c., relativamente ai sinistri
riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla
struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua
estensione, essendo tale responsabilità esclusa solo dal caso fortuito, che
può consistere sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista,
imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti
nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa
vittima, ricollegabile all’omissione delle normali cautele esigibili in
situazioni analoghe
(TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 462 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
marzo 2019 |
|
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Acquisto
di fondi per la realizzazione di aree pubbliche.
DOMANDA:
Un Comune rappresenta che, dopo aver accantonato una quota
di avanzo vincolato derivante da monetizzazioni aree di
standard urbanistiche, vorrebbe impegnarlo per
l'acquisizione di un terreno adiacente ad un campo da calcio
che era stato concesso in comodato al Comune e che il
proprietario vuole vendere o, altrimenti, vedersi
restituito.
RISPOSTA:
In relazione al supposto impiego di dette risorse per
l'acquisto del sedime adiacente all'impianto sportivo
comunale si osserva quanto segue.
L'art. 46 della Legge Regionale Lombardia n. 12/2005 prevede
testualmente, per quanto qui più interessa, che: “La
convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio
dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle
denunce di inizio attività relativamente agli interventi
contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai
numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n.
765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150) , deve prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché
la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e
di interesse pubblico o generale previste dal piano dei
servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle
monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono
utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti
nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica;”.
A sua volta, poi, tale previsione va letta in combinato
disposto con il successivo art. 90 avente ad oggetto le aree
per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale ove, tra le altre condizioni, viene precisato che “Nel
caso in cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
Orbene, date per legittime le monetizzazioni degli standard
già svolte, l’utilizzo delle risorse derivanti è subordinata
alla verifica a valle, da parte del Comune, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi sia destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano (cfr. Corte dei conti, sez. Lombardia,
del. 100/2017)
(31.03.2019 - link a www.conord.eu). |
PATRIMONIO: Danni da insidia stradale.
In tema di responsabilità da insidia stradale, la collocazione del bene
demaniale all’interno del perimetro urbano delimitato dallo stesso comune è
elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene, dal cui difetto
di manutenzione è derivato il danno, sicché non può revocarsi in dubbio che
l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume
responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle
situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla
conformazione della strada e delle sue pertinenze, indipendentemente dalla
loro riconducibilità a scelte discrezionali della P.A.
(Corte di Appello Bari, Sez. III, sentenza 14.03.2019 n. 653 -
massima da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Risarcibilità danno ingiusto.
Premesso che la norma primaria sulla responsabilità aquiliana definisce
l’area della risarcibilità con una clausola generale espressa dalla formula
“danno ingiusto”, in forza della quale è risarcibile il danno che ha le
caratteristiche dell’ingiustizia, cioè il danno arrecato non iure, che è
ravvisabile nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione,
quindi derivante da un comportamento non giustificato da altra norma, che si
risolva nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, consegue
che il mancato guadagno dell’imprenditore per le difficoltà (o
l’impossibilità) di accesso della clientela al proprio esercizio commerciale
in conseguenza del protrarsi dei lavori di manutenzione di una strada
pubblica, la cui causa venga indicata dal privato nella inadeguata
valutazione da parte dell’ente proprietario della complessità delle opere,
per l’omesso espletamento delle opportune indagini e verifiche tecniche, non
può collegarsi eziologicamente ad un’attività illecita della pubblica
amministrazione, non essendo ipotizzabile in via generale una regola che
imponga a questa di fissare preventivamente i tempi di esecuzione dei lavori
su beni pubblici ad essa appartenenti, la programmazione e la progettazione
dei quali rientra nella insindacabile discrezionalità dell’amministrazione
stessa
(TRIBUNALE di Lecce, Sez. I, sentenza 04.03.2019 n. 782 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
febbraio 2019 |
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PATRIMONIO: Contributo
investimenti L. 145-2018.
Domanda
Sono assessore ai LL.PP. in un comune di 7.100 abitanti. La
legge di bilancio ci ha assegnato 70mila euro per interventi
sul patrimonio comunale. Quali sono gli interventi che si
possono realizzare? Con quali tempi e procedure?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alle somme stanziate
dall’art. 1, commi da 107 a 114, della legge 145/2018 (legge
di bilancio 2019). Tali somme sono finalizzate alla
realizzazione di investimenti per la messa in sicurezza di
scuole, strade, edifici pubblici e patrimonio comunale, nel
limite complessivo di 400 milioni di euro, purché non siano
già interamente finanziati da altri soggetti.
Per chiarire le tipologie di spese finanziabili è
intervenuto nelle scorse settimane il Ministero dell’Interno
con la pubblicazione sul proprio sito di 27 faq il cui testo
integrale
è reperibile qui. In particolare, la faq n. 12
precisa che in ogni caso non sono finanziabili gli
interventi di manutenzione ordinaria. Il contributo non può
pertanto essere destinato a spese correnti.
Gli interventi da realizzare devono essere aggiuntivi
rispetto a quanto già previsto nella prima annualità del
piano triennale delle opere pubbliche dell’ente
beneficiario. I lavori devono essere affidati ai sensi degli
articoli 36, comma 2, lettera b), e 37, comma 1, del Codice
degli appalti e dovranno essere avviati entro il termine
perentorio del 15 maggio prossimo. In virtù della deroga
introdotta dal comma 912, per il solo 2019, l’affidamento
potrà avvenire, pertanto:
1 .per importi fino a 40mila euro con affidamento diretto anche
senza previa consultazione di due o più operatori economici;
2 .per importi pari o superiori a 40 mila euro e fino a 150 mila
euro tramite affidamento diretto previa consultazione, se
esistenti, di tre operatori economici;
3. per importi pari o superiori a 150 mila euro e inferiori a 350
mila euro, mediante procedura negoziata, previa
consultazione, sempre ove esistenti, di almeno 10 operatori
economici.
I tempi per l’avvio dei lavori sono evidentemente molto
stretti. Per gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione prima dell’entrata in vigore della legge 145/2018
si rende inoltre necessario adottare apposita variazione che
ne preveda gli stanziamenti al titolo IV dell’entrata e al
titolo II della spesa. E’ possibile procedere con
deliberazione della giunta comunale, adottata in via
d’urgenza con i poteri del consiglio, ai sensi dell’art.
175, comma 4, del TUEL motivata proprio con l’urgenza di
affidare e avviare l’intervento.
Cosa succede se l’ente non rispetta la scadenza del 15
maggio? La risposta è contenuta nel comma 111: esso prevede
la revoca del contributo, in tutto o in parte, disposta con
decreto del Ministero dell’Interno entro il 15.06.2019.
L’ammontare complessivo delle somme revocate sono assegnate,
con il medesimo decreto, ai comuni che hanno iniziato
l’esecuzione dei lavori in data antecedente alla scadenza
del 15 maggio, dando priorità ai comuni con data di inizio
dell’esecuzione dei lavori meno recente e non oggetto di
recupero. I comuni beneficiari di tale ulteriore riparto
sono tenuti ad iniziare l’esecuzione dei lavori entro il 15
ottobre prossimo.
Le somme sono erogate dal Ministero dell’Interno per il 50
per cento previa verifica dell’avvenuto inizio
dell’esecuzione dei lavori attraverso il sistema di
monitoraggio BDAP-MOP, e per il restante 50 per cento previa
trasmissione al Ministero dell’Interno del certificato di
collaudo o del certificato di regolare esecuzione rilasciato
dal direttore dei lavori.
Infine la legge impone agli enti di dare la massima
pubblicità all’intervento realizzato: essi devono rendere
nota la fonte di finanziamento, l’importo assegnato e la
finalizzazione del contributo nel proprio sito internet,
nella sezione «Amministrazione trasparente». Il
sindaco deve infine fornire tali informazioni al consiglio
comunale nella prima seduta utile (25.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO:
OGGETTO: Ampliamento del cimitero comunale su aree
private – acquisizione al patrimonio comunale ed
accatastamento del sedime - parere legale (Legali
Associati per Celva,
nota 22.02.2019 - tratto da www.celva.it). |
PATRIMONIO:
Gestione di impianti sportivi nel nuovo codice dei
contratti, diverse modalità contrattuali.
Domanda
Diverse strutture pubbliche sportive comunali sono in
scadenza, alla luce del nuovo codice dei contratti quali
sono i sistemi che si possono utilizzare per l’affidamento
del servizio di gestione degli impianti sportivi?
L’art. 90, co. 25, l. 289/2002, relativo alla preferenza a
favore di società e associazioni sportive dilettantistiche è
ancora applicabile?
Risposta
Per consolidato orientamento giurisprudenziale la gestione
di impianti sportivi assume i caratteri tipici di un
servizio pubblico. La nozione di servizio pubblico è omologa
a quella di servizio di interesse generale di derivazione
comunitaria, quale attività di produzione di beni e servizi
che si distinguono dalle comuni attività economiche, perché
perseguono una finalità di interesse generale che ne
giustifica l’assoggettamento ad un regime giuridico
differenziato (c’è obbligo di pubblico servizio quando il
mercato non soddisfa da solo la necessità). La dottrina è
giunta ad individuare gli indici di riconoscimento della
pubblicità del servizio, identificandoli nella coesistenza
di alcuni presupposti, quali:
• l’attività deve consistere in una prestazione;
• per la gestione del servizio deve esistere un’organizzazione
stabile con un controllo pubblico che assicuri un livello
minimo di erogazione;
• l’attività deve essere diretta ad una generalità di cittadini e
presentare il carattere dell’universalità (il servizio deve
essere reso a tutti i soggetti che ne facciano richiesta a
prescindere dal loro status).
Nel caso della gestione di impianti sportivi comunali
trattasi di un servizio pubblico locale ai sensi dell’art.
112 del d.lgs. n. 267/2000, dove l’utilizzo del patrimonio
si fonda con la promozione dello sport, che unitamente
all’effetto socializzante ed aggregativo, diventa uno
strumento di miglioramento della qualità della vita a
beneficio non solo per la salute dei cittadini ma anche per
la vitalità sociale della comunità (es. culturale, di
sviluppo, turistico, di immagine del territorio, ecc.). Con
riferimento poi alla “natura” del bene, gli impianti
sportivi di proprietà comunale appartengono al patrimonio
indisponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 826 del c.c.,
essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della
collettività allo svolgimento delle attività sportive.
Prima di individuare le differenti forme contrattuali da
utilizzare per l’affidamento in gestione di un impianto
sportivo alla luce del nuovo codice, come correttamente
fatto dall’ANAC nella delibera n. 1300 del 14.12.2016, a cui
si fa espresso rinvio, occorre comprendere la distinzione
tra servizi pubblici locali a rilevanza economica e privi di
rilevanza economica.
Ai fini della qualificazione di un servizio pubblico locale
sotto il profilo della rilevanza economica, occorre
verificare in concreto se l’attività da espletare presenti o
meno il connotato della “redditività”, anche solo in
via potenziale. Il servizio ha rilevanza economica quando da
quella attività, chi la gestisce, ha la possibilità
potenziale di coprire tutti i costi (la contribuzione a
copertura dei costi è indice di rilevanza economica ponendo
il servizio in una situazione di appetibilità per gli
operatori). Inoltre, per qualificare un servizio pubblico
come avente rilevanza economica o meno si deve prendere in
considerazione non solo la tipologia del servizio, ma anche
la soluzione organizzativa che l’ente locale, quando può
scegliere, sente più appropriata per rispondere alle
esigenze dei cittadini.
Al contrario, un servizio è privo di rilevanza economica
quando è strutturalmente antieconomico, perché
potenzialmente non remunerativo (il mercato privato non è in
grado o non è interessato a fornire quella prestazione).
Nel caso specifico la redditività di un impianto sportivo
deve essere valutata caso per caso, con riferimento ad
elementi quali, costi e modalità di gestione, tariffe per
l’utenza (libere o imposte), quote sociali, attività
praticate, oneri manutentivi, attività accessorie, obiettivi
della gestione sociale, e sulla base di un realistico piano
finanziario.
Pertanto fatta questa preliminare introduzione, si possono
individuare principalmente tre distinte modalità di
affidamento:
• per gli impianti con rilevanza economica mediante concessione di
servizi ai sensi degli artt. 164 e s.s. del codice ed in
quanto ricorrano gli elementi indicati dal legislatore per
la qualificazione della “concessione” (art. 3, co. 1,
lett. vv)) e s.s.);
• per la gestione di impianti sportivi privi di rilevanza economica
(art. 164, co. 3, del d.lgs. 50/2016) mediante appalto di
servizi, in quanto l’utilità finale non è resa ad una
popolazione indifferenziata, ma direttamente all’ente locale
e in assenza di rischio operativo;
• per l’uso associativo del bene privo di rilevanza economica,
mediante concessione amministrativa dell’impianto da
affidare sempre con procedura ad evidenza pubblica (impianti
di piccolissime dimensione dove non è ipotizzabile una
gestione economica del servizio).
Da ultimo si segnala che la via preferenziale di cui
all’art. 90 della l. 289/2002, normativa superata, può
essere operante solo come valorizzazione
dell’associazionismo in un contesto sociale e progettuale,
quale elemento di valutazione nell’offerta economicamente
più vantaggiosa (20.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Comuni, contributi ai privati.
Per realizzare interventi a beneficio della comunità. Per
la Corte conti del Piemonte non conta la qualificazione soggettiva del
beneficiario.
Un
comune può erogare un contributo a un soggetto privato per un intervento di
adeguamento della viabilità, destinato ad essere fruito dall'intera
comunità.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo Piemonte, con il
parere 06.02.2019 n. 7 ha chiarito che qualunque genere di
intervento di natura economica da parte dell'amministrazione comunale, per
poter essere eventualmente qualificato in termini di legittimità, deve
sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della
comunità stanziata sul territorio, posto che il comune, per espressa
disposizione legislativa (art. 3, comma 2, del dlgs n. 267/2000) è l'ente
locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità.
Pertanto, se l'azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità perseguite dal comune, l'erogazione
di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio
comunale, e ciò in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo
comunale, la Corte dei conti precisa che la natura pubblica o privata del
soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, se il
criterio di orientamento è quello della necessità che l'attribuzione avvenga
allo scopo di perseguire i fini dell'ente pubblico, posto che la stessa
amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità
soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la
legge prevede che l'amministrazione agisca con gli strumenti del diritto
privato ogniqualvolta non vi sia l'obbligo di utilizzare quelli di diritto
pubblico.
Il profilo di maggior interesse del particolare tipo di interazione si
sostanzia peraltro nello sviluppo concreto del principio di sussidiarietà
statuito dall'art. 118 della Costituzione.
La Corte dei conti rileva come l'amministrazione comunale abbia pieno
interesse al fatto che gli edifici insistenti su pubblica via, o alla
medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano mantenuti in
piena efficienza o che in relazione agli stessi vengano garantite le
necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
L'amministrazione deve pertanto evidenziare i presupposti di fatto e l'iter
logico alla base dell'erogazione a sostegno dell'attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia,
efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa delle prestazioni
per la realizzazione dell'intervento, potendo peraltro disciplinare il
rapporto nella prospettiva di un'azione coordinata al perseguimento delle
finalità pubbliche nell'ambito di uno strumento quale una convenzione,
regolante anche i relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni
restitutorie.
Specifiche cautele dovranno essere adottate dal comune relativamente alla
corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere
nello stesso strumento convenzionale adeguate rendicontazioni sulle attività
rese e sulle opere realizzate, sì di permettere il controllo da parte
dell'ente locale sull'effettiva destinazione della spesa al fine pubblico
per cui è stata sostenuta (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).
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PARERE
Il Sindaco del Comune di Moriondo Torinese (TO), riproponendo un
quesito, già sottoposto di recente alla Sezione Regionale di Controllo del
Piemonte di questa Corte e dalla medesima dichiarato inammissibile con
Deliberazione n. 132/2018, ha riformulato, attraverso l’istanza all’esame,
la richiesta di parere in termini generali ed astratti.
Più precisamente, viene chiesto se sia “...lecita sotto il profilo
contabile l’esecuzione di un’opera pubblica in forma diversa da quella
canonica”, o meglio, a mezzo della richiesta di parere viene chiesto di
precisare se sia lecita l’attribuzione di un contributo pubblico a privati
al fine di conseguire “...l’adattamento ad esigenze di viabilità di
immobile adiacente a pubblica via”, con la precisazione che detto
intervento verrebbe eseguito a cura del soggetto privato affidatario
dell’incarico sotto la supervisione della parte pubblica.
...
Il quesito, riproposto dall’Ente interessato, concerne la problematica della
eventuale destinazione di fondi comunali, sotto forma di contributo
pubblico, a sostegno di interventi su beni di proprietà di un soggetto
giuridico diverso –segnatamente, privato– riferendosi il quesito ad immobili
privati, adiacenti a pubblica via, che necessitino di interventi funzionali
ad esigenze di sicurezza della viabilità.
La Sezione ritiene di ribadire (v., Sez. Controllo Piemonte,
parere 23.03.2018 n.
30) che qualunque genere di intervento di natura economica da parte
dell’amministrazione comunale, per poter essere eventualmente qualificato in
termini di legittimità, debba necessariamente sottendere alla realizzazione
di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul
territorio, posto che il Comune, per espressa disposizione legislativa (art.
3, co. 2, D.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli
interessi della propria comunità. A tal fine, il Comune, dovendo in via
generale realizzare gli interessi della collettività locale, ai sensi
dell’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000, esercita tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in
particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità,
dell'assetto ed utilizzazione del territorio nonché dello sviluppo economico
e della sicurezza.
Al riguardo, va osservato che la giurisprudenza contabile, nell’esercizio
della propria funzione consultiva, ha elaborato da tempo il principio
generale per cui se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze
della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (come
tali generalmente ammissibili), l’erogazione di un finanziamento non può
equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, e ciò “…in
considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal
soggetto che riceve il contributo” (v., ex multis, Corte conti,
Sez. Controllo Lombardia 13.12.2007, n. 59; id,
parere 31.05.2012 n. 262).
Di modo che compete esclusivamente all’Ente valutare, nell’esercizio della
propria discrezionalità, se la spesa, oltre che finanziariamente
sostenibile, possa effettivamente corrispondere, in concreto, al
perseguimento di un interesse pubblico affidato alle proprie cure.
Inoltre, anche in ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del
contributo comunale, la medesima giurisprudenza ha precisato che
la natura
pubblica o privata del soggetto, che riceve l’attribuzione patrimoniale, è
indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che
l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico,
posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per
molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di
compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi
natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge di
disciplina del procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata
dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca con gli strumenti
del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare
quelli di diritto pubblico (Corte conti, Sez. Contr. Lombardia, 13.01.2010
n. 1; id.
parere 31.05.2012 n. 262; Corte conti, Sez. Contr. Piemonte,
parere 19.02.2014
n. 36).
Sotto il richiamato profilo, in base alle norme ed ai principi della
contabilità pubblica, non solo non è rinvenibile alcuna disposizione che
impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi,
ove le stesse siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali ma
l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire
l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento
di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
E’ stato altresì precisato che ogniqualvolta l’amministrazione ricorra a
soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente,
riconosca loro benefici di natura patrimoniale (come nella forma della
contribuzione) ovviamente le cautele debbono essere maggiori –rispetto ai
casi in cui vengano in rilievo enti pubblici- anche al fine di garantire
l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non
discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte
conti, Sez. Contr. Lombardia,
parere 11.09.2015 n. 279).
Ne discende che sotto il profilo della liceità da un punto di vista
contabile dell’esecuzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità
il discrimine circa il corretto impiego delle risorse pubbliche risulta
condizionato dall’effettivo perseguimento e realizzazione di un interesse
pubblico (comunque riferibile all’ente pubblico interessato) a prescindere
dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione
patrimoniale.
In tale contesto non sembra revocabile in dubbio che l’amministrazione
comunale sia interessata al fatto che gli edifici insistenti su pubblica
via, o alla medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano
mantenuti in piena efficienza e/o che in relazione agli stessi vengano
garantite le necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
In situazioni peculiari, l’ente locale, al fine di realizzare gli interventi
oggetto del quesito, piuttosto che procedere direttamente con il ricorso a
strumenti pubblicistici, può agire, in via mediata, per il tramite di
soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, rappresentando la stessa
una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a
finanziare lavori manutentivi e/o di adeguamento per le finalità
rappresentate su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro, privato),
deve, comunque, si ribadisce, trovare puntuale giustificazione nella
dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse
della comunità locale.
Il necessario profilo teleologico, idoneo ad escludere la concessione di
contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni (come noto interdetto
alle amministrazioni pubbliche, v., art. 6, comma 9, del decreto legge
31.05.2010, n. 78, e art. 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n. 95,
convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135), deve essere palesato dall’ente
locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione avrà cura di evidenziare i presupposti di fatto e l’iter
logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia,
efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
D’altro canto una siffatta tipologia di intervento potrebbe essere
disciplinata tra i soggetti interessati in virtù di un’azione coordinata
nell’ambito di uno strumento quale una convenzione, regolante altresì i
relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni restitutorie.
E’ necessario, comunque, sottolineare che simile convenzione, da stipularsi
tra ente pubblico e privato, debba evidenziare le finalità pubbliche
perseguite e le modalità di destinazione ad uso pubblico del bene oggetto
dell’intervento.
Altrettante cautele dovranno essere adottate dal Comune relativamente alla
corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere
convenzionalmente adeguate rendicontazioni sul servizio reso e/o sulle opere
realizzate, al fine di permettere il controllo da parte dell’Ente locale
sull’effettiva destinazione della spesa al fine pubblico per cui è stata
sostenuta.
Sulla base di quanto premesso, competerà all’amministrazione comunale
procedere ad effettuare tutte le valutazioni discrezionali di propria
spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul
territorio. |
PATRIMONIO: Possibilità
di affittare una caserma per i vigili del fuoco e limiti di spesa.
Domanda
Sono l’assessore alla protezione civile di un piccolo comune. La caserma dei
Vigili del fuoco presente sul territorio comunale dovrà essere a breve
ristrutturata. Nel frattempo il mio ente sta valutando di prendere in
affitto da terzi un immobile da adibire a sede temporanea. E’ possibile
farlo?
Risposta
Il quesito trova fondamento normativo nell’art. 3 del d.l. 95 del
06/07/2012. In particolare il comma 4-bis stabilisce infatti che: “Per le
caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco
ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di
competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.”.
La legge tuttavia parla di ‘contribuzione’ da parte del comune e non
di accollo integrale in capo a sé del canone di locazione. Il che lascia
intendere che il concorso all’onere da parte del comune debba essere
parziale e non integrale, senza che venga indicata la quota massima di tale
concorso.
Sulla questione si è pronunciata recentemente la Sezione regionale
Emilia-Romagna della Corte dei conti, a fronte di uno specifico quesito
posto da un comune, con proprio
parere 15.10.2018 n. 118.
La Corte, nel richiamare il proprio precedente pronunciamento di cui alla
deliberazione n. 151/2017/PAR del 12/10/2017 ha affermato che deve ritenersi
esclusa la possibilità per uno o più comuni di farsi carico interamente,
seppur per un periodo limitato di tempo, dei relativi oneri. Ciò anche in
considerazione dell’etimologia del termine ‘contribuire’ che, ricorda
la Corte, “(…) deriva dal latino con-tribùere, quindi ‘dare insieme’”.
Il caso esaminato prevedeva che la locazione avesse carattere episodico. La
Corte ha tuttavia affermato che la durata della locazione, quand’anche
episodica e temporanea, non rileva ai fini del suddetto divieto. Né rileva,
conclude la Corte, il fatto che, nel caso esaminato, un comune limitrofo si
fosse reso disponibile “(…) a farsi carico di parte della spesa per il
canone, poiché il Legislatore ha riferito la possibilità di contribuzione
proprio ai comuni appartenenti al territorio di competenza, quindi
implicitamente riconoscendo la necessità che parte dell’onere ricada
comunque sul bilancio statale”.
La recente deliberazione della Sezione Emilia-Romagna richiama anche un
precedente parere della Sezione Liguria, di cui alla deliberazione n. 91 del
14/12/2017. Quest’ultimo, a fronte di un quesito analogo, pur partendo da
presupposti differenti, perveniva tuttavia alla conclusione opposta,
affermando infatti che il comune può “contribuire al pagamento del canone
di locazione (anche nella sua totalità)” in riferimento alle caserme
utilizzate dalle forze dell’ordine.
La Sezione Liguria sostiene infatti che la ratio dell’art. 3, comma 4-bis
del d.l. 95/2012 è quella di ridurre il peso finanziario che grava sullo
Stato, consentendo ai comuni di contribuire alla relativa spesa per finalità
di sicurezza pubblica. La Sezione Emilia-Romagna, pur pervenendo ad una
risposta diversa afferma come non vi siano le condizioni per rimettere la
questione alla Sezione Autonomie, né alla Sezioni Riunite della Corte
affinché si pronuncino in maniera univoca.
In conclusione, fermo restando il contrasto interpretativo fra le due
sezioni regionali, è opportuno qui ricordare che, in ogni caso, il canone di
locazione dovuto dagli enti locali per immobili ad uso istituzionale di
proprietà di terzi, di nuova stipulazione deve essere ridotto del 15 per
cento rispetto al canone definito dall’Agenzia del Demanio, quale soggetto
chiamato a verificarne la convenienza tecnica ed economica. A stabilirlo è
il comma 6 del medesimo art. 3 del d.l. 95/2012.
Infine si rammenta che per i contratti di locazione aventi ad oggetto
immobili a uso istituzionale, già in essere alla data di entrata in vigore
del decreto legge, i canoni sono ridotti automaticamente sempre del 15%,
fatto salvo il diritto di recesso del locatore (04.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
gennaio 2019 |
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PATRIMONIO:
Adeguamento del canone di locazione passiva pagati dal Comune.
Domanda
In materia di affitti passivi per immobili adibiti a finalità istituzionali,
pagati dal comune a favore di terzi, è stato reintrodotto il loro
adeguamento all’indice Istat, che era sospeso a tutto il 31 dicembre scorso?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alla norma contenuta nella manovra
estiva varata nel 2012 dall’allora ‘governo Monti’ con il decreto legge n.
95 del 06/07/2012, poi convertito in legge n. 135 del 07.08.2012. In
particolare, all’art. essa prevedeva una serie di misure finalizzate
alla razionalizzazione del patrimonio pubblico e alla riduzione dei costi
per locazioni passive a carico delle amministrazioni pubbliche.
Il comma 1 introduceva il divieto di adeguare il canone di locazione
passivo, dovuto dai soggetti inseriti nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, alla variazione degli indici ISTAT. Tale norma,
prevista in origine per il solo triennio 2012-2014 è stata via via
confermata anche per gli anni successivi dai vari decreti ‘milleproroghe’
o leggi di bilancio.
La recente legge di bilancio 2019 (n. 145 del 30/12/2018, pubblicata sulla
Gazzetta ufficiale n. 302 del 31/12/2018, il cui testo integrale è
reperibile al
seguente link) è intervenuta estendendone l’applicazione anche
all’anno 2019. A prevederlo è infatti il comma 1133, lett. c) dell’articolo
unico che modifica il comma 1 aggiungendo in coda proprio l’anno corrente.
La risposta al quesito è pertanto negativa, ovvero: nulla è cambiato per il
2019 rispetto agli anni precedenti. Anche per il 2019, pertanto, vige il
divieto di adeguare i canoni di locazione passivi pagati dall’ente a terzi
alla variazione dell’indice ISTAT. Ciò va ad evidente beneficio del bilancio
comunale, che si trova pertanto a sostenere una spesa inferiore a quella
eventualmente prevista dal contratto di locazione passiva.
È qui solo il caso di ricordare che lo stesso art. 3 del d.l. n. 95 del
06/07/2012 nei commi successivi prevede l’automatica riduzione dei canoni di
locazione passiva per immobili ad uso istituzionale, nella misura del 15 per
cento rispetto a quelli contrattualmente previsti. Tale riduzione si applica
sia per i contratti già in corso alla data di entrata in vigore del decreto,
sia per quelli sottoscritti successivamente.
La riduzione del canone di locazione si inserisce infatti automaticamente
nei contratti in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ai sensi
dell’articolo 1339 del codice civile, anche in deroga alle eventuali
clausole difformi apposte dalle parti. E’ tuttavia fatto salvo il diritto di
recesso del locatore. Per i nuovi contratti di locazione, sempre relativi ad
immobili da adibirsi a finalità istituzionali, la riduzione del 15 per cento
si applica sul canone definito come congruo dall’Agenzia del Demanio.
Tutte queste norme si applicano infatti anche agli enti territoriali, così
come previsto dal successivo comma 7 del medesimo articolo, nel testo oggi
vigente, introdotto dal d.l. n. 66 del 24/04/2014. La norma trova ovvia
applicazione anche per i contratti di locazione in cui l’ente locale sia
soggetto attivo (locatore) nei confronti di altra amministrazione pubblica
(locatario).
Si pensi al caso in cui il comune abbia sottoscritto un contratto di
locazione attiva con il Ministero dell’Interno per un edificio adibito a
locale stazione dei carabinieri. Il Ministero, in quanto soggetto passivo di
un contratto avente ad oggetto un fabbricato adibito ad uso istituzionale
beneficerà della norma di cui sopra, a scapito, questa volta, del comune
locatore.
Pertanto, se, ad esempio, il canone di locazione annuo è di € 12.000,00,
esso verrà automaticamente ridotto del 15%, ovvero di € 1.800,00. Al comune
non verrà riconosciuto neppure l’eventuale adeguamento agli indici ISTAT
qualora previsto nel contratto. Il comune avrà pertanto un’entrata di
bilancio pari all’85% del canone contrattualmente stabilito, ovvero pari ad
€ 10.800,00.
In quest’ultimo caso, pertanto, la norma, nata per contenere i costi delle
locazioni passive a carico delle pubbliche amministrazioni, penalizza l’ente
locale che, in qualità di soggetto attivo del contratto di locazione,
subisce una minore entrata di bilancio (28.01.2019 - tratto da e link
a www.publika.it). |
PATRIMONIO: Oggetto:
Quesito in merito ai requisiti professionali dei dirigenti
preposti agli uffici di protezione civile comunali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della
Protezione Civile,
nota 25.01.2019 n. 4329 di prot.). |
PATRIMONIO:
Acquisto immobile da destinare a Caserma dei Carabinieri.
Quesito
Il Comune chiede se ed eventualmente entro che limiti possa legittimamente
procedere all’acquisto di un immobile di proprietà privata, attualmente
locato come caserma dei Carabinieri ed alla cui vendita i proprietari
abbiano necessità di procedere; ciò al fine di evitare la delocalizzazione
dell'attuale stazione di comando.
Parere espresso
La materia dell’accasermamento rientra nella competenza dello Stato e, nel
caso specifico, del Ministero dell’Interno, sul quale pertanto indubbiamente
gravano in prima istanza i relativi oneri. Questo provvede all’alloggiamento
dei Carabinieri tramite la messa a disposizione di strutture idonee
rientranti nel proprio patrimonio, ove presenti, oppure, in mancanza,
verificando la possibilità di acquisire in locazione passiva immobili delle
Amministrazioni locali o, in ultima istanza, di proprietà di privati.
Presupposto per un’attivazione del Comune sul tema in oggetto è dunque,
anzitutto, che pervenga ad esso una specifica richiesta dal Commissariato
del Governo (cui sono state attribuite tutte le funzioni esercitate a
livello periferico dallo Stato).
Ciò precisato, va approfondito fino a che punto l’Amministrazione possa
legittimamente spingere la propria azione, ove, come nel caso di specie, non
abbia un immobile idoneo libero da mettere a disposizione e, precisamente,
se possa acquistarne uno, per destinarlo a Caserma e locarlo al Corpo.
In verità, un intervento sussidiario del Comune, ove risulti effettivamente
necessario ad assicurare il mantenimento di un presidio di pubblica
sicurezza, appare coerente con le finalità istituzionali proprie degli enti
locali.
A suffragare tale affermazione, apparentemente solo di buon senso,
soccorrono del resto le argomentazioni dedotte nella deliberazione n.
91/2017 della Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la
Liguria, inerente un caso analogo, secondo la quale «la sicurezza dei
cittadini non può appartenere ad un unico livello di Amministrazione (lo
Stato), ma deve rappresentare una responsabilità per tutti gli enti che si
occupano degli interessi pubblici della collettività amministrata,
concorrendo, infatti, “a soddisfare interessi pubblici generali meritevoli
di intensa e specifica tutela”». In tal senso è senz’altro legittimo,
secondo il Collegio, che l’Ente locale di “prossimità” «si
adoperi con attività amministrativa e finanziaria, a garantire la sicurezza
dei cittadini coadiuvando l’attività statale e delle Prefetture».
A conferma di tale inquadramento, il Collegio richiama alcune specifiche
disposizioni presenti nell’ordinamento giuridico che consentono ai Comuni di
alleggerire il peso finanziario che grava sullo Stato per la sicurezza: il
comma 439 della legge n. 311 del 2004, che riconosce ai comuni la facoltà
di concedere in uso gratuito alle amministrazioni dello Stato, per le
finalità istituzionali di queste ultime, beni immobili di loro proprietà;
il comma 4-bis. dell’art. 3, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, che
riconosce ai comuni la facoltà di contribuire al pagamento del canone di
locazione determinato dall’Agenzia delle Entrate, di immobili, di proprietà
di terzi, destinate a caserme delle forze dell’ordine.
Il Collegio sottolinea come le finalità perseguite da tali norme siano
evidentemente conseguibili anche con diverse modalità, compreso l’acquisto
diretto dell’immobile, a patto che la decisione consegua ad un’attenta
ponderazione in merito alla maggior convenienza, sotto il profilo
finanziario, della scelta optata rispetto alle possibili alternative.
Il Comune dovrà quindi essere in grado di dimostrare:
- l’effettiva necessità del proprio intervento, per evitare la
delocalizzazione dell'attuale stazione di comando; a tal fine occorrerà
disporre di una espressa richiesta di attivazione da parte del Commissariato
del Governo che dia conto della indisponibilità del proprietario a
rinnovare il contratto di locazione in essere;
- l’assenza di alternative più economiche rispetto all’acquisto di
un immobile e, in particolare, l’assenza di altri immobili idonei
acquistabili sul territorio comunale, a condizioni più vantaggiose di
quello attualmente abitato dal Corpo; in proposito il Comune darà conto di
aver esperito lo scorso anno idoneo avviso pubblico, con esito negativo e,
nell’ipotesi -prospettata- che l’immobile in questione sia posto in vendita
ad un’asta fallimentare, dell’opportunità di acquistarlo a condizioni
vantaggiose.
Naturalmente è essenziale che di tutte queste circostanze e valutazioni si
dia conto attraverso una compiuta e documentata motivazione.
Con riguardo ai quesiti ancillari al tema principale sopra affrontato, si
conferma che:
• nel caso in cui l'immobile sia messo all'sta, non si ritiene che
sussistano motivi o norme che impediscono all'amministrazione di presentare
offerta; peraltro, in tal caso dovranno essere valutate le condizioni per
far precedere l'offerta da un provvedimento che autorizza la presentazione
della medesima e modalità per garantirne la segretezza;
• il comproprietario dell’immobile consigliere comunale può
alienare pro quota il bene, non partecipando ovviamente al provvedimento che
autorizza l’acquisto, in quanto la normativa vigente pone in capo al
consigliere solo il divieto di essere acquirenti di beni immobili del Comune
(07.01.2019 - link a www.comunitrentini.it). |
PATRIMONIO:
Applicazione riduzione canone locazioni passive, ex art. 3, comma 4, D.L. n.
95/2012, a contratti tra pubbliche amministrazioni.
Secondo la giurisprudenza contabile, l’art. 3, c. 4,
D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dal D.L. n. 66/2014, che
stabilisce dall’01.01.2014 la riduzione del 15% dei canoni di locazione
passiva stipulati dalle Amministrazioni centrali, si applica anche
nell’ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche.
Con particolare riferimento ad immobili comunali locati ad uso stazione
dell’Arma dei carabinieri, per la Corte dei conti Friuli Venezia Giulia,
sez. reg. contr., deliberazione n. 40/2016, la riduzione ex lege dei canoni
di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’Ordine
rappresenta una forma di sostegno consentita dall’ordinamento, assimilabile
al contributo diretto dei Comuni per il pagamento dei canoni di locazione di
caserme ospitate in immobili privati, possibile ai sensi dell’art. 1, c.
500, L. n. 208/2015.
Il Comune riferisce di un proprio immobile dato in locazione nel 2007 ad una
pubblica amministrazione centrale ad uso “stazione dell’Arma dei
Carabinieri” e che il relativo canone, “soggetto ad aggiornamento
annuale ai sensi dell’art. 1, comma 9-sexies della L. n. 118/1985”
[1] secondo espressa
previsione pattizia, è stato unilateralmente ridotto del 15% dalla p.a.
locataria ai sensi dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012 [2].
Il Comune chiede se sia legittima la suddetta riduzione avuto riguardo in
particolare alla deliberazione 15.12.2015, n. 157, della Corte dei conti,
sez. reg. contr. Emilia Romagna.
L’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dall’art. 24, c.
4, lett. a), D.L. n. 66/2014, ai fini del contenimento della spesa pubblica,
con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili
a uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali, prevede la
riduzione del 15% dei canoni di locazione, a decorrere dall’01.07.2014
[3]. La riduzione del
canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai
sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi
apposte dalle parti [4].
Un tanto richiamato sul piano normativo, si concentra ora l’attenzione sul
quadro giurisprudenziale nella materia di interesse, osservato
necessariamente nella sua evoluzione anche alla luce della normativa
introdotta dopo la deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna
richiamata dall’Ente istante.
Con riferimento a quest’ultima, si esprimono, comunque, alcune
considerazioni in via del tutto collaborativa e lungi da qualsiasi
valutazione in ordine alla lettura della stessa data dalle parti del
contratto di locazione in essere.
La richiesta di parere su cui si pronuncia la Corte dei conti emiliana
concerne l’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, “nell’ipotesi
in cui il comune abbia dato in concessione e non in locazione un determinato
immobile ad altro ente pubblico”.
La questione viene esaminata dal Giudice contabile sotto il profilo
soggettivo dell’applicabilità della norma quando le parti del rapporto di
concessione siano due pubbliche amministrazioni e sotto il profilo oggettivo
dell’applicazione della norma medesima prevista per i rapporti di locazione
anche ai rapporti di concessione di beni pubblici. Ebbene, la Corte dei
conti osserva che sotto il primo profilo l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012,
non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due
pubbliche amministrazioni: preclusiva al riguardo è la finalità della norma
del “contenimento della spesa pubblica” che non si realizza qualora il
rapporto concessorio intervenga tra due pubbliche amministrazioni.
D’altro canto –osserva ancora il Giudice contabile emiliano– sotto il
profilo oggettivo, il carattere eccezionale della disposizione di cui
all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, insuscettibile di interpretazione
analogica (art. 14 delle Preleggi) inevitabilmente preclude che la stessa,
formulata per un contratto di locazione, trovi applicazione per la
fattispecie non sovrapponibile di un rapporto concessorio.
Un tanto esposto in ordine alla deliberazione della Corte dei conti Emilia
Romagna n. 157/2015, si osserva, peraltro, che altre posizioni
giurisprudenziali sono state espresse sul tema che ci occupa.
Sempre nell’ambito della magistratura contabile, la Corte dei conti, sez.
reg. contr. Piemonte, deliberazione 21.05.2015, n. 76, ha affermato che
l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, deve trovare applicazione generalizzata in
favore delle p.a. conduttrici quale che sia la natura dei locatori, pubblica
o privata, condividendo in tal senso integralmente i passaggi argomentativi
della Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 12.11.2014,
n. 285.
In particolare, se il legislatore avesse voluto escludere dalla misura
riduttiva del canone di cui all’art. 3, c. 4, in argomento, le locazioni
stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali,
proprietarie dell’immobile locato, lo avrebbe fatto in modo espresso. Per
cui la misura di contenimento dei costi per le locazioni passive a carico
dei bilanci pubblici, in assenza di una contraria disposizione di legge,
trova applicazione anche rispetto a contratti stipulati con enti
territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso.
Sulla questione dell’applicazione della riduzione del canone di locazione
del 15%, di cui all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, nell’ipotesi in cui i
contraenti del contratto di locazione siano entrambi parti pubbliche e con
specifico riferimento a locazione di immobile comunale adibito a locale
caserma dei Carabinieri, si è espressa anche la Corte dei conti, sez. reg.
contr. Friuli Venezia Giulia, deliberazione 27.04.2016, n. 40.
La Corte dei conti friulana osserva che la problematica posta dal Comune
richiedente, che al riguardo richiama la deliberazione n. 157/2015 della
Corte dei conti Emilia Romagna, va esaminata con i necessari raccordi anche
con la normativa intervenuta successivamente a detta deliberazione, in
relazione ad una fattispecie diversa, che la Corte ritiene tuttavia connessa
a quella in esame.
In particolare, la deliberazione n. 40/2016 prende in considerazione l’art.
1, c. 500, L. 28.12.2015, n. 208 (Legge di stabilità per il 2016), il quale
ha introdotto il comma 4-bis all’art. 3 del D.L. n. 95/2012, secondo cui “per
le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del
fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio
di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate”.
Alla luce della novella del 2015 –afferma la Corte dei conti friulana– è da
ritenersi superato l’orientamento espresso dalla Corte dei conti, Sezione
Autonomie, deliberazione 09.06.2014, n. 16, secondo cui, nell’ambito del
coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del
potenziamento della sicurezza a livello locale (art. 118, comma 3, Cost.),
tra gli strumenti di concertazione interistituzionale non sarebbe possibile
prevedere forme di contribuzione da parte dei Comuni volte al pagamento del
canone di locazione per le caserme delle Forze dell’ordine. Orientamento di
cui –ad avviso della Corte dei conti Friuli Venezia Giulia– la deliberazione
della Corte dei conti Emilia Romagna n. 157/2015 pare porsi come
un’applicazione seppur indiretta.
Ed invero, il contributo diretto ai canoni di locazione per caserme ospitate
in immobili privati rappresenterebbe una forma di aiuto economico
assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli
immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine, trattandosi in ambedue i
casi di forme di sostegno consentite dall’ordinamento.
Ne consegue –osserva la Corte dei conti– che:
a) opera ex lege la riduzione del canone del 15% per tutte
le locazioni passive gravanti su Amministrazioni pubbliche per il godimento
di immobili adibiti ad uso istituzionale, senza distinzione tra immobili di
proprietà pubblica o privata;
b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è
eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.
E tale impostazione giuridica per la Corte dei conti friulana appare già di
per sé risolutiva (in senso affermativo n.d.r.) della questione ad essa
sottoposta [5]
circa l’applicazione della riduzione del canone quando i contraenti del
contratto di locazione –nel caso, di immobile comunale adibito a locale
caserma dei Carabinieri– siano entrambi parti pubbliche [6].
---------------
[1] La legge 05.04.1985 n. 118 ha convertito, con modificazioni, il D.L.
07.02.1985, n. 12, al cui art. 1 ha aggiunto il comma 9-sexies in argomento,
che sostituisce l’art. 32 (Aggiornamento del canone), L. 27.07.1978, n. 392,
alla cui lettura si rinvia.
[2] Si riporta il testo dell’art. 3, comma 4, in parola: “Ai fini del
contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione
passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle
Amministrazioni centrali, come individuate dall’Istituto nazionale di
statistica ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196,
nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per
le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a
decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente
corrisposto. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presene decreto la riduzione di cui al periodo precedente si
applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale
data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei
contratti in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle
eventuali clausole difformi apposte dalle parte, salvo il diritto di recesso
del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in
assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il
rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e
coesistenza delle seguenti condizioni: a) disponibilità delle risorse
finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi
d’uso, per il periodo di durata del contratto di locazione; b) permanenza
per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai
fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui
all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti,
nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture
previste dalle norme vigenti”.
[3] La novella del 2014 anticipa all’01.07.2014 la decorrenza della
decurtazione del 15% originariamente fissata all’01.01.2015.
[4] Il comma 7 del richiamato art. 3, a seguito della novella del 2014,
estende la riduzione del 15% ai contratti di locazione passiva stipulati
dalle altre amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001
(art. 24, c. 4, lett. b), D.L. n. 66/2014).
[5] E ciò –osserva la Corte dei conti– ancorché dalla normativa citata non
si evinca una espressa indicazione circa l’applicabilità della predetta
riduzione ai canoni di locazione relativi ad immobili di proprietà pubblica
locati ad altra pubblica Amministrazione.
[6] Su questa linea, v. anche Corte dei conti Emilia Romagna, deliberazioni
03.05.2016, n. 45, e 24.10.2017, n. 155, ove la Corte richiama integralmente
–condividendole– le argomentazioni della Corte dei conti Lombardia n.
285/2014 citata, nel senso dell’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n.
95/2012, pure alle locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche,
anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato (04.01.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
dicembre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oneri di urbanizzazione: i vincoli di destinazione finanziaria in vista del
bilancio di previsione 2019/2021.
I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal
D.P.R. n. 380 del 2001 (oneri di urbanizzazione), a partire dall'01.01.2018,
possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei vincoli stabiliti
per il 2018, e senza vincoli temporali, dall'art. 1, comma 460, L. n. 232
del 2016.
---------------
Il Sindaco del Comune di Ugento (LE) ha formulato una richiesta di parere in
ordine alla modalità di utilizzo della quota parte dell’avanzo destinato ai
sensi del comma 460 dell’art. 1 della legge 232/2016.
In particolare, nella nota sopra richiamata, il Sindaco, premette che con
l’art. 1, comma 460, della legge 232/2016, così come modificato dall’art.
1-bis, comma 1 del Decreto Legge n. 148/2017, è stato previsto che a “decorrere
dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali
alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi
compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di
riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni
abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di
attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per
opere pubbliche”.
Ciò posto, il Sindaco, evidenzia che tali novità limiterebbero “la
libertà d’azione degli enti che non potranno più decidere di utilizzare gli
oneri per la totalità delle spese di investimento ma solo per quelle
contemplate dal comma 460, fuoriuscendo, quindi dagli interventi
finanziabili gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le
attrezzature informatiche, per i quali dovranno essere individuate nuove
fonti di finanziamento, non facili da reperire”.
Il Sindaco chiede pertanto:
- senza contravvenire i sopra riportati dispositivi normativi,
se sia possibile “utilizzare la quota parte dell’Avanzo destinato
rinveniente dal rendiconto dell’esercizio precedente regolarmente approvato
e generato dai proventi dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, incassati da questo Ente in costanza di vigenza della
normativa precedente al comma 460 della legge 232/2016, per il finanziamento
della spesa per gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le
attrezzature informatiche, eccetera, i quali non sarebbero più finanziabili
con i predetti proventi in base alla normativa vigente;
- come sia possibile, per gli Enti di medio piccole dimensioni
ed in costanza della vigente normativa, conciliare le ricorrenti spese per
le manutenzioni degli impianti e attrezzatture degli automezzi del sistema
informativo eccetera, con il carattere di eccezionalità delle residuali
fonti di finanziamento di spesa per investimenti attualmente reperibili”.
...
Nel caso di specie il secondo quesito è con tutta evidenza
inammissibile.
Il primo quesito, invece, relativo all’interpretazione della
disciplina relativa al comma 460 della legge 232/2016, appare oggettivamente
ammissibile.
Preliminarmente, il Collegio ribadisce tuttavia, che l’attività consultiva
non può estendersi, sotto il profilo interpretativo, sino a formulare
suggerimenti risolutivi di questioni che involgono singole fattispecie
concrete e specifiche, tanto più se, come nel caso di specie, l’intervento
della Sezione potrebbe comportare un’ingerenza nell’iter del procedimento
spettante esclusivamente alle valutazioni dell’Amministrazione e, inoltre,
la soluzione del quesito potrebbe generare interferenze con altre funzioni
spettanti a questa Corte.
Il Collegio si soffermerà, quindi, più in generale sui principi di diritto
del quadro normativo di riferimento.
Come è noto, il principio dell’”unità”, compreso tra i principi
contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118
(allegato 1) e a cui gli enti locali devono conformare la gestione
finanziaria, dopo avere affermato che “è il complesso unitario delle
entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la
totalità delle sue spese durante la gestione” -aggiunge che– “le
entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di
spese di investimento”.
Lo stesso principio stabilisce ancora che “i documenti contabili non possono
essere articolati in maniera tale da destinare alcune fonti di entrata a
copertura solo di determinate e specifiche spese, salvo diversa disposizione
normativa di disciplina delle entrate vincolate”.
I principi generali dell’Ordinamento, quindi, affermano inequivocabilmente
il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale.
L’utilizzazione di entrate in conto capitale per finanziamento di spese
correnti, in deroga al principio sopra richiamato, può essere autorizzata
solo da specifiche disposizioni di legge quali sono state quelle che,
nell’ultimo decennio, hanno riguardato proprio i proventi derivanti dai c.d.
“oneri di urbanizzazione”.
Con la deliberazione n. 38/2016/PAR del 09.02.2016, cui si rinvia, la
Sezione di controllo per la Lombardia ha ricostruito l’evoluzione
legislativa relativa all’utilizzazione dell’entrate in oggetto sino al 2016.
Successivamente, con la deliberazione n. 81/2017/PAR, la stessa Sezione ha
ripercorso le disposizioni in vigore per gli anni 2017 e 2018.
L’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 108 (legge di stabilità per
il 2016) dispone che “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle
concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione
per le sanzioni di cui all'articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo
unico, possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per
spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio
comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche”.
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232 (legge di bilancio per
il 2017, così come modificato dall’art. 1-bis, comma 1, del Decreto Legge n.
148/2017), dispone viceversa che “a decorrere dal
01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali
alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi
compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di
riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni
abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di
attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per
opere pubbliche.”
Nel 2017, quindi, tali proventi potevano essere destinati totalmente al
finanziamento delle spese correnti elencate dalla legge di stabilità per il
2016, in deroga al principio di generica destinazione a spese di
investimento.
A decorrere dal 01.01.2018, viceversa, le entrate derivanti dal rilascio dei
titoli abilitativi edilizi e dalle relative sanzioni devono essere destinate
esclusivamente agli specifici utilizzi, attinenti prevalentemente a spese in
conto capitale, indicati dal comma 460, così come modificato nel 2017 e
quindi, in particolare:
1. alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
2. al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici
e nelle periferie degradate;
3. a interventi di riuso e di rigenerazione;
4. a interventi di demolizione di costruzioni abusive;
5. all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a
uso pubblico;
6. a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico;
7. a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di
agricoltura nell'ambito urbano;
8. a spese di progettazione per opere pubbliche.
Come è stato chiarito da Arconet in risposta alla FAQ n. 28 del 19.02.2018,
“l’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n.
232, per le entrate derivanti dai titoli abilitativi edilizi e delle
sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, individua un insieme di possibili
destinazioni, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dell’ente. Si
ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge, non rappresenti un
vincolo di destinazione specifico ma una generica destinazione ad una
categoria di spese”.
Il Legislatore, quindi, differentemente da quanto avvenuto con riferimento e
limitatamente all’utilizzo nel 2016 e nel 2017, ha ritenuto di privilegiare
nel 2018 un utilizzo prevalente per spese in conto capitale delle entrate da
oneri di urbanizzazione. E nel disciplinare tale principio ha specificato
che tale destinazione debba avvenire “senza vincoli temporali”.
In altri termini, come è già stato affermato da questa Corte, quindi,
per effetto della predetta legge dal 2018 “i proventi da “oneri
di urbanizzazione” cessano di essere entrate con destinazione generica a
spese di investimento per divenire entrate vincolate alle determinate
categorie di spese ivi comprese le spese correnti, limitatamente agli
interventi di manutenzione ordinaria sulle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria” (Corte Conti,
Sezione Controllo Lombardia, deliberazione n. 81/2017/PAR).
Alla luce delle predette considerazioni è possibile affermare, in risposta
al quesito formulato nella presente richiesta di parere, che
i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste
dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”), a partire
dall’01.01.2018, possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei
vincoli stabiliti per il 2018, e senza vincoli temporali, dall’art. 1, comma
460, della legge 11.12.2016, n. 232
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 12.12.2018 n. 163). |
novembre 2018 |
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PATRIMONIO:
Sponsorizzazione per manutenzione aiuola.
Domanda
Una ditta ci ha proposto di occuparsi della manutenzione di un’aiuola
comunale gratuitamente in cambio dell’esposizione di un cartello
pubblicitario. Qual è il corretto trattamento fiscale e contabile di tale
operazione?
Risposta
Come previsto dall’articolo 43 dalla legge n. 449/1997 “Al fine di favorire
l’innovazione dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori
economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati, le pubbliche
amministrazioni possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi
di collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini di lucro,
costituite con atto notarile”.
Nella risoluzione 88/E dell’11.07.2005 l’Agenzia delle Entrate ha
affermato che l’operazione di sponsorizzazione va assoggettata a Iva con
l’aliquota ordinaria, da applicare sulle somme versate dallo sponsor a
fronte della prestazione di servizi dello “sponsee”. Ciò in quanto la
sponsorizzazione è stata qualificata come una «forma atipica di pubblicità
commerciale», alla quale si deve di conseguenza riconoscere, in base
all’articolo 4, comma 5, lettera i), del Dpr 633 del 1972, carattere «in
ogni caso commerciale», anche se la prestazione è resa da un ente pubblico o
privato che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di
attività commerciali.
Questa conclusione vale anche con riferimento alle sponsorizzazioni tecniche
e a quelle “miste”, che realizzano un’operazione permutativa, da
assoggettare all’imposta separatamente da quella in corrispondenza della
quale è effettuata. In questo caso, pertanto, sia lo sponsor che lo
“sponsee” sono tenuti alla fatturazione sulla base del valore della
prestazione e ai successivi adempimenti previsti dalla legge.
Si rileva sul caso specifico una prassi diffusa in diversi enti secondo la
quale il comune compensa solo la parte imponibile mentre introita l’IVA che
poi dovrà versare all’Erario. In tal caso, ipotizzando una fattura reciproca
di € 1000 + IVA, il comune:
• dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
• per 1000 € compenserà mandato e reversale;
• in entrata chiuderà i restanti 220 con la reversale di introito
da parte del manutentore;
• in uscita chiuderà i restanti 220 con un mandato a favore delle
proprie partite di giro in entrata atto ad innescare il meccanismo di
gestione dello split payment.
Al contrario, si evidenzia che la circolare 27/E/2017 prevede: “la scissione
dei pagamenti non sia applicabile ai rapporti tra fornitori e PA e Società
che siano riconducibili nell’ambito di operazioni permutative di cui
all’art. 11 del DPR n. 633 del 1972 secondo cui “Le cessioni di beni e le
prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni
o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono
soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali
sono effettuate”.
Se si applicasse tale previsione, ipotizzando ancora una fattura reciproca
di € 1000 + IVA, contabilmente il comune:
• dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
• per 1220 € compenserà mandato e reversale (12.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
ottobre 2018 |
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PATRIMONIO: L'art.
3, comma 4-bis, del d.l. n. 95/2012 dev'essere interpretato nel
senso che i comuni non possano in ogni caso farsi carico dell'intera spesa
per i contratti di locazione per locali da adibire a caserme delle Forze
dell'ordine.
Ciò, anche nel caso in cui la contribuzione avrebbe carattere episodico,
poiché per un periodo di tempo limitato, finalizzato a poter disporre di un
immobile per consentire un intervento di manutenzione straordinaria di uno
stabile ordinariamente adibito a caserma.
---------------
La richiesta di parere, formulata dal Sindaco di Tresigallo (FE),
concerne la possibilità, da parte di un comune, di stipulare, a seguito di
procedura a evidenza pubblica, un contratto di locazione, in veste di
conduttore, con un soggetto locatore privato, al fine di poter disporre di
un immobile da adibire ad alloggio di servizio da concedere in uso gratuito
al Comando dei Carabinieri.
Ciò, per un periodo di tempo limitato, finalizzato a consentire l’esecuzione
di un intervento di manutenzione straordinaria avente a oggetto l’edificio
ove è ubicata la caserma dell’Arma.
Si domanda, in particolare, se il comune possa farsi carico
dell’intera spesa inerente il canone di locazione (con esclusione dei soli
oneri per le utenze), spesa che, tuttavia, sarebbe in parte rimborsata da un
comune limitrofo il quale, anche in vista di una possibile fusione,
condivide con l’ente istante l’interesse al mantenimento di un presidio dei
Carabinieri sul territorio.
Il Comune nel caso di specie ha comunque assicurato la disponibilità di
locali tali da consentire il presidio operativo ai Carabinieri; la
problematica riguarda, pertanto, solo il reperimento di un locale da adibire
ad alloggio di servizio.
...
2.1. Preliminarmente, occorre individuare il quadro normativo rilevante ai
fini del parere.
La legge 28.12.2015, n. 208, recante “Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”,
all’art. 1, comma 500, ha previsto quanto segue: “All’articolo 3 del
decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 135, dopo il comma 4 è inserito il seguente: ‘4-bis. Per le
caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco
ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di
competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate’”.
2.2. Questa Sezione, con deliberazione del 12.10.2017, n. 151/2017/PAR, alla
quale si rimanda per un approfondimento della problematica, si è già
pronunciata in merito alla possibilità, da parte dei comuni, di contribuire
al pagamento del canone di locazione delle caserme delle forze dell’ordine
appartenenti al territorio di competenza, ospitate presso proprietà private.
In particolare, in essa è stato affermato che “il legislatore si è
riferito ad un contributo, quindi ad un mero concorso pro quota, non anche
alla possibile assunzione integrale dell’onere in argomento” e che,
poiché, la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza risulta, in forza
di quanto disposto dalla Costituzione, intestata in via esclusiva allo
Stato, la disposizione di cui all’art. 1, comma 500, dev’essere considerata
di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità che deroga al
riparto delle funzioni delineato dalla Carta fondamentale.
In favore della lettura secondo la quale l’onere in argomento non potrebbe
gravare interamente sul comune, oltre alle richiamate considerazioni è utile
ricordare l’etimologia del termine “contribuire”, utilizzato dal
legislatore, che deriva dal latino, con-tribùere, quindi “dare insieme”.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione n. 91,
del 14.12.2017, successiva al richiamato precedente di questa Sezione, ha
invece affermato la possibilità, per i comuni, in riferimento alle caserme
utilizzate dalle forze dell’ordine, di “contribuire al pagamento del
canone di locazione (anche nella sua totalità)”.
Quest’ultima ricostruzione si pone in contrasto con l’interpretazione che
questa Sezione ritiene preferibile, tuttavia occorre rilevare come sia stata
affermata nell’ambito di un obiter dictum.
Pertanto, non sembra ravvisarsi un contrasto tale da rendere necessario
sospendere la pronuncia per rimettere gli atti al Presidente della Corte dei
conti, per consentirgli di decidere se deferire la questione alla Sezione
delle autonomie (ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge
10.10.2012, n. 174, secondo il quale per la risoluzione di questioni di
massima di particolare rilevanza in materia di attività consultiva, la
citata sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni
regionali di controllo si conformano), oppure, in alternativa, chiedere
l’adozione, da parte delle Sezioni riunite, di una pronuncia di orientamento
generale (ai sensi dell’art. 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, qualora
riconosca la sussistenza di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del
coordinamento della finanza pubblica).
Non sembra incidere sulla risposta da dare al quesito la circostanza che,
nel caso oggetto della richiesta di parere operata dal Sindaco di Tresigallo,
la contribuzione avrebbe carattere episodico: valgono comunque le
considerazioni espresse in ordine al significato da attribuire al termine “contribuire”,
utilizzato in merito al pagamento del canone; inoltre, la circostanza che,
essendo la sicurezza pubblica materia intestata in via esclusiva allo Stato,
la disposizione di cui al già richiamato art. 1, comma 500, dev’essere
considerata di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità
derogatoria rispetto al riparto di funzioni. Ne consegue che deve ritenersi
esclusa la possibilità per uno o più comuni di intestarsi interamente,
seppur per un periodo di tempo limitato, gli oneri in questione.
Per completezza si evidenzia come la situazione prospettata abbia a oggetto
la contribuzione al pagamento del canone di locazione del solo alloggio di
servizio, avendo il comune già assicurato che metterà a disposizione locali
idonei allo svolgimento delle attività operative.
Non rileva, infine, la disponibilità da parte del comune limitrofo a farsi
carico di parte della spesa per il canone, poiché il legislatore ha riferito
la possibilità di contribuzione proprio ai comuni appartenenti al territorio
di competenza, quindi implicitamente riconoscendo la necessità che parte
dell’onere ricada comunque sul bilancio statale (Corte dei Conti, Sez.
controllo Emilia Romagna,
parere 15.10.2018 n. 118). |
PATRIMONIO: Insidia
stradale: la prevedibilità del pericolo occulto.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere
con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad
escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità
della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica
(Corte di Appello Firenze, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2308 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
settembre 2018 |
|
PATRIMONIO:
Sull'atto di diniego della
voltura del contratto locatizio.
“In tema di
riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli
alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi
incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase
strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata
dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al
provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice
ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di
estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte
al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne
consegue che spetta al giudice ordinario la controversia
promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di
alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far
accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto
locatizio” atteso che in tale fase del rapporto sussistono
unicamente diritti soggettivi.
---------------
Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto
locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica
questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come
nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di
rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014,
n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina
di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel
testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000,
come risulta a seguito della sentenza di illegittimità
costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia
dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la
finalità sociale che la connota in quella dei servizi
pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è
configurabile nella fase successiva al provvedimento di
assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito
di un rapporto privatistico di locazione e non esercita
poteri autoritativi”.
Nelle sentenze più recenti è stato pure
chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con
l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia
residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice
amministrativo, in virtù del sottostante rapporto concessorio ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b) c.p.a.,
sol se si ponga mente alla sentenza della Corte
Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere
costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione
fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di
interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le
posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e
del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi
pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha
ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice
amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla
Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva
lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce
tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il
Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla
conclusione che vada ricondotto alla discussa figura
giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però
i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto
nella prima fase della individuazione del soggetto con cui
l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei
quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è
caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il
bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria
e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso
sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente
incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in
ordine a tutte le vicende che si verificano quali il
rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come
nel caso in esame, il subentro.
---------------
1. Con ricorso notificato il 12.9.2005 e depositato l’11.10.2005,
parte ricorrente espone di avere presentato, in data
24.09.2002, istanza di voltura del contratto di locazione per
l’immobile sito nel Comune di Roma in via ... n. 86, Ed. 5,
scala 1, interno 9, di proprietà comunale, a seguito del
decesso dell’originario assegnatario, ossia il nonno, Signor
Fr. Di Fr., avvenuto in data 22.12.2001 e con lo
stesso convivente nell’immobile dal 20.02.1999.
2. L’amministrazione avrebbe adottato il provvedimento
impugnato senza un’adeguata istruttoria, sarebbe incorsa in
difetto di motivazione, e avrebbe desunto la mancanza dei
requisiti previsti per il subentro dall’art. 3, comma 1,
lett. B) della Legge Regionale del Lazio 26.06.1987 n. 33, ma
considerato che la legge individua quale requisito la
“residenza anagrafica” avrebbe erroneamente dichiarato
insussistente tale requisito in capo al ricorrente.
3. Il ricorrente afferma di essere residente fin dalla
nascita nel Comune di Roma e, con decorrenza dal 20.02.1999,
nello stesso immobile di via ... n. 86, scala 1, int. n. 9,
in relazione al quale ha presentato la richiesta di voltura.
...
7. Il ricorso, in accoglimento dell’eccezione della difesa
comunale, è da dichiarare inammissibile per difetto di
giurisdizione del Giudice amministrativo.
8. Il Tribunale si è già occupato numerose volte della
questione e specificatamente del diniego di voltura: (TAR
Lazio III-quater, 23.03.2016 n. 3592, 24.02.2016 n. 2560,
29.11.2013 n. 10232, 31.10.2013 n. 9333, 24.04.2018 n.
4480/2018).
Anche la Corte di Cassazione ha chiarito che: “In tema di
riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli
alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi
incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase
strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata
dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al
provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice
ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di
estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte
al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne
consegue che spetta al giudice ordinario la controversia
promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di
alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far
accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto
locatizio” (Cassazione, Sezioni Unite, ord. 09.10.2013, n.
22957) atteso che in tale fase del rapporto sussistono
unicamente diritti soggettivi.
Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto
locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica
questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come
nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di
rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014,
n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina
di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel
testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000,
come risulta a seguito della sentenza di illegittimità
costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia
dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la
finalità sociale che la connota in quella dei servizi
pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è
configurabile nella fase successiva al provvedimento di
assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito
di un rapporto privatistico di locazione e non esercita
poteri autoritativi” (TAR Lazio, sez. III-quater, n.
2248/2014 ed anche del tutto analoga: TAR Lazio, sezione III-quater, 26.02.2014, n. 2265 e tutta la giurisprudenza
ivi citata: Cons. St., sez. V, 16.05.2011, n. 2949; 11.08.2010, n. 5617;
02.10.2009, n. 5140; sez. IV, 31.03.2009, n. 2001; Cass. civ., S.U.,
02.06.1997, n.
4908).
Nelle sentenze più recenti sopra citate è stato pure
chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con
l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia
residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice
amministrativo, in virtù del sottostante rapporto
concessorio ai sensi dell’art. 133 comma 1, lett. b) c.p.a.,
sol se si ponga mente alla sentenza della Corte
Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere
costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione
fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di
interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le
posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e
del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi
pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha
ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice
amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla
Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva
lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce
tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il
Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla
conclusione che vada ricondotto alla discussa figura
giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però
i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto
nella prima fase della individuazione del soggetto con cui
l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei
quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è
caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il
bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria
e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso
sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente
incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in
ordine a tutte le vicende che si verificano quali il
rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come
nel caso in esame, il subentro.
Nel caso in esame, si verte su un atto di diniego della
voltura, che va, dunque, a incidere sulla fase contrattuale
regolativa del rapporto intrattenuto dal dante causa del
ricorrente con l’amministrazione comunale e non piuttosto
sulla fase prodromica all’assegnazione dell’alloggio che
incardinerebbe la giurisdizione del giudice amministrativo,
atteso che in essa sono spesi poteri discrezionali
dell’Amministrazione generativi di interessi legittimi.
Pertanto, ai sensi dell’art. 11 del Codice del Processo
Amministrativo, il ricorso va dichiarato inammissibile per
difetto di giurisdizione del giudice adito e va ritenuta la
giurisdizione del giudice ordinario dinanzi al quale la
controversia andrà riassunta nel termine perentorio di tre
mesi da passaggio in giudicato della presente sentenza,
fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della
domanda (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 28.09.2018 n. 9648 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2018 |
|
PATRIMONIO:
Accordo (ex art. 15, l. 241/1990) tra una p.a. ed un ente
pubblico economico per la concessione in uso di beni
pubblici, presupposti e condizioni (parere
06.07.2018-363198, AL 19666/2017 -
Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 4/2018).
---------------
A) Con nota del 14.04.2017 codesta Amministrazione
chiedeva alla Scrivente di esprimere il proprio parere in
ordine alla possibilità di interpretare in via estensiva il
comma 233 dell’art. 4 della L. n. 350/2003, recante
disposizioni in materia di concessioni di spazi in comodato
d’uso gratuito a favore delle amministrazioni pubbliche, al
fine di verificare la possibilità di applicare tale
disciplina nei confronti di ENIT - Ente nazionale italiano
del turismo.
Il problema si poneva in quanto, a seguito della
trasformazione di ENIT in ente pubblico economico, questo
aveva perso il carattere di “amministrazione pubblica”, che
costituisce il requisito indispensabile per poter accedere
alla disciplina di cui al comma 233 citato. Tale
disposizione infatti prevede la possibilità, per gli uffici
all’estero, di concedere in comodato d’uso gratuito spazi a
favore delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1,
comma 2, del D.lgs n. 165/2001. (...continua). |
giugno 2018 |
|
PATRIMONIO:
Obblighi di manutenzione delle aree latistanti un percorso
pedonale privato.
1) Affinché una strada privata possa
dirsi assoggettata ad un uso pubblico/servitù pubblica è
necessario che sussistano le seguenti condizioni:
a) l'uso generalizzato del passaggio da parte di una
collettività indeterminata di individui, considerati uti
cives in quanto portatori di un interesse generale, non
essendo sufficiente un'utilizzazione uti singuli, cioè
finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse
per il più agevole accesso a un determinato immobile di
proprietà privata;
b) l'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di
pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della
servitù;
c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto
di uso pubblico.
2) L’obbligo di manutenzione, gestione e pulizia della sede
stradale non si estende alle aree estranee ad essa e
circostanti: grava, infatti, sui proprietari delle ripe dei
fondi laterali alle strade l’obbligo di mantenerle in modo
da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a
franamenti o scoscendimenti del terreno, o la caduta di
massi o altro materiale sulla strada, dove per ripe devono
intendersi le zone immediatamente sovrastanti e sottostanti
la scarpata del corpo stradale.
Il Comune chiede un parere in merito all’individuazione dei
soggetti tenuti alla messa in sicurezza di un’area
latistante un percorso pedonale che collega il centro
cittadino alle pendici del monte sito nel medesimo comune.
Più in particolare, riferisce dell’esistenza di un sentiero
di proprietà privata aperto all’uso pubblico il quale è
stato oggetto di apposizione di idonea segnaletica di
divieto di accesso da parte sia del privato che
dell’amministrazione comunale, la quale ha, altresì,
provveduto a transennare detto percorso; il tutto a causa
del pericolo di caduta di grossi massi sullo stesso. Ciò
premesso l’Ente desidera sapere a chi competa l’eliminazione
delle cause che hanno comportato l’insorgenza di detto
pericolo, atteso che anche l’area latistante il sentiero in
oggetto è di proprietà privata.
In via preliminare, si osserva che, ai sensi dell’articolo
3, comma 1, num. 48), del decreto legislativo 30.04.1992, n.
285 (Nuovo codice della strada), si definisce “sentiero
(o Mulattiera o Tratturo)” la “strada a fondo
naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni o di
animali”.
Il successivo articolo 14 del medesimo D.Lgs. 285/1992,
stabilisce che gli enti proprietari delle strade, allo scopo
di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione,
provvedono, tra l’altro, “alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché
delle attrezzature, impianti e servizi” (lett. a)) ed “alla
apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta”
(lett. c)).
Al contempo, la giurisprudenza [1]
ha rilevato che “se un comune consente alla collettività
l’utilizzazione, per pubblico transito, di un’area di
proprietà privata assume l’obbligo di accertarsi che la
manutenzione dell’area e dei relativi manufatti non sia
trascurata; e l’inosservanza di tale dovere di sorveglianza,
che costituisce un obbligo primario della pa, per il
principio del neminem laedere, integra gli estremi della
colpa e determina la responsabilità per il danno cagionato
all’utente dell’area, nulla rilevando che l’obbligo della
manutenzione incomba sul proprietario dell’area”.
[2]
La sussistenza di tale “dovere di sorveglianza” che
fa capo alla Pubblica Amministrazione comporta che la stessa
debba “a) segnalare ai proprietari [dei fondi privati] le
situazioni di pericolo suscettibili di recare pregiudizio
agli utenti della strada; b) adottare i presidi necessari ad
eliminare i fattori di rischio conosciuti o conoscibili con
un attento e doveroso monitoraggio del territorio; c) come
extrema ratio, permanendo l'eventuale negligenza dei
proprietari dei fondi finitimi nel rimuovere le situazioni
di pericolo, chiudere la strada al traffico”
[3].
Premesso quanto sopra, con riferimento all’ulteriore
aspetto, che qui rileva, dell’individuazione del soggetto
tenuto a rimuovere le cause che hanno comportato
l’insorgenza della situazione di pericolo sul percorso
pedonale in questione, si tratta in primis di stabilire se
sullo stesso possa o meno essere provata l’esistenza di una
servitù di uso pubblico/servitù pubblica
[4].
Qualora mancasse una tale prova, in applicazione delle
regole civilistiche sulla proprietà privata, seguirebbe che
solo il proprietario dovrebbe provvedere alla manutenzione
dell’area di sua proprietà, ferma rimanendo, tuttavia, la
possibilità per lo stesso di chiudere il passaggio ai terzi.
In altri termini, l’obbligo ricadente sul solo privato
cittadino della manutenzione delle aree presuppone che le
stesse non siano gravate da servitù di pubblico transito e
ciò giustifica, altresì, il potere del proprietario di
chiudere il proprio fondo impedendone l’accesso ai terzi
[5].
Affinché una “strada” privata possa dirsi
assoggettata ad un uso pubblico/servitù pubblica è, invece,
necessario che sussistano le seguenti condizioni:
1) l'uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività
indeterminata di individui, considerati uti cives in
quanto portatori di un interesse generale, non essendo
sufficiente un'utilizzazione uti singuli, cioè
finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse
per il più agevole accesso a un determinato immobile di
proprietà privata;
2) l'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico
interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù;
3) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso
pubblico. [6]
Quest’ultimo può consistere nel protrarsi dell’uso per il
tempo necessario all’usucapione, nella avvenuta stipulazione
di una convenzione tra il proprietario e l’ente pubblico, in
provvedimenti amministrativi di natura ablativa, nell’uso da
tempo immemorabile, nella dicatio ad patriam, cioè
nel comportamento del proprietario che mette volontariamente
il bene a disposizione della collettività indeterminata di
cittadini, con carattere di continuità e, quindi, non in via
precaria o di mera tolleranza [7].
Qualora venisse accertata l’esistenza dell’uso pubblico sul
sentiero seguirebbe l’obbligo anche da parte del Comune di
provvedere alla manutenzione dello stesso.
Circa l’entità di tale partecipazione sono state riscontrate
posizioni non univoche in giurisprudenza, anche in relazione
alle diverse realtà fattuali su cui la stessa si è trovata a
pronunciarsi. In particolare, accanto ad alcune pronunce che
riconoscono l’obbligo esclusivo dell’ente locale di
provvedere alla manutenzione delle “strade” ad uso
pubblico, sul presupposto che trattavasi di aree soggette
quasi esclusivamente all’uso pubblico [8],
altre, invece, affermano che il Comune debba partecipare
alle spese di manutenzione in applicazione, diretta
[9] o
analogica dell’articolo 3, primo comma, del decreto legge
luogotenenziale 1 settembre 1918, n. 1446
[10] il quale,
dettato con precipuo riferimento alle strade vicinali,
recita: “Il Comune è tenuto a concorrere nella spesa di
manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade
vicinali soggette al pubblico transito in misura variabile
da un quinto sino alla metà della spesa, secondo la diversa
importanza delle strade.”.
Si riporta, al riguardo, quanto affermato dal TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, nella sentenza dell’11.11.2008, n. 1602: "La
norma di riferimento per stabilire la misura della
partecipazione dei comuni agli oneri di manutenzione
ordinaria e straordinaria delle strade vicinali è in effetti
l'art. 3 del DLLgt. 1446/1918, il quale prevede una misura
variabile da 1/5 fino a metà della spesa a seconda
dell'importanza delle strade. Condizione essenziale perché
possa sorgere l'obbligo di contribuzione è che le vicinali
siano soggette a pubblico transito.”
[11].
Da ultimo necessita rilevare che le considerazioni sopra
esposte afferiscono non solo al sentiero in senso stretto ma
anche all’area latistante lo stesso. In questo senso la
giurisprudenza [12]
ha affermato che: “È in colpa la Pubblica Amministrazione
la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza
delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie
pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli
utenti della strada, né provveda ad inibirne l'uso
generalizzato; ne consegue che, nel caso di danni causati da
difettosa manutenzione di una strada, la natura privata di
questa non è di per sé sufficiente ad escludere la
responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la
destinazione dell'area o per le sue condizioni oggettive,
l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione”.
Viceversa tale obbligo di manutenzione, gestione e pulizia
delle strade non si estende alle aree circostanti, in
particolare alle ripe [13]
site nei fondi laterali alle strade. Soccorre, al riguardo,
l’articolo 31 del codice della strada il quale, al comma 1,
stabilisce che: “I proprietari devono mantenere le ripe
dei fondi laterali alle strade, sia a valle che a monte
delle medesime, in stato tale da impedire franamenti o
cedimenti del corpo stradale, ivi comprese le opere di
sostegno di cui all’art. 30 [14],
lo scoscendimento del terreno, l'ingombro delle pertinenze e
della sede stradale in modo da prevenire la caduta di massi
o di altro materiale sulla strada. Devono altresì
realizzare, ove occorrono, le necessarie opere di
mantenimento ed evitare di eseguire interventi che possono
causare i predetti eventi.”.
Come rilevato da recente giurisprudenza
[15] “sussistono
[…] obblighi manutentivi in capo ai proprietari
relativamente alle aree esterne al confine stradale e, in
particolare, riguardo alle ripe situate nei fondi laterali
alle strade, ai sensi dell’art. 31 cit., in modo da impedire
e prevenire situazioni di pericolo. […] Ne consegue che le
norme di cui agli artt. 30 e 31 del C.d.S. delineano un
quadro stabile dei rapporti tra proprietari dei fondi
finitimi e enti proprietari delle strade, addossando ai
primi gli oneri della manutenzione delle ripe dei fondi
laterali ovvero la realizzazione di opere di mantenimento”.
Ancora, la medesima pronuncia giurisprudenziale ha, altresì,
rilevato -come anche altre pronunce intervenute su tale tema
[16]- che:
“l’obbligo di manutenzione, gestione e pulizia della sede
stradale non si estende alle aree estranee ad essa e
circostanti: grava, infatti, sui proprietari delle ripe dei
fondi laterali alle strade l’obbligo di mantenerle in modo
da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a
franamenti o scoscendimenti del terreno, o la caduta di
massi o altro materiale sulla strada, dove per ripe devono
intendersi le zone immediatamente sovrastanti e sottostanti
la scarpata del corpo stradale (Cass. n. 13087/2004)”.
---------------
[1] In tal senso si veda Cassazione civile, sentenza del
15.06.1979, n. 3387 richiamata da Cassazione civile, sez.
III, sentenza del 04.01.2010, n. 7. Nello stesso senso si
veda, anche, Cassazione civile, sez. III, sentenza del
12.01.1996, n. 191 ove si afferma che: «Gli obblighi di
prevenzione derivano dalla gestione di fatto della cosa
perché soltanto chi la esercita, anche in mancanza di una
titolarità de jure, è in grado di predisporre tutte le
cautele necessarie per prevenire ogni prevedibile danno.
Tali criteri interpretativi valgono soprattutto quando […]
una strada viene, di fatto utilizzata per pubblico transito,
perché tale circostanza fa insorgere, a carico dell’ente
l’obbligo di assicurare che l’utenza si svolga senza
pericoli e la conseguente responsabilità aquiliana verso i
terzi danneggiati dall’inosservanza di tale obbligo” (Cass.
1174/1977). […] gli obblighi di prevenzione, derivando
unicamente dal concreto utilizzo pubblico, si debbono ad
esso collegare al di fuori di ogni rilevanza della
titolarità de jure». Di recente sul punto anche Cassazione
civile, sez. III, sentenza del 14.03.2018, n. 6141.
[2] Per completezza espositiva si segnala che la
giurisprudenza, nel sancire l’obbligo della pubblica
amministrazione di provvedere alla manutenzione delle strade
anche di proprietà privata, se soggette ad uso pubblico,
riconnette la responsabilità sulla stessa gravante sia
all’avvenuta violazione del principio del neminem laedere
sancito nell’articolo 2043 c.c. sia ai più stringenti
requisiti richiesti dall’articolo 2051 c.c. relativo alla
responsabilità per danni cagionati da cose in custodia. In
questo senso si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza
dell’11.11.2011, n. 23562.
[3] In questo senso si veda, Cassazione civile, sez. III,
sentenza n. 6141/2018, già citata in nota 1; Cassazione
civile, sez. III, sentenza del 22.10.2014, n. 22330;
Cassazione civile, sez. III, sentenza dell’11.11.2011, n.
23562.
[4] Sul presupposto della natura privata dell’area di cui
trattasi.
[5] Peraltro, come rilevato anche dalla giurisprudenza (TAR
Sicilia, sez. II, sentenza del 01.04.2016, n. 989), il fatto
che il sentiero in riferimento sia utilizzato anche dalla
collettività non è indice che di per sé depone per
l’esistenza dell’uso pubblico, potendo tale fatto essere
ricondotto alla mera tolleranza del proprietario.
[6] In questo senso si è espressa, in maniera univoca la
giurisprudenza, sia amministrativa che di legittimità. Si
vedano, tra le altre, Cassazione, civile, sez. II, sentenza
del 29.11.2017, n. 28632; Cassazione civile sez. II,
10/01/2011, n. 333; Cass. civ., sez. II, 21.05.2001, n.
6924. Consiglio di Stato, sez. IV, 15.06.2012, n. 3531 e
Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 728; Consiglio di
Stato, sez. IV, 24.02.2011, n. 1240; TAR Milano, sez. III,
11.03.2016, n. 507.
[7] Si vedano, al riguardo, tra le altre, TAR Marche, sez.
I, sentenza del 01.02.2016, n. 48; TAR Napoli sez. VI,
sentenza del 03.08.2016, n. 4013; Consiglio di Stato, sez.
V, sentenza del 21.06.2007, n. 3316. In dottrina (A. Angiuli,
“Strada pubblica e servitù di passaggio di uso pubblico”, in
Giurisprudenza italiana, fasc. 7, 2001, pag. 1370) si è
affermato che “tale fattispecie di servitù non può sorgere
con il semplice uso di fatto o attraverso una unilaterale
manifestazione di volontà della P.A. ma può aver origine
attraverso la cosiddetta dicatio ad patriam, posta in essere
dal proprietario del fondo, o da una convenzione fra privato
e P.A., oppure per usucapione del relativo diritto”.
[8] In questo senso si veda TAR Puglia, Lecce, sez. II,
sentenza del 28.01.2004, n. 818 ove si afferma che: “il
comune di XX ha già da tempo riconosciuto che la via in
questione è utilizzata dalla collettività, il che (fermo
restando la proprietà della strada da parte del Consorzio)
costituisce una situazione giuridica corrispondente
all’esercizio di una servitù ed impone all’ente esponenziale
della collettività che esercita l’uso di curarne la
manutenzione; ciò in quanto l’uso della strada da parte
della collettività secondo le caratteristiche e nella misura
delle strade comunali (art. 2 D.Lgs. n. 285 del 1992) viene
ad assorbire l’uso che della stessa fanno i privati a ciò
abilitati dai proprietari o dall’ente proprietario, sicché
questo viene a confondersi in quello.
Non si ritiene che nella specie sia applicabile per analogia
il D.L.Lgt. n. 1446/1918 (che all’art. 3 recita […]).
Infatti, l’ubicazione della strada in questione e quindi
l’assunzione da parte della stessa delle caratteristiche
delle strade comunali, esclude l’applicazione di una norma
formulata per una situazione oggettivamente diversa, nella
quale l’uso pubblico ha un rilevo limitato e si aggiunge a
quello privato”. Nello stesso senso si veda TAR Lecce, sez.
II, sentenze del 01.04.2004, n. 2265 e del 22.07.2004, n.
5368.
[9] Si veda al riguardo Consiglio di Stato, sez. V, sentenza
del 23.05.2005, n. 2584 nella parte in cui recita: “o la
strada è nazionale, regionale […], provinciale o comunale,
ed allora, non presenta caratteri della strada privata, ma è
pubblica, e l’onere della manutenzione va posta a carico del
soggetto proprietario, oppure è privata e l’onere della
manutenzione non può essere posto a carico del Comune, salvo
quando dipenda dalla costituzione del consorzio”.
[10] Per completezza espositiva, si segnala che il D.Lgt.
1446/1918 era stato abrogato, a decorrere dal 16.12.2009,
dall'articolo 2, comma 1, del D.L. 22.12.2008 n. 200.
Successivamente l'efficacia dell’indicato decreto è stata
ripristinata dall'articolo 1, comma 2, del D.Lgs.
01.12.2009, n. 179.
[11] Prosegue l’indicata sentenza affermando che:
“L'esistenza dell'obbligo in capo ai comuni è indipendente
dalla formazione di un consorzio tra gli utenti, sia nella
forma facoltativa di cui all'art. 2 del DLLgt. 1446/1918 sia
nella forma obbligatoria di cui all'art. 14 della legge
12.02.1958 n. 126. La costituzione del consorzio è
necessaria per imporre la ripartizione delle spese tra i
privati, mentre nei confronti del comune competente per
territorio l'obbligo di finanziamento è una conseguenza
automatica del diritto di uso pubblico secondo il principio
generale dell'art. 1069 cc. in materia di opere necessarie
per la conservazione della servitù.”.
[12] Cassazione civile, sez. VI, ordinanza del 07.02.2017,
n. 3216.
[13] La definizione di ripa è contenuta nell’articolo 3,
comma 1, num. 44) del D.Lgs. 285/1992 secondo cui essa è
quella “zona di terreno immediatamente sovrastante o
sottostante le scarpate del corpo stradale rispettivamente
in taglio o in riporto sul terreno preesistente alla
strada”.
[14] L’articolo 30 del codice della strada recita: “1. I
fabbricati ed i muri di qualunque genere fronteggianti le
strade devono essere conservati in modo da non compromettere
l'incolumità pubblica e da non arrecare danno alle strade ed
alle relative pertinenze.
2. Salvi i provvedimenti che nei casi contingibili ed urgenti
possono essere adottati dal sindaco a tutela della pubblica
incolumità, il prefetto sentito l'ente proprietario o
concessionario, può ordinare la demolizione o il
consolidamento a spese dello stesso proprietario dei
fabbricati e dei muri che minacciano rovina se il
proprietario, nonostante la diffida, non abbia provveduto a
compiere le opere necessarie.
3. In caso di inadempienza nel termine fissato, l'autorità
competente ai sensi del comma 2 provvede d'ufficio alla
demolizione o al consolidamento, addebitando le spese al
proprietario.
4. La costruzione e la riparazione delle opere di sostegno lungo le
strade ed autostrade, qualora esse servano unicamente a
difendere ed a sostenere i fondi adiacenti, sono a carico
dei proprietari dei fondi stessi; se hanno per scopo la
stabilità o la conservazione delle strade od autostrade, la
costruzione o riparazione è a carico dell'ente proprietario
della strada.
5. La spesa si divide in ragione dell'interesse quando l'opera
abbia scopo promiscuo. Il riparto della spesa è fatto con
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ,
su proposta dell'ufficio periferico dell'A.N.A.S., per le
strade statali ed autostrade e negli altri casi con decreto
del presidente della regione, su proposta del competente
ufficio tecnico.
6. La costruzione di opere di sostegno che servono unicamente a
difendere e a sostenere i fondi adiacenti, effettuata in
sede di costruzione di nuove strade, è a carico dell'ente
cui appartiene la strada, fermo restando a carico dei
proprietari dei fondi l'obbligo e l'onere di manutenzione e
di eventuale riparazione o ricostruzione di tali opere.
7. In caso di mancata esecuzione di quanto compete ai proprietari
dei fondi si adotta nei confronti degli inadempienti la
procedura di cui ai commi 2 e 3.
8. Chiunque non osserva le disposizioni di cui al comma 1 è
soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da euro 422 ad euro 1.697”.
[15] Consiglio di Stato, sez. III, sentenza del 26.01.2017,
n. 329. Nello stesso senso si veda Cassazione civile, sez.
III, sentenza del 02.08.2000, n. 10112; TAR Liguria, Genova,
sez. I, sentenza del 18.11.2013, n. 1386 la quale, dopo aver
precisato che: “in sostanza la norma di cui all’art. 31
individua una situazione di normalità esistente e impone ai
proprietari finitimi di mantenere questa situazione”,
prosegue rilevando che “l’attività di manutenzione comprende
tutte quelle attività volte a impedire l’alterazione dello
stato dei luoghi, quali per esempio pulizia dei sedimi e dei
boschi e così via.”
[16] Tra queste si veda, anche, Cassazione civile, sez. III,
sentenza del 02.08.2000, n. 10112 (28.06.2018 -
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EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Installazione di un chiosco su proprietà pubblica e
necessità del titolo edilizio.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica non
è sufficiente il provvedimento di concessione per
l'occupazione occorrendo, altresì, l'ulteriore e autonomo
titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e
rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che
accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata
porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti
autorizzativi eventualmente necessari, quali
l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati
prodotti (fattispecie relativa alla installazione di un
chiosco che, in base a quanto disposto nel regolamento
comunale per la disciplina del commercio sulle aree
pubbliche, dà luogo ad un manufatto chiuso, di dimensioni
contenute, generalmente prefabbricato, e strutturalmente
durevole, posato su suolo pubblico, o su aree private
soggette a servitù di uso pubblico, non rimuovibile al
termine della giornata lavorativa).
---------------
La legittimazione a contestare un provvedimento
di assegnazione in concessione di uno spazio di area
pubblica per l'installazione del chiosco è riconosciuta in
base al criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di
stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente
e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi
comportino contra legem un’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto
necessario dimostrare il pregiudizio della situazione
soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto
sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione
della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non
conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici
sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed
ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario
riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o
situati comunque in prossimità a quelli interessati.
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento
giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo
autorizzato, è infatti, sufficiente a radicare la
legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare
in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione,
dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la
realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla
qualità panoramica, ambientale, paesaggistica.
---------------
Il chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo
marciapiede su cui si affacciano gli immobili dei
ricorrenti, rientrando pertanto nella visione di insieme dei
palazzi d’epoca prospicienti la zona ... che si incontra con
... peraltro pressoché adiacente al Castello Sforzesco di
Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo storico ed
architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo
effettivamente introdurre un elemento di discontinuità
nell’area in questione, come detto connotata da immobili di
particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere
negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse
dei ricorrenti alla sua contestazione.
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano
confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla
luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le
condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale
da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale.
--------------
Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza
dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41,
c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale,
deve essere fornita dalla parte che la eccepisce,
trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c.,
all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo
la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia
vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei
confronti dei provvedimenti dell'amministrazione,
riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113
Cost..
--------------
Per giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato
l'onere della prova della data di ultimazione delle opere,
essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili
atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture,
ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei
lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi
probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa
l'epoca di realizzazione del manufatto.
--------------
E' illegittima l'autorizzazione comunale di installazione di
un chiosco su suolo pubblico senza preventivamente
rilasciare il permesso di costruire.
Invero, in base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett.
e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n.
221 del 28.12.2015, tra gli "interventi di nuova
costruzione", per i quali è necessario il permesso di
costruire, rientrano anche quelli relativi l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad
eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee, o siano ricompresi in strutture
ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei
turisti.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso
di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo
pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche
per l'installazione di un chiosco.
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua
rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è
infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto
invece ad un utilizzo reiterato nel tempo, come tale idoneo
ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento
del carico urbanistico.
--------------
Non ha pregio
nella fattispecie la tesi per cui dovrebbe tuttavia trovare
applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree
pubbliche, di cui alla
L.R. n. 6/2010, oltre a quella
regolamentare, che escluderebbero espressamente, per
l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di
costruire.
Ciò detto essendo la normativa in materia di commercio e
quella edilizia preordinate alla tutela di beni giuridici
differenti, dovendo pertanto essere applicate
congiuntamente, come pacificamente ritenuto in
giurisprudenza, secondo cui, malgrado le attività
commerciali siano attualmente liberamente insediabili con
riguardo al loro numero, non esistendo contingenti massimi
autorizzabili, le stesse rimangono tuttavia soggette ai
limiti fissati dalla normativa edilizia, oltreché a quella
posta a tutela dei beni culturali, ed alla pianificazione
urbanistica e paesaggistica.
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010 conferma peraltro espressamente la coesistenza tra
la normativa dettata in materia di commercio e quella
edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere
garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate,
nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente,
la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica,
non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione
per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed
autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e
rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che
accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata
porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti
autorizzativi eventualmente necessari, quali
l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati
prodotti.
--------------
... per l'annullamento del provvedimento del 26.09.2016, con
il quale il Comune di Milano - Settore Commercio, SUAP e
Attività Produttive, ha autorizzato l'installazione di un
chiosco per la somministrazione di alimenti in -OMISSIS-
angolo -OMISSIS-, dell'autorizzazione paesaggistica n. 328
del 04.08.2016, con cui il Comune di Milano – Ufficio
Tutela del Paesaggio, sulla scorta del parere espresso dalla
Commissione per il Paesaggio, ha rilasciato l'assenso, per i
profili di sua competenza, all'installazione del chiosco,
della Deliberazione della Giunta Comunale – Settore
Commercio, SUAP e Attività Produttive, n. 2858 del 30.12.2014, con la quale sono state dettate le linee di
indirizzo per la predisposizione del bando, approvato con
Determina Dirigenziale n. 1 del 08.01.2015, anch'essa
qui gravata, per l'assegnazione di n. 82 posteggi c.d.
“extra-mercato”, tra cui figura anche il posteggio ubicato
nella posizione “-OMISSIS- -OMISSIS-”, e di ogni altro atto
ad essi preordinato, presupposto, conseguenziale e/o
comunque connesso.
...
Con delibera n. 2858 del 30.12.2014 la Giunta del Comune di
Milano ha approvato le linee guida di indirizzo per
l’assegnazione di n. 83 posteggi extra-mercato, al fine di
implementare il numero delle postazioni distribuite in tutta
la città che utilizzano strutture di vendita tipo banco,
chiosco, trespolo, e autonegozio, individuando altresì le
ubicazioni destinate alla loro installazione, e con
determina n. 1 del 08.01.2015, è stato approvato il relativo
bando pubblico.
Con il presente ricorso, gli istanti impugnano
il provvedimento di autorizzazione all’installazione
di un chiosco in
-OMISSIS- angolo -OMISSIS-, in favore del Sig. Va., in esito
alla procedura prevista dalla citata delibera n. 2858/2014,
parimenti gravata, unitamente alla relativa autorizzazione
paesaggistica, deducendo che
ciò
avrebbe dovuto essere preceduto dal rilascio di un permesso
di costruire (primo motivo), la mancanza di una puntuale
istruttoria in ordine alla sua compatibilità con le
caratteristiche dell’area (secondo motivo), che ne
pregiudicherebbe la viabilità (terzo motivo) ed il decoro
architettonico (quarto motivo), oltreché la ritardata
conclusione dei lavori (quinto motivo).
...
I) In via preliminare, il Collegio deve scrutinare le
eccezioni di inammissibilità del ricorso, che sono tuttavia
infondate.
I.1.1) Con una prima eccezione, la difesa comunale deduce la
carenza di interesse ed il difetto di legittimazione attiva
in capo ai ricorrenti, evidenziando che, mentre nell’atto
introduttivo del giudizio, essi si dichiarano residenti
nella zona di -OMISSIS-, nella procura alle liti, solo una
parte di essi (17 su 26), deduce di essere residente nelle
vicinanze dell’area di cui in oggetto. In ogni caso, gli
istanti non dimostrerebbero “quali interessi specifici”
sarebbero effettivamente lesi dai provvedimenti impugnati,
limitandosi ad evidenziare potenziali pregiudizi alla
viabilità, ed all’utilizzazione di taluni servizi.
Analogamente, secondo il controinteressato, premesso che “il
criterio della vicinitas non sarebbe stato sufficiente a
fornire le condizioni dell’azione”, in ogni caso, “i
ricorrenti avrebbero dovuto provare di essere residenti”,
laddove invece, alcuni di loro, avrebbero ammesso di esserlo
in zone diverse da quelle interessate dai provvedimenti
impugnati.
Con la citata ordinanza n. 211/2018, rilevato che i
ricorrenti si erano limitati a dichiarare la loro residenza,
nell’atto di procura alle liti, e che effettivamente, per
alcuni di loro, la stessa non si trova nelle vicinanze del
chiosco oggetto dei provvedimenti impugnati, ai fini dello
scrutinio dell’eccezione, il Collegio ha ordinato di
depositare in giudizio documentazione comprovante il loro
collegamento con l'area interessata dall'intervento, ciò a
cui hanno provveduto in data 19.03.2018.
I.1.2) In linea generale, osserva il Collegio che la
legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione
in concessione di uno spazio di area pubblica per
l'installazione del chiosco è riconosciuta in base al
criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di
stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente
e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi
comportino contra legem un’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto
necessario dimostrare il pregiudizio della situazione
soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto
sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione
della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non
conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici
sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed
ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario
riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o
situati comunque in prossimità a quelli interessati (TAR
Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 23.02.2017, n. 109).
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento
giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo
autorizzato, è infatti sufficiente a radicare la
legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare
in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione,
dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la
realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla
qualità panoramica, ambientale, paesaggistica (C.S. Sez. IV,
09.09.2014, n. 4547).
I.1.3) Con riferimento al caso di specie, in esito alla
citata ordinanza istruttoria, i ricorrenti hanno dimostrato
la loro vicinitas con il chiosco oggetto del presente
giudizio, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
In particolare, gli istanti hanno infatti depositato i
certificati di residenza di n. 9 ricorrenti, relativi al
civico n. 63 di -OMISSIS-, posto a circa 20 m. dal chiosco,
e di n. 8 ricorrenti, residenti al civico n. 67, posto a
circa 70 metri dal chiosco, dimostrando pertanto la
sussistenza del loro stabile collegamento con l’area oggetto
del presente giudizio.
Come desumibile dall’esame del materiale fotografico e dalle
planimetrie depositate in giudizio, ed ulteriormente
illustrate dalle parti nel corso dell’udienza pubblica, il
chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo marciapiede
su cui si affacciano gli immobili dei ricorrenti, rientrando
pertanto nella visione di insieme dei palazzi d’epoca
prospicienti la zona di -OMISSIS- che si incontra
con -OMISSIS-, peraltro pressoché adiacente al Castello
Sforzesco di Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo
storico ed architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo
effettivamente introdurre un elemento di discontinuità
nell’area in questione, come detto connotata da immobili di
particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere
negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse
dei ricorrenti alla sua contestazione (C.S., Sez. IV,
08.01.2016, n. 35).
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano
confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla
luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le
condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale
da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale
(C.S., Sez. VI, 05.01.2015, n. 11).
I.1.4) Quanto infine a 3 ricorrenti, che hanno comprovato il
loro diritto di proprietà su talune unità immobiliari poste
al civico 63, senza tuttavia esservi residenti, ed altri 6,
che hanno invece documentato lo svolgimento di attività
commerciale e di amministratore di condominio nello stesso,
evidenzia il Collegio che, in primo luogo, la giurisprudenza
considera provata la vicinitas, in relazione ad una
situazione di stabile collegamento, anche a fronte di un
titolo di frequentazione della zona interessata (TAR
Puglia, Lecce, Sez. III, 30.01.2018, n. 126, TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, 08.03.2013, n. 627), e che
comunque, anche ritenendo gli stessi privi di interesse ad
agire, ciò non pregiudicherebbe l’ammissibilità del ricorso,
con riferimento alle restanti posizioni.
Per giurisprudenza pacifica, il ricorso collettivo si
risolve infatti in una pluralità di azioni contestualmente
proposte mediante un unico atto, non comunicandosi agli
altri le posizioni soggettive di ciascuno dei ricorrenti,
tanto che un’eventuale pronuncia di inammissibilità
dell’azione per uno dei ricorrenti, non preclude comunque
una pronuncia di merito per l’altro (TAR Lombardia,
Milano, Sez. III, 17.12.2012, n. 3056).
I.2.1) Con una seconda eccezione, il controinteressato
deduce l’inammissibilità del ricorso per mancata notifica ai
controinteressati.
Avendo infatti gli istanti impugnato anche i provvedimenti
che hanno assegnato agli operatori economici selezionati la
gestione di altri chioschi, l’accoglimento del presente
ricorso, a loro dire, pregiudicherebbe anche la loro
posizione, rivestendo pertanto gli stessi la qualifica di
controinteressati necessari.
In particolare, poiché in caso di annullamento dei
provvedimenti oggetto del presente giudizio deriverebbe “la
chiusura di tutti i chioschi presenti sul territorio
comunale in forza del bando impugnato”, dovrebbe ritenersi
che gli istanti abbiano presentato “tante autonome domande
di annullamento rivolte nei confronti di tutti i concorrenti
che sono stati selezionati per l’ottenimento dei posteggi”.
I.2.2) Osserva in contrario il Collegio che, malgrado i
ricorrenti abbiano effettivamente impugnato, oltre
all’autorizzazione all’installazione del chiosco da
collocarsi in -OMISSIS-, e la relativa autorizzazione
paesaggistica, anche la citata delibera n. 2858/2014, in
materia di linee di indirizzo per la predisposizione del
bando per l’assegnazione dei posteggi “extra mercato”,
tuttavia, ciò ha avuto luogo, coerentemente al loro
interesse, nella parte in cui “figura anche il posteggio
ubicato nella posizione -OMISSIS- -OMISSIS-”.
Come sopra evidenziato, i ricorrenti non sono infatti
operatori economici, interessati a contestare l’illegittima
modalità di svolgimento della procedura di assegnazione
delle postazioni commerciali, quanto invece residenti, o
comunque titolari di posizioni qualificate, strettamente
correlate all’area in cui verrà posizionato il chiosco del
controinteressato.
Per giurisprudenza pacifica, l’esercizio dei poteri di
interpretazione della domanda attribuiti al giudice devono
infatti muovere dall’individuazione del bene giuridico cui
l’interessato aspira, e che l'attività amministrativa gli ha
negato, dovendo a tal fine considerarsi, al di là delle
espressioni formali utilizzate dalle parti, la concreta
situazione dedotta in causa, e le effettive finalità che la
parte intende perseguire (C.S. Sez. V, 23.02.2018, n. 1147,
che conferma TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2933/2014).
Conseguentemente, l’eventuale pronuncia di annullamento dei
provvedimenti in questa sede impugnati, non produrrebbe
alcun effetto nei confronti degli ulteriori assegnatari, che
non sono pertanto controinteressati nel presente giudizio,
ferma restando ovviamente la facoltà, in capo al Comune, di
adottare ulteriori provvedimenti nei loro confronti,
suscettibili di essere autonomamente contestati.
Peraltro, osserva incidentalmente il Collegio come la citata
delibera n. 2858/2014 non abbia espressamente prescritto che
le installazioni oggetto dei posteggi “extra mercato”
debbano essere prive del permesso di costruire, avendo
infatti principalmente ad oggetto la “selezione degli
operatori per il commercio su area pubblica con le modalità
previste dalla L.R. 02.02.2010 n. 6 Testo Unico delle leggi
regionali in materia di commercio e fiere, e dal Regolamento
per la Disciplina del Commercio su aree pubbliche adottato
con Delibera di Consiglio Comunale n. 9/2013”, non incidendo
pertanto sulla disciplina urbanistica ed edilizia
applicabile, i cui contenuti non possono che essere desunti
dalle relative disposizioni speciali in materia.
I.3.1) Con un’ulteriore eccezione, il controinteressato
deduce l’inammissibilità del ricorso per tardiva
impugnazione dei provvedimenti gravati, essendo gli stessi
stati pubblicati all’Albo Pretorio del Comune.
L’eccezione va respinta, non avendo l’istante in realtà
fornito la prova di detta pubblicazione, che è stata
espressamente contestata dai ricorrenti.
Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza
dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41,
c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale,
deve essere fornita dalla parte che la eccepisce,
trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c.,
all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo
la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia
vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei
confronti dei provvedimenti dell'amministrazione,
riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113
Cost. (C.S., Sez. V, 03.02.2016 n. 424).
I.3.2) Sotto altro aspetto, evidenzia il controinteressato
che, a prescindere dalla pubblicazione dei provvedimenti
impugnati all’Albo Pretorio, i ricorrenti erano comunque al
corrente dell’installazione del chiosco in una data
antecedente al termine di sessanta giorni dalla proposizione
del ricorso, e precisamente, in relazione ai lavori occorsi
per la sua installazione, documentando le date di loro
effettuazione.
In via preliminare, osserva il Collegio che, per
giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato
l'onere della prova della data di ultimazione delle opere,
essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili
atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture,
ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei
lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi
probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa
l'epoca di realizzazione del manufatto (TAR
Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 27.09.2017, n. 638), ciò
che non ha tuttavia avuto luogo nel caso di specie.
La documentazione che secondo l’interessato comproverebbero
l’esecuzione dei lavori, menziona infatti un sopralluogo
effettuato in data 02.02.2016, tuttavia antecedente al
posizionamento del chiosco, richiedendosi il relativo nulla
osta (doc. n. 15), oltreché l’esecuzione dei lavori
necessari agli allacciamenti delle utenze (docc.ti 16-19),
senza invece minimamente comprovare la sua vera e propria
installazione, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
I.3.3) Un’ulteriore prova dell’avvenuta cognizione degli
interventi oggetto del presente giudizio, sarebbe inoltre
fornita da una lettera indirizzata dai ricorrenti al Sindaco
di Milano, pubblicata in data 30.04.2017 su un quotidiano
locale, in cui gli stessi si lamentano della costruzione del
chiosco di che trattasi.
Anche detti rilievi sono infondati, essendo il ricorso stato
notificato in data 16.06.2017, e pertanto prima di sessanta
giorni decorrenti dalla pubblicazione della citata lettera,
senza che il controinteressata abbia dimostrato l’esistenza
di altre comunicazioni dei ricorrenti antecedenti.
I.4) Ulteriormente, il controinteressato deduce
l’inammissibilità del ricorso, per mancata impugnazione di
atti presupposti, ed in particolare, della delibera n.
1036/2012, che avrebbe dettato i criteri per il rilascio
delle concessioni per l’installazione dei chioschi, e della
graduatoria definitiva pubblicata in data 08.05.2015, oltreché
del Regolamento per la disciplina del Commercio sulle Aree
Pubbliche, del Regolamento Cosap, del Regolamento Edilizio,
del Regolamento per la Disciplina del diritto ad occupare il
Suolo, del Regolamento sul sistema dei controlli interni,
del parere favorevole condizionato del 15.09.2015 del Settore
Pianificazione e Programmazione, dell’Ufficio Programmazione
Mobilità, dell’Ufficio Programmazione Arredo Urbano, quello
del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del
24.08.2015, dell’Autorizzazione Paesaggistica della
Commissione del paesaggio del 04.08.2016, e della Relazione
del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del 04.03.2016.
Anche tale eccezione è infondata, non avendo il
controinteressato comprovato che gli atti di cui lamenta la
mancata impugnazione prevedessero la possibilità di
autorizzare i chioschi con le modalità contestate nel
ricorso, ed in primis, in assenza del permesso di costruire.
...
II.1) Quanto al merito, con il primo motivo, l’istante
deduce l’illegittimità dell’autorizzazione all’installazione
del chiosco per cui è causa, rilasciata dal Comune di Milano
al controinteressato, in considerazione del mancato rilascio
di un permesso di costruire avente ad oggetto tale
struttura, ciò che sarebbe invece stato necessario,
trattandosi di un’opera permanente e non rimuovibile.
II.1.1) Osserva il Collegio che, in base a quanto disposto
nell’art. 25, punto 3, del Regolamento per la disciplina del
commercio sulle aree pubbliche del Comune di Milano, la
struttura di tipo “chiosco”, dà luogo ad un manufatto
chiuso, di dimensioni contenute, generalmente prefabbricato,
e strutturalmente durevole, posato su suolo pubblico, o su
aree private soggette a servitù di uso pubblico, non
rimuovibile al termine della giornata lavorativa.
In base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett. e.5), del
D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n. 221 del
28.12.2015, tra gli "interventi di nuova costruzione", per i
quali è necessario il permesso di costruire, rientrano anche
quelli relativi l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano
utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee, o siano
ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e
il soggiorno dei turisti.
In relazione a quanto sopra, il motivo va pertanto accolto,
avendo il Comune di Milano illegittimamente autorizzato
l’installazione del chiosco in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-,
senza preventivamente rilasciare il permesso di costruire.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso
di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo
pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche
per l'installazione di un chiosco (TAR Campania, Napoli,
Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2282).
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua
rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è
infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto
invece ad un utilizzo reiterato nel tempo (TAR Calabria,
Catanzaro, Sez. I, 13.03.2017, n. 409), come tale idoneo ad
alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del
carico urbanistico (C.S., Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842).
II.1.2) Secondo la difesa comunale e della controinteressata,
nella fattispecie per cui è causa, dovrebbe tuttavia trovare
applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree
pubbliche, di cui alla
L.R. n. 6/2010, oltre a quella
regolamentare, che escluderebbero espressamente, per
l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di
costruire.
Detti argomenti non hanno tuttavia pregio, essendo la
normativa in materia di commercio e quella edilizia
preordinate alla tutela di beni giuridici differenti,
dovendo pertanto essere applicate congiuntamente, come
pacificamente ritenuto in giurisprudenza, secondo cui,
malgrado le attività commerciali siano attualmente
liberamente insediabili con riguardo al loro numero, non
esistendo contingenti massimi autorizzabili, le stesse
rimangono tuttavia soggette ai limiti fissati dalla
normativa edilizia, oltreché a quella posta a tutela dei
beni culturali, ed alla pianificazione urbanistica e
paesaggistica (TAR Marche, Sez. I, 16.04.2014, n. 434).
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010, invocato dalla difesa
comunale, conferma peraltro espressamente la coesistenza tra
la normativa dettata in materia di commercio e quella
edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere
garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate,
nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente,
la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica,
non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione
per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed
autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e
rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che
accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata
porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti
autorizzativi eventualmente necessari, quali
l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati
prodotti (C.S. Sez. VI, 27.02.2012 n. 1106).
II.1.3) Parimenti, anche la giurisprudenza citata dalla
difesa resistente (C.S., Sez. V, 05.11.2012, n. 5589, TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 19.09.2013, n. 2248), conferma in
realtà la fondatezza del motivo, in quanto riferita ad una
fattispecie in cui era il Comune a realizzare le opere in
assenza del permesso di costruire, essendo a tal fine
equipollente la delibera del consiglio o della giunta
comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme
alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, laddove il
chiosco oggetto del presente giudizio è in proprietà
esclusiva del controinteressato, non rientrando inoltre nel
concetto di “opera pubblica”, come invece aveva luogo nelle
citate decisioni.
Analogamente, anche i precedenti di questo Tribunale (Sez.
I, 22.12.2014 n. 3123, 19.12.2013, n. 2889) non risultano
pertinenti, in quanto aventi ad oggetto fattispecie
antecedenti all’entrata in vigore della citata L. n.
221/2015, disciplinate da una differente versione del
Regolamento Edilizio Comunale, ed in ogni caso, riferite ad
“un manufatto in uso precario e amovibile”, la cui
installazione era prevista per un periodo inferiore a dodici
mesi (n. 3123/2014 cit.), diversamente da quello per cui è
causa.
Neppure infine è pertinente alla fattispecie oggetto del
presente giudizio C.S., Sez. VI, 21.11.2017 n. 5394, sia in
quanto dettata in materia di impianti pubblicitari, sia
soprattutto poiché, in tale pronuncia, il giudice d’appello
non ha ravvisato la necessità di richiedere il titolo
edilizio per la loro installazione, ritenendo che i vincoli
previsti dall’art. 3 D.Lgs. n. 507/1993, tuttavia estraneo
alla fattispecie per cui è causa, di per sé, tutelassero
adeguatamente il corretto assetto del territorio.
II.1.4) Da ultimo, anche il richiamo all’art. 116, c. 4, del
Regolamento Edilizio Comunale, secondo cui i chioschi, se
realizzati su suolo pubblico, “non costituiscono oggetto di
titolo abilitativo edilizio, ma sono installati secondo le
modalità previste dai provvedimenti che autorizzano l’uso
del suolo”, risulta irrilevante nel presente giudizio.
Come infatti correttamente osservato dai ricorrenti, detta
norma si riferisce ai “manufatti provvisori”, la cui
“permanenza non può superare i ventiquattro mesi”, laddove
invece quello per cui è causa sarà installato per una durata
di dodici anni.
Ad abundantiam, osserva il Collegio che anche ove
l’art. 116 cit. potesse essere letto nei termini suggeriti
dal controinteressato, ciò risulterebbe tuttavia
incompatibile con l’art. 3, c. 1, lett. e), del D.P.R. n.
380/2001 citato, come modificato dalla L. n. 221/2015,
trovando in tal caso applicazione il c. 2 dello stesso art.
3, secondo cui “le definizioni di cui al comma 1 prevalgono
sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e
dei regolamenti edilizi”, dovendo in tal caso il Collegio
disporre in parte qua la disapplicazione del Regolamento
Edilizio Comunale, in quanto contrastante, in termini di
palese contrapposizione, con il disposto legislativo
primario (C.S., Sez. V, 28.09.2016 n. 4009).
...
In conclusione, il ricorso va pertanto accolto, quanto al
primo motivo, e respinto per il resto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.06.2018 n. 1485 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2018 |
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PATRIMONIO: Devoluzione
del patrimonio sociale a scopi di pubblica utilità.
Le società espressione del
“cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di prevedere nei
propri statuti la devoluzione, in caso di scioglimento della
società, dell’intero patrimonio sociale –dedotto soltanto il
capitale versato e i dividendi eventualmente maturati– a
scopi di pubblica utilità conformi allo spirito
mutualistico.
Il Comune, nel riferire di essere proprietario di un
immobile allo stesso trasferito da una società in
liquidazione, chiede un parere circa la destinazione a
pubblica utilità del bene stesso, atteso l’onere posto
nell’atto di trasferimento della proprietà immobiliare in
riferimento.
Più in particolare, ai fini di chiarire la situazione in
essere, precisa di avere ricevuto, nell’anno 1997, da una
società “latteria sociale turnaria”, ormai sciolta e
posta in liquidazione, a titolo di devoluzione del
patrimonio sociale, un immobile con l’obbligo, espressamente
indicato nel contratto di cessione, “di destinare il bene
a pubblica utilità e in particolare a sede delle varie
associazioni culturali, sportive, ricreative e simili”.
Tanto premesso, l’Ente riferisce di aver concesso una parte
dell’indicato fabbricato in favore delle associazioni
culturali, sportive e ricreative locali e che ulteriori sale
del medesimo immobile sono state destinate ad uso civico e
centro di aggregazione giovanile attrezzato, nonché
all’occorrenza, quale luogo per seggi elettorali.
Nel precisare di aver soddisfatto “tutte le richieste di
locali per gli scopi sociali di cui sopra”, l’Ente
avrebbe intenzione di locare una unità abitativa del
fabbricato in riferimento, utilizzando le somme che
percepirebbe a titolo di canone per “recuperare almeno in
parte i costi di gestione e manutenzione che l’immobile
richiede”. Desidera, a tal fine, sapere se una tale
volontà contrasti o meno con l’onere apposto nell’atto di
devoluzione.
In via preliminare, si osserva che i pareri espressi da
questo Ufficio in materia giuridico-amministrativa sono
privi di qualsiasi efficacia vincolante. In particolare, con
riferimento alla fattispecie in essere giova da subito
precisare che, ferme le considerazioni che nel prosieguo
verranno espresse, l’interpretazione delle clausole
contrattuali compete unicamente alle parti contraenti o, in
caso di contestazione, all’autorità giudiziaria
eventualmente adita.
Tutto ciò premesso, si osserva che le società espressione
del “cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di
prevedere nei propri statuti la “devoluzione, in caso di
scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale
–dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi
eventualmente maturati– a scopi di pubblica utilità conformi
allo spirito mutualistico” [1].
La finalità delle norme volte a porre tale vincolo di
destinazione al patrimonio residuo di tali società è stata
concordemente identificata in quella di “garantire che i
benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per
incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo
svolgimento di un’attività priva di tale carattere e,
comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno
fruito” [2].
Al contenuto dell’obbligo di devoluzione è stata fornita una
interpretazione ampia “comprensiva di tutti i casi nei
quali sussisteva l’esigenza di evitare che benefici
conseguiti grazie alle agevolazioni stabilite in favore
dell’attività mutualistica fossero eterodestinati rispetto a
questo scopo” [3].
Ciò premesso, pare che la finalità -di destinazione a
pubblica utilità del bene- che la disposizione contrattuale,
attuativa di norme di legge, mira a realizzare possa
considerarsi non disattesa qualora una parte dell’immobile
venga concessa in locazione col vincolo della destinazione
delle somme riscosse a titolo di canone locatizio per
sopperire alle spese di gestione e manutenzione del
fabbricato medesimo.
Infatti, una volta che l’Ente abbia concesso i locali a
vantaggio delle associazioni indicate, in modo tale da
soddisfare pienamente le esigenze delle stesse per gli scopi
sociali in argomento, si è dell’avviso che la destinazione a
pubblica utilità delle rimanenti parti dell’immobile in
oggetto possa avvenire anche indirettamente, consentendo,
con i proventi della locazione, di mantenere i locali
medesimi in uno stato di funzionalità e di decoro tali da
migliorarne l’utilizzo da parte delle associazioni stesse.
Si consideri, altresì, che la disposizione contrattuale che
impone l’onere all’atto di devoluzione del bene in
riferimento [4]
utilizza una formulazione ampia, atteso che la stessa,
nell’individuare le possibili forme di utilizzo del bene per
pubblica utilità, individua in termini meramente
esemplificativi e non tassativi –come è confermato
dall’utilizzo dell’inciso “in particolare”
[5]– le
possibili modalità di utilizzo dei locali in oggetto.
---------------
[1] In questo senso si veda l’articolo 26 del D.Lgs.
C.P.S. 14.12.1947, n. 1577.
[2] Corte Costituzionale, sentenza 19-23.05.2008, n. 170.
[3] Corte Cost., sentenza n. 170 del 2008.
[4] La quale, si ribadisce, prevede l’obbligo di “destinare
il bene a pubblica utilità e in particolare a sede delle
varie associazioni culturali, sportive, ricreative e
simili”.
[5] Tale espressione linguistica viene usata di norma nei
casi in cui si voglia fornire un’elencazione meramente
esemplificativa e non tassativa delle fattispecie da
ricomprendere. Si veda, ad esempio, “Regole e suggerimenti
per la redazione dei testi normativi”, Manuale per le
Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle
Assemblee legislative delle Regioni e delle Province
autonome, dicembre 2007, pag. 26 ove si afferma che «il
carattere esemplificativo di un’enumerazione si esprime
attraverso l’uso di locuzioni quali “in particolare”, “tra
l’altro”»
(29.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: Sinistri stradali in centri urbani.
L’appartenenza del bene al demanio o al patrimonio della pubblica
amministrazione e il suo uso diretto da parte di un numero rilevantissimo di
utenti sono solo indici sintomatici dell’impossibilità di evitare
l’insorgenza di situazioni di pericolo in un bene, ma non la attestano in
modo automatico, sicché l’art. 2051 c.c., trova applicazione ogni qualvolta
nel caso concreto non sia ravvisabile soggettiva impossibilità di un
esercizio del potere di controllo dell’ente sul bene in custodia,
determinata appunto dal suo uso generale da parte dei terzi e della sua
notevole estensione.
In quest’ottica, relativamente ai sinistri avvenuti sulle strade dei centri
urbani, l’elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del
demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è
causato il danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso
Comune
(TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 17.05.2018 n. 1202 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
marzo 2018 |
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PATRIMONIO: Permuta
immobiliare senza vincoli per gli Enti Locali.
La manovra economica correttiva del luglio 2011, approvata con il Dl
98/2011, nell’intento di ottenere risparmi di spesa, ha imposto agli enti
territoriali un vincolo di finanza pubblica in materia di operazioni
immobiliari in base al quale (a decorrere dal 01.01.2014) essi possono
effettuare operazioni di acquisto di immobili solo se ne siano documentate
l'indispensabilià, l'indilazionabilità e la congruità del prezzo
(quest'ultima attestata dall'Agenzia del Territorio, incorporata
dall'Agenzia delle Entrate).
La decisione della Corte dei conti veneta
Il regime vincolistico, disciplinato dall'articolo 12, comma 1-ter, del
decreto n. 98, ha sollevato una rilevante questione circa il suo perimetro
oggettivo di applicazione, che è stata recentemente affrontata dalla Corte
dei conti, sezione di controllo per il Veneto, nella
parere 22.03.2018 n.
110.
Più in dettaglio, viene fornita una precisazione circa la corretta
interpretazione della disposizione in merito alla riconducibilità al suo
alveo applicativo dell'istituto giuridico della permuta immobiliare.
Al riguardo, i giudici del controllo veneto rilevano come in passato la
giurisprudenza contabile sia più volte intervenuta chiarendo che la norma si
riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo, frutto di
una contrattazione tra ente locale e privato, con specifico riferimento al
prezzo; viceversa, la sua applicazione è stata esclusa in caso di
procedimento autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo
(come nell'ipotesi di esproprio), oppure nel caso di acquisizione al
patrimonio pubblico di opere di urbanizzazione a scomputo (assimilata
all'appalto di lavori).
Da questa interpretazione la sezione del Veneto ricava il principio generale
secondo cui la norma vincolistica in questione produce effetti
esclusivamente nei confronti degli atti posti in essere iure privatorum
dalla Pa in cui la stessa acquisti i beni immobili in contropartita
dell'esborso di un prezzo a titolo di corrispettivo. Pur rientrando la
permuta nell'ambito degli atti in cui l'ente locale agisce iure privatorum,
a parere della sezione Veneto, questa operazione immobiliare è fuori dal
regime restrittivo sulla scorta dell'esegesi letterale della norma.
Interpretazione della norma
Sotto il profilo lessicale, dopo aver richiamato l'articolo 1552 del codice
civile («la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco
trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente
all'altro»), ravvisando l'incompatibilità con la disposizione in rassegna,
che impone espressamente delle restrizioni alle (sole) «operazioni di
acquisto di immobili», i magistrati veneti concludono per l'esclusione delle
operazioni di permuta dall'ambito delle limitazioni mancando il sinallagma
del trasferimento di bene dietro versamento di corrispettivo.
Alla stessa conclusione si perviene pensando allo scopo della disciplina
vincolistica il cui fine risiede nel freno agli esborsi di denaro da parte
degli enti per l'acquisto del patrimonio immobiliare; circostanza, invece,
aliena alla fattispecie permutativa ove nessun versamento di denaro a titolo
di corrispettivo viene a sostanziarsi, bensì unicamente un trasferimento di
un bene in cambio di un altro bene. In questa prospettiva, infatti,
risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali
dell'ente, il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente
neutra e, conseguentemente, non regolata dal divieto.
Questa posizione interpretativa viene confermata dalla giurisprudenza sia
con riferimento alla permuta “pura”, ovvero al trasferimento
reciproco di immobili a parità di prezzo, sia relativamente alla permuta “spuria”,
cioè quando il valore del bene del privato risulti diverso da quello
pubblico da trasferire, nel particolare caso in cui il valore dell'immobile
di proprietà della pubblica amministrazione sia superiore a quello della
controparte privata, laddove i giudici veneti risolvono la necessità di
omogeneizzare il trasferimento incrociato con il correttivo della
compensazione a carico del privato (sotto forma –ad esempio– di opere
specifiche come la manutenzione degli immobili trasferiti o altri
interventi)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Veggiano (PD) ha formulato a questa Sezione
una richiesta di parere in merito all'ambito applicativo dell'art. 12 del
decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011.
Nel dettaglio, il Sindaco ha specificato che è intenzione
dell’Amministrazione Comunale individuare un magazzino con uffici da
destinare alla Protezione Civile Comunale. Anziché realizzare ex novo
tale magazzino, come originariamente indicato nel programma triennale dei
lavori pubblici, l’Amministrazione Comunale vorrebbe permutare un’area di
proprietà comunale con un lotto di proprietà privata con sovrastante un
fabbricato idoneo allo scopo.
Il Sindaco precisa che “il valore della permuta risulta positivo per
l’Amministrazione, essendo il valore dell’area comunale ben superiore al
valore del lotto con fabbricato proposto dal privato. La differenza tra i
due valori di stima sarà destinato esclusivamente ad opere per la
manutenzione stessa del fabbricato o per altre opere programmate”.
Il Sindaco chiede chiarimenti in merito all’applicazione dell’art. 12 del
decreto legge n. 98/2011 e precisa, comunque, che, nel caso di specie,
sussistono i presupposti dell’indispensabilità e indilazionabilità richiesti
dalla norma in questione.
...
Ciò nonostante, quanto al quesito prospettato, seppure è da considerarsi
apprezzabile lo sforzo dell’Amministrazione Comunale di Veggiano di
evidenziare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione, il
parere può essere reso solo ed esclusivamente in merito alla riconducibilità
dell’istituto giuridico della permuta ai vincoli di finanza pubblica di cui
all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011.
Lo stesso non può considerarsi ammissibile per la parte che inerisce il caso
concreto che interessa il Comune di Veggiano.
Venendo al merito, il quesito concerne la corretta applicazione dell'art. 12
del decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, e
successivamente modificato, secondo cui “a decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a
quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (…)
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l'indispensabilià e l'indilazionabilità attestate dal
responsabile del procedimento (…). La congruità del prezzo è attestata
dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette
operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto
alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente”.
La giurisprudenza contabile è più volte intervenuta sulla portata
dell’articolo in questione, precisando che la norma si
riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo frutto di
una contrattazione tra le parti con specifico riferimento al prezzo.
Viceversa, tale norma non si applica quando vi sia un procedimento
autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo, come nel
caso dell’esproprio.
La norma de qua si applica, pertanto, agli atti
posti in essere iure privatorum dalla Pubblica Amministrazione, in
cui la stessa acquisti tali beni e corrisponda per essi un prezzo a titolo
di corrispettivo.
Le considerazioni che precedono sono altresì funzionali alla soluzione del
quesito prospettato nella richiesta di parere, inerente all’applicabilità
delle suddette norme vincolistiche all’istituto della permuta.
E’ vero, infatti, che la permuta rientra nell’ambito degli
atti iure privatorum della Pubblica Amministrazione, ma è altrettanto
vero che non si può prescindere dall’interpretazione letterale della norma e
dalla sua ratio.
Sotto il profilo letterale, si sottolinea che, ai sensi dell’art. 1552 c.c.,
“la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento
della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro”.
Il comma 1-ter dell’art. 12 citato, invece, impone espressamente delle
limitazioni per quanto riguarda “le operazioni di acquisto di immobili”.
Ne deriva che possono considerarsi escluse dall’ambito
delle limitazioni di cui all’art. 12 le operazioni di permuta, non essendovi
alcun trasferimento di un bene dietro versamento di un corrispettivo.
Alla medesima conclusione dell’esclusione della
riconducibilità della permuta alla disposizione di cui all’art. 12, comma
11, del decreto legge n. 98/2011 si perviene se si indaga la ratio
della norma. Fine di tale disposizione è quello di limitare esborsi di
denaro per l’acquisto del patrimonio immobiliare. In caso di permuta,
invece, non v’è alcun versamento di denaro a titolo di corrispettivo, ma
unicamente un trasferimento di un bene in cambio di un altro bene.
Giova ricordare che questa Sezione ha più volte ribadito tali concetti,
seppur riferendosi alla permuta “pura”, ovverosia al trasferimento
reciproco di immobili a parità di prezzo (cfr. Corte dei conti - Sezione
Veneto n. 149/2013/PAR e Corte dei conti - Sezione Veneto n. 150/2013/PAR).
Ove, nei casi in cui non ci si trovi dinanzi ad una ipotesi di permuta c.d.
“pura”, in quanto il valore del lotto di un privato con annesso, o
meno, un fabbricato, risulti diverso dal valore del terreno o dell’immobile
da trasferire, possono, comunque, applicarsi i medesimi principi, seppur, a
seconda della circostanza concreta, con gli opportuni correttivi.
Infatti, in tutte le circostanze nelle quali il valore del bene di proprietà
della pubblica amministrazione sia superiore a quello del privato, in
permuta, appare necessario che l’operazione preveda forme di compensazione
rispetto al maggior valore del bene pubblico trasferito.
In tal senso, l’amministrazione pubblica avrebbe diritto di ottenere, in
aggiunta, anche opere specifiche (consistenti, a mero titolo
esemplificativo, nella manutenzione degli immobili trasferiti, piuttosto che
in altri interventi, ovviamente previsti o, eventualmente, da prevedersi
nell’ambito della programmazione delle opere pubbliche).
Alla luce di quanto sopra evidenziato, non vi sono ragioni
per ritenere che, sia i casi di permuta “pura”, sia quelli rientranti
nell’ambito delle fattispecie di permuta c.d. “spuria”, siano
riconducibili all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011. |
PATRIMONIO:
Il giudice amministrativo ha reiteratamente
chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di
immobili, prima della stipula del contratto, la posizione
del privato ha natura di interesse legittimo e che,
pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo.
---------------
La delibera del Consiglio Comunale con la
quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di
strada
e la vendita diretta
è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d.
827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di
Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza
del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il
quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi
entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da
pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali
e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41
ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa
privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre
alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di
approvazione del contratto
.
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12,
comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n.
127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere
alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in
deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n.
783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato
con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive
modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale
degli enti locali, fermi restando i principi generali
dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta
previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono
assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12,
comma 2).
Ne consegue che la più recente normativa non ha affrancato
l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti
che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da
prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene
pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e
adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare
concorrenti proposte di acquisto”.
---------------
... per l'annullamento:
- della determinazione del Responsabile del Settore Area
Tecnica del Comune di Solignano 05/06/2017, n. 79, reg. gen.
147, recante "Alienazione ex relitto stradale in località
Case Bertacca – esatta individuazione dell'estensione
dell'area oggetto di alienazione";
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente,
ivi compresa la nota del Responsabile del Settore Area
Tecnica del Comune di Solignano 19/07/2017, prot. n. 3857 e
la comunicazione e-mail 12/06/2017 a firma dello stesso
Responsabile;
...
Il ricorso è fondato.
Devono, tuttavia, preliminarmente, esaminarsi le eccezioni
proposte dalla controinteressata e dal Comune.
Con riguardo all’eccepita inammissibilità per difetto di
giurisdizione, si rileva che la sig.ra Le. non ha
attivato alcuna posizione di diritto soggettivo, ma ha
impugnato una delibera del Consiglio Comunale e una
determina dirigenziale, lamentando la lesione del proprio
interesse legittimo a partecipare alla mancata procedura di
evidenza pubblica per l’acquisto del relitto stradale, come
confermato anche nella diffida pervenuta il 14.06.2017
al Comune di Solignano e come reso evidente dalle censure
contenute in ricorso.
Gli atti impugnati sono provvedimenti amministrativi con i
quali l’amministrazione discrezionalmente dispone la
sdemanializzazione e la vendita dell’area sdemanializzata
alla sig.ra Bu., in relazione ai quali sono configurabili
solo posizioni di interesse legittimo rientranti, ai sensi
dell’art. 7 c.p.a., nella giurisdizione di questo giudice.
Il giudice amministrativo ha, peraltro, reiteratamente
chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di
immobili, prima della stipula del contratto, la posizione
del privato ha natura di interesse legittimo e che,
pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo (tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, n.
1781/2014).
L’eccezione va quindi respinta.
La difesa della controinteressata eccepisce poi la carenza
di interesse in capo alla ricorrente in quanto assume che la
stessa non sarebbe più in termini per impugnare una delibera
del 1992.
Anche tale eccezione è infondata.
La ricorrente utilizza, in quanto proprietaria di terreni
contigui all’area, il tratto stradale di cui si tratta, e
sebbene non possa contestarsi che la sua proprietà confina
con il relitto stradale, il Comune di Solignano non ha mai
comunicato alla medesima né ai suoi danti causa l’intenzione
di sdemanializzare la strada né tanto meno l’intenzione di
cederla alla vicina sig.ra Bu..
La presenza di possibili altri soggetti interessati
all’acquisto si evince dal Verbale della deliberazione del
Consiglio Comunale ove si legge che la vendita è
condizionata al mantenimento del diritto di passaggio per
gli aventi causa.
Eppure non vi è traccia nel testo del provvedimento della
tempestiva notificazione a nessuno dei soggetti
potenzialmente interessati al diritto di passaggio.
La necessità di notifiche o comunicazioni ai proprietari
vicini si ricava dalla disciplina di cui agli artt. 41 di
cui al RD 827/1924, come anche dall’art. 12, comma 2, della
legge 127/1997, ove si prevede che i Comuni e le Province
possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio
immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità
generale degli enti locali, fermi restando i principi
generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che
siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
La sig.ra Le., in quanto proprietaria di terreni
contigui all’area per la quale vi è controversia, come si
evince dalle planimetrie prodotte in giudizio, aveva
senz’altro titolo ad essere avvisata adeguatamente della
sdemanializzazione e della intenzione di alienare il bene,
con conseguente irrilevanza della pubblicazione della
delibera sul B.U.R.E.R. ai fini della decorrenza del termine
per l’impugnazione, atteso che detta forma di pubblicità non
appare adeguata per chi è facilmente identificabile come
soggetto interessato e senza considerare che l’atto a suo
tempo pubblicato non identificava la particella oggetto di
sdemanializzazione e cessione.
Pertanto, la ricorrente, avendo avuto piena conoscenza del
provvedimento lesivo solo a seguito dell’accesso, lo ha
tempestivamente impugnato.
Anche questa eccezione va quindi respinta, poiché infondata.
Nel merito il ricorso è fondato.
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione delle
norme in materia di amministrazione del patrimonio e di
contabilità dello Stato e degli enti pubblici ove prevedono
che la cessione di beni immobili di pubblica proprietà siano
preceduti da procedure di evidenza pubblica idoneamente
pubblicizzate che nel caso di specie non sono state
esperite, né l’Amministrazione ha motivato sulle ragioni per
le quali avrebbe derogato, ricorrendo all’affidamento
diretto alla sig.ra Bu. senza prima verificare l’esistenza
di controinteressati.
Il motivo è fondato.
La delibera n. 2 del 1992 del Consiglio Comunale con la
quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di
strada in località Casa Bertacca
e la vendita alla sig.ra Bu.
è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d.
827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di
Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza
del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il
quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi
entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da
pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali
e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41
ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa
privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre
alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di
approvazione del contratto (cfr. Tar Liguria n. 380/2008, ma
vedi anche Tar Napoli VII 5456/2015).
Atteso che nel caso di specie non ricorre alcuna delle
ipotesi che consentono la trattativa privata, il Comune
avrebbe dovuto far precedere la deliberazione del 1992
dall’esperimento di una procedura di evidenza pubblica.
Ciò non è avvenuto.
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12,
comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n.
127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere
alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in
deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n.
783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato
con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive
modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale
degli enti locali, fermi restando i principi generali
dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta
previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono
assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12,
comma 2).
Ne consegue che la più recente normativa non ha affrancato
l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti
che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da
prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene
pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e
adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare
concorrenti proposte di acquisto” che nel caso di specie
risultano totalmente omessi, con evidente compromissione
anche dell’interesse pubblico ad una maggiore entrata, ove
si fosse consentito a più di un soggetto di presentare una
offerta in una situazione nella quale la presenza di altri
confinanti era anche facilmente rilevabile, considerata la
modesta dimensione del reliquato stradale.
L’atto è poi affetto anche da difetto di istruttoria
laddove, pur nella consapevolezza di soggetti interessati al
diritto di passaggio, l’Amministrazione Comunale ha omesso
una verifica della situazione del reliquato stradale
mancando di identificare ed interpellare i proprietari
confinanti con il bene oggetto di sdemanializzazione, e poi
di alienazione, che potevano essere interessati
all’acquisto.
L’accoglimento della scrutinata censura contenuta nel primo
motivo di ricorso comporta l’annullamento della
Deliberazione del Consiglio Comunale del 07.02.1992 e
travolge anche la determina n. 79 del 05/06/2017, atto
meramente esecutivo che ha il suo indefettibile presupposto
nella deliberazione consiliare.
Ne consegue l’assorbimento delle altre censure a fronte
della necessità per il Comune di rinnovare tutti gli atti
qui impugnati per effetto dell’annullamento del
provvedimento presupposto del 1992.
In conclusione il ricorso va accolto e per l’effetto
annullata la deliberazione del 1992, con conseguente
caducazione della determina n. 79 del 2017, fatti salvi gli
ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 21.03.2018 n. 83 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Per
gli enti restano i paletti all'acquisto di immobili.
Per gli enti territoriali gli acquisti di immobili restano contingentati.
Lo ha chiarito la Corte dei conti Lombardia con il
parere 09.03.2018 n. 78, chiarendo nuovamente la portata applicativa
dall'art. 12 del dl 98/2011.
Tale disposizione, nel testo modificato dalla l. 228/2012, prevede che, a
decorrere dal 01.01.2014, le p.a. locali possano effettuare operazioni
di acquisto di immobili solo ove sussistano precise condizioni. In primo
luogo, occorre l'attestazione di indispensabilità e indilazionabilità
dell'acquisito da parte del responsabile del procedimento.
Inoltre, la
congruità del prezzo di acquisito deve essere attestata dall'Agenzia del
demanio, previo rimborso delle spese e fatto salvo quanto previsto dal
contratto di servizi stipulato ai sensi dell'art. 59 del dlgs 300/1999.
Infine, delle operazioni di acquisto deve essere data preventiva notizia,
con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito
internet istituzionale dell'ente.
Tale disciplina (che ha sostituito
l'ancora più restrittivo divieto di procedere a nuovi acquisiti previsto per
il 2013) è tuttora in vigore, per cui restano valide anche lo modalità attuative stabilite dal decreto del ministro dell'economia e delle finanze
14.02.2014 e le istruzioni operative sono state fornite con la
circolare della Ragioneria generale dello stato n. 19/2014.
In particolare,
l'art. 3 del citato dm dispone in ordine all'individuazione dei requisiti di
indispensabilità e indilazionabilità degli acquisti programmati, affinché la
relativa attestazione non sia generica, ma esponga le concrete motivazioni
poste a fondamento delle operazioni di acquisto. In merito al requisito
dell'indispensabilità, si chiarisce che lo stesso attiene all'assoluta
necessità di procedere all'acquisto di immobili in ragione di un obbligo
giuridico incombente all'amministrazione nel perseguimento delle proprie
finalità istituzionali, ovvero nel concorso a soddisfare interessi pubblici
generali meritevoli di intensa e specifica tutela (ad esempio, rispetto
delle norme vigenti in materia di tutela dell'ambiente, della sicurezza sui
luoghi di lavoro ecc.).
Quanto all'indilazionabilità, l'attestazione deve
comprovare che l'amministrazione si trova effettivamente nell'impossibilità
di differire l'acquisto, se non a rischio di compromettere il raggiungimento
degli obiettivi istituzionali o di incorrere in possibili sanzioni (articolo
ItaliaOggi del 20.03.2018).
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MASSIMA
Un ente locale, per procedere all’acquisizione di
beni immobili, deve dimostrare nel provvedimento di autorizzazione, salvo
che ricorrano una delle eccezioni previste dalla norma, l’esistenza dei
requisiti di “indispensabilità e indilazionabilità”, richiesti dall’art. 12,
comma 1-ter del d.l. n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011,
esplicitando puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base
dell’acquisto al patrimonio comunale ed evidenziando i vantaggi, anche
economici, derivanti da tale opzione. |
PATRIMONIO: Acquisto
di immobili solo se indispensabile e urgente.
Il via libera spetta all'agenzia del Territorio.
Per poter acquistare immobili, gli enti locali devono sempre verificare
l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti previsti dall'articolo 12,
comma 1-ter, del Dl 98/2011, con particolare riferimento alla
indispensabilità, indilazionabilità e congruità economica del prezzo.
Operazione, quest'ultima, che spetta all'agenzia del Territorio e non più a
quella del Demanio.
Lo affermano la sezione regionale di controllo per il
Piemonte della Corte dei conti con il
parere 02.03.2018 n. 26 e quella per
la Lombardia con il
parere 09.03.2018 n. 78.
Il primo caso
Nel caso esaminato dalla sezione Piemonte, il Comune ha avviato le procedure
per lo scioglimento di una Srl a capitale interamente pubblico, costituita
per la gestione dei parcheggi pubblici. Nominati i liquidatori, a seguito
della presentazione del bilancio finale di liquidazione, il Comune avrebbe
avuto intenzione di avere in assegnazione l'immobile adibito a parcheggio.
Ha chiesto alla sezione come regolarsi con l'articolo 12, comma 1-ter, del
Dl 98/2011 nel testo modificato dall'articolo 1, comma 138, della legge
228/2012, che consente agli enti territoriali di effettuare operazioni di
acquisto di immobili «solo ove ne siano comprovate documentalmente
l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del
procedimento». La congruità del prezzo è attestata dall'agenzia del Demanio,
previo rimborso delle spese.
Il secondo caso
Il caso esaminato dalla sezione Lombardia riguarda una convenzione per l'uso
di un'area di proprietà ecclesiastica finalizzata alla realizzazione di un
nuovo parcheggio a uso pubblico. La parrocchia proprietaria ha comunicato la
volontà di cedere le aree e pertanto il sindaco ha chiesto un parere circa
la possibilità di acquisto, previa acquisizione di perizia tecnica che ne
quantificasse il reale valore di mercato. Gli stringenti criteri del comma
1-ter si applicano anche nel caso di assegnazione dell'immobile ai soci a
seguito di scioglimento societario e in quello di cessione dell'area?
I vincoli
Nell'esprimere il parere, le due sezioni si trovano in perfetta sintonia,
escludendo qualsiasi deroga alla regola generale e attestando che le
disposizioni del comma 1-ter devono applicarsi a tutti gli acquisti di
immobili posti in essere successivamente al 1° gennaio 2014,
indipendentemente dalla natura dell'operazione di acquisto e dal tipo
contrattuale utilizzato.
I criteri devono, dunque, essere applicati anche nel caso di acquisizione di
un immobile a seguito dello scioglimento di una società partecipata, così
come in quello del terreno di proprietà parrocchiale, perché l'elemento di
distinzione per l'applicabilità della disciplina è dato dalla presenza di un
contratto in cui l'effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del
rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del
soggetto pubblico.
Per la valutazione dei requisiti della «indispensabilità e indilazionabilità»
è, quindi, necessario che il provvedimento di autorizzazione espliciti
puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base dell'acquisto al
patrimonio comunale, evidenziando in particolare i vantaggi, anche
economici, derivanti da tale opzione.
Pochi i casi in cui è possibile escludere la soggezione alla disciplina
limitativa: l'acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione
a scomputo, posto che l'acquisizione avviene a seguito di un contratto
assimilato all'appalto di lavori pubblici e non ad una compravendita;
l'acquisto di immobili effetto di un procedimento di espropriazione per
pubblica utilità; l'acquisizione di immobili aventi titolo nel contratto di
permuta e di transazione.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte
dell'Agenzia del demanio, i magistrati contabili rammentano che l'articolo
6, comma 1, della legge 158/2017 ha spostato la competenza in carico
all'Agenzia del territorio che, peraltro, a decorrere dal 01.12.2012,
è stata incorporata dall'Agenzia delle entrate
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.03.2018).
---------------
MASSIMA
L'art. 1, comma 138, legge n. 228/2012 è applicabile
a tutti gli acquisti di immobili posti in essere successivamente al
01.01.2014, indipendentemente dalla natura dell'"operazione di acquisto" (e,
quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal momento in cui quest'ultima
sia stata eventualmente deliberata dal competente organo (l'art. 42 TUEL
riserva la competenza al Consiglio - lett. L).
L'Amministrazione richiedente, prima di procedere alla realizzazione del
progetto dovrà verificare l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti
previsti dal comma 1-ter dell'articolo 12 del decreto-legge 06.07.2011, n.
98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111 ed in
particolare l'indispensabilità, l'indilazionabilità e la congruità economica
dell'operazione, con le specifiche modalità previste.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte
dell'Agenzia del Demanio (cfr. delibera di questa sezione di controllo n.
197/2017), l'articolo 6, comma 1, della Legge 06.10.2017, n. 158, ha
previsto che la suddetta valutazione, per i soli casi indicati, spetti
all'Agenzia del Territorio, e non più all'Agenzia del Demanio.
Sulla base del D.L. n. 95 del 06.07.2012, convertito in Legge n. 135 del
07.08.2012, l'Agenzia del Territorio, a decorrere dal 01.12.2012 è stata
incorporata dall'Agenzia delle Entrate (art. 23-quater). |
febbraio 2018 |
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PATRIMONIO: Responsabilità della PA per difetto di manutenzione della strada pubblica.
In tema di responsabilità da cose in custodia con riferimento alle strade,
il grado di diligenza che è preteso dall’utente della strada è direttamente
proporzionale all’evidenza ed all’entità delle sconnessioni o dei dissesti
percepibili.
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità
dell’insidia e della conseguente responsabilità della Pubblica
Amministrazione per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che
quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e
superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato,
tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento
imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere
possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto
ed evento dannoso
(TRIBUNALE di Lecce, sentenza 19.02.2018 n. 597 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO:
Acquisizione con pagamento rateale.
Domanda
Gli amministratori del mio Ente vorrebbero acquisire un
fabbricato già ultimato da destinare a sede della nuova
farmacia comunale che stiamo per aprire finanziandolo con
Avanzo, non abbiamo tuttavia a disposizione gli spazi
necessari sul Pareggio di Bilancio.
Si era pertanto valutato di procedere con un pagamento
rateale dello stesso (già concordato con l’attuale
proprietario) da iscrivere anche nell’atto di acquisto.
E’ corretto tale modo di procedere o si configura come
elusivo dei citati vincoli di finanza pubblica?
Risposta
Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dall’assunto
che non si palesa mai elusione laddove, a fronte di una
scelta dell’Ente legittima, si segue il corretto metodo di
contabilizzazione dell’operazione. Nel caso oggetto di
quesito, il problema non è tanto –come vedremo– l’elusione
del Pareggio di Bilancio, quanto i riflessi del principio
generale di “prevalenza della sostanza sulla forma”
sull’iscrizione in contabilità dell’operazione. Andiamo con
ordine e vediamo il perché.
Il principio contabile applicato 4/2 al punto 5.3.2, al fine
di garantire il rispetto del citato principio generale di
prevalenza della sostanza sulla forma, prevede che per
l’acquisizione di un investimento già realizzato con
pagamento frazionato negli esercizi successivi sia
necessario “registrare la spesa di investimento
imputandola interamente all’esercizio in cui il bene entra
nel patrimonio dell’ente“, provvedendo alla
registrazione contestuale:
a) del debito nei confronti del soggetto a favore del quale è
previsto il pagamento frazionato, imputato allo stesso
esercizio dell’investimento, provvedendo alla necessaria
regolarizzazione contabile;
b) dell’impegno per il rimborso del prestito, con imputazione agli
esercizi secondo le scadenze previste contrattualmente a
carico della parte corrente del bilancio.
Ovvero si dovrà trattare tale acquisizione come se avvenisse
all’atto del rogito con mutuo (compensando il mandato al
titolo 2 e la reversale al titolo 6 per l’importo rinviato
agli anni successivi), mentre si dovranno trattare le
successive rate di pagamento dell’atto come se si stesse
rimborsando la quota capitale del mutuo stesso (emettendo il
mandato a saldo del fornitore dal capitolo iscritto al
titolo 4).
Ai fini del rispetto del Pareggio di Bilancio, ciò determina
che non risultando rilevante l’Entrata da mutuo quanto non
lo era quella da Avanzo, di fatto non si ottiene nessun
vantaggio effettivo su tale fronte per l’Ente a gestire tale
operazione alle condizioni dettagliate nel quesito (05.02.2018
- link a www.publika.it). |
PATRIMONIO:
L'immobile scolastico.
DOMANDA:
Il nostro ente è proprietario del 30%
dell’immobile adibito a scuola secondaria di
1° grado con altri due comuni limitrofi, che
hanno rispettivamente la quota di proprietà
del 50% e del 20%.
L’Amministrazione Comunale intende
effettuare lavori di sistemazione dello
stabile per un importo di circa 1.000.000,00
di euro utilizzando gli spazi finanziari
sblocca scuola 2018, anche senza accordo o
contribuzione da parte degli altri due enti
che, anche per problemi di vincoli di
bilancio, non possono attualmente
partecipare alla spesa.
Si chiede quindi se tecnicamente e
contabilmente sia fattibile che il nostro
ente proceda autonomamente accollandosi
l’intero importo della spesa, a fronte di un
incremento del valore dell’immobile anche
per gli altri proprietari. In caso negativo
può essere fattibile procedere comunque
previo accordo tra gli stessi che esenti il
nostro ente dalla contribuzione delle future
spese di manutenzione straordinaria fino al
raggiungimento dell’importo anticipato per
conto degli altri comuni proprietari.
RISPOSTA:
Si ritiene che non sia legittimo che il
Comune in questione, proprietario in misura
pari al 30% della scuola, proceda a farsi
carico dell’intera spesa finalizzata a
realizzare un intervento volto a “sistemare
lo stabile” per un importo di 1 milione
di euro, senza avere sottoscritto un accordo
con gli altri enti proprietari della quota
restante; questo accordo, dovrebbe
prevedere, oltre alla autorizzazione a
procedere, anche la proporzionale
contribuzione al sostenimento della spesa.
Pertanto si ritiene che, per potere
procedere, sia necessario sottoscrivere tra
gli enti proprietari, una convenzione
adottata ai sensi dell’articolo 30 del Tuel.
Questa convenzione dovrà stabilire i
rapporti finanziari e i reciproci obblighi e
garanzie, che si verranno a stabilire tra
gli enti a seguito della realizzazione
dell’intervento in questione.
Si ritiene anche che sia possibile prevedere
che l’ente che realizza l’intervento sia
esentato dalle future spese di manutenzione
straordinarie, fino al raggiungimento
dell’importo anticipato dal Comune; in
proposito, si ritiene, però, che in questa
convenzione debba anche essere riportato un
credibile e realistico piano di futura
manutenzione straordinaria, in base al quale
sia possibile ipotizzare il recupero delle
somme anticipate dal Comune (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
dicembre 2017 |
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PATRIMONIO: OGGETTO:
Richiesta di installazione di un lampione di pubblica
illuminazione in strada extraurbana locale – obbligatorietà
– parere
(Legali Associati per Celva,
nota
29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di
Rhêmes-Notre-Dame ha ricevuto un’istanza volta a ottenere
dal Comune stesso l’installazione di un lampione di pubblica
illuminazione di fronte a un fabbricato posto ai margini di
un abitato isolato.
Riferimenti normativi: PRGC
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Non
accogliere la richiesta
Quesiti: Tenuto conto che si tratta di una località
di alta montagna dove il passaggio sia veicolare che
pedonale notturno è molto limitato se non quasi nullo, e di
una strada percorribile solo in periodo estivo, quando le
ore di luce sono maggiori;
- tenuto conto, altresì, del fatto che non vi sono in loco
attraversamenti pedonali, né imbocchi di strade pubbliche,
né ostacoli (cunette, scale, pali) sulla strada comunale;
- tenuto conto, infine, che il minimo inquinamento luminoso
ben si confà alla caratteristica del luogo;
con la presente si chiede se ci siano fondamenti normativi o
giurisprudenziali alla richiesta che pongano a carico
dell’Amministrazione l’obbligo di provvedere. |
novembre 2017 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO:
Sul potere di
autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del
Comune.
L'ordinanza sindacale, volta al recupero
di uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come
provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela
possessoria "iuris publici" perché diretta al ripristino
nell'interesse della collettività di uno stato di fatto
reputato preesistente, conseguendone la sussistenza della
giurisdizione amministrativa trattandosi di azione relativa
alla verifica della legittimità o meno del potere azionato.
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia
fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante
l'uso pubblico del terreno oggetto della presente
controversia (in particolare, la titolarità di una servitù
prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone
la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o
l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il
potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli
ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo
stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di
fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza
che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà
o di altro diritto reale.
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere
amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex
art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più
generale potere di autotutela possessoria di diritto
pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del
1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia
demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non
presuppone la titolarità di un diritto reale di uso
pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e
impedimenti al libero transito esercitato anche in via di
fatto dalla collettività.
Va ancora ricordato che sussiste il potere
dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al
libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e
quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista
una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del
pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore
motivazione.
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria
generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso
pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva
titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto
reale.
I poteri di autotutela iuris publici che discendono
dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato
F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non
presentano la medesima identità di ratio delle azioni di cui
dispone il privato e possono essere esercitati anche dopo
che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla turbativa;
l’autotutela esecutiva è espressione di un potere
autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di
fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la
situazione di disponibilità del bene in favore della
collettività.
---------------
Quanto alla questione della competenza
ad adottare il provvedimento, va ricordato che per
giurisprudenza costante, il generale potere di autotutela
del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune, di
cui all'art. 378 l. n. 2248 del 1865, all. F, spetta al
sindaco e non può ritenersi trasferito al dirigente con
l'entrata in vigore d.lgs. n. 267 del 2000.
Ciò sia in ragione della persistente vigenza della norma,
sia della riconducibilità del potere di tutela ivi previsto
alla funzione di ufficiale di governo del sindaco, le cui
competenze sono espressamente fatte salve dall'art. 107,
comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del 2000.
---------------
In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è
sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti
del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere,
si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti
successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere
dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione,
mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che,
pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito
di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti
di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo
oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi
competenti a provvedere o siano espressione di poteri
differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento
dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata
adottata alla stregua di presupposti in parte differenti
concretatisi medio tempore.
---------------
Sono inconferenti e comunque infondate le censure che
partono dal presupposto che il provvedimento impugnato sia
un’ordinanza contingibile e urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto,
trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e,
come è noto, il nomen iuris attribuito dall'Amministrazione
a un proprio atto o provvedimento non vincola il giudice
adito, che può riqualificarlo, occorrendo invero avere
riguardo alla struttura stessa dell'atto impugnato.
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento
amministrativo va individuata tenendo conto del suo
effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a
prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito
dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza
derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o
impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto
stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza.
---------------
Nel merito il ricorso è infondato per i motivi che di
seguito si espongono.
Intanto, è pacifica la giurisdizione del giudice
amministrativo, venendo in rilievo, in via principale, non
l'accertamento del diritto di proprietà o di altro diritto
reale, ma la legittimità di un provvedimento autoritativo
incidente su posizioni di interesse legittimo.
Va precisato che l'ordinanza sindacale, volta al recupero di
uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come
provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela
possessoria "iuris publici" perché diretta al
ripristino nell'interesse della collettività di uno stato di
fatto reputato preesistente, conseguendone la sussistenza
della giurisdizione amministrativa trattandosi di azione
relativa alla verifica della legittimità o meno del potere
azionato (cfr. Tar Campania, Salerno sez. II, 05.03.2013, n.
517).
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia
fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante
l'uso pubblico del terreno oggetto della presente
controversia (in particolare, la titolarità di una servitù
prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone
la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o
l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il
potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli
ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo
stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di
fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza
che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà
o di altro diritto reale (Tar Sicilia, Catania sez. I,
04.11.2015, n. 2552).
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere
amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex
art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più
generale potere di autotutela possessoria di diritto
pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del
1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia
demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non
presuppone la titolarità di un diritto reale di uso
pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e
impedimenti al libero transito esercitato anche in via di
fatto dalla collettività (Tar Lazio, Roma, sez. II,
17.10.2016, n. 10344).
Va ancora ricordato che sussiste il potere
dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al
libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e
quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista
una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del
pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore
motivazione (Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n.
3531).
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria
generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso
pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva
titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale
(cfr., sul principio generale, Cons. Stato, Sez. V, n. 6283
del 2013, Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n. 3531).
I poteri di autotutela iuris publici che discendono
dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato
F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non
presentano la medesima identità di ratio delle azioni
di cui dispone il privato e possono essere esercitati anche
dopo che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla
turbativa; l’autotutela esecutiva è espressione di un potere
autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di
fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la
situazione di disponibilità del bene in favore della
collettività (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.04.2015,
n. 2196).
Nel caso qui all’attenzione del Collegio, dall'esame della
documentazione versata in atti, emerge che prima della
collocazione delle transenne nel terreno in questione,
sussisteva l'uso pubblico dello stesso, dovendosi ritenere
sufficienti, per l'emanazione del provvedimento di
autotutela, le evidenze documentali (tra le altre si vedano
documenti nn. 9, 9-bis e 10 produzioni
dell’amministrazione), suffragate dall'accertamento dello
stato dei luoghi da parte di organi comunali.
In particolare, tutte le fotografie depositate
dall’amministrazione attestano che il terreno era
pacificamente già oggetto di transito veicolare e di
utilizzo pubblico.
Quanto alla questione della competenza ad adottare il
provvedimento, va ricordato che per giurisprudenza costante,
il generale potere di autotutela del demanio e del
patrimonio indisponibile del Comune, di cui all'art. 378 l.
n. 2248 del 1865, all. F, spetta al sindaco e non può
ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore
d.lgs. n. 267 del 2000; ciò sia in ragione della persistente
vigenza della norma, sia della riconducibilità del potere di
tutela ivi previsto alla funzione di ufficiale di governo
del sindaco, le cui competenze sono espressamente fatte
salve dall'art. 107, comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del
2000 (Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011, n. 3509).
In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è
sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti
del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere,
si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti
successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere
dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione,
mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che,
pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito
di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti
di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo
oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi
competenti a provvedere o siano espressione di poteri
differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento
dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata
adottata alla stregua di presupposti in parte differenti
concretatisi medio tempore (ex multis, Consiglio di
Stato, sez. II, 14.08.2015, n. 5261).
Va ancora precisato che sono inconferenti e comunque
infondate le censure che partono dal presupposto che il
provvedimento impugnato sia un’ordinanza contingibile e
urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto,
trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e,
come è noto, il nomen iuris attribuito
dall'Amministrazione a un proprio atto o provvedimento non
vincola il giudice adito, che può riqualificarlo, occorrendo
invero avere riguardo alla struttura stessa dell'atto
impugnato (ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. III,
23.02.2016, n. 2525).
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento
amministrativo va individuata tenendo conto del suo
effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a
prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito
dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza
derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o
impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto
stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza (in
questo senso, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd.,
03.09.2015, n. 581 e Cons. giust. amm. Sicilia, 14.05.2014
n. 282).
Il ricorso è in definitiva infondato e deve essere rigettato
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.11.2017 n. 679 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2017 |
|
PATRIMONIO:
Alienazione immobile comunale vendita con riserva di
proprietà.
I beni patrimoniali disponibili sono di
proprietà privata del comune e, come tali, soggetti alle
regole del diritto comune, eccetto la alienazione che deve
avvenire secondo criteri di trasparenza e pubblicità,
nell'ambito di un procedimento che garantisca un confronto
concorrenziale tra quanti possano essere interessati
all'acquisto del bene (L. n. 783/1908; L. n. 127/1997).
A queste regole soggiace anche l'istituto della vendita con
riserva di proprietà di cui all'art. 1523 c.c., che, se pur
disciplinata nel codice civile con riferimento alla vendita
dei beni mobili, viene estesa da certa giurisprudenza e
dottrina anche ai beni immobili.
Il Comune riferisce di aver dato in locazione un proprio
immobile (con contratto prossimo alla scadenza) e di aver
ricevuto da parte del conduttore proposta di acquisto
dell'immobile medesimo con patto di riservato dominio, ai
sensi dell'art. 1523 c.c., quindi mediante il pagamento del
prezzo a rate, con il trasferimento della proprietà al
momento del pagamento dell'ultima rata
[1]. Il Comune chiede
se possa procedere a detta forma di vendita.
Al fine della disamina del quesito, si ritiene di muovere
dai principi generali che regolano la gestione del
patrimonio immobiliare comunale, sia per quanto concerne
l'affidamento che per la vendita degli immobili comunali, di
interesse nel caso di specie.
Riguardo all'affidamento, la natura demaniale o patrimoniale
indisponibile dell'immobile determina l'applicazione dello
strumento pubblicistico della concessione amministrativa,
mentre per i beni del patrimonio disponibile l'attribuzione
in godimento a soggetti terzi deve essere effettuata secondo
gli schemi del diritto privato
[2].
La situazione rappresentata dall'Ente -di locazione di un
proprio immobile rispetto al quale il conduttore ha
manifestato la volontà di acquisto- lascia supporre
l'appartenenza del bene di cui si tratta al patrimonio
disponibile comunale.
A questo proposito, e venendo all'aspetto della vendita, va
detto che -come osserva la giurisprudenza- i beni
patrimoniali disponibili sono di proprietà privata del
comune e, come tali, soggetti alle regole del diritto
comune, eccetto la alienazione che deve avvenire secondo
modalità tali da garantire gli interessi pubblici con la
massima trasparenza ed imparzialità nella scelta del
contraente, attraverso le procedure dei pubblici incanti o
asta pubblica (L. n. 783/1908)
[3].
Peraltro, l'art. 12, c. 2, L. n. 127/1997, dispone che 'i
comuni e le province possono procedere alle alienazioni del
proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di
cui alla legge 24.12.1908, n. 783 [...]. A tal fine
sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell'ente
interessato'
[4]. A quest'ultimo riguardo, il Giudice
amministrativo ha precisato che 'è fatto obbligo alle
amministrazioni di assicurare idonei criteri di trasparenza
ed adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare
concorrenti proposte di acquisto, la cui determinazione non
può essere rimessa al libero arbitrio, ma ad una normazione
contenuta nel dedicato regolamento adottato dall'ente
interessato'
[5].
Posto il quadro normativo rappresentato, la vendita con
riserva di proprietà (art. 1523 c.c.) -che, a rigore, è
disciplinata nel Libro VI del codice civile, 'Delle
obbligazioni', Sezione II, 'Della vendita di cose mobili',
ma viene estesa da certa giurisprudenza e dottrina anche ai
beni immobili
[6]- potrà essere eventualmente attivata
dall'Ente secondo criteri di trasparenza e pubblicità,
nell'ambito di un procedimento che garantisca un confronto
concorrenziale tra quanti possano essere interessati
all'acquisto del bene
[7], anche tenuto conto delle modalità
di vendita interamente rese note nel bando, nella specie
della possibilità del pagamento rateale del prezzo, secondo
il meccanismo dell'art. 1523 c.c..
In ordine all'istituto della vendita con riserva di
proprietà, si evidenzia che la stessa si configura quale
vendita garantita dalla proprietà del bene: il venditore
concede un beneficio finanziario al compratore, in quanto
gli permette di pagare con una dilazione rateizzata; nel
contempo la riserva di proprietà assolve una funzione di
garanzia reale a favore del venditore, il quale, se non
viene pagato, può recuperare il bene, del quale ha
conservato la proprietà
[8].
Gli artt. 1525 e 1526 c.c. disciplinano l'inadempimento da
parte del compratore e la risoluzione del contratto; il
mancato pagamento di una sola rata dà luogo alla risoluzione
del contratto soltanto se questa rata supera l'ottava parte
del prezzo e l'eventuale patto contrario non ha effetto
(art. 1525 c.c.); inoltre, se il contratto è risolto per
inadempimento del compratore, questi ha diritto alla
restituzione delle rate pagate, salvo il diritto del
venditore ad un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al
risarcimento del danno. Qualora le parti abbiano pattuito
che le rate pagate prima della intervenuta risoluzione del
contratto rimangano acquisite al venditore a titolo di
indennità (per l'uso e il deprezzamento della cosa), il
giudice ha comunque il potere di ridurre l'indennità
stessa
[9].
---------------
[1] Si riporta il contenuto dell'art. 1523 c.c.: 'Nella
vendita a rate con riserva della proprietà, il compratore
acquista la proprietà della cosa col pagamento dell'ultima
rata di prezzo, ma assume i rischi dal momento della
consegna'.
[2] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4. La magistratura
contabile richiama, in questo senso, la giurisprudenza
uniforme di legittimità (tra le altre, Cass. civ. sez. III,
22.06.2004, n. 11608) e amministrativa (tra le altre,
Consiglio di Stato, Sez. V, 06.12.2007, n. 6265).
[3] Tar Catania, sez. III, 27.02.2009, n. 419; Tar
Milano, sez. IV, 13.03.2013, n. 677. Il Giudice
amministrativo osserva come, ai sensi della L. n. 783/1908,
in via del tutto eccezionale, qualora gli incanti siano
andati deserti e l'Amministrazione lo ritenga conveniente,
gli immobili possano essere venduti a trattativa privata,
alle condizioni ivi previste.
[4] Cfr. Tar Milano n. 677/2013 e Tar Catania n. 419/2009
citt..
[5] Cfr. Tar Catania n. 419/2009 cit., che ha annullato una
delibera comunale che aveva autorizzato la vendita diretta
di un'area senza gara ufficiosa, senza garantire una
adeguata pubblicità e trasparenza della procedura, in
contrasto con l'art. 12, L. n. 127/1997. Conforme, Tar
Milano n. 677/2013 cit., che ha annullato una delibera
comunale che aveva disposto la vendita a trattativa privata
di un immobile, mancando del tutto, da parte della p.a., la
predisposizione di adeguate forme di pubblicità e non
motivando, la delibera, in ordine alla sussistenza degli
eccezionali presupposti per ricorrere alla trattativa
privata diretta (in quel caso, peraltro, ritenuti non
sussistenti).
[6] In giurisprudenza, cfr.: Cass. civ. 03.04.1980, n.
2167, richiamata da Tribunale di Bari 02.05.2012, n.
1536; conforme: Tribunale di Vicenza, sez. II, 10.02.2011, n. 168.
In dottrina, cfr.: Paolo Cendon, Commentario al codice
civile, Volume 37, Giuffrè, 2008, p. 47.
Anche nella prassi, si registrano bandi di gara di
amministrazioni comunali per l'alienazione di beni immobili
mediante pubblico incanto, che prevedono la possibilità
della vendita con riserva di proprietà, ai sensi dell'art.
1523 c.c..
[7] Un tanto, anche qualora, ai sensi della normativa
vigente, venga in considerazione un diritto di prelazione in
favore del conduttore.
[8] Andrea Torrente e Piero Schlesinger, Manuale di diritto
privato, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 705 e 706.
[9] Si osserva che l'eventualità dell'inadempimento del
compratore potrebbe esporre l'Ente ai costi, in termini di
tempo e di spesa, per il recupero in sede giudiziale
dell'immobile e per il soddisfacimento dei diritti
risarcitori o di indennizzo spettanti (09.10.2017 -
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PATRIMONIO:
Disposizione testamentaria in favore del Comune. Adempimento
dell'onere apposto al legato.
Nel caso d'inadempimento dell'onere
testamentario, l'autorità giudiziaria può pronunciare la
risoluzione della disposizione testamentaria, se la
risoluzione è stata prevista dal testatore, o se
l'adempimento dell'onere ha costituito il solo motivo
determinante della disposizione.
Il mancato adempimento deve, inoltre, essere imputabile al
legatario inadempiente per dolo o colpa grave, in relazione
alla diligenza minima cui è tenuto l'onerato stesso.
Il Comune, avendo ricevuto un immobile a titolo di legato
testamentario, gravato da un onere, chiede un parere circa
le modalità di adempimento dello stesso.
Più in particolare, riferisce che, con disposizione
testamentaria, pubblicata nell'anno 1948, è stato disposto
in suo favore il legato di un immobile gravato dal seguente
modus: 'Al Comune di XX lascio il mio stabile sito in XX a
condizione che con le rendite analoghe, ricavate detto
Comune istituisca una borsa di studio, perpetua, per uno
studente disagiato, meritevole, iscritto al primo anno della
facoltà di legge presso una Università; frequenti
diligentemente i corsi universitari, sino ad ottenere la
laurea, entro i termini prefissi dalle analoghe disposizioni
universitarie e risieda in Comune XX'.
L'Amministrazione, pur avendo bandito con regolarità i bandi
per l'assegnazione di borse di studio rispettose delle
condizioni indicate dal testatore, è riuscita ad assegnare
nel tempo pochissime di esse tanto che, allo stato attuale,
nel bilancio dell'Ente esiste una cospicua somma risultante
dall'accumulo delle rendite non assegnate nel corso degli
anni pregressi.
Ciò premesso, l'Ente desidera sapere se possa destinare le
rendite accumulate per 'riconoscere annualmente dei premi
scolastici a studenti meritevoli che frequentino università
e scuole di ogni ordine e grado, residenti sul territorio
comunale, da erogare con priorità agli studenti di famiglie
disagiate' nonché per sostenere 'progetti che siano
riconducibili a servizi scolastici in senso lato (a titolo
esemplificativo e non esaustivo: ampliamento dei servizi
scolastici a domanda individuale, riduzione e/o abbattimento
delle tariffe per le famiglie meno abbienti, etc.)'. In
particolare, desidera sapere quali conseguenze potrebbero
scaturire da una tale decisione.
In via generale, si ricorda che non è compito degli Uffici
regionali esprimersi circa la legittimità o meno degli atti
comunali, attesa l'avvenuta abrogazione del regime del
controllo sugli atti degli enti locali a far data dalla
riforma del titolo V della Costituzione operata dalla legge
costituzionale 18.10.2001, n. 3. Di seguito, pertanto,
si forniranno una serie di considerazioni giuridiche
generali relative agli istituti giuridici afferenti la
situazione sopra descritta.
Il legato è una disposizione testamentaria a titolo
particolare in base alla quale un soggetto (legatario)
succede in uno o più rapporti determinati. Ai sensi
dell'articolo 647 c.c. 'Tanto all'istituzione di erede
quanto al legato può essere apposto un onere'. Il modus
(modo), o onere, viene definito come un peso che il
gratificato di una liberalità subisce per volontà dello
stesso soggetto che fece l'attribuzione. [1]
Con specifico riferimento all'adempimento/inadempimento
dell'onere soccorre il disposto di cui all'articolo 648 c.c.
il quale, al primo comma, recita: 'Per l'adempimento
dell'onere può agire qualsiasi interessato.'. Il secondo
comma dispone, poi, che: 'Nel caso d'inadempimento
dell'onere, l'autorità giudiziaria può pronunziare la
risoluzione della disposizione testamentaria, se la
risoluzione è stata prevista dal testatore, o se
l'adempimento dell'onere ha costituito il solo motivo
determinante della disposizione'.
In via preliminare, si rileva che solo l'autorità
giudiziaria, eventualmente investita della questione con
un'apposita azione di adempimento o di risoluzione, può
stabilire se la destinazione da parte del Comune delle
rendite già maturate per finalità assimilabili (e non
coincidenti) a quelle oggetto dell'onere testamentario
costituisca o meno attuazione della volontà
testamentaria. [2]
A ciò si aggiunga la considerazione che, come risulta
dall'analisi del secondo comma dell'articolo 648 c.c., la
risoluzione della disposizione testamentaria può essere
pronunciata dal giudice se la risoluzione è stata prevista
dal testatore (ipotesi non relativa al caso in esame), o se
l'adempimento dell'onere ha costituito il solo motivo
determinante della disposizione. Circa tale ultima
fattispecie la giurisprudenza, benché datata, ha rilevato
che: 'Tale risoluzione richiede un congruo apprezzamento
delle circostanze in cui l'inadempimento si verifica in
relazione alla volontà del testatore, a differenza di quanto
avviene per la condizione, il cui verificarsi fa perdere
efficacia alla disposizione' [3].
Ancora, è stato affermato che: 'Alla risoluzione della
disposizione testamentaria domandata dall'erede nei
confronti del legatario (o del coerede) inadempiente
all'eventuale modus apposto dal testatore (espressamente
qualificata in termini di risoluzione per inadempimento
dall'art. 648 c.c.), devono ritenersi applicabili le norme
che disciplinano il rimedio previsto, in via generale, dagli
art. 1453 ss. c.c. per la mancata esecuzione di
obbligazioni, con particolare riferimento sia
all'importanza, sia all'imputabilità del fatto oggettivo del
mancato adempimento, imputabilità che, trattandosi di
prestazione a titolo gratuito, deve configurarsi
necessariamente secondo le forme del dolo o della colpa
grave, in relazione alla diligenza minima cui è tenuto
l'onerato.'.
Da ultimo si consideri, altresì, quanto affermato dalla
Cassazione civile nella sentenza del 26.07.2005, n.
15599 la quale recita: «In tema di legato modale
l'adempimento dell'onere non si configura come condizione
sospensiva dell'efficacia della disposizione testamentaria
del "de cuius" in favore dell'onerato e la relativa azione
di adempimento, come quella di risoluzione del legato,
presuppone, come per ogni altra azione, la prova di un
concreto interesse all'adempimento o, nell'ipotesi di
inadempimento, alla risoluzione della stessa disposizione
testamentaria. In ogni caso, l'inadempimento non determina,
di per sé, la perdita del legato se non sia richiesta e
pronunciata la risoluzione, in presenza degli altri
requisiti previsti dall'art. 648 cod. civ.».
Le considerazioni che precedono devono, altresì, tenere in
debita considerazione il fatto che l'azione di
risoluzione/adempimento della disposizione modale è soggetta
all'ordinario termine prescrizionale decennale, decorrente
dal momento in cui il diritto poteva essere esercitato.
[4]
Segue che, in applicazione dei principi sopra espressi,
l'eventuale utilizzo, da parte del Comune, delle rendite
pregresse, maturate nell'ultimo decennio, per finalità solo
assimilabili a quelle oggetto dell'onere testamentario
potrebbe, in linea teorica, legittimare la richiesta, da
parte dei soggetti a ciò legittimati, [5] di risoluzione
della disposizione testamentaria in riferimento.
Tuttavia, nel ribadire che solo un giudice concretamente
investito della questione potrebbe valutare la sussistenza o
meno di tutti i requisiti richiesti dalla normativa in
essere per un'eventuale pronuncia di risoluzione, ad avviso
di chi scrive non sembrerebbero ricorrere, con riferimento
alla fattispecie descritta, i presupposti legittimanti la
dichiarazione di risoluzione della disposizione
testamentaria. In particolare, ciò che pare mancare è
l'imputabilità dell'inadempimento al Comune per dolo o colpa
grave, avendo questi bandito con regolarità le borse di
studio nel rispetto della volontà testamentaria.
[6]
Quanto, invece, alle rendite relative al periodo antecedente
all'ultimo decennio, essendosi ormai prescritta l'azione di
risoluzione, le stesse possono considerarsi ormai acquisite
al patrimonio comunale senza vincolo di destinazione.
----------------
[1] Così, D. Prosciutto, 'Modus contrattuale', in
AltalexPedia, 2016.
[2] Così, a titolo di esempio, si riporta una sentenza della
Corte d'Appello di Napoli (dell'08.04.2005) la quale ha
stabilito che: 'L'onere apposto ad un legato testamentario a
favore di una istituzione di assistenza e beneficenza, e
consistente nella destinazione di un immobile a nosocomio a
beneficio dei poveri preferibilmente residenti in un dato
Comune è adempiuto anche se l'immobile in oggetto, venga
destinato essenzialmente a gerontocomio, fornendo però
comunque una pur minimale assistenza medica a persone
anziane, afflitte da malattie croniche'.
[3] Cassazione civile, Sez. Unite, sentenza dell'08.03.1958, n. 795.
[4] In questo senso si è espresso il Tribunale di Bari, sez.
II, con la sentenza del 01.06.2016 ove si afferma che:
'Il legato modale è un onere testamentario relativamente al
quale l'inadempimento dell'onere, ove pur avente rilevanza
risolutoria, per volontà del testatore, non determina la
risoluzione ope legis della disposizione testamentaria
modale, ma costituisce il presupposto per la pronunzia
risolutoria del Giudice che ha natura di sentenza
costitutiva con efficacia ex nunc. Ne consegue che l'azione
volta alla risoluzione della disposizione modale è soggetta
all'ordinario termine prescrizionale decennale, decorrente
dal momento in cui il diritto poteva essere esercitato.'.
[5] A tale riguardo la giurisprudenza ha affermato che: «In
tema di legato modale, l'inadempimento del "modus" ad opera
del legatario legittima il beneficiario, al pari dei
prossimi congiunti, ancorché eredi, a proporre, oltre
all'azione di adempimento, quella di risoluzione, ex art.
648, comma 2, c.c., avendo egli interesse, ove sia anche
erede, a conseguire il vantaggio patrimoniale derivante
dalla restituzione della "res" e, in ogni caso, a soddisfare
le esigenze morali perseguite dal "de cuius", rimaste
irrealizzate a causa dell'inadempimento dell'onerato.»
(Cassazione civile, sez. II, sentenza del 07.03.2016, n.
4444).
[6] Per completezza espositiva, si osserva che nel caso,
astrattamente ipotizzabile, in cui fosse esperita
vittoriosamente un'azione di risoluzione della disposizione
testamentaria il Comune perderebbe la proprietà
dell'immobile ricevuto con conseguente danno erariale
connesso ad una tale perdita (05.10.2017 - link a
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settembre 2017 |
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PATRIMONIO:
Competenza manutenzione strada vicinale ricadente nel
territorio di un consorzio di bonifica.
In merito alla manutenzione delle strade
vicinali di uso pubblico, si osserva che l'art. 14 della l.
126/1958 prevede la costituzione di un consorzio tra tutti
coloro che, in base ad un concreto accertamento di fatto,
traggono maggiore giovamento dall'utilizzo della strada. I
partecipanti a tale consorzio sono chiamati a concorrere
alle spese di manutenzione della strada insieme al Comune
territorialmente competente.
Il Comune, che 'condivide' alcuni tratti stradali con un
consorzio di bonifica in virtù della presenza di numerosi
canali irrigui sul proprio territorio, chiede un parere in
merito a quale sia, tra i due, l'ente competente alla
manutenzione di una di tali vie di comunicazione, che corre
vicino ad uno di questi canali, il cui cattivo stato di
conservazione potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza
dei cittadini che la percorrono.
Sentita la titolare di P.O. per il coordinamento degli
interventi di viabilità regionale e sicurezza stradale della
Direzione centrale infrastrutture e territorio ed il
titolare di P.O. per la programmazione ed attuazione delle
attività connesse alla realizzazione delle opere pubbliche
di bonifica ed irrigazione mediante l'istituto della
delegazione amministrativa intersoggettiva ai consorzi di
bonifica della Direzione centrale risorse agricole,
forestali e ittiche, si formulano le seguenti
considerazioni.
La manutenzione di una strada compete, in via generale, al
soggetto giuridico che ne è proprietario. L'art. 14, comma
1, del Codice della strada prevede, infatti, che: 'Gli enti
proprietari delle strade, allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a)
alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature,
impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza
delle strade e relative pertinenze; c) alla apposizione e
manutenzione della segnaletica prescritta'. Il Codice della
strada, all'art. 2, comma 5, distingue, per tali finalità,
le strade di proprietà pubblica in statali, regionali,
provinciali e comunali.
Diversa è la disciplina per le strade private. Sono private
le vie cosiddette agrarie o vicinali private costituite da
passaggi in comunione incidentale tra i proprietari dei
fondi latistanti serviti da quei medesimi passaggi
[1].
Tali strade assumono carattere pubblico qualora adducano a
luoghi pubblici di interesse generale e vengano utilizzate
abitualmente dalla generalità dei cittadini
[2]. In tal caso,
tali vie vengono assimilate alle strade comunali, così come
previsto dall'art. 2, comma 7, del Codice della strada
[3].
Il Comune è tenuto a concorrere alla spese di manutenzione
delle stesse, potendo promuovere d'ufficio la costituzione
di un consorzio obbligatorio fra i proprietari ed
esercitando su tali strade i poteri di tutela ex Codice
della strada, come previsto dall' art. 14 della legge 12.02.1958, n. 126
[4].
Venendo ora alla normativa in materia di consorzi di
bonifica, si osserva che la legge regionale di riferimento è
la n. 28 del 29.10.2002 (Norme in materia di bonifica e
di ordinamento dei Consorzi di bonifica [...]). L'art. 2
della medesima legge definisce tali consorzi quali 'enti
pubblici economici non commerciali' che 'svolgono la loro
attività entro i limiti consentiti dalla legge e dai
rispettivi statuti'. Il successivo art. 4, comma 1, lett.
h), prevede che a tali consorzi 'possono essere delegati la
progettazione, esecuzione, esercizio, vigilanza e
manutenzione' 'di strade interpoderali e vicinali'.
Per quanto riguarda la disciplina specifica che si è dato il
Consorzio de quo, si osserva che il suo statuto
sostanzialmente ripropone, all'art. 2, quanto previsto dalla
citata legge regionale relativamente alle finalità ed alle
funzioni, stabilendo, tra l'altro, che l'ente, nell'ambito
delle proprie attribuzioni e del proprio comprensorio,
provvede alla 'sistemazione e manutenzione delle strade
interpoderali e vicinali'.
Il regolamento del Consorzio è, invece, più preciso per
quanto riguarda la manutenzione delle opere di bonifica e
delle loro pertinenze. Di particolare interesse è l'art. 8
che testualmente recita: 'Gli argini dei canali consorziati
di bonifica servono, di massima, solo per il contenimento
delle acque e sono perciò mantenuti dal Consorzio. Per
quelli che hanno acquistato od acquistino il carattere di
strada pubblica o privata, il mantenimento spetta agli Enti
ed ai proprietari interessati'.
Occorre viceversa rilevare che il quesito del Comune
contiene una terminologia atecnica che non agevola
l'interprete: infatti non è chiaro il significato della
'condivisione' di tratti stradali fra Comune e Consorzio e
manca qualsiasi riferimento alle tipologie stradali
contemplate dal Codice della strada.
Dalla normativa applicabile, sopra brevemente esposta, e
dalle considerazioni riportate in merito alle
caratteristiche della strada di interesse del Comune, si
ritiene che andrebbe in primo luogo verificata, in concreto,
la sussistenza delle condizioni necessarie alla riconduzione
della stessa alle 'strade vicinali pubbliche' al cui
verificarsi, come è stato detto, il comune è tenuto a
concorrere nelle spese di manutenzione, insieme agli utenti
di dette vie, all'interno di un consorzio appositamente
costituito
[5].
Per quanto riguarda la misura della contribuzione, si
riporta quanto espresso nella deliberazione n. 240/2008
della Sezione regionale del Veneto della Corte dei conti:
'per le strade vicinali di uso pubblico, il comune è tenuto
(art. 3 del D.L.Lgt. 01/09/1918 n. 1446) a concorrere alle
spese di manutenzione, sistemazione e ricostruzione in
misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, a
seconda della loro importanza [...] Tali limiti di
compartecipazione sono inderogabili, in quanto il
legislatore con tale disciplina, tenendo conto dello
speciale regime giuridico di tali strade, ha già
contemperato a monte gli interessi pubblici e privati in
gioco, demandando ai comuni solo la possibilità di scegliere
in concreto l'ammontare della contribuzione all'interno dei
limiti minimi e massimi consentiti'.
Il Consorzio di bonifica, nonostante quanto previsto dal
proprio regolamento interno, potrebbe pure, in tale
contesto, essere chiamato a concorrere, pro quota, alla
partecipazione delle spese nella misura in cui sia un
utilizzatore di tale strada. Come precisato, infatti, dal
TAR del Friuli Venezia Giulia
[6], tra i c.d. utenti
chiamati a consorziarsi ed a partecipare alle spese di
manutenzione della strada vicinale pubblica, sono da
annoverare tutti coloro che, in base a un concreto
accertamento di fatto, presuntivamente ritraggono
dall'utilizzo della strada un effettivo e concreto
giovamento in misura e con modalità nettamente differenziate
rispetto a tutti gli altri che pure ne fanno uso
---------------
[1] Cfr. Tribunale Chieti, sentenza 15.10.2009, n. 748:
"La via agraria, cioè la strada privata che i proprietari
dei fondi latistanti aprono e mantengono per transitarvi
secondo le esigenze della coltivazione, viene formata
mediante conferimento di suolo (cd. "collatio agrorum
privatorum") o di altro apporto dei vari proprietari, in
modo da fondare una comunione ("communio incidens"), per la
quale il godimento della strada non è "iure servitutis" ma
"iure proprietatis" e, pur avendo di regola, fondi
fronteggianti, può essere utilizzata, in relazione alla
necessità del tracciato, da più fondi in consecuzione, fermo
restando il principio che essa possa servire a tutti i
proprietari dei fondi in tutte le direzioni, onde ciascuno
ne abbia per tutta la sua lunghezza la proprietà "pro
indiviso".
[2] Più precisamente, la Giurisprudenza (Cassazione civile,
sez. VI sentenza 22.03.2017, n. 7242, Cassazione civile,
sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 354; TAR
Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 09.01.2008, n. 48;
TAR Marche, Ancona, sez. I, sentenza del 10.10.2007,
n. 1595) ha precisato che la natura pubblica della strada
dipende dalla coesistenza effettiva delle tre condizioni di
seguito indicate: 1. il passaggio esercitato iure servitutis
pubblicae, da una collettività di persone qualificate
dall'appartenenza ad un gruppo territoriale; 2. la concreta
idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere
generale, anche per il collegamento con la pubblica via; 3.
un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di
uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione
dell'uso da tempo immemorabile.
[3] Art. 2, comma 7, del Codice della strada: 'Le strade
urbane di cui al comma 2, lettere D e F, sono sempre
comunali quando siano situate nell'interno dei centri
abitati, eccettuati i tratti interni di strade statali,
regionali o provinciali che attraversano centri abitati con
popolazione non superiore a diecimila abitanti. Sono
comunali anche le strade che congiungono il capoluogo del
comune con le sue frazioni o le frazioni tra loro, ovvero
che congiungono il capoluogo con la stazione ferroviaria,
tramviaria o automobilistica, con un aeroporto o porto
marittimo, lacuale o fluviale, interporti o nodi di scambio
intermodale o con le località che sono sede di essenziali
servizi interessanti la collettività comunale. Ai fini del
presente codice le "strade vicinali" sono assimilate alle
strade comunali'.
[4] Art. 14 (Consorzi per le strade vicinali di uso
pubblico) della l. 126/1958: 'La costituzione dei consorzi
previsti dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446, per la manutenzione, sistemazione e
ricostruzione delle strade vicinali di uso pubblico, anche
se rientranti nei comprensori di bonifica, è obbligatoria.
In assenza di iniziativa da parte degli utenti o del Comune,
alla costituzione del consorzio provvede di ufficio il
prefetto'.
[5] V. TAR Lombardia Milano Sez. III, sentenza 11.03.2016, n. 507: 'La destinazione delle strade vicinali "ad uso
pubblico", imposta dal codice della strada di cui al D.Lgs.
n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste
debbano necessariamente essere interessate da un transito
generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà
privata del sedime stradale e dei relativi accessori e
pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti),
l'ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi
dell'art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con
correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione
della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di
gestione ai sensi dell'art. 3 D.Lgs.Lgt. n. 1446/1918,
"Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in
Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse"),
onde garantire la sicurezza della circolazione che su di
essa si realizza'.
[6] TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 24.07.1989,
n. 277 (27.09.2017 - link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
La conoscenza da parte dell’utente dello stato di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei
sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse
alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo
che si accerti la concreta possibilità per l’utente
danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria
diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto
che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte
del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima
incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere
il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e
l’evento dannoso (nella specie, relativa ad un sinistro
provocato da una buca, l’utente era a conoscenza della
presenza del pericolo e avrebbe potuto evitarlo)
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 26.09.2017 n. 22419 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
--------------
ORDINANZA
Il ricorso -con il quale si censura, in sostanza, la violazione
dell'art. 2051 cod. civ. e l'omesso esame di un fatto
decisivo- è inammissibile.
La decisione è conforme all' orientamento di questa corte
secondo cui l'ente proprietario d'una strada aperta al
pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2051 cod. civ.,
per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a
situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la
concreta possibilità per l'utente danneggiato di percepire o
prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di
pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto
che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l'adozione di normali cautele da parte
del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima
incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere
il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e
l'evento dannoso (Sez. 3, Sentenza n. 23919 del 22/10/2013,
Rv. 629108; nella specie, la Corte ha ritenuto non operante
la presunzione di responsabilità a carico dell'ente ex art.
2051 cod. civ., in un caso di sinistro stradale causato da
una buca presente sul manto stradale, atteso che il
conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle
buche, per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo
ad evitarle).
Nella specie i giudici di merito hanno accertato che la Re.
conosceva l'esistenza della buca e, in generale, lo stato di
cattiva manutenzione della strada in cui si è verificato il
sinistro. Pertanto, l'ordinaria diligenza avrebbe dovuto
sconsigliare alla ricorrente di uscire di notte, in
condizioni di scarsa visibilità, per far passeggiare il cane
proprio in quel punto. Tale condotta è idonea a interrompere
il nesso eziologico fra la condotta attribuibile al Comune
di Scandicci e il danno patito dalla Renna. In conclusione,
il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese
del giudizio di legittimità vanno poste a carico del
ricorrente, ai sensi dell'art. 385, comma primo, cod. proc.
civ., nella misura indicata nel dispositivo. |
ENTI
LOCALI - LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Contributi
a favore degli enti locali per l’incremento delle dotazioni
di piccola entità per la protezione civile (d.g.r.
7051/2017) – Procedura per l’accesso al contributo e
modulistica" (decreto
D.U.O. 15.09.2017 n. 11138). |
PATRIMONIO: La
possibilità di prevedere la situazione di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più
questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di
normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della
vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il
nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Parma, Sez. I, sentenza 04.09.2017 n. 1217 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
luglio 2017 |
|
PATRIMONIO:
Acquisto terreni.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011,
introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo
modificato dall'art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017,
stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all'acquisto
di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a
comprovarne l'indispensabilità e l'indilazionabilità,
nell'ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori
rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
La giurisprudenza contabile tende ad escludere
dall'applicazione del comma 1-ter le procedure
espropriative, caratterizzate dal fatto che è riconosciuto
al proprietario non un prezzo di acquisto ma un indennizzo,
e al cui interno trovano comunque adeguata considerazione le
prerogative del comma 1-ter.
L'art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall'art.
11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui
all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'art. 1,
c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali
del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Il Comune riferisce di aver concluso nel 2015 la
realizzazione di una pista forestale, per cui ha avuto un
finanziamento in parte regionale e in parte comunale (mutuo)
e avendo ottenuto preventivamente dai proprietari dei
terreni interessati la disponibilità alla cessione dei
medesimi, per il corrispettivo pattuito, mediante accordo
bonario del 2008, ratificato dal Consiglio comunale nel
2014.
L'Ente chiede, dunque, al fine di regolarizzare la
pratica, se può procedere all'acquisto dei terreni già
previsto nell'accordo bonario del 2008, tenuto conto dei
vigenti limiti previsti dall'art. 12, c. 1-ter, D.L. n.
98/2011, e della giurisprudenza in proposito o, in caso
contrario, se possa sanare l'intervento acquisendo l'area
secondo le norme di interesse contenute nel Testo unico
sulle espropriazioni
[1].
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale si esprime quanto segue.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato
dall'art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere
dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di
stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del
Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. Le disposizioni
di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali
che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a
valere su risorse stanziate con apposita delibera del
Comitato interministeriale per la programmazione economica o
cofinanziate dall'Unione europea ovvero dallo Stato o dalle
regioni e finalizzate all'acquisto degli immobili stessi. La
congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
previo rimborso delle spese.
Sul piano dell'ordinamento regionale, l'art. 11, c. 11, L.R.
n. 5/2013, come novellato dall'art. 11, c. 5, L.R. n.
6/2013, prevede che le disposizioni di cui all'art. 12, D.L.
n. 98/2011, come modificato dall'articolo 1, comma 138,
della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali
della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Avuto riguardo a quest'ultima previsione regionale, l'Ente
potrà innanzitutto verificare se nei decreti di assegnazione
dei fondi regionali di finanziamento vi sia la specifica
previsione delle somme a disposizione per l'acquisizione dei
terreni interessati dalla pista forestale. In tal caso,
infatti, le operazioni di acquisto saranno possibili ai
sensi di detta norma regionale.
Se così non fosse, in relazione alle ipotesi prospettate
dall'Ente di acquistare i terreni secondo l'accordo bonario
con i rispettivi proprietari ratificato con atto consiliare
nel 2014, oppure di sanare l'intervento acquisendo l'area
secondo la disciplina di interesse contenuta nel Testo unico
sulle espropriazione, si esprimono le seguenti
considerazioni, con la precisazione che l'aspetto
dell'acquisizione sanante ai sensi del D.P.R. n. 327/2001
verrà trattato in generale sotto il profilo della
riconducibilità dell'espropriazione per pubblica utilità
nell'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente, avuto
riguardo alla giurisprudenza formatasi sul punto. Ulteriori
considerazioni puntuali sul punto potranno essere espresse,
per quanto di competenza, dal Servizio lavori pubblici,
infrastrutture di trasporto e comunicazione, che legge per
conoscenza, qualora lo riterrà opportuno.
Le acquisizioni di immobili da parte delle pp.aa. a mezzo
procedura espropriativa o in quanto programmate da delibere
dei competenti organi comunali sono state poste dal
legislatore come fattispecie derogatorie alla previgente
norma di divieto di acquisto di immobili, di cui al comma
1-quater dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011, valida per l'anno
2013.
Con l'art. 10-bis del D.L. 08.04.2013, n. 35, inserito
dalla legge di conversione 06.06.2013, n. 64, il
legislatore ha, infatti, dettato una norma di
interpretazione autentica dell'art. 12, c. 1-quater, D.L. n.
98/2011, escludendo dal divieto di acquisto ivi previsto,
tra l'altro, le 'procedure relative all'acquisto a titolo
oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica
utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché
[...] alle operazioni di acquisto programmate da delibere
assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi
degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi
immobiliari oggetto delle operazioni [...]'.
Visto che l'atto consiliare dell'Ente di ratifica
dell'accordo bonario risulta avvenuto nel 2014 e dunque
successivamente alla data del 31.12.2012 prevista
dalla norma di interpretazione autentica, la possibilità di
estendere le fattispecie di salvezza ivi previste anche alla
disposizione dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, è
circoscritta alla sola ipotesi derogatoria della procedura
espropriativa.
In proposito, si sono espresse alcune Sezioni regionali
della Corte dei conti nel senso di escludere dette procedure
espropriative dall'ambito di applicazione del comma 1-ter
vigente.
La Corte dei conti Lombardia, sulla scia delle Sezioni
regionali per il Veneto e per la Puglia, ha espresso
l'avviso per cui la formulazione del comma 1-ter disciplina
le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un
prezzo di acquisto, e quindi i soli acquisti iure privatorum,
ove le pp.aa. agiscono al pari dei soggetti privati, mentre
non si applica alle procedure espropriative per pubblica
utilità, ove è riconosciuto al proprietario non un prezzo di
acquisto ma un indennizzo, che non può rappresentare un
corrispettivo.
Questo, peraltro, non significa -afferma la
Sezione lombarda- che all'interno del procedimento
espropriativo non trovino adeguata considerazione le
prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la
necessità di comprovare l'indispensabilità e la non
dilazionabilità dell'operazione, nell'ottica di conseguire
risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal
patto di stabilità interno. Ed infatti, attraverso la
dichiarazione di pubblica utilità, l'autorità espropriante è
tenuta a ponderare e confrontare gli interessi coinvolti e
le prerogative di cui sono portatori i soggetti del
procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i
vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal
fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai
principi di economicità ed efficienza, oltre che di
pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2)
[2].
Peraltro, per completezza espositiva, va segnalato anche
l'orientamento della Corte dei conti Piemonte, la quale,
successivamente alla norma di interpretazione autentica del
comma 1-quater recata dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013,
osserva che per quanto riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere state identificate eccezioni, alle
condizioni ivi indicate, in sede d'interpretazione
autentica
[3].
---------------
[1] D.P.R. 08.06.2001 n. 327, recante: 'Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità (Testo A)'.
[2] Corte dei conti Lombardia 05.03.2014, n. 97, che
richiama Corte dei conti Veneto 12.06.2013, n. 148 e
Corte dei conti Puglia, deliberazione 03.05.2013, n. 89.
Per la Sezione pugliese, l'estensione delle limitazioni
all'acquisto di beni immobili di cui al comma 1-ter anche
alle procedure espropriative si tradurrebbe nel divieto di
avviare o proseguire procedimenti di espropriazione per
pubblica utilità in assenza di un'espressa disposizione
legislativa ed in contrasto con l'art. 42, comma 3, della
Costituzione recante, invece, il fondamento della potestà
espropriativa della pubblica amministrazione. (Secondo il
dettato dell'art. 42, c. 3, Cost., la proprietà privata può
essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo,
espropriata per motivi di interesse generale).
La tesi dell'esclusione delle procedure espropriative dalla
soggezione alla disciplina del comma 1-ter è confermata da
Corte dei conti Lombardia, 24.09.2015, n. 310.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402. Ed invero, nel caso sottoposto al suo esame,
la Corte dei conti ritiene escluso dall'applicazione del
comma 1-ter il procedimento ablativo, per la circostanza
specifica di essere questo già in corso e già nello stadio
successivo all'approvazione del progetto definitivo e alla
dichiarazione di pubblica utilità, in una fase cioè in cui
risulta in re ipsa integrato il requisito di
indispensabilità e indilazionabilità richiesto dal comma 1-ter citato. D'altro canto, la ratio della deroga,
espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L.
n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative,
risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle
stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive
condizioni di cui al comma 1-ter (17.07.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO - SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
scuole: responsabile il sindaco o il dirigente?
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
in tema di tutela della sicurezza e salute dei
luoghi di lavoro negli enti locali, per datore di lavoro
deve intendersi il dirigente al quale spettano poteri di
gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri
decisori in materia di spesa.
E la condizione necessaria per riconoscere in capo
al dirigente la qualità di datore di lavoro è che questo sia
dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di
spesa.
Più in particolare, si è affermato che il
dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio
comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di
lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non
è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata
esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e
ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti
in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali
e di spesa.
Ne consegue che, qualora l'organo politico
dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia
di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della
prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di
competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in
concreto detta competenza.
----------------
RITENUTO IN FATTO
1. - Con sentenza del 17.02.2015, il Tribunale di Vibo
Valentia ha condannato l'imputato alla pena dell'ammenda,
per il reato di cui agli artt. 46, comma 2, 55, comma 5,
lettera c), 64, comma 1, lettera c), 68, comma 1, lettera
b), del decreto legislativo n. 81 del 2008, per avere, nella
sua qualità di Sindaco di un Comune, quale datore di lavoro,
omesso di attuare le misure necessarie al fine di verificare
che i luoghi di lavoro (scuola materna comunale) venissero
sottoposti alla regolare manutenzione tecnica ed eliminare
quanto più rapidamente possibile i difetti rilevati, tali da
pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il
difensore, ricorso per cassazione, deducendo, con unico
motivo di doglianza, la mancanza di motivazione in relazione
all'avvenuta individuazione, da parte del Comune, del
responsabile del servizio scuole, nella persona del
dirigente comunale Pi.Ra..
Tale soggetto sarebbe -ad avviso della difesa- l'unico
responsabile delle omissioni oggetto di contestazione, in
ossequio al principio generale della distinzione dei ruoli e
delle competenze degli organi politici e gli organi
amministrativi e di gestione, ai sensi dell'art. 107 del
d.lgs. n. 267 del 2000.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. - Il ricorso è infondato.
Il ricorrente non contesta il fatto nella sua materialità,
limitandosi ad affermare che la responsabilità penale
avrebbe dovuto essere ritenuta sussistente in capo al solo
soggetto dirigente del Servizio scuole comunale, Pi.Ra., per
il principio della distinzione tra ruolo politico e ruolo
amministrativo nell'ambito dell'ente locale.
3.1. - Non vi è dubbio che tale principio sia espressamente
affermato dall'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, perché
tale disposizione attribuisce «ai dirigenti la direzione
degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme
dettati dagli statuti e dai regolamenti» e stabilisce
che questi «si uniformano al principio per cui i poteri
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano
agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante
autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane, strumentali e di controllo» (comma 1).
Ai sensi del successivo comma 2, spettano «ai dirigenti
tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97
e 108».
E a ciò deve aggiungersi, con specifico riferimento al
settore della sicurezza sul lavoro, che l'art. 2, comma 1,
lettera b), secondo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008,
prevede che «nelle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al
quale spettano i poteri di gestione del rapporto di lavoro»
dovendosi considerare quali "poteri di gestione"
quelli conferiti con deliberazione dell'amministrazione di
appartenenza.
Da tale complesso normativo, deriva, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, che, in
tema di tutela della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro
negli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi il
dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa
la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di
spesa (Sez. 3, n.
47249 del 30/11/2005, Rv. 233017). E la
condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente
la qualità di datore di lavoro è che questo sia dotato di
effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa
(Sez. 3, n. 2862 del 17/10/2013, dep. 22/01/2014, Rv.
258374; Sez. 4, n. 34804 del 02/07/2010, Rv. 248349).
Più in particolare, si è affermato che il
dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio
comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di
lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non
è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata
esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e
ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti
in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali
e di spesa (Sez.
3, n. 6370 del 07/11/2013, dep. 11/02/2014, Rv. 258898).
Ne consegue che, qualora l'organo politico
dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia
di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della
prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di
competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in
concreto detta competenza.
3.2. - Non vi è dubbio che tali principi si attaglino, in
astratto, anche alla fattispecie qui in esame.
Nondimeno, deve rilevarsi che la difesa non ha fornito in
concreto alcuna prova né dell'effettivo conferimento della
qualifica dirigenziale del servizio scuole comunale a Pi.Ra.,
né di quali siano l'oggetto e i limiti di tale eventuale
conferimento, né della disponibilità da parte del dirigente
di autonomi poteri ai fini della realizzazione della
regolare manutenzione tecnica e della tutela della sicurezza
e della salute dei lavoratori scolastici.
Ci si limita infatti ad asserire che il Tribunale non
avrebbe preso in considerazione tali circostanze, senza
richiamare gli atti dai quali le stesse sarebbero emerse.
Anzi, dalla lettura della sentenza impugnata, risulta che la
difesa ha espressamente rinunciato proprio all'audizione di
Pi.Ra., soggetto dalla stessa indicato quale dirigente
responsabile della sicurezza sul lavoro nel settore
scolastico e, di conseguenza, della contestata omissione.
La lamentata mancanza di motivazione della sentenza
impugnata risulta, dunque, insussistente
(Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 05.07.2017 n. 32358). |
giugno 2017 |
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PATRIMONIO:
Validità contratto di affitto di fondo rustico.
Perché un contratto di cui è parte una
p.a. possa dirsi validamente concluso, occorre la
manifestazione di volontà dell'organo cui la legge
attribuisce la legale rappresentanza dell'ente pubblico,
previe le eventuali delibere di altri organi, nonché la
forma scritta ad substantiam.
In tal senso si esprime la giurisprudenza, muovendo dalla
disciplina generale della forma dei contratti pubblici
contenuta nel R.D. n. 2440/1923 (artt. 16, 17 e 18), che
impone la forma scritta anche quando la p.a. agisce iure
privatorum.
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi
rustici, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982,
art. 41, che ha deformalizzato i contratti di affitto a
coltivatore diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a
forma libera, non può ritenersi concluso un contratto di
affitto agrario con la p.a. in forza di un comportamento
concludente, anche protrattosi per anni.
Il Comune riferisce di aver affittato, nell'anno 1993 e per
la durata di venti anni, un fondo rustico, sito nel proprio
territorio e oggetto di comproprietà con altro comune
[1], a
privato cittadino, che ha da allora realizzato diverse
costruzioni dietro rilascio dei necessari titoli abilitativi
edilizi.
Posto che nel dicembre 2013 è intervenuta la scadenza del
contratto in argomento, il Comune chiede come comportarsi di
fronte alle domande di permesso di costruire avanzate dal
privato affittuario, il quale sostiene che il contratto in
questione è da considerarsi prorogato ex lege, in
quanto si tratta di fondo rustico affittato ad imprenditore
agricolo.
La disamina del quesito postula la definizione dell'attuale
sussistenza o meno del contratto di affitto di fondo
rustico, considerato che, ai sensi della L.R. n. 19/2009, è
riconosciuto il diritto di eseguire opere edilizie, oltre
che al proprietario, tra gli altri, all'affittuario di fondo
rustico (art 21, comma 2, lett. b).
Per orientamento consolidato della giurisprudenza, espresso
anche in tema di contratti di affitto di fondi rustici, i
requisiti di validità dei contratti posti in essere dalla
p.a., anche iure privatorum, attengono alla
manifestazione della volontà e alla forma. In particolare,
occorre la manifestazione di volontà da parte dell'organo al
quale è attribuita la legale rappresentanza dell'ente,
previe eventuali deliberazioni dei propri organi
deliberativi che hanno valore di atti interni preparatori
della successiva manifestazione esterna, e la forma che deve
essere scritta, a pena di nullità, sicché nei confronti
della stessa p.a. non è configurabile il rinnovo tacito del
contratto [2].
Pertanto, ove faccia difetto sia una manifestazione di
volontà dell'ente pubblico, proveniente dall'organo al quale
dalla legge è attribuita la legale rappresentanza dell'ente
stesso, previe le eventuali delibere di altri organi, nonché
la forma scritta ad substantiam, non si è in presenza di un
contratto, mancando in radice l'accordo tra le parti,
presupposto dell'art. 1321 c.c. [3],
con la conseguenza che il contratto deve considerarsi
giuridicamente inesistente [4].
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi
rustici, la Corte di cassazione ha affermato che non rileva
che l'amministrazione richieda la restituzione del fondo
molto tempo dopo la scadenza del contratto
[5], non essendo
ipotizzabile una rinnovazione tacita del contratto, che
verrebbe ad eludere il requisito della forma scritta fissato
dall'art. 17 del R.D. 18.11.1923, n. 2440. La normativa
speciale dettata in tema di contratti della p.a. prevale,
infatti, sulla disciplina dei rapporti tra privati
[6].
E così, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982,
art. 41 [7],
che ha deformalizzato i contratti di affitto a coltivatore
diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a forma libera,
non può ritenersi concluso un contratto di affitto agrario
con la p.a. in forza di un comportamento concludente, anche
protrattosi per anni [8].
E a nulla rileva la previsione dell'art. 6, D.Lgs. n.
228/2001, che estende le disposizioni della L. n. 203/1982
anche ai terreni degli enti pubblici che siano oggetto di
affitto o di concessione amministrativa, poiché questa norma
attiene, come risulta dalla stessa rubrica
all''utilizzazione agricola dei terreni demaniali e
patrimoniali indisponibili' e non al momento genetico del
rapporto [9].
Alla luce dell'orientamento giurisprudenziale riportato, non
sembrerebbe ad oggi potersi ritenere in corso di validità il
contratto di affitto di fondo rustico stipulato dal Comune
istante nel 1993 (anche in nome e per conto del comune
comproprietario), essendo scaduti i 20 anni di durata
pattuiti nell'accordo e non essendo intervenuta una nuova
manifestazione di volontà, nelle forme dovute, dei Comuni
proprietari.
---------------
[1] In base al regolamento disciplinante i rapporti tra i
due comuni per la gestione del bene in comproprietà di cui
si tratta, quello nel cui territorio è ubicato detto bene
(Comune istante) è competente alla gestione, e in
particolare può operare la gestione straordinaria solo su
espressa delega dell'altro comune comproprietario. Il
contratto di affitto in questione è stato stipulato dal
Comune istante, in rappresentanza anche dell'altro comune
comproprietario in virtù del suddetto regolamento, e previa
delega di quest'ultimo. In particolare, la durata
dell'affitto è stata pattuita 'di anni 20 a partire dalla
data di stipulazione del contratto'.
[2] Cfr. specificamente per i contratti di affitto di fondi
rustici, Cass. civ., sez. III, 16.01.2009, n. 976; Cass.
civ., sez. III, 15.12.2000, n. 15862; Cass. civ., sez. III,
08.05.2014, n. 9975.
[3] Cass. civ., sez. III, 15.12.2000, n. 2611.
[4] Cass. civ. sez. I, 21.05.2002, n. 7422.
[5] Nel caso in esame, la scadenza della durata ventennale
del contratto è avvenuta nel dicembre 2013.
[6] Cass. civ., n. 9975/2014.
In generale, è consolidato in giurisprudenza l'orientamento
che fa risalire agli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923
l'obbligo della forma scritta ad substantiam per tutti i
contratti stipulati dalla p.a., anche iure privatorum. Tra
le tante, v. Cass. civ., sez. II, 18.05.2011, n. 10910 e
Cass. civ., sez. II, 30.07.2004, n. 14570. Conforme anche
Corte dei conti, sez. reg. contr. Regione Puglia,
22.01.2014, n. 16.
Anche l'ANAC (parere n. 43 del 27.01.2011) osserva che la
disciplina generale della forma dei contratti pubblici è
contenuta nel decreto sull'amministrazione del patrimonio e
sulla contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440/1923),
agli articoli 16 (forma pubblica amministrativa), 17
(contratti a trattativa privata) e 18 (contratti stipulati
con ditte e società commerciali). Secondo tale disciplina,
tutti i contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione,
anche quando quest'ultima agisce iure privatorum, richiedono
la forma scritta ad substantiam. V. anche Corte di Appello
di Napoli, Ufficio del Referente per la Formazione
decentrata, 12.12.2011, Il Contenzioso civile in tema di
locazioni,
secondo cui, a norma dell'art. 1350 n. 13 c.c., la forma
scritta è richiesta a pena di nullità 'per...gli altri atti
specialmente indicati dalla legge'. Le leggi che
disciplinano i contratti della p.a. prevedono per l'appunto
tale requisito formale.
[7] L'art. 41 della legge 03.05.1982, n. 203, (Norme sui
contratti agrari), prevede che 'i contratti agrari
ultranovennali, compresi quelli in corso, anche se verbali o
non trascritti, sono validi ed hanno effetto anche riguardo
ai terzi'.
[8] Cass. civ., n. 9975/2014 e Cass. civ., n. 15862/2000 su
contratto di affitto di fondo rustico. Conformi: Cass. civ.,
sez. vi, 23.06.2011, n. 13886 e Cass. civ., sez. III,
23.01.2006, n. 1223, su contratto di locazione. In
particolare quest'ultima, nell'escludere radicalmente la
rinnovazione tacita del contratto ex art. 1597 c.c. qualora
ne sia parte una p.a., precisa l'inidoneità di circostanze
quali la permanenza del conduttore nell'immobile, il
pagamento e la riscossione dei canoni, a determinare la
rinnovazione del contratto. Proprio perché la volontà della
p.a. non può desumersi da fatti concludenti, ma deve essere
espressa in forma scritta a pena di nullità.
[9] Cass. civ., n. 9975/2014 (17.06.2016 -
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PATRIMONIO:
Attribuzioni patrimoniali immobiliari in favore di soggetti
privati.
La gestione del patrimonio pubblico è
improntata al principio di redditività, la cui deroga è
subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente
all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto
beneficiario, fermo restando l'obbligo di un'esaustiva
motivazione della scelta dell'ente, in considerazione
dell'interesse pubblico perseguito, che risulti equivalente
o addirittura superiore rispetto a quello che viene
soddisfatto mediante lo sfruttamento economico dei beni,
secondo i principi giurisprudenziali già consolidati.
Inoltre, la Corte dei conti, chiamata a pronunciarsi in tema
di attribuzioni patrimoniali (attinenti al patrimonio
immobiliare) a terzi privati senza scopo di lucro, al fine
di svolgere attività di interesse per la comunità insediata
sul territorio locale, secondo i principi della
sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 118, Cost., ha
affermato che l'ente locale che voglia procedere ad un tanto
deve farlo nel rispetto dell'art. 12, L. n. 241/1990, avendo
cura di predeterminare i casi, le condizioni e le modalità
per la concessione di simili utilità ed il confronto
concorrenziale tra gli aspiranti.
Il Comune pone un quesito in ordine alla riconducibilità di
attività di interesse generale svolta da soggetto
imprenditoriale alla finalità istituzionale della promozione
dello sviluppo economico del territorio e dunque alla
sussidiarietà orizzontale, ai sensi dell'art. 118 Cost..
In particolare, il Comune pone l'ipotesi dell'attribuzione
gratuita ad un operatore commerciale, selezionato nel
rispetto della normativa di settore, della disponibilità del
sito ove svolgere un concerto, al fine di agevolare e
mantenere detta manifestazione sul proprio territorio.
Si precisa che l'attività di questo Servizio consta nel
fornire un supporto giuridico generale di ausilio agli enti
per la soluzione dei casi concreti che si presentano. Si
esprimeranno dunque in questa sede considerazioni sulla
tematica delle gestione del patrimonio immobiliare comunale,
cui si riconduce il quesito posto, sulla scorta delle quali,
in via collaborativa, si formuleranno alcune osservazioni
relative al caso di specie, che l'Ente potrà valutare nella
sua autonomia.
L'atto di disposizione di un bene pubblico
[1] è improntato
al principio della gestione economica dei beni pubblici, in
modo da aumentarne la produttività in termini di entrate
finanziarie.
L'obbligo della gestione economica del bene pubblico
rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon
andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della
gestione amministrativa costituisce il più significativo
corollario (art. 1, L. n. 241/1990) [2].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della
redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è
evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così,
la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i
principi già consolidati, secondo cui le modalità di
gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma
discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione
in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[3], che
risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a
quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento
economico dei beni [4]-
ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai
soggetti possibili affidatari dei beni del patrimonio
locale, come condizione necessaria tanto per mitigare quanto
per escludere la redditività del patrimonio pubblico
[5].
Un tanto esposto in generale e venendo al caso di specie, si
osserva, in via collaborativa, che non si rinvengono in
proposito motivi per discostarsi dal principio della
redditività del patrimonio pubblico, ed in particolare dalla
posizione più recente della giurisprudenza che subordina la
deroga a detto principio all'assenza dello scopo di lucro in
capo ai soggetti possibili beneficiari.
Ed invero, in relazione all'ipotesi prospettata dall'Ente di
ricondurre l'attività di interesse generale del soggetto
imprenditore, cui valuterebbe di attribuire gratuitamente il
sito ove tenere un grande concerto, alle proprie finalità
istituzionali, nella specie dello sviluppo economico,
secondo i principi di sussidiarietà orizzontale di cui
all'art. 118 Cost., si ritengono utili le seguenti ulteriori
considerazioni sempre alla luce degli apporti
giurisprudenziali.
La Corte dei conti -chiamata a pronunciarsi sulla
possibilità di attribuire un diritto reale, a titolo
gratuito o dietro corrispettivo simbolico, ad
un'associazione senza fini di lucro operante sul territorio-
ha affrontato in termini generali la facoltà di un ente di
procedere ad attribuzioni patrimoniali attinenti al
patrimonio immobiliare a terzi soggetti, presenti sul
territorio comunale, al fine di consentire lo svolgimento di
attività che presentino interesse per l'amministrazione
locale o per la comunità insediata sul territorio locale.
Ebbene, il magistrato contabile ha affermato che nel momento
in cui l'ente locale ricorra a soggetti privati per
raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce
loro benefici di natura patrimoniale, lo stesso deve
rispettare l'art. 12, L. n. 241/1990, avendo cura di
predeterminare i casi, le condizioni e le modalità per la
concessione di simili utilità ed il confronto concorrenziale
tra gli aspiranti [6].
Muovendo da quest'ultimo aspetto e tornando al caso di
specie, risulta sussistere un regolamento dell'Ente in tema
di concessione di contributi ed altre erogazioni economiche,
ai sensi dell'art. 12, L. n. 241/1990. Fermo restando che
l'interpretazione e l'applicazione di detto regolamento
competono esclusivamente all'Ente, si osserva in via
collaborativa, avuto riguardo alla natura imprenditoriale
del soggetto terzo riferita dall'Ente, che il regolamento in
parola prevede che la concessione di contributi ed altre
erogazioni economiche è rivolta a favore di persone fisiche
che non svolgono attività imprenditoriale e persone
giuridiche pubbliche o private che non hanno scopo di lucro.
---------------
[1] Provvedimento amministrativo se si tratta di bene
demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile;
negozio di diritto privato se si tratta di bene patrimoniale
disponibile (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto,
05.10.2012, n. 716).
[2] La giurisprudenza trae il principio di fruttuosità dei
beni pubblici dalla lettura combinata degli artt. 9, c. 3, L
n. 537/1993, e 32, c. 8, L. n. 724/1994, che impongono la
determinazione e l'aggiornamento dei canoni dei beni dati in
concessione a privati, sulla base dei prezzi praticati in
regime di libero mercato, e da cui deriva il principio della
gestione del patrimonio pubblico in modo da incrementare le
entrate patrimoniali dell'amministrazione (cfr. Corte dei
conti, sez. II, giurisdizionale d'appello, 22.04.2010, n.
149; Corte dei conti, sez. reg. contr. Puglia, 14.11.2013,
n. 170).
[3] V. Corte di conti, sez. reg. contr. Lombardia,
09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013 cit.; Corte dei
conti Veneto n. 716/2012 cit..
[5] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit., richiamata
dalle Corti dei conti Puglia, 12.12.2014, n. 216; Lombardia,
06.05.2014, n. 216; Molise, 15.01.2015, n. 1.
In particolare, la Corte dei conti Veneto argomenta
l'assenza dello scopo di lucro dalla lettura degli artt. 32,
c. 8, L. n. 724/1994 -che prevede una deroga alla
determinazione dei canoni dai comuni secondo logiche di
mercato, in considerazione degli 'scopi sociali'- e 32, L.
n. 383/2000 -che consente agli enti locali di utilizzare il
comodato in favore di organizzazioni di volontariato ed
associazioni di promozione sociale-: norme da cui emerge,
osserva la Corte dei conti, il riferimento delle eccezioni
ivi previste a categorie ben individuate di beneficiari,
connotati dall'assenza dello scopo di lucro.
Sulla scorta di queste riflessioni, le deliberazioni
richiamate rimettono alla valutazione discrezionale
dell'ente interessato -in considerazione delle proprie
finalità istituzionali, attraverso un'attenta valutazione
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i
principi già espressi negli anni precedenti dalla
magistratura contabile- la possibilità di prevedere tariffe
agevolate o la gratuità per l'utilizzo di beni pubblici in
favore di soggetti che sono pp.aa. o privati connotati
dall'assenza di scopo di lucro.
Per una disamina dell'evoluzione giurisprudenziale in tema
di gestione del patrimonio pubblico, v. note di questo
Servizio n. 11715/2016 e n. 7491/2015, all'indirizzo web
della Regione Friuli Venezia Giulia: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[6] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 19.02.2014,
n. 36.
L'obbligo degli enti locali di predeterminare le condizioni
e le modalità per la concessione di vantaggi economici è
altresì posto, sul piano dell'ordinamento regionale, dal
combinato disposto degli artt. 2, c. 2-bis, e 30, L.R. n.
7/2000 (14.06.2017 -
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PATRIMONIO:
Cessione gratuita di immobile comunale.
La gestione del patrimonio pubblico è
improntata al principio di redditività, la cui deroga è
subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente
all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto
beneficiario, fermo l'obbligo di un'esaustiva motivazione in
considerazione dell'interesse pubblico perseguito, che
risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a
quello che viene soddisfatto mediante lo sfruttamento
economico dei beni, secondo i principi giurisprudenziali già
consolidati.
La posizione della Corte dei conti assume toni ancor più
rigorosi con riferimento alla cessione gratuita di un
immobile, che si palesa in contrasto con l'interesse
primario alla conservazione e alla corretta gestione del
patrimonio pubblico. Nel contesto di questa posizione
restrittiva, solo in caso di mancato trasferimento di denaro
tra enti dello stesso ordinamento, la Corte dei conti ha
escluso la sussistenza di un illecito erariale.
In proposito, con riferimento al caso di specie, va detto
che il Comune è ente locale ricompreso tra le pp.aa. di cui
all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001, mentre l'ATER è ente
pubblico economico assoggettato alla disciplina generale
delle persone giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del
codice civile per quanto compatibile (art. 37, L.R. n.
1/2016).
Il Comune pone un quesito in merito alla possibilità di
cedere a titolo gratuito all'ATER un immobile comunale,
inserito nel piano delle valorizzazioni [1]
come immobile 'privo di valore' [2],
al fine della sua ristrutturazione e successiva costruzione
di alloggi popolari da concedere in locazione a canone
concordato.
Si premette che l'attività di consulenza di questo Servizio
consta nel fornire agli enti locali un supporto giuridico
generale sulle questioni poste, che possa essere utile come
cornice di legittimità della concreta attività
amministrativa, volta alla realizzazione dell'interesse
pubblico perseguito. Per cui, in questa sede, la questione
posta dall'Ente verrà trattata sotto il profilo generale
della legittima gestione del patrimonio pubblico, avuto
riguardo alle riflessioni elaborate dalla giurisprudenza sul
punto. Mentre, si precisa sin d'ora, per quanto concerne
l'aspetto dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione
dell'immobile di cui si tratta, al fine della costruzione di
alloggi popolari da locare a canone concordato, e le
modalità attraverso cui un tanto possa avvenire, ulteriori
specifiche considerazioni potranno essere espresse, per
quanto di competenza, dalla Direzione centrale
infrastrutture e territorio, Area interventi a favore del
territorio, Servizio edilizia, in indirizzo.
L'atto di disposizione di un bene pubblico è improntato al
principio della gestione economica dei beni pubblici, in
modo da aumentarne la produttività in termini di entrate
finanziarie. L'obbligo della gestione economica del bene
pubblico rappresenta attuazione del principio costituzionale
di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità
della gestione amministrativa costituisce il più
significativo corollario (art. 1, L. n. 241/1990)
[3].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della
redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è
evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così,
la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i
principi già consolidati, secondo cui le modalità di
gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma
discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione
in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[4], che
risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a
quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento
economico dei beni [5]-
ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai
soggetti possibili affidatari (in comodato) dei beni del
patrimonio locale, tanto per mitigare quanto per escludere
la redditività del patrimonio pubblico [6].
Queste considerazioni della Corte dei conti sulla deroga
alla redditività assumono un tono ancora più rigoroso con
specifico riferimento alla cessione gratuita dell'immobile.
Per la Corte dei conti, se lo scopo del patrimonio pubblico
è quello di produrre reddito, risulta evidente che una
cessione gratuita di un immobile non può considerarsi una
modalità tipica di valorizzazione del patrimonio in quanto
non solo non reca alcuna entrata all'ente, e dunque
costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del
bene, ma addirittura può risultare fonte di depauperamento
-e dunque di danno- patrimoniale per l'ente, che è invece
tenuto ad improntare la gestione del proprio patrimonio a
criteri di economicità e di efficienza [7].
In particolare, per la Sezione Veneta 'non può negarsi
che un'eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito
dovrebbe avvenire a seguito di un'attenta ponderazione
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa
esclusivamente alla sfera discrezionale dell'ente, in cui,
però, deve tenersi nella massima considerazione l'interesse
alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio
pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui
questo gode (art. 119, comma 6 novellato), e della sempre
crescente attenzione postavi dal legislatore (tra cui,
appunto, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008). L'interesse alla
conservazione e alla corretta gestione del patrimonio
pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione
dei principi di buon andamento e di sana gestione, ed impone
all'ente di ricercare tutte le alternative possibili che
consentano un equo contemperamento degli interessi in gioco,
adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che
comporti il minor sacrificio possibile per gli interessi
compresenti' [8].
Ed ancora, per la Corte dei conti la perdita di un cespite
deve essere adeguatamente compensata da una partita di
carattere finanziario o con un''utilitas' di
carattere patrimoniale (in termini di uso, proprietà,
servizi). Tale utilitas, infatti, solo
eccezionalmente può trovare giustificazione in interessi di
carattere non patrimoniale, in base a precipue disposizioni
di legge che tipizzano l'interesse tra gli scopi
perseguibili dall'ente o che espressamente autorizzano
l'alienazione gratuita [9].
Nel contesto di questa posizione restrittiva, solo con
riferimento ad enti dello stesso ordinamento, specificamente
nel caso di mancato trasferimento di denaro nell'ambito di
enti facenti parte dello stesso settore, la Corte dei conti
ha escluso la sussistenza di un illecito erariale, giacché
prescindendo dall'indubbia differente personalità giuridica,
trattasi di una partita di giro nell'ambito di una finanza
sostanzialmente unitaria [10].
Ma in proposito e con riferimento al caso di specie va detto
che il Comune è ente locale ricompreso tra le
amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n.
165/2001, mentre l'ATER è ente pubblico economico
assoggettato alla disciplina generale delle persone
giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del codice civile
per quanto compatibile (art. 37, L.R. n. 1/2016).
Per completezza di esposizione, si osserva che la
giurisprudenza contabile, muovendo dal fatto che non è
rinvenibile alcuna disposizione che impedisca al comune di
effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie
per raggiungere i fini che in base all'ordinamento deve
perseguire, ha affermato che l'attribuzione di beni, se
intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività
rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, anche se
apparentemente a 'fondo perso', non può equivalere ad
un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell'utilità che l'ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo
[11]. Si
tratta, tuttavia, di pronunce che non concernono
espressamente gli atti di gestione del patrimonio pubblico,
per i quali la Corte dei conti ha affermato gli specifici
principi sopra richiamati.
Un tanto esposto in generale, per la definizione più
opportuna dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione
dell'immobile di cui si tratta, per le finalità indicate
della sua ristrutturazione e successiva costruzione di
alloggi popolari da concedere in locazione a canone
concordato, ci si rimette alle considerazioni che riterrà di
esprimere la Direzione centrale infrastrutture e territorio,
Area interventi a favore del territorio, Servizio edilizia,
ai sensi della L.R. n. 1/2016, per quanto di competenza in
materia.
---------------
[1] In tema di interventi di valorizzazione del
territorio, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008, convertito in L.
n. 133/2008, ha imposto agli enti territoriali di redigere
annualmente un piano delle alienazioni e valorizzazioni
immobiliari, da allegare al bilancio di previsione, in cui
inserire i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di
competenza, non ritenuti strumentali all'esercizio delle
proprie funzioni istituzionali, suscettibili di
valorizzazione ovvero di dismissione. L'inserimento degli
immobili nel piano ne determina la conseguente
classificazione come patrimonio disponibile, fatto salvo il
rispetto delle tutele di natura storico-artistica,
archeologica, architettonica e paesaggistico-ambientale.
[2] In tal modo si esprime l'Ente.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, deliberazione
02.10.2012, n. 716; Corte dei Conti, sez. reg. contr.
Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170.
[4] V. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia,
deliberazioni 09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[5] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013, cit.; Corte dei
conti Veneto, n. 716/2012, cit..
[6] Corte dei conti Veneto, n. 716/2012, cit., richiamata
dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione 12.12.2014, n.
216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n. 216; Molise,
deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[7] Corte dei Veneto, deliberazione 24.04.2009, n. 33 e n.
716/2012 cit.; conforme: Corte dei conti Puglia, n.
170/2013, cit..
[8] Corte dei conti Veneto n. 33/2009 cit. Le valutazioni
della Sezione veneta sono richiamate e condivise dalla Corte
dei conti Friuli Venezia Giulia, che, seppur in un caso non
sovrapponibile a quello in esame, per la differenza di
valore dell'immobile, ha ritenuto che 'la cessione
definitiva a titolo gratuito (donazione) non sia compatibile
con l'obbligo di valorizzazione contemplato dall'art. 58 del
D.L. 25.06.2008 n. 112' (Corte dei conti, sez. reg. contr.
Friuli Venezia Giulia, deliberazione 30.04.2014, n. 94).
[9] Corte dei conti, sez. reg. contr. Campania,
deliberazione 06.10.2014, n. 205.
[10] Corte dei conti, sez. giurisd., Sicilia, 02.07.2010, n.
1477; Corte dei conti, sez. giurisd. Trentino A. Adige,
16.03.2009, n. 18.
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia,
29.05.2012, n. 262, con riferimento alla possibilità per un
comune di effettuare lavori di restauro di un bene immobile
non appartenente al patrimonio dell'ente locale, nello
specifico il campanile di una Chiesa, con entrate comunali;
Corte dei conti, sez. reg. contr., Piemonte, 12.02.2014, n.
36, con riferimento al diritto di superficie, su area
comunale, in favore di una locale associazione dedita alla
pubblica assistenza, senza fini di lucro (06.06.2017
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maggio 2017 |
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PATRIMONIO:
Alienazione terreno comunale.
Prima della stipula del rogito l'Ente è
tenuto al rispetto delle procedure e dei termini posti a
tutela dei terzi, ai sensi dell'articolo 58 del decreto
legge 25.06.2008, n. 112, nella considerazione che l'Ente è
tenuto una sola volta ai suddetti adempimenti con
riferimento al medesimo bene.
Il Comune informa che nel piano di valorizzazione e
alienazione del patrimonio comunale inserito nel Documento
unico di programmazione (DUP), allegato al bilancio di
previsione 2016-2018, era stato inserito un bene comunale la
cui alienazione risulta iniziata ma non ancora conclusa.
L'Ente ha previsto nel nuovo piano di valorizzazione e
alienazione del patrimonio comunale inserito nel DUP,
allegato al bilancio di previsione 2017-2019, l'alienazione
del medesimo terreno.
Pertanto, l'Ente chiede un parere per conoscere se, prima
della stipula del rogito del terreno suddetto, si debbano
attendere le necessarie pubblicazioni e conseguenti
adempimenti connessi all'approvazione del nuovo piano di
valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale,
riferito al triennio 2017-2019.
La normativa in materia di ricognizione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare degli enti locali è contenuta
nell'articolo 58 del D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito con
modifiche dalla legge 06.08.2008, n. 133.
[1].
In particolare, l'articolo 58 del D.L. 112/2008 prevede che
attraverso una delibera dell'organo di Governo venga redatto
un apposito elenco degli immobili non strumentali
all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali,
suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione,
costituendo in tal modo il piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari (comma 1).
L'inserimento degli immobili nel piano su richiamato ne
determina la loro classificazione come patrimonio
disponibile. Con successiva deliberazione il consiglio
comunale approva il piano delle alienazioni e
valorizzazioni, determinando le destinazioni d'uso
urbanistiche degli immobili ivi contenuti (comma 2).
Gli elenchi degli immobili devono essere pubblicati nelle
forme previste da ciascun Ente e hanno effetto dichiarativo
della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni e
producono gli effetti previsti dall'articolo 2644
[2] del
codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione
del bene in catasto. A tutela dell'interesse di eventuali
soggetti terzi, è ammesso ricorso amministrativo contro
l'iscrizione del bene nell'elenco, entro sessanta giorni
dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Pertanto, prima della stipula del rogito l'Ente è tenuto al
rispetto delle procedure e dei termini posti a tutela dei
terzi, ai sensi della normativa sopra richiamata, nella
considerazione che l'Ente è tenuto una sola volta ai
suddetti adempimenti con riferimento al medesimo bene.
---------------
[1] Art. 58 (Ricognizione e valorizzazione del patrimonio
immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali)
<<1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione
del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e
altri Enti locali, nonché di società o Enti a totale
partecipazione dei predetti enti, ciascuno di essi, con
delibera dell'organo di Governo individua, redigendo
apposito elenco, sulla base e nei limiti della
documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i
singoli beni immobili ricadenti nel territorio di
competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie
funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione
ovvero di dismissione. Viene così redatto il piano delle
alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al
bilancio di previsione nel quale, previa intesa, sono
inseriti immobili di proprietà dello Stato individuati dal
Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del
demanio tra quelli che insistono nel relativo territorio.
2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la
conseguente classificazione come patrimonio disponibile,
fatto salvo il rispetto delle tutele di natura
storico-artistica, archeologica, architettonica e
paesaggistico-ambientale. Il piano è trasmesso agli Enti
competenti, i quali si esprimono entro trenta giorni,
decorsi i quali, in caso di mancata espressione da parte dei
medesimi Enti, la predetta classificazione è resa
definitiva. La deliberazione del consiglio comunale di
approvazione, ovvero di ratifica dell'atto di deliberazione
se trattasi di società o Ente a totale partecipazione
pubblica, del piano delle alienazioni e valorizzazioni
determina le destinazioni d'uso urbanistiche degli immobili.
Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore
della presente disposizione, disciplinano l'eventuale
equivalenza della deliberazione del consiglio comunale di
approvazione quale variante allo strumento urbanistico
generale, ai sensi dell'articolo 25 della legge 28.02.1985,
n. 47, anche disciplinando le procedure semplificate per la
relativa approvazione. Le Regioni, nell'ambito della
predetta normativa approvano procedure di co-pianificazione
per l'eventuale verifica di conformità agli strumenti di
pianificazione sovraordinata, al fine di concludere il
procedimento entro il termine perentorio di 90 giorni dalla
deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si
applica il comma 2 dell'articolo 25 della legge 28.02.1985,
n. 47. Le varianti urbanistiche di cui al presente comma,
qualora rientrino nelle previsioni di cui al paragrafo 3
dell'articolo 3 della direttiva 2001/42/CE e al comma 4
dell'articolo 7 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e
s.m.i. non sono soggette a valutazione ambientale
strategica.
3. Gli elenchi di cui al comma 1, da pubblicare mediante le
forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto
dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti
trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo
2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi
dell'iscrizione del bene in catasto.
4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle
conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e
voltura.
5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui al
comma 1 è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta
giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Omissis>>
[2] 2644. Effetti della trascrizione.
Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno
effetto [c.c. 509] riguardo ai terzi che a qualunque titolo
hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto
trascritto [c.c. 507, 2659, 2667] o iscritto [c.c. 2839]
anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi [c.c.
2643, 2652, n. 3, 2653, n. 1, 2685, 2827, 2857, 2914, n. 1].
Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui
che ha trascritto [c.c. 2666] alcuna trascrizione o
iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore,
quantunque l'acquisto risalga a data anteriore [c.c. 1380,
2649, 2655, 2812, 2848, 2866, 2913, 2915] (11.05.2017
-
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aprile 2017 |
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PATRIMONIO: Demanio
senza automatismi. Addio al rinnovo delle
concessioni senza selezione. APPALTI/ Una
sentenza del Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia.
Addio rinnovo automatico delle concessioni
demaniali in essere anche dopo il decreto
legge enti locali 113/2016, il tutto in
ossequio alla sentenza C-458/14 della Corte
Ue che ha dichiarato illegittimo
l'affidamento a privati delle spiagge
italiane, prorogato al 31.12.2020 senza «una
imparziale e trasparente procedura di
selezione dei potenziali candidati».
E ciò perché l'articolo 24, c. 3-septies,
del dl 113/2016 introduce in pratica una
moratoria sulle concessioni esistenti ma
senza un termine finale certo.
Così la
sentenza
27.04.2017 n. 959 del TAR Lombardia-Milano,
Sez. I.
La controversia nasce dalla procedura a
evidenza pubblica bandita dal comune per la
gestione di uno stabilimento balneare. I
giudici di Lussemburgo hanno già bocciato la
norma di cui all'articolo 1, comma 18, del
decreto legge 194/2009 che prorogava le
autorizzazioni demaniali per gestire
attività turistiche e ricreative in riva al
mare e ai laghi. Ma dopo la sentenza Ue nel
dl 113/2016 è stata introdotta una norma
secondo cui i rapporti pendenti conservano
validità fino a quanto la materia non sarà
regolata dallo stato nazionale secondo i
principi eurounitari di libera concorrenza.
E anche voler condividere l'interpretazione
della società ricorrente secondo cui la
proroga prevista all'articolo, comma
3-septies, del dl 113/2016 debba trovare
applicazione con riferimento alle
concessioni non solo di beni demaniali ma
anche di beni appartenenti al patrimonio
indisponibile, queste norme devono essere
disapplicate per contrasto con il diritto Ue
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2017).
---------------
MASSIMA
9.1 Prima di esaminare le censure,
occorre delineare il quadro normativo la cui
applicazione al caso di specie è oggetto
della presente controversia.
9.2 L’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come
modificato dall'articolo 1, comma 1, della
legge 26.02.2010, n. 25, in sede di
conversione e, successivamente,
dall'articolo 34-duodecies, comma 1, del
D.L. 18.10.2012, n. 179, dall'articolo 1,
comma 547, della Legge 24.12.2012, n. 228 e,
da ultimo, dall'articolo 1, comma 291, della
Legge 27.12.2013, n. 147, dispone che: “ferma
restando la disciplina relativa
all'attribuzione di beni a regioni ed enti
locali in base alla legge 05.05.2009, n. 42,
nonché alle rispettive norme di attuazione,
nelle more del procedimento di revisione del
quadro normativo in materia di rilascio
delle concessioni di beni demaniali
marittimi, lacuali e fluviali con finalità
turistico-ricreative, ad uso pesca,
acquacoltura ed attività produttive ad essa
connesse, e sportive, nonché quelli
destinati a porti turistici, approdi e punti
di ormeggio dedicati alla nautica da
diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e
alle modalità di affidamento di tali
concessioni, sulla base di intesa in sede di
Conferenza Stato-regioni ai sensi
dell'articolo 8, comma 6, della legge
05.06.2003, n. 131, che è conclusa nel
rispetto dei principi di concorrenza, di
libertà di stabilimento, di garanzia
dell'esercizio, dello sviluppo, della
valorizzazione delle attività
imprenditoriali e di tutela degli
investimenti, nonché in funzione del
superamento del diritto di insistenza di cui
all'articolo 37, secondo comma, secondo
periodo, del codice della navigazione, [che
è soppresso dalla data di entrata in vigore
del presente decreto], il termine di durata
delle concessioni in essere alla data di
entrata in vigore del presente decreto e in
scadenza entro il 31.12.2015 è prorogato
fino al 31.12.2020, fatte salve le
disposizioni di cui all'articolo 03, comma
4-bis, del decreto-legge 05.10.1993, n. 400,
convertito, con modificazioni, dalla legge
04.12.1993, n. 494. All'articolo 37, secondo
comma, del codice della navigazione, il
secondo periodo è soppresso”.
9.3 La conformità al diritto comunitario di
questa norma è stata oggetto di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, disposto con sentenza
di questo Tribunale n. 2401/2014 e con
ordinanza del Tar Sardegna n. 224/2015.
La
Corte, con sentenza del 14.07.2016, ha
affermato che:
1) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del
12.12.2006, relativa ai servizi nel mercato
interno, deve essere interpretato nel senso
che osta a una misura nazionale, come quella
di cui ai procedimenti principali, che
prevede la proroga automatica delle
autorizzazioni demaniali marittime e lacuali
in essere per attività turistico ricreative,
in assenza di qualsiasi procedura di
selezione tra i potenziali candidati.
2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a
una normativa nazionale, come quella di cui
ai procedimenti principali, che consente una
proroga automatica delle concessioni
demaniali pubbliche in essere per attività
turistico ricreative, nei limiti in cui tali
concessioni presentano un interesse
transfrontaliero certo.
9.4 A seguito della decisione della Corte di
Giustizia, il legislatore italiano, con
legge n. 160 del 07.08.2016, ha introdotto,
in sede di conversione al d.l. n. 113/2016,
all’art. 24, il comma 3-septies, ai sensi
del quale: “nelle more della revisione e
del riordino della materia in conformità ai
principi di derivazione europea, per
garantire certezza alle situazioni
giuridiche in atto e assicurare l'interesse
pubblico all'ordinata gestione del demanio
senza soluzione di continuità, conservano
validità i rapporti già instaurati e
pendenti in base all'articolo 1, comma 18,
del decreto-legge 30.12.2009, n. 194,
convertito, con modificazioni, dalla legge
26.02.2010, n. 25”.
10.1 Così delineato il quadro normativo, si
può procedere con l’esame delle doglianze
formulate dalla ricorrente.
10.2 Anche a volere condividere la linea
interpretativa prospettata dalla ricorrente,
secondo cui la proroga prevista all’art. 1,
c. 18, d.l. n. 194/2009 ed all’art. 24, c.
3-septies, d.l. n. 113/2016 debba trovare
applicazione con riferimento alle
concessioni non solo di beni demaniali ma
anche di beni appartenenti al patrimonio
indisponibile, queste norme devono essere
disapplicate per contrasto con il diritto
comunitario, così come interpretato dalla
Corte di Giustizia UE con la sentenza sopra
richiamata.
Per costante giurisprudenza, al pari di
regolamenti e direttive, anche le pronunce
della Corte di Giustizia della Comunità
europea hanno, difatti, efficacia diretta
nell'ordinamento interno degli stati membri,
vincolando sia le amministrazioni che i
giudici nazionali alla disapplicazione delle
norme interne con esse configgenti
(Cfr. C.
Cost., 19.04.1985, n. 113 che ha affermato
l’immediata applicabilità delle statuizioni
risultanti dalle sentenze interpretative
della Corte di Giustizia; Cons. giust. amm.
Sicilia, sez. giurisd., 16.05.2016, n. 139).
10.3 La presente controversia ha ad oggetto
il contratto in forza del quale il Comune di
Como ha attribuito alla ricorrente il
diritto utilizzare il compendio denominato “lido
di Villa Olmo”, appartenente al
patrimonio indisponibile, quale lido e
stabilimento balneare, dietro versamento di
un canone periodico e senza alcun
corrispettivo a carico dell’amministrazione.
Tale contratto presenta i caratteri della
concessione, ai sensi del diritto
dell’Unione, essendo il rischio d’impresa a
carico della società Villa Olmo s.n.c.
La concessione rientra nell’ambito di
applicazione dell’articolo 12 della
direttiva 2006/123 in quanto:
- deve essere qualificata quale autorizzazione, ai sensi delle
disposizioni della direttiva, in quanto atto
formale che il prestatore deve ottenere
dall’autorità nazionale al fine di potere
esercitare l’attività economica;
- il numero di autorizzazioni disponibili per l’attività in
questione è indubbiamente limitato per via
della scarsità delle risorse naturali, quali
sono, in generale, le rive del lago di Como,
suscettibili di sfruttamento economico solo
in numero limitato, e quale è, in
particolare, il compendio in questione, in
considerazione delle sue peculiarità (in
relazione alla sua ubicazione ed alla sua
storia);
- la concessione d’uso del bene in questione non rientra nella
categoria delle concessioni di servizi,
escluse dall’ambito di applicazione della
direttiva 2006/123 e rientranti in quello
della direttiva 2014/23, per le ragioni
affermate dalla Corte di Giustizia con la
sentenza del 14.07.2016 (punti 44-48) ed
estensibili anche al caso di specie.
10.4 L’art. 12, c. 1, della direttiva
2006/123, dispone che, qualora il numero di
autorizzazioni disponibili per una
determinata attività sia limitato per via
della scarsità delle risorse naturali o
delle capacità tecniche utilizzabili, il
rilascio delle autorizzazioni deve essere
soggetto ad una procedura di selezione tra i
candidati potenziali, che presenti garanzie
di imparzialità e di trasparenza e preveda,
in particolare, un'adeguata pubblicità
dell'avvio della procedura e del suo
svolgimento e completamento.
10.5 Come affermato dalla Corte di Giustizia
ai punti 50 e ss. della sentenza sopra
richiamata, “una normativa nazionale,
come quella di cui ai procedimenti
principali, che prevede una proroga ex lege
della data di scadenza delle autorizzazioni
equivale a un loro rinnovo automatico, che è
escluso dai termini stessi dell’articolo 12,
paragrafo 2, della direttiva 2006/123.
Inoltre, la proroga automatica di
autorizzazioni relative allo sfruttamento
economico del demanio marittimo e lacuale
non consente di organizzare una procedura di
selezione come descritta al punto 49 della
presente sentenza”.
La Corte ha poi affermato che,
pur se
l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva
2006/123 prevede espressamente che gli Stati
membri possano tener conto, nello stabilire
le regole della procedura di selezione, di
considerazioni legate a motivi imperativi
d’interesse generale, “è previsto che si
tenga conto di tali considerazioni solo al
momento di stabilire le regole della
procedura di selezione dei candidati
potenziali e fatto salvo, in particolare,
l’articolo 12, paragrafo 1, di tale
direttiva.
Pertanto l’articolo 12, paragrafo 3, della
direttiva in questione non può essere
interpretato nel senso che consente di
giustificare una proroga automatica di
autorizzazioni allorché, al momento della
concessione iniziale delle autorizzazioni
suddette, non è stata organizzata alcuna
procedura di selezione ai sensi del
paragrafo 1 di tale articolo”.
Inoltre, “una giustificazione fondata sul
principio della tutela del legittimo
affidamento richiede una valutazione caso
per caso che consenta di dimostrare che il
titolare dell’autorizzazione poteva
legittimamente aspettarsi il rinnovo della
propria autorizzazione e ha effettuato i
relativi investimenti. Una siffatta
giustificazione non può pertanto essere
invocata validamente a sostegno di una
proroga automatica istituita dal legislatore
nazionale e applicata indiscriminatamente a
tutte le autorizzazioni in questione”.
La previsione di cui all’art. all’art. 1, c.
18, d.l. n. 194/2009, come affermato dalla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea,
contrasta quindi con l’articolo 12,
paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123.
10.6 Un identico contrasto deve ritenersi
sussistente con riferimento alla previsione
di cui all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n.
113/2016.
Con tale norma, il legislatore -nel
prevedere la conservazione della validità
dei rapporti già instaurati e pendenti in
base all'articolo 1, comma 18, del
decreto-legge 30.12.2009, n. 194,
convertito, con modificazioni, dalla legge
26.02.2010, n. 25 “nelle more della
revisione e del riordino della materia in
conformità ai principi di derivazione
europea”– ha, difatti, sostanzialmente
reintrodotto un rinnovo automatico delle
autorizzazioni concesse, oltretutto senza la
previsione di un termine finale certo, che
impedisce lo svolgimento di procedure
comparative, eludendo così, al pari
dell’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, il
dettato della direttiva 2006/123 e le
indicazioni date dalla Corte di Giustizia.
10.7
Poiché le norme invocate dalla ricorrente si
pongono in contrasto con il diritto
comunitario, esse devono essere
disapplicate. A ciò consegue la piena
legittimità della decisione del Comune di
Como di non considerare efficace la
concessione in questione e di procedere alla
pubblicazione del bando per l’assegnazione
del compendio immobiliare. |
EDILIZIA PRIVATA -
PATRIMONIO - URBANISTICA: Nel
rispetto della disciplina vincolistica di settore anche di
livello regionale, nel corso dell’esercizio 2017, i proventi
connessi agli oneri di urbanizzazione e alla monetizzazione
degli standard qualitativi aggiuntivi possono essere
utilizzati per finanziare una spesa in conto capitale.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge
regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua
declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge
regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una
prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime
richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o
da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali
dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da
parte del comune, che “tale soluzione sia la più
funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma
dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in
cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
Ne consegue che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei
predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica
–da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse
pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi e destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano.
---------------
Il Sindaco del Comune di Novedrate (CO) -dopo aver
rappresentato che tra gli obiettivi strategici dell’azione
amministrativa rientra l’acquisizione al patrimonio comunale
del fabbricato storico denominato “Villa Casana”,
della Cappella Gentilizia e del parco circostante
attualmente di proprietà privata da conseguire mediante la
permuta di un’area comunale posta all’interno dell’area di
trasformazione afferente all’obiettivo strategico in cui la
complessiva operazione si inscrive e dopo aver, altresì,
ricordato che il Comune risulta tenuto al versamento anche
di una somma pari alla differenza di valore fra i beni
immobili oggetto di permuta– ha rivolto alla Sezione il
seguente quesito:
“se è possibile far fronte alla suddetta differenza di
valore utilizzando all’uopo lo standard qualitativo
aggiuntivo pari ad euro 300.000,00, il fondo per il Centro
storico nella misura del 3% ed i proventi da permessi di
costruire (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione)
che il privato dovrà versare nelle casse dell’Ente per la
realizzazione dell’intervento edilizio programmato. Si
precisa, nel contempo, che è intenzione delle parti
sottoscrivere il contratto di permuta entro il corrente anno
stante l’utilizzo per fini tipici degli oneri di
urbanizzazione previsto a decorrere dall'esercizio 2018
dalla Legge n. 232/2016, articolo 1, commi 460-461”.
...
2. Giova preliminarmente evidenziare come la materia oggetto del
quesito in esame è stata, di recente, oggetto, nei suoi
principi generali, di analisi da parte di questa Sezione
nella deliberazione n. 81/2017/PAR. Facendo applicazione dei
principi affermati in tale pronuncia, deve preliminarmente
ricordarsi, sul piano generale, che, nei principi contabili
generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118
(allegato 1) si esplicita che:
- “è il complesso unitario delle entrate che finanzia
l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la
totalità delle sue spese durante la gestione”;
- “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al
finanziamento di spese di investimento”.
Nei predetti principi, dunque, viene ribadito il divieto di
finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che
trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il
mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali
espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
2.1. Ciò premesso, essendo l’operazione di permuta sopra
richiamata finalizzata all’acquisizione al patrimonio
comunale di un fabbricato storico e di alcune pertinenze,
che sarebbero complessivamente destinate allo svolgimento di
alcune funzioni pubbliche, essa si sostanzierebbe, come
noto, in una spesa in conto capitale. Alla stessa può,
dunque, farsi ancora fronte, nel corrente esercizio, con
l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione (per il successivo
esercizio 2018, cfr. commi 460-461 dell’art. 1 della Legge
n. 232/2016, che non contemplano, tra le operazioni
finanziabili con in predetti oneri, l’acquisizione di
immobili).
2.2. Facendo nuovamente applicazione dei principi generali
fissati nella richiamata deliberazione n. 81/2017/PAR, può
passarsi ad affrontare il profilo attinente all’utilizzo dei
proventi relativi allo standard qualitativo aggiuntivo,
tenuto conto del combinato disposto dell’art. 90 e dell’art.
46, comma 1, della legge regionale lombarda 11.03.2005, n.
12. Tali disposizioni prevedono, infatti, che:
Art. 90 - Aree per attrezzature pubbliche e di
interesse pubblico o generale.
1. I programmi integrati di intervento garantiscono, a
supporto delle funzioni insediate, una dotazione globale di
aree o attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale, valutata in base all’analisi dei carichi di utenza
che le nuove funzioni inducono sull’insieme delle
attrezzature esistenti nel territorio comunale, in coerenza
con quanto sancito dall’articolo 9, comma 4.
2. In caso di accertata insufficienza o inadeguatezza di
tali attrezzature ed aree, i programmi integrati di
intervento ne individuano le modalità di adeguamento,
quantificandone i costi e assumendone il relativo
fabbisogno, anche con applicazione di quanto previsto
dall’articolo 9, commi 10, 11 e 12.
3. Qualora le attrezzature e le aree risultino idonee a
supportare le funzioni previste, può essere proposta la
realizzazione di nuove attrezzature indicate nel piano dei
servizi di cui all’articolo 9, se vigente, ovvero la
cessione di aree, anche esterne al perimetro del singolo
programma, purché ne sia garantita la loro accessibilità e
fruibilità.
4. È consentita la monetizzazione della dotazione di cui al
comma 1 soltanto nel caso in cui il comune dimostri
specificamente che tale soluzione sia la più funzionale per
l’interesse pubblico. In ogni caso la dotazione di parcheggi
pubblici e di interesse pubblico ritenuta necessaria dal
comune deve essere assicurata in aree interne al perimetro
del programma o comunque prossime a quest’ultimo,
obbligatoriamente laddove siano previste funzioni
commerciali o attività terziarie aperte al pubblico.
5. Nel caso in cui il programma integrato di intervento
preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la
convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno
del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per
l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente
individuati nel piano dei servizi e destinati alla
realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per
la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo
piano.
Art. 46 - Convenzione dei piani attuativi.
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il
rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione
delle denunce di inizio attività relativamente agli
interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto
stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge
06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché
la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e
di interesse pubblico o generale previste dal piano dei
servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle
monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono
utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti
nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica;
b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie
per allacciare la zona ai pubblici servizi; le
caratteristiche tecniche di tali opere devono essere
esattamente definite; ove la realizzazione delle opere
comporti oneri inferiori a quelli previsti per la
urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente
legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni
caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione
diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata
al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al
piano attuativo, nonché all’entità ed alle caratteristiche
dell’insediamento e comunque non inferiore agli oneri
previsti dalla relativa deliberazione comunale;
c) altri accordi convenuti tra i contraenti secondo i criteri
approvati dai comuni per l’attuazione degli interventi.
2.
La convenzione di cui al comma 1 può stabilire i tempi di
realizzazione degli interventi contemplati dal piano attuativo, comunque non superiori a dieci anni.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge
regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua
declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge
regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una
prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime
richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o
da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali
dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da
parte del comune, che “tale soluzione sia la più
funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma
dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in
cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
2.3. Ne consegue, per quanto qui maggiormente interessa, che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei
predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica
–da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse
pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi e destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano (cfr.
parere 15.11.2012 n. 487 di questa Sezione).
2.4. A non diverse conclusioni può pervenirsi in riferimento
all’utilizzo del “fondo per il Centro storico”, sulla cui
natura e funzione non è fornito alcun dettaglio nella
richiesta di parere in esame, ove lo stesso sia costituito
con contributi qualificabili come standard qualitativi
aggiuntivi.
2.5. Resta, comunque, fermo che, come del resto affermato
dallo stesso Ente nella richiesta di parere, la delineata
operazione deve essere posta in essere nel pieno rispetto
del disposto del comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n.
98/2011, non trattandosi di permuta “pura” (cfr.
deliberazione di questa Sezione n. 97/2014/PAR) (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.04.2017 n. 100). |
marzo 2017 |
|
PATRIMONIO:
Giurisdizione del giudice ordinario se lo sgombero riguarda
un bene appartenente al patrimonio disponibile.
---------------
Giurisdizione – Demanio e patrimonio – Patrimonio
disponibile – Ordine sgombero locale occupato – Controversia
– Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto
l’ordinanza con la quale il Comune ha diffidato a sgomberare
un locale occupato, appartenente al proprio patrimonio
disponibile, trattandosi di ordinanza emessa in carenza
assoluta di potere e, quindi, nulla (1).
---------------
(1)
Il Tar –premesso che il Comune ha inteso esercitare un
potere autoritativo e non inviare una semplice diffida
iure privatorum– ha richiamato, a supporto delle
conclusioni cui è pervenuto, la giurisprudenza secondo cui:
a) l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'Amministrazione
all'esercizio dei poteri amministrativi solo per tutelare i
beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile; di
conseguenza, l'eventuale ordinanza emessa in carenza
assoluta di potere, trattandosi di bene che appartiene al
patrimonio disponibile dell'ente, va qualificata come atto
nullo secondo i principi sanciti dall'art. 21-septies, l.
07.08.1990, n. 241;
b) l'atto nullo non produce alcun effetto degradatorio delle
posizioni soggettive di cui si assume la lesione, e se
dall’esecuzione del provvedimento sono derivati effetti
pregiudizievoli, gli stessi vanno considerati come
violazioni di diritti soggettivi la cui tutela appartiene
alla giurisdizione del giudice ordinario (Cons.
St., sez. V, 08.03.2010, n. 1331);
c) la controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale
di proprietà comunale facente parte del patrimonio
disponibile dell'ente territoriale appartiene alla
giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un
rapporto di matrice negoziale, da cui derivano in capo ai
contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in
termini di diritto soggettivo, nel cui ambito
l'Amministrazione agisce iure privatorum -al di fuori
cioè dell'esplicazione di qualsivoglia potestà
pubblicistica- non soltanto nella fase genetica e funzionale
del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più
specificamente, si traduce nell'assenza di poteri
autoritativi sia sul versante della chiusura del rapporto
stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene (Tar
Napoli, sez. VII, 06.02.2015, n. 931) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 20.03.2017 n. 1531
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Strisce
pedonali non possono essere verdi.
Paga il funzionario.
Come prescrive il Codice della strada, i colori utilizzati
per gli attraversamenti pedonali sono regolamentati in
maniera perentoria e tale colorazione deve essere applicata
su tutto il territorio nazionale. Pertanto, qualora un
comune dovesse disporre diversamente, la spesa sostenuta per
l'acquisto della vernice colorata, in luogo di quella
tradizionale, costituisce un danno erariale.
È quanto ha messo nero su bianco la Sezione giurisdizionale
della Corte dei conti per il Veneto, nel testo della
sentenza
14.03.2017 n. 38 con cui ha
condannato un funzionario tecnico di un comune del padovano
per aver disposto, su 55 attraversamenti pedonali in città,
una colorazione non consentita.
Il collegio della magistratura contabile ha infatti
sottolineato come il regolamento attuativo del Codice della
strada dispone, all'articolo 145, che gli attraversamenti
pedonali devono essere evidenziati sulla carreggiata
mediante zebrature con strisce bianche parallele alla
direzione di marcia e che nessun altro segno è consentito.
Ne deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo
stradale degli attraversamenti pedonali, è palesemente
contraria alle disposizioni del Codice della strada.
La Corte ha altresì richiamato il dm 27/04/2006 del
Ministero delle infrastrutture, con cui si ribadisce che la
colorazione delle strisce pedonali sia uniforme sull'intero
territorio nazionale e che, in caso di violazione, la
responsabilità ricade sugli enti proprietari delle strade
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2017).
---------------
MASSIMA
2. L'odierno giudizio è finalizzato all'accertamento
della pretesa risarcitoria avanzata dal Procuratore
regionale in ordine al danno erariale di €
1.155,00, asseritamente arrecato al Comune di San Martino di
Lupari (PD) da Gi.St.Ba., responsabile dell'Area
tecnica-manutenzioni, in relazione alla realizzazione, nel
territorio comunale, di attraversamenti pedonali su manto
stradale di colorazione non consentita.
3. Dagli atti di causa si evince che il convenuto, con le
determinazioni contrassegnate dai numeri 199/2008, 119/2009,
123/2010, 138/2010, 169/2010, 74/2012, 113/2012, 122/2012 e
148/2012, assunte nella qualità di responsabile di Area,
aveva fatto realizzare n. 55 attraversamenti pedonali su
manto stradale di colorazione verde; come da comunicazione
dello stesso funzionario, la differenza di spesa, effettuata
al fine di realizzare il passaggio pedonale su fondo verde,
anziché sul fondo stradale non colorato, ammonta a € 21,00
per ciascun attraversamento e, pertanto, ad € 1.155,00 in
totale.
Rileva il Collegio che l'art. 40 del codice della strada
(D.lgs. 30.04.1992 n. 285) nel disciplinare la segnaletica
orizzontale, costituita da strisce, frecce e scritte poste
sulla pavimentazione stradale per regolare la circolazione
stradale, per guidare gli utenti e per fornire prescrizioni
circa il comportamento da seguire, rinvia al regolamento per
quanto riguarda le forme, le dimensioni, i colori, i simboli
e le caratteristiche dei segnali orizzontali.
Lo stesso Codice (art. 45) vieta, tuttavia,
l'impiego di segnaletica stradale non conforme a quella
stabilita dal codice stesso, dal Regolamento o dai decreti e
dalle direttive ministeriali.
Il Regolamento, approvato con DPR
16.12.1992 n. 495, espressamente stabilisce che i colori dei
segnali orizzontali sono il bianco, il giallo, l'azzurro e
il giallo alternato con il nero (art. 137, comma 5); che gli
attraversamenti pedonali sono evidenziati sulla carreggiata
mediante zebrature con strisce bianche parallele alla
direzione di marcia (art. 145); che nessun altro segno è
consentito sulle carreggiate stradali soggette a pubblico
transito, all'infuori di quanto previsto dalle norme in
questione (art. 155).
Da ciò deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo
stradale dell'attraversamento pedonale, deve ritenersi
contraria alle precise disposizioni poste dal Codice della
strada e dal Regolamento.
Peraltro, il Ministero delle Infrastrutture
e dei Trasporti,
con il decreto ministeriale 27.04.2006 n. 777 (II° direttiva
sulla corretta ed uniforme applicazione delle norme del
codice della strada in materia di segnaletica e criteri per
l'istallazione e la manutenzione), ha
espressamente ribadito (punto 5) sia la cogenza della
normativa stradale in ordine alla colorazione degli
attraversamenti pedonali, sia la necessità che la
colorazione sia uniforme sull'intero territorio nazionale;
ha, inoltre, segnalato le responsabilità ricadenti sugli
enti proprietari delle strade in caso di violazione delle
anzidette disposizioni.
Tali prescrizioni costituivano peraltro oggetto della
circolare 1/2001 della Prefettura di Padova, inviata a tutti
i Sindaci della Provincia, in cui si richiamavano le
disposizioni normative, la direttiva ministeriale e la
normativa europea (UN 1436 del 2004) in ordine al divieto di
utilizzare colorazioni diverse da quelle espressamente
previste.
Tanto premesso, il Collegio ritiene che la
maggiore spesa effettuata dal Comune per la realizzazione
degli attraversamenti pedonali colorati costituisca danno
erariale in quanto non solo contraria alle disposizioni di
legge ma anche di nessuna utilità per l'amministrazione
stessa e la Comunità amministrata.
4. Tale danno è addebitabile al signor
Gi.St.Ba., per avere adottato la scelta di apporre una
colorazione non consentita, in frontale contrasto con le
disposizioni di legge sopra richiamate.
Ritiene, al riguardo, il Collegio che la condotta
antigiuridica addebitata al convenuto sia supportata dalla
colpa grave. La valutazione della sussistenza dell'elemento
psicologico, nella intensità prevista dalla legge, va
effettuata attraverso un giudizio di rimproverabilità per
l'atteggiamento antidoveroso della volontà che sarebbe stato
possibile non assumere, con valutazione ex ante, in
base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della
serie causale produttiva del danno (teoria della concezione
normativa della colpevolezza).
Nel caso di specie, il convenuto, per la
sua qualificazione professionale (responsabile dell'Area
tecnica-manutenzioni del Comune), avrebbe potuto certamente
rilevare l'antigiuridicità della scelta effettuata, solo
verificando le chiare disposizioni normative in materia,
alla luce della modifica cromatica che andava a introdurre
nella segnaletica orizzontale posta nel territorio dell'Ente
locale, sicuramente innovativa rispetto ad una tradizionale
coloratura.
Peraltro, nel periodo di tempo in cui tale innovazione venne
introdotta (2008-2012) era intervenuta, ancorché non ve ne
fosse necessità, anche una specifica circolare
chiarificatrice della Prefettura di Padova. In buona
sostanza, sarebbe bastato un minimo di
diligenza da parte del funzionario e un approfondimento
sulla questione per valutare la portata delle disposizioni
normative e per ricercare, ove non in possesso della
Amministrazione, le direttive fornite dal competente
Ministero nella materia de qua.
5. Per tutto quanto precede, il Collegio condanna il signor
Gi.St.Ba. al pagamento, in favore del Comune di San Martino
di Lupari (PD), della somma di € 1.155,00, comprensiva di
rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali
calcolati dalla data di pubblicazione della sentenza sino al
soddisfo.
6. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si
liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale regionale per il Veneto
definitivamente pronunciando, condanna
BA.Gi.St. al pagamento, in favore del Comune di San Martino
di Lupari (PD), della somma complessiva di € 1.155,00,
comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre interessi
legali dalla data della sentenza sino all'effettivo
pagamento. |
febbraio 2017 |
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PATRIMONIO: Responsabilità
della PA per circolazione di pedoni e veicoli.
La P.A. è tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in
condizioni di sicurezza: a tale obbligo l’ente proprietario della strada
viene meno non solo quando non provvede alla manutenzione di quest’ultima,
ma anche quando il danno sia derivato dal difetto di manutenzione di aree
private destinate al pubblico transito atteso che è comunque obbligo
dell’ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei
veicoli e dei pedoni in totale sicurezza.
(Nel caso in esame veniva riconosciuta la sussistenza della responsabilità
per colpa presunta del Comune che non aveva predisposto le dovute attività
di manutenzione in un tratto stradale privato adibito alla circolazione
pubblica in cui era rovinosamente caduto un soggetto).
---------------
E' in colpa la pubblica amministrazione la quale:
- né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree,
anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse
possa derivare pericolo per gli utenti della strada,
- né provveda ad inibirne l'uso generalizzato.
Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una
strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere
la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione
dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta
alla sua manutenzione..
---------------
6. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che, anche ad
ammettere che il luogo del sinistro fosse di proprietà privata, esso era
nondimeno di uso pubblico, sicché l'amministrane comunale aveva comunque
l'obbligo di provvedere Lilla sua manutenzione. Pertanto, non tenendo conto
della colpa scaturente dalla violazione di quest'obbligo, la sentenza
impugnata avrebbe violato gli artt. 2 d.lgs. 285/1992 e 22, comma 3, l.
2248/1865.
Il motivo è fondato.
Questa Corte ha già più volte stabilito che l'amministrazione comunale è
tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in condizioni di
sicurezza: ed a tale obbligo l'ente proprietario della strada viene meno non
solo quando non provvede alla manutenzione di quest'ultima, ma anche quando
il danno sia derivato dal difetto di di manutenzione di aree limitrofi alla
strada, atteso che è comunque obbligo dell'ente verificare che lo stato dei
luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza
(Sez. 3, Sentenza n. 23362 del 11/11/2011, Rv. 620314).
Infatti il Comune il quale consenta alla collettività l'utilizzazione, per
pubblico transito, di un'area di proprietà privata, si assume l'obbligo di
accertarsi che la manutenzione dell'area e dei relativi manufatti non sia
trascurata.
Ne consegue che l'inosservanza di tale dovere di sorveglianza, che
costituisce un obbligo primario della P.A., per il principio del
neminem laedere, integra gli estremi della colpa e determina la
responsabilità per il danno cagionato all'utente dell'area, non rilevando
che l'obbligo della manutenzione incomba sul proprietario dell'area medesima
(Sez. 3, sentenza n. 7 del 04/01/2010, Rv. 610958).
...
4.3. La memoria depositata dal Comune di San Giovanni Rotondo deduce
altresì, quanto al merito dell'impugnazione, che:
- il giudice di merito non ha mai accertato se la strada ove
avvenne il fatto fosse di uso pubblico o meno;
- il relativo accertamento costituisce oggetto di un apprezzamento
di fatto;
- conseguentemente, esso non è censurabile in sede di legittimità.
Tali deduzioni sono in tesi corrette, ma non pertinenti rispetto al presente
giudizio: esse, pertanto, non consentono di rigettare il ricorso.
1,a Corte d'appello di Bari, infatti, ha rigettato la domanda sul
presupposto che la vittima patì lesioni cadendo su una strada di proprietà
privata.
I ricorrenti hanno impugnato tale statuizione, deducendo che il Comune ha il
dovere di vigilare e manutenere anche le are private aperte al pubblico
transito di veicoli e pedoni.
Tale deduzione è sostanzialmente corretta, per le ragioni già indicate dalla
relazione preliminare, e sopra trascritte.
Ne consegue che oggetto del terzo motivo di ricorso non è una
quaestio facti (la proprietà privata o pubblica di un'area), ma una
quaestio juris (stabilire se l'obbligo di custodia gravante
sull'amministrazione locale si estenda alle aree aperte al pubblico transito
ma di proprietà privata).
4.4. Il ricorso deve quindi essere accolto limitatamente al terzo motivo.
Il giudice di rinvio, nel riesaminare la domanda, si atterrà al seguente
principio di diritto: 'E' in
colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o
messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie
pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della
strada, né provveda ad inibirne l'uso generalizzato. Ne consegue che, nel
caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura
privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità
dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue
condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione"
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
sentenza 07.02.2017 n. 3216). |
PATRIMONIO:
Gli immobili comunali.
DOMANDA:
Il Comune ha affidato nel 2009 alla propria partecipata
(affidamento in house) l’attività di manutenzione e
valorizzazione degli immobili comunali – quasi tutti
destinati a pubblici servizi e fini istituzionali. Gli
immobili sono stati affidati in concessione alla Società
affinché la stessa avesse titolo giuridico per realizzare
gli investimenti, contabilizzarli nel proprio stato
patrimoniale ed ammortizzarli per tutta la durata della
concessione.
Il Comune, in quanto proprietario -e su parere della Corte
dei Conti- ha mantenuto tali immobili nel proprio inventario
e stato patrimoniale al valore in corso prima della
concessione e proseguendo nell’ammortamento annuale.
Allo scadere della concessione il Comune dovrebbe aggiornare
il proprio stato patrimoniale per il maggior valore
determinato dalle migliorie/nuovi investimenti realizzati
dalla società anche se non è chiaro con quale criterio
valorizzerà tali interventi.
Il contratto di servizio prevede un corrispettivo annuo per
la gestione ordinaria ed un corrispettivo annuo per la
manutenzione straordinaria da riconoscere alla società per
una durata di 20 anni.
Il corrispettivo per la manutenzione straordinaria ha lo
scopo di remunerare le manutenzioni straordinarie effettuate
annualmente ma anche gli oneri diretti e indiretti che la
società sostiene a fronte degli investimenti (nuove opere)
realizzate nei primi 5 anni di attività.
Fino al 31.12.2015 il Comune registrava tale spesa (il
canone per le manutenzioni straordinarie) al titolo II ma
come costo nel conto economico. In questo modo si evitava
una doppia registrazione di incrementi di valore sugli
stessi beni (da parte della società e da parte del Comune).
Chiediamo il vostro parere rispetto alla corretta
contabilizzazione della fattispecie tenuto conto dei nuovi
principi contabili.
RISPOSTA:
Si ritiene che le procedure seguite fino al 2015 siano
corrette; inoltre, si ritiene che, tenuto anche conto di
quanto precisato dall'allegato 4/3 al D.lgs. 118/2011, ai
paragrafi 4.16 (pagina 7), 4.18 (pagina 8) e 6.12 (pagina
16), l’ente, per il 2016 e anni successivi, debba continuare
con il metodo seguito negli anni passati.
Per quanto riguarda i criteri di valorizzazione degli
investimenti che sono stati realizzati dalla Società, si
ritiene che si debbano applicare i principi illustrati
nell'agosto 2014 dall’Organismo Italiano di Contabilità OIC
16 a proposito delle “immobilizzazioni materiali”; in
particolare si ritiene che si debba fare riferimento a
quanto stabilito per i “costi di acquisto” (si veda i
punti da 26 a 28) e per i costi di “ampliamenti,
ammodernamenti, miglioramenti e rinnovamento” (si veda i
punti 41-43) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
gennaio 2017 |
|
PATRIMONIO:
L'indennità di avviamento commerciale.
DOMANDA:
Questo Comune detiene in proprietà due unità immobiliari,
appartenenti al patrimonio disponibile, destinati ad
attività commerciali (tabaccheria e attività di
somministrazione).
Nel corso degli anni, questi beni sono stati concessi in
locazione con affidamento diretto. Gli attuali contratti
scadono (fine dei dodici anni) il 31/12/2016. Il contratto
prevedeva l'estinzione del medesimo alla seconda scadenza
sessennale. Ai conduttori è stata comunicata un anno prima
della scadenza l'intenzione dell'Amministrazione di
procedere con la stipula di un nuovo contratto.
L'Amministrazione ha poi legittimamente deciso di pubblicare
un bando per il reperimento del nuovo conduttore, nel quale
è previsto il diritto di prelazione a favore dei conduttori
uscenti ai sensi dell'art. 40 della legge 392/1978.
L'attuale conduttore del bar rivendica, in caso di mancata
aggiudicazione, la corresponsione dell'indennità per perdita
di avviamento pari a 18 mensilità, elevabili a 36 nel caso
in cui il nuovo aggiudicatario apra un'attività equivalente
entro l'anno.
Con la presente, si chiede se effettivamente tale indennità
sia dovuta, anche nel caso in cui il contratto sia giunto a
naturale scadenza e sulla base che il Comune non possa
rinnovare tacitamente il contratto, in quanto dovuta la
forma scritta.
RISPOSTA:
Il conduttore di un locale ad uso commerciale ha diritto
all'"indennità per la perdita di avviamento", ai
sensi dell’art. 34 della l. n. 392/1978, solo in caso di
recesso anticipato del locatore. La previsione legislativa
mira, infatti, a tutelare il conduttore, dai disagi e dalle
difficoltà derivanti alla sua attività commerciale a causa
della disdetta del contratto di locazione da parte del
proprietario/locatore e a disincentivare il locatore dal
recesso anticipato spingendolo ad attendere la scadenza
naturale del contratto per evitare di incorrere nell'obbligo
del versamento delle somme a titolo di indennità.
Il pagamento dell'indennità di avviamento commerciale,
pertanto, riveste una funzione riparatoria, mirando a
compensare i disagi e i costi che il conduttore dovrà
affrontare, a causa della volontà di recesso del locatore,
per la perdita della sede in cui viene esercitata l'attività
quale elemento fondamentale dell'azienda.
Nel caso concreto, in cui il contratto è giunto a naturale
scadenza, l’indennità non è dovuta, mancando il presupposto
del recesso unilaterale (ed improvviso) del locatore e
quindi la conseguente esigenza di tutela e risarcimento del
conduttore (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
dicembre 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: OGGETTO:
servitù di uso pubblico a parcheggio autoveicoli –
costituzione in via convenzionale – modalità di estinzione –
parere
(Legali Associati per Celva,
nota
12.12.2016 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: Il Comune di La Salle
dispone di area pubblica che è stata dismessa dai privati ai
fini dell’ottenimento di concessione edilizia (anno 1985).
Il Consiglio Comunale nel 1986 delibera a favore
dell’acquisizione (o meglio dell’intenzione di acquisire)
l’area. La successiva convenzione che prevede l’istituzione
del parcheggio pubblico consiste in una scrittura privata
registrata (anno 1992) di servitù permanente gratuita di
parcheggio ad uso pubblico. L’area si compone di solaio in
cemento armato che sovrasta autorimessa.
I privati ora chiedono di essere reimmessi nel possesso
privato dell’area che ad oggi è parcheggio ed è stato
mantenuto (asfalto, cartelli, strisce, sgombero neve,...) ad
opera del Comune. Il Comune ad oggi utilizza detta area come
parcheggio pubblico e vuole porlo parzialmente a pagamento
(zone blu).
Riferimenti normativi: D.P.R. n. 327 del 2001
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: -
possibile applicare art. 42-bis
Quesiti: Si chiede se i proprietari dell'area hanno
diritto alla reimmissione in possesso del parcheggio come da
loro richiesta. |
APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: Parere
in merito a questioni che riguardano il valore di vendita
delle reti e degli impianti di proprietà alla distribuzione
del gas.
La cessione delle reti e degli impianti
si inquadra, in termini generali, nella disciplina di
diritto comune concernente il patrimonio indisponibile
(articolo 826 c.c.), tali dovendo considerarsi i beni in
questione, ove di proprietà di enti pubblici e strumentali
all'espletamento di un servizio pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali
indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a
condizione che ne venga mantenuta la destinazione al
servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma
2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi
traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione
suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per
sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati
(es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).
---------------
Per gli enti locali alla scadenza delle concessioni possono
di fatto porsi le seguenti tre opzioni:
a) l’ente non riscatta l’impianto ma affida al
nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto
di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR
al gestore uscente e la RAB ai successivi;
b) l’ente riscatta, se non può beneficiare della
devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare
ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la
titolarità degli impianti di rete per la cui messa a
disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine
di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe
praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché
sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento
(autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento
rispetto al VIR;
c) l’ente riscatta l’impianto (sempre se
non è prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede
la proprietà, con destinazione al servizio di rete, al
concessionario vincitore della gara.
---------------
E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale
al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è
intervenuto il MiSE laddove chiarisce che “il
valore di trasferimento è pari al valore delle
immobilizzazioni nette di località del servizio di
distribuzione e misura, relativo agli impianti che vengono
alienati, al netto dei contributi pubblici in conto capitale
e dei contributi privati relativi ai cespiti di località
(c.d. RAB), come riconosciuto dall’Autorità nella tariffa
valida per la gestione d’ambito e come già spettante
all’ente locale in quanto titolare della rete. Pertanto, la
decisione dell’ente locale di alienare o meno la rete di
proprietà pubblica non deve creare nuovi oneri a carico dei
clienti finali del servizio in termini di aumento delle
tariffe di distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già
rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI.
Consegue dunque da tale lettura che
in caso della peraltro obbligatoria cessione della proprietà
delle reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si
vedrà riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli
impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento
del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato
sulla base della RAB.
---------------
Va qui ribadito che sono le norme di
contabilità pubblica a disciplinare il valore di iscrizione,
nello stato patrimoniale, dei beni del demanio e del
patrimonio (allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011,
n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “(…)
le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni
demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili.
(…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato
patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di
produzione, se realizzato in economia (inclusivo di
eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese
notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari
per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di
ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio,
il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale
costo è rettificato nell'ambito delle scritture di
assestamento mediante apposita svalutazione. Le
rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche
normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in
esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi
contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato
patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al
calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di
valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere
accompagnata dal principio di prudenza
(allegato 1 relativo ai principi contabili generali e
applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto
legislativo 23.06.2011, n. 118),
secondo cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere
iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente
saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le
indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che
ribadirsi come i criteri di iscrizione
nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti
locali restino disciplinati dalle norme di contabilità
pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il
criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di
eventi che determinino un decremento effettivo del valore
del bene.
Resta fermo, peraltro, che nell’ambito
della predisposizione del bilancio preventivo, la
valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista
cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta
e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte
dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di
tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di
influire sulle effettive possibilità di realizzare i
proventi derivanti dalla cessione del bene.
---------------
I Comuni richiedenti riferiscono che, stretti dai vincoli
di bilancio e considerata la remunerazione che otterrebbero
dal Gestore dell’Ambito Territoriale Minimo (ATEM) negli
anni di gestione della rete gas di cui sono comproprietari,
stanno valutando l’opzione di cederne la proprietà ed
incassare il relativo valore, operazione che, in linea
con le indicazioni del Ministero per lo Sviluppo Economico (MiSE),
avverrebbe nel contesto della gara d'ATEM.
I Comuni sottolineano come le Autorità di regolazione (MiSE
e Autorità per l'Energia Elettrica, il Gas e il Sistema
Idrico – AEEGSI) abbiano sostenuto che nell’ipotesi di
alienazione a nuovo gestore il valore di trasferimento in
favore dell’aggiudicatario non deve essere il cosiddetto
valore industriale residuo – VIR – ma la RAB (Regulatory
Asset Base) ossia il valore corrispondente al capitale
investito riconosciuto ai fini tariffari.
I Comuni rimarcano quindi che a loro avviso:
a) la valorizzazione tramite il metodo RAB (in luogo del VIR)
comporterebbe un danno per gli equilibri di bilancio atteso
che il primo è in inferiore al secondo;
b) l’utilizzazione di distinti criteri di valorizzazione
configurerebbe disparità di trattamento tra Gestori privati
proprietari di reti e Comuni proprietari di reti, “in
contrasto con l'articolo 3 della Costituzione” e
spingerebbe gli enti a comportamenti non in linea con “l'articolo
97 della Costituzione che impone all'amministrazione
pubblica di valorizzare i propri beni e a ricavarne il
massimo importo percepibile”.
Tutto ciò premesso, i Comuni istanti chiedono:
1) “Può l'Amministrazione Comunale attribuire ad uno stesso
cespite un valore diverso in funzione del proprietario, e
per quelle di proprietà dell’Ente Locale una valorizzazione
inferiore, senza incorrere in un possibile “Danno Erariale”
per gli Amministratori che lo hanno deliberato?
2) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita nella gara
d’Ambito, le sue proprietà ad un importo che non corrisponde
al reale valore, consapevole che le proprietà del Gestore
hanno avuto un trattamento diverso, di molto superiore a
quelle di proprietà dell'Ente Locale. Infatti ha dovuto
approvare con Delibera Comunale le valorizzazioni dei
cespiti di proprietà del Gestore Uscente a VIR, mentre dovrà
approvare per le sue proprietà un valore di molto inferire a
quello che è stato riconosciuto al Gestore, in quanto
dovranno essere valorizzati a RAB?
3) Deve l'Amministrazione comunale mettere in gara anche i suoi
impianti a valore di VIR per non far incorrere i suoi
Amministratori in un possibile addebito di Danno Erariale?
4) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita i suoi
Asset a RAB consapevole che la fac del MISE non ha tenuto
nella giusta considerazione che la sottovalutazione dei
cespiti di proprietà dell'Ente Locale a favore del Gestore
subentrante può essere considerata dalla Comunità Europea un
Aiuto di stato alla ditta che si aggiudicherà la gara
d'Ambito?”.
...
Quanto al secondo aspetto (generalità ed astrattezza),
l’effettiva formulazione dei quesiti è da un lato tale da
risultare eccessivamente puntuale e concreta fino ad
involgere precise scelte gestionali e dall’altro richiede un
anticipato parere sulla responsabilità erariale (quesiti 1,
3 e 4) il che interferisce con le funzioni giurisdizionali
attribuite alle competenti sezioni della Corte e risulta
dunque inammissibile in forza di consolidata giurisprudenza
(cfr. da ultimo deliberazione del 06.09.2016, n. 229 della
Sezione di controllo Lombardia) ed in base a un costante
orientamento (cfr. ex multis deliberazione delle
Sezione delle Autonomie del 10.03.2006, n. 5/AUT/2006)
secondo cui non possono ritenersi procedibili i quesiti che
possano formare oggetto di esame in sede giurisdizionale da
parte di altri organi a ciò deputati dalla legge.
In definitiva, è da ritenere che i quesiti 1), 3) e 4)
non possano essere considerati ammissibili mentre il
2) è scrutinabile ma solo nel senso che questa Sezione può
qui riportare taluni principi generali relativi al regime
proprietario dei beni in questione, il tutto nell'ambito
dell’articolata disciplina, legislativa e regolamentare,
della gestione e titolarità delle reti di gas.
...
MERITO
Va in primo luogo rimarcato che la
cessione delle reti e degli impianti si inquadra, in termini
generali, nella disciplina di diritto comune concernente il
patrimonio indisponibile (articolo 826 c.c.), tali dovendo
considerarsi i beni in questione, ove di proprietà di enti
pubblici e strumentali all'espletamento di un servizio
pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali
indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a
condizione che ne venga mantenuta la destinazione al
servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma
2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi
traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione
suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per
sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati
(es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).
Con riguardo agli aspetti più specifici, dal punto di vista
microeconomico il servizio di distribuzione
del gas configura un “monopolio naturale”, forma di
mercato che se non adeguatamente regolata è portatrice di
svantaggi per i clienti finali in termini di rapporto tra
qualità e prezzo del servizio erogato.
La normativa di riferimento, proprio al fine di creare le
migliori condizioni per la clientela, si è nel tempo evoluta
nel senso dell’abolizione del regime di monopolio (articolo
1, comma 1, del decreto legislativo 23.05.2000, n. 164 –cd
Decreto Letta– “Attuazione della direttiva n. 98/30/CE
recante norme comuni per il mercato interno del gas
naturale, a norma dell'articolo 41 della legge 17.05.1999,
n. 144”).
Le norme hanno dunque disposto la tendenziale
liberalizzazione delle “attività di importazione,
esportazione, trasporto e dispacciamento, distribuzione e
vendita di gas naturale, in qualunque sua forma e comunque
utilizzato” e con specifico riguardo all’attività di
distribuzione, la liberalizzazione si è concretizzata da un
lato nella separazione funzionale tra proprietà degli
impianti e gestione degli stessi e dall’altro
nell’affidamento del servizio in via esclusiva ma ben
limitata nel tempo (massimo 12 anni), il tutto in un quadro
che ha avuto ed ha tuttora ad obiettivo anche la riduzione
del numero delle reti presenti in ogni ambito territoriale.
L’articolo 14, comma 4 del citato Decreto Letta, dispone
che: "Alla scadenza del periodo di affidamento del
servizio, le reti, nonché gli impianti e dotazioni
dichiarati reversibili, rientrano nella piena disponibilità
dell'ente locale. Gli stessi beni, se realizzati durante il
periodo di affidamento, sono trasferiti all'ente locale alle
condizioni stabilite nel bando di gara e nel contratto di
servizio".
La norma in parola distingue i beni
preesistenti all'affidamento del servizio, i quali, al
termine del medesimo, dovranno rientrare nella disponibilità
dell'ente locale, da quelli realizzati nel corso
dell'affidamento (di proprietà di privati, dunque) che,
secondo quanto previsto dal comma 8, sono trasferiti da un
gestore all'altro per effetto del succedersi della gare
d'ambito, circolando unitamente alla gestione del servizio
di distribuzione.
Nella fase del processo di liberalizzazione la disciplina
primaria sopra menzionata è stata ulteriormente integrata
(articolo 46-bis del decreto legge 01.10.2007, n. 159,
convertito dalla legge 29.11.2007, n. 222) prevedendo la
emanazione di un decreto interministeriale finalizzato a
disciplinare, in concreto, i criteri per l’affidamento del
servizio “tenendo conto in maniera adeguata, oltre che
delle condizioni economiche offerte, e in particolare di
quelle a vantaggio dei consumatori, degli standard
qualitativi e di sicurezza del servizio, dei piani di
investimento e di sviluppo delle reti e degli impianti”.
Il risultante DM 12.11.2011, n. 226, definisce, tra l’altro,
le condizioni economiche dei trasferimenti, secondo
i seguenti criteri:
a) il valore di rimborso degli impianti nella fase
transitoria è definito dalle parti convenzionalmente o, in
mancanza di accordo, in base al valore industriale della
parte di impianto di proprietà del gestore uscente secondo
il costo di costruzione a nuovo (VIR);
b) il valore di rimborso degli impianti nella fase
“a regime”, ai sensi dell’articolo 14, comma 8, del
D.Lgs. n. 164/2000, riformulato dall’articolo 24, comma 1,
del decreto legislativo 01.06.2011, n. 93, è pari “al
valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio
di distribuzione e misura, relativo agli impianti la cui
proprietà viene trasferita dal distributore uscente al nuovo
gestore, incluse le immobilizzazioni in corso di
realizzazione, al netto dei contributi pubblici in conto
capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di
località, calcolato secondo la metodologia della regolazione
tariffaria vigente e sulla base della consistenza degli
impianti al momento del trasferimento della proprietà” (RAB).
All’articolo 8, comma 3, lo stesso DM specifica l’obbligo,
da parte del nuovo gestore, di corrispondere “annualmente
agli Enti locali e alle società patrimoniali delle reti che
risultino proprietarie di una parte degli impianti
dell’ambito” la remunerazione della RAB.
Come osservato a proposito di questione analoga a quella in
trattazione dalla Sezione di controllo della Lombardia (n.
277/2016/PAR), la differenza tra i due
criteri trova la sua ragion d’essere nel fatto che nel
periodo transitorio il costruttore e proprietario
dell’impianto (in precedenza gestore del servizio) subisce,
in seguito alla cessazione ope legis della
concessione, una sostanziale ablazione del proprio diritto
dominicale e deve essere ristorato della stessa utilità
perduta mentre “a regime” l’attribuzione delle
proprietà (o della mera disponibilità) degli impianti a rete
è definita dall’ente contestualmente all’affidamento del
servizio e sorge la più limitata esigenza di remunerare il
gestore precedente esclusivamente delle somme investite
nell’impianto.
In via eccezionale, tuttavia, il legislatore (sempre nel
decreto legislativo n. 93/2011) ha consentito ai primi
concessionari del periodo a regime l'ammortamento della
differenza tra il valore di rimborso e il valore delle
immobilizzazioni nette, al netto dei contributi pubblici in
conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti
di località. Tale adeguamento è operato tramite il
riconoscimento nella tariffa da parte della AEEGSI, nel caso
lo scostamento tra i due criteri sia superiore al
venticinque per cento (deliberazione AEEGSI del 26.06.2014,
n. 310).
In definitiva, per gli enti locali alla
scadenza delle concessioni possono di fatto porsi le
seguenti tre opzioni:
a) l’ente non riscatta l’impianto ma affida al
nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto
di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR
al gestore uscente e la RAB ai successivi;
b) l’ente riscatta, se non può beneficiare della
devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare
ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la
titolarità degli impianti di rete per la cui messa a
disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine
di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe
praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché
sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento
(autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento
rispetto al VIR;
c) l’ente riscatta l’impianto (sempre se non è
prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede la
proprietà, con destinazione al servizio di rete, al
concessionario vincitore della gara.
E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale
al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è
intervenuto il MiSE con un “Chiarimento circa la
possibilità per gli Enti locali di alienare il proprio asset,
costituito dalla rete e dagli impianti di distribuzione del
gas naturale” nel quale dopo aver premesso che “non
spetta a questo Ministero fornire l’interpretazione di
normative primarie riguardanti il regime di gestione dei
servizi pubblici locali, nonché il regime di circolazione
dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello
Stato (…)” chiarisce che “il valore
di trasferimento è pari al valore delle immobilizzazioni
nette di località del servizio di distribuzione e misura,
relativo agli impianti che vengono alienati, al netto dei
contributi pubblici in conto capitale e dei contributi
privati relativi ai cespiti di località (c.d. RAB), come
riconosciuto dall’Autorità nella tariffa valida per la
gestione d’ambito e come già spettante all’ente locale in
quanto titolare della rete. Pertanto, la decisione dell’ente
locale di alienare o meno la rete di proprietà pubblica non
deve creare nuovi oneri a carico dei clienti finali del
servizio in termini di aumento delle tariffe di
distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già
rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI.
Consegue dunque da tale lettura che in caso
della peraltro obbligatoria cessione della proprietà delle
reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si vedrà
riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli
impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento
del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato
sulla base della RAB.
In punto di economia e regolamentazione vanno in definitiva
rimarcati due elementi:
●
da un lato
come, in termini generali, possano ben sussistere contesti
caratterizzati da regolazione non simmetrica e ciò proprio
al fine di stimolare l’entrata di più competitori sul
mercato e quindi maggiore utilità per i
consumatori/contribuenti finali;
●
dall’altro come sussistendo una chiara e definita
relazione diretta tra valore riconosciuto al (peculiare)
bene-rete in sede di cessione e livello delle tariffe che i
consumatori pagheranno a fronte dei servizi erogati (più
alto il primo, più alte le seconde), ciò che viene a
determinarsi, nel caso del riconoscimento della RAB in luogo
del VIR, è il trasferimento di un valore a beneficio
dell’ente che è si inferiore nel momento in cui si realizza
la cessione, ma non se valutato lungo l’intera durata della
concessione, dal momento che il più basso valore è a fronte
di benefici futuri per i consumatori in termini di più
contenuti livelli delle tariffe.
Comunque, al di là delle potenziali disarmonie nel regime
transitorio sulle quali questa Sezione non può esprimersi e
al di là dell’eventuale incongruenza delle norme esistenti e
della presunta disparità di trattamento delle quali i Comuni
possono eventualmente lamentarsi nelle sedi appropriate,
presso le quali far valore eventuali presunti diritti,
va qui ribadito che sono le norme di contabilità
pubblica a disciplinare il valore di iscrizione, nello stato
patrimoniale, dei beni del demanio e del patrimonio
(allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “(…)
le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni
demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili.
(…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato
patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di
produzione, se realizzato in economia (inclusivo di
eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese
notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari
per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di
ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio,
il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale
costo è rettificato nell'ambito delle scritture di
assestamento mediante apposita svalutazione. Le
rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche
normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in
esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi
contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato
patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al
calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di
valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere
accompagnata dal principio di prudenza
(allegato 1 relativo ai principi contabili generali e
applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto
legislativo 23.06.2011, n. 118), secondo
cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere
iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente
saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le
indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che
ribadirsi come i criteri di iscrizione
nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti
locali restino disciplinati dalle norme di contabilità
pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il
criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di
eventi che determinino un decremento effettivo del valore
del bene.
Resta fermo, peraltro, che nell’ambito
della predisposizione del bilancio preventivo, la
valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista
cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta
e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte
dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di
tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di
influire sulle effettive possibilità di realizzare i
proventi derivanti dalla cessione del bene
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 01.12.2016 n. 234). |
novembre 2016 |
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PATRIMONIO:
Immobile comunale del patrimonio disponibile destinato a
farmacia.
Per quanto concerne l'assegnazione in
uso a terzi di immobili comunali, la giurisprudenza è
costante nel ritenere che la natura demaniale o patrimoniale
indisponibile del bene determina l'applicazione dello
strumento pubblicistico della concessione amministrativa,
mentre l'appartenenza del bene al patrimonio disponibile
implica l'utilizzo di negozi contrattuali di diritto
privato.
Alla luce del quadro normativo vigente (art. 9, c. 3, L. n.
537/1993; art. 32, c. 8, L. n. 724/1994), che impone la
determinazione dei canoni di concessione di immobili ai
privati sulla base dei prezzi praticati in regime di libero
mercato, la gestione dei beni pubblici è improntata al
principio di fruttuosità.
Secondo l'orientamento della Corte dei conti, come evoluto
negli ultimi anni, le eccezioni alla regola della
redditività, sia nel senso di mitigarla che in quello di
escluderla, postulano l'assenza dello scopo di lucro in capo
ai soggetti privati beneficiari. Va data, ovviamente, in
questo caso, esaustiva motivazione della finalità
istituzionale perseguita e deve essere compiuta un'attenta
valutazione comparativa degli interessi pubblici in gioco.
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, ai fini
dell'assegnazione di immobile comunale destinato a farmacia
a farmacista libero professionista, sembra venire in
considerazione, stante la natura di imprenditore commerciale
del farmacista, l'istituto della locazione, nel rispetto
della normativa vigente (per un canone corrispondente a
quello del valore di mercato).
Il Comune è proprietario di un immobile destinato a farmacia
ed appartenente al patrimonio disponibile, a suo tempo
concesso in uso gratuito al precedente titolare della
farmacia.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
procedere ora, allo stesso modo, all'assegnazione gratuita
dell'immobile al nuovo farmacista, libero professionista,
considerata l'importanza di avere il servizio di farmacia
nel proprio territorio montano -distante dai paesi di
fondovalle e la cui scarsa popolazione è composta per lo più
da anziani- e comunque di sapere attraverso quale strumento
giuridico sia legittimo agire (locazione, comodato,
concessione). Il Comune rappresenta, inoltre, l'utilità di
assicurare ai residenti ulteriori servizi -consegna farmaci
a domicilio, misurazione pressione, uso defibrillatore- per
i quali valuterebbe di dare un corrispettivo al farmacista.
In via preliminare, si precisa che l'attività di questo
Servizio consiste nel fornire agli enti locali un supporto
giuridico generale sulle questioni poste, da cui poter
trarre elementi utili per l'individuazione in autonomia
della soluzione dei casi concreti, in relazione alle
specificità che li connotano. Pertanto, in via
collaborativa, si esprimono sul tema in oggetto le seguenti
considerazioni.
Il tipo di negozio giuridico da utilizzare per l'affidamento
di immobili comunali dipende dalla natura di questi,
demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale
disponibile.
In particolare, la natura demaniale o patrimoniale
indisponibile dell'immobile determina l'applicazione dello
strumento pubblicistico della concessione amministrativa,
mentre per i beni del patrimonio disponibile l'attribuzione
in godimento a soggetti terzi deve essere effettuata secondo
gli schemi di diritto privato [1].
La giurisprudenza della Cassazione civile è costante
nell'affermare che, a prescindere dalla qualificazione
giuridica attribuita dalle parti o dalla pubblica
amministrazione al rapporto posto in essere, la natura
demaniale o patrimoniale indisponibile dell'immobile implica
l'esistenza di una concessione amministrativa, mentre il
rapporto avente ad oggetto il godimento di un bene immobile
compreso nel patrimonio disponibile si configura quale
locazione [2].
Queste considerazioni portano a ritenere che la concessione
in uso dell'immobile comunale, appartenente al patrimonio
disponibile dell'Ente (per sua espressa indicazione), vada
effettuata a mezzo di negozi contrattuali di diritto
privato.
In ordine a quale contratto possa essere utilizzato, in
particolare se anche il comodato, la Corte dei conti, nel
rimarcare che le concrete scelte gestionali in questo ambito
rientrano nell'esclusiva discrezionalità degli enti
[3], ha
espresso principi generali, continuando a specificarne i
contenuti e le deroghe nel susseguirsi dei suoi
pronunciamenti sino ad oggi.
La Corte dei conti ha innanzitutto tratto dal quadro
normativo vigente il principio di fruttuosità dei beni
pubblici, muovendo dalla lettura combinata delle
disposizioni di cui agli artt. 9, comma 3, L. n. 537/1993
[4], e 32,
c. 8, L. 724/1994 [5],
che impongono la determinazione e l'aggiornamento dei canoni
dei beni dati in concessione a privati, sulla base dei
prezzi praticati in regime di libero mercato, e da cui
deriva il principio di gestione del patrimonio pubblico in
modo da incrementare le entrate patrimoniali
dell'amministrazione [6].
Per la Corte dei conti, infatti, queste norme sono la chiara
espressione della volontà del legislatore di rapportare i
canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di
mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di
immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli
disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del
1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al
patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art.
32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti
-come nella specie- di immobili del patrimonio disponibile
destinati ad uso commerciale, relativamente ai quali -già
prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il
principio della redditività secondo valori di mercato
discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono
astretti gli enti pubblici [7].
Peraltro, con particolare riferimento al patrimonio
disponibile, di interesse nel caso di specie, la Corte dei
conti ha formulato ulteriori riflessioni.
Il Giudice contabile osserva in primis che la
concessione in uso gratuito di bene immobile del patrimonio
disponibile va qualificata in termini di attribuzione di un
'vantaggio economico' in favore di soggetto di
diritto privato, per cui detto provvedimento deve essere
adottato nel rispetto dei principi generali dettati dalla L.
n. 241/1990 (art. 12), nonché delle norme regolamentari
dell'ente locale. La Corte dei conti osserva, dunque, che
non esiste uno specifico divieto di concessione in uso
gratuito di detti beni che appartengono all'ente pubblico
iure privatorum.
Tuttavia, l'ente locale nell'esercizio della discrezionalità
in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo
evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che
intende perseguire con la stipula del negozio di comodato,
bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale
perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente
locale medesimo.
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente
locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio
patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta
discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione
degli interessi della comunità locale, nonché previa
verifica della compatibilità finanziaria e gestionale
dell'atto dispositivo. D'altra parte, la natura pubblica o
privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale
è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua
ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente
locale [8].
Successivamente, la Corte dei conti ha assunto una posizione
di maggior rigore rispetto alla possibilità di derogare al
principio della redditività del patrimonio pubblico.
La Corte dei conti Veneto, deliberazione n. 716/2012, ha
osservato che il legislatore stesso ha tracciato i confini
delle possibili eccezioni ai principi generali della
gestione economica del patrimonio pubblico. In particolare,
l'art. 32, comma 8, L. 724/1994, prevede una deroga in
considerazione degli 'scopi sociali', mentre l'art. 32, L.
n. 383/2000, consente agli enti locali di concedere in
comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non
utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di
promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato
per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
In questi casi, la mancata redditività del bene è
considerata, comunque, compensata dalla valorizzazione di un
altro bene ugualmente rilevante che trova il suo
riconoscimento e fondamento nell'art. 2 della Costituzione.
Le predette eccezioni si riferiscono a categorie ben
individuate di beneficiari, in relazione alle quali la Corte
dei conti fa delle precisazioni. E così, l'art. 32, L. n.
383/2000, consente il comodato a favore delle organizzazioni
di volontariato ed associazioni di promozione sociale,
secondo la definizione contenuta nell'art. 2 della L.
383/2000, che comprende soggetti costituiti al fine di
svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o
di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della
libertà e dignità degli associati.
D'altra parte anche il beneficio previsto dall'art. 32,
comma 8, L. 724/1994, va letto -secondo la Corte- in
riferimento a quanto previsto dal comma 3 del medesimo
articolo, che esclude dall'incremento dei canoni annui dei
beni patrimoniali, in questo caso dello Stato, una serie di
categorie di soggetti, tra le quali sono comprese anche le
associazioni e fondazioni con finalità culturali, sociali,
sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro,
nonché le associazioni di promozione sociale, con
determinati requisiti [9].
Dalla lettura delle norme in questione -afferma la Corte dei
conti Veneto n. 716/2012- 'risulta pertanto evidente che
la deroga alla regola della determinazione di canoni dei
beni pubblici secondo logiche di mercato [...] appare
giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro
dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario
di tali beni'.
E sulla base di queste premesse, la Corte dei conti Veneto,
chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare un
canone ridotto rispetto a quello di mercato ad associazioni
senza scopo di lucro di interesse collettivo, nel ribadire
che l'indirizzo politico e legislativo che si è venuto
affermando negli ultimi anni è stato improntato alla
valorizzazione del patrimonio pubblico secondo criteri di
redditività, formula, tuttavia, nel caso specifico,
conclusioni di apertura. E lo fa attesa la natura dell'ente
locale di ente a fini generali, e richiamandolo di
conseguenza ad assumere le proprie scelte gestionali in
considerazione delle proprie finalità istituzionali,
attraverso un'attenta valutazione comparativa tra gli
interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi
negli anni precedenti dalla magistratura contabile.
In linea di continuità con la Corte dei conti Veneto n.
716/2012, la Corte dei conti Molise afferma che il comodato
di beni del patrimonio disponibile pubblico è da ritenersi
ammissibile nei casi in cui sia perseguito un effettivo
interesse pubblico equivalente o addirittura superiore
rispetto a quello meramente economico ovvero nei casi in cui
non sia rinvenibile alcuno scopo di lucro nell'attività
concretamente svolta dal soggetto utilizzatore di tali beni.
Su queste premesse, nel caso specifico relativo alla
possibilità di stipulare un comodato in favore di una
cooperativa sociale ONLUS, la Sezione molisana rimette la
scelta gestionale all'ente, previa esaustiva motivazione
della finalità di interesse pubblico [10].
Si osserva, successivamente alla deliberazione della Sezione
veneta n. 716/2012, un uniformarsi della giurisprudenza
contabile alle osservazioni ivi svolte circa l'assenza dello
scopo di lucro in capo ai soggetti per i quali il
legislatore ha previsto la possibilità di derogare alla
regola della redditività del patrimonio pubblico. Assenza di
fine di lucro necessaria, ad avviso della Corte dei conti,
tanto per mitigare quanto per escludere detta redditività.
In applicazione di questi principi, nelle fattispecie
specifiche sottoposte al suo vaglio, ove i soggetti
possibili affidatari dei beni del patrimonio locale sono
pp.aa. o soggetti privati connotati dall'assenza di scopo di
lucro, la magistratura contabile rimette alla scelta
autonoma degli enti la possibilità di determinare il canone
di locazione in misura ridotta o di disporre la gratuità
dell'utilizzo dell'immobile, ovviamente dando esaustiva
motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico
perseguite e sulla base di una valutazione ponderata
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i
principi già espressi in passato [11].
L'accertamento della sussistenza o meno dello scopo di
lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale
profitto di impresa, è rimesso al prudente apprezzamento
dell'ente interessato, in relazione allo scopo e alle
finalità perseguite dall'operatore e alle modalità concrete
con le quali viene svolta l'attività che coinvolge
l'utilizzo del bene pubblico [12].
Venendo al caso di specie, in via collaborativa, si osserva
che la giurisprudenza ha affermato lo status di imprenditore
commerciale del farmacista, in considerazione della sua
attività di smercio di medicinali e prodotti
parafarmaceutici [13],
che rientra nella definizione dell'art. 1470 c.c. e nelle
regole tutte della compravendita [14].
Pertanto, alla luce della natura di imprenditore commerciale
del farmacista e dell'orientamento giurisprudenziale sulla
gestione dei beni pubblici come evoluto negli ultimi anni,
sembrerebbe venire in considerazione, per l'affidamento
dell'immobile di cui si tratta al nuovo farmacista, il
contratto di locazione, nel rispetto della normativa vigente
(per un canone corrispondente a quello del valore di
mercato).
Per quanto concerne, infine, l'espletamento da parte del
farmacista di servizi ulteriori in favore dei residenti, si
osserva che la L. n. 69/2009 ha delegato il Governo ad
adottare uno o più decreti legislativi finalizzati
all'individuazione di nuovi servizi a forte valenza
socio-sanitaria erogati dalle farmacie pubbliche e private
nell'ambito del Servizio sanitario nazionale (art. 11).
In attuazione della legge delega, è stato emanato il D.Lgs.
n. 153/2009 che ha individuato i nuovi servizi assicurati
dalle farmacie previa adesione del titolare della farmacia,
tra cui, ad es. la consegna domiciliare dei farmaci (art. 1,
comma 2, lett. a, n. 1) e l'utilizzo presso le farmacie di
dispositivi semiautomatici per la defibrillazione (art. 1,
comma 2, lett. d) [15].
In considerazione della valenza socio sanitaria dei nuovi
servizi, espressamente indicata dal legislatore, si ritiene
che gli stessi non possano essere imputati al Comune,
deputato allo svolgimento delle funzioni che riguardano i
servizi alla persona (art. 13, c. 1, D.Lgs. n. 267/2000
[16]; art.
16, c. 1, L.R. n. 1/2006 [17]),
i quali attengono alla sfera sociale e socio-assistenziale
[18] e non
a quella sanitaria e socio-sanitaria, di competenza del
Servizio sanitario.
---------------
[1] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4. La magistratura contabile
richiama, in questo senso, la giurisprudenza uniforme di
legittimità (tra le altre, Cass. civ., sez. III, 22.06.2004,
n. 11608) e amministrativa (tra le altre, Consiglio di
Stato, Sez. V, 06.12.2007, n. 6265, secondo cui, in caso di
presenza di un bene del patrimonio disponibile, l'utilizzo
della concessione amministrativa non trova alcun fondamento
normativo né alcuna giustificazione, ma si risolve solo ed
esclusivamente nell'elusione di norme inderogabili poste dal
diritto privato).
[2] Cass. civ., sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Cass. civ.,
sez. III, 19.12.2005, n. 27931.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia,
deliberazione 09.06.2011, n. 349.
[4] Ai sensi del comma 3 in argomento, 'A decorrere dal
01.01.1994, il canone degli alloggi concessi in uso
personale a propri dipendenti dall'amministrazione dello
Stato, dalle regioni e dagli enti locali, nonché quello
corrisposto dagli utenti privati relativo ad immobili del
demanio, compresi quelli appartenenti al demanio militare,
nonché ad immobili del patrimonio dello Stato, delle regioni
e degli enti locali, è aggiornato, eventualmente su base
nazionale, annualmente, con decreto dei Ministri competenti,
d'intesa con il Ministro del tesoro, o degli organi
corrispondenti, sulla base dei prezzi praticati in regime di
libero mercato per gli immobili aventi analoghe
caratteristiche e, comunque, in misura non inferiore
all'equo canone. A decorrere dal 01.01.1995 gli stessi
canoni sono aggiornati in misura pari al 75 per cento della
variazione accertata dall'Istituto nazionale di statistica
(ISTAT) dell'ammontare dei prezzi al consumo per le famiglie
degli operai e impiegati, verificatesi nell'anno
precedente'.
[5] Il comma 8 in argomento prevede che 'A decorrere dal
01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al
patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle
disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in
rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore
comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli
scopi sociali'.
[6] Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Lazio
03.05.2004, n. 1737/2004 e 02.03.2009, n. 262/2009.
[7] Corte Conti, sez. II giurisdizionale centrale d'appello,
22/04/2010, n. 149. Nello stesso senso, Corte dei conti,
sez. reg. contr. Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170,
secondo cui l'obbligo della gestione economica del bene
pubblico, in modo da aumentarne la produttività in termini
di entrate finanziarie, rappresenta attuazione del principio
costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.), del quale
l'economicità della gestione amministrativa costituisce il
più significativo corollario.
[8] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia,
deliberazione 17.06.2010, n. 672 e deliberazione 09.06.2011,
n. 349. Nello stesso senso, Corte dei conti Veneto
22.04.2009, n. 33.
[9] Corte dei conti Veneto n. 716/2012. Conforme
sull'interpretazione delle norme in argomento, Corte dei
conti Puglia n. 170/2013 cit.. La posizione della Corte dei
conti Veneto sull'assenza dello scopo di lucro è altresì
richiamata dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione
12.12.2014, n. 216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n,
172; Molise deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[10] Corte dei conti Molise n. 1/2015 cit..
[11] Corte dei conti Puglia n. 170/2013 cit. -nel
riaffermare dopo la Sezione veneta n. 716/2012 le eccezioni
ai principi generali della gestione economica quali quelle
espressamente indicate dal legislatore (art. 32, comma 8, L.
724/1994, interpretato alla luce del comma 3 dell'art. 32
medesimo; art. 32, L. n. 383/2000)- nel caso specifico,
rimette alla valutazione dell'ente la possibilità di
stipulare il comodato in favore di società consortile senza
fini di lucro, previa valutazione comparativa degli
interessi pubblici secondo i principi già espressi dalla
giurisprudenza contabile in ordine alla gestione dei beni
pubblici (in particolare, Corte dei conti Lombardia n.
349/2011, cit.);
Corte dei conti Lombardia n. 172/2014 cit. - nel premettere
che la Corte dei conti Veneto n. 716/2012 ha chiaramente
evidenziato che la deroga al principio generale di
redditività del bene pubblico può essere giustificata solo
dall'assenza dello scopo di lucro dell'attività
concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni
- nel caso specifico, rimette all'ente la scelta gestionale
di prevedere tariffe agevolate o la gratuità per l'utilizzo
dei beni pubblici in favore di associazioni no profit;
Corte dei conti Puglia n. 216/2014 cit. - richiamata la
numerosa giurisprudenza sull'assenza di lucro a
giustificazione della deroga al principio generale di
redditività del bene pubblico - nel caso specifico, si
esprime in senso favorevole alla concessione in comodato
alla Guardia di Finanza di un immobile comunale per
l'allocazione della relativa caserma;
Corte dei conti Molise n. 1/2015, cit.. Sul principio del
riconoscimento di una riduzione del canone concessorio per
l'utilizzo di beni pubblici (nel caso demaniali) da parte
del privato, a fini di pubblico interesse, da cui il
concessionario non tragga alcun lucro, v. anche Consiglio di
Stato 03.06.2014, n. 2839, con specifico riferimento alla
normativa recata dal Codice della navigazione.
[12] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit.. Conformi:
Corte dei conti Lombardia, n. 172/2014, cit.; Corte dei
conti Molise n. 1/2015, cit..
[13] Cass. civ., sez. lav., 24.02.1986, n. 1149. Nello
stesso senso, Cass. civ., sez. trib., 03.08.2007, n. 17116.
Sull'indubbia natura commerciale dell'attività del
farmacista, v. anche Consiglio di Stato, sez. III,
25.01.2012, n. 324, e TAR Cagliari, sez. I, 24.02.2010, n.
223.
Inoltre, in generale, in ordine al concetto di impresa, la
Cassazione civile, sez. trib., 16.07.2010, n. 16722,
richiama la consolidata giurisprudenza della Corte di
giustizia, nell'ambito del diritto alla concorrenza, secondo
cui la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che
eserciti un'attività economica (Corte di giustizia UE, sez.
VI, 23.04.1991, n. 41 e 11.12.1997, n. 55), e costituisce
un'attività economica qualsiasi attività consistente
nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato (Corte
di giustizia UE, sez. V, 18.06.1998, n. 35).
[14] Ai sensi dell'art. 122, R.D. 27.07.1934, n. 1265
(Approvazione del Testo unico delle leggi sanitarie) oggetto
prevalente dell'attività del farmacista è la vendita di
medicinali «messi in commercio già preparati e
confezionati».
[15] D.Lgs. 03.10.2009, n. 153, in attuazione del quale sono
stati emanati i DM 16.12.2010, il DM 08.07.2011 e il DM
11.12.2012.
[16] 'Spettano al comune tutte le funzioni amministrative
che riguardano la popolazione ed il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona
e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del
territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia
espressamente attribuito al altri soggetti dalla legge
statale o regionale, secondo le relative competenze'.
[17] 'Il comune è titolare di tutte le funzioni
amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo
sviluppo economico e sociale e il governo del territorio
comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge
ad altri soggetti istituzionali'.
[18] V. art. 6, L. n. 328/2000, secondo cui i comuni sono
titolari delle funzioni amministrative concernenti gli
interventi sociali svolti a livello locale e v. altresì art.
10, L.R. n. 6/2006, secondo cui i comuni sono titolari delle
funzioni amministrative concernenti la realizzazione del
sistema locale di interventi e servizi sociali (21.11.2016
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ottobre 2016 |
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PATRIMONIO:
Applicabilità dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L.
98/2011 sulle operazioni di acquisto di immobili da parte
dei Comuni al contratto di transazione.
1) L'art. 12, comma 1-ter, del D.L.
98/2011, sulle operazioni di acquisto di beni immobili, pare
non potere trovare diretta applicazione riguardo ai beni
immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto
di transazione.
Tuttavia, nello spirito del contenimento delle operazioni di
acquisto di beni immobili, che caratterizza l'intervento
legislativo in discorso, appare necessario che l'ente locale
procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la
fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti
previsti dall'indicata normativa.
2) Quanto all'individuazione dell'organo comunale competente
all'approvazione dell'atto di transazione, comportante il
trasferimento della proprietà di beni immobili, si ritiene
che lo stesso debba individuarsi nel consiglio comunale.
Il Comune chiede un parere in merito all'applicabilità
dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, sulle
operazioni di acquisto di immobili da parte dei Comuni, a
contratti di transazione che lo stesso dovrebbe stipulare
con dei privati, tra le cui reciproche concessioni vi
sarebbe anche il trasferimento della proprietà di beni
immobili in capo all'Ente locale.
Desidera, altresì, sapere a quale organo competa
l'approvazione dell'atto di transazione avente tale natura
traslativa.
L'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011, n. 98
convertito con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1,
della legge 15.07.2011, n. 111 recita: 'A decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio
sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di
immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente
l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal
responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è
attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle
spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia,
con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo
pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente'.
In via preliminare, si osserva che il contratto di
transazione, ai sensi dell'articolo 1965 c.c. è quello 'col
quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono
fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che
può sorgere tra loro'.
Si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive che
assume natura traslativa tutte le volte in cui l'oggetto
delle reciproche concessioni consiste nel trasferimento
della proprietà o di altro diritto reale.
La transazione può avere i contenuti più vari. Nel caso di
specie da essa scaturirebbe anche il trasferimento della
proprietà di beni immobili che verrebbero acquistati dalla
pubblica amministrazione.
Con specifico riferimento all'applicabilità, ad un contratto
di transazione avente effetti traslativi di diritti reali,
della norma di cui all'articolo 12, comma 1-ter, del D.L.
98/2011 si è espressa la Corte dei Conti Lombardia, con la
delibera 24.09.2015, n. 310, ove, a seguito di un articolato
iter argomentativo, cui si rimanda, si afferma che: «[...]
la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all'acquisto di
beni immobili da parte degli enti locali, posta dall'art.
12, comma 1-ter, del D.L. n. 98 del 2011, convertito dalla
L. n. 111 del 2011, introdotto dall'art. 1, comma 138, della
legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare
diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a
seguito della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente, nello spirito del contenimento delle
operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza
l'intervento legislativo in discorso, appare necessario che
l'ente locale procedente osservi, nei limiti di
compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti
ed i requisiti previsti dall'esposta normativa. In
particolare, sotto il profilo della "indispensabilità e
indilazionabilità" dell'acquisizione di un immobile, risulta
necessario che il provvedimento di autorizzazione alla
stipula della transazione espliciti puntualmente i
presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta
necessario porre fine ad una controversia mediante la
necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene
immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti
da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal
protrarsi del contenzioso. Per quanto riguarda, inoltre,
l'apposita attestazione di congruità, anche se non appare
necessario, alla luce della differente conformazione della
fattispecie transattiva (in cui è assente un "prezzo" di
acquisto, di cui occorre valutare la "congruità"),
l'intervento di apposita stima da parte dell'Agenzia del
Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere
una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e
terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del
bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia
certificata dagli appositi uffici tecnici interni,
costituendo elemento della complessiva stima di convenienza
economica dell'accordo transattivo (sul quale, in generale,
va naturalmente assunto specifico parere dell'avvocatura
interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di
legge o regolamentari). Infine, si ritiene necessario, non
risultando incompatibile con la struttura dell'operazione
transattiva, l'apposita pubblicazione, con indicazione del
soggetto alienante, dell'immobile acquisito e degli altri
elementi essenziali dell'accordo transattivo, nel sito
istituzionale dell'ente».
In altri termini la Corte, nel far notare come la
disposizione in commento, a differenza di quanto disposto
per il 2013, non limita le operazioni di acquisto di beni
immobili ma le subordina ad una serie di condizioni e
modalità specificamente indicate in legge, afferma come, nel
caso del contratto di transazione, che comporti il
trasferimento della titolarità di beni immobili, non sia,
per certi versi, possibile il rispetto formale e pedissequo
dei presupposti indicati nel summenzionato articolo 12,
comma 1-ter del D.L. 98/2011. Pur tuttavia, da quanto emerge
nell'indicata delibera l'Ente dovrà cercare nei limiti del
possibile di rispettare le condizioni tutte indicate nella
norma. [1]
In generale, in favore del rispetto delle condizioni
indicate nell'articolo in commento, si rileva come la Corte
dei Conti, Regione Piemonte, [2]
in una recente delibera, abbia affermato, benché con
riferimento ad una differente fattispecie,
[3] che: 'L'art.
12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, si applica a tutti gli
acquisti di immobili posti in essere dopo l'01/01/2014,
indipendentemente dalla natura dell'operazione d'acquisto
(e, quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal
momento in cui quest'ultima sia stata eventualmente
deliberata dal competente organo (il Consiglio, ex art. 42
TUEL), purché il momento perfezionativo dell'acquisto si
determini successivamente all'01.01.2014'.
[4]
Si fa presente, anche alla luce di quanto sopra esposto, che
non è dato conoscere l'orientamento della Corte dei Conti
del Friuli Venezia Giulia sull'argomento, di talché si
suggerisce all'Ente di assumere un atteggiamento
particolarmente prudenziale che si concreterebbe nel
rispettare, nei limiti del possibile, in coerenza alle
considerazioni sopra espresse, la norma di legge in
commento.
Passando a trattare della seconda questione posta,
consistente nell'individuazione dell'organo comunale
competente all'approvazione dell'atto di transazione in
riferimento, si ritiene che lo stesso debba individuarsi nel
consiglio comunale. Infatti, l'articolo 42, comma 2, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nell'individuare gli
atti di competenza consiliare, alla lett. l), ricomprende
gli acquisti e le alienazioni immobiliari.
Si può, pertanto, ritenere che sia necessaria una
deliberazione consiliare che si esprima in merito alla
transazione di cui trattasi, atteso l'oggetto della stessa
consistente nell'acquisto di beni immobili.
---------------
[1] Si veda, anche, il parere dell'Anci del 19.02.2014,
ove, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in
esame, l'Associazione suggerisce di procedere con estrema
cautela, anche in considerazione del fatto che la Corte dei
conti molto probabilmente sarà chiamata a verificare come e
in che misura le disposizioni citate verranno applicate al
caso in concreto.
In tale parere, e in un'ottica più prudenziale rispetto a
quella fatta propria dalla Corte dei Conti Lombardia, con la
delibera 310/2015, si afferma che: «Chi scrive ritiene
prudente ed opportuno [...] acquisire 'la congruità del
prezzo attestata dalla agenzia del Demanio'. Poi, nel caso
di differenze rispetto ai valori inseriti nella transazione,
l'ente dovrà cercare di motivarne la ragione e la
convenienza da parte dell'amministrazione».
[2] Corte dei Conti Piemonte, sez. contr., delibera del
19.02.2016, n. 18.
[3] Si trattava di un caso di contratto di permuta senza
conguagli (c.d. permuta 'pura').
[4] Si ritiene di interesse rilevare che la questione della
applicabilità al contratto di permuta 'pura' dell'articolo
12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 non è univocamente risolta
dalle delibere di Corte dei Conti che si sono espresse
sull'argomento.
Così la stessa Corte dei Conti Piemonte si era espressa nel
senso dell'esclusione della permuta pura dall'ambito di
applicazione dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011
nella delibera del 28.10.2014, n. 203. Anche la delibera
della Corte dei Conti Veneto, del 04.05.2016, n. 264, che
richiama una precedente delibera di altra Corte dei Conti,
ha affermato che: «L'ambito oggettivo d'applicazione
dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, non
comprende la permuta "pura", cioè quella in cui non vi sono
conguagli in denaro, giacché la norma si applica a quei
contratti che determinano una spesa a carico dell'ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, la Sezione Emilia
Romagna, con Delib. n. 80 del 2015, ha però precisato che
"l'applicabilità della previsione di cui al ripetuto art.
12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011 si deve considerare
sussistente ogni qualvolta, a seguito dell'acquisizione,
l'amministrazione pubblica sia chiamata ad un esborso
finanziario, ancorché lo stesso discenda unicamente dalle
obbligazioni tributarie che l'atto traslativo comporta"».
La delibera della Corte dei Conti Lombardia 310/2015,
nell'affrontare la questione dell'applicabilità della norma
in riferimento al contratto di transazione, riporta, tra gli
altri, quale esempio di esclusione dall'ambito applicativo
dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, proprio il
contratto di permuta 'pura', cioè senza conguaglio (11.10.2016
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agosto 2016 |
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PATRIMONIO:
La locazione dell'immobile comunale.
DOMANDA:
L’ente intende concedere in locazione una porzione immobile
per uso socio-sanitario all'interno di una RSA - casa di
riposo.
Si chiede che tipo di gara espletare anche in termini di
pubblicità, tenuto conto che la locazione immobile è appalto
escluso codice art. 17, ma l’affidamento verrà aggiudicato
con l’offerta economicamente più vantaggiosa che terrà conto
del canone e che premi anche l’idea di gestione (es. centro
per malati terminali o per dialisi ecc.) e che pertanto la
gestione successiva potrebbe avere un valore economico
importante per il privato attualmente non definibile di
rilevanza pubblica anche se la gestione rimarrà privata.
RISPOSTA:
Come noto, i contratti di compravendita o locazione di
immobili stipulati dalle pubbliche amministrazioni sono
sottratti all’applicazione delle norme codicistiche. In tal
caso, infatti, non avendo il contratto ad oggetto lavori,
servizi o forniture, l’amministrazione procedente agisce
iure privatorum, al di fuori dell’ambito di applicazione
del codice dei contratti pubblici. Inoltre, diversamente
dagli appalti, il contratto di affitto è riconducibile nel
novero dei contratti attivi, secondo la tradizionale
distinzione operata dalla legge di contabilità generale
dello Stato.
Per completezza si rileva che l’ipotesi non ricade neppure
nella definizione di cui alla lett. a) dell’art. 17 del
(nuovo) codice degli appalti (d.lgs. 50/2016) concernente
gli appalti e le concessioni di servizi esclusi, giacché la
stessa si riferisce solo alle fattispecie nelle quali la
stazione appaltante stipula un contratto di locazione nella
veste di conduttore. Inoltre, anche a voler inquadrare la
fattispecie de quo come concessione, in quanto gestione di
un servizio di rilevanza pubblica (centro per malati
terminali o per dialisi ecc) con un ritorno economico
importante, si ricorda che le disposizioni del codice non si
applicano alle concessioni aventi ad oggetto attività non
contemplate nell’all. II, tra cui i servizi sociali,
culturali e sportivi.
L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto
lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte,
dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, avviene
nel rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed
efficienza energetica (art. 4). Le modalità per procedere ad
una locazione attiva dovrebbero pertanto essere stabilite
dal regolamento dei contratti o da altro eventuale atto
regolamentare che si è dato l’ente; e la scelta del
contraente deve comunque avvenire nel rispetto del principio
della concorrenza.
Pertanto, in ogni caso, il responsabile del provvedimento,
deve dare informazione sul sito dell’amministrazione
attraverso la pubblicazione di un bando, nel quale si
precisano le condizioni (soggetti che possono accedere
all’affitto, eventuali priorità, durata del contratto di
affitto, criteri per l’affidamento del contratto, ecc) ed i
tempi entro i quali fare pervenire le offerte (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del decreto
legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di norme
precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs. n. 50 del 2016
(nuovo codice dei contratti pubblici) - Circolare in
diramazione (MIBACT, Segretariato Generale,
circolare
10.08.2016 n. 38). |
PATRIMONIO:
Iniziative di partenariato pubblico-privato nei processi
di valorizzazione dei beni culturali (Corte dei Conti,
Sez. centrale di controllo sulla gestione delle
amministrazioni dello Stato,
deliberazione 04.08.2016 n. 8).
---------------
Si legga di interesse:
IL QUADRO NORMATIVO
Sommario: 1. La sponsorizzazione: definizione e
tipologie. - 2. Il contratto di sponsorizzazione nel d.lgs.
12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici). - 3. Il
contratto di sponsorizzazione nel d.lgs. 22.01.2004, n. 42
(codice dei beni culturali e del paesaggio). - 3.1. La
disciplina speciale dei contratti di sponsorizzazione di
lavori, servizi e forniture aventi ad oggetto beni
culturali. - 4. Le linee guida ministeriali (d.m.
19.12.2012). - 5. La circolare n. 28 del 17.06.2016. - 6. Il
trattamento fiscale. - 7. Gli aspetti finanziari. - 8. La
finanza di progetto (project financing). - 9. Osservazioni. |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del
decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di
norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs.
n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti
pubblici) (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 03.08.2016 n. 23305 di prot.). |
PATRIMONIO:
Riduzione del canone di locazione passiva. Immobili ad uso
istituzionale.
Trattando delle previsioni di riduzione
del canone di locazione passiva, di cui all'art. 3 del D.L.
95/2012 conv. in L. 135/2012, la Corte dei conti, chiamata a
stabilire che cosa debba intendersi per 'immobili
istituzionali', dopo aver premesso di poter fornire solo
«indicazioni di carattere generale che andranno poi calate
nella realtà comunale», ha affermato che «Gli immobili
destinati ad uso istituzionale sono tutti quelli adibiti
allo svolgimento di funzioni, servizi o attività gestite
dall'amministrazione per far fronte alle proprie finalità,
quali determinate dalla legge e dallo statuto», precisando
che «In generale, quindi, occorre valutare se l'immobile sia
destinato all'esercizio delle funzioni istituzionali
dell'ente e sarà cura del Comune individuare specificamente
a quali immobili riferire la disposizione in oggetto».
Il Comune, che intende rinnovare un contratto di locazione
passiva concernente un edificio concesso in uso ad alcune
associazioni presenti sul territorio e adibito a sedi
sociali, ritiene che al contratto medesimo debba trovare
applicazione la riduzione del canone prevista, per gli
immobili 'a uso istituzionale', dall'articolo 3,
comma 4 [1],
del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 convertito, con
modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, sul
presupposto che 'l'utilizzo dei locali a favore delle
associazioni è espressione della più ampia funzione
amministrativa relativa all'associazionismo, di cui l'ente
locale è titolare'.
Poiché il locatore eccepisce che l'utilizzo dell'immobile
non sarebbe finalizzato all'espletamento di funzioni
istituzionali, il Comune chiede di conoscere se la propria
diversa interpretazione sia condivisibile.
Sulla questione volta a stabilire che cosa debba intendersi
per 'immobili istituzionali' si segnala l'intervento
della Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per
la Toscana [2]
la quale, dopo aver premesso che «sul punto non possono
che essere fornite indicazioni di carattere generale che
andranno poi calate nella realtà comunale», ha affermato
che «Gli immobili destinati ad uso istituzionale sono
tutti quelli adibiti allo svolgimento di funzioni, servizi o
attività gestite dall'amministrazione per far fronte alle
proprie finalità, quali determinate dalla legge e dallo
statuto; tali, a titolo esemplificativo, quelli dove si
trovano la sede degli uffici, delle aziende o delle scuole
comunali».
La Corte ha, inoltre, chiarito che «In generale, quindi,
occorre valutare se l'immobile sia destinato all'esercizio
delle funzioni istituzionali dell'ente e sarà cura del
Comune individuare specificamente a quali immobili riferire
la disposizione in oggetto».
---------------
[1] Si riporta, di seguito, il testo del comma 4, come
modificato, da ultimo, dall'articolo 24, comma 4, lett. a),
del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89:
«Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con
riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad
oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle
Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità
indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le
società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono
ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per
cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla
data dell'entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente
si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o
rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di
locazione si inserisce automaticamente nei contratti in
corso ai sensi dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle
eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il
diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si
applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo
alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il
rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in
presenza e coesistenza delle seguenti condizioni:
a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il
pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d'uso, per il
periodo di durata del contratto di locazione;
b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle
esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli
esiti dei piani di razionalizzazione di cui dell'articolo 2,
comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti,
nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle
strutture previste dalle norme vigenti.».
Si rammenta che il comma 7 del medesimo articolo, nel testo
sostituito dall'articolo 24, comma 4, lett. b), del D.L.
66/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 89/2014, ha
disposto l'estensione delle previsioni contenute nei commi
da 4 a 6 a tutte le altre amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165, in quanto compatibili.
[2] V. deliberazione n. 265/2014/PAR del 17.12.2014 (01.08.2016
-
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luglio 2016 |
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PATRIMONIO:
Acquisizione immobile.
La disposizione di cui all'art. 12,
comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche
amministrazioni un regime di limitazione per gli acquisti di
immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ha di recente affermato la sottrazione
delle acquisizioni di immobili mediante procedura
espropriativa per pubblica utilità dal campo di applicazione
del comma 1-ter, argomentando, tra l'altro dall'art. 10-bis,
DL n. 35/2013, che ha escluso le procedure espropriative dal
divieto di acquisto di immobili previsto dal comma 1-quater
del suddetto art. 12, per l'anno 2013, e dall'essere i
presupposti dell'indispensabilità e indilazionabilità,
richiesti dal comma 1-ter per la legittimazione degli
acquisti, insiti all'interno della disciplina delle
espropriazioni.
Altro orientamento della Corte dei conti ha invece osservato
come dall'art. 10-bis richiamato non risultino individuate
eccezioni alle previsioni del comma 1-ter, affermando
peraltro la sottrazione al divieto di acquisto di immobili
ivi previsto delle procedure espropriative già in corso.
Il Comune, interessato ad acquistare un immobile vincolato
ai sensi della D.Lgs. n. 42/2004 [1]
e attualmente posto all'asta dal curatore fallimentare,
chiede se può procedere, tenuto conto dei limiti in materia
posti dalla normativa statale vigente [2],
ipotizzando in particolare la possibilità di ricorrere alla
procedura espropriativa (D.P.R. n. 327/2001
[3]) o
all'acquisto in via di prelazione, da attuarsi ai sensi del
D.Lgs. n. 42/2004 [4].
L'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011 [5],
prevede che, a decorrere dall'01.01.2014, al fine di
pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
già previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale)
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
[6]
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
[7].
A fronte del quadro normativo richiamato, l'Ente ipotizza
l'acquisizione dell'immobile mediante procedura
espropriativa, ai sensi del D.P.R. n. 327/2001, o
esercitando il diritto di prelazione, ai sensi dell'art. 60,
D.Lgs. n. 42/2004.
La procedura espropriativa, come modalità di acquisizione di
immobili da parte delle p.a., è stata posta dal legislatore
come fattispecie derogatoria alla previgente norma di
divieto di acquisto di immobili di cui al comma 1-quater
dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011.
Con l'art. 10-bis, del D.L. n. 35/2013, inserito dalla legge
di conversione 06.06.2013, n. 64, il legislatore ha,
infatti, dettato una norma di interpretazione autentica
dell'art. 12, comma 1-quater, D.L. n. 98/2011, escludendo
dal divieto di acquisto ivi previsto, tra l'altro, le 'procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001,
n. 327' [8].
Sulla riconducibilità dell'istituto dell'espropriazione per
pubblica utilità nell'ambito di applicazione del comma 1-ter
vigente non vi è ad oggi un orientamento univoco in seno
alla magistratura contabile.
Al riguardo, si è pronunciata espressamente, di recente, la
Corte dei conti Lombardia [9],
nel senso di escludere la procedura espropriativa per
pubblica utilità dal campo di applicazione del comma 1-ter,
argomentando da una serie di considerazioni.
In particolare: dal tenore letterale della norma, che fa
riferimento alle sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto e quindi ai soli
acquisti a titolo derivativo in esito a un procedimento
contrattuale e non si applica quindi alle procedure
espropriative; dal fatto che l'indennizzo riconosciuto al
proprietario espropriato e il prezzo di acquisto non sono
sovrapponibili; dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013,
richiamato che attesta la volontà del legislatore di
escludere dalla disciplina limitativa dell'acquisto di beni
immobili da parte, tra l'altro, degli enti territoriali, le
procedure espropriative; dal fatto che l'applicazione del
comma 1-ter alle procedure espropriative verrebbe a
modificare una disciplina speciale rispetto alla generale
disciplina degli acquisti di beni delle p.a. ed a introdurre
delle limitazioni a funzioni fondamentali dell'ente, quali
quelle della programmazione del territorio e della
pianificazione urbanistica; dal fatto che limiti alla
potestà espropriativa pubblica avrebbero dovuto essere
espressamente individuati dal legislatore, in virtù della
riserva di legge in materia di cui all'art. 42 della
Costituzione.
Considerazioni, queste, che portano la Corte dei conti
Lombardia ad escludere dal campo di applicazione della norma
vincolistica di cui al comma 1-ter le procedure di
espropriazione per pubblica utilità. Con la precisazione,
peraltro, dell'essere i presupposti dell'indispensabilità e
indilazionabilità insiti all'interno della disciplina delle
espropriazioni [10].
Peraltro, va segnalato anche l'orientamento della Corte dei
conti Piemonte, la quale, successivamente alla norma di
interpretazione autentica del comma 1-quater recata
dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, osserva che per quanto
riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere
state identificate eccezioni, alle condizioni ivi indicate,
in sede d'interpretazione autentica. Ed invero, nel caso
sottoposto al suo esame, la Corte dei conti ritiene escluso
dall'applicazione del comma 1-ter il procedimento ablativo,
per la circostanza specifica di essere questo già in corso e
già nello stadio successivo all'approvazione del progetto
definitivo e alla dichiarazione di pubblica utilità, in una
fase cioè, in cui risulta in re ipsa integrato il
requisito di indispensabilità e indilazionabilità richiesto
dal comma 1-ter citato [11].
Venendo all'istituto del diritto di prelazione, in mancanza
di una norma o di indicazioni ministeriali che valgano a
conciliare il suo esercizio con l'acquisto di immobili
vincolato al rispetto delle condizioni previste dal comma
1-ter, ci si rifà ancora alle riflessioni offerte dalla
giurisprudenza.
Prima dell'intervento della norma di interpretazione
autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis
richiamato, la Corte dei conti ha ritenuto che tale comma
introducesse una fattispecie di impossibilità giuridica
sopravvenuta per factum principis preclusiva
all'esercizio dei diritti di prelazione per l'anno 2013 e
che, negli esercizi successivi, anche questa tipologia di
acquisti immobiliari dovesse soggiacere al requisito
dell'indispensabilità e indilazionabilità
[12].
Successivamente all'introduzione dell'art. 10-bis, la Corte
dei conti ha affermato che l'esercizio del diritto di
prelazione in favore degli enti pubblici territoriali,
dettato dall'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004, 'deve
ritenersi sottratto dal campo di applicazione della norma
introdotta dal comma 138 della legge di stabilità 2013 che
vieta l'acquisto di immobili a titolo oneroso poiché
espressione di una potestà autoritativa di preminente
rilevanza pubblica dell'amministrazione che non si colloca
in posizione di parità con i privati'
[13].
Peraltro, la pronuncia di apertura della Corte dei conti
sembra essere riferita al solo comma 1-quater, mentre con
specifico riferimento al vigente comma 1-ter non si
rinvengono deliberazioni specifiche nel senso di ritenere
escluso dal suo ambito di applicazione gli acquisti in via
di prelazione.
---------------
[1] D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, recante: 'Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge
06.07.2002, n. 137'.
[2] Il Comune precisa di non disporre di contributo
regionale per l'acquisto di detto immobile, sicché non può
venire in considerazione la normativa regionale di cui
all'art. 11, comma 11, L.R. n. 5/2013, secondo cui le
disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come
modificato dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012, non si
applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di
immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
[3] D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante: 'Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità. (Testo A)'.
[4] L'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004 disciplina l'acquisto in
via di prelazione degli enti territoriali.
[5] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che
vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da
parte delle pp.aa., contenuta nel comma 1-quater dell'art.
12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n.
228/2012 (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia,
deliberazione 05.03.2014, n. 97) e su cui era intervenuta
una norma di interpretazione autentica (art. 10-bis, c. 1,
D.L. n. 35/2013), di cui si dirà nel prosieguo.
[6] Sul piano della casistica, la Corte dei conti ha
ritenuto legittimi gli acquisti di immobili, ai sensi del
comma 1-ter, ove realizzati a conclusione di procedimenti
espropriativi in corso, sul presupposto che la loro
instaurazione sia stata giustificata proprio dalla necessità
di soddisfare interessi pubblici assolutamente primari (Cfr.
Corte dei conti, sez. reg. contr. Liguria, 25.01.2013, n. 9;
Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n.
402).
[7] Con la previsione dell'attestazione del prezzo da parte
dell'Agenzia del demanio, il legislatore ha inteso tutelare
l'Amministrazione procedente con riferimento alla puntuale
determinazione del prezzo d'acquisto, affidando la congruità
dell'importo ad un soggetto terzo e altamente qualificato in
materia di attività tecnico-estimali (Cfr. Agenzia del
demanio, circolare n. 29348 del 09.12.2013).
[8] Si riporta il testo dell'art. 10-bis in commento: 'Nel
rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di
acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo
12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98,
convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a
titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica
utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché alle
permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto
programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai
competenti organi degli enti locali e che individuano con
esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e
alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste
dalle normative regionali e provinciali'.
[9] Corte dei conti Lombardia, 05.03.2014, n. 97, che
richiama in tal senso Corte dei conti Veneto deliberazione
12 giugno 2013, n. 148, che già si era espressa nel senso di
escludere dal campo di applicazione del comma 1-ter le
procedure espropriative.
[10] La Corte dei conti Lombardia osserva, al riguardo, che
all'interno del procedimento espropriativo trovano adeguata
considerazione le prerogative enunciate dal comma 1-ter
dell'indispensabilità e indilazionabilità, quali
legittimanti le operazioni di acquisto di beni immobili. Ai
sensi dell'art. 42, co. 3, Cost., infatti, l'espropriazione
è consentita nei casi previsti dalla legge, per motivi di
interesse generale: interesse pubblico che deve essere
attuale e 'indispensabile per far fronte a bisogni che, pure
se destinati a concretarsi in futuro e a essere soddisfatti
soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal
momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che
valga a far considerare necessario e tempestivo il
sacrificio della proprietà privata nell'ora presente' (Corte
costituzionale 06.07.1996, n. 90, richiamata dal magistrato
contabile lombardo).
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013,
n. 402, la quale osserva che la ratio della deroga,
espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L.
n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative,
risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle
stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive
condizioni di cui al comma 1-ter.
[12] Corte dei conti, sez. reg. contr., Liguria, 25.01.2013,
n. 9, richiamata da Corte dei conti, sez. reg. contr.,
Basilicata 05.03.2013, n. 36.
[13] Corte dei conti, sez. reg. contr., Puglia,
deliberazione 19.09.2013, n. 143, la quale ricorda di avere
ritenuto escluse dal divieto di acquisto di immobili a
titolo oneroso, per l'anno 2013, le procedure espropriative
ancor prima che lo esplicitasse il legislatore, proprio
sostenendo il riferimento di detta norma ai soli casi in cui
le amministrazioni pubbliche agiscono iure privatorum al
pari dei soggetti privati (il riferimento è a Corte dei
conti, sez. reg. contr., Puglia, 03.05.2013, n. 89) (06.07.2016
-
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PATRIMONIO:
L'affidamento del centro sportivo.
DOMANDA:
Questo Ente intende affidare la gestione del Centro Sportivo
Comunale con annesso Bar per n. 5 anni, prevedendo una base
d'appalto di euro 163.000,00, quindi sotto soglia.
Detto appalto facente parte dell'ex Allegato IIB dlgs.
163/2006, ora abrogato, da pareri online, dovrebbe rientrare
tra gli appalti di servizi sociali e di cui all'allegato IX
del D.LGS. 50/2016.
Si chiede se: 1) nell'attuale fase transitoria, la procedura
corretta è indagine di mercato con pubblicazione sul sito
del committente seguita da procedura negoziata con n. 5
operatori minimi da invitare se rinvenibili; 2) Procedura
aperta con pubblicazione sul sito dell'Ente e con quali
altre forme?
Si chiede se sia obbligatorio che le procedure suddette
debbano essere gestite da una centrale di committenza
qualificata o, in alternativa, ricorrendo agli strumenti di
acquisto e di negoziazione, anche telematici tipo SINTEL,
oppure, vista la tipologia dei presunti concorrenti, con la
vecchia procedura cartacea?
RISPOSTA:
Va preliminarmente ricordato che, in via generale,
trattandosi di comune non capoluogo di provincia, dovrebbe
trovare applicazione il comma 4 dell’art. 37 del nuovo
codice degli appalti il quale dispone: ”se la stazione
appaltante è un comune non capoluogo di provincia, fermo
restando quanto previsto al comma 1 e al primo periodo del
comma 2, procede secondo una delle seguenti modalità: - a)
ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti
aggregatori qualificati; - b) mediante unioni di comuni
costituite e qualificate come centrali di committenza,
ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di
committenza nelle forme previste dall'ordinamento; - c)
ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso
gli enti di area vasta ai sensi della legge 07.04.2014, n.
56”.
Va ricordato peraltro che il comma 1 ed il primo periodo del
comma 2 sopra cit. prevedono che:
- “1. Le stazioni appaltanti, fermi restando gli obblighi
di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione,
anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in
materia di contenimento della spesa, possono procedere
direttamente e autonomamente all'acquisizione di forniture e
servizi di importo inferiore a 40.000 euro e di lavori di
importo inferiore a 150.000 euro, nonché attraverso
l'effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto
messi a disposizione dalle centrali di committenza. Per
effettuare procedure di importo superiore alle soglie
indicate al periodo precedente, le stazioni appaltanti
devono essere in possesso della necessaria qualificazione ai
sensi dell'articolo 38”.
- “2. Salvo quanto previsto al comma 1, per gli acquisti
di forniture e servizi di importo superiore a 40.000 euro e
inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, nonché per gli
acquisti di lavori di manutenzione ordinaria d'importo
superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro, le
stazioni appaltanti in possesso della necessaria
qualificazione di cui all'articolo 38 procedono mediante
utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione
messi a disposizione dalle centrali di committenza
qualificate secondo la normativa vigente”.
L’ANAC ha peraltro recentemente chiarito, con un proprio
comunicato, che i comuni non capoluogo di provincia possono
procedere all’acquisizione di servizi di importo inferiore a
40 mila euro direttamente ed autonomamente ovvero attraverso
l’effettuazione di ordini a valere sugli acquisti messi a
disposizione dalle centrali di committenza mentre per
affidamenti di importi superiori deve essere in possesso
della necessaria qualificazione ai sensi dell’art. 38,
ricordando però che, nel periodo transitorio, questa si
intende sostituita dall’iscrizione all’AUSA (Anagrafe Unica
Stazioni Appaltanti) di cui all’art. 33-ter, DL 18.12.2012
n. 179).
Ciò rilevato in via preliminare, si osserva che se si
tratti, come riferito nel quesito, di un affidamento di un
appalto di un servizio rientrante nell’ambito di cui
all’allegato IX del codice (servizi sociali), questo risulta
ora escluso dall’applicazione del codice se di importo
superiore alla soglia di 750 mila euro di cui al comma 1,
lett. d), del cit. art. 35, come chiarito sempre dall’ANAC
nel comunicato suindicato.
Pertanto si dovrebbe concludere che nella fattispecie, se
riguardante un affidamento di un servizio di natura sociale
di importo inferiore a tale soglia, non dovrebbero trovar
luogo nemmeno, in particolare, gli obblighi aggregativi di
cui all’art. 37, comma 4, previsti in generale per
l’affidamento degli altri servizi ordinari.
Trovano invece luogo i principi generali di cui all’art. 30,
comma 1, richiamato dall’art. 36 e le procedure ivi
previste, tra cui quella di cui alla lett. b) del comma 2
secondo cui si procede “per affidamenti di importo pari o
superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i
lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le
forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa
consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori
economici individuati sulla base di indagini di mercato o
tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un
criterio di rotazione degli inviti. I lavori possono essere
eseguiti anche in amministrazione diretta, fatto salvo
l'acquisto e il noleggio di mezzi, per i quali si applica
comunque la procedura negoziata previa consultazione di cui
al periodo precedente. L'avviso sui risultati della
procedura di affidamento, contiene l'indicazione anche dei
soggetti invitati”.
Trovano applicazione inoltre per tale tipo di appalti le
disposizioni di cui agli artt. 142 e 143 del codice (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO:
L'iva per l'utilizzo di immobili comunali.
DOMANDA:
Premesso che questa amministrazione è proprietaria di un
immobile di due piani, dove il primo piano è adibito ad
poliambulatorio ed affittato a medici privati e pertanto
assoggettato ad attività commerciale a regime di esenzione.
Tenuto conto che il secondo piano verrà assegnato ad uso
condiviso ad associazioni locali, senza alcun canone di
affitto ma con il solo rimborso forfettario di parte delle
spese per le utenze di energia elettrica e riscaldamento, si
chiede di conoscere se l'attività di assegnazione dei locali
assume la caratteristica di attività commerciale pur in
assenza di un canone di affitto determinato.
RISPOSTA:
Si osserva preliminarmente che la mancanza di un contratto
di locazione, concessione in uso e simili, a titolo oneroso,
esclude la sussistenza dell’esercizio di attività economica,
cioè finalizzata allo sfruttamento di un bene materiale o
immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di
stabilità (art. 9, parag. 2, della direttiva IVA comunitaria
2006/112/Ce).
Nel caso di specie il Comune procede al mero riaddebito,
peraltro parziale, delle spese accessorie alla conduzione
(gratuita) dell’immobile. In tal caso, quindi, enunciando il
principio IVA comunitario contenuto nella norma sopra
richiamata, non sussiste quel minimo di organizzazione di
mezzi preordinata alla percezione di corrispettivi con
carattere di continuità che caratterizza un’attività
economica. Conseguentemente, i riaddebiti non devono essere
fatturati.
Qualora il Comune procedesse non soltanto al riaddebito
delle utenze ma anche all’addebito di un complesso di
ulteriori servizi organizzati specificamente dal Comune
(p.e. pulizie, sorveglianza, custodia, etc.), si
rientrerebbe invece nel campo di applicazione dell’IVA
sussistendo quel minimo di attività organizzata sopra
citata. Si aggiunge che è necessario verificare
preliminarmente se l’acquisto dell’immobile è stato immesso
tra le attività commerciali rilevanti IVA del Comune tramite
l’esercizio della detrazione dell’IVA.
In caso positivo la destinazione permanente ad assegnazione
gratuita alle associazioni comporterebbe l’obbligo per il
Comune di operare la rettifica della detrazione ai sensi
dell’art. 19-bis2, c. 3, del DPR 633/1972, vale a dire la
restituzione dell’IVA detratta su acquisti di beni destinati
a finalità estranee all’esercizio di attività commerciali
successivamente all’acquisto (link
a
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giugno 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Sponsorizzazione di beni culturali — articolo
120 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 — articoli 19
e 151 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 - nota
circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 09.06.2016 n. 17461 di prot.).
---------------
Sommario: 1. Premessa - 2. Rinvio per le nozioni
generali alle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012,
pubblicate nella G.U. 12.03.2013, n. 60 - 3. La
semplificazione (in sintesi) - 4. Proposta di
sponsorizzazione; vaglio preliminare e favor per
l'accoglimento - 5. La pubblicazione dell'avviso sul sito
istituzionale - 6. La ricerca di sponsor di iniziativa
ministeriale - 7. Scelta dello sponsor - 8. Stipula del
contratto di sponsorizzazione - 9. La disciplina di cui
all'art. 151 - 10. Modalità contabili e regime fiscale
(cenni) - 11. Le forme speciali di partenariato
pubblico-privato nel campo dei beni culturali.
---------------
Il nuovo codice dei contratti pubblici, nell'ottica di
favorire il sostegno all'azione pubblica in campo culturale
e la realizzazione del principio di sussidiarietà
orizzontale, semplifica notevolmente le procedure relative
all'acquisizione di sponsor per interventi di tutela e
valorizzazione dei beni culturali, in attuazione di uno
specifico criterio direttivo contenuto nella legge delega.
In considerazione delle novità apportate dal nuovo codice
rispetto alla precedente disciplina, esplicitata nelle Linee
guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G. U.
12.03.2013, n. 60, si ritiene opportuno fornire, con la nota
circolare allegata, i primi indirizzi applicativi utili per
facilitare e incoraggiare il ricorso a tale istituto da
parte degli uffici ministeriali.
In particolare, si prendono in considerazione i profili
concernenti la semplificazione delle procedure, la
valutazione preliminare della proposta di sponsorizzazione e
il favor per l'accoglimento, la pubblicazione dell'avviso
sul sito istituzionale (del quale viene fornito un modello),
la ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale, la scelta
dello sponsor, la stipula del contratto di sponsorizzazione,
la disciplina di cui all'articolo 151 in tema di
sponsorizzazione di beni culturali e di partenariato
pubblico-privato nel campo dei beni culturali, fornendo
alcuni cenni riguardo al regime contabile. Vengono inoltre
evidenziate quali parti (consistenti in sostanza nelle
nozioni di carattere generale) delle citate Linee guida
conservano validità ed efficacia anche a seguito
dell'introduzione della nuova procedura semplificata.
La successiva diramazione della circolare, a cura di codesto
Segretariato, ai competenti uffici centrali, unitamente alla
diffusione, da parte dei medesimi uffici, di ulteriori e
specifici indirizzi operativi agli uffici periferici,
assicurerà la pronta e corretta applicazione delle nuove
procedure, al fine dell'auspicabile potenziamento
dell'istituto della sponsorizzazione. (...continua). |
maggio 2016 |
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PATRIMONIO:
Affrancazione di terreni comunali gravati da livello.
L'affrancazione consiste nell'acquisto
della proprietà da parte dell'enfiteuta e si opera mediante
il pagamento di una somma risultante dalla capitalizzazione
del canone annuo sulla base dell'interesse legale.
La disciplina relativa al calcolo dei canoni è stabilita da
due leggi speciali le quali indicano quali parametri di
riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo
per le enfiteusi anteriori al 28.10.1941 e la quindicesima
parte dell'indennità di esproprio prevista dalle leggi di
riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte
successivamente. In entrambi i casi è previsto che il
capitale di affranco sia determinato in misura pari a
quindici volte il canone.
A seguito di una serie di pronunce della Corte
Costituzionale, la determinazione del canone deve essere
aggiornata, rispetto alle modalità indicate nelle leggi
speciali, mediante l'applicazione di coefficienti di
maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una
ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la
effettiva realtà economica.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede di sapere
quale sia la procedura da seguire per consentire
l'affrancazione di terreni comunali gravati da livello,
considerando che in ordine agli stessi l'amministrazione
comunale non percepisce, da tempo immemore, alcun canone.
In via preliminare, si osserva che il livello è un contratto
agrario in uso nel Medioevo, che consiste nella concessione
di una terra dietro il pagamento di un fitto. L'istituto del
livello non è disciplinato dal codice civile e la
giurisprudenza di legittimità [1]
in più occasioni lo ha equiparato ad un diritto di
enfiteusi.
L'affrancazione consiste nell'acquisto della proprietà da
parte dell'enfiteuta e 'si opera mediante il pagamento di
una somma risultante dalla capitalizzazione del canone annuo
sulla base dell'interesse legale. Le modalità sono stabilite
da leggi speciali' (articolo 971, sesto comma, codice
civile).
In particolare, la disciplina relativa al calcolo ed
all'aggiornamento dei canoni è contenuta in due leggi
speciali, la legge 22.07.1966, n. 607 [2]
e la legge 18.12.1970 [3],
n. 1138, le quali prescrivono criteri di determinazione dei
canoni enfiteutici, indicando come parametri di riferimento
rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le
enfiteusi anteriori al 28.10.1941, [4]
e la quindicesima parte dell'indennità di esproprio prevista
dalle leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi
sorte successivamente [5].
In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco
sia determinato in misura pari a quindici volte il canone.
[6]
Dopo la loro emanazione, sulle due leggi citate si è
pronunciata a più riprese la Corte costituzionale, la quale
ha dichiarato l'illegittimità della normativa sotto diversi
profili, modificandone profondamente la portata.
[7]
Sia per la legge n. 607/1966 che per quella n. 1138/1970 la
Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dei
criteri di calcolo ivi prescritti dettando, quale principio
generale della materia, la regola per cui i canoni devono
essere periodicamente aggiornati mediante l'applicazione di
coefficienti di maggiorazione idonei 'a mantenere
adeguata, con una ragionevole approssimazione, la
corrispondenza con la effettiva realtà economica'.
[8]
In base a quali criteri debba essere garantita tale
corrispondenza, tuttavia, la Corte nulla ha detto, né
avrebbe potuto farlo, essendo prerogativa del legislatore
dettare una regolamentazione della materia.
In mancanza di parametri di riferimento certi per la
determinazione e/o l'aggiornamento dei canoni enfiteutici,
considerato che non vi sono stati interventi normativi volti
a dettare una nuova regolamentazione della materia, nel
corso degli anni sono state adottate o suggerite soluzioni
di varia natura e portata.
Tra queste si segnalano una circolare del Ministero
dell'Interno [9]
che, nel fare proprie le conclusioni espresse da
un'Avvocatura Distrettuale, [10]
ha ritenuto coerente quale modalità di calcolo del capitale
di affranco, sia per le enfiteusi antecedenti che successive
al 1941, il criterio dettato per il computo dell'indennità
di esproprio ordinaria, che per i terreni agricoli è
calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di
coltura in atto nell'area da espropriare,
[11] stabilito
annualmente da rilevazioni operate da un'apposita
commissione provinciale. [12]
Sulla stessa linea si pone una circolare dell'Agenzia del
Territorio [13]
la quale richiama una precedente nota del Ministero delle
Finanze la quale statuiva che, per le enfiteusi antecedenti
al 1941, il canone dovesse essere equiparato al reddito
dominicale opportunamente attualizzato tramite idonei
criteri di aggiornamento. L'Agenzia del Territorio,
constatato che 'l'ultimo coefficiente di rivalutazione
dei redditi dominicali -non soggetti a revisione dal lontano
1979- pare, allo stato, ancora quello dell'80%',
[14] ha
ritenuto che il criterio indicato nella precedente nota
ministeriale portasse 'alla determinazione di somme non
adeguatamente corrispondenti alla realtà economica.
Alla luce di un tanto la circolare 29104/2011 conclude
ritenendo «più opportuno utilizzare, anche con
riferimento alle enfiteusi antecedenti al 1941, il criterio
dell'indennità di esproprio dei fondi rustici,
sostanzialmente in linea con quanto statuito dalla Corte
Costituzionale (Sent. 406/1988) in merito alla necessità di
rapportare i canoni ed il capitale di affrancazione 'alla
effettiva realtà economica' (si veda anche, in proposito, il
parere dell'Avvocatura Distrettuale dell'Aquila CS 260/1999,
recepito in una circolare del Ministero n. 118 del
09/09/1999)». Conclude l'indicata circolare nel senso
che «per tutte le enfiteusi su fondo agricolo il capitale
di affrancazione ed i canoni andranno determinati facendo
ricorso al criterio dell'indennità di esproprio e non
piuttosto a quello del reddito dominicale rivalutato non più
rispondente all'effettiva realtà economica».
[15]
Per completezza espositiva, è necessario, tuttavia,
considerare la normativa in tema di determinazione dei
coefficienti di rivalutazione dei redditi dominicali,
intervenuta successivamente all'emanazione delle suindicate
circolari. Ci si riferisce, in particolare, alla legge
24.12.2012, n. 228 e successive modificazioni, di cui
l'ultima ad opera della legge 28.12.2015, n. 208, la quale,
all'articolo 1, comma 512, stabilisce che: 'Ai soli fini
della determinazione delle imposte sui redditi, per i
periodi d'imposta 2013, 2014 e 2015, nonché a decorrere dal
periodo di imposta 2016, i redditi dominicale e agrario sono
rivalutati rispettivamente del 15 per cento per i periodi di
imposta 2013 e 2014 e del 30 per cento per il periodo di
imposta 2015, nonché del 30 per cento a decorrere dal
periodo di imposta 2016. Per i terreni agricoli, nonché per
quelli non coltivati, posseduti e condotti dai coltivatori
diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti
nella previdenza agricola, la rivalutazione è pari al 5 per
cento per i periodi di imposta 2013 e 2014 e al 10 per cento
per il periodo di imposta 2015. L'incremento si applica
sull'importo risultante dalla rivalutazione operata ai sensi
dell'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662.
[...]'.
Segue che sarà opportuno valutare se, a seguito delle
operazioni di calcolo, il capitale di affrancazione dei
fondi risulti essere adeguatamente corrispondente alla
realtà economica.
Se così fosse, sarebbe possibile utilizzare, per determinare
il prezzo dell'affrancazione delle enfiteusi sorte
antecedentemente al 28.10.1941, il criterio che risulta
dall'applicazione, al reddito catastale dei terreni, dei
coefficienti utilizzati per calcolare le imposte sui redditi
disposti dal legislatore negli specifici provvedimenti
normativi sopra richiamati.
In caso contrario, si potrebbe utilizzare il criterio
proposto nelle circolari sopra citate, che rimanda al
calcolo dell'indennità che sarebbe corrisposta in caso di
espropriazione per pubblica utilità.
Da ultimo, si osserva come non sarebbe possibile per l'Ente
consentire l'affrancazione gratuita dei propri fondi. Si
rileva come non sia applicabile agli enti locali il disposto
di cui alla legge 29.01.1974, n. 16, recante 'Rinuncia ai
diritti di credito inferiori a lire mille' il cui
articolo 1 così recita: 'Sono estinti i rapporti perpetui
reali e personali, costituiti anteriormente, alla data del
28.10.1941, in forza dei quali le amministrazioni e le
aziende autonome dello Stato, comprese l'Amministrazione del
fondo per il culto, l'Amministrazione del fondo di
beneficenza e di religione nella città di Roma e
l'Amministrazione dei patrimoni riuniti ex economali hanno
il diritto di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli
e altre prestazioni in denaro o in derrate, in misura
inferiore a lire 1.000 annue'. [16]
Tale legge, oltretutto, è stata abrogata dall'articolo 24
del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito in legge,
con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge
06.08.2008, n. 133 a far data dal centottantesimo giorno
successivo alla data della sua entrata in vigore.
Si riportano, altresì, le affermazioni del Supremo giudice
civile [17]
il quale, nel ribadire la necessità che il computo per la
determinazione del capitale per l'affrancazione venga
periodicamente aggiornato, applicando coefficienti di
maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con ragionevole
approssimazione, la corrispondenza del capitale di
affrancazione con l'effettiva realtà economica, precisa,
altresì, che, una tale operazione è, altresì, diretta 'ad
impedire che l'affrancazione si trasformi in una sostanziale
ablazione gratuita del diritto del concedente'.
---------------
[1] Così, Cassazione civile, sez. VI, ordinanza del
06.06.2012, n. 9135 che afferma: 'Il regime giuridico del
cosiddetto "livello" va assimilato a quello dell'enfiteusi,
in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti,
finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi,
dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari
della seconda, tra i diritti reali di godimento'. Nello
stesso senso si veda, anche, Cassazione civile, sez. III,
sentenza dell'08.01.1997, n. 64 e più datate nel tempo,
Cassazione n. 1366/1961 e Cassazione n. 1682/1963.
[2] Recante 'Norme in materia di enfiteusi e prestazioni
fondiarie perpetue'.
[3] Recante 'Nuove norme in materia di enfiteusi'.
[4] Articolo 1, primo comma, della legge 607/1966 unitamente
ad articolo 1 della legge 1138/1970.
[5] Articolo 2, terzo comma, della legge 1138/1970.
[6] Articolo 1, quarto comma, della legge 607/1966 e
articolo 9 della legge 1138/1970.
[7] Corte costituzionale, sentenze del 19-23.05.1997, n.
143; del 24.03-07.04.1988, n. 406; del 07-20.05.2008, n.
160.
[8] Corte costituzionale, sentenza del 07.04.1988, n. 406 e
del 23.05.1997, n. 143.
[9] Ministero dell'Interno, circolare del 09.09.1999, n.
118.
[10] Avvocatura Distrettuale dell'Aquila, parere 260/1999.
[11] Il D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante 'Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità', all'articolo 40, comma
1, recita: 'Nel caso di esproprio di un'area non
edificabile, l'indennità definitiva è determinata in base al
criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture
effettivamente praticate sul fondo e del valore dei
manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in
relazione all'esercizio dell'azienda agricola, senza
valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da
quella agricola'.
[12] L'articolo 41 del D.P.R. 327/2001, al comma 1, prevede
che: 'In ogni provincia, la Regione istituisce una
commissione composta:
a) dal presidente della Provincia, o da un suo delegato, che
la presiede;
b) dall'ingegnere capo dell'ufficio tecnico erariale, o da
un suo delegato;
c) dall'ingegnere capo del genio civile, o da un suo
delegato;
d) dal presidente dell'Istituto autonomo delle case popolari
della Provincia, o da un suo delegato;
e) da due esperti in materia urbanistica ed edilizia,
nominati dalla Regione;
f) da tre esperti in materia di agricoltura e di foreste,
nominati dalla Regione su terne proposte dalle associazioni
sindacali maggiormente rappresentative'.
[13] Agenzia del Territorio, circolare dell'11.05.2011, n.
29104.
[14] L'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662
recita: 'Fino alla data di entrata in vigore delle nuove
tariffe d'estimo, ai soli fini delle imposte sui redditi, i
redditi dominicali e agrari sono rivalutati,
rispettivamente, dell'80 per cento e del 70 per cento.
L'incremento si applica sull'importo posto a base della
rivalutazione operata ai sensi dell'articolo 31, comma 1,
della legge 23.12.1994, n. 724'.
[15] Anche l'ANCI, con parere dell'08.01.2013,
nell'affrontare la questione della determinazione del
capitale di affrancazione ha ritenuto 'condivisibile la tesi
sostenuta dall'Agenzia del Territorio, [...], in quanto
aderisce al principio della corrispondenza all'effettiva
realtà economica'.
[16] La giurisprudenza, con riferimento al tempo in cui la
norma risultava vigente, ha affermato la sua inapplicabilità
agli enti locali. Così Cassazione civile, sez. II, sentenza
del 21.02.2014, n. 4201 e Corte dei Conti, sez. regionale di
controllo, Campania, parere del 20.07.2006, n. 18.
[17] Cassazione civile, sez. II, sentenza del 12.10.2000, n.
13595 (24.05.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
L'impianto sportivo.
DOMANDA:
Questo Comune lo scorso anno ha affidato per 15 anni ad una
società sportiva dilettantistica la gestione di un bene
pubblico (impianto sportivo di calcio) per le finalità
proprie dello stesso. L’affidamento è stato fatto a seguito
di pubblico avviso nel rispetto dei principi di trasparenza
ecc.
La precedente gestione era stata affidata ad una società
sportiva dilettantistica che non aveva più interesse ne
mezzi sufficienti a condurre una gestione in pareggio. Il
comune annualmente versava a favore di detta società
sportiva dilettantistica un contributo variabile (tra 25000
e 30000 euro) per supportare le spese di gestione. Detto
contributo viene adesso versato anche al nuovo gestore vista
la scarsa rilevanza economica dell’impianto, peraltro assai
vetusto.
Il nuovo gestore (la nuova associazione sportiva
dilettantistica) propone oggi al comune di eseguire
importanti lavori di miglioramento della struttura e dei
vari impianti e locali accessori (campo in erba da
trasformare in sintetico, irrigazione, illuminazione,
spogliatoi ecc. ecc.) per un importo complessivo stimabile
in circa 4500000 euro. Il vantaggio di questi interventi di
miglioria sarebbe immediatamente quello di rendere meno
onerosa la gestione con risparmi evidenti sulle utenze ed
una maggiore fruibilità degli impianti anche da parte di
utenze di comuni vicini, con evidente vantaggio per
riequilibrare le spese di gestione attuali.
Il nuovo gestore
avrebbe la possibilità di realizzare circa il 50% dei vari
lavori di miglioria tramite sponsor che avrebbero tutto
l’interesse a finanziare i lavori anche eseguendoli
direttamente trattandosi di imprese locali (debitamente
qualificate) ed interessate a pubblicizzare la loro
attività.
Il comune dovrebbe versare al gestore (sulla base
di un progetto dallo stesso presentato) un contributo pari
alla differenza dei lavori che lo lo stesso gestore
realizzerebbe tramite sponsor e ditte specializzate ed in
possesso dei regolari requisiti di legge e relative
qualifiche (SOA ecc.).
L’offerta del gestore per il comune è
sicuramente interessante ed il contributo verrebbe versato
solo in base ai lavori man mano eseguiti e certificati. Si
chiede di sapere se il comune può procedere nel modo
suddetto e con quali modalità.
RISPOSTA:
Le esigenze descritte nel quesito di avvalersi di un
affidatario gestore dell’impianto sportivo di calcio anche
per eseguire i lavori descritti nel quesito versando al
medesimo un contributo pari alla differenza di importo
necessario rispetto a quello ottenuto dallo stesso gestore
tramite suoi sponsor, delinea sicuramente una sistematica
che può essere ricondotta all’istituto della concessione
disciplinata dall’art. 142 ss. del vecchio codice ed ora
dall’art. 164 ss. del nuovo codice dei contratti pubblici.
Si consiglia pertanto di valutare attentamente la
problematica in relazione alle nuove disposizione
verificando in particolare i nuovi limiti e modalità di
affidamento e le nuove limitazioni in ordine alla
possibilità della PA di concedere un contributo economico in
aggiunta alla gestione in chiave produttiva del bene (v. in
particolare art. 165, comma 2, in ordine al limite del 30%
dell’investimento)
(link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO:
Spending review: la riduzione del 15% dei canoni per le
locazioni passive anche alle ipotesi in cui proprietario
dell’immobile sia una p.a. (parere
09.05.2016-226080, AL 37970/2012 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per
l'installazione di un chiosco è necessario munirsi di
permesso di costruire; si deve, infatti, valutare l'opera
alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione
giuridica di “costruzione”, per la quale occorre il permesso
di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente occasionale.
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo
stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà
strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di
opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in
tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula
un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre
la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la
destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze
non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali
per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla
lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del
2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee”.
---------------
Devono, infatti,
ritenersi infondati i tre motivi di ricorso, che si ritiene
di poter valutare congiuntamente.
Al riguardo il Collegio, condividendo la giurisprudenza
amministrativa prevalente, dalla quale non ha motivo di
discostarsi, ritiene che per l'installazione di un chiosco è
necessario munirsi di permesso di costruire; si deve,
infatti, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che
rientrano nella nozione giuridica di “costruzione”,
per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel
suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo
stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e
meramente occasionale (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II,
05.03.2015, n. 478).
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo
stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà
strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di
opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in
tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula
un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre
la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la
destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze
non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali
per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla
lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del
2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e
che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
03.06.2014, n. 2842).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame,
l’ordinanza di demolizione impugnata è stata adottata ai
sensi dell’articolo 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, in
riferimento alla scia presentata in data 27.01.2012 per
l’istallazione di un chiosco per la somministrazione di
alimenti e bevande, da installare in un area di pertinenza
del Comando Provinciale Vigili del Fuoco, antistante
l’ingresso principale, alla via G. Falcone, a seguito di
quanto emerso dalla comunicazione prot. n. 12637 del
17.02.2012, relativa all’esito del sopralluogo effettuato
dalla Polizia Municipale il 15.02.2012, sulla base della
seguente motivazione: “in quanto trattasi di opere
eseguite in assenza di Permesso di Costruire”.
Alla luce della richiamata giurisprudenza, la suddetta
ordinanza di demolizione deve ritenersi legittimamente
adottata nei confronti del ricorrente per la risolutiva
circostanza della necessarietà del permesso di costruire,
posta a fondamento dell’ordinanza di demolizione stessa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.05.2016 n. 2282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Il contratto di permuta risulta operazione
finanziariamente neutra e, conseguentemente, non contemplata
dal divieto di cui all’art. 12, comma 1-ter, del D.L.
06.07.2011 n. 98, convertito in legge dall’art. 1, comma 1,
della L. 15.07.2011 n. 111, secondo cui: “A decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio
Sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di
immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente
l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal
responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è
attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle
spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia,
con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo
pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
---------------
Con nota del 24.03.2016, pervenuta ed acquisita a
protocollo di questa Sezione n. 3860 in data 29.03.2016,
il Sindaco del Comune di Concordia Sagittaria (VE) ha
richiesto un parere in merito alla applicazione dell’art.
12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011 n. 98, convertito in
legge dall’art. 1, comma 1, della L. 15.07.2011 n. 111,
che prevede: “A decorrere dal 01.01.2014 al fine di
pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali e gli enti del Servizio Sanitario nazionale
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente”.
In particolare, viene chiesto se la permuta “pura” sia
esclusa dal campo di applicazione della norma.
...
L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 12, comma 1-ter,
del D.L. 98/2011 sopra riportato è stato oggetto di esame da
parte delle Sezioni Regionali di controllo della Corte
Conti, il cui indirizzo costante è orientato in ordine
all’esclusione da detto ambito della permuta c.d. “pura”,
quella, cioè, in cui non vi sono conguagli in denaro.
La non riconducibilità della citata fattispecie alla norma
de qua è stata affermata dalla Sezione regionale di
controllo per la Lombardia con la pronuncia n. 164 del 2013,
nella quale “pur consapevole che la permuta, anche ove non
preveda movimenti finanziari, è un contratto commutativo e
quindi a titolo oneroso”, la Sezione lombarda, da un lato
considerando che “dal punto di vista teleologico,
innanzitutto, occorre considerare che la disposizione in
commento novella un decreto legge recante "Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria", ed è inserita
nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi
dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196
”contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti
finanziari”" e dall’altro che “risolvendosi nella mera
diversa allocazione delle poste patrimoniali dell’ente
afferenti a beni immobili, il contratto di permuta risulta
operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non
contemplata dal richiamato divieto”, perviene alla
conclusione, anche sulla base di elementi interpretativi
letterali (il “soggetto alienante” e “il prezzo pattuito”)
che la disposizione non si applichi ai casi di permuta
“pura” (orientamento ribadito con le successive
deliberazioni n. 97/2014, 299/2014 e 21/2015).
In senso conforme si è pronunciata anche questa Sezione con
la delibera n. 280/2013, oltre ad altre Sezioni regionali di
controllo (Piemonte, n. 191/2014; Toscana n. 3/2015 tra le
altre), tutte concordi nel ritenere, alla luce della
ratio
esplicitata nello stesso testo, che la norma si applichi a
quei contratti che determinano un onere di spesa a carico
dell’ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto la Sezione regionale
di controllo per l’Emilia Romagna, con deliberazione n.
80/2015, aderendo all’orientamento consolidato succitato, ha
però precisato, coerentemente all’individuata ratio
normativa, che “l’applicabilità della previsione di cui al
ripetuto art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 si deve
considerare sussistente ogni qualvolta, a seguito
dell’acquisizione, l’amministrazione pubblica sia chiamata
ad un esborso finanziario, ancorché lo stesso discenda
unicamente dalle obbligazioni tributarie che l’atto
traslativo comporta”
(Corte di Conti,
Sez. controllo Veneto,
parere
04.05.2016 n. 264). |
PATRIMONIO:
Possibilità acquisizioni immobili, ai sensi dell'art. 12,
comma 1-ter, D.L. n. 98/2011.
La disposizione di cui all'art. 12,
comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche
amministrazione un regime di limitazione per gli acquisti di
immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ritiene l'inapplicabilità di questa
disciplina vincolistica ai casi di permuta pura, ovvero
senza conguaglio di prezzo a carico dell'ente territoriale.
Specificamente, la fattispecie della permuta di cosa
presente con cosa futura postula la manifestazione della
volontà delle parti nel senso di trasferimento della
proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà
acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555
e 1472 c.c.).
Il Comune, proprietario di un terreno edificabile, sul quale
insiste un edificio che necessiterebbe di importanti lavori
di ristrutturazione, ha ricevuto proposta, da parte del
proprietario di un terreno adiacente, di un accordo avente
ad oggetto il trasferimento della proprietà del terreno e
dell'edificio comunali in cambio dell'acquisto del diritto
di proprietà su immobili che verranno realizzati su una
superficie inclusiva del terreno comunale di cui trattasi,
nell'ambito di un piano di riqualificazione urbana
dell'area.
Il Comune precisa che l'operazione avverrebbe senza
ulteriori spese, e chiede se la stessa sia possibile ai
sensi della normativa vigente, in particolare avuto riguardo
ai vincoli posti dall'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011
[1].
L'art. 12, comma 1-ter, richiamato dall'Ente prevede che, a
decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi
di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del
Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
[2].
Nel quadro di questo regime vincolistico di acquisti
immobiliari, il Comune prospetta un'operazione di
acquisizione di immobili dietro trasferimento di sue
proprietà immobiliari: detta operazione sembrerebbe
presentare i caratteri della permuta, per cui si espongono
alcune considerazioni, in generale, sulle condizioni che
rendono legittima detta modalità di acquisizione di
immobili, stante le previsioni di cui all'art. 12, comma
1-ter, D.L. n. 98/2011, ed in particolare sulle condizioni
che integrano la permuta di cosa presente con cosa futura,
visto che i locali che acquisirà il comune non sono ancora
esistenti [3].
In ordine alla possibilità di effettuare operazioni di
permuta immobiliare, da parte degli enti locali, nel quadro
della disciplina vincolistica richiamata, la Corte dei conti
ha distinto la fattispecie della permuta pura da quella
della permuta con conguaglio di prezzo a carico dell'ente
territoriale. La permuta pura costituisce un'operazione
finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell'ambito
di applicazione del comma 1-ter dell'art. 12, D.L. n.
98/2011, nel presupposto dell'effettiva coincidenza di
valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di
permuta. Per contro, nell'ipotesi in cui l'operazione
comprenda il versamento, da parte dell'ente territoriale,
della differenza di valore fra i beni oggetto della permuta,
con conseguente qualificazione dell'operazione non in
termini di neutralità finanziaria, si ricade nell'alveo di
applicazione del comma 1-ter in argomento
[4].
La distinzione tra permuta pura e permuta non a parità di
prezzo, ovvero con erogazione in denaro a conguaglio da
parte dell'amministrazione -osserva il magistrato contabile-
è operata oltre che dalla giurisprudenza contabile anche
dallo stesso legislatore, che ha espressamente disposto la
non applicabilità del previgente art. 12, comma 1-quater, DL
n. 98/2011, tra l'altro, alle permute a parità di prezzo
(art. 10-bis, c. 1, DL n. 35/2013, richiamato)
[5]. Per
cui, si impone all'ente locale una puntuale quantificazione
del valore di quanto sarà oggetto della permuta al fine di
garantire l'effettiva parità di prezzo richiesta dalla norma
[6].
Nel caso in esame, viene in considerazione il trasferimento
di un terreno edificabile, con l'edificio che vi insiste, di
proprietà del Comune, in cambio dell'acquisizione di locali
ancora da realizzarsi, e dunque potrebbe configurarsi, al
ricorrere di determinate circostanze che si vanno ad
esporre, la fattispecie della permuta di cose future.
La Corte dei conti Marche ha preso in esame la possibilità
della permuta di cose future, nell'anno 2013, ai sensi del
previgente art. 12, comma 1-quater, DL n. 98/2011, prima che
intervenisse l'interpretazione autentica operata dal D.L. n.
35/2013, ed ha concluso, in quella sede, per l'inclusione
della fattispecie della permuta nella norma di divieto di
acquisto [7].
Posto che, a seguito dell'interpretazione autentica
suddetta, è stato risolto (in senso positivo), sul piano
legislativo e giurisprudenziale, il dubbio sull'esclusione
delle operazioni di permuta pura dalla normativa limitativa
di cui al previgente comma 1-quater dell'art. 12, DL n.
98/2011 [8],
e dunque da quella, meno incisiva, di cui al vigente comma
1-ter, appaiono utili le considerazioni della Corte dei
conti Marche sulla configurabilità della permuta di cosa
futura, al fine di escluderla dal campo di applicazione del
divieto di acquisto di cui al comma 1-ter in argomento.
Al riguardo, la Corte dei conti Marche richiama le
riflessioni della Corte di cassazione, secondo cui la
fattispecie della permuta di cosa presente con cosa futura
si può constatare soltanto dopo un'attenta interpretazione
della reale volontà delle parti nel caso concreto.
E così, la Suprema Corte, muovendo dalla effettiva volontà
delle parti nella fattispecie dedotta in giudizio, ha
sostenuto che il contratto con cui una parte cede all'altra
la proprietà di un'area edificabile, in cambio di un
appartamento sito nel fabbricato che sarà realizzato sulla
stessa area a cura e con mezzi del cessionario, integra gli
estremi del contratto di permuta tra un bene esistente ed un
bene futuro, qualora il sinallagma negoziale consista nel
trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa
futura.
È il caso di osservare che nella stessa sentenza la Corte di
cassazione ha utilizzato il principio espresso per escludere
l'applicabilità della permuta nella fattispecie dedotta in
giudizio, in quanto il sinallagma contrattuale non
consisteva nel trasferimento immediato e reciproco del
diritto di proprietà attuale del terreno e di quello futuro
sul fabbricato, ma si articolava in due distinti contratti,
vendita con effetti reali immediati del terreno e promessa
di vendita, con effetti obbligatori, con la quale le parti
si impegnavano a stipulare un successivo contratto per
l'alienazione di una parte del fabbricato da costruire
[9].
Ed ancora, in altra sede, la Corte di cassazione ha
affermato che la cessione di un'area edificabile in cambio
di un appartamento sito nel fabbricato realizzato a cura e
con i mezzi del cessionario può integrare tanto gli estremi
della permuta tra un bene esistente ed un bene futuro quanto
quelli del negozio misto caratterizzato da elementi propri
della vendita e dell'appalto, ricorrendo la prima ipotesi
qualora il sinallagma contrattuale consista nel
trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa
futura (l'obbligo di erigere il manufatto collocandosi,
conseguentemente, su di un piano accessorio e strumentale),
verificandosi la seconda ove, al contrario, la costruzione
del fabbricato assuma rilievo centrale all'interno della
convenzione negoziale, e l'alienazione dell'area costituisca
solo il mezzo per pervenire a tale obiettivo primario delle
parti [10].
Alla luce delle considerazioni esposte, l'operazione
prospettata dal Comune può assumere i caratteri della
permuta di cosa presente con cosa futura se la volontà
espressa dalle parti sia nel senso di trasferimento della
proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà
acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555
e 1472 c.c.), ed appare consentita, ai sensi del comma
1-ter, dell'art. 12, DL n. 98/2011, soltanto qualora vi sia
la corrispondenza di valore tra gli immobili comunali ceduti
(terreno ed edificio) e gli immobili futuri che acquisirà il
Comune, senza conguaglio di prezzo a suo carico (permuta
pura).
---------------
[1] Sull'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, in
argomento, ali enti locali del Friuli Venezia Giulia, v.
parere di questo Servizio n. 676/2015, consultabile
all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[2] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che
vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da
parte delle pubbliche amministrazioni, contenuta nel comma
1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art.
1, c. 138, L. n. 228/2012. Detto comma 1-quater era stato
oggetto di una norma di interpretazione autentica (art.
10-bis, c. 1, D.L. n. 35/2013), al fine di escludere
espressamente dall'ambito di applicabilità del divieto ivi
contenuto, tra l'altro, le permute 'a parità di prezzo'
(cfr. Corte dei conti. sez. contr. Lombardia, deliberazione
05.03.2014, n. 97).
[3] Ai sensi dell'art. 1552 c.c., 'La permuta è il contratto
che ha per oggetto il reciproco trasferimento della
proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente
all'altro'.
Per quanto concerne, in particolare, la permuta di cosa
presente con cosa futura, la stessa è possibile in forza del
rinvio alla disciplina della vendita operato per la permuta
dall'art. 1555 c.c., con conseguente applicazione dell'art.
1472 c.c., disciplinante la vendita di cose future, la cui
proprietà si acquista non appena vengano ad esistenza.
Infatti, la vendita di cosa futura si configura quale
vendita con effetti reali differiti, in quanto il
trasferimento del bene futuro avverrà solo con la sua venuta
ad esistenza.
[4] Cfr. Corte dei conti Lombardia, n. 97/2014, cit.. Nello
stesso senso, C. conti Lombardia, deliberazione 23.04.2013,
n. 162, secondo cui il tenore letterale del comma 1-ter
dell'art. 12, DL n. 98/2011, rivela l'inapplicabilità delle
prescrizioni ivi contenute ai casi di permuta pura, o al
massimo laddove sia previsto un conguaglio, da erogarsi però
a carico del privato; diversamente, si rientrerebbe
all'interno della norma interdittiva. Conformi, C. conti
Lombardia, deliberazione 23.04.2013, n. 164, e C. conti
Lombardia, deliberazione 07.05.2013, n. 193, richiamate da
C. conti Lombardia 24.09.2015, n. 310.
[5] C. conti, sez. contr. Piemonte, 30.10.2014, n. 203.
[6] C. conti, sez. contr. Piemonte, 18.06.2013, n. 236.
[7] Corte dei conti, sez. contr. Marche, 12.02.2013, n. 7.
[8] Corte dei conti Piemonte n. 236/2013 e n. 203/2014, citt..
[9] Cass. civ., sez. I, 22.12.2005, n. 28479.
[10] Cass. civ., sez. I, 21.11.1997, n. 11643, secondo cui
l'indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella
convenzione negoziale spetta al Giudice di merito (04.05.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
aprile 2016 |
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PATRIMONIO: I contratti
di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni
pubbliche vanno comunque soggetti a riduzione del 15% del
canone, tenendo presente che per i soli immobili di
proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente
consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone
di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla
Sezione una richiesta di motivato avviso con cui, dopo aver
rappresentato le circostanze di fatto e di diritto relative
alla modalità di concessione in locazione di un proprio
immobile adibito a locale caserma dei Carabinieri, ha
esposto di aver ribassato il canone di locazione del 15% in
ottemperanza al nuovo testo dell’art. 4, co. 4, D.L. n.
95/2012 (come modificato a opera dell’art. 24, co. 4, del
D.L. n. 66/2014 convertito, con modificazioni, dalla legge
23.06.2014, n. 89).
Alla luce di tali premesse, visti anche i pronunciamenti di
altre Sezioni regionali di controllo, il Comune chiede di
avere un motivato avviso sull’applicazione della riduzione
in parola al caso in cui i contraenti del contratto di
locazione siano entrambi parti pubbliche.
...
I. La problematica oggetto del quesito riguarda la
possibilità, per un Comune, di poter riportare all’importo
originariamente pattuito un canone di locazione relativo ad
un immobile comunale adibito a locale caserma dei
Carabinieri.
In particolare, il Comune ha rappresentato di aver
unilateralmente ribassato del 15% il canone di locazione,
ritenendosi obbligato all’applicazione del nuovo testo
dell’art. 3, co. 4, D.L. 95/2012 (come modificato a seguito da
parte dell’art. 24, co. 4, del D.L. 66/2014).
Per ben comprendere la problematica in esame, appare
opportuno procedere ad un preliminare esame della disciplina
applicabile e dei precedenti delle altre Sezioni regionali
di controllo.
II. La questione prospettata dal Comune di Codroipo richiede
di affrontare brevemente la recente normativa in tema di
locazioni passive da parte delle pubbliche Amministrazioni
centrali.
La normativa di riferimento è essenzialmente rappresentata
dall’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato
dall'art. 24, comma 4, del D.L. 24.04.2014, n. 66
(convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014,
n. 89), secondo cui: “ai fini del contenimento della spesa
pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva
aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati
dalle Amministrazioni centrali, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo
1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché
dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione
nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di
locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della
misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A
decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto la riduzione di cui al
periodo precedente si applica comunque ai contratti di
locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione
del canone di locazione si inserisce automaticamente nei
contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 codice
civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi
apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del
locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi
in essere in assenza di titolo alla data di entrata in
vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di
locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle
seguenti condizioni:
a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il
pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d’uso, per il
periodo di durata del contratto di locazione;
b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle
esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli
esiti dei piani di razionalizzazione di cui ai sensi
all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n.
191, ai piani di razionalizzazione ove già definiti, nonché
di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle
strutture previste dalle norme vigenti”.
La normativa di cui sopra, quindi, ha chiaramente operato
una scelta di riduzione (in misura pari al 15%) dei canoni
di locazione passiva che gravano sulle pubbliche
Amministrazioni centrali.
Analoga misura, secondo il disposto dell’art. 3, co. 7, del
D.L. 95/2012 (come modificato da parte del D.L 24.04.2014, n. 66), è da intendersi estesa, in quanto compatibile,
anche nei confronti delle altre Amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Può essere dunque utile procedere ad un esame dei precedenti
resi dalle altre Sezioni regionali di controllo su questioni
analoghe che vengono comunque ad intrecciarsi con la
specifica tematica in esame.
III. Questa Sezione si è pronunciata sulla possibilità per
l’Ente locale di contribuire ai costi di affitto con la
pronuncia n. 25/VIIIC./2004 in cui si è affermato che un
Comune, per favorire la presenza sul territorio comunale
della caserma dei Carabinieri, può rinunciare a parte del
canone locatizio, anche innovando il contratto di locazione,
qualora lo stesso fosse già perfezionato.
Significativa è altresì la deliberazione della Sezione
regionale di controllo per la Sardegna n. 3/2010/PAR secondo
cui “le esigenze di tutela dell’ordine pubblico
rappresentate dal Comune vanno ad inserirsi -
necessariamente- nel quadro dei rapporti e delle valutazioni
da assumersi in sede interistituzionale, secondo l’assetto e
con le procedure sopra riferiti. Esclusivamente in tale
contesto concertativo allargato potranno assumersi le
deliberazioni degli Enti interessati (Stato ed Enti
territoriali), incidenti sulle rispettive dotazioni
finanziarie o patrimoniali in relazione alle eventuali forme
di contribuzione alla spesa necessarie per le esigenze di
salvaguardia della sicurezza pubblica. Sul punto si
sottolinea che la normativa specificamente intervenuta –introducendo una deroga ai principi generali di cui al
paragrafo n. 4- circoscrive l’impegno economico-finanziario
in capo agli Enti territoriali, quanto a modi e tempi, senza
prevederne in alcun caso un totale accollo a carico degli
stessi”.
A seguito di un contrasto tra le citate delibere e quelle di
altre Sezioni che invece propendevano per l’inammissibilità,
è stata investita della questione la Sezione delle Autonomie
che, con la deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG ha reso una
sua pronuncia di orientamento con la quale si è affermato
che: “la Costituzione, pur attribuendo allo Stato la
competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e
sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce,
nella nuova formulazione dell’art. 118, l’esigenza di
stabilire, con legge statale, forme di coordinamento fra
Amministrazioni statali e periferiche, in vista del
potenziamento della sicurezza a livello locale. Al riguardo,
deve osservarsi che una specifica base normativa e
soprattutto finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma
439, della legge finanziaria per il 2007, che autorizza i
Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti
locali per realizzare programmi straordinari, tesi ad un
potenziamento dei presidi di sicurezza sul territorio,
accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie
messe a disposizione dagli enti che aderiscono. (…) La
finalità di potenziamento della tutela dell’ordine pubblico
e della sicurezza trova pieno riconoscimento nell’ambito
dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a valutare le
necessità della collettività amministrata in termini di
priorità e di compatibilità finanziarie e gestionali e,
sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare le eventuali
concertazioni interistituzionali, volte all’adozione di
specifici protocolli d’intesa che individuino obiettivi e
risorse. Peraltro, ferma restando l’importanza degli
strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza
degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui
all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007,
tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare
nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di
contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del
canone di locazione. Ciò anche in considerazione del
carattere non episodico della contribuzione, che deve
presumersi possa interessare la gestione del bilancio
dell’ente ben oltre l’esercizio in corso e che, pertanto,
mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in
questione, la cui durata in generale è annuale”.
Tale pronuncia di orientamento è stata recepita dalla
Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna,
parere 07.07.2014 n. 173.
Da notare, peraltro, che tale specifica problematica è stata
di recente risolta a livello normativo, ed infatti
tra le
disposizioni relative alla locazione di beni immobili da
adibire a caserma dei Carabinieri, la legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) ha disposto,
con l'art. 1, comma 500, l'introduzione del nuovo comma
4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95
secondo cui: “per le caserme delle Forze dell'ordine e del
Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso
proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di
competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del
canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle
entrate”.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi,
le
Amministrazioni comunali possono ora fornire un contributo
diretto ai canoni di locazione da corrispondere ai soggetti
privati per l’affitto di immobili da adibire a caserme di
Forze dell’ordine o dei Vigili del fuoco.
Tale assunto, sul quale si tornerà in seguito, rileva seppur
indirettamente, anche in ordine al più specifico quesito
posto dal Comune richiedente.
Sullo specifico punto, si richiama un precedente della
stessa Sezione regionale Emilia-Romagna che, con il
parere 15.12.2015 n. 157, ha affermato che “la
disposizione del novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012
non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto
intervenga tra due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva,
in tal senso, l’interpretazione finalistica e financo
letterale della normativa richiamata avente, peraltro,
natura di norma eccezionale e, come tale insuscettibile di
applicazione “oltre i casi e i tempi” in essa considerati
(cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale).
Si osserva, infatti che la statuizione oggetto di disamina è
applicabile, prima di ogni ulteriore considerazione, quando
realizzi la finalità richiamata nel testo di legge di
“contenimento della spesa pubblica”. All’evidenza, tale
finalità non si realizza qualora il rapporto concessorio,
cui sarebbe eventualmente da applicare la riduzione
automatica del canone nella misura del 15 per cento,
intervenga tra due pubbliche amministrazioni. Infatti
l’effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto
all’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, essendo
di assoluta evidenza che l’inserzione automatica ex art. 1339
c.c. di una tale clausola nel rapporto intercorrente tra due
pubbliche amministrazioni, pur comportando per l’una un
risparmio nella misura del 15 per cento di quanto
corrisposto in precedenza, per l’altra comporterebbe, in
egual misura, un minor introito”.
Si tratta della pronuncia richiamata anche dal Comune
istante, peraltro, senza tenere in adeguato conto, come di
seguito si preciserà, il più articolato quadro normativo e
giurisprudenziale.
Ed invero, tra i precedenti rinvenibili, merita in
particolare di essere segnalata anche la deliberazione della
Sezione regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR
secondo cui “non sembra potersi ritenere che vi siano lacune
normative in relazione ad ipotesi di contratti di locazione
posti in essere da un comune antecedentemente
all’applicazione della disposizione normativa che ha esteso
agli enti locali la disciplina del d.l. 95/2012 e che,
quindi, erano in corso al momento dell’entrata in vigore
della medesima. Il comma 4 dell’art. 3 del D.L. 95/2012
sopra richiamato prevede, infatti, l’inserzione automatica
ex art. 1339 c.c. della clausola di riduzione del canone di
locazione -anche in deroga ad eventuali clausole difformi
previste dalle parti- fermo restando il diritto, in capo al
locatore, di optare per il recesso dal contratto”.
Tale pronuncia ha ribadito dunque, con riferimento alla
normativa introdotta sulla riduzione del 15% dei canoni di
locazione passiva, l’applicabilità a favore delle
Amministrazioni pubbliche considerate dalla norma che
prevede l’inserzione automatica di clausole ex art. 1339 cod.
civ. a favore degli Enti individuati come beneficiari dalla
legge.
IV. Il Collegio condivide tale lettura ed invero si osserva
che l’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato dall'art.
24, comma 4, legge n. 89 del 2014, dettando previsioni per i
contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a
uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali,
come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai
sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa
la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob),
ha previsto l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. della
clausola di riduzione del canone di locazione, anche in
deroga ad eventuali clausole difformi previste dalle parti,
fermo restando il diritto, in capo al locatore, di optare
per il recesso dal contratto.
La stessa disciplina è applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7,
del D.L. 95/2012, alle Amministrazioni locali (in tal senso,
si veda anche la citata deliberazione della Sezione
regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR).
Alla luce della normativa introdotta e delle richiamate
pronunce emanate dalle Sezioni regionali sul tema, il
Collegio ritiene di dover approfondire le problematiche
sollevate dal parere prospettato dal Comune di Codroipo.
Invero, il Comune richiedente si limita a richiamare una
deliberazione dell’Emilia Romagna,
parere 15.12.2015 n. 157, senza
procedere ai necessari raccordi con la normativa introdotta
sul tema, anche successivamente a detta pronuncia.
Va però considerato che, in una lettura sistematica, la
deliberazione in questione pare porsi come una, seppur
indiretta, applicazione del principio di coordinamento
affermato dalla deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG della
Sezione delle Autonomie secondo cui, nell’ambito degli
strumenti di concertazione interistituzionale e degli
obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire tramite gli appositi programmi, non sarebbe
possibile prevedere da parte dei Comuni forme di
contribuzione volte al pagamento del canone di locazione per
le caserme delle Forze dell’ordine.
Come sopra anticipato,
tale impostazione è ormai superata e
non più attuale alla luce del disposto normativo recato dal
nuovo comma 4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95, introdotto dall'art. 1, comma 500, della legge
28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016)
che ha riconosciuto possibilità per i Comuni di contribuire
alle spese per la locazione di immobili privati adibiti a
caserme di Forze dell’ordine nei limiti del “canone di
locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate”.
Non può invero ignorarsi una connessione tra le due
fattispecie normativamente previste.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi, appare
chiaro che il contributo diretto da parte dei Comuni ai
canoni di locazione per caserme ospitate in immobili
privati, rappresenterebbe una forma di aiuto economico
assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione
per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine,
trattandosi in ambedue i casi di forme di sostegno
consentite dall’Ordinamento, con la conseguenza che:
a) opera ex lege la riduzione del canone per tutte le
locazioni passive cui sono tenute le pubbliche
Amministrazioni per il godimento di immobili adibiti ad uso
istituzionale, senza distinzione tra immobili di proprietà
pubblica o privata;
b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a
caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire
al pagamento del canone di locazione come determinato
dall'Agenzia delle entrate.
Tale impostazione giuridica, relativa al diritto
applicabile, appare già di per sé risolutiva del quesito
prospettato, ancorché dalla normativa citata non si evinca
una espressa indicazione circa l’applicabilità della
predetta riduzione ai canoni di locazione relativi ad
immobili di proprietà pubblica affittati ad altra pubblica
Amministrazione.
Ritiene comunque il Collegio di fare cenno ai possibili
effetti, invero non chiaramente affrontati nel quesito
pervenuto, ma solo indirettamente enucleabili dalla lettura
della più volte citata pronuncia dell’Emilia Romagna,
relativi alla considerazione della diversa natura dei saldi
di bilancio relativi, nel caso di specie, a una pubblica
Amministrazione centrale e a una pubblica Amministrazione
locale.
Invero la riduzione dei canoni, inserita ex lege in base al
disposto dell’art. 1339 cod. civ., ha il precipuo scopo di
ridurre la spesa per canoni di locazione passiva gravanti
sulle Amministrazioni locatarie, ragion per cui va assunto a
riferimento il saldo di bilancio dei singoli comparti,
piuttosto che il conto economico consolidato delle pubbliche
Amministrazioni.
La stessa disciplina, infatti, come si è detto, è
applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012,
alle Amministrazioni locali.
Il tutto, val la pena di evidenziare, anche alla luce
dell’attuale previsione dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012
secondo cui le Regioni e le Province autonome di Trento e
Bolzano possono adottare misure alternative di contenimento
della spesa corrente al fine di conseguire risparmi non
inferiori a quelli derivanti dall'applicazione della citata
disposizione.
Da notare che tale ultima previsione ha recentemente
interessato la Consulta in un giudizio di costituzionalità,
sollevato dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 18.08.2014 e depositato il successivo 22 agosto (reg. ric.
n. 63 del 2014, che è stato deciso lo stesso giorno della
presente camera di consiglio).
In tale giudizio, di particolare rilievo, merita di essere
richiamata la problematica della finanza delle Regioni,
delle Province autonome e degli Enti locali come parte della
finanza pubblica allargata e della possibilità per il
legislatore statale di imporre alle Regioni e agli Enti
locali vincoli alle politiche di bilancio, con una
legislazione di principio, per ragioni di coordinamento
finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati
anche dagli obblighi comunitari.
Aspetti questi ultimi che assumono valenza ancor più
significativa nell’assetto ordinamentale della Regione
Friuli Venezia Giulia, per le specifiche competenza
statutarie in materia di ordinamento e finanza degli Enti
locali.
Tale assunto da ultimo richiamato conferma la maggiore
complessità ed articolazione del quadro normativo rispetto
alle prospettazioni del quesito, quadro riassumibile, come
si è detto, nei suesposti princìpi secondo cui
i contratti
di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni
pubbliche vadano comunque soggetti a riduzione del 15% del
canone, tenendo presente che per i soli immobili di
proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente
consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone
di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate
(Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia,
parere 27.04.2016 n. 40). |
PATRIMONIO: Un ente locale che si determina per l’acquisto di un bene
immobile in ragione di una convenzione urbanistica, ma non ha
ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può
impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un
fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato
con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a
scadenza su più annualità?
La Sezione osserva che, poiché il
verificarsi dei presupposti indicati nella convenzione
urbanistica costituisce idoneo titolo giuridico per
procedere all’impegno di spesa del prezzo da corrispondere
per l’acquisizione del bene immobile previsto nella
convenzione medesima, l’ente locale, quando il pagamento è
rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi
dell’istituto del fondo pluriennale vincolato.
---------------
Il Sindaco del Comune di Clusone (BG), con la nota indicata in
epigrafe, espone nelle premesse che il Consiglio Comunale
aveva approvato, con deliberazione n. 78 del 30.12.2002,
convenzione urbanistica, sottoscritta il 07.05.2003,
relativa al Piano Integrato di Intervento denominato "Angelo Maj", obbligandosi all'acquisto dell'immobile costituente
l'ex Convitto Angelo Maj, al prezzo di € 981.268,00, entro
60 giorni dal collaudo delle opere pubbliche previste dal
PII medesimo, eseguito il 26.03.2010 con conseguente
perfezionamento dell'obbligo dell'acquisto in data
25.05.2010.
Chiarisce che il 24.05.2010 perveniva al Comune lettera
raccomandata da parte della proprietaria dell'immobile in
questione con la quale veniva fissata la data del rogito
notarile per il giorno 26.07.2010.
Stanti i pesanti riflessi che il pagamento di un importo
così elevato avrebbe avuto sui saldi del Patto di Stabilità
interno l’amministrazione civica avviava una trattativa con
la controparte per addivenire ad un pagamento rateizzato e
ad una diversa determinazione del prezzo.
Tenuto conto che l’accordo si è concluso solamente nell'anno
2015, il Consiglio Comunale -con deliberazione n. 24 del
24.03.2015, prendendo atto del medesimo- ha disposto di
applicare l'avanzo di amministrazione 2014, nella quota
destinata ad investimenti e nella quota libera per il nuovo
importo concordato di € 750.000.00.
Oltre il prezzo più contenuto, il comune istante otteneva a
proprio vantaggio la rateizzazione del prezzo in sei
annualità, nella misura di € 150.000,00 per i primi tre anni
e € 100.000,00 per quelli a seguire.
Tuttavia il trasferimento di proprietà dell'immobile non è
ancora materialmente avvenuto e nel bilancio di previsione
2015 è stato applicato importo dell'avanzo di
amministrazione per € 750.000,00 destinato al pagamento
della prima rata ed all'alimentazione della quota di Fondo
Pluriennale Vincolato di parte capitale per le rate scadenti
negli esercizi successivi per € 600.000,00.
Alla luce di quanto premesso, al fine di verificare la
corretta applicazione del principio contabile della
competenza finanziaria potenziata ex D.Lgs. 118/2011,
l’organo rappresentativo dell’Ente chiede a questa Sezione
di esprimere un parere sul seguente quesito: “se sia
correttamente costituito il Fondo Pluriennale 'Vincolato di
parte capitale per la quota relativa all'acquisto
dell'immobile in parola, potendosi ritenere giuridicamente
perfezionata l'obbligazione all'acquisto dello stesso,
essendosi concretizzate le condizioni previste dalla
convenzione urbanistica, anche in assenza del formale
passaggio di proprietà del bene con atto notarile”.
...
2. Venendo al merito della richiesta, occorre
preliminarmente osservare che la Sezione, nell’ambito
dell’attività consultiva, non può sindacare le pregresse
scelte dell’ente che si riverberano sulle modalità, anche
temporali, con le quali l’ente locale è pervenuto alla
decisione di acquisire il bene immobile a cui si fa
riferimento nella richiesta di parere, trattandosi di
opzione gestionale rimessa alla potestà amministrativa
riservata dalla legge alla pubblica amministrazione. Dunque,
questa Sezione prenderà in esame il quesito formulato
dall’ente astraendolo da ogni riferimento alla fattispecie
concreta sottostante.
Il quesito può essere riformulato nei termini che seguono:
un ente locale che si determina per l’acquisto di un bene
immobile in ragione di una convenzione urbanistica ma non ha
ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può
impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un
fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato
con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a
scadenza su più annualità?
Per risolvere il quesito formulato, occorre preliminarmente
richiamare le regola che disciplinano il fondo pluriennale
vincolato.
Il principio applicato 4.2 allegato al d.lgs. n.
118/2011, definisce nello specifico le modalità di
costituzione, l’iscrizione in bilancio e la gestione del
c.d. fondo pluriennale vincolato che, di fatto, opera come
un saldo finanziario, costituito da risorse già accertate
(nel caso di specie, l’avanzo di amministrazione risultante
dagli esercizi precedenti e accertato nel rispetto degli
artt. 186 e 187 Tuel), destinate al finanziamento di
obbligazioni passive dell’ente già impegnate, ma esigibili
in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata
(nel caso in esame le rate per il pagamento del prezzo di
acquisto dell’immobile).
La finalità del fondo in discorso è sancita al punto 5.4 del
richiamato principio contabile applicato: “nasce
dall'esigenza di applicare il principio della competenza
finanziaria di cui all'allegato 1, e rendere evidente la
distanza temporale intercorrente tra l'acquisizione dei
finanziamenti e l'effettivo impiego di tali risorse”.
In ordine alla costituzione del fondo il legislatore precisa
che questo “è formato solo da entrate correnti vincolate e
da entrate destinate al finanziamento di investimenti,
accertate e imputate agli esercizi precedenti a quelli di
imputazione delle relative spese”, ma “prescinde dalla
natura vincolata o destinata delle entrate che lo
alimentano”.
Inoltre, “il fondo riguarda prevalentemente le
spese in conto capitale ma può essere destinato a garantire
la copertura di spese correnti, ad esempio per quelle
impegnate a fronte di entrate derivanti da trasferimenti
correnti vincolati, esigibili in esercizi precedenti a
quelli in cui è esigibile la corrispondente spesa”.
Questo istituto salvaguarda gli equilibri di bilancio perché
“sugli stanziamenti di spesa intestati ai singoli fondi
pluriennali vincolati non è possibile assumere impegni ed
effettuare pagamenti. Il fondo pluriennale risulta
immediatamente utilizzabile, a seguito dell'accertamento
delle entrate che lo finanziano, ed è possibile procedere
all'impegno delle spese esigibili nell'esercizio in corso
(la cui copertura è costituita dalle entrate accertate nel
medesimo esercizio finanziario), e all'impegno delle spese
esigibili negli esercizi successivi (la cui copertura è
effettuata dal fondo). In altre parole, il principio della
competenza potenziata prevede che il "fondo pluriennale
vincolato" sia uno strumento di rappresentazione della
programmazione e previsione delle spese pubbliche
territoriali, sia correnti sia di investimento, che evidenzi
con trasparenza e attendibilità il procedimento di impiego
delle risorse acquisite dall'ente che richiedono un periodo
di tempo ultrannuale per il loro effettivo impiego ed
utilizzo per le finalità programmate e previste”.
Chiarito il funzionamento del fondo pluriennale vincolato e
che in entrata può essere alimentato dal risultato di
amministrazione vincolato già accertato e accantonato per
gli esercizi successivi (principio contabile applicato
concernente la competenza finanziaria, allegato 4/2 punto
9.2 capoversi 6 e 7), ai fini della soluzione del quesito in
esame, occorre altresì evidenziare che detto fondo può
essere costituito solo quando sussiste il titolo giuridico
per impegnare la spesa la cui scadenza è ripartita su più
esercizi finanziari. Infatti, mentre le entrate vincolate
destinate alla copertura di spese impegnate e imputate agli
esercizi successivi sono rappresentate nel fondo pluriennale
vincolato, diversamente le entrate vincolate destinate alla
copertura di spese non ancora impegnate (in assenza di
obbligazioni giuridicamente perfezionate) sono rappresentate
contabilmente nella quota vincolata del risultato di
amministrazione.
Dunque, bisogna affrontare la questione se la sottoscrizione
di una convenzione urbanistica che prevede l’obbligo a
carico dell’ente di acquisire un determinato bene immobile
-anche se il trasferimento non è stato ancora formalizzato
con atto notarile- costituisca idoneo titolo giuridico per
procedere all’impegno di spesa.
Nel caso di specie, poiché come riferisce l’ente
si sono
verificati i presupposti previsti dalla convenzione per far
sorgere l’obbligo di acquisto del bene immobile in discorso,
a prescindere dalla formalizzazione dell’acquisto mediante
atto notarile, si deve ritenere che il titolo giuridico per
procedere all’impegno di spesa sussista e, in ragione della
scadenza delle singole rate del pagamento del prezzo, l’ente
debba procedere ad impegnare la spesa nell’esercizio di
competenza.
Detta affermazione è in linea con il principio contenuto
nell’allegato sulla competenza finanziaria potenziata (all.
4.2), laddove al punto 5.3. si afferma che “anche per le
spese di investimento che non richiedono la definizione di
un cronoprogramma, l'imputazione agli esercizi della spesa
riguardante la realizzazione dell'investimento è effettuata
nel rispetto del principio generale della competenza
finanziaria potenziato, ossia in considerazione
dell'esigibilità della spesa. Pertanto, anche per le spese
che non sono soggette a gara, è necessario impegnare sulla
base di una obbligazione giuridicamente perfezionata, in
considerazione della scadenza dell'obbligazione stessa. A
tal fine, l'amministrazione, nella fase della
contrattazione, richiede, ove possibile, che nel contratto
siano indicate le scadenze dei singoli pagamenti. E' in ogni
caso auspicabile che l'ente richieda sempre un
cronoprogramma della spesa di investimento da realizzare”.
In conclusione, poiché il verificarsi dei presupposti
indicati nella convenzione urbanistica, costituisce idoneo
titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa del
prezzo da corrispondere per l’acquisizione del bene immobile
previsto in convenzione, l’ente locale, quando il pagamento
è rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi
dell’istituto del fondo pluriennale vincolato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.04.2016 n. 108). |
PATRIMONIO:
Oneri per la gestione e le riparazioni di orologi
posizionati sui campanili delle chiese.
Non rinvenendosi alcuna disposizione che
ponga a carico del bilancio dell'ente locale le spese per la
gestione e le riparazioni di orologi posizionati sui
campanili delle chiese di proprietà della curia o delle
parrocchie, si ritiene che detti oneri gravino sul soggetto
proprietario del bene.
Il Comune chiede di conoscere se la gestione e le
riparazioni degli orologi posizionati sui campanili delle
chiese di proprietà della curia o delle parrocchie sia di
competenza comunale ed, in caso affermativo, in base a quale
disposizione normativa.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
Poiché non si è rinvenuta alcuna norma che ponga a carico
del bilancio dell'ente locale le spese per gli interventi
oggetto di quesito, la questione va risolta considerando che
gli oneri di gestione e di manutenzione gravano, di regola,
sul soggetto proprietario del bene [1],
così come accade nell'ipotesi in cui orologi posizionati
all'interno dei campanili (in quanto 'torri civiche')
siano di proprietà comunale.
Ciò posto si segnala, per completezza, che la Corte dei
conti - Sezione regionale di controllo per la Lombardia
[2],
esprimendosi in merito all'ammissibilità, o meno, per il
Comune di procedere ad attribuzioni patrimoniali
[3] a
terzi soggetti, presenti sul territorio comunale, «in una
fattispecie che esula dalla specifica previsione di legge»,
premesso che si tratta di valutazione di esclusiva
competenza dell'amministrazione locale, richiama l'ente «all'osservanza
del principio generale per cui l'attribuzione patrimoniale è
da considerarsi lecita solo se finalizzata allo svolgimento
di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la
collettività insediata sul territorio sul quale insiste il
Comune, anche, in via meramente esemplificativa, di
carattere artistico, culturale o economico», precisando
che «In ogni caso, l'eventuale attribuzione dovrà essere
conforme al principio di congruità della spesa mediante una
valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell'ente locale» e che «In caso contrario,
l'attribuzione non troverebbe alcuna giustificazione».
---------------
[1] Un'indiretta conferma si rinviene nelle previsioni
contenute nell'art. 2 del decreto del Presidente della
Regione 19.08.2015, n. 0165/Pres. («Regolamento recante
criteri e modalità per la concessione dei contributi per
complessi seminariali diocesani, istituti di istruzione
religiosa, opere di culto e di ministero religioso previsti
dall'articolo 7-ter della legge regionale 07.03.1983, n.
20») -interventi nell'ambito dei quali risultano finanziati
lavori di restauro, manutenzione e completamento di
campanili- il quale dispone che «Possono beneficiare dei
contributi di cui al presente regolamento le parrocchie e
altri enti ecclesiastici cattolici o di altre confessioni
religiose riconosciute dallo Stato italiano, con le quali
sono state stipulate intese approvate con legge, nonché enti
pubblici e privati proprietari o titolari di altro diritto
che costituisca titolo ad eseguire gli interventi sugli
edifici di cui all'articolo 1.».
[2] V. pareri 31.05.2012, n. 262 e 11.09.2015, n. 279.
[3] Attinenti, in entrambi i casi esaminati, al patrimonio
immobiliare (12.04.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
marzo 2016 |
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PATRIMONIO:
Le piogge eccezionali non giustificano l’incuria.
Se il pluviale è difettoso resta comunque la responsabilità.
Danni da eventi atmosferici. La Cassazione interviene sulle
colpe del condominio.
Caso fortuito o forza maggiore
devono essere tali da interrompere davvero qualsiasi nesso
tra cosa ed evento. E quindi anche il condominio può essere
chiamato in causa per il risarcimento dei danni dovuti sì a
eventi atmosferici straordinari ma i cui effetti sono stati
facilitati dall’incuria. Insomma, tempi duri per gli
amministratori di condominio disattenti alla manutenzione.
Questo il senso
della
sentenza 24.03.2016 n. 5877
della Corte di Cassazione, Sez. III civile.
L’articolo 2051 del Codice civile, infatti, che ammette la
possibilità di andare esenti da responsabilità, qualora il
«custode» provi il caso fortuito ovvero la forza maggiore,
per risultare operativa necessita di un fattore causale
esterno di una tale intensità da risultare idoneo a impedire
qualsivoglia «nesso eziologico» tra la cosa e l’evento
lesivo.
Quindi, quando l’apporto esterno sia tale da integrare, in
astratto, gli elementi tipici del caso fortuito o della
forza maggiore, ma, tuttavia, vengano in rilievo condotte
colpose del custode (in questo caso il condominio)
potenzialmente idonee a interrompere o aggravare la
componente causale estranea, queste possono fondare delle
ipotesi di responsabilità esclusiva o concorrente.
Peraltro, lo stato di profondo dissesto idrogeologico in cui
versa l’intero Paese, impone un doveroso rigore negli
accertamenti giudiziali, in considerazione del fatto che
stante la frequenza di eventi alluvionali a carattere
calamitoso, a oggi, gli stessi risultano tutt’altro che
imprevedibili.
Il ragionamento della Cassazione probabilmente imporrà una
più cauta riflessione per tutti quei danni conseguenza dei
rilevanti fenomeni atmosferici. La Corte ha quindi ribaltato
la sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva negato
il risarcimento del danno subito da un privato. Che
conveniva in giudizio il condominio nel quale deteneva in
locazione due locali (nonché il Comune), chiedendo che
venissero condannati al risarcimento del danno subito in
conseguenza dell’allagamento degli ambienti dopo un violento
temporale, per cui vi erano state delle infiltrazioni dovute
sia all’esondazione di un vicino sottopasso –causata dal
mancato funzionamento delle elettropompe all’uopo installate– che alla fuoriuscita di acqua da un tubo pluviale del
condominio.
Il Tribunale di Milano, e successivamente, la Corte
d’appello rigettavano la domanda. Per la Cassazione il
giudice d’appello avrebbe ritenuto, sbagliando, ininfluente
la verifica in merito al corretto funzionamento degli
impianti, data la loro acclarata inadeguatezza.
La Corte ha quindi chiarito che «La possibilità di invocare
il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi
ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al
soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità
da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e
l’evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato
una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare
l’evento», pertanto, vista la responsabilità del condominio
(e del Comune), tenuti alla manutenzione, il giudice di
merito «avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della
fattispecie, allo scopo di valutare se, come e in quale
percentuale l’esecuzione dei lavori a regola d’arte e il
regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero
stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre
l’entità dei danni», specie in rapporto allo stato attuale
del territorio che impone: «criteri di accertamento
improntati a un maggior rigore, poiché è chiaro che non si
possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni
fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più
frequenti».
Gli amministratori di condominio dovranno quindi, anche in
casi analoghi, dimostrare rigorosamente la corretta
manutenzione delle cose in custodia (articolo Il Sole 24 Ore del
05.04.2016). |
PATRIMONIO: Danni da alluvione:
danni da alluvione a carico del Comune non che non fa
manutenzione delle fogne.
La possibilità di invocare il fortuito
(o la forza maggiore) deve ritenersi ammessa nel solo caso
in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante
abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout
court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di
tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta
da sola sufficiente a determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza
ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da
uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in
astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della
forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di
specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte
astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità
del soggetto che invoca l'esimente in questione.
---------------
Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in
relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A.,
che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da
parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui
la P.A. realizzi e mantenga un'opera pubblica trova un
limite nell'obbligo di osservare, a tutela della incolumità
dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le
specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti
detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e
prudenza, con la conseguenza che dall'inosservanza di queste
disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità
della responsabilità della stessa pubblica amministrazione
per i danni arrecati a terzi.
---------------
La s.r.l. "La Ch. di Is."
convenne dinanzi al Tribunale di Milano il condominio "Gi.
di Lissone", il comune di Lissone e le compagnie
assicuratrici Helvetia e Sasa, chiedendone la condanna al
risarcimento dei danni subiti in seguito all'allagamento
(verificatosi in occasione di un forte temporale, sia per
esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni
da un tubo pluviale del condominio) di due locali condotti
in locazione da essa attrice.
Espose, in particolare, la società che, tra le cause
dell'allagamento, un particolare rilievo aveva assunto il
mancato funzionamento delle elettropompe che il comune aveva
installato proprio al fine di prevenire l'evento poi
verificatosi.
Il giudice di primo grado respinse sia la domanda della
società, sia quella proposta in corso di giudizio dal
condominio nei confronti del comune per omessa o carente
manutenzione della fognatura.
...
Quanto alla responsabilità del comune di Lissone risulta in
fatto accertato -come si legge nella motivazione della
pronuncia oggi impugnata:
- che i locali di proprietà dell'odierna ricorrente rimasero
seriamente danneggiati a seguito dell'allagamento causato da
un forte temporale, di carattere eccezionale;
- che la capacità di smaltimento delle elettropompe era da
ritenersi comunque insufficiente rispetto all'intensità
della precipitazione;
- che, conseguentemente, l'accertamento circa il mancato
funzionamento delle pompe stesse (circostanza allegata
dall'attrice in prime cure) doveva ritenersi ininfluente ai
fini del decidere, proprio in conseguenza della loro
insufficienza allo smaltimento della eccezionale
precipitazione.
Di qui, la riconduzione dell'evento di danno al caso
fortuito.
La questione giuridica sulla quale questa Corte è chiamata a
pronunciarsi consiste, pertanto, nello
stabilire se un fenomeno di pioggia intensa e persistente,
tale da assumere i connotati di una pioggia definita dalla
Corte d'appello come di eccezionale intensità, alla luce
degli acquisiti dati pluviometrici, possa costituire o meno
un evento riconducibile alla fattispecie del fortuito,
idoneo di per sé ad interrompere il nesso di causalità, in
considerazione del suo carattere di straordinarietà ed
imprevedibilità -
quesito al quale la Corte d'appello ha dato risposta
affermativa.
La questione non è nuova nella giurisprudenza di questa
Corte.
La sentenza 11.05.1991, n. 5267, relativa alla diversa
fattispecie di un contratto di deposito nei magazzini
generali, ebbe già ad affrontare il problema della
possibilità di riconoscere la natura di caso fortuito in
riferimento ad un allagamento provocato da intense
precipitazioni atmosferiche; e, sia pure con le diversità
evidenti rispetto alla fattispecie per la quale è ancor oggi
processo, questa Corte osservò che "per
caso fortuito deve intendersi un avvenimento imprevedibile,
un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente
nella serie causale come fattore determinante in modo
autonomo dell'evento. Il carattere eccezionale di un
fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria
anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di per sé
solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude
la prevedibilità in base alla comune esperienza".
La successiva sentenza 22.05.1998, n. 5133, emessa in un
giudizio avente ad oggetto un risarcimento danni per
allagamento di un negozio conseguente all'invasione delle
acque a seguito di abbondanti piogge, affermò che "possono
integrare il caso fortuito precipitazioni imprevedibili o di
eccezionale entità", rilevando che l'evento
imprevedibile costituisce caso fortuito e non determina
responsabilità.
In tempi più recenti, la sentenza 09.03.2010, n. 5658
-emessa in un giudizio di risarcimento danni nei confronti
dell'ANAS per allagamenti conseguenti alla tracimazione
delle acque ed alla cattiva manutenzione dei sistemi di
smaltimento delle acque piovane- ha affermato che
è certamente vero "che una pioggia di eccezionale
intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad
eventi di danno come quello in questione; ma non è affatto
vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque
un caso fortuito".
Con quest'ultima pronuncia, in particolare, è stato
precisato che, per potersi condividere la
decisione del giudice di merito che in quell'occasione aveva
respinto la domanda di risarcimento dei danni, l'ANAS "avrebbe
dovuto dimostrare che le piogge in questione erano state da
sole causa sufficiente dei danni nonostante la più
scrupolosa manutenzione e pulizia da parte sua delle opere
di smaltimento delle acque piovane; il che equivale in
sostanza a dimostrare che le piogge in questione erano state
così intense (e quindi così eccezionali) che gli allagamenti
si sarebbero verificati nella stessa misura pure essendovi
stata detta scrupolosa manutenzione e pulizia".
La sentenza in esame ha poi aggiunto che,
ove fosse stato provato che la manutenzione e la pulizia
sarebbero state idonee almeno a ridurre l'entità degli
allagamenti, si sarebbe dovuto fare applicazione della
previsione di cui all'art. 1227, coma 1, c.c..
Ritiene questo Collegio che vada confermato
tale, più recente orientamento, con le necessarie
precisazioni richieste dalla specificità del caso in esame.
La possibilità di invocare il fortuito (o
la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo
caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto
danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da
interrompere tout court il nesso eziologico tra la
cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere
considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a
determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza
ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da
uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in
astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della
forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di
specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte
astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità
del soggetto che invoca l'esimente in questione.
Applicando tale principio al caso di specie, è evidente
l'errore in cui è caduta la sentenza impugnata la quale,
trascurando del tutto ogni accertamento in ordine al
funzionamento delle pompe di smaltimento (che si assume da
parte ricorrente non funzionanti) sulla scorta dell'erronea
considerazione della loro insufficienza a smaltire l'intero
flusso delle acque (senza interrogarsi né sulla possibilità
e sulla efficacia causale di uno smaltimento anche solo
parziale, né su eventuali responsabilità amministrative
circa le caratteristiche stesse delle pompe di filtraggio),
ha tuttavia attribuito, sic et simpliciter, il
carattere del fortuito determinante alla pioggia torrenziale
che si era abbattuta sul territorio, omettendo altresì di
considerare le rilevanti perplessità espresse dal ctu circa
il reale stato di manutenzione della fognatura (ff. 11-12
della relazione, riportata in ricorso al foglio 26).
La Corte d'appello, di converso, ha ritenuto -sulla base di
un sillogismo evidentemente privo delle necessarie premesse-
che anche un sistema di deflusso che fosse stato realizzato
e avesse funzionato nel pieno rispetto di tutte le norme
tecniche e di ordinaria diligenza non sarebbe stato idoneo a
contenere la furia delle acque e ad evitare il danno.
E' tale affermazione ad apparire, nella sostanza, sfornita
di motivazione, mentre è evidente che l'accertamento di una
sicura responsabilità in capo all'ente tenuto alla
manutenzione avrebbe dovuto imporre un più accurato esame
della fattispecie, allo scopo di valutare se, come ed in
quale percentuale l'esecuzione dei lavori a regola d'arte e
il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero
stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre
l'entità dei danni.
Questa Corte ha già in più occasioni
riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di
manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e
la conseguente insindacabilità da parte del giudice
ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi
e mantenga un'opera pubblica trova un limite nell'obbligo di
osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e
dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche
disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta
attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza,
con la conseguenza che dall'inosservanza di queste
disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità
della responsabilità della stessa pubblica amministrazione
per i danni arrecati a terzi
(tra le altre, Cass. 09.10.2003, n. 15061 e 11.11.2011, n.
23562).
E' appena il caso di aggiungere, infine, che ogni
riflessione, declinata in termini di attualità, sulla
prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere
alluvionale, certamente impone, oggi, in considerazione dei
noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro
Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior
rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare
come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che
stanno diventando sempre più frequenti e, ormai, tutt'altro
che imprevedibili
(Corte di Cassazione, Sez. III
civile,
sentenza 24.03.2016 n. 5877). |
PATRIMONIO:
Vie provinciali, palla al comune. Ok la
manutenzione. Per la sicurezza.
Un comune può avviare interventi di manutenzione
straordinaria su beni di proprietà di altro soggetto, se
questo intenda tutelare le esigenze e la sicurezza della
collettività locale.
Così la sezione regionale di controllo della Corte dei conti
per la Regione Piemonte, nel testo del
parere 24.03.2016 n. 29,
nel fare chiarezza sulla possibilità, per un'amministrazione
comunale, di intervenire economicamente al ripristino di un
una strada di proprietà dell'ente provinciale del
territorio.
Il comune di Zubiena (Biella) chiedeva alla Corte se fosse
possibile intervenire con le risorse del proprio bilancio,
per far fronte ad interventi su strade provinciali che
insistono sul proprio territorio, stante la momentanea
disponibilità da parte dell'ente proprietario della strada.
In primo luogo, il comune è tenuto a realizzare gli
interessi della collettività locale, così come prevede
l'art. 13 Tuel. È pacifico, pertanto, che l'amministrazione
comunale sia interessata al fatto che la rete viaria
esistente sul proprio territorio sia mantenuta in piena
efficienza dai rispettivi enti proprietari, anche ai fini
della tutela e la sicurezza della collettività locale.
Ne
consegue che, in situazioni peculiari e qualora sia
accertata l'impossibilità temporanea ad intervenire da parte
dell'ente proprietario, il comune ha tutto l'interesse a far
effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada
provinciale, poiché questo tutela la sicurezza dei cittadini
amministrati.
Quanto all'intervento economico destinato a
finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro
soggetto, la Corte ha sottolineato che l'uscita delle
risorse dal bilancio comunale trova «puntuale
giustificazione» nella dimostrazione del perseguimento di un
«indifferibile» interesse della comunità locale.
Il
materiale «spostamento» di risorse tra gli enti interessati,
poi, potrebbe successivamente regolarsi mediante lo
strumento della convenzione ex articolo 30 Tuel, grazie al
quale verrebbero regolati i rapporti finanziari e le
previsioni di restituzione, all'interno del principio
costituzionale della «leale collaborazione tra
amministrazioni pubbliche»
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2016). |
PATRIMONIO: Sulla
possibilità -o meno- di destinare fondi comunali ad
interventi su beni di proprietà provinciale.
E' evidente che l’amministrazione
comunale sia interessata al fatto che la rete viaria
esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela
delle esigenze e della sicurezza della collettività locale,
sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti
proprietari.
In situazione peculiari, qualora sia accertata
l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente
istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere
interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di
una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela
della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del
Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di
proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe
comunque trovare puntuale giustificazione nella
dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e
indifferibile interesse della comunità locale.
D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato
esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno
del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere
disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione
coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione
di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i
relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie,
ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice
costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni
pubbliche.
---------------
Con la nota pervenuta in data 05.02.2016 il Sindaco del Comune
di Zubiena (BI) ha rivolto alla Sezione una richiesta di
parere in ordine alla questione inerente la possibilità di
effettuare interventi destinati a strade provinciali.
In particolare l’istante formula un quesito circa la
possibilità per il Comune di intervenire con proprie risorse
di bilancio per far fronte ad interventi su strade
provinciali.
Precisa di aver ricevuto sollecitazione a tale
tipo di intervento dalla locale amministrazione provinciale
e da rappresentanti della minoranza consiliare, ma di non
avere ancora posto in essere alcuna iniziativa.
...
Il quesito formulato attiene sotto un aspetto generale alla
tematica della possibile destinazione di fondi comunali ad
interventi su beni di proprietà di un soggetto giuridico
diverso, trattandosi nella fattispecie delineata
dall’istante di strade appartenenti all’ente Provincia.
Va al proposito evidenziato che qualunque genere di
intervento economico dell’amministrazione comunale, per
potersi eventualmente qualificare in termini di legittimità
della sottostante azione, deve necessariamente sottendere
alla realizzazione di un significativo interesse proprio
della comunità stanziata sul territorio, posto che il
Comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, co. 2, d.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura
gli interessi della propria comunità.
Al riguardo va osservato che la giurisprudenza contabile,
nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha avuto
modo di elaborare da tempo il principio generale per cui
se
l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune
(come tali generalmente ammissibili) l’erogazione di un
finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che
l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del
servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal
soggetto che riceve il contributo (Corte conti, sez. contr.
Lombardia, 29.06.2006, n. 9, sez. controllo Lombardia
13.12.2007 n. 59, sez. controllo Lombardia 05.06.2008 n. 39).
Inoltre anche in ordine alla qualificazione soggettiva del
percettore del contributo comunale o comunque del
beneficiario dell’intervento del Comune, la medesima
giurisprudenza ha precisato che la natura pubblica o privata
del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è
indifferente se il criterio di orientamento è quello della
necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di
perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa
amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per
molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata e che nella
stessa attività amministrativa la legge di disciplina del
procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata
dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca
con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia
previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico
(Corte conti, sez. contr. Lombardia, 13.01.2010 n. 1; id.
31.05.2012 n. 262; Corte conti, sez. contr. Piemonte,
19.02.2014 n. 36).
E’ stato altresì precisato che ogniqualvolta
l’amministrazione ricorre a soggetti privati per raggiungere
i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici
di natura patrimoniale ovviamente le cautele debbono essere
maggiori –rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti
pubblici- anche al fine di garantire l’applicazione dei
principi di parità di trattamento e di non discriminazione
che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte
conti, sez. contr. Lombardia, 11.09.2015 n. 279).
Dunque sotto tale profilo il baricentro dell’attenzione
circa il corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai
attestato in correlazione con l’effettiva realizzazione di
un interesse pubblico (riferibile all’ente interessato) a
prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta
dell’attribuzione patrimoniale.
Occorre al riguardo evidenziare che il Comune è tenuto in
via generale a realizzare gli interessi della collettività
locale e secondo l’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000 esercita
tutte le funzioni amministrative che riguardano la
popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei
settori organici dei servizi alla persona e alla comunità,
dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello
sviluppo economico.
Sotto un profilo specifico inerente la
gestione della rete stradale inoltre, ai sensi dell’art. 14
del Codice della strada, va rammentato che il comune è
chiamato, quale ente proprietario delle strade a provvedere
alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro
pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi
al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della
circolazione.
La suddetta regola del resto è altresì contenuta nell’art.
39 della legge 20.03.1865 n. 2248 –allegato F- legge
sui lavori pubblici che pone infatti a carico dei comuni gli
oneri di “costruzione, sistemazione e mantenimento” delle
strade comunali così come specularmente l’art. 37 pone a
carico delle province i medesimi oneri relativi alle strade
provinciali.
Al riguardo non può non rilevarsi che l’ordine delle
competenze di ciascun ente pubblico è fissato in via
tassativa della legge, sicché non è arbitrariamente
alterabile dal singolo ente pena l’indebita invasione di
competenze altrui.
Va tuttavia osservato che nell’ambito del territorio
comunale di norma esistono una pluralità di strade
appartenenti anche ad altri enti pubblici ovvero lo Stato,
la Regione o la provincia secondo le previsioni del codice
stradale.
In siffatto contesto è evidente che l’amministrazione
comunale sia interessata al fatto che la rete viaria
esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela
delle esigenze e della sicurezza della collettività locale,
sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti
proprietari.
In situazione peculiari, qualora sia accertata
l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente
istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere
interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di
una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela
della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del
Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di
proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe
comunque trovare puntuale giustificazione nella
dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e
indifferibile interesse della comunità locale.
D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato
esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno
del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere
disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione
coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione
di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i
relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie,
ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice
costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni
pubbliche.
Entro il sopra delineato quadro complessivo
l’amministrazione comunale dovrà pertanto procedere ad
effettuare le valutazioni discrezionali di propria spettanza
quale ente esponenziale della collettività insediata sul
territorio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 24.03.2016 n. 29). |
PATRIMONIO - SICUREZZA LAVORO: Incolumità, palla ai professori. I responsabili e i
dirigenti garantiscono la sicurezza.
SCUOLA/ La Cassazione sulle iniziative da assumere se gli
edifici sono pericolanti.
È responsabilità penale specifica dei docenti delle scuole
incaricati come responsabili del servizio prevenzione e
protezione, nonché dei dirigenti degli enti locali addetti
all'edilizia scolastica, garantire l'incolumità degli
edifici scolastici.
Per queste ragioni, la Corte di Cassazione, IV Sez. penale,
con la
sentenza 22.03.2016 n. 12223,
ha confermato la sentenza di condanna in appello di
funzionari e dirigenti della Provincia di Torino e dei
docenti responsabili della prevenzione della protezione del
Liceo Darwin di Rivoli, ove avvenne il 22.11.2008 il
crollo nel quale perse la vita Vi.Sc., col ferimento
di 16 altri studenti.
La sentenza fa chiarezza su punti da sempre controversi
della disciplina della sicurezza negli edifici e luoghi di
lavoro. La Cassazione considera assodato che spetti alla
Provincia, quale ente proprietario degli immobili
scolastici, assumere direttamente le iniziative necessarie
per svolgere attività di controllo, manutenzione preventiva
e riparazione, senza dovere allo scopo aspettare
segnalazioni della scuola.
Tuttavia, rileva la sentenza, la scuola, nonostante sia
priva di poteri decisionali e di spesa in merito agli
interventi di manutenzione edilizia, di per sé non può
restare esente da responsabilità e, con sé, gli incaricati
della prevenzione e della sicurezza. I quali hanno in ogni
caso l'obbligo di adottare ogni misura per l'incolumità,
come del resto indicato nel decreto ministeriale 382/1998 e
nella circolare 119/1999.
Nella sostanza, tanto i dirigenti e funzionari della
provincia quanto i docenti del Liceo Darwin hanno violato la
diligenza specifica richiesta hanno violato i doveri posti
in capo a quello che la Cassazione definisce «l'agente
modello», cioè il soggetto «ideale», in grado di svolgere
pienamente e al meglio il compito affidatogli. Nelle difese,
i funzionari e dirigenti, nonché i docenti della scuola,
secondo la Cassazione non hanno operato così da rendere il
danno che poi si è verificato come «prevedibile» ed
«evitabile», nonostante vi fossero chiari indizi tecnici.
Né, a discolpa, potevano appellarsi all'assenza di una
preparazione scientifica adeguata al caso specifico.
Infatti, spiega la IV Sezione, l'agente modello adegua la
propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità
scientifica e se non dispone di tali conoscenze ha l'obbligo
di acquisirle, oppure di utilizzare le conoscenze di
professionisti terzi o, ancora, di «segnalare al datore di
lavoro la propria incapacità a svolgere adeguatamente la
funzione alla quale è incaricato».
Responsabilità particolare dei dirigenti degli uffici
tecnici di edilizia scolastica provinciali succedutisi negli
anni, poi, non è tanto non aver effettuato personalmente
sopralluoghi e rilievi, del resto impossibili da chiedere
dato l'elevato numero degli edifici, ma non aver provveduto
a un'adeguata mappatura degli edifici, per valutarne i
rischi connessi.
La sentenza oltre a mettere in rilievo le rilevanti
responsabilità dei dirigenti provinciali e dei docenti
incaricati della prevenzione, indirettamente mette il dito
sulla piaga sempre aperta dello stato degli edifici
scolastici in Italia, molti dei quali in condizioni di
pericolosità. Sul punto, molte sono le contraddizioni
dell'ordinamento. Infatti, per esempio, la Cassazione esorta
i responsabili ad avvalersi delle competenze altrui, se
privi delle conoscenze scientifiche: ma nella pubblica
amministrazione incarichi di consulenza sono sostanzialmente
tutti fonte di danno erariale.
Ma, cosa ancora più
rilevante, le province sono rimaste titolari delle
competenze sull'edilizia scolastica, pur essendo stati
falcidiati i loro bilanci con tagli che le destinano al
dissesto e nel personale. Essere nei panni di dirigenti
dell'edilizia scolastica, date queste premesse, non è
impresa facile
(articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).
---------------
MASSIMA
9. Con motivo comune le difese degli imputati Ma., Pi. e
Tu., richiamando il contenuto dell'art. 18, comma 3, del
decreto legislativo n. 81 del 2008 sostengono che avrebbero
dovuto essere mandati esenti da ogni responsabilità per gli
eventi di cui è causa. Significativamente la questione è
posta sia da imputati ritenuti responsabili in quanto
funzionari della Provincia che da altri che rivestivano,
invece, il ruolo di RSPP.
Tale norma che ha trasfuso l'art, 4 comma 12, del decreto
legislativo n. 626 del 1994 prevede che gli obblighi
relativi agli interventi strutturali e di manutenzione
necessari per assicurare, ai sensi del presente Decreto
Legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici
assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici
uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed
educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per
effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e
manutenzione.
In tale caso gli obblighi previsti dal presente Decreto
Legislativo, relativamente ai predetti interventi, si
intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari
preposti agli uffici interessati, con la richiesta de/loro
adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che
ne ha l'obbligo giuridico.
Va osservato a riguardo che nella specie è
pacifico che il liceo Darwin dipendesse per gli interventi
strutturali e di manutenzione dalla Provincia, mentre "datore
di lavoro" era da intendersi l'istituzione scolastica,
soggetto che non possiede poteri decisionali e di spesa. Non
può pertanto dubitarsi della posizione di garanzia dei
funzionari della Provincia cui gravava l'obbligo degli
interventi di manutenzione straordinaria dell'edificio.
Ciò tuttavia non comporta che la scuola resti esente da
responsabilità anche nel caso in cui abbia richiesto
all'Ente locale idonei interventi strutturali e di
manutenzione poi non attuati, incombendo comunque al datore
di lavoro (e per lui come si vedrà al RSPP da questi
nominato) l'adozione di tutte le misure rientranti nelle
proprie possibilità, quali in primis la previa
individuazione dei rischi esistenti e ove non sia possibile
garantire un adeguato livello di sicurezza, con
l'interruzione dell'attività.
Ulteriore conferma si rinviene nel decreto ministeriale n.
382 del 1998 e nella circolare ministeriale n. 119 del 1999
che prevede l'obbligo per l'istituzione
scolastica di adottare ogni misura idonea in caso di
pregiudizio per l'incolumità dell'utenza. Si configura
insomma una pregnante posizione di garanzia in tema di
incolumità delle persone. Tale obbligo è stato palesemente
violato a causa della mancata valutazione della
inadeguatezza dell'edificio sotto il profilo della sicurezza
a causa della presenza del vano tecnico sovrastante il
controsoffitto.
10. Quanto, in particolare, al ruolo ed ai
connessi profili di responsabilità della figura del RSPP, va
osservato che
(Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 254094)
svolge una delicata funzione di supporto
informativo, valutativo e programmatico ma è priva di
autonomia decisionale: esse, tuttavia coopera in un contesto
che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e
competenze.
Tale figura non è destinataria in prima persona di obblighi
sanzionati penalmente; e svolge un ruolo non operativo, ma
di mera consulenza. L'argomento non è tuttavia di per sé
decisivo ai fini dell'esonero dalla responsabilità penale.
In realtà, l'assenza di obblighi penalmente sanzionati si
spiega agevolmente proprio per il fatto che il servizio è
privo di un ruolo gestionale, decisionale. Tuttavia quel che
importa è che il RSPP sia destinatario di obblighi
giuridici; e non può esservi dubbio che, con l'assunzione
dell'incarico, egli assuma l'obbligo giuridico di svolgere
diligentemente le funzioni che si sono viste.
D'altra parte, il ruolo svolto dal RSPP è parte inscindibile
di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative
sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro e la sua
attività può ben rilevare ai fini della spiegazione causale
dell'evento illecito.
Gli imputati, nella veste di RSPP, erano astretti, come si è
sopra esposto, all'obbligo giuridico di fornire attenta
collaborazione al datore di lavoro individuando i rischi
lavorativi e fornendo le opportune indicazioni tecniche per
risolverli. Le singole posizioni dei tre imputati sono state
a riguardo debitamente evidenziate (cfr. pag. 68
dell'impugnata sentenza).
Né può censurarsi la gravata sentenza nella parte in cui ha
ritenuto che gli imputati in questione avessero posseduto le
competenze adeguate alla natura dei rischi presenti per
poter adempiere in primis al loro obbligo di preliminare
adeguata valutazione dei rischi, trattandosi comunque di
professionisti qualificati, dotati di ampia esperienza nel
campo.
Né può farsi genericamente valere la presenza di altri
titolari della posizione di garanzia perché la compresenza
di più titolari della posizione di garanzia non è evenienza
che esclude, per ciascuno, il contributo causale nella
condotta incriminata (cfr. Sez. 4 n. 1194 del 15/11/2013 Rv.
258232).
11. Con riferimento alle ulteriori problematiche sottese
all'odierna vicenda, vanno richiamati i
principi individuati da questa Corte di legittimità
(cfr. ex plurimis Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Rv.
247015) ed i criteri utilizzati per
verificare la prevedibilità dell'evento e anche quelli
riguardanti l'evitabilità del medesimo; nel senso che anche
per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un
evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per
evitarlo è necessario individuare criteri di misura
oggettivi.
La giurisprudenza e la dottrina dominanti
si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza
esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo
verrebbe premiata l'ignoranza di chi non si pone in grado di
svolgere adeguatamente un'attività di natura eminentemente
tecnica) o dall'uomo più esperto (che condurrebbe a
convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall'uomo
normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si
rifanno invece a quello del c.d. "agente modello" (homo
ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale
in grado di svolgere al meglio, anche in base all'esperienza
collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili
e le conseguenze evitabili.
Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende
un'attività, tanto più se di carattere tecnico, ha l'obbligo
di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza
porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei
limiti del possibile nel caso di attività pericolose
consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura "oggettiva"
della colpa diversa dal concetto di misura "soggettiva"
della colpa che non rileva nel presente giudizio.
È stato sottolineato che la necessità di individuare un
modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei
casi (per es. l'attività medico chirurgica) nei quali
difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre
più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici.
L'agente modello, si è detto, va di volta
in volta individuato in relazione alle singole attività
svolte e "lo standard della diligenza, della perizia e
della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che
"svolga" la stessa professione, lo stesso mestiere, lo
stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell'agente
reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera
quest'ultimo".
Il parametro di riferimento non è quindi
ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di
specialisti o di ricerche eseguite in laboratori
d'avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente
viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto. Non può
infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di
eccellenza possono conoscere e attuare ma, d'altro canto,
neppure possono essere convalidati usi scorretti e
pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di
dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare
l'esigenza di non consentire livelli non adeguati di
sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia
che il movente economico si ponga alla base delle scelte.
Utilizzando quindi tale criterio dell'agente modello quale
-lo si ribadisce- agente ideale in grado di svolgere al
meglio il compito affidatogli; in questo giudizio si deve
tener conto non solo di quanto l'agente concreto ha
percepito ma altresì di quanto l'agente modello avrebbe
dovuto percepire valutando anche le possibilità di
aggravamento di un evento dannoso in atto che non possano
essere ragionevolmente escluse.
L'addebito soggettivo dell'evento richiede comunque non
soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile ma altresì che
lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle
regole cautelari idonee a tal fine, non potendo essere
soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con
valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque
essere evitato. A questi criteri si è attenuta la Corte di
merito che si è posta il problema dell'osservanza delle
regole cautelari in relazione alla situazione percepibile
con l'osservanza delle regole di cautela esigibili nella
fattispecie dall'agente modello e non in relazione -come
sostanzialmente sostenuto da parte di alcuni ricorrenti-
alla preparazione professionale degli agenti concreti
negando l'esistenza della colpa perché i medesimi non
avevano la preparazione scientifica necessaria.
Detta tesi è da ritenere erronea perché
agente modello è colui che adegua la propria condotta alle
conoscenze disponibili nella comunità scientifica e che, se
non dispone di queste conoscenze, adempie all'obbligo -se
intende svolgere un'attività che comporta il rischio di
eventi dannosi- di acquisirle o di utilizzare le conoscenze
di chi ne dispone o, al limite, di segnalare al datore di
lavoro la propria incapacità di svolgere adeguatamente la
propria funzione.
Insomma se un soggetto riveste una
posizione di garanzia per una funzione di protezione del
garantito deve operare per assicurare la protezione
richiesta dalla legge al fine di evitare eventi dannosi e
non può addurre la propria ignoranza per escludere la
responsabilità dell'evento dannoso. Ove si accedesse ad una
diversa impostazione, chiunque, anche se inesperto e
incapace, potrebbe svolgere un'attività che comporta rischi
di eventi dannosi e che richiede, per il suo svolgimento,
conoscenze tecniche o scientifiche adducendo la sua
ignoranza nel caso in cui questi eventi dannosi in concreto
si verifichino.
I ricorsi degli imputati nel resto sono a riguardo peraltro
articolati con numerosi riferimenti a dati fattuali e,
sostanzialmente, propongono una lettura alternativa del
compendio probatorio effettuata, nella maggior parte dei
casi, attraverso il confronto tra i contenuti della sentenza
di primo grado e quella impugnata.
Va in proposito ricordata la consolidata giurisprudenza di
questa Corte orientata nel senso di ritenere che il
controllo sulla motivazione demandato al giudice di
legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa
previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e
coerenza dell'apparato argomentativo con riferimento a tutti
gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può
risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione o l'autonoma scelta di
nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla
ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio,
limitatamente alla pronunce successive alle modifiche
apportate all'art. 606 cod. proc. pen. dalla L. n. 46 del
2006, Sez. 3 n. 12110, 19.03.2009; Sez. 6 n. 23528,
06.07.2006; Sez. 6 n. 14054, 20.04.2006; Sez. 6 n. 10951,
29.03.2006).
Si è altresì precisato che il vizio di motivazione ricorre
nel caso in cui la stessa risulti inadeguata perché non
consente di riscontrare agevolmente le scansioni e gli
sviluppi critici che connotano la decisione riguardo a ciò
che è stato oggetto di prova ovvero impedisce, per la sua
intrinseca oscurità od incongruenza, il controllo
sull'affidabilità dell'esito decisorio, sempre avendo
riguardo alle acquisizioni processuali ed alle
prospettazioni formulate dalle parti (Sez. 6 n.7651,
25.02.2010).
Ancor più efficacemente si è specificato come il sindacato
del giudice di legittimità sul discorso giustificativo della
decisione impugnata sia circoscritto alla verifica
dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da
evidenti errori di applicazione delle regole della logica o
fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli
appartenenti alla collettività o connotati da vistose e
insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili
con "atti del processo", specificamente indicati dal
ricorrente, che siano dotati autonomamente di forza
esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione
disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al
suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da
rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 n.
15801, 19.04.2010, Sez. 6 n. 38698, 22.11.2006).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha sviluppato un
percorso argomentativo del tutto coerente e logico,
confrontandosi adeguatamente -come già sopra sottolineato
con la sentenza assolutoria di primo grado.
Con riferimento alla prevedibilità dell'evento (unica
questione su cui sostanzialmente le due sentenze di merito
divergono, avendo il primo giudice ritenuto che non si era
in presenza di segni di dissesto agevolmente riconoscibili)
la Corte territoriale ha in primo luogo posto in evidenza
-come già ricordato- come quello che la sentenza di primo
grado definiva un semplice "controsoffitto", aveva
invece la funzione di costituire il solaio di un cosiddetto
vano tecnico della estensione di circa 1000 mq., e del peso
di circa otto tonnellate, che, come tale doveva sostenere
oltre il peso proprio, di per sé molto rilevante, anche il
sovraccarico dei servizi presenti, del materiale che nel
tempo si era ivi accumulato, nonché l'eventuale peso del
personale della manutenzione, che sicuramente vi aveva fatto
accesso, quanto meno per la sostituzione dei tubi di scarico
del piano superiore.
Agli imputati è stato quindi dì fatto addebitato di aver
ignorato l'esistenza dei detto vano che presentava numerose
varie criticità e difetti, nonostante l'accertata presenza
di una botola che ne consentiva agevolmente l'accesso.
In particolare la sentenza impugnata ha sottolineato come il
detto accesso, previa apertura della botola non costituiva
un eccesso di scrupolo, ma una doverosa necessità per tutti
gli imputati, onde adempiere agli obblighi giuridici
connessi alle rispettive funzioni. L'apertura della botola
avrebbe consentito di verificare lo stato del vano tecnico
ed di evidenziarne le già ricordate problematiche (cfr.
pagg. 34 e ss. della impugnata sentenza).
...
13. Vanno da ultimo
esaminate alcune questioni specifiche poste in particolare
dal ricorrente Mo., anche se riecheggiate anche in altri
ricorsi.
Sostiene in particolare il Mo. che nulla gli potrebbe essere
addebitato per aver emesso un'apposita direttiva volta ad
effettuare dei sopralluoghi finalizzati ad accertare la
necessità di eventuali interventi. Sul punto la gravata
sentenza ha ritenuto l'assoluta genericità di detta
direttiva.
Detta affermazione -confutata dal ricorrente- va tuttavia
calata nell'ambito dell'intero compendio motivazionale della
gravata sentenza che ha sottolineato che pur essendo
evidente che i funzionari e dirigenti della Provincia di
Torino non avrebbero potuto svolgere personalmente tutti i
controlli, agli stessi doveva comunque essere addebitata la
mancata adeguata mappatura degli edifici al fine della
valutazione di tutti i "rischi" verificabili,
incombente questo rientrante nei precipui obblighi di
controllo e di interevento su tutte le fonti di insicurezza.
E che tale fosse la presenza del "controsoffitto" di
cui si discute è di palmare evidenza alla luce delle
caratteristiche dello stesso quali in precedenza rammentate,
della sua risalenza nel tempo, elementi questi che, come
icasticamente affermato dalla difesa della parte civile nel
corso del giudizio di appello e riportato nella sentenza
impugnata (cfr. pag. 15) lo rendevano una vera e propria "bomba
ad orologeria", innescata e sovrastante l'aula $ G del
liceo Darwin, a fronte della quale per quasi mezzo secolo,
nessun intervento era stato operato.
Altra questione posta è quella relativa alla individuazione
quale "luogo di lavoro" del vano tecnico. Il motivo è
manifestamente infondato, atteso che nella
nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della
sussistenza dell'obbligo di attuare le misure
antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui viene svolta e
gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di
lavoro, indipendentemente dalle finalità -sportive, ludiche,
artistiche, di addestramento o altro- della struttura in cui
essa si svolge e dell'accesso ad essa da parte di terzi
estranei all'attività lavorativa
(cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, Rv. 258435).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dalla
circostanza che il vano tecnico in questione era accessibile
e che allo stesso si era concretamente fatto in passato
accesso da parte degli operai per la sostituzione dei tubi,
non può tralasciarsi che esso costituiva anche il
controsoffitto dell'aula sottostante (nonché di numerosi
altri locali) , aula in cui si svolgeva costantemente
attività lavorativa anche in senso stretto.
E' stata posta altresì questione in ordine alle effettive
cause di morte dello studente Vi.Sc., individuate dai
giudici di merito nel colpo da questi subito alla testa ove
era stato attinto da uno dei tubi di ghisa abbandonati nel
vano tecnico. Anche detto accertamento è stato compiuto dai
giudici di merito sulla base delle risultanze peritali per
cui si rimanda alle osservazioni svolte in precedenza.
La questione tuttavia non ha la rilevanza che gli viene
attribuita atteso che non modifica sostanzialmente il
decorso causale dell'evento, in ogni caso immediata
conseguenza del crollo del solaio, cui ha sicuramente
contribuito quale concausa il sovraccarico del materiale ivi
lasciato. La presenza di detto materiale, icto oculi
accertabile rafforza per altro verso le argomentazioni in
ordine alla prevedibilità e prevedibilità dell'evento come
sopra formulate. |
PATRIMONIO:
Alienazione di terreni comunali tramite trattativa privata.
Pubblicità.
Poiché la normativa di settore in
materia di alienazioni del patrimonio pubblico nulla dispone
in merito alle forme di pubblicità da osservarsi per la
trattativa privata esperibile a seguito di asta pubblica
andata deserta, il Comune, in ossequio ai generali principi
di trasparenza, pubblicità e buon andamento dell'azione
amministrativa, può dare notizia dell'indizione della
procedura con modalità che esso stesso può individuare
discrezionalmente.
Il Comune, che non si è ancora dotato di un regolamento in
materia di alienazione del proprio patrimonio immobiliare,
di cui all'art. 12, comma 2 [1],
della legge 15.05.1997, n. 127, avendo esperito un'asta
pubblica, andata deserta, intende ora indire una trattativa
privata, ai sensi dell'art. 55 [2]
del regio decreto 17.06.1909, n. 454 [3],
al fine di alienare beni immobili del valore stimato di euro
390.000,00.
L'Ente chiede di conoscere se la pubblicazione dell'avviso
di indizione della procedura all'albo comunale e sul sito
Internet sia sufficiente a ritenere rispettato il requisito
dell'adeguata pubblicità.
Anzitutto, occorre rilevare che l'art. 3, primo comma, della
legge 24.12.1908, n. 783 [4],
dispone che «La vendita dei beni si fa mediante pubblici
incanti sulla base del valore di stima, previe le
pubblicazioni, affissioni ed inserzioni da ordinarsi
dall'amministrazione demaniale in conformità del regolamento
per la esecuzione della presente legge» e che il R.D.
454/1909 nulla dispone in merito alle forme di pubblicità da
osservarsi ove si ricorra alla trattativa privata
[5].
Occorre, poi, chiarire che la previsione di 'adeguata
pubblicità' è contenuta nel già richiamato art. 12,
comma 2, della L. 127/1997, il quale consente ai comuni e
alle province di alienare il proprio patrimonio immobiliare
derogando alla specifica disciplina di settore ed a quella
concernente la contabilità generale degli enti locali, ma
osservando, comunque, i princìpi generali dell'ordinamento
giuridico-contabile, a condizione che essi si dotino di un
apposito regolamento, che assicuri criteri di trasparenza e
«adeguate forme di pubblicità» per acquisire e
valutare concorrenti proposte di acquisto.
In tale contesto, quindi, la valutazione dell'adeguatezza
spetta unicamente all'ente locale, al quale il legislatore
rimette la scelta, di natura discrezionale, di individuare
le forme di pubblicità da garantire.
La medesima considerazione vale anche con riferimento al
caso di specie nel quale, in assenza di previsioni fornite
dalla normativa di settore, il Comune, in ossequio ai
generali principi di trasparenza, pubblicità e buon
andamento dell'azione amministrativa, intende diffondere,
con modalità che esso stesso può individuare
discrezionalmente, l'avviso di indizione della trattativa
privata.
---------------
[1] «I comuni e le province possono procedere alle
alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in
deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e
successive modificazioni, ed al regolamento approvato con
regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive
modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale
degli enti locali, fermi restando i princìpi generali
dell'ordinamento giuridico-contabile. A tal fine sono
assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell'ente
interessato.».
[2] Il cui primo comma prevede (analogamente a quanto
dispone l'art. 9, primo comma, della legge 24.12.1908, n.
783) che «È data facoltà all'Amministrazione di vendere a
partiti privati, quando lo ritenga conveniente, gli immobili
o lotti pei quali siansi verificate una o più diserzioni di
incanti, purché il prezzo e le condizioni dell'asta o
dell'ultima asta andata deserta non siano variati se non a
tutto vantaggio dell'Amministrazione stessa.».
[3] «Regolamento per l'esecuzione della legge 24.12.1908, n.
783, sulla unificazione dei sistemi di alienazione e di
amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[4] «Unificazione dei sistemi di alienazione e di
amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[5] Prescrivendo, invece, rigorose forme di pubblicazione
degli avvisi di indizione degli incanti (21.03.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 9 del 04.03.2016, "Regolamento
per il funzionamento della Banca della Terra Lombarda" (regolamento
regionale 01.03.2016 n. 4). |
febbraio 2016 |
|
PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO:
Se il Funzionario ritarda il rinnovo dei contratti di
locazione stipulati ai sensi della L. 431/1998 la condotta
rientra nei casi di corruzione e di illegalità disciplinati
dalla L. 190/2012?
IL CASO: i funzionari e il Responsabile
dell'Ufficio tecnico, hanno avviato e concluso in ritardo il
procedimento volto al rinnovo contrattuale delle locazioni
ex L. 431/1998, di alcune unità immobiliari del Comune
cosicché i contratti di locazione sono giunti a scadenza, e
gli inquilini si sono visti recapitare a casa solo i
bollettini recanti il vecchio importo del canone, richiesto
però a titolo di indennità di occupazione illegittima.
Inoltre, in alcuni casi il canone è stato quantificato con
riferimento alla misura minima, e in altri casi con
riferimento a quella massima con disparità di trattamento
tra le diverse unità.
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il caso prospettato è un chiaro esempio di cattiva gestione
del potere amministrativo e di situazione illecita,
costituita da una anomala gestione del patrimonio
immobiliare del comune, idonea ad arrecare un pregiudizio
patrimoniale che può essere anche di ingente entità, a
seconda del numero degli immobili coinvolti nella vicenda
del mancato rinnovo.
Si tratta di una oggettiva condotta omissiva suscettibile di
determinare, in danno del comune, il mancato introito di
somme a titolo di maggiori canoni e di aumenti ISTAT che
sarebbero stati incassati a seguito di un tempestivo rinnovo
contrattuale.
In concreto, il danno arrecabile da tale condotta può
individuarsi nella differenza tra indennità di occupazione,
pari al canone corrisposto dai conduttori sulla base del
contratto ormai scaduto, e il diverso e maggiore canone che
concretamente il comune avrebbe dovuto riscuotere sulla base
del rinnovo. Ponendo in essere tale condotta, i funzionari
hanno omesso di conformarsi agli obblighi originanti non
solo dalla normativa di settore ma anche ai doveri del
codice di comportamento.
In particolare, la non omogeneità dei canoni relativi ad
alloggi con analoghe caratteristiche, superficie e località,
calcolati con parametri diversificati è indice sintomatico
di possibili fattispecie di illegalità e di corruzione. Sul
punto, va ricordato che la gestione del patrimonio, come
ribadito anche dalla deliberazione ANAC n. 12/2015, è
riconducibile alle aree con alto livello di probabilità di
eventi rischiosi.
Nel caso di specie, l'evento rischioso è costituito dal
danno erariale ascrivibile al ritardo/omesso rinnovo mentre
la configurazione, in concreto, di una fattispecie
corruttiva, rilevabile anche sensi della legge 190/2012,
impone che il comportamento contra legem sia stato
posto in essere per un interesse personale contrario
all'interesse pubblico. Circostanza che va valutata caso per
caso, senza possibilità di astratte generalizzazioni.
La valutazione deve tenere conto del contesto, interno ed
esterno, nel quale risulta collocata la condotta dei
funzionari, nonché delle misure di prevenzione della
corruzione e dell'illegalità contenute nel PTPC del Comune,
della loro effettiva attuazione da parte dei funzionari
medesimi, della presenza o assenza di direttive, buone
prassi e, infine, della presenza o assenza controlli e
monitoraggi, nonché dell'eventuale occultamento dei fatti.
Solo dopo la valutazione di tutti questi elementi, è
possibile accertare, con riferimento al singolo caso, se la
fattispecie integri o meno i presupposti della corruzione
disciplinata dalla legge 190/2012, con l'applicazione, in
caso di accertamento positivo, di tutte le conseguenze dalla
stessa derivanti in ordine di responsabilità dirigenziale,
disciplinare, amministrativa-erariale, e relativa alla
valutazione della performance organizzativa e individuale
(tratto dalla newsletter 09.02.2016 n. 136 di http://asmecomm.it). |
PATRIMONIO:
La vendita all'asta dell'escavatore.
DOMANDA:
Mediante asta pubblica è stato venduto ad un privato un
escavatore per un valore di € 1.500,00. La fattura di
acquisto di tale bene non è mai stata registrata nei
registri di acquisto in quanto non rilevante ai fini IVA
perché attività istituzionale (manutenzione delle strade).
Si chiede pertanto: L’ente ha l’obbligo dell’emissione della
fattura? In caso affermativo come dovrà essere fatta la
fattura (esente ai sensi dell’art. 10, comma 27-quinquies,
L. 633/1972)? Se ad acquistare il bene fosse una ditta che
richiede la fattura, l’ente, come dovrà comportarsi, visto
che agisce come un privato?
RISPOSTA:
La cessione del bene in oggetto è fuori campo IVA in quanto
non effettuata nell’esercizio di attività commerciale ex
art. 4 del DPR 633/1972. Pertanto non deve essere emessa
fattura invocando l’esenzione di cui all’art. 10, c. 1, n.
27-quinquies), del citato decreto, trattandosi di regime
riservato ad operazioni effettuate nell’esercizio d’impresa,
riferite a beni per i quali, all’atto dell’acquisto, non è
stata operata la detrazione per carenza di requisiti
oggettivi.
Il Comune, pertanto, nel caso di specie può (l’emissione di
documento non è obbligatoria) emettere un documento/ricevuta
privo dei requisiti di cui all’art. 21 del DPR 633
(fattura), assoggettato ad imposta di bollo, dichiarando che
il corrispettivo è fuori campo IVA in quanto la cessione è
effettuata al di fuori dell’esercizio di attività
commerciale per carenza del presupposto soggettivo ex art.
4, c. 1, del DPR 633/1972 (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO:
Tar Brescia. Strade strette, no ai camion.
Il comune può vietare la circolazione ai camion nelle strade
troppo strette. E se aumenta il traffico e il disagio nella
viabilità alternativa pazienza. Almeno fino alla
realizzazione di nuove infrastrutture.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con
l'ordinanza
02.02.2016 n. 111.
Un comune lombardo
ha interdetto il traffico ai mezzi pesanti su una strada
troppo stretta, incrementando la circolazione dei camion
sulle strade vicine.
Contro questa decisione gli abitanti interessati
dall'aumento dello smog hanno proposto ricorso al Tar
evidenziando una serie di carenze tecniche delle loro
strade.
Ma senza successo. Il collegio ha infatti incaricato la
provincia di verificare le scelte comunali e i tecnici hanno
confermato la logicità delle scelte. Anche se la decisione
di indirizzare il traffico pesante su strade non
completamente adeguate sembra censurabile, spiegano i
giudici, è certamente una scelta opportuna vietare
completamente il traffico pesante in una via dove due camion
non potrebbero transitare per ragioni dimensionali
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016).
---------------
MASSIMA
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bagnolo Mella con ordinanza del comandante
della Polizia Locale n. 73 del 29.09.2014, che segue
analoghi provvedimenti, ha modificato in via sperimentale e
provvisoria la viabilità di via Urne di Sopra e via Porzano,
prevedendo in particolare il transito su tali strade dei
mezzi pesanti fino alla realizzazione della bretella viaria
tra la SP45-bis e la SP7.
2. I ricorrenti, che abitano nella zona interessata dalle
nuove disposizioni, contestano la decisione del Comune,
evidenziando che:
(a) la condizione delle strade sopra indicate non sarebbe idonea a
consentire il traffico dei mezzi pesanti, non essendo stati
realizzati gli interventi suggeriti in uno studio della
Provincia del dicembre 2013;
(b) in realtà, la nuova soluzione viabilistica è destinata a
rimanere in vigore per un lungo periodo, e dunque la
rappresentazione dei fatti sarebbe fuorviante;
(c) non sarebbero rispettate le indicazioni del PGT sulla viabilità
nelle aree residenziali, né le norme tecniche sulla
costruzione delle strade.
3. Un nuovo intervento sulla viabilità è stato poi disposto
dal sindaco mediante ordinanza n. 45 del 25.05.2015. Le
disposizioni di questo provvedimento assorbono anche quelle
dell’ordinanza n. 73/2014, e confermano, in via definitiva,
l’interdizione di via Gramsci ai mezzi pesanti e la
deviazione di questi ultimi verso le strade di interesse dei
ricorrenti.
4. Questo TAR con ordinanza n. 502 del 10.04.2015 ha
disposto una verificazione a carico del responsabile
dell’Area Tecnica della Provincia di Brescia, con facoltà di
delega, per chiarire la compatibilità delle soluzioni
viabilistiche descritte nell’ordinanza n. 73/2014 con le
indicazioni contenute nello studio provinciale del dicembre
2013.
5. Successivamente, con ordinanza n. 1822 del 05.10.2015,
questo TAR ha reiterato l’istruttoria, chiedendo di
specificare:
(a) se mezzi pesanti possano attualmente transitare in condizioni
di sicurezza sulle strade indicate negli atti impugnati;
(b) quali interventi di adeguamento siano necessari per migliorare
il livello di sicurezza, anche con riferimento alle
indicazioni contenute nello studio del dicembre 2013;
(c) se vi siano soluzioni alternative praticabili con minori rischi
e disagi;
(d) se il ritorno dei mezzi pesanti su via Gramsci comporti un
peggioramento delle condizioni di sicurezza.
6.
Dalla relazione,
sottoscritta dall’arch. Lu.Za. e dal geom. Gi.Ba.Fr.,
funzionari tecnici della Provincia, e depositata il
24.12.2015,
emergono in particolare le seguenti valutazioni e
indicazioni:
(a) il transito con mezzi pesanti sulle strade indicate negli atti
impugnati può svolgersi in sicurezza, ma a condizione che
siano risolte alcune criticità, puntualmente descritte nella
relazione;
(b) un paragrafo della relazione è dedicato ai suggerimenti per
migliorare il livello di sicurezza sulle predette strade;
(c) non è stato possibile valutare con precisione la praticabilità
di percorsi alternativi, con deviazione del traffico verso
direttrici esterne all’abitato, in particolare per quanto
riguarda la misura dei rischi e dei disagi;
(d) la carreggiata di via Gramsci presenta un restringimento, con
annullamento delle banchine. Nel caso di transito
contemporaneo di due mezzi pesanti in direzioni opposte si
determina un rallentamento del traffico, che penalizza la
funzionalità della strada ma non la sicurezza. Vi è però il
rischio che i mezzi pesanti, anziché rallentare,
preferiscano sormontare il marciapiede, creando una
situazione di pericolosità grave.
7. Sulla base di questi elementi,
la decisione del Comune di indirizzare il traffico pesante
su via Urne di Sopra e via Porzano, fino alla realizzazione
della bretella viaria tra la SP45-bis e la SP7, non appare
censurabile, in quanto la presenza di questo tipo di
traffico in via Gramsci potrebbe esporre gli utenti della
strada a rischi maggiori.
8. È peraltro evidente che la nuova organizzazione della
viabilità richiede tempestivi interventi di sistemazione dei
percorsi su cui è stato deviato il traffico pesante.
L’aspettativa dei ricorrenti alla sicurezza della viabilità
nei pressi delle rispettive abitazioni, se non può essere
tutelata con la sospensione dei provvedimenti impugnati, è
invece fondata e meritevole di attenzione per quanto
riguarda gli interventi di sistemazione e messa in sicurezza
suggeriti nella relazione della Provincia. |
gennaio 2016 |
|
PATRIMONIO:
Insidie: non c'è colpa del Comune se si cade su un gradino
scivoloso. Occorre tenere un comportamento prudente.
Secondo la Cassazione il danneggiato avrebbe dovuto tenere
conto dello stato dei luoghi.
Brutta disavventura per un turista che
si accingeva a raggiungere la spiaggia: fatale l'ultimo
scalino della scaletta di ferro che dalla strada porta al
mare e la scivolata che provoca all'uomo una rovinosa caduta
e danni alla schiena.
Ciononostante non è colpa del Comune: l'avventore avrebbe
dovuto, infatti, tenere un comportamento più prudente,
adeguato allo stato dei luoghi e per tutelare la propria
incolumità.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI Civile, con
ordinanza 07.01.2016 n. 56.
Sia in primo che in secondo grado il turista vede rigettarsi
la richiesta di risarcimento dei danni cagionati da cosa in
custodia, contro il Comune di Catania, per essere scivolato
mentre si stava recando a mare.
Secondo la difesa la caduta dal ventiseiesimo scalino di una
scaletta in ferro che dal solarium, a livello stradale,
consentiva la discesa a mare è provocata dalla mancanza di
un prodotto antisdrucciolevole. In più, viene evidenziato
che lo scalino "incriminato" si trovava nella parte
terminale della scala, immerso nell'acqua.
Anche gli Ermellini, tuttavia, concordano con i giudici di
merito nel ritenere non sussistente la responsabilità per
custodia del Comune ex art. 2051 c.c., mancando la prova
circa il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno.
Il fatto che sugli ultimi gradini della scala non fossero
applicate strisce antiscivolo non è una circostanza
incompatibile con una struttura dei gradini di per sé
predisposta per evitare di scivolare.
Inoltre, come evidenziato dai giudici di merito, il
particolare contesto in cui era avvenuto l'infortunio (una
lunga discesa in mare attraverso una scala) richiedeva da
parte dei fruitori una particolare attenzione ad esso
adeguata.
La Corte territoriale ha correttamente applicato i principi
di diritto formulati dalla Cassazione secondo cui "La
responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia,
prevista dall'art. 2051 cod. civ., ha carattere oggettivo,
essendo sufficiente, per la sua configurazione, la
dimostrazione da parte dell'attore del verificarsi
dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il
bene in custodia".
Inoltre, laddove il danno non sia l'effetto di un dinamismo
interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo
funzionamento, "ma richieda che l'agire umano, ed in
particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di
essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte,
per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo
stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di
pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non
inevitabile, il danno".
A ciò deve aggiungersi che "l'allocazione della
responsabilità oggettiva per custodia in capo al
proprietario del bene demaniale per i danni che esso può
provocare agli utenti non esime gli utenti stessi dal dover
far uso di una ragionevole prudenza, adeguata allo stato dei
luoghi, a salvaguardia della propria incolumità".
Il ricorso va pertanto rigettato (commento tratto da
www.studiocataldi.it). |
dicembre 2015 |
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PATRIMONIO:
Spese per acquisto arredi per la Protezione civile.
Applicazione art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, negli enti
locali.
L'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012,
contiene disposizioni in materia di riduzione della spesa
delle pubbliche amministrazioni, ivi compresi gli enti
locali, specificamente per l'acquisto di mobili e arredi. Il
comma 144 del medesimo articolo prevede delle fattispecie di
salvezza, tra cui gli acquisti effettuati per i servizi
istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza
pubblica: in detta eccezione non sembrano rientrare gli
acquisti di mobili e arredi per la Protezione civile.
La Corte costituzionale ha affermato che i vincoli posti dal
legislatore statale per ragioni di coordinamento della
finanza pubblica possono considerarsi rispettosi
dell'autonomia delle Regioni quando stabiliscono un limite
complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di
allocazione delle risorse fra le varie voci di spesa incise
dal legislatore.
Sulla scia di questi principi espressi dalla Consulta, la
Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, ha ritenuto che
una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 1, comma
141, suddetto, obbliga gli enti locali al rispetto
complessivo del tetto di spesa risultante dall'applicazione
dell'insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per
consumi intermedi previsti da norme in materia di
coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo
stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spesa
soggette a limitazione avvenga in base alle necessità
derivanti dalle attività istituzionali dell'ente.
Il Comune pone dei quesiti in ordine alle limitazioni di
spesa vigenti per acquisti di mobili e arredi, in
particolare, se sia possibile acquistare scaffali ed arredi
per la nuova sede della protezione civile, e se, per la base
di calcolo in percentuale della spesa ammissibile per detti
beni mobili, si debba o meno tener conto di quanto speso nel
2010 per gli arredi scolastici.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprime quanto segue.
Le questioni poste dall'Ente concernono una norma statale,
per cui è d'obbligo precisare che competenti ad esprimersi
sulla sua corretta applicazione sono gli uffici statali. Le
riflessioni che seguono vengono, pertanto, formulate in via
meramente collaborativa.
L'articolo 1, comma 141, della legge 228/2012 dispone che
negli anni 2013, 2014 e 2015 gli enti locali non possono
effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento
della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per
l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso
scolastico e dei servizi all'infanzia [1],
salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle
spese connesse alla conduzione degli immobili.
Ai sensi dell'art. 1, comma 144, L. n. 228/2012, sono
esclusi espressamente dal campo di applicazione del comma
141 gli acquisti effettuati per le esigenze del Corpo
nazionale dei vigili del fuoco, per i servizi istituzionali
di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, per i
servizi sociali e sanitari svolti per garantire i livelli
essenziali di assistenza.
In generale, la Corte dei conti ha affermato che la
disposizione di cui al comma 141 mira a contenere la spesa
pubblica complessiva per l'acquisto di mobili e arredi ed ha
portata generale tale da ricomprendere anche gli arredi
necessari ad allestire opere di nuova realizzazione,
collegati quindi ad opere di nuova costruzione o
ristrutturazione comportanti un ampliamento. Dette spese
sono dunque da ricomprendere nel limite stabilito dalla
norma, che non può essere di ammontare superiore al 20%
della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011, salvo
che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese
connesse alla conduzione degli immobili [2].
Per quanto concerne le fattispecie di salvezza di cui al
comma 144, ed in particolare quella relativa alla tutela
dell'ordine e della sicurezza pubblica, questo Servizio si è
già espresso nel senso di non potervi ricondurre gli
acquisti delle autovetture riferite alla protezione civile
[3].
In particolare, si è segnalato quanto chiarito dal Governo,
con riferimento al DPCM 03.08.2011 (oggi abrogato e trasfuso
nel DPCM 25.09.2014) che prevede l'esclusione dal proprio
ambito applicativo delle autovetture, tra le altre, 'adibite
ai servizi operativi di tutela dell'ordine e della sicurezza
pubblica' [4].
In particolare, il Governo [5]
ha ritenuto che non rientrino nell'esclusione stessa, tra le
altre, per quanto qui di interesse, le auto utilizzate per
servizi di protezione civile.
Si ritiene che simili considerazioni possano valere anche
per l'acquisto dei beni mobili (scaffali ed arredi) di cui
si discute nel caso in esame per la nuova sede della
protezione civile, con la conseguenza di non potersi
ricondurre gli stessi all'eccezione di cui al comma 144
riferita agli acquisti (tra l'altro) per i servizi
istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza
pubblica.
Peraltro, il rispetto delle norme di contenimento della
spesa pubblica -quale è l'art. 1, comma 141, in commento- va
valutato anche tenuto conto delle modalità di applicazione
di queste nelle autonomie locali, alla luce di quanto
espresso al riguardo dalla Corte costituzionale.
La Consulta ha affermato che il legislatore statale può
legittimamente imporre agli enti autonomi, per ragioni di
coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali,
condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle
politiche di bilancio. Questi vincoli possono considerarsi
rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali
quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli
enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra
le varie voci di spesa incise dal legislatore
[6].
Nel quadro di questi principi espressi dalla Corte
costituzionale, il Giudice contabile ha mostrato un
orientamento non univoco in ordine all'applicazione negli
enti locali delle norme di contenimento della spesa pubblica
dettate dal legislatore statale.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti per la regione
siciliana, con parere n. 94 del 30.11.2012, hanno affermato
che il limite di spesa posto per le autovetture dall'art. 5,
comma 2, DL n. 95/2012, deve essere interpretato alla
stregua di quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella
pronuncia n. 139/2012, con possibilità di compensazioni
nell'ambito delle singole voci di spesa (in quel caso la
richiesta di parere faceva riferimento alle tipologie di
spesa di cui all'art. 6, DL n. 78/2010) [7].
Di diverso tenore è, invece, l'orientamento espresso dalla
Corte dei conti Lombardia, la quale sempre con riferimento
al limite di spesa posto dall'art. 5, DL n. 95/2012, in tema
di autovetture, ha affermato che non ne risulta possibile la
deroga compensando lo sforamento con una maggiore riduzione
delle altre voci di spesa oggetto di contenimento in base ad
altre disposizioni di legge [8].
A fronte delle diverse posizioni espresse dalle sezioni
regionali di controllo in ordine all'applicazione negli enti
locali delle norme di contenimento delle spese per il
funzionamento degli apparati amministrativi, la Corte dei
conti sezione Lombardia [9],
chiamata questa volta ad esprimersi proprio sull'art. 1,
comma 141, L. n. 228/2012, oggetto d'esame, ha deferito alla
Sezione delle Autonomie la questione concernente la sua
corretta interpretazione, in particolare in ordine alla
possibilità di conseguire l'obiettivo di riduzione delle
spese per mobili e arredi (e in generale per i consumi
intermedi) in maniera complessiva, avuto riguardo alle
distinte previsioni di legge di contenimento della spesa
[10], e
dunque al risparmio complessivo di spesa derivante da
queste.
Ebbene, la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie
[11], ha
ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata
dell'art. 1, comma 141, impone la ricerca di una soluzione
interpretativa che salvaguardi le scelte decisionali degli
enti locali in tema di allocazione delle risorse, ed ha
espresso il seguente principio di diritto, al quale si
devono conformare tutte le sezioni regionali di controllo: 'L'art.
1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel disporre
limiti puntuali alle spese per l'acquisto di mobili e
arredi, obbliga gli enti locali al rispetto complessivo del
tetto di spesa risultante dall'applicazione dell'insieme dei
coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi
previsti da norme in materia di coordinamento della finanza
pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le
diverse tipologie di spesa soggette a limitazione avvenga in
base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali
dell'ente'.
In particolare, e venendo al quesito dell'Ente circa la
quantificazione della spesa ammissibile per mobili e arredi,
questa, in mancanza di precise indicazioni sul punto dei
competenti organi statali, sembrerebbe ricavarsi applicando
il relativo coefficiente di riduzione alla totalità della
spesa sostenuta negli anni 2010 e 2011 per i mobili e
arredi, ivi compresi quelli scolastici.
Si ritiene, infatti, che l'esclusione [12]
degli acquisti di mobili ed arredi destinati all'uso
scolastico ed ai servizi dell'infanzia dall'applicazione
delle norme di contenimento della spesa non possa comportare
la sottrazione dalla base di calcolo percentuale, riferita
alla spesa media degli anni 2010-2011, della spesa sostenuta
per le suddette specifiche categorie di mobili e arredi,
atteso che tale operazione si tradurrebbe in una limitazione
del quantum disponibile per tutte le tipologie di mobili e
arredi, non espressamente prevista dal legislatore.
Resta inteso che su queste considerazioni, rese in via
meramente collaborativa, prevarranno gli eventuali
chiarimenti di diverso avviso che dovessero pervenire dai
competenti uffici statali.
---------------
[1] Eccezione introdotta a seguito della novella recata
dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l. 21.06.2013 n. 69,
introdotto dalla legge di conversione 09.08.2013 n. 98.
[2] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
l'Emilia Romagna, deliberazione n. 244 del 25.06.2013.
[3] Cfr. note n. 8908 del 20.03.2013, n. 33498 del
18.11.2013 e n. 4319 del 10.02.2014.
[4] DPCM 25.09.2014 recante: 'Determinazione del numero
massimo e delle modalità di utilizzo delle autovetture di
servizio con autista adibite al trasporto di persone'. Vedi
in particolare l'art. 1, c. 2, del DPCM 25.09.2014 (in cui è
stato trasfuso l'art. 1, c. 3, del DPCM 03.08.2011).
[5] Governo italiano, Ministero per la pubblica
amministrazione e la semplificazione, Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Censimento permanente delle auto di
servizio della pubblica amministrazione, Decreto Presidenza
del Consiglio 03.08.2011, Formez PA, FAQ n. 9.
[6] Corte costituzionale, 04.06.2012, n. 139. In quella
sede, la Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità
di alcune disposizioni dell'art. 6, DL n. 78/2010, ha
affermato che tale norma prevede puntuali misure di
riduzione di singole voci di spesa, ma ciò non esclude che
da esse possa desumersi un limite complessivo nell'ambito
del quale le Regioni (e gli enti locali, n.d.r.) restano
libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e
obiettivi di spesa.
[7] Le Sezioni riunite per la regione siciliana,
specificano, peraltro, che per le autovetture il limite
complessivo di spesa è quello previsto dall'art. 6, c. 14,
DL n. 78/2010 (80% della spesa sostenuta nel 2011), che
coesiste col limite previsto dal sopravvenuto art. 5, DL n.
95/2012 (30% della spesa sostenuta nel 2011 a seguito della
novella recata dall'art. 15, c. 1, D.L. n. 66/2014).
[8] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Lombardia, deliberazione n. 114 del 26.03.2013, secondo cui
non si può ritenere possibile estendere il principio di
compensazione a una serie eterogenea e di fonte non comune
di obblighi di riduzione di spese del tutto differenziate
(in quella fattispecie il comune richiedente citava l'art.
6, DL n. 78/2010, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012, etc.).
[9] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Lombardia, deliberazione n. 296/2013.
[10] Nella specie, l'ente che aveva formulato la richiesta
di parere indicava l'art. 6, DL n. 78/2010, l'art. 5, c. 2,
DL n. 95/2012, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012.
[11] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, 30.12.2013,
n. 26, la quale osserva come l'inciso posto all'inizio del
comma 141 'Ferme restando le misure di contenimento della
spesa già previste dalle vigenti disposizioni', tende a
considerare le norme finalizzate alla riduzione delle spese
per consumi intermedi in un'ottica complessiva, con
possibilità di compensazione tra le singole voci di spesa
nel rispetto di un tetto massimo di spesa stanziabile a
bilancio.
[12] Prevista dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l.
21.06.2013 n. 69, introdotto dalla legge di conversione
09.08.2013 n. 98, di novella dell'art. 1, comma 141, L. n.
228/2012 (29.12.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Riduzione delle locazioni inapplicabile tra le
p.a..
La riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva
stipulati dalle p.a., prevista dal dl n. 95/2012, non è
applicabile nell'ipotesi in cui entrambe le parti in causa
siano ricomprese nell'alveo delle pubbliche amministrazioni.
In questo caso, infatti, non si realizza la finalità della
norma, vale a dire quella di contenere la spesa pubblica, in
quanto gli effetti monetari sarebbero del tutto neutri.
È quanto ha precisato la sezione regionale di controllo
della Corte dei conti per l'Emilia-Romagna, nel testo del
parere 15.12.2015 n. 157, con cui viene fatta
chiarezza sulla portata della norma contenuta all'articolo
3, comma 4 del dl n. 95/2012, come modificato dall'articolo
24, comma 4 del dl n. 66/2014.
In detta disposizione, lo si ricorderà, viene precisato che
per esigenze di riduzione della spesa pubblica, a partire
dall'01/07/2014 i canoni dei contratti di locazione passiva
aventi ad oggetto immobili istituzionali stipulati dalle
amministrazioni pubbliche, devono essere ridotti del 15%,
salvo diritto di recesso esercitabile dal locatore. Sulla
scorta di ciò, il sindaco del Comune di Reggio Emilia, ha
chiesto alla Corte se detta norma fosse applicabile al caso
in cui le parti in causa in un contratto di locazione
passiva appartengano entrambe all'alveo della Pubblica
amministrazione.
Per il collegio della magistratura contabile emiliana, la
disposizione in oggetto non pare applicabile nell'ipotesi in
cui il rapporto intervenga tra due pubbliche
amministrazioni. In tal senso, infatti, è preclusiva
l'interpretazione della normativa che, lo si ribadisce,
intende realizzare «il contenimento della spesa pubblica».
Ed è evidente, si legge nel parere, che la ratio
della norma non si realizza quando il rapporto, sui cui
canoni dovrebbe essere applicata la riduzione automatica del
15%, intervenga tra esse. Infatti, l'effetto pratico sarebbe
del tutto neutro rispetto all'obiettivo di contenimento
della spesa pubblica, essendo di tutta evidenza che
l'inserimento della clausola di riduzione, pur comportando
per una p.a. un risparmio del 15%, per l'altra
comporterebbe, in egual misura, un minor introito
(articolo ItaliaOggi del
07.01.2016). |
PATRIMONIO:
A decorrere dall’01.07.2014, la riduzione nella
misura del 15 per cento dei canoni di locazione corrisposti
per i contratti di locazione passiva stipulati dalle
amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs.
165/2001, è insuscettibile di
applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie
analoghe (dato il carattere eccezionale della norma), sicché
-inevitabilmente- è preclusa che una previsione normativa
formulata per un contratto di locazione trovi applicazione
per la fattispecie -non sovrapponibile- di un rapporto di
concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili,
attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di
interessi pubblici.
---------------
Il Sindaco del Comune di Reggio nell’Emilia ha inoltrato
a questa Sezione una richiesta di parere con la quale
intende conoscere se l’art. 3, comma 4 (richiamato
dal successivo comma 7) del d.l. n. 95/2012, convertito
dalla l. n. 135/2012 e s.m.i., che prevede, a decorrere
dall’01.07.2014, la riduzione nella misura del 15 per cento
dei canoni di locazione corrisposti per i contratti di
locazione passiva stipulati dalle amministrazioni di cui
all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, trovi applicazione
anche nell’ipotesi in cui il comune abbia dato in
concessione e non in locazione un determinato immobile ad
altro ente pubblico.
...
In via preliminare, occorre operare una breve ricognizione
del quadro normativo di riferimento.
Il richiamato art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012,
n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n.135, come successivamente modificato dall’art.
24, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n. 66,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n.
89, statuisce che “Ai fini del contenimento della spesa
pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva
aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale stipulati
dalle Amministrazioni centrali … i canoni di locazione sono
ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per
cento di quanto attualmente corrisposto. … La riduzione del
canone di locazione si inserisce automaticamente nei
contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 c.c., anche
in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle
parti, salvo il diritto di recesso del locatore. …”.
Il successivo comma 7 del medesimo articolo puntualizza,
altresì, che “Fermo restando quanto previsto dal comma
10, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 si applicano
altresì alle altre amministrazioni di cui all’articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in
quanto compatibili. …”.
Il problema esegetico che si pone, alla luce del richiamato
contesto fattuale e normativo, è duplice.
In primo luogo, sotto il profilo soggettivo, afferisce
l’applicabilità della summenzionata previsione normativa
quando le parti del rapporto di concessione siano due
pubbliche amministrazioni. In secondo luogo, sotto il
profilo oggettivo, riguarda l’applicabilità in sé della
prescrizione, prevista nell’ambito dei rapporti di
locazioni, anche ai rapporti di concessione di beni
pubblici.
Sotto il primo profilo, in sé assorbente rispetto al
quesito posto, la disposizione del
novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012 non pare
applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra
due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva, in tal senso,
l’interpretazione finalistica e financo letterale della
normativa richiamata avente, peraltro, natura di norma
eccezionale e, come tale insuscettibile di applicazione “oltre
i casi e i tempi” in essa considerati
(cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale).
Si osserva, infatti che la statuizione
oggetto di disamina è applicabile, prima di ogni ulteriore
considerazione, quando realizzi la finalità richiamata nel
testo di legge di “contenimento della spesa pubblica”.
All’evidenza, tale finalità non si realizza
qualora il rapporto concessorio, cui sarebbe eventualmente
da applicare la riduzione automatica del canone nella misura
del 15 per cento, intervenga tra due pubbliche
amministrazioni. Infatti l’effetto pratico sarebbe del tutto
neutro rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa
pubblica, essendo di assoluta evidenza che l’inserzione
automatica ex art. 1339 c.c. di una tale clausola nel
rapporto intercorrente tra due pubbliche amministrazioni,
pur comportando per l’una un risparmio nella misura del 15
per cento di quanto corrisposto in precedenza, per l’altra
comporterebbe, in egual misura, un minor introito.
Sotto il secondo profilo dell’ambito oggettivo, poi,
presenta non pochi profili di criticità
l’applicazione di una norma di carattere eccezionale,
prevista per l’ipotesi di contratti di locazione, a una
concessioni di beni.
Preliminarmente, non è revocabile in dubbio e si ribadisce
il carattere di norma eccezionale della previsione citata,
appunto di eccezione alla regola generale, principio cardine
dell’ordinamento, per cui le parti del rapporto negoziale
(nella fattispecie locativo) sono vincolate nei termini
contrattualmente previsti.
Ne consegue, pertanto, che l’insuscettibilità
dell’applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie
analoghe, della norma di carattere eccezionale,
inevitabilmente preclude che una previsione normativa
formulata per un contratto di locazione trovi applicazione
per la fattispecie non sovrapponibile di un rapporto di
concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili,
attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di
interessi pubblici
(cfr. C.S.U. del 26.06.2003, n. 10157)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 15.12.2015 n. 157). |
novembre 2015 |
|
PATRIMONIO:
Contratti di locazione passiva di nuova stipulazione.
Ai sensi dell'art. 3, comma 6, D.L. n.
95/2012, per i contratti di locazione passiva, aventi ad
oggetto immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi,
di nuova stipulazione a cura delle amministrazioni pubbliche
(ivi compresi gli enti locali, ai sensi del comma 7
dell'art. 3 in argomento, come novellato dall'art. 24, comma
4, lett. b), D.L. n. 66/2014), si applica la riduzione del
15 per cento sul canone congruito dall'Agenzia del demanio.
Quest'ultima ha precisato che è facoltativo per gli enti
locali chiedere la verifica di congruità del canone; una
scelta in tal senso -evidenzia la Corte dei conti- è
comunque prudenziale, anche al fine di non incorrere in
responsabilità per danno erariale.
In ogni caso, per il magistrato contabile, sul canone
congruito (a seguito della relativa attestazione
dell'Agenzia del demanio, cui le amministrazioni comunali
abbiano ritenuto di rivolgersi) dei contratti di nuova
stipulazione, si applica la riduzione del 15%, a norma
dell'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012.
Il Comune necessita di un immobile da adibire a magazzino
comunale ed, essendo scaduto il contratto di locazione che
aveva a tal fine stipulato, ha individuato, attraverso
selezione pubblica, un nuovo immobile di superficie maggiore
rispetto alla precedente. L'Ente chiede dunque se possa
stipulare il nuovo contratto, atteso che il proprietario
richiede un canone di locazione leggermente superiore a
quello precedente.
Si evidenzia al riguardo che l'art. 3, comma 6, D.L. n.
95/2012, stabilisce che 'Per i contratti di locazione
passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di
proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle
Amministrazioni di cui al comma 4
[1], si
applica la riduzione del 15 per cento sul canone congruito
dall'Agenzia del Demanio [...]' [2].
Ai sensi del comma 7 dell'art. 3 in argomento, a seguito
della novella recata dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L.
n. 66/2014, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 dell'art.
3 medesimo, si applicano altresì alle altre amministrazioni
di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, ivi compresi
gli enti locali.
Come chiarito dalla Corte dei conti, l'espressione 'canone
congruito dall'Agenzia del Demanio' si riferisce alla
valutazione, demandata all'Agenzia, nell'ambito della sua
attività di monitoraggio, di congruità del prezzo rispetto
ai prezzi medi di mercato, per il rinnovo dei contratti di
locazione, ai sensi dell'articolo 1, comma 388, della L. n.
147/2013 [3].
Per quanto concerne, specificamente, le locazioni di nuova
stipulazione, la Corte dei conti chiarisce che gli enti
locali potranno rivolgersi all'Agenzia del Demanio per la
valutazione di congruità del prezzo: come precisato dalla
medesima Agenzia (circolare n. 16155/2014 dell'11.06.2014)
si tratta di una scelta facoltativa (ma prudenziale, anche
al fine di non incorrere in responsabilità per danno
erariale), in quanto le disposizioni in materia di
locazioni, commi da 4 a 6 del D.L. n. 95/2012, si applicano
alle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n.
165/2001, in quanto compatibili.
In ogni caso -sottolinea la Corte dei conti
[4]- sul
canone congruito [5]
dei contratti di nuova stipulazione, si applica la riduzione
del 15%, a norma del comma 6 dell'art. 3 del D.L. n.
95/2012.
Ed invero, per la Corte dei conti [6],
l'unica eccezione all'applicazione della riduzione
obbligatoria del canone viene ravvisata con riferimento ai
contratti di locazione in corso, nella sola ipotesi in cui
il canone corrisposto al privato sia già inferiore
all'importo ritenuto congruo dall'Agenzia del demanio,
ridotto del 15%. E questo per evitare che l'ulteriore
automatica riduzione, operata ai sensi del comma 4 dell'art.
3, D.L. n. 95/2012 [7],
induca il privato ad esercitare il diritto di recesso. In
questa evenienza, infatti, l'amministrazione si troverebbe
nella necessità di stipulare un nuovo contratto ad un canone
necessariamente più alto di quello originariamente
corrisposto, anche in applicazione del comma 6 dell'art. 3
del D.L. n. 95/2012 (canone 'congruito' ridotto del
15%), vanificando proprio la finalità di vantaggio per
l'Erario perseguita dalla norma.
A ben vedere, la Corte dei conti prende in esame il problema
della stipula di un nuovo contratto di locazione ad un
canone più alto di quello già pagato, per evitare che questo
sia la conseguenza del recesso da parte del locatore, a
seguito della decurtazione del canone, ai sensi dell'art. 3,
comma 4, D.L. n. 95/21012. E a scongiurare tale rischio (di
un effetto opposto a quello voluto dalla norma), la Corte
dei conti fornisce la soluzione di ritenere plausibile
un'interpretazione integrativa dell'art. 3, comma 4, D.L. n.
95/2012, che, in luogo di applicare il 15% di riduzione ad
un canone di importo già modesto -provocando, in caso di
recesso da parte del privato, la successiva stipula di un
contratto meno vantaggioso per l'amministrazione- consenta
di mantenere in essere il contratto in corso al canone
attuale, fino alla naturale scadenza, ed eventualmente anche
di procedere al rinnovo alle medesime condizioni
[8].
All'infuori di questa precisa circostanza, la Corte dei
conti ribadisce per i contratti di locazione
l'obbligatorietà della specifica disciplina di contenimento
della spesa pubblica ed in particolare, per le locazioni di
nuova stipulazione, l'applicazione in ogni caso della
riduzione del 15% sul canone ritenuto congruo dall'Agenzia
del demanio, a cui le amministrazioni abbiano valutato di
rivolgersi per la valutazione di congruità del prezzo
[9].
---------------
[1] Il comma 4 si riferisce alle Amministrazioni
centrali.
[2] In tema di locazioni passive, non è più vigente la norma
imperativa (contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12 del
d.l. n. 98/2011, così come introdotto dall'art. 1, comma
138, della legge n. 228/2012) che vietava, nell'anno 2013,
oltre l'acquisto di beni immobili anche la stipula di
contratti di locazione passiva. (Cfr. Corte dei conti, sez.
reg. controllo per il Piemonte, 15.01.2015, n. 3).
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. per la Puglia,
23.07.2015, n. 154. Secondo l'art. 1, comma 388, L. n.
147/2013, richiamato dalla Corte dei conti, 'Anche ai fini
della realizzazione degli obiettivi di contenimento della
spesa, i contratti di locazione di immobili stipulati dalle
amministrazioni individuate ai sensi dell'articolo 1, comma
2, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive
modificazioni, non possono essere rinnovati, qualora
l'Agenzia del demanio, nell'ambito delle proprie competenze,
non abbia espresso nulla osta sessanta giorni prima della
data entro la quale l'amministrazione locataria può
avvalersi della facoltà di comunicare il recesso dal
contratto. Nell'ambito della propria competenza di
monitoraggio, l'Agenzia del demanio autorizza il rinnovo dei
contratti di locazione, nel rispetto dell'applicazione di
prezzi medi di mercato, soltanto a condizione che non
sussistano immobili demaniali disponibili. I contratti
stipulati in violazione delle disposizioni del presente
comma sono nulli'.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit..
[5] A seguito della relativa attestazione dell'Agenzia del
demanio, cui le amministrazioni abbiano ritenuto di
rivolgersi.
[6] Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Toscana,
15.01.2015, n. 8, richiamata dalla Corte dei conti Puglia,
n. 154/2015, cit..
[7] L'art. 3, comma 4, DL n. 95/2012, come novellato
dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014, ai fini
del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai
contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a
uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali,
prevede la riduzione automatica del 15% dei canoni di
locazione, a decorrere dall'01.07.2014 (la decorrenza della
misura finanziaria, originariamente fissata all'01.01.2015,
è stata anticipa all'01.07.2014 dalla novella di cui al D.L.
n. 66/2014).
[8] Nell'ambito di questi principi, la Corte dei conti
rimette alla discrezionalità dell'ente la valutazione
complessiva dell'economicità dell'operazione, in coerenza
con la disciplina di contenimento della spesa in materia di
locazioni (Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit.).
[9] Al riguardo, l'Anci, nella nota dell'08.07.2014, ha
espresso l'avviso per cui, anche nel caso di contratti di
nuova locazione, per un principio di prudenza e di garanzia
del rispetto della economicità, è opportuno che, in ogni
caso, l'ente locale chieda la verifica della congruità del
canone all'Agenzia del demanio.
L'Agenzia del demanio, nella circolare n. 16155/2014
richiamata, fornisce chiarimenti in ordine all'istanza di
congruità del canone che dovesse esserle rivolta dalle p.a.
per i contratti di nuova stipulazione.
In particolare, detta istanza dovrà essere corredata dal
canone proposto dal proprietario dell'immobile interessato
ed inviata unitamente ad una perizia del bene.
Per la perizia, l'Agenzia del demanio mette a disposizione
un apposito modello estimale (Allegato 3 della circolare,
riferito specificamente alle nuove locazioni), che richiede
l'indicazione del canone proposto dal proprietario e del
canone di mercato. Per la valutazione dell'immobile (ai fini
del valore/canone), il modello indica dei criteri
valutativi, tra cui, il criterio valutativo principe del
'Canone di mercato per comparazione diretta', basato sulla
comparazione diretta del bene oggetto di stima con quei beni
ad esso similari, locati nel recente passato, nella stessa
zona ed in regime di libero mercato.
Qualora il canone di locazione, determinato a seguito della
perizia trasmessa ai fini della congruità, risulti inferiore
a quello richiesto dalla Proprietà, le Amministrazioni
dovranno acquisire da parte di quest'ultima l'accettazione
di detto importo, specificando che lo stesso non ha
carattere definitivo, ma dovrà essere sottoposto alla
congruità da parte dell'Agenzia del demanio.
Inoltre, l'Agenzia evidenzia che, se interessata ai fini
dell'espletamento dell'attività di congruità, comunicherà,
ad ogni buon fine, oltre l'esito della verifica sul canone,
anche l'eventuale disponibilità di immobili, potenzialmente
idonei alle esigenze dell'Amministrazione interessata, di
proprietà statale ovvero, in subordine, di proprietà
pubblica - comunicati dalle P.A. all'Agenzia del demanio
mediante apposito applicativo informatico (27.11.2015
-
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PATRIMONIO:
E' illegittima la permuta di un terreno comunale a
trattativa privata.
In base al principio posto
dall’art. 41 del RD 827/1924 la trattativa privata
costituisce modalità di alienazione ammissibile solo
nei casi ivi espressamente previsti, casi tutti cui
certamente non può ascriversi quello in esame nel
quale si è alienato un terreno di proprietà
comunale.
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione
avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un
procedimento di evidenza pubblica tanto più che,
come riferisce lo stesso Comune, alla stessa
amministrazione comunale erano pervenute
relativamente al terreno di cui trattasi altre
istanze di acquisto da parte di diverso soggetto,
istanze che avrebbero richiesto un confronto
concorrenziale.
Lo stesso Regolamento comunale del resto conferma la
necessità dell’asta pubblica mentre l’art. 192
D.lgs. 267/2000 prescrive che la determina a
contrarre sia preceduta dall’indicazione delle
modalità di scelta del contraente ammesse dalle
disposizioni vigenti in materia di contratti delle
pubbliche amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2,
della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono
procedere alle alienazioni del proprio patrimonio
immobiliare anche in deroga alle norme sulla
contabilità generale degli enti locali, fermi
restando i principi generali dell'ordinamento
giuridico-contabile e sempre che siano assicurati
criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti
proposte di acquisto, da definire con regolamento
dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di
alienazione non appare in linea con i principi
richiamati, stabiliti sia dalla legislazione
nazionale che dalla regolamentazione locale, in
quanto non risulta essere stata avviata alcuna
procedura di evidenza pubblica con adeguata
pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di
garantire la massima trasparenza e imparzialità
nella cessione del bene comunale.
---------------
... per l'annullamento:
- della nota prot. 9497 del 22.11.10, recante
comunicazione di indisponibilità alla stipula
dell'atto di permuta di suoli di cui alla delibera
consiliare n. 5/2007;
- della nota n. 10011 del 14.12.2010, recante
comunicazione di avvio del procedimento finalizzato
all’annullamento della prefata delibera consiliare.
...
1.- Con delibera consiliare n. 5 del 13.03.2007 il
Comune di Pimonte ha deciso di procedere, tra
l’altro, alla permuta di alcune aree di proprietà
comunale, nella specie un’area di mq. 103 con altra
di mq 80 di proprietà del sig. Ca.Ch., previa
corresponsione di un conguaglio di 1.186,50 euro da
parte del medesimo.
2.- A fronte della successiva richiesta del sig. Ch.
di dare seguito a tale delibera, il Comune -con nota
del 22.11.2010 prot. del responsabile dell’ufficio
Patrimonio- comunicava l’indisponibilità alla
permuta rilevando sia profili di illegittimità della
citata delibera n. 5/2007 che di inalienabilità del
bene attesa la sua vicinanza al depuratore pubblico.
3.- Avverso la nota il sig. Ch. ha svolto con il
ricorso in epigrafe le seguenti doglianze: ...
...
9.- Il ricorso non merita accoglimento.
Dalla richiamata delibera consiliare 5/2011, che ha
sospeso la delibera con cui era stata decisa la
cessione dell’area comunale, risultano –non essendo
oggetto di specifica contestazione da parte del
ricorrente– le seguenti circostanze:
- il regolamento comunale sui contratti (art. 54)
prevede che l’alienazione dei beni comunali avvenga
con il sistema dell’asta pubblica;
- antecedentemente alla citata delibera 5/2007, è
stata presentata per la stessa particella una
proposta di acquisto da parte di altro soggetto “ad
un prezzo uguale o maggiore”.
Fatte queste premesse, il Collegio rileva che in
base al principio posto dall’art. 41 del RD 827/1924
la trattativa privata costituisce modalità di
alienazione ammissibile solo nei casi ivi
espressamente previsti, casi tutti cui certamente
non può ascriversi quello in esame nel quale si è
alienato un terreno di proprietà comunale (cfr. Tar
Liguria n. 380/2008).
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione
avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un
procedimento di evidenza pubblica tanto più che,
come riferisce lo stesso Comune, alla stessa
amministrazione comunale erano pervenute
relativamente al terreno di cui trattasi altre
istanze di acquisto da parte di diverso soggetto,
istanze che avrebbero richiesto un confronto
concorrenziale (cfr. per analogo indirizzo cfr.
ex multis Cons. Stato 338/2012).
Lo stesso Regolamento comunale (art. 58 su
richiamato) del resto conferma la necessità
dell’asta pubblica mentre l’art. 192 D.lgs. 267/2000
prescrive che la determina a contrarre sia preceduta
dall’indicazione delle modalità di scelta del
contraente ammesse dalle disposizioni vigenti in
materia di contratti delle pubbliche
amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2,
della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono
procedere alle alienazioni del proprio patrimonio
immobiliare anche in deroga alle norme sulla
contabilità generale degli enti locali, fermi
restando i principi generali dell'ordinamento
giuridico-contabile e sempre che siano assicurati
criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti
proposte di acquisto, da definire con regolamento
dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di
alienazione non appare in linea con i principi
richiamati, stabiliti sia dalla legislazione
nazionale che dalla regolamentazione locale, in
quanto non risulta essere stata avviata alcuna
procedura di evidenza pubblica con adeguata
pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di
garantire la massima trasparenza e imparzialità
nella cessione del bene comunale.
Ne consegue che il diniego espresso dall’ufficio
Patrimonio risulta giustificato dall’applicazione
della normativa sopra richiamata.
Nel caso di specie, in presenza di atto
plurimotivato, la fondatezza di una delle
motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la
conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori
censure volte a contestare gli ulteriori profili
della motivazione in quanto il rigetto della
doglianza volta a contestare una delle sue ragioni
giustificatrici comporta la carenza di interesse
della parte ricorrente all'esame delle ulteriori
doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici.
In conclusione il ricorso viene respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 24.11.2015 n. 5456 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2015 |
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PATRIMONIO:
Acquisizione da parte del comune di immobili pericolanti.
Lo strumento utilizzabile dal Comune per
l'acquisizione della proprietà di immobili pericolanti è
l'espropriazione, qualora ne sussistano i presupposti.
Si tratta di un istituto finalizzato esclusivamente
all'esecuzione di opere pubbliche o, comunque, di pubblica
utilità che, in ossequio al principio di legalità
dell'azione amministrativa, può essere disposto nei soli
casi previsti dalla legge.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
possibilità di acquisire la proprietà di due immobili
potenzialmente pericolosi per la pubblica incolumità. In
particolare, la questione afferisce due differenti
situazioni:
- la prima riguarda un edificio pericolante
prospiciente la pubblica via, in relazione al quale
l'amministrazione comunale è dovuta intervenire urgentemente
per garantire la pubblica incolumità e per il quale sono
richiesti ulteriori interventi di messa in sicurezza. Tale
immobile risulta di proprietà di persone ora defunte e gli
eredi sono irreperibili. Di qui la richiesta di sapere se il
Comune possa acquisire la proprietà di tale fabbricato;
- la seconda afferisce un fabbricato di proprietà di
una società cooperativa latteria sociale, sciolta 'per
atto dell'autorità' regionale. [1]
Gli ex soci sono irreperibili o defunti. Di qui la richiesta
dell'Ente circa la possibilità di acquisire la proprietà di
tale immobile ed, eventualmente, con quale procedura.
Con riferimento ad entrambe le fattispecie prospettate si
ritiene che lo strumento potenzialmente utilizzabile, che
consentirebbe l'acquisto della proprietà immobiliare in capo
al Comune, sia l'espropriazione, qualora ne sussistano i
presupposti. A tal fine si rammenta che tale istituto è
finalizzato esclusivamente all'esecuzione di opere pubbliche
o all'esecuzione di opere, comunque di pubblica utilità e
che, in ossequio al principio di legalità dell'azione
amministrativa, l'espropriazione dei beni immobili può
essere disposta nei soli casi previsti dalla legge.
[2]
In particolare, per quel che potrebbe rilevare in questa
sede, si osserva che l'istituto dell'espropriazione potrebbe
essere utilizzato, valutando la ricorrenza di tutte le
condizioni indicate dalla legge, anche ricorrendo ai Piani
di recupero di cui alla legge regionale 29.04.1986, n. 18
[3]
recante 'Norme regionali per agevolare gli interventi di
recupero urbanistico ed edilizio. Modificazioni ed
integrazioni alla legge regionale 01.09.1982, n. 75'.
[4]
Mette conto, al riguardo, richiamare la sentenza del giudice
amministrativo [5]
con la quale viene identificato come finalità del piano di
recupero di iniziativa pubblica ex articoli 27 e 28 della
legge 457/1978, il recupero del patrimonio edilizio
degradato, mediante interventi volti a conservare, risanare,
ricostruire e utilizzare il patrimonio stesso, con la
conseguenza che a detto piano non può essere assoggettata in
modo generico ed indiscriminato una vasta area del
territorio comunale, ma soltanto immobili, complessi edilizi
isolati ed aree bene individuate per le caratteristiche di
degrado da recuperare. [6]
In particolare, si segnala l'articolo 9 della legge
regionale 18/1986, rubricato 'Attuazione dei piani di
recupero', il quale indica la procedura che i Comuni
devono adottare nel caso in cui intendano procedere
all'attuazione diretta di tali piani.
Quanto, poi, alla prima fattispecie prospettata in ordine
alla quale il Comune riferisce di avere già sostenuto delle
spese per la provvisoria messa in sicurezza dell'immobile si
rappresenta che, qualora, come nel caso in esame, l'Ente non
sia stato rimborsato dell'importo sostenuto a tal fine
potrebbe attivare la procedura esecutiva volta al recupero
della somma anticipata.
A tale proposito, si rammenta che l'articolo 505 del codice
di procedura civile prevede che, nei limiti e secondo le
regole contenute nel codice stesso, il creditore pignorante
possa chiedere l'assegnazione dei beni pignorati.
L'assegnazione dei beni pignorati costituisce uno dei
possibili momenti conclusivi del processo di esecuzione e
consiste nell'attribuzione diretta del bene pignorato al
creditore procedente al fine di soddisfare le proprie
ragioni creditorie. Più in particolare, necessita
distinguere tra assegnazione satisfattiva (che comporta il
trasferimento a tacitazione del credito) e assegnazione
mista (cioè accoppiata al pagamento di un conguaglio versato
dall'assegnatario).
Si può avere assegnazione satisfattiva se il bene assegnato
ha un valore pari al credito del procedente ed alle spese
sostenute, e non vi sono altri creditori da soddisfare; si
avrà, invece, assegnazione con conguaglio quando il valore
del bene è superiore al credito ed alle spese, ovvero agli
altri crediti fatti valere nell'espropriazione: qui il
creditore deve pagare una somma almeno pari alle spese ed al
valore dei crediti precedenti quello dell'assegnatario. In
tal caso si parla di 'assegnazione vendita'.
Da ultimo, e sempre con riferimento alla prima fattispecie
rappresentata dal Comune, si osserva che, appartenendo
l'immobile in riferimento a persone defunte, bisognerebbe
accertarsi se siano o meno scaduti i termini per accettare
l'eredità. [7]
Nel caso in cui non siano decorsi dieci anni dalla morte
dell'originario proprietario il codice civile prevede la
possibilità di nomina di un curatore dell'eredità giacente.
[8]
Nell'ambito dell'attività di amministrazione del compendio
ereditario da parte della curatela, particolare rilevanza
riveste l'eventuale alienazione dei beni che ne fanno parte.
A tale riguardo, l'articolo 783, secondo comma, c.p.c.
contempla la semplice possibilità che la vendita sia
autorizzata dal Tribunale con decreto in Camera di consiglio
in tutti i casi in cui essa si palesi necessaria o di
evidente utilità. Al riguardo la dottrina
[9] ha annoverato
tra dette ipotesi quella relativa 'alla gestione di un
fabbricato fatiscente' in relazione alla quale si
renderebbe opportuno procedere alla vendita.
---------------
[1] L'articolo 2544 c.c., nella versione in vigore prima
della novella al codice civile introdotta dal D.Lgs.
17.01.2003, n. 6, rubricato 'Scioglimento per atto
dell'autorità', recitava: 'Le società cooperative, che a
giudizio dell'autorità governativa non sono in condizione di
raggiungere gli scopi per cui sono state costituite, o che
per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio
annuale, o non hanno compiuto atti di gestione, possono
essere sciolte con provvedimento dell'autorità governativa,
da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e
da iscriversi nel registro delle imprese. [...].
Se vi è luogo a liquidazione, con lo stesso provvedimento
sono nominati uno o più commissari liquidatori'.
Attualmente, la norma di riferimento, analogamente rubricata
'Scioglimento per atto dell'autorità' è l'articolo
2545-septiesdecies, del codice civile.
[2] Articolo 1, comma 1 e articolo 2, comma 1, del decreto
del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.
[3] A livello statale la legge recante: 'Norme generali per
il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico
esistente' è la n. 457 del 05.08.1978.
[4] Si rammenta che, ai sensi dell'articolo 25 della legge
regionale 23.02.2007, n. 5 (Riforma dell'urbanistica e
disciplina dell'attività edilizia e del paesaggio) il Comune
potrebbe adottare, con le modalità indicate dalla legge, un
piano attuativo comunale (PAC). In particolare, il comma 3
dell'indicato articolo prevede che: 'Le procedure di
adozione e approvazione del PAC sostituiscono quelle degli
strumenti urbanistici attuativi delle previsioni di
pianificazione comunale e sovracomunale e in particolare:
[...] d) i piani di recupero [...]'.
[5] TAR Umbria, Perugia, sentenza del 26.10.1989, n. 726.
[6] Le considerazioni espresse dal giudice amministrativo si
trovano riportate nel parere dell'ANCI del 16.02.2011.
[7] Si ricorda che, decorsi i termini per l'accettazione
senza che questa sia effettuata da alcuno dei chiamati
all'eredità questa è devoluta allo Stato. In tal senso
depone l'articolo 586 c.c. che, al primo comma recita: 'In
mancanza di altri successibili, l'eredità è devoluta allo
stato. L'acquisto si opera di diritto senza bisogno di
accettazione e non può farsi luogo a rinunzia'.
[8] Si rammenta che secondo un orientamento dottrinale
l'instaurarsi del periodo di giacenza si avrebbe oltre che
nel caso in cui il chiamato non abbia ancora accettato
l'eredità, anche nell'ipotesi in cui non si sappia se la
persona del chiamato sia mai esistita.
[9] D. Minussi, 'Vendita di beni ereditari (curatore
dell'eredità giacente)', in WikiJus, il Wiki di Diritto
Civile, articolo del 23.02.2015 (08.10.2015 -
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PATRIMONIO - TRIBUTI:
Regolamento per la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio per
l'applicazione dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica
di favorire la partecipazione della comunità locale nella
valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni
di affidare a cittadini singoli o associati determinati
interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici
pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
In caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle
associazioni, la riduzione fiscale sembra poter essere
sostituita da contributi monetari qualora questi siano
corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli
associati partecipanti all'intervento, per il tributo
specifico individuato, in relazione alla tipologia delle
attività svolte.
L'Amministratore locale chiede un parere in ordine alla
legittimità di una norma contenuta nel Regolamento comunale
concernente la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio
(cosiddetto servizio di volontariato civico), per
l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014. Nello
specifico, il quesito posto riguarda la legittimità o meno
della previsione nel Regolamento di un contributo economico
alle Associazioni di volontariato in una misura percentuale
dei tributi comunali pagati dagli associati che partecipano
al servizio.
In via preliminare, si precisa che non compete a questo
Servizio la valutazione di legittimità dei contenuti degli
atti normativi emanati dai Comuni, in base alla loro
autonomia costituzionalmente riconosciuta. Il fine della
consulenza è di fornire un supporto giuridico agli enti
locali sulle questioni prospettate, affinché gli stessi
possano assumere le determinazioni più opportune nei casi
concreti, in relazione alle peculiarità che presentano.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione
della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n.
133/2014 [1],
'i comuni possono definire con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi
su progetti presentati da cittadini singoli o associati,
purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In
relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni
possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti
al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa
per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e
per attività individuate dai comuni, in ragione
dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere.
Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di
cittadini costituite in forme associative stabili e
giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei
cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del
territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4,
della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali
favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale.
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai
comuni di affidare a cittadini singoli o associati
determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata
zona del territorio urbano o extraurbano.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
consente ai Comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
Al fine di chiarire le modalità applicative dell'art. 24, si
ritiene utile riportare quanto affermato dal Comitato per lo
sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare,
secondo cui «l'impressione è che la norma non autorizzi
affatto gli enti locali, in modo indiscriminato, a disporre
la riduzione o l'esonero. Ma esiga, piuttosto, un preciso
rapporto di connessione 'fra attività posta in essere' e
tributo interessato» [2].
Ciò comporta che, in caso di riconoscimento degli incentivi
fiscali alle associazioni (come nel caso di specie), la
riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da
contributi monetari qualora questi siano corrispondenti
all'importo delle riduzioni spettanti agli associati
partecipanti all'intervento, per il tributo specifico
individuato, in relazione alla tipologia delle attività. In
tal modo, infatti, appare realizzata l'agevolazione fiscale
prevista dall'art. 24 in commento, come riduzione (o
esenzione) di tributi 'inerenti al tipo di attività posta
in essere'.
Si ritiene pertanto che il riconoscimento di contributi alle
Associazioni in misura percentuale dell'importo di un
determinato tributo versato complessivamente dai
partecipanti al progetto, richieda, ai sensi dell'art. 24,
D.L. n. 133/2014, una connessione tra detto tributo e la
tipologia di attività svolta dall'Associazione
[3].
---------------
[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Cfr. Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, Comitato per lo sviluppo del verde
pubblico, Deliberazione n. 5 del 23.02.2015.
[3] Specificamente, in via esemplificativa, sembra potersi
ravvisare una connessione tra la TARI e gli interventi di
pulizia e manutenzione di aree ed edifici pubblici (01.10.2015
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settembre 2015 |
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PATRIMONIO:
La Sezione ritiene che la disciplina limitativa,
vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte
degli enti locali,
posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del
2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del
2012, non possa trovare diretta
applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito
della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente, nello spirito del
contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili,
che caratterizza l’intervento legislativo in discorso,
appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei
limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i
presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare, sotto il profilo della “indispensabilità
e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile,
risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione
alla stipula della transazione espliciti puntualmente i
presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta
necessario porre fine ad una controversia mediante la
necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene
immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti
da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal
protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita
attestazione di congruità, anche se non appare necessario,
alla luce della differente conformazione della fattispecie
transattiva (in cui è assente un “prezzo” di
acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”),
l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del
Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere
una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e
terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del
bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia
certificata dagli appositi uffici tecnici interni,
costituendo elemento della complessiva stima di convenienza
economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale,
va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura
interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di
legge o regolamentari).
Infine, si ritiene necessario, non
risultando incompatibile con la struttura dell’operazione
transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del
soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri
elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito
istituzionale dell’ente.
---------------
Il Sindaco del Comune di Milano, con nota del
16.06.2015, ha formulato una richiesta di parere avente
ad oggetto l’acquisto di un immobile nel contesto di un
contratto di transazione.
Il Comune di Milano formula il quesito in ordine all'ambito
oggettivo di applicazione dell'art. 12, comma 1-ter del
decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito dalla legge
15.07.2011, n. 111. Il predetto comma, nella formulazione
vigente, stabilisce che "a decorrere dal 01.01.2014 al
fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a
quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall'Agenzia del Demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell'ente".
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se tale norma si
applichi anche alle acquisizioni operate dagli enti locali
nell'ambito di accordi transattivi stipulati al fine di
porre termine o prevenire una lite e, in particolare, a casi
in cui, nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra
le parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la
controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la
proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità
pubblica.
Al fine di far comprendere la portata del quesito, l’istanza
rappresenta che la fattispecie è relativa ad un caso in cui
vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la disponibilità ad
accettare che un credito, accertato con sentenza passata in
giudicato, venga pagato non in denaro, ma con il
trasferimento di un bene immobile (oltre alla rinuncia da
parte del debitore a crediti vantati nei confronti dell'ente
locale, ancora sub iudice, ed alle relative azioni
già intraprese).
L'opinione del Comune di Milano è che il suddetto comma
1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011 non si
applichi anche alle fattispecie transattive, riguardando
solo ipotesi di operazioni di acquisto puro, inquadrabili
nello schema del contratto di vendita, e ciò in ragione
della lettera e della ratio della norma.
Sotto il profilo della lettera della legge, l’istante
osserva che la disposizione in questione subordina le
operazioni di acquisto di immobili ad una attestazione
dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità del prezzo" ed al
successivo obbligo di pubblicazione sul sito internet
istituzionale dell'ente "con indicazione del soggetto
alienante e del prezzo pattuito".
La norma, dunque, utilizzando la terminologia propria
dell'istituto della compravendita fa evidentemente
riferimento solo ad ipotesi in cui l'acquisto avvenga
mediante alienazione; la transazione non prevede la
corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, evidenzia che la norma
in esame è contenuta nell'ambito di un decreto legge volto a
dettare "disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria"; la ratio espressa è quella di
"pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno". La norma ha dunque
carattere finanziario ed ha l'esclusivo scopo di dettare
disposizioni al fine del contenimento della spesa pubblica
e, quindi, concerne acquisti di immobili a fronte del
pagamento di un prezzo, ossia di uscite di denaro pubblico.
La transazione, nell'ambito della quale l'ente locale
acquisisce un bene immobile, è un'operazione più complessa,
basata su valutazioni di convenienza economica ed
amministrativa che vanno oltre il mero valore economico del
bene immobile che verrà acquisito dall'ente locale, e che
coinvolgono anche le probabilità di vittoria del contenzioso
in essere nonché considerazioni sulla portata e sulla
rilevanza degli interessi pubblici.
La transazione non si presta, per sua natura, ad essere
assoggettata alle limitazioni e ai vincoli contenuti nel
comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011.
L'acquisto di un bene immobile, infatti, potrebbe essere non
strettamente indispensabile ed indilazionabile e, tuttavia,
altamente conveniente nel quadro transattivo complessivo.
Sotto altro profilo anche l'attestazione della congruità del
prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio non si presta a
trovare applicazione alla fattispecie transattiva, posto
che, oltre all'ammontare del credito ed al valore del bene
immobile da trasferire, vi possono essere ulteriori
reciproche concessioni che definiscono i contenuti
dell'accordo transattivo, tra cui la rinuncia della
controparte ad altri crediti oggetto di contenzioso. Tali
elementi nel loro complesso concorrono congiuntamente a
comporre il quadro di convenienza economica della
transazione stessa e dunque, in ultima analisi, il giudizio
circa la presenza di risparmi di spesa, non riducibile ad
una stima meramente economica.
L’istanza precisa che, comunque, la stima del valore del
bene oggetto di trasferimento viene effettuata, nell'ambito
del procedimento che conduce alla stipula dell'accorcio
transattivo, dalla Direzione Centrale Sviluppo del
Territorio del Comune.
Assoggettare gli accordi transattivi, nell’ambito dei quali
vi siano trasferimenti di beni immobili a favore della
pubblica amministrazione, all'applicazione dell'art. 12,
comma 1-ter, del decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai
relativi limiti e vincoli, appare contrario al
raggiungimento degli stessi obiettivi di conseguimento di
effetti finanziari positivi che la norma in questione vuole
perseguire. L'applicazione della suddetta norma potrebbe,
infatti, impedire il raggiungimento di accordi
economicamente convenienti, costringendo l'Amministrazione a
non acquisire beni immobili che rivestono pubblica utilità
od esponendola al rischio dell'accoglimento di domande
risarcitorie già formulate in giudizio dalla controparte.
Si evidenzia, infine, che l'art. 12 comma 1-ter del
decreto-legge n. 98 del 2011 è norma eccezionale, in quanto
limitativa della generale capacità giuridica degli enti
locali, e, in quanto tale, va interpretata restrittivamente.
Tanto premesso, il Comune di Milano chiede parere in merito
all’applicabilità della norma sopra indicata agli accordi
transattivi stipulati dagli enti locali, nell'ambito dei
quali sia prevista l'acquisizione di beni immobili, di
potenziale utilità pubblica, da parte dell'ente locale
stesso.
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione circa
l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di
contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente
locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità
dell’amministrazione. Quest’ultimo, tuttavia, potrà
orientare la sua decisione in base alle conclusioni
contenute nel presente parere.
Il Comune di Milano chiede lumi sulla portata applicativa
dell’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del
2012, nella parte in cui prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare
operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano
comprovate l'indispensabilità e l’indilazionabilità,
attestate dal responsabile del procedimento.
Il quesito involge la corretta interpretazione della
disciplina introdotta dall’art. 12 del decreto legge n. 98
del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, come
novellato dal citato art. 1, comma 138, della legge n. 228
del 2012. La disposizione in commento è stata varie volte
scrutinata dalla Sezione, da ultimo nelle deliberazioni, n.
97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste
occasioni è stato chiarito come, a decorrere dal 1° gennaio
2014, a differenza di quanto disposto per il 2013, gli enti
locali possano effettuare operazioni di acquisto di beni
immobili, sia pure nei limiti e con le modalità previste dal
comma 1-ter del citato art. 12 del decreto legge n. 98 del
2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228
del 2012. Attualmente, quindi, non è più vigente la
precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato
l’acquisto di beni immobili (contenuta nel comma 1-quater
dell’indicato art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011).
La vigente formulazione del comma 1-ter dell’art. 12 del
decreto-legge n. 98 del 2011 dispone, infatti, che, “a
decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi
di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del
servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente”.
Pertanto, dal 2014, al regime di divieto (salvo specifiche
eccezioni) è stata sostituita una disciplina che consente le
operazioni di acquisto di beni immobili, ma solo in caso di
comprovata indispensabilità ed indilazionabilità,
presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella
motivazione del provvedimento dall’amministrazione.
Il Sindaco chiede se devono ritenersi rientranti nella
disciplina legislativa limitativa ora esposta,
l’acquisizione di un bene immobile quale effetto di un
contratto di transazione.
Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della
disposizione, la Sezione, già nella vigenza del regime più
restrittivo del divieto, imposto nell’esercizio 2013, ha
chiarito, per esempio nella deliberazione n. 164/2013/PAR,
che
elemento discretivo per l’applicabilità della descritta
disciplina è dato dalla presenza di un contratto in cui
“l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del
rapporto giuridico, determini comunque un esborso
finanziario a carico del soggetto pubblico”.
In aderenza, la
Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n.
148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma
disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli
acquisti a titolo derivativo iure privatorum” (in tal senso
si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la
Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR). Allo stesso modo
la Sezione regionale per le Marche, nella deliberazione n.
7/2013/PAR, ha sottolineato come, dal punto di vista
civilistico, l’acquisto di un immobile a titolo oneroso si
richiama senz’altro allo schema tipico della compravendita,
la quale risulta esplicitamente coinvolta nel divieto.
Peraltro, l’effetto traslativo del diritto di proprietà su
beni immobili si realizza anche attraverso altri contratti,
come, a titolo esemplificativo, il conferimento in società,
la donazione, la transazione, i contratti ad effetti reali,
anche atipici. Indirettamente si può procedere al
trasferimento della titolarità di beni immobili anche
attraverso la cessione di quote o di azioni di società che
posseggano immobili (argomentazioni simili si ritrovano
nella deliberazione della Sezione Toscana n. 125/2013/PAR).
L’interpretazione condotta circa i presupposti oggettivi di
applicazione della disciplina limitativa all’acquisto di
beni immobili da parte di enti locali, tesi a valorizzare la
natura eccezionale della norma posta dall’art. 12, comma
1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012, come
tale non suscettibile di estensione oltre i casi da essa
considerati (art. 14 delle disposizioni preliminari al
codice civile), trova maggiore supporto in presenza di una
rinnovata disciplina che, dal 2014, non vieta più l’acquisto
di immobili, ma lo sottopone soltanto a limitazione. In
questa direzione può farsi rinvio alle deliberazioni della
Sezione n. 97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste occasioni, riprendendo le coordinate
interpretative affermate in precedenti pronunce, la Sezione
ha avuto modo di escludere la soggezione alla disciplina
limitativa nel caso di acquisizione al patrimonio comunale
di opere di urbanizzazione a scomputo, posto che, in queste
ipotesi, l’acquisizione avviene a seguito di un contratto
assimilato all’appalto di lavori pubblici, non ad una
compravendita (cfr. deliberazione n. 21/2015/PAR e, nella
vigenza del precedente divieto, la deliberazione n.
220/2013/PAR).
In queste occasioni è stato sottolineato, fra
l’altro, come la disciplina limitativa attualmente vigente
(richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da
parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del
soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet
dell’ente) appare riferita alla fattispecie civilistica
della compravendita.
Nella deliberazione n. 97/2014/PAR, la Sezione è giunta a
conclusioni simili per quanto riguarda l’acquisto di
immobili effetto di un procedimento di espropriazione per
pubblica utilità. Nell’occasione, è stato richiamato anche
il parere della Sezione Veneto che, con deliberazione n.
148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma
disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, i soli
acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si
applichi quindi alle procedure espropriative (in tal senso
si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la
Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR).
Anche in questo
caso, inoltre, è stato sottolineato come
la richiesta
attestazione di conformità da parte dell’Agenzia del Demanio
in ordine al prezzo di acquisto dell’immobile trova
difficoltosa applicazione nell’ambito di una procedura
espropriativa (nella quale la determinazione dell'indennità
è soggetta agli specifici criteri previsti dalla legge).
Infine, i canoni ermeneutici generali sono stati applicati
dalla Sezione per escludere la riconducibilità alla
disciplina limitativa del contratto di permuta. Sempre nella
deliberazione n. 97/2014/PAR, infatti, è stato precisato
come il comma 1-ter dell’art. 12 del decreto-legge n. 98 del
2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228
del 2012, contiene un’espressa indicazione della propria
finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno”) ed è inserito nell’ambito della legge di
stabilità, la quale, come previsto dall’art. 11, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196, contiene norme tese a
realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, invece,
risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste
patrimoniali afferenti a beni immobili, costituisce
un’operazione finanziariamente neutra (in termini, le
precedenti deliberazioni della Sezione n. 162/2013/PAR, n.
164/2013/PAR e n. 193/2013/PAR) e, di conseguenza, non
rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter in
esame. Anche in questa occasione è stato evidenziato,
altresì, come la norma indicata preveda, espressamente, una
serie di obblighi concernenti il “soggetto alienante” ed il
“prezzo pattuito”, mentre nel contratto di permuta le
posizioni di alienante e di acquirente sono reciproche, e
riferibili a entrambi i contraenti.
La Sezione ritiene che le argomentazioni esposte, sia in
linea generale, che in riferimento a specifiche modalità di
acquisizione di beni immobili al patrimonio comunale, tese a
ricondurre l’applicazione oggettiva della disciplina
limitativa alle sole acquisizione di beni immobili
discendenti direttamente da contratti ad effetti traslativi
(quali la compravendita) debbano valere anche per il
contratto di transazione (anche in aderenza ai canoni
interpretativi posti dall’art. 14 delle disposizioni
preliminari al codice civile).
Quest’ultimo, come noto, ai
sensi dell’art. 1965 del codice civile, è il contratto col
quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono
fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che
può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si
possono creare, modificare o estinguere anche rapporti
diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e
della contestazione delle parti. Appare opportuno
sottolineare, anche ai fini dell’interferenza interpretativa
con la disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili
da parte degli enti locali, come elemento essenziale della
transazione sia, fra gli altri, l’esistenza di reciproche
concessioni (in difetto, sussiste rinuncia unilaterale).
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se la disciplina
limitativa all’acquisto di beni immobili si applichi anche
alle acquisizioni operate dagli enti locali nell'ambito di
accordi transattivi stipulati al fine di porre termine o
prevenire una lite e, in particolare, ai casi in cui,
nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra le
parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la
controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la
proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità
pubblica (nello specifico, la fattispecie è relativa ad un
caso in cui vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la
disponibilità ad accettare che un credito, accertato con
sentenza passata in giudicato, venga pagato a mezzo del
trasferimento di un bene immobile, cui accederebbe la
rinuncia, da parte del debitore, a differenti crediti
vantati nei confronti dell'ente locale ed alle relative
azioni già intraprese).
Sotto il profilo letterale, la disposizione in questione
subordina, in effetti, le operazioni di acquisto di immobili
all’attestazione dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità
del prezzo", nonché al successivo obbligo di pubblicazione
sul sito internet istituzionale dell'ente "con indicazione
del soggetto alienante e del prezzo pattuito". La norma,
utilizzando la terminologia propria del contratto di
compravendita, sembra far riferimento, come sottolineato in
precedenza, a questa fattispecie, mentre il contratto di
transazione non prevede la corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, inoltre, pare opportuno
ricordare nuovamente come la norma in esame sia contenuta
nell'ambito di un decreto legge volto a dettare
"disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria"
("pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno"). Avendo carattere
finanziario, e quindi lo scopo di dettare disposizioni al
fine del contenimento della spesa pubblica, dovrebbe
concernere i soli acquisti di immobili a fronte del
pagamento di un prezzo (o della mancata acquisizione di un
credito liquido ed esigibile).
La transazione, invece, anche
nell'ipotesi in cui conduca, come effetto, all’acquisto di
un bene immobile, è un'operazione più complessa, basata su
valutazioni di convenienza economica ed amministrativa che
vanno oltre il mero valore economico del bene che verrà
acquisito, quale prestazione della controparte, dall'ente
locale. Valutazioni che coinvolgono anche le probabilità di
vittoria del contenzioso in essere, nonché considerazioni
sulla portata e sulla rilevanza degli interessi pubblici
tendenti alla definizione transattiva di una controversia.
Sotto quest’ultimo profilo, il contratto di transazione fa
fatica, per sua natura, ad essere assoggettato ai vincoli
contenuti nel comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n.
98 del 2011. L'acquisto di un bene immobile, infatti,
potrebbe essere non strettamente indispensabile ed
indilazionabile, ma altamente conveniente nel quadro
transattivo complessivo.
Sotto altro aspetto,
anche la richiesta attestazione della
congruità del prezzo da parte
dell'Agenzia del Demanio non riesce a trovare piana
applicazione alla fattispecie transattiva, posto che, in
questo caso, oltre all'ammontare del credito ed al valore
del bene immobile da trasferire, vanno valutate le ulteriori
reciproche concessioni che definiscono i contenuti
dell'accordo transattivo. Tutti elementi che, nel loro
complesso, concorrono a definire il quadro di convenienza
economica della transazione e, in conclusione, il giudizio
circa la presenza di effettivi risparmi di spesa per
l’amministrazione stipulante.
La Sezione osserva, altresì, come, assoggettare gli accordi
transattivi, nell’ambito dei quali vi siano trasferimenti di
beni immobili a favore della pubblica amministrazione,
all'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, del
decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai relativi limiti e
vincoli, possa produrre effetti contrari al raggiungimento
degli stessi obiettivi di contenimento finanziario che la
norma in questione vuole perseguire. L'applicazione ai
contratti di transazione, infatti, potrebbe impedire il
raggiungimento di accordi economicamente convenienti,
esponendo l’amministrazione al rischio dell'accoglimento
giudiziale delle pretese di controparte.
Sulla base delle motivazioni sopra esposte,
la Sezione ritiene che la disciplina limitativa,
vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte
degli enti locali,
posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del
2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del
2012, non possa trovare diretta
applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito
della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente, nello spirito del
contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili,
che caratterizza l’intervento legislativo in discorso,
appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei
limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i
presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare, sotto il profilo della “indispensabilità
e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile,
risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione
alla stipula della transazione espliciti puntualmente i
presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta
necessario porre fine ad una controversia mediante la
necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene
immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti
da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal
protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita
attestazione di congruità, anche se non appare necessario,
alla luce della differente conformazione della fattispecie
transattiva (in cui è assente un “prezzo” di
acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”),
l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del
Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere
una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e
terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del
bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia
certificata dagli appositi uffici tecnici interni,
costituendo elemento della complessiva stima di convenienza
economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale,
va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura
interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di
legge o regolamentari).
Infine, si ritiene necessario, non
risultando incompatibile con la struttura dell’operazione
transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del
soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri
elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito
istituzionale dell’ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.09.2015 n. 310). |
PATRIMONIO:
Risponde penalmente
il dirigente comunale per le gravi negligenze in merito al
(mancato) controllo delle condizioni di sicurezza della
strada.
Sussiste la condotta colposa del dirigente comunale (in
virtù della sua qualifica, preposto alla manutenzione del
patrimonio comunale) laddove nell'omettere di manutenere un
tombino di raccolta delle acque piovane posizionato su un
marciapiede nello stesso, a causa di una rottura della
copertura, un passante affonda con il piede destro, cadendo
quindi al suolo.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di
Messina ha confermato la pronuncia emessa dal Giudice di
Pace di Messina con la quale Am.An. é stato giudicato
colpevole di aver cagionato a Sa.Ti.Tr. lesioni personali
lievi, con
condotta colposa consistita nell'omettere -in qualità di
dirigente comunale preposto al competente servizio- di
manutenere un tombino di raccolta delle acque piovane
posizionato su un marciapiede di via Cesare Battisti, in
Messina, nel quale, a causa di una rottura della copertura,
il Tr. affondava con il piede destro, cadendo quindi al
suolo.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l'imputato
a mezzo del difensore di fiducia, avv. Gi.Sa..
2.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge
in relazione agli artt. 187, co. 1 e 192, co. 1 e 2 cod.
proc. pen. e vizio motivazionale.
Rileva il ricorrente che il Tribunale non ha tenuto conto
del comportamento negligente della persona offesa e non ha
accertato l'esistenza di una oggettiva insidia non potendosi
spingere la difesa degli interessi degli utenti della strada
sino al punto di escludere il principio di
auto-responsabilità della vittima.
Inoltre, il Tribunale ha ritenuto l'attendibilità della
persona offesa senza rilevare che la medesima si é
costituita parte civile e che quindi le sue dichiarazioni
necessitavano di riscontri; riscontri che non possono essere
colti né nel verbale di accertamento dei vigili urbani né
nella affermata compatibilità delle lesioni riportate dal Tr..
2.2. Con un secondo motivo si lamenta violazione
degli artt. 40, co. 2, 45 cod. pen. in relazione all'art.
169 d.lgs. n. 67 del 18.8.2000 nonché mancanza di
motivazione.
Il Tribunale é pervenuto alla decisione senza verificare la
possibilità giuridica dell'imputato di provvedere
all'adozione delle opportune cautele, in relazione alla
titolarità delle necessarie risorse economiche per lo
svolgimento delle funzioni assegnategli.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. L'intero sviluppo delle argomentazioni del ricorrente
appare attraversato da un limite intrinseco, quello
dell'astrattezza, nel senso della posizione di asserzioni
che, pur valevoli in linea di principio, appaiono
prescindere dal concreto contenuto della sentenza impugnata
e dalle circostanze in essa affermate.
Sembra opportuno prendere le mosse dalla censura che si
indirizza al giudizio di attendibilità della persona offesa.
E' certamente vero che quando questa si costituisce parte
civile mostra di avere specifico interesse all'affermazione
di responsabilità dell'imputato e che tanto si riflette in
un onere rafforzato di prudente valutazione da parte del
giudice.
Ma nel caso di specie tale accorta ponderazione é stata
compiuta dal Tribunale, il quale ha evidenziato che non
risultano elementi che mettano in discussione
l'attendibilità del Tr.; che la querela esponeva i fatti con
linearità e precisione; che dal verbale della Polizia
Municipale si evinceva la presenza sul marciapiede del
tombino con una parte di piastrelle mancante lì dove lo
aveva segnalato il Tr.; che anche le lesioni patite
risultavano, siccome compatibili con la dinamica narrata,
elemento di conforto alla versione dell'accusa.
Il Tribunale, quindi, ha operato la prescritta analisi dei
materiali e, con motivazione né mancante né manifestamente
illogica, ha spiegato le ragioni per le quali la persona
offesa potesse essere assunta come primaria fonte di
conoscenza dei fatti.
3.2. A fronte di ciò l'esponente, in definitiva, lascia
intendere che il Tr. possa essersi inventato di sana pianta
l'accadimento, al fine di lucrare un indebito risarcimento
(e perciò, si intuisce, si ritiene non valevole quale
riscontro il verbale dei VV.UU.). Ma tale sospetto può
valere quale motore di una acuminata difesa, che porti in
emersione specifiche circostanze in grado di sostanziare il
sospetto sino a dargli la corporeità di una evidenza
probatoria. Nulla di ciò si riscontra nel caso di specie; di
qui quel connotato di astrattezza che si é sopra menzionato.
Certo non é dirimente il rilievo che indica una diversità
nella descrizione dell'accaduto nel trascorrere dalla
querela al verbale della P.M. perché
il rovinare al suolo non nega lo sprofondare con un piede
nel tombino, potendo quest'ultimo essere antecedente causale
del primo.
3.3. Quanto alla necessità, ai fini dell'addebito per colpa,
che si dia l'esistenza di una insidia, si tratta di un
assunto fondato.
Il ricorrente richiama, attraverso la massima redatta dal
CED, la giurisprudenza di questa Corte per la quale,
in tema di omicidio colposo a seguito di incidente stradale,
affinché le condizioni della strada assumano un'esclusiva
efficienza causale dell'evento, è necessario che le sue
anomalie assumano i caratteri dell'insidia e del
trabocchetto, di guisa che per la loro oggettiva
invisibilità e la conseguente imprevedibilità, integrino una
situazione di pericolo occulto inevitabile con l'uso della
normale diligenza; qualora, invece, adottando la normale
diligenza che si richiede a colui che usi una strada
pubblica, la situazione di pericolo sia conoscibile e
superabile, la causazione dell'infortunio non può che fare
capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato
la diligenza imposta
(Sez. 4, n. 34154 del 13/06/2012 - dep. 06/09/2012, Di
Carro, Rv. 253520).
Si tratta, tuttavia, di un principio che non si attaglia al
caso di specie.
Nella vicenda oggetto della sentenza in causa Di Ca. si
discuteva della incidenza causale di un dislivello del piano
stradale che aveva determinato una sterzata del conducente
del veicolo che, impattando altro veicolo, aveva procurato
la morte del conducente di questo secondo veicolo. Si
trattava, quindi, di verificare se il dislivello avesse
avuto esclusiva efficienza causale.
La Corte lo ha negato, evidenziando che si sarebbe dovuto
ritenere diversamente se avesse costituito una insidia o un
trabocchetto, come tale non percepibile con l'ordinaria
diligenza dall'utente della strada; mentre nel caso
all'esame il dislivello sarebbe stato percepibile
all'imputato se avesse usato l'ordinaria diligenza.
In tale contesto si é quindi concluso che la causazione
dell'infortunio non può che fare capo esclusivamente e
direttamente a chi non abbia adottato la diligenza imposta.
Nella vicenda oggetto del presente processo,
per contro,
viene in considerazione il comportamento della persona
offesa dal reato; la cui eventuale negligenza nulla toglie
alla rilevanza causale della condotta ascritta all'imputato,
eventualmente concorrendo con questa
(aspetto non attinto dalle censure del ricorrente).
3.4. Infine, a riguardo della pretesa mancata verifica della
sussistenza della posizione di garanzia in capo all'Am. alla
data del fatto e della effettiva titolarità delle necessarie
risorse economiche, evidenziato che
non é in alcun modo contestato che l'Am. rivestisse il ruolo
dirigenziale che gli é stato attribuito dai giudici di
merito, va registrato come
-diversamente da quanto opinato dal ricorrente-
la Corte di Appello abbia preso in esame il profilo della
impossibilità di adempiere all'obbligo gravante sull'Am.,
da un canto evidenziando come tale impossibilità non
fosse in alcun modo emersa e dall'altro
puntualizzando che essa avrebbe dovuto verificarsi non già
in relazione ad interventi manutentivi ma solo rispetto al
controllo delle condizioni di sicurezza per gli utenti, con
l'apposizione di segnali di pericolo per il caso che quel
controllo avesse fatto emergere fonti di pericolo.
Rispetto a tali corrette osservazioni il ricorrente non
formula alcuna specifica censura.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il
ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 08.09.2015 n. 36242). |
PATRIMONIO: Non
può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di
vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che
sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al
transito dei pedoni), dei quali deve garantire la
destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli
utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della
strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed
attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione
delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che,
agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al
fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di
provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania,
quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta
indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di
segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella
competenza del Comune proprietario della strada, con
specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica
stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione
alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del
codice della strada e all’art. 180 del regolamento di
esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento
materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del
citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa
ordinanza dell'ente proprietario della strada.
Con ricorso notificato il 28.04.2015 e depositato il 7
maggio successivo, i nominati in epigrafe, residenti in
Sant’Antimo alla via Catania n. 16 impugnano il silenzio–rifiuto serbato dall’intimato ente locale in ordine
all’istanza acquisita al protocollo il 19.02.2015.
Con tale richiesta, i ricorrenti invitavano
l’amministrazione comunale ad installare paletti dissuasori
alla sosta ovvero apposita segnaletica orizzontale con
divieto di sosta nel tratto di via Catania antistante il
portone del proprio fabbricato al fine di impedire la sosta
indiscriminata, diurna e notturna, di autoveicoli privati la
cui presenza, considerate le ridotte dimensioni della
carreggiata, ostacola le manovre carrabili di accesso ed
uscita dall’edificio, ivi compresi i mezzi di soccorso ed
emergenza.
Gli esponenti lamentano il pregiudizio derivante
dall’ostruzione dell’area di manovra specificando che, in
un’occasione, è stato impedito al Sig. C.V. di
recarsi presso il pronto soccorso dell’Ospedale di Frattamaggiore -benché afflitto da colica renale come da
documentazione sanitaria in atti- proprio a causa della
sosta ostruttiva di veicoli privati: all’esito di specifico
sopralluogo conseguente ad un esposto degli istanti, il
Comando di Polizia Municipale di Sant’Antimo ha constatato
il disagio per i residenti ed ha richiesto al Comune la
messa in opera di palettatura lungo la corsia di sinistra o,
in alternativa, l’apposizione di segnaletica verticale di
divieto di sosta.
Tanto premesso, gli esponenti propongono ricorso ex artt. 31
e 117 c.p.a. e chiedono la condanna dell’amministrazione
comunale alla conclusione del procedimento di cui all’epigrafata
istanza, con richiesta di nomina di un commissario ad acta
in caso di perdurante inerzia.
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Deve essere dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato
dal Comune in ordine alla istanza di cui in premessa dal
momento che, benché diffidato dalla parte ricorrente, l’ente
non ha adottato alcuna determinazione conclusiva.
Non può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di
vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che
sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al
transito dei pedoni), dei quali deve garantire la
destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli
utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della
strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed
attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione
delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che,
agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al
fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di
provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania,
quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta
indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di
segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella
competenza del Comune proprietario della strada, con
specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica
stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione
alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del
codice della strada e all’art. 180 del regolamento di
esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento
materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del
citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa
ordinanza dell'ente proprietario della strada.
Le considerazioni svolte conducono, in definitiva,
all’accoglimento del ricorso con conseguente condanna del
Comune a pronunciarsi espressamente sull’istanza dei privati
con un provvedimento motivato entro e non oltre giorni 30
dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione
della presente sentenza.
In caso di perdurante inerzia si nomina sin d’ora
commissario ad acta il Sig. Prefetto di Napoli –con facoltà
di delega ad un funzionario del proprio ufficio– il quale
provvederà, previa presentazione di apposita istanza di
parte ricorrente (da notificare al Comune), entro i
successivi 30 giorni.
Il compenso del commissario ad acta sarà liquidato con
separato provvedimento ad avvenuto espletamento
dell’incarico (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 02.09.2015 n. 4280 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2015 |
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PATRIMONIO:
La concessione in uso degli immobili.
DOMANDA:
Nel Comune scrivente sono ubicati degli immobili comunali
adibiti a finalità sociale. gli immobili suddetti sono
concessi a tempo determinato a famiglie in situazione di
disagio, in attesa che si liberi un alloggio ERP o che
possano avere un'assegnazione a tempo indeterminato in base
ai bandi di assegnazione.
In passato il Comune scrivente ha stipulato dei contratti a
tempo determinato per un periodo di due anni. Più volte sono
state concesse proroghe o rinnovi.
Chiediamo se è regolare da un punto di vista amministrativo
stabilire un periodo di validità di due anni o se è
necessario (anche per i contratti di alloggi comunali
concessi a tempo determinato) stabilire un altro termine per
non inficiare la validità dell'atto.
RISPOSTA:
Al fine di dare una risposta esaustiva al quesito formulato
dalla scrivente amministrazione, è utile richiamare la
vigente normativa in materia di beni immobili comunali.
I beni immobili sono classificati in:
- beni del demanio comunale, destinati, per loro
natura o per le caratteristiche loro conferite dalle leggi,
a soddisfare prevalenti interessi della collettività.
- beni del patrimonio indisponibile, destinati ai
fini istituzionali del Comune e al soddisfacimento di
interessi pubblici, non compresi nella categoria dei beni
demaniali di cui agli artt. 822 e 823 del Codice Civile.
- beni del patrimonio disponibile, non destinati ai
fini istituzionali del Comune e pertanto posseduti dallo
stesso in ragione di diritto privato.
I beni disponibili si distinguono in immobili ad uso
abitativo ed in immobili ad uso non abitativo. I beni
soggetti a regime di demanio e del patrimonio
indisponibile possono essere oggetto di utilizzo
esclusivo da parte di terzi allorché l’attività da svolgere
sia conforme alle finalità di interesse pubblico,
dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso temporaneo a terzi di beni demaniali e
patrimoniali indisponibili avviene mediante atti di diritto
pubblico e, in particolare, con concessione amministrativa,
su conforme atto deliberativo della Giunta Comunale. La
durata massima della concessione deve essere fissata nel
Regolamento comunale e può essere sempre revocata per
sopravvenienti interessi dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso di beni patrimoniali disponibili è, di
norma, effettuata nella forma e con i contenuti dei negozi
contrattuali tipici previsti dal titolo III del libro IV del
Codice Civile, ovverosia:
a) Contratto di locazione (artt. 1571 e ss. C.C.)
b) Contratto di affitto (artt. 1615 e ss. C.C.) c) Contratto
di comodato (artt. 1803 e ss. C.C.)
L’assegnazione e la gestione contrattuale dei beni ad uso
abitativo sono disciplinati dalle norme vigenti ed in
particolare dalla Legge n. 431/1998.
In casi eccezionali da motivare adeguatamente, i beni
immobili di proprietà dell'Amministrazione Comunale possono
essere affidati in comodato o concessi in uso gratuitamente,
con delibera della Giunta. Va comunque evidenziato che la
gestione degli immobili di proprietà degli enti locali,
anche da mettere in relazione all’entità delle misure di
economia e finanza previste dall’ordinamento pubblico,
richiede l’assunzione da parte degli enti stessi di
particolare disciplina regolamentare.
In base alle considerazioni che precedono si rileva che:
- se gli immobili comunali adibiti a finalità sociale sono
facenti parte del patrimonio indisponibile, essi sono
assegnati a tempo determinato a famiglie in situazione di
disagio mediante concessione, la cui durata (nonché la
possibilità di rinnovo o proroga) devono essere disciplinati
nel regolamento comunale.
- se invece i suddetti beni appartengono al patrimonio
disponibile, nella loro assegnazione, il Comune agisce
iure privatorum.
Per la durata del contratto di locazione, valgono le
prescrizioni di cui all’art. 5 della Legge n. 431/1998, a
norma del quale, il decreto del Ministro dei lavori pubblici
30.12.2002 definisce le condizioni e le modalità per la
stipula di contratti di locazione di natura transitoria
anche di durata inferiore ai limiti previsti dalla legge per
soddisfare particolari esigenze delle parti.
L'art. 1, comma 2 del D.M. prevede che "I contratti di
locazione di natura transitoria di cui all'articolo 5, comma
1, della legge 09.12.1998, n. 431, hanno durata non
inferiore ad un mese e non superiore a diciotto mesi. Tali
contratti sono stipulati per soddisfare particolari esigenze
dei proprietari e/o dei conduttori per fattispecie da
individuarsi nella contrattazione territoriale tra le
organizzazioni sindacali della proprietà edilizia e dei
conduttori maggiormente rappresentative".
Sembrerebbe però, dalla lettura del quesito, che i beni
siano stati assegnati a titolo gratuito per cui -anche
nell'ipotesi in cui non fossero stati conferiti con atto di
diritto pubblico (concessorio)- ma l'amministrazione avesse
utilizzato uno strumento privatistico, questo non potrebbe
che essere quello del comodato, relativamente alla cui
durata la legge non prescrive un termine preciso (l'art.
1809 c.c. si limita a prevedere che il comodatario è tenuto
a restituire la cosa: tale prestazione diviene esigibile
alla scadenza del termine espressamente convenuto).
Si ritiene pertanto che, se i beni immobili ad uso abitativo
sono stati assegnati in concessione o in comodato, sia
conforme alle norme vigenti stabilire per i relativi
contratti una durata di due anni
(link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO: Nei
contratti di locazione non abitativa la P.A. può esercitare
il diritto di recesso per gravi motivi.
La disposizione
dell'art. 27 l. n. 392/1978, che consente al conduttore di
recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi
motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione
contemplati dall'art. 42 della stessa legge e, tra questi, a
quelli conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico
territoriale.
I gravi motivi devono consistere in un'esigenza oggettiva,
imposta dal dover esercitare la funzione e soddisfare
l'interesse pubblico che ne è oggetto in modo più idoneo
rispetto a quanto assicuri l'esercizio della funzione stessa
in atto mediante l'utilizzo del bene condotto in locazione.
---------------
3. Relativamente al primo motivo si osserva che costituisce
principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte
quello secondo cui, in tema di locazione di
immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di
abitazione, l'onere per il conduttore, di specificare i
gravi motivi contestualmente alla dichiarazione di recesso
ai sensi dell'art. 27 della legge n. 392 del 1978, ancorché
non espressamente previsto da detta norma, deve ritenersi
conseguente alla logica dell'istituto, atteso che al
conduttore é consentito di sciogliersi dal contratto solo se
ricorrano gravi motivi e il locatore deve poter conoscere
tali motivi già al momento in cui il recesso é esercitato,
dovendo egli assumere le proprie determinazioni sulla base
di un chiaro comportamento dell'altra parte del contratto,
anche al fine di organizzare una precisa e tempestiva
contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della
loro idoneità a legittimare il recesso stesso
(cfr. Cass. ord. 27.10.2011, n. 22392; Cass. 06.06.2008, n.
15058; Cass. 29.03.2006, n. 7241; Cass. 26.11.2002, n.
16676).
E' stato in particolare precisato che -pur
non avendo il conduttore l'onere di spiegare le ragioni di
fatto, di diritto o economiche su cui tale motivo è fondato,
né di darne la prova perché queste attività devono essere
svolte in caso di contestazione da parte del locatore- si
tratta pur sempre di recesso "titolato", per cui la
comunicazione del conduttore non può prescindere dalla
specificazione dei motivi, con la conseguenza che tale
requisito inerisce al perfezionamento della stessa
dichiarazione di recesso e, al contempo, risponde alla
finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva
contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della
loro idoneità a legittimare il recesso medesimo
(cfr Cass. 17.01.2012, n. 549).
3.1. Ciò posto, il motivo risulta infondato sotto il profilo
della violazione di legge, inammissibile sotto quello
motivazionale.
Invero la decisione impugnata è conforme ai principi sopra
esposti, avendo correttamente escluso che i motivi addotti
con la lettera di recesso potessero essere integrati con
quello postulato solo in sede giudiziale del "risparmio
di spesa"; mentre la censura motivazionale si sostanzia
in un'opinabile equiparazione tra "risparmio di spesa"
e "maggiore efficienza operativa", suggerendo
un'interpretazione così ampia dei contenuti lettera di
recesso, che -prima ancora che risultare meramente
alternativa a quella assunta nella decisione impugnata e,
come tale, inammissibile anche nella formulazione ante D.L.
n. 83/2012 conv. in L. n. 134/2012 del n. 5 cod. proc. civ.
dell'art. 360 cod. proc. civ. (qui applicabile ratione
temporis)- finirebbe per vanificare le stesse esigenze
che il recesso "titolato" deve assolvere.
Il motivo va, dunque, rigettato.
4. Relativamente agli altri motivi di ricorso, suscettibili
per la stretta connessione delle censure, di esame unitario,
va innanzitutto osservato che costituisce
ius receptum che la disposizione dell'art. 27, comma
ultimo, L. n. 392 del 1978, che consente al conduttore di
recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi
motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione
contemplati dall'art. 42 stessa legge, ivi inclusi quelli
conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico
territoriale (cfr.
Cass. 22.11.2000, n. 15082).
Inoltre come correttamente evidenziato nella decisione
impugnata, una volta che l'amministrazione
pubblica agisca iure privatorum stipulando un
contratto di locazione come conduttore non si sottrae ai
principi costantemente predicati in materia da questa Corte,
secondo cui la situazione assunta come giustificativa del
recesso anticipato ex art. 27, comma 8 cit. non può attenere
alla soggettiva e unilaterale valutazione effettuata dal
conduttore in ordine all'opportunità o meno di continuare ad
occupare l'immobile locato, ma deve avere carattere
oggettivo, sostanziandosi in fatti involontari,
imprevedibili, sopravvenuti alla costituzione del rapporto e
tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore medesimo
la prosecuzione del rapporto locativo.
Valga, altresì, considerare che -seppure è indubbio che la
scelta di recedere non può prescindere dall'apprezzamento
dell'attività esercitata dal conduttore, quale indicata
dall'art. 27, oppure contemplata direttamente o
indirettamente nell'art. 42 citato, con la conseguenza che,
ove la scelta di recedere sia operata da un ente pubblico,
non può prescindersi dal profilo delle attività e dei
compiti ad esso affidati- è altrettanto
certo che la qualificazione pubblicistica del conduttore,
una volta che lo stesso si sia avvalso dello strumento
privatistico, non consente di ritenere che la legittimità
del recesso sia apprezzata, dando rilievo esclusivamente
alle determinazioni perseguite dal soggetto pubblico,
seppure nell'adempimento delle sue funzioni
(cfr. Cass. 19.12.2014, n. 26892, che -in una fattispecie
non dissimile a quella di cui al presente ricorso- ha
ritenuto che la decisione di un Comune di far costruire un
proprio immobile per ospitarvi detta scuola non costituisse,
di per sé, motivo idoneo di recesso anticipato dal contratto
in corso, benché il completamento dell'edificio fosse
avvenuto prima della scadenza convenzionale dello stesso e
l'operazione fosse economicamente conveniente, essendo
necessario che tale scelta fosse stata determinata da
un'esigenza oggettiva, finalizzata a soddisfare
l'interesse pubblico in questione in modo più idoneo
rispetto a quanto già non avvenisse tramite l'utilizzo del
bene condotto in locazione).
4.1. Orbene la decisione impugnata si colloca perfettamente
nell'alveo dei principi sopra indicati, giacché -muovendo
dal ragionevole presupposto che la ASL avesse assunto in
locazione un immobile idoneo all'espletamento dei servizi
sanitari localizzati (e, perciò, escludendo che la stessa
Azienda, avente in materia specifici compiti di vigilanza,
avesse adibito a strutture sanitarie locali in violazione
della normativa di settore)- ha evidenziato, come la scelta
di acquisire o liberare nuovi locali, in mancanza di
dimostrazione di situazioni in qualche modo cogenti,
costituiva espressione di una libera volontà e
determinazione del soggetto conduttore e, soprattutto,
discendeva da circostanze che avrebbero potuto e dovuto
essere prevedute, con l'ordinaria diligenza, già al momento
del rinnovo della locazione; così che essa non poteva
pregiudicare l'aspettativa del locatore alla prosecuzione
del rapporto sino alla sua scadenza.
Ciò posto e precisato, altresì, che la verifica della
sussistenza o meno degli elementi che rendono
particolarmente gravosa la prosecuzione del rapporto
locativo, quale uno dei presupposti necessari perché siano
ravvisabili "i gravi motivi" legittimanti il recesso
del conduttore ex art. 27 cit., è rimessa all'apprezzamento
del giudice di merito, risultando insindacabile in sede di
legittimità se sorretta da congrua e coerente motivazione,
rileva il Collegio che la decisione impugnata non presenta
alcuna incongruenza logico-argomentativa, dando conto in
maniera più che esauriente della valutazioni espresse.
In particolare, contrariamente a quanto opinato da parte
ricorrente, l'affermazione, secondo cui l'esistenza di
barriere architettoniche risultava non credibile, non è
affatto apodittica, trovando giustificazione nella premessa
di principio circa l'esistenza di una presunzione di
legittimità delle determinazioni assunte dalla ASL al
momento della stipula del contratto di locazione.
Né vi è alcuna insanabile contraddizione tra l'avere
ritenuto che, nella valutazione dei "gravi motivi"
occorresse avere riguardo all'attività svolta dalla ASL e
l'avere, nel contempo, escluso che rilevasse l'eventuale
mancanza di dette barriere; e ciò in quanto l'affermazione
si giustifica con il rilievo che non era stata convenuta
altra destinazione d'uso che quella generica "non
abitativa".
In disparte si osserva che le deduzioni svolte al riguardo
da parte ricorrente si rivelano prive di decisività anche
sotto altro profilo; e cioè perché non evidenziano una
situazione sopravvenuta nel corso del rapporto, dal momento
che la presenza o meno di barriere architettoniche avrebbe
dovuto essere verificata e valutata al momento della stipula
del contratto (o almeno del suo rinnovo).
In conclusione l'esame complessivo dei motivi conduce al
rigetto del ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 27.08.2015 n. 17215). |
maggio 2015 |
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PATRIMONIO:
Possibilità di assegnare gratuitamente o a canone ridotto un
bene del patrimonio disponibile comunale. Modalità
dell'affidamento.
1) Sebbene il comodato costituisca una
forma di utilizzo infruttifera e, quindi, non coerente con
il principio di redditività dei beni immobili delle PP.AA.,
il più recente indirizzo della Corte dei conti afferma che
non risulta precluso a priori, per l'ente locale, il ricorso
a tale contratto, quale forma di sostegno/contribuzione nei
confronti di attività di pubblico interesse, strumentali
alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) La concessione in uso gratuito di bene immobile, facente
parte del patrimonio disponibile di un Ente locale, va
qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio
economico' a favore di un soggetto di diritto privato (art.
12 l. 241/1990). Segue che, ai fini dell'individuazione del
soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di
locazione a prezzo ridotto, l'Ente dovrà, previamente,
indicare una serie di criteri e modalità cui successivamente
attenersi.
Il Comune, atteso il principio di fruttuosità dei beni
pubblici immobiliari, chiede di conoscere un parere in
merito alla possibilità di assegnare gratuitamente o a
canone ridotto, ad un imprenditore, un bene facente parte
del patrimonio disponibile e, in caso di risposta positiva,
desidera sapere se l'assegnazione debba essere o meno
effettuata mediante procedura ad evidenza pubblica.
Precisa, altresì, che l'assegnazione avrebbe ad oggetto un
immobile destinato ad asilo nido [1]
e che l'amministrazione comunale non offre alcun servizio
analogo.
Il principio di fruttuosità dei beni pubblici, sancito per
lo Stato dall'articolo 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e
per i comuni dall'articolo 32, comma 8, della legge
23.12.1994, n. 724, [2]
impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio
patrimonio in modo da ottenere la massima redditività
possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere
dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le
predette disposizioni «sono la chiara espressione della
volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di
tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia
che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad
uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma
3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di
immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali
quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724
del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del
patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali - già
prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni - il
principio della redditività secondo valori di mercato
discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono
astretti gli enti pubblici». [3]
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di
gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento
sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle
dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire
che esse «devono mirare all'incremento del valore
economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore
redditività finale». [4]
Il Collegio rileva, peraltro, che «il Comune non deve
perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato
soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei
beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche
curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità
amministrata [5]».
[6]
La Corte dei conti, [7]
dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione
di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque
tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione
'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la
produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che
rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle
Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di
buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della
gestione amministrativa costituisce il più significativo
corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)»,
precisa che «è il legislatore stesso che traccia i
confini delle possibili eccezioni ai principi generali
appena richiamati». [8]
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate
eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...]
qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al
patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza e
pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che
dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il
che concerne, anche e primariamente, la scelta del
contraente cui concedere il bene in godimento)».
[9]
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione
assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario
del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la
Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che
appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate
condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato-
la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in
quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo
infruttifera, e dunque non in linea con il principio della
redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta
precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale
negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta
«nei confronti di attività di pubblico interesse,
strumentali alla realizzazione delle proprie finalità
istituzionali». [10]
Viene, altresì, rilevato che «il principio generale di
redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso
ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o
addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito
mediante lo sfruttamento economico dei beni».
[11]
Il Collegio contabile osserva, poi, che all'interno
dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore
degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga
uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni
immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente
locale [12]
giacché, stante la loro natura, essi vengono assoggettati,
in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della
discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del
proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo
evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che
intende perseguire con la stipula del negozio di comodato,
bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale
perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente
locale medesimo». [13]
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra
nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta
sulle modalità di gestione del proprio patrimonio
disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità
avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi
della comunità locale, nonché previa verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo».
[14]
La Corte dei conti chiarisce, poi, che «l'attribuzione
del 'vantaggio economico' [15]
al destinatario del comodato si giustifica solo ed
esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite
dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune»
[16], a nulla
rilevando la natura di tale destinatario, giacché «la natura
pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione
patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi
la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici
dell'ente locale»
[17].
[18]
Stante quanto rappresentato, si osserva che la concessione
in comodato dei beni immobili della P.A. risulta subordinata
alla rigorosa osservanza delle condizioni previste dalla
Corte dei conti.
Passando a trattare della seconda questione posta inerente
le modalità di individuazione del soggetto con cui stipulare
il contratto di comodato o di locazione a canone ridotto al
disotto dei normali prezzi di mercato, si rileva che, in
generale, «la concessione in uso gratuito di bene
immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un
Ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un
'vantaggio economico' a favore di un soggetto di diritto
privato, anche se la disciplina codicistica del contratto di
comodato [...] pone a carico del comodatario le spese per
l'utilizzo del bene, con la diretta conseguenza che la
concessione risulta soggetta alle procedure amministrative
prescritte dall'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, in
materia di provvedimenti attributivi di vantaggi economici».
[19] Tale
articolo così recita: '1. La concessione di sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione
da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme
previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle
modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di
cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti
relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1'.
Segue che, ai fini dell'individuazione del soggetto con cui
stipulare il contratto di comodato o di locazione a prezzo
ridotto, l'Ente dovrà, previamente, indicare una serie di
criteri e modalità cui successivamente attenersi.
[20]
Si osserva che, con riferimento alla richiesta dell'Ente
circa la necessità di porre in essere una procedura ad
evidenza pubblica per individuare il contraente, la
giurisprudenza ha affermato, in generale, per tutti i
contratti pubblici l'osservanza dei principi dell'evidenza
pubblica di derivazione comunitaria per l'individuazione di
tale soggetto. [21]
Concludendo, in riferimento al caso in esame, preme
evidenziare, altresì, che, essendo già in essere un
contratto di locazione tra Comune e soggetto privato,
qualora l'Ente intenda modificare la tipologia contrattuale
in essere (non più locazione ma comodato o locazione a
prezzo ridotto) dovrà attendere la scadenza della stessa, o,
comunque, pervenire ad uno scioglimento per mutuo consenso o
per recesso [22]
per procedere, successivamente, ad una nuova attribuzione
dell'immobile nel rispetto delle condizioni sopra riportate.
In particolare, l'Ente, nell'esporre le ragioni sulla cui
base vorrebbe stipulare non più un ordinario contratto di
locazione ma uno a canone ridotto o, addirittura, un
contratto di comodato, dovrebbe adeguatamente indicare i
motivi di pubblico interesse sottesi a tale scelta, idonei a
giustificare la deroga al principio della fruttuosità dei
beni pubblici. [23]
---------------
[1] Va precisato che l'immobile in riferimento è,
attualmente, 'regolarmente locato' ad una società in
accomandita semplice che vi svolge l'attività di asilo nido.
[2] Il comma 8 dell'articolo 32 della legge 724/1994 così
recita: 'A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i
beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni
sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore,
determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei
beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di
mercato, fatti salvi gli scopi sociali'.
[3] Corte dei Conti, sezione II giurisdizionale centrale
d'appello, sentenza del 22.04.2010, n. 149.
[4] Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto, parere del 05.10.2012, n. 716.
[5] Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 («Spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei
servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed
utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze.») e dell'art. 16, comma 1, della
legge regionale 09.01.2006, n. 1 («Il Comune è titolare di
tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi
alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo
del territorio comunale, salvo quelle attribuite
espressamente dalla legge ad altri soggetti
istituzionali.»).
[6] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[7] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
[8] Al riguardo, la Corte dei conti richiama il già citato
art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i
canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio
indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle
loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di
mercato, «fatti salvi gli scopi sociali», e l'art. 32, comma
1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti
locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di
loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle
associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di
volontariato per lo svolgimento delle loro attività
istituzionali.
[9] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013 e, in
termini, Sez. reg.le contr. Lombardia, parere n. 172/2014,
che rileva come da un tanto consegua che «risulta rimessa
esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente
apprezzamento dell'ente, che si assume la responsabilità
della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e
gestionale dell'atto dispositivo, che dovrà risultare da una
chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[10] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33. In
tale sede, il Collegio chiarisce che «Ciò potrà avvenire,
però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra
i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla
discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che
dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del
provvedimento».
[11] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[12] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672
e 13.06.2011, n. 349.
[13] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011.
[14] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011 e Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013,
n. 237.
[15] Si veda, al riguardo, la previsione di cui all'articolo
12 della legge 07.08.1990, n. 241.
[16] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[17] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011 e Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[18] Per completezza espositiva, si rinvia, anche, alla
legge regionale 18.08.2000, n. 20, recante 'Sistema
educativo integrato dei servizi per la prima infanzia', la
quale, all'articolo 10, declina una serie di attività
spettanti ai Comuni, volte al perseguimento delle finalità
poste dalla legge in riferimento, e consistenti nel voler
garantire il pieno esercizio dei diritti riconosciuti alle
bambine e ai bambini di età compresa tra i tre mesi e i tre
anni.
[19] Così, ANCI parere del 03.09.2014.
[20] Tra questi l'amministrazione potrebbe valutare
l'inserimento della previsione dell'accollo, da parte del
comodatario, di tutti gli oneri di manutenzione
dell'immobile dato in comodato. Ciò in quanto la Corte dei
Conti, in una propria pronuncia (Sez. reg.le contr. Puglia,
parere n. 170/2013, cit.), relativa all'ipotesi in cui il
comodante era un ente locale, dopo aver richiamato il
principio di redditività dei beni pubblici, ne ha ricavato
la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da
«qualunque onere di manutenzione, nessuno escluso». Ancorché
si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni
immobili dello Stato, si vedano, altresì, gli artt. 10,
comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della
Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono,
rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo
gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni
immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e
straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti
soggetti [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui
all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in
locazione a canone agevolato per finalità di interesse
pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi
sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze
primarie della collettività e in ragione dei princìpi
fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte
dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria
e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti [...]».
[21] Specificamente per la locazione, il Giudice
amministrativo (TAR Pescara, Sez. I, sentenza del
05.11.2008, n. 878) ha affermato che, anche in assenza di
specifica disposizione normativa che imponga l'adozione di
procedure concorrenziali per la selezione del contraente
privato, l'amministrazione deve osservare i fondamentali
canoni della trasparenza, dell'imparzialità e della par
condicio (sul tema si veda, anche, TAR Emilia Romagna,
Bologna, Sez. II, sentenza del 21.05.2008, n. 1978). Vero è
che, con riferimento al contratto di comodato, pare che il
rispetto di tali principi possa attuarsi osservando ed
applicando quei criteri predisposti in sede regolamentare,
l'applicazione dei quali dovrebbe consentire di attribuire
il bene, in presenza di una pluralità di richiedenti, a
colui che meglio pare soddisfare le esigenze della Pubblica
Amministrazione.
[22] Si osserva che l'articolo 27, commi settimo e ottavo,
della legge 27.07.1978, n. 392, prevede la possibilità, per
il conduttore, di recedere dal contratto nel caso in cui una
tale possibilità sia prevista contrattualmente o,
indipendentemente dalle previsioni contrattuali, qualora
ricorrano gravi motivi.
[23] Al riguardo, spetta all'Ente, in relazione alla
situazione concreta, esplicitare le ragioni che
giustificherebbero la stipulazione di un contratto non
comportante più un introito economico per lo stesso (o,
comunque, di entità ridotta rispetto ai valori di mercato).
Ad esempio, la determinazione di un canone di locazione
ridotto al di sotto dei normali prezzi di mercato potrebbe
risultare giustificata a fronte della previsione, nella
convenzione intercorrente tra il Comune ed il soggetto
gestore dell'asilo nido, di vantaggi ulteriori per la
collettività comunale, anche sotto il profilo delle tariffe
a carico dell'utenza. Ancora, si potrebbe presentare il caso
in cui, a fronte di una mutata situazione di fatto (minori
iscrizioni al nido; maggiori costi di gestione) non vi siano
più le condizioni per il mantenimento in vita del servizio
di asilo. In tale ultimo caso, spetta al Comune valutare se
la situazione prospettata sia oggettivamente tale da
giustificare e ritenere fondato il cambiamento di tipologia
contrattuale
(20.05.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
aprile 2015 |
|
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 28.04.2015, "Modalità
di aggiornamento dei dati relativi a reti e infrastrutture
sotterranee, ai sensi dell’art. 42, comma 3, della l.r.
7/2012 così come modificato dall’art. 19, comma 1, della
l.r. 19/2014 e disapplicazione della d.g.r. 21.11.2007, n.
5900 «Determinazioni in merito alle specifiche tecniche per
il rilievo e la mappatura georeferenziata delle reti
tecnologiche»" (deliberazione
G.R. 24.04.2015 n. 3461). |
PATRIMONIO: Opere
protettive in corrispondenza dei cavalcavia autostradali:
spettanza degli oneri manutentivi (parere
09.04.2015 n. 172688/89 di prot. -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015). |
PATRIMONIO:
Concessione in comodato d'uso di porzione d'immobile
comunale ad altra pubblica amministrazione.
1) Sebbene il comodato costituisca una
forma di utilizzo infruttifera e, quindi, non coerente con
il principio di redditività dei beni immobili delle PP.AA.,
il più recente indirizzo della Corte dei conti afferma che
non risulta precluso a priori, per l'ente locale, il ricorso
a tale contratto, quale forma di sostegno/contribuzione nei
confronti di attività di pubblico interesse, strumentali
alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) Dalla disciplina civilistica del comodato si evince, in
via generale, che le spese necessarie per l'uso della cosa
(ordinaria manutenzione) gravano sul comodatario, mentre
quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria
manutenzione) spettano al comodante.
Va, tuttavia, rappresentato che una Sezione regionale della
Corte dei conti, richiamando il principio di redditività dei
beni pubblici, afferma la necessità che l'ente locale
comodante sia perlomeno esentato dall'assunzione di
qualunque onere di manutenzione, 'nessuno escluso'.
Il Comune chiede di conoscere se, atteso il principio della
fruttuosità dei beni pubblici immobiliari, possa concedere
in comodato d'uso (fatto, comunque, salvo l'addebito dei
costi di funzionamento) una porzione d'immobile di sua
proprietà all'Azienda per l'assistenza sanitaria, con
vincolo di destinazione d'uso specifico di poliambulatorio
per l'assistenza primaria, destinato, pertanto,
all'erogazione diretta di un servizio a favore della
comunità amministrata.
Occorre, anzitutto, evidenziare che -come afferma costante
giurisprudenza [1]-
ai fini dell'individuazione dello strumento giuridico idoneo
ad attribuire in godimento un bene pubblico a soggetti
terzi, assume decisiva rilevanza la corretta qualificazione
giuridica del bene stesso. Infatti, la natura demaniale o
patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione
dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la
natura disponibile [2]
del bene implica il ricorso a contratti di stampo
privatistico (locazione, affitto di azienda, comodato)
[3].
Ciò posto, appare opportuno ricordare che il principio della
fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato
dall'art. 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni
dall'art. 32, comma 8 [4],
della legge 23.12.1994, n. 724, impone alle pubbliche
amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da
ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere
dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le
predette disposizioni «sono la chiara espressione della
volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di
tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia
che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad
uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma
3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di
immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali
quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724
del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del
patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali -già
prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il
principio della redditività secondo valori di mercato
discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono
astretti gli enti pubblici» [5].
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di
gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento
sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle
dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire
che esse «devono mirare all'incremento del valore
economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore
redditività finale» [6].
Il Collegio rileva, peraltro, che «il Comune non deve
perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato
soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei
beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche
curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità
amministrata [7]»
[8].
La Corte dei conti, dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto
di disposizione di un bene appartenente al patrimonio
pubblico deve comunque tener conto dell'obbligo di
assicurare una gestione 'economica' del bene stesso, in modo
da aumentarne la produttività in termini di entrate
finanziarie, obbligo che rappresenta una delle forme di
attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del
principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.)
del quale l'economicità della gestione amministrativa
costituisce il più significativo corollario (art. 1, Legge
n. 241/1990 e s.i.m.)», precisa che «è il legislatore stesso
che traccia i confini delle possibili eccezioni ai principi
generali appena richiamati» [9].
Al riguardo, la Corte dei conti richiama il già citato art.
32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni
annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile
dei comuni sono determinati in ragione delle loro
caratteristiche e a valori non inferiori a quello di
mercato, «fatti salvi gli scopi sociali»
[10], e
l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che
consente agli enti locali di concedere in comodato beni
mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per
fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale
ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento
delle loro attività istituzionali.
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate
eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...]
qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al
patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza e
pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che
dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il
che concerne, anche e primariamente, la scelta del
contraente cui concedere il bene in godimento)»
[11].
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione
assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario
del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la
Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che
appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate
condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato-
la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in
quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo
infruttifera, e dunque non in linea con il principio della
redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta
precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale
negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta
«nei confronti di attività di pubblico interesse,
strumentali alla realizzazione delle proprie finalità
istituzionali» [12].
Viene, altresì, rilevato che «il principio generale di
redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso
ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o
addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito
mediante lo sfruttamento economico dei beni»
[13].
Il Collegio contabile osserva, poi, che all'interno
dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore
degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga
uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni
immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente
locale [14]
giacché, stante la loro natura, essi vengono assoggettati,
in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della
discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del
proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo
evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che
intende perseguire con la stipula del negozio di comodato,
bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale
perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente
locale medesimo» [15].
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra
nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta
sulle modalità di gestione del proprio patrimonio
disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità
avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi
della comunità locale, nonché previa verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo»
[16].
La Corte dei conti chiarisce, poi, che «l'attribuzione
del 'vantaggio economico' [17]
al destinatario del comodato si giustifica solo ed
esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite
dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune»
[18], a
nulla rilevando la natura di tale destinatario, giacché «la
natura pubblica o privata del soggetto che riceve
l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta
attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini
pubblicistici dell'ente locale» [19].
Quanto al comodato a favore di altre pubbliche
amministrazioni, una Sezione della Corte dei conti,
esprimendosi sull'ammissibilità di concedere in uso beni
comunali alla regione, al fine di garantire la permanenza in
loco di alcuni uffici, osserva che la scelta non può
considerarsi pregiudizievole per le finanze del comodante,
considerato che la proprietà degli immobili rimane al
comune, che la gestione dei beni viene temporaneamente
trasferita da un'amministrazione locale all'altra e che
l'operazione nel suo complesso sottende la tutela
dell'interesse pubblico della comunità locale,
avvantaggiata, nella fruizione del servizio erogato dagli
uffici regionali, dal mantenimento di essi sul territorio
[20].
In altra e più recente occasione, la medesima Sezione
regionale afferma la legittimità della stipulazione di un
contratto di comodato per l'allocazione di una caserma
(della Guardia di finanza), stante l'assenza di oneri a
carico del comune, che rimane proprietario dell'immobile e
il ricorrere dell'interesse pubblico, per ragioni di
sicurezza, al mantenimento sul territorio di detto presidio
[21].
Per quanto attiene, più specificatamente, al caso di specie,
occorre inoltre segnalare al Comune la necessità di
verificare, con l'Azienda per l'assistenza sanitaria, che il
poliambulatorio per l'assistenza primaria che verrebbe
collocato nella porzione di immobile oggetto di comodato sia
adibito esclusivamente a presidio pubblico, vale a dire che
sia precluso, nei suoi locali, l'esercizio di attività
libero-professionale, nella considerazione che detta
attività si caratterizza per lo scopo di lucro
[22].
Stante quanto rappresentato, si osserva che la concessione
in comodato dei beni immobili della P.A. risulta subordinata
alla rigorosa osservanza delle condizioni previste dalla
Corte dei conti.
Relativamente, poi, alla questione concernente gli oneri da
porre a carico del comodatario -che l'Ente intenderebbe
limitare ai 'costi di funzionamento'- occorre
segnalare quanto segue.
L'art. 1803 del codice civile sancisce che il comodato «è
essenzialmente gratuito» (secondo comma) ed il successivo
art. 1804 dispone che «Il comodatario è tenuto a
custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon
padre di famiglia» (primo comma, primo periodo).
L'art. 1808 del medesimo codice chiarisce, quindi, che «Il
comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute
per servirsi della cosa» (primo comma) e che «Egli
però ha diritto di essere rimborsato delle spese
straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se
queste erano necessarie e urgenti» (secondo comma).
Sulla scorta di tali previsioni si può, dunque, ritenere
che, normalmente, le spese necessarie per l'uso della cosa
(ordinaria manutenzione) gravino sul comodatario
[23],
mentre quelle volte alla conservazione del bene
(straordinaria manutenzione) spettino, invece, al comodante
[24].
La Corte di cassazione precisa, infatti, che l'art. 1808 del
codice civile distingue fra spese sostenute per il godimento
della cosa e spese straordinarie, necessarie ed urgenti,
affrontate per conservarla, osservando che «al
comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non
necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né
sotto il profilo dell'art. 1150 c.c. perché egli non è
possessore, né sotto quello dell'art. 936 c.c. perché non è
terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né
infine sotto quello dell'art. 1595 c.c. in via di richiamo
analogico, perché un'indennità per i miglioramenti è negata
anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella
comodatario» [25].
Ferme restando, in termini generali, la norma civilistica e
l'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, si
ritiene opportuno segnalare, comunque, una pronuncia della
Corte dei conti che, trattando dell'ipotesi in cui comodante
è un ente locale e richiamando, perciò, il già citato
principio di redditività dei beni pubblici, ne ricava la
necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque
onere di manutenzione, nessuno escluso»
[26].
---------------
[1] Cfr. Corte di cassazione - Sez. III, sentenze
19.05.2000, n. 6482, 22.06.2004, n. 11608, 19.12.2005, n.
27931 e Sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Consiglio di Stato -
Sez. V, sentenze 16.05.2003, n. 1991 e 06.12.2007, n. 6265;
Corte dei conti - Sez. reg.le contr. Sardegna, parere
07.03.2008, n. 4.
[2] I beni patrimoniali disponibili sono beni che
appartengono all'ente pubblico uti privatorum: ciò significa
che essi non hanno una destinazione o, comunque, un'utilità
pubblica e, quindi, sono assoggettati, in linea di massima,
alla disciplina privatistica.
[3] Si segnala, al riguardo, che la Corte dei conti, Sez.
reg.le contr. Sardegna, parere n. 4/2008, ritiene che
«l'Ente locale non goda di discrezionalità nel compiere la
scelta tra i due strumenti di attribuzione in godimento a
soggetti terzi (concessione amministrativa e locazione) del
bene e che debba avere quale parametro di riferimento
esclusivo la natura (demaniale, patrimoniale indisponibile o
patrimoniale disponibile) del bene ed il regime giuridico
cui conseguentemente è sottoposto».
[4] «A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni
appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in
deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai
comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un
valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti
salvi gli scopi sociali».
[5] Corte dei conti - Sez. II giurisd. centrale d'appello,
sentenza 22.04.2010, n. 149.
[6] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 05.10.2012, n. 716.
[7] Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 («Spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei
servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed
utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze.») e dell'art. 16, comma 1, della
legge regionale 09.01.2006, n. 1 («Il Comune è titolare di
tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi
alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo
del territorio comunale, salvo quelle attribuite
espressamente dalla legge ad altri soggetti
istituzionali.»).
[8] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[9] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
[10] Tanto la Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012,
quanto la Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013,
chiariscono che la norma va letta in riferimento a quanto
previsto dal comma 3 dello stesso articolo che,
disciplinando i beni patrimoniali dello Stato, esclude
dall'incremento dei canoni annui una serie di categorie di
soggetti, tra cui le associazioni e le fondazioni con
finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali,
religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di
promozione sociale, con determinati requisiti.
La Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, la Sez.
reg.le contr. Lombardia, parere 06.05.2014, n. 172 e la Sez.
reg.le contr. Puglia, parere 15.12.2014, n. 216, affermano,
poi, che la deroga alla regola della determinazione di
canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato,
prevista dalla disposizione in esame, «appare giustificata
solo dall'assenza di scopo di lucro dell'attività
concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali
beni».
[11] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013 e, in
termini, Sez. reg.le contr. Lombardia, parere n. 172/2014,
che rileva come da un tanto consegua che «risulta rimessa
esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente
apprezzamento dell'ente, che si assume la responsabilità
della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e
gestionale dell'atto dispositivo, che dovrà risultare da una
chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[12] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33. In
tale sede, il Collegio chiarisce che «Ciò potrà avvenire,
però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra
i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla
discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che
dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del
provvedimento».
[13] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[14] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672
e 13.06.2011, n. 349.
[15] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011.
[16] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011 e Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013,
n. 237.
[17] Si ricorda che l'art. 12 della legge 07.08.1990, n.
241, dispone che: «1. La concessione di sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione
da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme
previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle
modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di
cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti
relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.».
[18] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[19] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011 e Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[20] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 25.07.2008, n. 23.
[21] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 216/2014.
[22] Come si è già segnalato nella seconda parte della nota
n. 10, alcune Sezioni regionali della Corte dei conti
sostengono che la deroga alla regola della determinazione
dei canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato,
prevista dall'art. 32, comma 8, della L. 724/1994, laddove
fa salvi gli scopi sociali, «appare giustificata solo
dall'assenza di scopo di lucro dell'attività concretamente
svolta dal soggetto destinatario di tali beni».
Occorre, infatti, ricordare che l'art. 36, comma 1,
dell'Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei
rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi
dell'art. 8 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 502,
prevede che lo studio del medico di assistenza primaria «è
considerato presidio del Servizio Sanitario Nazionale e
concorre, quale bene strumentale e professionale del medico,
al perseguimento degli obiettivi di salute del Servizio
medesimo nei confronti del cittadino, mediante attività
assistenziali convenzionate e non convenzionate retribuite»,
ma dispone, altresì, che «Lo studio del medico di medicina
generale, ancorché destinato allo svolgimento di un pubblico
servizio, è uno studio professionale privato.».
[23] Secondo una parte della dottrina (Fragali, Del
comodato, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1754-1812,
Bologna-Roma, 1966, 309; Luminoso, Comodato, in EG, VII,
Roma, 1988, 4), il comodatario non ha mai diritto al
rimborso, neanche a titolo di arricchimento, nel caso di
spese sostenute per la manutenzione ordinaria, la custodia e
la conservazione.
[24] Tant'è che il comodatario ha diritto di essere
rimborsato delle spese straordinarie, necessarie ed urgenti
per la conservazione della cosa, sostenute in luogo del
comodante.
[25] Sez. II civile, sentenza 27.01.2012, n. 1216.
Per quanto appaia una posizione isolata, si segnala che una
giurisprudenza di merito (Tribunale Bergamo, sentenza
20.11.2001) afferma che «ai sensi dell'articolo 1808, comma
1, del Codice civile, il comodante non ha l'obbligo di
consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all'uso
convenuto con il comodatario, spettando a quest'ultimo
sostenere tutte le spese necessarie per consentire detto
uso, derivino esse da opere di manutenzione ordinaria o
straordinaria. Pertanto, in un contratto di comodato che
conceda il godimento gratuito del bene, la clausola per cui
il comodatario assume l'obbligo di sostenere le opere di
ordinaria e straordinaria manutenzione, limitandosi a
rispettare il tipo legale, non può mai essere considerata
come pattuizione volta ad introdurre un corrispettivo del
godimento, ai fini della qualificazione del negozio come
locazione anziché come comodato. In presenza di una tale
clausola, rimane peraltro salvo, ai sensi del secondo comma,
il diritto del comodatario al rimborso delle spese per opere
di manutenzione straordinaria e urgenti, ove siano volte a
conservare la cosa».
[26] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, in cui
si afferma che «risulterà, dunque, davvero difficile
ravvisare detta condizione nel caso in cui l'accollo degli
oneri gestionali da parte del soggetto destinatario del bene
riguardi esclusivamente la manutenzione ordinaria, con
esclusione di quella straordinaria».
Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli
beni immobili dello Stato, si vedano gli artt. 10, comma 1,
e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica
13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che
«Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la
concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui
all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria
manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti:
[...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui
all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in
locazione a canone agevolato per finalità di interesse
pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi
sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze
primarie della collettività e in ragione dei princìpi
fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte
dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria
e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti: [...]»
(08.04.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
marzo 2015 |
|
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Condannato
il dirigente dell'UTC per l'affidamento diretto e per i
lavori di manutenzione straordinaria effettuati in qualità
di locatario.
Tra l'altro, lavori di "somma urgenza" sono stati affidati
direttamente in violazione ai principi di trasparenza,
rotazione e parità di trattamento, così come disciplinati
dal comma 8 dell'art. 125 del Codice dei Contratti, tanto
più che detti lavori di manutenzione straordinaria
dell'immobile avrebbero dovuto essere posti a carico del
proprietario e non dell'amministrazione locataria.
Vieppiù, non appare correttamente seguita la procedura
prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del
Regolamento del Comune per le Spese in Economia, in quanto
non risulta in atti che sia stato redatto "apposito
verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza,
le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per
rimuoverlo", né che al verbale de quo -da
compilare a cura del responsabile del procedimento o di un
tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di
un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa
attendere la redazione di un vero e proprio progetto-
costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa
dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura
finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia
stato "allegato alla determina di affidamento della
prestazione".
---------------
L'AVCP
ha rilevato la non corretta
applicazione da parte del comune "delle norme del Codice dei Contratti ed in
particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha
interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli
appalti, in difformità del rispetto dei principi di
trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia
ciò che realmente indica l'illiceità
della spesa sopportata dal Comune è il fatto che si è
trattato in netta prevalenza (ad eccezione della
realizzazione di un servizio igienico per disabili e della
costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso,
sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili
opere necessarie per conservare all'immobile la sua
destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di
comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è
adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una
certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il
locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni
necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione,
che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese
ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il
proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione
straordinaria.
La L. 392/14978
(Disciplina delle locazioni di immobili urbani)
prevede più specificamente che sono interamente a carico del
conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al
servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria
manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua,
dell'energia elettrica, del riscaldamento e del
condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e
delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi
comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione
dell’immobile prevede all’art. 5 che "l’ordinaria
manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di
Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della
disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli
stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli
interventi di carattere straordinario restano a carico del
locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono
di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore
dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono
principalmente consistiti nella realizzazione di lavori
necessari per ricondurre la struttura in buono stato
locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali
i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e
tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti,
sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino
dei serramenti in ferro).
---------------
Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente
seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i
"Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune per le Spese in Economia,
in quanto non risulta in atti che sia
stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i
motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno
provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al
verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del
procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente
seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che
-qualora non si possa attendere la redazione di un vero e
proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per
definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la
relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il
predetto verbale sia stato "allegato alla determina di
affidamento della prestazione".
---------------
C.
Sgombrato il campo dalle questioni pregiudiziali e
preliminari proposte dalle difese dei convenuti, il Collegio
può esaminare in punto di merito la vicenda descritta nella
premessa in fatto.
Deve quindi procedersi alla verifica
della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi tipici
della responsabilità amministrativa che, com’è noto, si
sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente
valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una
condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di
causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso,
nonché nella sussistenza di un rapporto di servizio fra
coloro che lo hanno determinato e l'ente che lo ha subito.
D.
Con riferimento, in primo luogo, all’elemento oggettivo
del danno pubblico, la valutazione della relativa
sussistenza nel caso di specie impone l'attenta valutazione
degli atti di causa, dai quali risulta quanto segue.
Con relazione informativa n. 108/09 del 06.04.2009
l'ASL NA
2 Nord
- Dipartimento di Prevenzione - Servizio Prevenzione
e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro - Servizio Igiene e
Medicina del Lavoro
dava comunicazione di quanto emerso nel
corso degli accertamenti effettuati durante l'ispezione
svolta il 23.03.2009 presso l'Ufficio Anagrafe del Comune di
Afragola situato in via SS. Cuori, ovvero della rilevata
inosservanza di talune disposizioni dettate in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro (D.Lgs. n. 81/2008),
impartendo, di conseguenza, una serie di prescrizioni, cui
il datore di lavoro (individuato su delega del Sindaco del
Comune di Afragola nell'Ing. M.D., Responsabile del
Settore Recupero Urbano e Servizi Collettivi al Cittadino
del medesimo Comune)
avrebbe dovuto curare la puntuale
ottemperanza entro novanta giorni dalla data del verbale de
quo; contestualmente, l'ASL decretava, considerata la
situazione di pericolo derivante dall'inosservanza delle
prescrizioni indicate, il divieto d'uso dei locali adibiti
ad Ufficio Anagrafe del Comune di Afragola.
L'immobile de quo era condotto in locazione dall'Ente in
forza di contratto n. 1713 del 22.07.1998, stipulato con il
proprietario Istituto SS. Cuori, nel quale era stato
pattuito un canone mensile di £. 3.535.323, per complessive
£. 42.423.876 annue (da aggiornare con indici ISTAT).
Con determinazione dirigenziale n. 92/C del 12.06.2009
del
Responsabile del Settore Lavori Pubblici e Assetto del
Territorio ing. N.B.
si stabiliva, facendo
riferimento alla Relazione Informativa ASL NA 2 Nord n.
108/09 dianzi citata e dando atto dell'urgenza ed
indifferibilità ex art. 9 Regolamento Comunale delle Spese
in Economia approvato con deliberazione C.S. n. 119 del
07.04.2007 dei lavori di risistemazione e adeguamento dello
stabile da eseguire in ottemperanza alle prescrizioni
impartite dall'Azienda Sanitaria Locale, di affidare i
lavori de quibus all’impresa RDR di M. V. e R. s.n.c.
in forza di un precedente contratto d’appalto, n. 3181 del
24.09.2008, avente ad oggetto la manutenzione ordinaria e
straordinaria degli immobili comunali, ed utilizzando lo
stesso ribasso d’asta (34,105%), in ragione della
dichiarazione di disponibilità dell'impresa all'esecuzione
immediata dei lavori agli stessi patti e condizioni del
contratto n. 3181/2008 già in essere.
Il contratto da
stipulare in esecuzione della determinazione dirigenziale n.
92/C del 12.06.2009 è stato poi sottoscritto in data
16.07.2009, per un importo netto contrattuale di € 50.136,51
comprensivo di oneri di sicurezza. Infine, con determina
dirigenziale n. 161/C del 24-09-2009 è stato approvato il
primo ed unico SAL per un importo di € 48.780,52 oltre
I.V.A..
Con successiva determinazione dirigenziale n. 178 del
17.02.2010 del Responsabile del Settore Lavori Pubblici e
Assetto del Territorio ing. N.B., è stato approvato
un ulteriore progetto dell’importo di €. 83.860,00, di cui
€. 68.737,72 per lavori, contenente opere rese necessarie
sempre dalle prescrizioni dell’Azienda Sanitaria, di cui al
verbale n. 108/09 dell’Azienda sanitaria Locale Napoli 2
Nord; i predetti lavori sono stati affidati all’impresa
Coop. S., in forza di un precedente contratto,
stipulato in relazione ai lavori di manutenzione
straordinaria ed ordinaria annualità 2009/2010 dei plessi
scolastici di competenza dell’Ente Comunale della città di
Afragola per un importo contrattuale di € 136.869,78 -a
seguito di gara e con un ribasso d’asta del 34,463%-
applicando lo stesso ribasso d’asta (del 34,463%, appunto)
per un importo di € 46.707,52, comprensivo di € 4.906,97 per
oneri di sicurezza;
anche in questo caso l'affidamento è
avvenuto ai sensi dell’art. 9 del Regolamento delle Spese in
Economia dell’Ente, già richiamato per statuire l'urgenza e
l'indifferibilità dei lavori nella determinazione n.
92/C/2009 di cui si è detto in precedenza. La copertura
finanziaria è stata assicurata dall’economia risultante dal
ribasso d’asta dell’appalto originario.
Nella premessa della determinazione dirigenziale n. 178/2010
vengono, altresì richiamati due verbali di riunione,
tenutesi rispettivamente il 07.01.2010 ed il 22.01.2010 tra
il Vice-Sindaco ed i dirigenti dei vari Settori del Comune
di Afragola -la prima riunione, anche con la partecipazione
del segretario comunale- in cui era stata ribadita "la
necessità della sistemazione dei locali posti al primo piano
dell'Ufficio Anagrafe in via SS. Cuori", con particolare
riferimento alla scala delle stanze situate al primo piano
dello stabile, all'impianto elettrico, alle toilettes, a
bussole e finestre ed alla realizzazione di tompagnatura in
alcuni ambienti.
Dalla lettura della prot. n. 19922 del 02.08.2010 del
Dirigente del Settore A.T./LL.PP. comunale ing. N.B., emerge che i lavori affidati alla prima impresa RDR
di M. V. e R. s.n.c. hanno interessato il piano terra
dello stabile e solo marginalmente il primo piano,
quest'ultimo con lavori di piccola entità, e che con i
lavori aggiuntivi affidati alla Coop S. in forza
della determina n. 178 del 17.02.2010, sono stati completati
i lavori di sistemazione del primo piano, previo
trasferimento degli uffici al piano terra.
Più in dettaglio -come illustrato nella medesima nota dianzi
indicata, trasmessa a riscontro di richiesta di chiarimenti
e informazioni dell'AVCP- i primi lavori sono consistiti in:
A) ristrutturazione dell’intero piano terra dello stabile in
via SS. Cuori, previo sgombero dell’intero archivio e
trasporto di materiale al macero, rifacimento della
partizione interna, realizzazione degli impianti elettrico,
idrico, di riscaldamento e climatizzazione, realizzazione di
nuovi servizi igienici di cui uno per disabili, sistemazione
dell’ingresso principale con la costruzione di una rampa di
accesso per disabili, realizzazione di controsoffittatura,
nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e
tinteggiatura dell’intero edificio, sostituzione delle porte
interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro;
B) lavori di piccola entità al primo piano del medesimo
stabile nei locali adibiti ai servizi igienici, quali
sostituzione di n. 4 vasi igienici nei wc, sostituzione e
ripristino di piccole parti di pavimentazione (in totale mq.
4 di pavimentazione), sostituzione dei serramenti nei locali
wc e ripristino intonaco nel corridoio principale.
Per i lavori del secondo affidamento (impresa Coop.
S.), invece, gli interventi da eseguire sono
dettagliatamente indicati nel verbale di riunione del
22.01.2010:
1. spostamento dell’archivio storico dalla precedente sede
alla stanza n. 3 indicata nell’allegato grafico;
2. chiusura, con realizzazione di muri, dei due ingressi al
corridoio di destra e di sinistra;
3. sistemazione delle tre stanze identificate ai nn. 1, 2 e
3, con ripristino delle parti ammalorate di intonaco,
ritinteggiatura complessiva, sostituzione degli infissi e
delle porte interne, dei vetri ove non a norma, rifacimento
dell’impianto elettrico, nonché realizzazione dell’impianto
di rilevazione incendi e verifica del solaio di calpestio
destinato all’archivio storico;
4. sostituzione degli infissi esistenti e della porta di
accesso ai locali adibiti a servizi igienici al primo piano;
5. rifacimento dell’impermeabilizzazione al solaio di
copertura del torrino scala;
6. rifacimento dell’intonaco al soffitto del vano scala,
ritinteggiatura complessiva e sistemazione dell’impianto
elettrico.
La realizzazione dei lavori de quibus è stata oggetto di
alcune note (n. 46270 del 14.07.2010, n. 70175 del
11.10.2010 e n. 30609 del 18.03.2011, quest'ultima già
citata in precedenza per aver costituito lo spunto per
l'apertura delle indagini eseguite dal requirente
contabile), due istruttorie ed una di definizione
dell'istruttoria medesima, dell'A.V.C.P. (Autorità di
Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e
Forniture), la quale ha rilevato la non corretta
applicazione da parte della stazione appaltante (il Comune
di Afragola) "delle norme del Codice dei Contratti ed in
particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha
interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli
appalti, in difformità del rispetto dei principi di
trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia -come puntualmente e condivisibilmente evidenziato
dal PM di udienza-
ciò che realmente indica l'illiceità
della spesa sopportata dal Comune di Afragola a fronte dei
lavori precedentemente descritti, è il fatto che si è
trattato in netta prevalenza (ad eccezione della
realizzazione di un servizio igienico per disabili e della
costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso,
sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili
opere necessarie per conservare all'immobile la sua
destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di
comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è
adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una
certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il
locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni
necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione,
che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese
ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il
proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione
straordinaria.
La L. 392/14978
(Disciplina delle locazioni di immobili urbani)
prevede più specificamente che sono interamente a carico del
conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al
servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria
manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua,
dell'energia elettrica, del riscaldamento e del
condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e
delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi
comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione
dell’immobile prevede all’art. 5 che "l’ordinaria
manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di
Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della
disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli
stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli
interventi di carattere straordinario restano a carico del
locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono
-come
giustamente osservato nell'atto introduttivo del giudizio-
di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore
dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono
principalmente consistiti nella realizzazione di lavori
necessari per ricondurre la struttura in buono stato
locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali
i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e
tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti,
sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino
dei serramenti in ferro).
Non a caso, infatti, era lo stesso Ente locale a riferire
alla competente Procura della Repubblica di Napoli -nella
nota n. 2183 del 26/01/2011 del Responsabile del Settore
A.T. e LL.PP. ing. N.B., odierno convenuto- che
“... la proprietà dei locali occupati dal personale di Stato
Civile dell’Amministrazione Comunale di Afragola non rientra
tra quelle disponibili dell’Ente e pertanto, è palese la
impossibilità giuridica di questo Ente di effettuare
interventi di manutenzione straordinaria quali sono quelli
finalizzati all’adeguamento ai sensi del T.U. 81/2008
(sicurezza sui luoghi di lavoro)”.
Erano proprio le prescrizioni dell’ASL NA 2 Nord indicate
nella Relazione Informativa n. 108/09 sopra citata, inoltre,
ad attestare uno stato di particolare degrado dell’immobile
locato, per il quale, dunque, deve dedursi che non siano
stati svolti e pretesi nel tempo -ovvero, per tutta la
ventennale durata del rapporto locativo- gli interventi
manutentivi necessari.
Poiché, dunque, i lavori realizzati in esecuzione delle
determinazioni n. 92/C/2009 e n. 178/2010 del Dirigente del
Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio, sono di
straordinaria manutenzione, i relativi oneri non avrebbero
dovuto essere sopportati dal Comune di Afragola, in
sostituzione e con diretto vantaggio patrimoniale del
soggetto proprietario, bensì avrebbero dovuto essere sì
effettuati in tempi rapidi, ma poi posti a carico -detratti
i costi sostenuti per realizzare i prescritti adeguamenti
strutturali per disabili- del proprietario dello stabile.
Poiché ciò non è avvenuto -ed anzi l'ing. N.B. ha
escluso nella nota interna n. 3327/AT dell’11.09.2012 che
potesse avvenire, in aperto contrasto con quanto in un primo
momento da lui stesso osservato nella nota n. 2183 del
26.01.2011 sopra citata-
il Collegio ritiene che il Comune
di Afragola abbia senz'altro subito, in relazione alla
vicenda dianzi descritta, un pregiudizio economico.
Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente
seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i
"Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune di
Afragola per le Spese in Economia, approvato con delibera
C.S. n. 119 del 07.04.2007 (integrata da successiva delibera
n C.S. n. 133 del 12.07.2007) -cui pure fa riferimento la
difesa del convenuto-
in quanto non risulta in atti che sia
stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i
motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno
provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al
verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del
procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente
seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che
-qualora non si possa attendere la redazione di un vero e
proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per
definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la
relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il
predetto verbale sia stato "allegato alla determina di
affidamento della prestazione".
In merito alla quantificazione del danno sopra descritto e
ritenuto sussistente nella fattispecie, il Collegio osserva,
preliminarmente, che con nota segretariale n. 440/Seg del
05.11.2012 del Comune di Afragola è stata trasmessa la nota
interna n. 3981/AT del 31.10.2012, in cui vengono indicate
in € 60.631,39 e in € 57.418,03 le spese sostenute per
effetto delle determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178
del 17.02.2010, che secondo la prospettazione attorea
costituiscono danno erariale per l'intero importo (€
118.049,42 = € 60.631,39 + € 57.418,03).
Tuttavia, il Collegio ritiene di dover rivedere la proposta
quantificazione tenendo conto, come rilevato anche dal PM di
udienza, della spesa che il Comune di Afragola avrebbe
comunque dovuto sostenere in proprio -senza cioè poterla
porre a carico del proprietario dello stabile adibito ad
Ufficio Anagrafe comunale- per la realizzazione di una rampa
d’accesso e di un servizio igienico per disabili,
complessivamente quantificabile in € 15.000,00, tenendo
conto dei costi medi di mercato di siffatte dotazioni
strutturali.
Poiché tali dotazioni strutturali sono state
realizzate con il primo affidamento (disposto con la
determinazione n. 92/C del 12.06.2009), è l'importo erogato
in relazione ad esso (€ 60.631,39) che va ridotto nella
predetta misura (€ 15.000,00) ai fini della presente
sentenza, risultando quindi pari a 45.631,39, cui va
comunque aggiunto l'importo di € 57.418,03 erogato a seguito
della determinazione n. 178 del 17.02.2010, con la
conseguenza che il pregiudizio economico complessivamente
subito dal Comune di Afragola in relazione all'esaminata
vicenda risulta pari ad € 103.049,42 (= € 45.631,39 + €
57.418,03).
E.
Ciò posto, e rilevata sotto il profilo del rapporto di
servizio la sussistenza della relazione d'immedesimazione
organica tra l'odierno convenuto -all'epoca dei fatti
Dirigente del Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio
del Comune di Afragola- ed il medesimo Ente locale, va poi
osservato, per quel che concerne il nesso di causalità
rilevabile tra il danno descritto e quantificato in
precedenza e la condotta tenuta dal convenuto medesimo, che
la prospettazione attorea, secondo cui il nocumento
patrimoniale subito dal predetto Ente per effetto
dell'esaminata vicenda sarebbe a lui addebitabile in toto in
relazione alla determina dirigenziale n. 92/C/2009 e nella
misura del 50% in riferimento alla successiva determina n.
178/2010, è ad avviso del Collegio, condivisibile, per aver
egli adottato le determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n.
178 del 17.02.2010, più volte citate in precedenza, mediante
le quali si è stabilito l'affidamento dei lavori da
eseguirsi sul bene privato senza porne contestualmente a
carico del proprietario il relativo onere economico e senza,
comunque, adottare alcuna statuizione in tale direzione.
Nel contempo,
è del pari condivisibile l'indicazione fornita
dal requirente nell'atto introduttivo del giudizio, secondo
cui la spesa erogata a seguito dell'effettuazione dei lavori
affidato con la determina n. 178/2010 (€ 57.418,03) va posta
al carico dell'ing. N.B. soltanto nella percentuale
del 50%, dovendo essere il restante 50% addebitato al
comportamento tenuto dai partecipanti (vice-sindaco,
segretario comunale, vari dirigenti, amministratori e
funzionari del Comune di Afragola) alle conferenze di
servizi e riunioni che hanno preceduto l'adozione della
predetta determina, in quanto nel corso di essa era stata
discussa la problematica dei lavori da effettuare nello
stabile di via SS. Cuori destinato ad Ufficio Anagrafe
comunale, con un pronunciamento favorevole agli stessi
(avvenuto nel verbale del 07.01.2010 e confermato con
modifiche nei lavori in data 22.01.2010), "influenzato sia
dall’esigenza di completare l’ottemperanza alle prescrizioni
dell’ASL che dalla necessità dell’Ufficio anagrafe di
ricevere in consegna delle apparecchiature ordinate (elettroarchivi
rotanti), fornitura per la quale la ditta interessata
denunciava danni di natura economica per il protrarsi
dell’impossibilità alla consegna e al collaudo imputabile
all’Ente" (cfr. atto di citazione, pagg. 12-13).
F.
Riguardo, infine, all'elemento soggettivo dell'illecito
amministrativo-contabile in controversia, che la Procura ha
indicato come colpa grave, questo deve, del pari essere
ritenuto sussistente per il convenuto N.B., per
aver egli adottato le suindicate determine senza poi porre
in essere alcuna attività finalizzata a porre a carico del
proprietario dell'immobile l'onere economico sostenuto per
far eseguire i lavori necessari per provvedere alla
straordinaria manutenzione di esso.
Il disinteresse dimostrato dal B. in ordine alle
conseguenze economicamente pregiudizievoli per l'Ente
determinate dal suo operato, emerge, altresì, dal fatto che,
come da egli stesso rappresentato nella nota interna n.
3327/AT dell’11.09.2012 (costituente riscontro a foglio
istruttorio richiedente [anche] la corrispondenza intercorsa
con il locatore per l’esecuzione dei lavori
[autorizzazioni]), i rapporti con il proprietario
dell'immobile erano avvenuti in modo verbale, ossia del
tutto irritualmente.
Né assumono efficacia scriminante le circostanze indicate
dallo stesso B. nella relazione illustrativa redatta il
09.06.2009 (ed allegata alla determina n. 92/C del
12.06.2009), in cui egli evidenzia che il Datore di Lavoro,
indicato dall'ASL nel Dirigente del Settore Recupero Urbano
e Servizi Collettivi al Cittadino del Comune di Afragola
ing. M.D., non aveva assunto sino a quella data
alcuna iniziativa intesa ad ottemperare alle prescrizioni
impartite dall'ASL nella Relazione Informativa n. 108/09 e
che, per contro, il medesimo ing. B. -"che lavora al
meglio per il funzionamento della macchina comunale"- si sia
in tale relazione illustrativa dichiarato disponibile anche
a risolvere la problematica dell'Ufficio Anagrafe, potendo,
tutt'al più, tali circostanze rappresentare motivo di
esercizio del potere riduttivo dell'addebito.
Nel contempo, il Collegio ritiene di condividere la
prospettazione esposta nell'atto introduttivo del giudizio,
anche laddove non si ravvisa a carico dei partecipanti alle
conferenze di servizi e riunioni che hanno preceduto la
determina n. 178 del 17.02.2010 -di cui sopra si è detto- la
sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa grave,
essendosi tali soggetti pronunciati unicamente a favore
dell'effettuazione in via d'urgenza dei lavori necessari per
adeguare l'immobile ospitante l'Ufficio Anagrafe comunale
alle prescrizioni della locale Azienda Sanitaria, ma non
certamente per tenere indenne il locatore, con pregiudizio
economico per l'Ente, dagli oneri derivanti dai lavori de quibus.
G.
Conclusivamente,
questo Collegio ritiene che
l'effettuazione a carico del Comune di Afragola dei lavori
di straordinaria manutenzione dell'immobile privato condotto
in locazione quale sede dell'Ufficio Anagrafe comunale,
affidati con le determine n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178
del 17.02.2010,
sia stato il frutto -almeno in via
prevalente, nelle misure suindicate- della condotta
gravemente colposa attribuibile all'odierno convenuto
e che
la conseguente erogazione della somma di € 103.049,42, nel
configurarsi come un danno ingiusto all’Ente vada a questi
addebitata nell'importo di € 45.631,39 + € 28.709,01 (50% di
€ 57.418,03) = € 74.340,40, da sottoporre ad ulteriore
riduzione, nella misura ritenuta equa del 20%,
nell'esercizio del potere attribuito al Giudice Contabile
dall'art. 52 TUCL n. 1214 del 1934, risultando dunque
quantificato, infine, in € 59.472,32 (= 80% di € 74.340,40).
Su dette somme dovranno essere applicati, innanzitutto, la
rivalutazione monetaria, da calcolarsi secondo gli indici
ISTAT, dall’esborso e fino al giorno della pubblicazione
della presente sentenza, nonché gli interessi legali sulla
somma così rivalutata dalla predetta pubblicazione al
soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania,
sentenza 09.03.2015 n. 253). |
febbraio 2015 |
|
PATRIMONIO: Sulla
gestione del demanio marittimo (parere
27.02.2015 n. 100167/196 di prot. -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015). |
PATRIMONIO:
Acquisizione di beni e servizi da parte dei Comuni non
capoluogo del Friuli Venezia Giulia. Acquisizione del codice
identificativo gara (CIG/SmartCig).
Come stabilito dal novellato art. 53,
comma 2, della legge regionale 26/2014, fino al 30.06.2015 i
Comuni non capoluogo possono procedere autonomamente (ossia
in forma non aggregata) all'acquisizione di beni e servizi.
Resta fermo l'obbligo, ai sensi dell'art. 1, comma 450,
della legge 296/2006, di fare ricorso al mercato elettronico
della PA (MePA) per l'acquisizione di beni e servizi di
importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario
(207.000 euro), permanendo tuttavia, ai sensi del comma 449,
ivi richiamato, la facoltà di ricorrere alle convenzioni
CONSIP, ovvero di rivolgersi al libero mercato, ma in tal
caso nel rispetto dei parametri di prezzo-qualità fissati
dalle convenzioni CONSIP, che costituiscono limite massimo
per la stipula dei contratti.
L'Ente, che è un Comune non capoluogo di provincia e con una
popolazione inferiore a 10.000 abitanti, chiede come debbano
procedere i Comuni della Regione Friuli Venezia Giulia per
ottenere uno SmartCig [1]
ai fini dell'acquisizione di beni e servizi di importo
inferiore a 40.000 euro; in particolare, è interessato alle
procedure al di fuori di Consip e del mercato elettronico.
Sentito il Servizio Centrale unica di committenza, di questa
Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Sul piano dell'ordinamento statale, le novelle apportate
dall'art. 9, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n.
66 [2], all'art. 33, comma 3-bis del Codice dei contratti
pubblici hanno introdotto l'obbligo, per i Comuni non
capoluogo di provincia, di acquisire lavori, servizi e
forniture attraverso determinate modalità di aggregazione.
In alternativa alle acquisizioni in forma aggregata, tali
Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli
strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o
da altro soggetto aggregatore. L'ANAC non rilascia CIG (e
SmartCig) ai Comuni che procedano all'acquisizione di
lavori, beni e servizi in violazione degli adempimenti
previsti dalla normativa richiamata. La decorrenza di tali
obblighi è fissata all'01.01.2015 per quanto concerne
l'acquisizione di beni e servizi, secondo quanto disposto
dall'art. 23-ter, comma 1, del decreto legge 24.06.2014, n.
90 [3].
Inoltre, ai sensi del successivo comma 3 del medesimo art.
23-ter, i Comuni con popolazione superiore ai 10.000
abitanti possono procedere autonomamente (ossia in forma non
aggregata) per acquisiti di importo inferiore a 40.000 euro.
In ambito regionale, il legislatore è intervenuto in materia
di centralizzazione della committenza con la legge regionale
12.12.2014, n. 26 [4],
entrata in vigore l'01.01.2015, la quale ha disposto
l'istituzione della Centrale unica di committenza regionale,
che costituisce una delle forme di attuazione delle
disposizioni statali sulla razionalizzazione della spesa e
sugli obblighi di aggregazione degli acquisti (art. 43).
Il comma 2 dell'art. 53 della LR 26/2014, ha stabilito che 'Ferma
restando l'attività programmatoria da espletarsi nel corso
del 2015, la Centrale unica di committenza regionale opera a
favore degli enti locali a decorrere dall'01.01.2016;'
(primo periodo), 'trova frattanto applicazione la disciplina
statale in materia di centralizzazione della committenza,
con facoltà per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia di
avvalersi delle forme associative previste dalla normativa
regionale' (secondo periodo).
Il secondo periodo del comma 53 è stato successivamente
novellato dall'art. 34 della legge regionale 13.02.2015, n.
1, che lo ha così sostituito: 'nelle more della sua
attivazione e della istituzione delle Unioni territoriali
intercomunali, gli enti locali, fino al 30.06.2015,
continuano a svolgere singolarmente le attività contrattuali
con facoltà di avvalersi delle forme associative previste
dalla normativa regionale vigente'.
Ne consegue che fino al 30.06.2015 tutti gli enti locali
della Regione, a prescindere dalla dimensione demografica e
dalla soglia di importo, possono acquistare beni e servizi
in forma autonoma, cioè senza obbligo di aggregazione.
Le acquisizioni devono essere effettuate nel rispetto,
ovviamente, delle leggi vigenti: per importi inferiori alla
soglia di rilievo comunitario rimane fermo, dunque,
l'obbligo di acquisto di beni e servizi in via telematica,
previsto dall'art. 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n.
296, che così recita: 'Dal 01.07.2007, le amministrazioni
statali centrali e periferiche (...), per gli acquisti di
beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo
comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione di cui
all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449
[5] del
presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
nonché le autorità indipendenti, per gli acquisti di beni e
servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo
comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri
mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo
328 [6]
(...).'
Il comma 450 fa dunque salve le ulteriori possibilità
previste dal comma 449, che consistono nel ricorso alle
convenzioni-quadro o all'utilizzo dei rispettivi parametri
di prezzo-qualità come limiti massimi [7].
In conclusione, fino al 30.06.2015, i Comuni non capoluogo
possono procedere autonomamente (ossia in forma non
aggregata) all'acquisizione di beni e servizi, fermo
l'obbligo, ai sensi dell'art. 1, comma 450, della legge
296/2006, di fare ricorso al MEPA o alle convenzioni CONSIP
per l'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore
alla soglia di rilievo comunitario (207.000 euro), con la
possibilità di rivolgersi al libero mercato, nel rispetto
dei parametri di prezzo-qualità fissati dalle convenzioni
Consip come limiti massimi per la stipula dei contratti.
Per quanto riguarda la scelta tra le opzioni offerte dall'ANAC
in sede di acquisizione di CIG/SmartCig [8],
si ritiene che fino alla predetta data i Comuni non
capoluogo possano dichiarare di trovarsi nella situazione di
non recepimento della normativa statale da parte della
Regione a statuto speciale [9].
---------------
[1] Lo SmartCig consiste in un CIG in modalità
semplificata o in un carnet di CIG. Il CIG ottenuto in
questa modalità può essere utilizzato per
micro-contrattualistica (contratti di lavori di importo
inferiore a 40.000, ovvero contratti di servizi e forniture
di importo inferiore a 40.000, affidati ai sensi dell'art.
125 del Codice o mediante procedura negoziata senza previa
pubblicazione del bando) e contratti esclusi in tutto o in
parte dell'applicazione del Codice.
[2] 'Misure urgenti per la competitività e la giustizia
sociale', decreto convertito in legge, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 23.06.2014, n. 89.
[3] 'Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza
amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari',
decreto convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, della legge 11.08.2014, n. 114.
[4] Recante 'Riordino del sistema Regione-Autonomie locali
nel Friuli Venezia Giulia. Ordinamento delle Unioni
territoriali intercomunali e riallocazione di funzioni
amministrative'.
[5] ' Nel rispetto del sistema delle convenzioni di cui agli
articoli 26 della legge 23.12.1999, n. 488, e successive
modificazioni, e 58 della legge 23.12.2000, n. 388, tutte le
amministrazioni statali centrali e periferiche, ivi compresi
gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le
istituzioni educative e le istituzioni universitarie, sono
tenute ad approvvigionarsi utilizzando le
convenzioni-quadro. Le restanti amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, e successive modificazioni, nonché le autorità
indipendenti, possono ricorrere alle convenzioni di cui al
presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero
ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti
massimi per la stipulazione dei contratti. (...)'
[6] L'art. 328 dispone che, fatti salvi i casi di ricorso
obbligatorio al mercato elettronico previsti dalle norme in
vigore, ai sensi dell'art. 85, comma 13, del Codice dei
contratti, la stazione appaltante può stabilire di procedere
all'acquisto di beni e servizi attraverso il mercato
elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante
(laddove presente) ovvero attraverso il mercato elettronico
della pubblica amministrazione realizzato dal Ministero
dell'economia e delle finanze sulle proprie infrastrutture
tecnologiche avvalendosi di Consip S.p.A. (MePA) ovvero
attraverso il mercato elettronico realizzato dalle centrali
di committenza di riferimento di cui all'articolo 33 del
Codice.
[7] Cfr. Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per
la Liguria, deliberazione n. 64/2014 del 10/11/2014, secondo
cui l'interpretazione congiunta dei commi 449 e 450, nel
senso che l'obbligo di ricorso al mercato elettronico tiene
conto delle facoltà previste dal comma 449 che ricomprendono
la possibilità per gli enti locali di rivolgersi al libero
mercato con il limite imperativo dello stesso
prezzo-qualità/quantità previsto dal sistema delle
convenzioni CONSIP, si coordina con il principio generale di
economicità dell'azione amministrativa.
[8] In sede di acquisizione del CIG, l'ANAC chiede alla
stazione appaltante di dichiarare se:
1) intende procedere all'acquisizione secondo le modalità indicate
dall'art. 9, comma 4, D.L. n. 66/2014, oppure dall'art.
23-ter del D.L. n. 90/2014;
2) il suo territorio ricade in una regione a statuto speciale o in
una provincia che non ha ancora recepito nel proprio
ordinamento le disposizioni di cui all'art. 9, comma 4, D.L.
n. 66/2014.
[9] Peraltro, in caso di utilizzo degli strumenti
elettronici o di acquisti inferiori ai 40.000 euro da parte
dei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, le
stazioni appaltanti possono dichiarare di procedere ai sensi
dell'art. 9, comma 4, DL 66/2014 o dell'art. 23-ter del DL
90/2014 (opzione ANAC n. 1)
(26.02.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Concessione, in comodato d'uso, di immobili degli enti
consorziati a favore del Consorzio.
1) Secondo un orientamento della Corte
dei conti, anche se il comodato, in quanto contratto
gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e
dunque non in linea con il principio di redditività dei beni
immobili delle pubbliche amministrazioni, non risulta
precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale
negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta
nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali
alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) Dalle previsioni contenute negli artt. 1803, 1804 e 1808
cod. civ. e dall'interpretazione fornita dalla Corte di
cassazione si evince, in via generale, che le spese
necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione)
gravano sul comodatario, mentre quelle volte alla
conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettano
al comodante.
Si segnala, peraltro, che una Sezione reg.le della Corte dei
conti, trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente
locale e richiamando, perciò, il principio di redditività
dei beni pubblici, afferma la necessità che l'ente sia
quantomeno esentato dall'assunzione di qualunque onere di
manutenzione.
Il Consorzio, al quale aderiscono tutti i comuni della
provincia di riferimento e la stessa amministrazione
provinciale, gestisce i servizi e gli interventi a favore
delle persone disabili giovani e adulte [1],
operando in diverse sedi, di cui la minima parte (n. 3) sono
di proprietà del Consorzio medesimo, mentre le altre sono di
proprietà di alcuni dei comuni consorziati (n. 6) ed una
dell'amministrazione provinciale.
Attualmente, l'uso, da parte del Consorzio, dei predetti
beni comunali e provinciale, avviene sulla base di contratti
di locazione o di concessione a titolo oneroso o gratuito,
con una spesa di circa 90.000,00 euro annui, 'con le
relative ricadute sul bilancio e sulle quote consortili
dovute dagli enti consorziati'.
Al fine di pervenire al contenimento della spesa dei
servizi, il Consorzio -che ha natura pubblica, gestisce
funzioni degli enti consorziati e persegue finalità sociali
e non lucrative- chiede di conoscere se, in deroga al
principio della fruttuosità dei beni immobili della pubblica
amministrazione:
1) risulti ammissibile che, previa regolamentazione dei
soggetti proprietari, gli immobili comunali e provinciale
possano essere concessi in comodato d'uso al Consorzio;
2) se il Consorzio possa fruire di tale agevolazione,
provvedendo a farsi carico delle sole manutenzioni
ordinarie.
In via preliminare, occorre segnalare che -come afferma
costantemente la giurisprudenza [2]-
ai fini dell'individuazione dello strumento giuridico idoneo
ad attribuire in godimento un bene pubblico a soggetti
terzi, assume decisiva rilevanza la corretta qualificazione
giuridica del bene stesso. Infatti, la natura demaniale o
patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione
dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la
natura disponibile [3]
del bene implica il ricorso a contratti di stampo
privatistico (locazione, affitto di azienda, comodato)
[4].
Ciò posto, appare opportuno ricordare che il principio della
fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato
dall'art. 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni
dall'art. 32, comma 8 [5],
della legge 23.12.1994, n. 724, impone alle pubbliche
amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da
ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere
dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le
predette disposizioni «sono la chiara espressione della
volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di
tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia
che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad
uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma
3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di
immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali
quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724
del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del
patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali -già
prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il
principio della redditività secondo valori di mercato
discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono
astretti gli enti pubblici» [6].
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di
gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento
sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle
dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire
che esse «devono mirare all'incremento del valore
economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore
redditività finale» [7].
Più recentemente, la Corte dei conti, dopo aver ribadito
che, di norma, «l'atto di disposizione di un bene
appartenente al patrimonio pubblico deve comunque tener
conto dell'obbligo di assicurare una gestione 'economica'
del bene stesso, in modo da aumentarne la produttività in
termini di entrate finanziarie, obbligo che rappresenta una
delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche
Amministrazioni del principio costituzionale di buon
andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della
gestione amministrativa costituisce il più significativo
corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)»,
precisa che «è il legislatore stesso che traccia i
confini delle possibili eccezioni ai principi generali
appena richiamati» [8].
Al riguardo, la Corte dei conti rammenta il già citato art.
32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni
annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile
dei comuni sono determinati in ragione delle loro
caratteristiche e a valori non inferiori a quello di
mercato, «fatti salvi gli scopi sociali»
[9], e
l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che
consente agli enti locali di concedere in comodato beni
mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per
fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale
ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento
delle loro attività istituzionali.
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate
eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...]
qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al
patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza e
pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che
dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il
che concerne, anche e primariamente, la scelta del
contraente cui concedere il bene in godimento)».
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione
assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario
del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la
Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che
appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate
condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato
[10]- la
concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in
quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo
infruttifera, e dunque non in linea con il principio della
redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta
precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale
negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta
nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali
alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali
[11].
Pertanto, osserva la Corte, «il principio generale di
redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso
ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o
addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito
mediante lo sfruttamento economico dei beni»
[12].
Una Sezione regionale del Collegio contabile rileva che,
all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di
settore degli enti territoriali, non esiste alcuna norma che
ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito
di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile
dell'ente locale [13].
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della
discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del
proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo
evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che
intende perseguire con la stipula del negozio di comodato,
bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale
perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente
locale medesimo» [14].
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra
nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta
sulle modalità di gestione del proprio patrimonio
disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità
avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi
della comunità locale, nonché previa verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo»
[15].
Per quanto fin qui esposto, si osserva che la concessione in
comodato al Consorzio, da parte degli enti proprietari dei
beni in oggetto, risulta subordinata alla rigorosa
osservanza delle condizioni richieste dalla Corte dei conti.
Si ritiene, comunque, di dover segnalare che la mancata
redditività dei beni che verrebbero concessi in comodato
parrebbe tradursi, nella sostanza, in una maggiore
partecipazione finanziaria alle spese di funzionamento del
Consorzio da parte degli enti comodanti, rispetto alle altre
amministrazioni aderenti al Consorzio medesimo.
Quanto alla questione concernente la possibilità che il
comodatario provveda a farsi carico degli oneri derivanti
dalle sole manutenzioni ordinarie, si segnala quanto segue.
Occorre, anzitutto, rammentare che l'art. 1803, secondo
comma, del codice civile, dispone che il comodato «è
essenzialmente gratuito».
Ciò posto, l'art. 1804, primo comma, primo periodo, del
codice civile, dispone che «Il comodatario è tenuto a
custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon
padre di famiglia» ed il successivo art. 1808 prevede
che «Il comodatario non ha diritto al rimborso delle
spese sostenute per servirsi della cosa» (primo comma) e
che «Egli però ha diritto di essere rimborsato delle
spese straordinarie sostenute per la conservazione della
cosa, se queste erano necessarie e urgenti» (secondo
comma).
Sulla scorta di tali previsioni si può, dunque, ritenere -in
via generale- che le spese necessarie per l'uso della cosa
(ordinaria manutenzione) debbano gravare sul comodatario
[16],
mentre quelle volte alla conservazione del bene
(straordinaria manutenzione) spettino, invece, al comodante
[17].
La Corte di cassazione precisa che l'art. 1808 del codice
civile distingue fra spese sostenute per il godimento della
cosa e spese straordinarie, necessarie ed urgenti,
affrontate per conservarla, osservando che «al
comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non
necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né
sotto il profilo dell'art. 1150 c.c. perché egli non è
possessore, né sotto quello dell'art. 936 c.c. perché non è
terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né
infine sotto quello dell'art. 1595 c.c. in via di richiamo
analogico, perché un'indennità per i miglioramenti è negata
anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella
comodatario» [18].
Ferme restando, in termini generali, la norma civilistica e
l'interpretazione che la Corte di cassazione fornisce della
stessa, si segnala una pronuncia della Corte dei conti che,
trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente locale e
richiamando, perciò, il già citato principio di redditività
dei beni pubblici, ne ricava la necessità che l'ente
medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque onere di
manutenzione, nessuno escluso» [19].
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. e), f), g), h)
ed i) della L.R. 41/1996.
[2] Cfr. Corte di cassazione -Sez. III, sentenze 19.05.2000,
n. 6482, 22.06.2004, n. 11608, 19.12.2005, n. 27931 e Sez.
V, 31.08.2007, n. 18345; Consiglio di Stato- Sez. V,
sentenze 16.05.2003, n. 1991 e 06.12.2007, n. 6265; Corte
dei conti - Sez. reg.le contr. Sardegna, parere 07.03.2008,
n. 4.
[3] I beni patrimoniali disponibili sono beni che
appartengono all'ente pubblico uti privatorum: ciò significa
che essi non hanno una destinazione o, comunque, un'utilità
pubblica e, quindi, sono assoggettati, in linea di massima,
alla disciplina privatistica.
[4] Si segnala, al riguardo, che la Corte dei conti, Sez.
reg.le contr. Sardegna, parere n. 4/2008, cit., ritiene che
«l'Ente locale non goda di discrezionalità nel compiere la
scelta tra i due strumenti di attribuzione in godimento a
soggetti terzi (concessione amministrativa e locazione) del
bene e che debba avere quale parametro di riferimento
esclusivo la natura (demaniale, patrimoniale indisponibile o
patrimoniale disponibile) del bene ed il regime giuridico
cui conseguentemente è sottoposto».
[5] «A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni
appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in
deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai
comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un
valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti
salvi gli scopi sociali».
[6] Corte dei conti - Sez. II giurisd. centrale d'appello,
sentenza 22.04.2010, n. 149.
[7] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 05.10.2012, n. 716.
[8] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
Sul punto, cfr., in termini, Sez. reg.le contr. Veneto,
parere n. 716/2012, cit..
[9] Entrambi i pareri citati in nota n. 8 chiariscono che la
norma va letta in riferimento a quanto previsto dal comma 3
dello stesso articolo che, disciplinando i beni patrimoniali
dello Stato, esclude dall'incremento dei canoni annui una
serie di categorie di soggetti, tra cui le associazioni e le
fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive,
assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le
associazioni di promozione sociale, con determinati
requisiti.
[10] Secondo la Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri
17.06.2010, n. 672 e 13.06.2011, n. 349 «la natura pubblica
o privata del soggetto che riceve l'attribuzione
patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi
la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici
dell'ente locale».
[11] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33, il
quale chiarisce che «Ciò potrà avvenire, però, solo a
seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari
interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla
discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che
dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del
provvedimento».
V. anche Sez. reg.le contr. Puglia, parere 25.07.2008, n. 23
che, con riferimento alla concessione in comodato di beni
comunali alla Regione, ai fini del mantenimento in loco di
alcuni uffici, osserva che la scelta non può considerarsi
pregiudizievole per le finanze del comodante, considerato
che: a) la proprietà degli immobili permane in capo al
Comune; b) la gestione dei beni viene temporaneamente
trasferita da un'amministrazione locale (comune) all'altra
(regione); c) sottesa all'operazione nel suo complesso
permane la tutela dell'interesse pubblico della comunità
locale, avvantaggiata, nella fruizione del servizio erogato
dagli uffici regionali, dal mantenimento di essi sul
territorio.
Si veda anche Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013,
cit., secondo cui «l'attribuzione del 'vantaggio economico'
al destinatario del comodato si giustifica solo ed
esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite
dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune».
[12] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, cit..
[13] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010, cit.
e n. 349/2011, cit..
[14] V. anche Sez. reg.le contr. Campania, parere
10.07.2013, n. 237.
[15] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010, cit.
e n. 349/2011, cit..
[16] Secondo una parte della dottrina (Fragali, Del
comodato, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1754-1812,
Bologna-Roma, 1966, 309; Luminoso, Comodato, in EG, VII,
Roma, 1988, 4), il comodatario non ha mai diritto al
rimborso, neanche a titolo di arricchimento, nel caso di
spese sostenute per la manutenzione ordinaria, la custodia e
la conservazione.
[17] Tant'è che il comodatario ha diritto di essere
rimborsato delle spese straordinarie, necessarie ed urgenti
per la conservazione della cosa, sostenute in luogo del
comodante.
[18] Sez. II civile, sentenza 27.01.2012, n. 1216.
Per quanto appaia una posizione isolata, si segnala che una
giurisprudenza di merito (Tribunale Bergamo, sentenza
20.11.2001) afferma che «ai sensi dell'articolo 1808, comma
1, del Codice civile, il comodante non ha l'obbligo di
consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all'uso
convenuto con il comodatario, spettando a quest'ultimo
sostenere tutte le spese necessarie per consentire detto
uso, derivino esse da opere di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
Pertanto, in un contratto di comodato che conceda il
godimento gratuito del bene, la clausola per cui il
comodatario assume l'obbligo di sostenere le opere di
ordinaria e straordinaria manutenzione, limitandosi a
rispettare il tipo legale, non può mai essere considerata
come pattuizione volta ad introdurre un corrispettivo del
godimento, ai fini della qualificazione del negozio come
locazione anziché come comodato. In presenza di una tale
clausola, rimane peraltro salvo, ai sensi del secondo comma,
il diritto del comodatario al rimborso delle spese per opere
di manutenzione straordinaria e urgenti, ove siano volte a
conservare la cosa».
[19] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, cit., in
cui si afferma che «risulterà, dunque, davvero difficile
ravvisare detta condizione nel caso in cui l'accollo degli
oneri gestionali da parte del soggetto destinatario del bene
riguardi esclusivamente la manutenzione ordinaria, con
esclusione di quella straordinaria».
Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli
beni immobili dello Stato, si vedano gli artt. 10, comma 1,
e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica
13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che
«Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la
concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui
all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria
manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti
[...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui
all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in
locazione a canone agevolato per finalità di interesse
pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi
sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze
primarie della collettività e in ragione dei princìpi
fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte
dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria
e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti [...]»
(04.02.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
gennaio 2015 |
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PATRIMONIO - URBANISTICA: Sula
realizzazione, e relativa cessione al Comune, di opere di
urbanizzazione secondaria, realizzate a scomputo degli oneri
derivanti dal permesso a costruire nell’attuazione di
specifica convenzione con soggetti privati.
Se l’immobile, frutto dell’eventuale realizzazione a
scomputo di opere di urbanizzazione, possa essere oggetto di
concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo
gratuito o in diritto di superficie.
Attualmente
non è più vigente la precedente norma
preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni
immobili, contenuta nel successivo comma 1-quater
dell’indicato art. 12 del d.l. 98/2011, anch’essa introdotta
dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Pertanto, dal 2014, è stato introdotto un regime che, al
fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a
quelli previsti dal patto di stabilità interno, consente
operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di
comprovata indispensabilità ed indilazionabilità,
presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella
motivazione del provvedimento adottato dall’Amministrazione,
non passibile di valutazione, da parte della Sezione
regionale di controllo, in sede di esercizio della funzione
consultiva.
Elemento
discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina
limitativa è dato dalla presenza di un contratto in cui
“l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del
rapporto giuridico, determini comunque un esborso
finanziario a carico del soggetto pubblico”.
La formulazione della norma
disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli
acquisti a titolo derivativo iure privatorum”.
La specifica questione posta dal comune trova
risposta nella deliberazione della Sezione n. 220/2013/PAR,
nella quale, scrutinando l’eventuale soggezione
dell’acquisizione al patrimonio comunale di opere di
urbanizzazione a scomputo all’esposta disciplina limitativa,
è stato precisato che la realizzazione di tali opere (sia
primarie che secondarie) avviene a seguito di un contratto
assimilato all’appalto di lavori pubblici (cfr. art. 32,
comma 1, lett. g, e art. 122, comma 8, d.lgs. n. 163/2006).
Tanto che al privato titolare del permesso di costruire è
imposto di seguire le procedure di evidenza pubblica (cfr.
sentenza della Corte di Giustizia europea, 12.07.2001
C399/1998, "Scala 2001", poi recepita dal legislatore
nazionale). Ne deriva che la riferita disciplina legislativa
all’acquisto di beni immobili non appare conferente nei
limiti in cui concerne un contratto di compravendita, e non
di appalto.
E’ vero, infatti, che l’ente locale acquisisce al patrimonio
un’opera pubblica, e quindi un bene immobile, ma l’art. 12
del d.l. n. 98/2011 vieta(va) l’acquisto di immobili a
titolo oneroso, non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è
mera conseguenza, differito nel tempo, dell’operazione)
dell’appalto di lavori pubblici. Anche la disciplina
limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione
dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la
congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la
pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito
sul sito internet dell’ente) appare riferita alla
fattispecie civilistica della compravendita, non a quella
dell’appalto.
---------------
E' possibile richiamare i principi generali che devono
presidiare eventuali attribuzioni patrimoniali a terzi, in
particolare il conseguimento di finalità conformi alle
missioni istituzionali di un ente locale.
Si è avuto modo di precisare che
se
un’eventuale attribuzione (in termini finanziari o di
concessione di diritti personali di godimento) è motivata
dalla soddisfazione di esigenze della collettività
rientranti nelle finalità perseguite dall’Ente, anche se
apparentemente a fondo perduto, non equivale ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che percepisce il contributo.
Si è ricordato, sotto questo profilo, come l’art. 118 della
Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire
l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per
lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base
del principio di sussidiarietà.
Naturalmente, se un ente locale, al pari di ogni altro ente
pubblico, ricorre a soggetti terzi per raggiungere i propri
fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura
patrimoniale, deve adottare specifiche cautele, anche al
fine di garantire l’applicazione dei principi di buon
andamento, parità di trattamento e non discriminazione, che
devono caratterizzare l’attività amministrativa.
Sotto
questo profilo, è necessario evidenziare i presupposti di
fatto ed il percorso logico alla base dell’attribuzione di
un contributo o altro beneficio a sostegno dell’attività
svolta dal destinatario. Tale attribuzione, in ogni caso,
deve risultare conforme al principio di congruità, mediante
una valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell’ente locale.
---------------
Il Sindaco del comune di Bottanuco, con nota del 13/11/2014,
ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto
l’eventuale ricorrenza del divieto di acquisto di immobili
nel caso di convenzione urbanistica prevedente, a carico del
privato, quale opera di urbanizzazione, la realizzazione di
un’opera da destinare a uso pubblico.
Il Comune intende addivenire ad una convenzione urbanistica
con un soggetto privato, ai sensi dell’art. 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, e dell’art. 46 della legge
regionale 11.03.2005, n. 12. A scomputo degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, intende fare eseguire
al soggetto attuatore opere di urbanizzazione secondaria, di
importo inferiore alla soglia comunitaria, con le modalità
previste dal combinato disposto degli artt. 32, comma 1,
lett. g), e 122, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006.
L’Amministrazione riferisce di aver individuato, quale opera
di urbanizzazione a carico del privato, la realizzazione, su
area di proprietà comunale, di una struttura da concedere ad
associazioni locali a titolo gratuito a fronte di
prestazioni rivolte a conseguire fini sociali e a promuovere
lo sviluppo economico e civile della comunità locale (quali
la manutenzione e gestione di un parco in cui si inserisce
la struttura stessa).
L’immobile, in relazione alle sue
caratteristiche morfologiche, sarebbe classificato quale
opera di urbanizzazione secondaria, secondo la definizione
dall’art. 4 della legge n. 847/1964, come integrato
dall’art. 44 della legge n. 865/1971, dall’art. 17 della
legge n. 67/1988, dall’art. 26 della legge n. 38/1990 e
dall’art. 58 del d.lgs. n. 22/1997.
Il sindaco precisa che la questione ha notevole incidenza
sul bilancio dell’ente e sulla sua corretta formazione,
attenendo ai principi ed ai limiti anche temporali imposti
per l'obiettivo del contenimento della spesa pubblica. Pone
pertanto i seguenti quesiti:
1) con il primo, articolato in tre istanze, chiede lumi
sulla portata dell’art. 1, comma 138, della legge 24.12.2012 n. 228, laddove prevede che, a decorrere dal
01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare
operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano
comprovate documentalmente l'indispensabilità e l’indilazionabilità,
attestate dal responsabile del procedimento. In particolare
chiede se:
a) devono ritenersi rientranti nella disciplina limitativa
ora esposta, la realizzazione, e relativa cessione al
Comune, di opere di urbanizzazione secondaria, a scomputo
degli oneri urbanistici, realizzate nell’attuazione di
specifica convenzione con i soggetti privati;
b) qualora la realizzazione dell’opera in premessa fosse
compatibile con i vigenti dettami normativi, se l’immobile
possa essere oggetto di concessione o cessione alle
associazioni cittadine a titolo gratuito o in diritto di
superficie;
2) con il secondo quesito, chiede se il Comune possa
affidare al privato la realizzazione, in nome e per conto
dell’amministrazione, dei lavori di cui trattasi.
...
Con il primo quesito il comune chiede lumi sulla portata dell’art. 1,
comma 138, della legge di stabilità n. 228/2012, nella parte
in cui prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli
enti territoriali possano effettuare operazioni di acquisto
di immobili solo ove ne siano comprovate l'indispensabilità
e l’indilazionabilità, attestate dal responsabile del
procedimento.
Il quesito involge la corretta interpretazione del disposto
di cui all’art. 12 del d.l. n. 98/2011, convertito con legge
n. 111/2011, come novellato dall'art. 1, comma 138, della
legge n. 228/2012. La disposizione in commento è stata varie
volte scrutinata dalla Sezione, da ultimo nelle
deliberazioni n. 299/2014/PAR e n. 97/2014/PAR, ove è stato
appunto chiarito come, a decorrere dal 01.01.2014, gli
enti locali possano effettuare operazioni di acquisto di
beni immobili nei limiti e con le modalità previste dal
comma 1-ter del citato art. 12 del d.l. n. 98/2011,
introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Attualmente, quindi,
non è più vigente la precedente norma
preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni
immobili, contenuta nel successivo comma 1-quater
dell’indicato art. 12 del d.l. 98/2011, anch’essa introdotta
dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011 dispone infatti
che, “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a
risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal
patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti
del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente”.
Pertanto, dal 2014, è stato introdotto un regime che, al
fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a
quelli previsti dal patto di stabilità interno, consente
operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di
comprovata indispensabilità ed indilazionabilità,
presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella
motivazione del provvedimento adottato dall’Amministrazione,
non passibile di valutazione, da parte della Sezione
regionale di controllo, in sede di esercizio della funzione
consultiva.
In particolare, il Sindaco chiede se devono ritenersi
rientranti nella disciplina legislativa limitativa ora
esposta, la realizzazione, e relativa cessione al Comune, di
opere di urbanizzazione secondaria, realizzate a scomputo
degli oneri derivanti dal permesso a costruire
nell’attuazione di specifica convenzione con soggetti
privati.
Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della
disposizione, la Sezione, con la deliberazione n.
164/2013/PAR, ha precisato, in linea generale, che
elemento
discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina
limitativa è dato dalla presenza di un contratto in cui
“l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del
rapporto giuridico, determini comunque un esborso
finanziario a carico del soggetto pubblico”.
In aderenza, la
Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n.
148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma
disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli
acquisti a titolo derivativo iure privatorum” (in tal senso
si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la
Puglia, con deliberazione n. 89/PAR/2013).
La specifica questione posta dal comune di Bottanuco trova
risposta nella deliberazione della Sezione n. 220/2013/PAR,
nella quale, scrutinando l’eventuale soggezione
dell’acquisizione al patrimonio comunale di opere di
urbanizzazione a scomputo all’esposta disciplina limitativa,
è stato precisato che la realizzazione di tali opere (sia
primarie che secondarie) avviene a seguito di un contratto
assimilato all’appalto di lavori pubblici (cfr. art. 32,
comma 1, lett. g, e art. 122, comma 8, d.lgs. n. 163/2006).
Tanto che al privato titolare del permesso di costruire è
imposto di seguire le procedure di evidenza pubblica (cfr.
sentenza della Corte di Giustizia europea, 12.07.2001
C399/1998, "Scala 2001", poi recepita dal legislatore
nazionale). Ne deriva che la riferita disciplina legislativa
all’acquisto di beni immobili non appare conferente nei
limiti in cui concerne un contratto di compravendita, e non
di appalto.
E’ vero, infatti, che l’ente locale acquisisce al patrimonio
un’opera pubblica, e quindi un bene immobile, ma l’art. 12
del d.l. n. 98/2011 vieta(va) l’acquisto di immobili a
titolo oneroso, non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è
mera conseguenza, differito nel tempo, dell’operazione)
dell’appalto di lavori pubblici. Anche la disciplina
limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione
dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la
congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la
pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito
sul sito internet dell’ente) appare riferita alla
fattispecie civilistica della compravendita, non a quella
dell’appalto.
Nell’ultima parte del quesito, il sindaco chiede se
l’immobile, frutto dell’eventuale realizzazione a scomputo
di opere di urbanizzazione, possa essere oggetto di
concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo
gratuito o in diritto di superficie.
Sul punto, come ricordato nella deliberazione n.
92/2014/PAR, la Sezione non può esprimere valutazioni
preventive in merito ad una fattispecie concreta riguardante
la disciplina dei rapporti, finanziari o patrimoniali, fra
l’Ente ed altri soggetti, pubblici o privati. Tale verifica
viene infatti effettuata nell’esercizio delle funzioni di
controllo sulla gestione finanziaria, demandate dall’art.
148-bis del d.lgs. n. 267/2000 e dall’art. 1, commi 166 e
167, della legge n. 266/2005.
Tuttavia, come di recente
affermato nella deliberazione n. 262/2014/PAR,
è possibile
richiamare i principi generali che devono presidiare
eventuali attribuzioni patrimoniali a terzi, in particolare
il conseguimento di finalità conformi alle missioni
istituzionali di un ente locale. Si rinvia, in generale,
alle deliberazioni della Sezione n. 9/2006, n. 10/2006, n.
18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n.
75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011,
n. 262/2012, n. 218/2014/PAR.
In quelle occasioni si è avuto modo di precisare che
se
un’eventuale attribuzione (in termini finanziari o di
concessione di diritti personali di godimento) è motivata
dalla soddisfazione di esigenze della collettività
rientranti nelle finalità perseguite dall’Ente, anche se
apparentemente a fondo perduto, non equivale ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che percepisce il contributo.
Si è ricordato, sotto questo profilo, come l’art. 118 della
Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire
l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per
lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base
del principio di sussidiarietà.
Naturalmente, se un ente locale, al pari di ogni altro ente
pubblico, ricorre a soggetti terzi per raggiungere i propri
fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura
patrimoniale, deve adottare specifiche cautele, anche al
fine di garantire l’applicazione dei principi di buon
andamento, parità di trattamento e non discriminazione, che
devono caratterizzare l’attività amministrativa.
Sotto
questo profilo, è necessario evidenziare i presupposti di
fatto ed il percorso logico alla base dell’attribuzione di
un contributo o altro beneficio a sostegno dell’attività
svolta dal destinatario. Tale attribuzione, in ogni caso,
deve risultare conforme al principio di congruità, mediante
una valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell’ente locale (Corte dei conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 26.01.2015 n. 21). |
PATRIMONIO:
Legge 24.12.2012, n. 228, art. 1, comma 141. Limiti di spesa
per l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma 141, della legge
24.12.2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013), dispone che le
amministrazioni inserite nel conto economico della pubblica
amministrazione debbano rispettare determinati vincoli di
spesa nel procedere all'acquisto di mobili ed arredi negli
anni 2013 e 2014.
Posto che detta disposizione ha individuato espressamente il
periodo di applicazione, nulla prevedendo per gli anni
successivi, e che la legge 23.12.2014, n. 190 (Legge di
stabilità 2015) non prevede analoghe misure per l'anno in
corso, si ritiene che al momento tali vincoli di spesa non
sussistano.
Il Comune chiede un parere sull'interpretazione dell'art. 1,
comma 141, della legge 24.12.2012, n. 228, relativo alle
limitazioni di spesa per l'acquisto di mobili e arredi, a
carico delle pubbliche amministrazioni.
Precisa l'Ente che, a seguito dello spostamento in un nuovo
archivio comunale di numerosi cartolari attualmente
depositati in vari uffici comunali non rispondenti alle
normative specifiche di settore (nonché inadeguati alla
detenzione di materiale di archivio per il pericolo di
umidità e allagamenti), si rende necessaria l'acquisizione
di apposite scaffalature. L'Amministrazione comunale, prima
di procedere all'individuazione e all'acquisto di tali
strutture volte al completamento ed alla messa in funzione
dell'archivio, si chiede se esse vadano considerate arredi,
e pertanto soggette ai limiti di spesa di cui all'art. 1,
comma 141, della L. 228/2012, o se possano essere intese
come attrezzature.
La richiamata norma dispone che: 'Ferme restando le
misure di contenimento della spesa già previste dalle
vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1,
comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 (...) non possono
effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento
della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per
l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso
scolastico e dei servizi d'infanzia, salvo che l'acquisto
sia funzionale alla riduzione di spese connesse alla
conduzione degli immobili. (...)'.
Sentito il Servizio finanza locale, si osserva innanzitutto
che la norma, inserita nella legge di stabilità per il 2013,
opera un espresso riferimento alle spese che le
amministrazioni pubbliche, nel dettaglio individuate,
avrebbero effettuato negli anni 2013 e 2014, nulla
prevedendo per quelli successivi. Oltre a questo, si deve
considerare che la legge 23.12.2014, n. 190 (Legge di
stabilità 2015), pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso
29 dicembre, non prevede analoghe misure per l'anno in
corso.
Di conseguenza, si ritiene superato il quesito posto
dall'Ente instante sull'appartenenza delle scaffalature alla
categoria merceologica degli arredi o a quella delle
attrezzature, essendo venuto meno il limite di spesa
previsto dalla norma già richiamata
(16.01.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Non sussiste uno specifico
divieto normativo per la concessione in uso gratuito di beni
immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente
locale (in quanto tali assoggettabili alla disciplina
privatistica non avendo una specifica destinazione), ma
dovrà trovare applicazione la disciplina generale dei
provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta
nell’art. 12 della l. 07.08.1990, n. 241 in quanto tale
tipo di concessione costituisce atto di per sé idoneo a
determinare un’attribuzione di “vantaggio economico” in
favore di un soggetto di diritto privato, nonostante sia
previsto, come nel caso di specie, l’accollo in capo ad esso
degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria.
D’altro canto, in linea generale, sono ammissibili deroghe
(come sarebbe per l’ipotesi del comodato ad uso gratuito)
alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico secondo
criteri privatistici di redditività e di convenienza
economica, atteso che gli enti locali, in quanto enti a fini
generali, devono comunque curare gli interessi e promuovere
lo sviluppo della comunità amministrata, ove venga
perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura
superiore rispetto a quello che viene raggiunto mediante lo
sfruttamento economico dei beni.
Nondimeno la deroga al principio generale
di redditività del bene pubblico può essere giustificata
“solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività
concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni”, verificando non solo lo scopo o le finalità
perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le
modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che
coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione.
Inoltre, nel caso di specie, la cooperativa sociale ONLUS –quale ente accreditato istituzionale ai sensi dell’art. 17
della l.r. n. 18/2008- potrebbe arrivare a beneficiare
(oltre che del comodato d’uso gratuito) di un secondo
vantaggio economico, ossia di contributi da parte della
Regione per l'erogazione del servizio specifico; contributi
probabilmente quantificati anche in ragione degli oneri
derivanti dall'uso dell’immobile, i quali, pertanto,
troverebbero una idonea e sufficiente “copertura”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Casacalenda ha trasmesso una
richiesta di parere nella quale si chiede di conoscere “se
sia legittimo e conforme alle regole di contabilità pubblica
che un Comune affidi in comodato d’uso gratuito ad una
Cooperativa sociale ONLUS un immobile appartenente al
patrimonio disponibile del Comune per finalità di interesse
pubblico, individuabile segnatamente nella necessità di
ospitare presso tale immobile una struttura ad alta
intensità terapeutico socio-riabilitativa (CRP), gestita
dalla medesima cooperativa in regime di accreditamento
istituzionale con il servizio sanitario regionale,
addossando ad essa tutti gli oneri di manutenzione ordinaria
e straordinaria”.
...
Il quesito oggetto della richiesta di parere del Comune di Casacalenda, che verte sulla richiesta di indicazione della
concreta scelta gestionale da effettuarsi da parte dell’Ente
nel caso specifico prospettato, oltre a non potersi ritenere
afferente ad un quesito generale ed astratto, come sopra
chiarito, in materia contabile, è al contrario –evidentemente- rivolto ad ottenere da parte della Corte
delle indicazioni specifiche destinate a ripercuotersi
sull’attività gestionale concreta, non potendo un eventuale
parere non avere implicazioni sulle concrete scelte
gestionali che l’Ente si troverà ad operare nell’ambito de
quo e che, come tali, sono rimesse all’esclusivo prudente
apprezzamento dell’Ente stesso: ne consegue la sua
inammissibilità sotto il profilo oggettivo.
Il quesito,
infatti, non investe una questione di rilevanza generale, ma
richiede alla Sezione di esprimere una valutazione che
attiene ad una attività gestionale dell’Ente. In proposito,
si richiama il principio per cui le richieste di parere
devono avere rilevanza generale e non possono essere
funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde
salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e
la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della
Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante
nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa,
adottare le scelte concrete sulla gestione
amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative
opportune cautele e valutazioni che la sana gestione
richiede.
Ad ogni modo, la Sezione ritiene opportuno delineare in
questa sede i principi generali che, in parte già espressi
da questa Corte, potranno essere presi in considerazione
dall’ente nell’adozione del provvedimento gestionale oggetto
della richiesta di parere.
In particolare si ricorda che la giurisprudenza contabile ha
già avuto modo di precisare che, all’interno
dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore
degli enti territoriali, non sussiste uno specifico divieto
normativo per la concessione in uso gratuito di beni
immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente
locale. E ciò in quanto i beni patrimoniali disponibili,
appartenendo all’Ente pubblico uti privatorum, non hanno una
specifica destinazione o, comunque, un’utilità pubblica e
vengono pertanto assoggettati, in linea di principio, alla
disciplina privatistica.
Tuttavia, occorre altresì considerare che la concessione in
uso gratuito di un bene immobile, facente parte del
patrimonio disponibile di un ente locale, costituisce atto
di per sé idoneo a determinare un’attribuzione di “vantaggio
economico” in favore di un soggetto di diritto privato,
nonostante sia previsto, come nel caso di specie, l’accollo
in capo ad esso degli oneri di manutenzione ordinaria e
straordinaria.
Dovrà, pertanto, trovare applicazione la
disciplina generale dei provvedimenti attributivi di
vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della l. 07.08.1990, n. 241, che, sotto la rubrica “Provvedimenti
attributivi di vantaggi economici”, stabilisce che
“la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed
ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono
subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da
parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste
dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui
le amministrazioni stesse devono attenersi” e che
“l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui
al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi
agli interventi di cui al medesimo comma 1”.
In secondo luogo, occorre altresì considerare che
l’indirizzo politico legislativo degli ultimi anni riconosce
alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico una
valorizzazione ordinariamente finalizzata all'utilizzo dei
beni secondo criteri privatistici di redditività e di
convenienza economica, il che finisce per rappresentare una
delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche
Amministrazioni del principio costituzionale di buon
andamento (art. 97 Cost.), del quale l’economicità della
gestione amministrativa costituisce il più significativo
corollario (art. 1, legge n. 241/1990 e ss.ii.mm.).
Tuttavia, considerando che gli enti locali non devono
perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato
esclusivamente economico in senso stretto nell'utilizzazione
dei beni patrimoniali, ma, in quanto enti a fini generali,
devono comunque curare gli interessi e promuovere lo
sviluppo della comunità amministrata, in linea generale sono
ammesse deroghe (come sarebbe per l’ipotesi del comodato ad
uso gratuito), ove venga perseguito un interesse pubblico
equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che
viene raggiunto mediante lo sfruttamento economico dei beni.
L’ente locale pertanto, oltre a dover rispettare le proprie
norme regolamentari e i principi generali dettati dalla l.
n. 241/1990, è tenuto non solo ad indicare “le finalità
pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del
negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che
l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è
deputato l’ente locale medesimo” (Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n.
672/2010/PAR).
In particolare, “la concessione in comodato
di beni di proprietà dell’ente locale è da ritenersi
ammissibile nei casi in cui sia perseguito un effettivo
interesse pubblico equivalente o addirittura superiore
rispetto a quello meramente economico ovvero nei casi in cui
non sia rinvenibile alcun scopo di lucro nell’attività
concretamente svolta dal soggetto utilizzatore di tali beni”
(Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, deliberazione n. 172/2014/PAR).
A tal ultimo riguardo, si evidenzia inoltre che la Sezione
regionale di controllo per il Veneto (deliberazione n.
716/2012/PAR, in linea di continuità con quanto già
affermato dalla Sezione Lombardia - cfr., in particolare,
deliberazione n. 349/2011/PAR e precedenti ivi richiamati)
ha precisato che la deroga al principio generale di
redditività del bene pubblico può essere giustificata “solo
dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente
svolta dal soggetto destinatario di tali beni. A questo
proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che la
sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come
attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va
accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le
finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto
le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività
che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a
disposizione. […] La Sezione precisa, inoltre, che, oltre
all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di
lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di
un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende
disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un
bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza
e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché
nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale”.
Inoltre, con specifico riferimento al caso de quo, occorre
precisare che la particolare qualità di ente accreditato
istituzionale, rivestita dalla cooperativa sociale ONLUS
possibile destinataria dell’atto gestionale, deve portare
l’ente, ove ricorra al comodato d’uso gratuito, a porre
particolare attenzione al fine di evitare l’eventuale
concretizzarsi di una indebita duplicazione di vantaggi in
favore della beneficiaria stessa. Invero, l'accreditamento
istituzionale della cooperativa, ai sensi dell’art. 17 della
l.r. n. 18/2008, sull’intero immobile per una struttura ad
alta intensità terapeutico socio-riabilitativa, del quale il
Comune istante fa espressa menzione nella richiesta di
parere, potrebbe comportare in favore di essa l’assegnazione
di contributi da parte della Regione per l'erogazione del
servizio specifico; contributi probabilmente quantificati
anche in ragione degli oneri derivanti dall'uso
dell’immobile, i quali, pertanto, troverebbero una idonea e
sufficiente “copertura”.
Ebbene, nell’adozione dell’atto prospettato occorrerà
considerare che una tale eventualità potrebbe concretamente
determinare il configurarsi di forme di indebito
arricchimento in favore della cooperativa, la quale verrebbe
a percepire la detta contribuzione e, al contempo, in virtù
del comodato d’uso gratuito, disporrebbe già dell’intero
immobile in assenza di proprie controprestazioni onerose
(non potendo valere a tal fine l’accollo della manutenzione
ordinaria e straordinaria).
In conclusione, la possibilità per l’ente locale di
stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito avente ad
oggetto un bene immobile facente parte del proprio
patrimonio disponibile rappresenta una scelta che, non
essendo sindacabile dalla Sezione che non può ingerirsi
nelle concrete scelte amministrative dell’Amministrazione,
risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al
prudente apprezzamento dell’ente. Ad ogni modo, il Comune,
oltre a dover considerare le possibili conseguenze di un
tale atto gestionale, nei provvedimenti in concreto adottati
dovrà dare conto, con una chiara ed esaustiva motivazione,
delle finalità di interesse pubblico, unitamente alla
compatibilità finanziaria dell’intera operazione posta in
essere (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise,
parere 15.01.2015 n. 1). |
PATRIMONIO:
Comuni, affitti meno pesanti. Retroattivo il
taglio del 15% dei canoni di locazione.
La Corte dei conti dell'Emilia-Romagna ha
risposto a un quesito di un ente locale.
La riduzione ex lege nella misura del 15% dei canoni di
locazione corrisposti dagli enti locali per gli immobili ad
uso istituzionale si applica anche ai vecchi contratti
stipulati prima dell'entrata in vigore dell'obbligo.
Lo ha chiarito la Sezione regionale di controllo della Corte
dei conti per l'Emilia-Romagna, con il
parere 14.01.2015 n. 1.
Dal 01.07.2014, anche gli enti locali (come le altre
p.a.) sono soggetti all'obbligo di ridurre del 15% i canoni
di locazione passiva dovuti in base a contratti in essere.
L'art. 24, al comma 4, del dl 66/2014 infatti, ha modificato
l'art. 3 del dl 95/2012, il quale, a sua volta, al comma 3
dispone, appunto, ai fini del contenimento della spesa
pubblica, la riduzione automatica del 15% rispetto alla
misura attualmente corrisposta dei canoni relativi ai
contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a
uso istituzionale.
Prima dell'entrata in vigore del dl 66, tale misura era
prevista con decorrenza dal 01.01.2015. Essa, inoltre,
si applicava alle sole amministrazioni centrali. La novella,
però, ha anticipato la scadenza al 01.07.2014 e
soprattutto ha esteso l'obbligo a tutte le amministrazioni
di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001, includendo,
quindi, anche gli enti locali.
La norma sancisce che la riduzione del canone di locazione
si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi
dell'art. 1339 codice civile, anche in deroga alle eventuali
clausole difformi apposte dalle parti. Pertanto, si tratta
di un automatismo, a differenza di quanto accade per la
riduzione del 5% di fornitura, che rappresenta una mera
facoltà per gli enti.
Tale automaticità, secondo i giudici contabili, implica
anche la retroattività degli effetti, che si riverberano
anche sui vecchi contratti. È comunque fatto salvo il
diritto di recesso del locatore.
La misura ridotta del canone, ovviamente, va prevista anche
nei contatti di nuova stipulazione o oggetto di rinnovo
(articolo ItaliaOggi del 17.01.2015). |
dicembre 2014 |
|
PATRIMONIO:
L’obbligo gravante sulle amministrazioni statali
di avvalersi, per le proprie esigenze istituzionali,
prioritariamente, di immobili di proprietà pubblica;
l’assenza di oneri a carico del Comune (che rimane
proprietario dell’immobile) e la presenza di un interesse
pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul
territorio di una caserma della Guardia di Finanza, induce
la Sezione a ritenere legittima la stipulazione di un
contratto di comodato gratuito (articoli 1803 e seguenti del
Codice civile), a tempo determinato, per l’allocazione di
una caserma della Guardia di Finanza in un immobile
appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per
l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al
quale competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117,
co. 2, lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di
ordine pubblico e sicurezza.
---------------
Con la nota indicata, il Sindaco del Comune di Bitonto
chiede di conoscere il parere di questa Sezione sulla
possibilità di concedere a titolo gratuito alla Guardia di
Finanza, con contratto di comodato e per un periodo di tempo
determinato, una porzione di immobile appartenente al
patrimonio del Comune per l’allocazione della relativa
caserma.
L’ente ha specificato che tale porzione di immobile (il
resto dell’immobile è adibito a sede del Corpo di Polizia
municipale e ad Archivio comunale) è attualmente utilizzata
dalla Guardia di Finanza in virtù di un contratto di
locazione, stipulato nel 2003 per anni 6, tacitamente
rinnovato ai sensi dell’art. 28 della legge n. 392/1978 (la
scadenza è quindi prevista nel 2015), con canone annuo pari
ad euro 13.999,92.
Il Comune ha evidenziato nella richiesta di parere che
l’Amministrazione finanziaria ha posto come condizione per
il mantenimento del suddetto presidio la stipulazione di un
contratto di comodato, con eliminazione di ogni costo a
titolo di canone locativo e che il mantenimento della
caserma nel territorio comunale è di fondamentale importanza
in relazione ai fenomeni di criminalità esistenti nel
territorio stesso.
...
La questione posta dal Comune di Bitonto, in estrema
sintesi, riguarda la possibilità di concedere gratuitamente
alla Guardia di Finanza, a tempo determinato, previa
stipulazione di un contratto di comodato gratuito, una parte
di un immobile appartenente al patrimonio dell’ente per la
allocazione della relativa caserma. Come già indicato in
occasione della verifica della ammissibilità oggettiva del
quesito proposto, considerato che la Corte dei conti non può
esprimersi, neanche in via preventiva, su specifiche
fattispecie, la questione sottoposta sarà affrontata solo in
termini generali.
Questa Sezione esprimerà, quindi, il proprio avviso in
merito al quesito proposto limitatamente ai principi e alle
regole che l’ente potrà considerare, nell’esercizio della
propria discrezionalità, per assumere le determinazioni di
competenza.
Ciò premesso, occorre delineare, almeno brevemente, la
disciplina vigente in materia di gestione del patrimonio
immobiliare del Comune, con particolare riferimento alle
modalità di utilizzazione del patrimonio e alla possibilità
e alle modalità di utilizzazione dello stesso patrimonio per
l’allocazione di presidi territoriali delle forze
dell’ordine (es. Guardia di Finanza, Carabinieri, ecc.).
La gestione del patrimonio immobiliare pubblico è stata
oggetto negli ultimi anni di numerosi interventi
legislativi. Tali interventi sono stati tutti finalizzati a
promuovere procedimenti di dismissione o valorizzazione.
Analoga attenzione è stata riservata dal legislatore, sempre
negli ultimi anni, al diverso tema della riduzione dei
contratti di locazione passiva o almeno dei relativi canoni
a carico di amministrazioni pubbliche.
In proposito, si evidenzia che, recentemente (Sez. contr.
Lombardia
parere 12.11.2014 n. 285),
è stato chiarito che la riduzione dei canoni,
corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione
di immobili ad uso istituzionale, imposta dall’art. 3, co.
4, del D.L. n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di
contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti
stipulati con enti territoriali (es. Comuni) proprietari.
Sul tema della gestione del patrimonio immobiliare e dei
contratti di locazione attiva e passiva stipulati da
amministrazioni pubbliche, la Corte dei conti, in numerose
occasioni, tra l’altro, ha specificato che
la deroga al principio generale di redditività del bene
pubblico può essere giustificata dalla assenza di scopo di
lucro della attività svolta dal soggetto destinatario di
tali beni (Sez.
contr. Veneto
parere 05.10.2012 n. 716;
Sez. contr. Lombardia
parere 13.06.2011 n. 349
e
parere 06.05.2014 n. 172).
Questa Sezione in passato (parere
25.07.2008 n. 23), proprio al Comune odierno
richiedente, ha avuto modo di specificare che
la concessione in comodato di beni appartenenti al
patrimonio disponibile del Comune ad altra amministrazione
pubblica, per l’allocazione di uffici destinati alla
erogazione diretta di servizi a favore della comunità
insediata nel territorio, non è pregiudizievole per le
finanze dell’ente, sia perché la proprietà del bene rimane
all’ente, sia perché l’operazione è finalizzata alla tutela
dell’interesse pubblico della comunità locale alla fruizione
di un servizio, avvantaggiata dal mantenimento sul
territorio degli uffici relativi.
Ancora prima, in relazione alla questione
della legittimità di costituire, a titolo gratuito, un
diritto di superficie su un terreno comunale per la
realizzazione di una caserma della Guardia di Finanza,
questa Sezione (parere
11.10.2006 n. 3) aveva espresso
un orientamento favorevole, sia per l’assenza di
depauperamento del patrimonio comunale (anche dopo la
costituzione di un diritto di superficie, il suolo rimane di
proprietà comunale), sia per il preminente interesse
pubblico ravvisabile nella sicurezza dei cittadini.
Non costituisce ostacolo ad analoga conclusione nel caso di
specie l’orientamento espresso, ai sensi dell’art. 6, co. 4,
del D.L. 174/2012, dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 09.06.2014 n. 16.
La Sezione delle Autonomie, con tale deliberazione, con
riferimento alla diversa ipotesi di un contributo, a carico
del bilancio comunale, per il pagamento ad un privato del
canone di locazione della sede della stazione dell’Arma dei
Carabinieri, pur considerando quanto disposto dall’art. 39
della legge n. 3/2003 e dall’art. 1, co. 439, della legge n.
296/2006, ha espresso l’avviso che tale
pagamento non è legittimo in quanto la materia dell’ordine
pubblico e della sicurezza risulta intestata (art. 117, co.
2, lett. h), Cost.), in via esclusiva, allo Stato al quale
spettano i relativi oneri finanziari.
Tra le motivazioni che hanno indotto la Sezione delle
Autonomie a pervenire a tale conclusione vi
è l’obbligo per le amministrazioni statali,
in base al combinato disposto di cui all’art. 2, co. 222,
della legge 296/2006 e ai decreti legge n. 98/2011 e n.
201/2011, prima di reperire sul mercato
immobili di proprietà privata, di accertare mediante
l’Agenzia del Demanio l’esistenza di immobili di proprietà
dello Stato (ma anche degli enti locali), idonei
all’utilizzo richiesto.
Tutto ciò premesso, l’obbligo gravante
sulle amministrazioni statali di avvalersi, per le proprie
esigenze istituzionali, prioritariamente, di immobili di
proprietà pubblica; l’assenza di oneri a carico del Comune
(che rimane proprietario dell’immobile) e la presenza di un
interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al
mantenimento sul territorio di una caserma della Guardia di
Finanza, induce la Sezione a ritenere legittima la
stipulazione di un contratto di comodato gratuito (articoli
1803 e seguenti del Codice civile), a tempo determinato, per
l’allocazione di una caserma della Guardia di Finanza in un
immobile appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per
l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al
quale, come evidenziato dalla Sezione delle Autonomie nella
citata
deliberazione 09.06.2014 n. 16,
competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117, co. 2,
lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di ordine
pubblico e sicurezza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 15.12.2014 n. 216). |
PATRIMONIO:
Impianti sportivi - Affidamento in gestione ad associazioni e società sportive dilettantistiche -
Possibilità di elargizione di contributi pubblici -
Condizioni e vincoli - Necessità di concessione dei beni
pubblici ad adeguate condizioni di remuneratività - Sussiste
- Enti locali - Divieto di sponsorizzazioni - Concessione
del patrocinio con partecipazione alle spese in favore di
associazione sportiva - Potrebbe configurare fattispecie di
sponsorizzazione.
Il divieto di erogazione di
contributi ricomprende l'attività prestata dai soggetti di
diritto privato menzionati dalla norma in favore
dell'Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta;
risulta, invece, esclusa dal divieto di legge l'attività
svolta in favore dei cittadini, id est della "comunità
amministrata", seppur quale esercizio -mediato- di finalità
istituzionali dell'ente locale e dunque nell'interesse di
quest'ultimo.
---------------
La disposizione utilizza il termine
“sponsorizzazioni” in senso atecnico, risultando chiaro dal
contesto normativo che è vietata qualsiasi forma di
contribuzione intesa a valorizzare il nome o caratteristica
del comune ovvero eventi di interesse per la collettività
locale.
Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la
spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un
servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo
erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio.
Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno
assumere deve risultare nell’impianto motivazionale il fine
pubblico perseguito e la rispondenza delle modalità in
concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale.
---------------
Ad essere vietati sarebbero in
generale gli accordi di patrocinio comportanti spese; ciò
che la norma tende ad evitare sarebbe dunque proprio la
concessione del patrocinio -che preveda oneri, da parte
delle amministrazioni pubbliche- ad iniziative organizzate
da soggetti terzi, ad esempio la sponsorizzazione di una
squadra di calcio.
Resterebbero invece consentite, salvi naturalmente ulteriori
specifici divieti di legge, le iniziative organizzate dalle
amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia
indirettamente, purché per il tramite di soggetti
istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di
valorizzazione del territorio.
---------------
Qualora sussistano specifiche caratteristiche, la
concessione di un contributo elargito ad una associazione
sportiva potrebbe rientrare nel concetto di
sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza
contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale
laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non
adeguatamente remunerative.
---------------
Il Comune di
Grottammare, con nota a firma del suo Sindaco, ha formulato,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una
richiesta di parere in ordine alla possibilità di erogare
contributi annui, per gli oneri di gestione, a sostegno
dell'attività sportiva giovanile, a società sportive
dilettantistiche, affidatarie della gestione di impianti
sportivi di proprietà comunale, ai sensi dell'articolo
90, comma 25, della legge 27.12.2002, n. 289, a seguito
di stipula di convenzione che garantisce l'utilizzo della
struttura in funzione delle esigenze della collettività
locale, per tutta la durata della convenzione stessa,
precisando che l'attività svolta ha come destinataria
immediata la collettività locale e non l'Amministrazione.
...
La richiesta di parere investe la corretta interpretazione
dell'articolo 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n.
95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135, e alla stessa
deve intendersi limitato.
L'art. 4, comma 6, del DL 95/2012 prevede che: "… Gli
enti di diritto privato …, che forniscono servizi a favore
dell'amministrazione stessa, anche a titolo gratuito, non
possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche”,
escludendo tuttavia dal divieto, tra le altre, “… le
associazioni sportive dilettantistiche di cui all'articolo
90 della legge 27.12.2002, n. 289".
L’art. 90, comma 25, d.l. 95/2012, prevede che “nei casi
in cui l'ente pubblico territoriale non intenda gestire
direttamente gli impianti sportivi, la gestione è affidata
in via preferenziale a società e associazioni sportive
dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline
sportive associate e Federazioni sportive nazionali, sulla
base di convenzioni che ne stabiliscono i criteri d'uso e
previa determinazione di criteri generali e obiettivi per
l'individuazione dei soggetti affidatari. Le regioni
disciplinano, con propria legge, le modalità di affidamento.”
La Regione Marche ha peraltro disciplinato la materia con
L.R. 5/2012, regolamentando negli artt. 18 e ss. le modalità
di affidamento.
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia con
parere n. 89/2013/PAR in merito all'interpretazione della
norma oggetto di interpretazione ha osservato che “il
predetto divieto di erogazione di contributi ricomprende
l'attività prestata dai soggetti di diritto privato
menzionati dalla norma in favore dell'Amministrazione
Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece,
esclusa dal divieto di legge l'attività svolta in favore dei
cittadini, id est della "comunità amministrata", seppur
quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali
dell'ente locale e dunque nell'interesse di quest'ultimo".
Questa Sezione ritiene di condividere l’orientamento della
Sezione Lombardia non sussistendo valide ragioni, del resto
non evidenziate neanche dallo stesse Ente, per
discostarsene.
Dal tenore letterale non si rinvengono quindi, in astratto,
preclusioni della disposizione in esame all’erogazione di
contributi pubblici; ciò non esclude, evidentemente, la
necessità del rispetto di ulteriori vincoli derivanti dalla
Legislazione vigente, anche regionale, e dei regolamenti
comunali.
A titolo meramente esemplificativo, con riferimento all’art.
6, comma 9, del decreto legge n. 78/2010 ed al relativo
divieto di spese di sponsorizzazione la Corte dei Conti,
Sez. reg. controllo, Lombardia, con
parere 10.01.2011 n. 6,
ha statuito che “La disposizione citata
utilizza il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico,
risultando chiaro dal contesto normativo che è vietata
qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il
nome o caratteristica del comune ovvero eventi di interesse
per la collettività locale. Non rientra invece nella nozione
di “sponsorizzazione” la spesa sostenuta dall’ente al fine
di erogare o ampliare un servizio pubblico, costituendo in
tal caso il contributo erogato a terzi una modalità di
svolgimento del servizio. Nelle determinazioni che in tal
caso gli enti dovranno assumere deve risultare nell’impianto
motivazionale il fine pubblico perseguito e la rispondenza
delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della
finalità sociale
(cfr. in ogni caso
parere 23.12.2010 n. 1075)”.
Sulla stessa linea interpretativa si pone Corte dei Conti
sez. reg. controllo, Puglia, deliberazione n. 163/2010, la
quale ha affermato che: “Ad essere
vietati sarebbero in generale gli accordi di patrocinio
comportanti spese; ciò che la norma tende ad evitare sarebbe
dunque proprio la concessione del patrocinio -che preveda
oneri, da parte delle amministrazioni pubbliche- ad
iniziative organizzate da soggetti terzi, ad esempio la
sponsorizzazione di una squadra di calcio; resterebbero
invece consentite, salvi naturalmente ulteriori specifici
divieti di legge, le iniziative organizzate dalle
amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia
indirettamente, purché per il tramite di soggetti
istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di
valorizzazione del territorio”.
Pertanto, qualora sussistano specifiche
caratteristiche, la concessione di un contributo elargito ad
una associazione sportiva potrebbe rientrare nel concetto di
sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza
contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale
laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non
adeguatamente remunerative
(tra le altre, cfr. Sez. giur. Toscana, 96/2014) (Corte
dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 04.12.2014 n. 133). |
PATRIMONIO:
Passaggio di consegne, danni condivisi.
In tema di rendicontazione dei beni mobili della p.a.,
qualora si accerti un passaggio di funzioni tra un soggetto
consegnatario uscente e uno entrante, l'eventuale
responsabilità amministrativo-contabile dovuta a perdite o a
danneggiamenti dei predetti beni si intende ascrivibile a
entrambi se vi sia incertezza nel periodo in cui il danno
sia prodotto e, quindi, non sia possibile stabilire a quale
gestione contabile risalga il danno. Incertezze che,
tuttavia, possono essere superate attraverso la
presentazione in giudizio di idonei mezzi di prova che
sollevino il contabile dall'aver attuato una condotta dolosa
o negligente.
La II Sez. d'appello della Corte dei Conti, con la
sentenza 01.12.2014 n. 710,
chiarisce i limiti entro cui può esercitarsi la
responsabilità contabile verso i soggetti che svolgono la
funzione di consegnatari di beni mobili all'interno della
p.a.
Il caso ha riguardato l'ammanco e il deterioramento di
beni conseguente al passaggio di consegne tra due presidi di
un istituto scolastico (si veda ItaliaOggi del 13/5/2008).
Entrambi condannati in primo grado perché, secondo il
collegio, non era stato possibile risalire a quando il danno
si fosse concretizzato, ovvero a chi dei due fosse
ascrivibile la negligenza per aver permesso l'ammanco e il
deterioramento dei beni scolastici.
Nella sentenza
d'appello, pertanto, viene riaffermato questo punto
fondamentale. Ovvero, che se mancano fonti di prova, la
responsabilità viene ascritta a entrambi i consegnatari.
Pertanto, come è poi avvenuto nel giudizio di appello, se
uno dei soggetti già condannati (nel caso, il consegnatario
subentrante) produce documenti che attestino la sua
immediata conoscenza degli ammanchi e del deterioramento dei
beni, allo stesso non può essere addebitata alcuna colpa
sulla vicenda.
Il collegio, pertanto, nel riaffermare la
colpa del consegnatario uscente per la perdita dei beni, ha
comunque esercitato il potere riduttivo dell'addebito nei
suoi confronti, avendo rilevato che la sua condotta non è
stata dolosa ma si è concretizzata in una omissione di
vigilanza
(articolo ItaliaOggi del 21.01.2015). |
novembre 2014 |
|
PATRIMONIO: Allo
stato attuale, la riduzione dei canoni corrisposti dalle
amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili a uso
istituzionale, imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto
legge n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di una
contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti
stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali
rimane salvo il diritto di recesso.
---------------
Con la note sopra citate, il sindaco del comune di Broni
(PV), richiede un parere sulla corretta interpretazione
dell’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2005, n. 95,
convertito dalla legge 07.08.2005, n. 35 concernente la
riduzione del canone dei contratti di locazione di immobili
a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali.
Si premette, a tal fine, che la Prefettura di Pavia,
con distinte comunicazioni del 6 e del 27.08.2014 ha
informato il comune di Broni che i canoni dei contratti di
locazione delle caserme dei Vigili e del fuoco e dei
Carabinieri, immobili di proprietà comunale, devono essere
ridotti nella misura del 15 per cento di quanto attualmente
corrisposto in applicazione della disposizione di legge
sopra richiamata.
Si riferisce al riguardo che la riduzione del canone di
locazione comporterebbe una conseguente diminuzione delle
entrate previste dal bilancio comunale, contraddicendo la
ratio della cosiddetta spending review, che non
sembrerebbe contemplare la riduzione della spesa pubblica a
danno di un'altra articolazione della pubblica
amministrazione.
Cita, in tal senso, il Comunicato stampa del Consiglio dei
Ministri del 05.07.2012, ad oggetto: "Disposizioni
urgenti per la riduzione della spesa pubblica", che, al
punto D, in materia di razionalizzazione del patrimonio
pubblico e riduzione dei costi per le locazioni passive,
opera una netta distinzione fra gli immobili di proprietà di
enti locali (per i quali, peraltro, deve esistere una
condizione di reciprocità) e gli immobili, invece di
proprietà di terzi, per i quali, e solo in quest'ultima
ipotesi, sembrerebbe trovare applicazione la riduzione del
canone in misura pari al 15 per cento.
...
L’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012, n. 95,
convertito dalla legge 07.08.2012, n. 35 dispone che “ai
fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento
ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili
a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni
centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi
inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa
(Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal
01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto
attualmente corrisposto”.
La decorrenza del termine per la riduzione
della misura del canone, originariamente fissata al
01.01.2015, è stata anticipata al 01.07.2014 per effetto
delle modifica apportata dall’art. 24 del decreto legge
26.04.2014, n. 66, convertito dalla legge 23.06.2014, n. 89.
Lo stesso art. 3, comma 4, stabilisce quindi che “la
riduzione del canone di locazione si inserisce
automaticamente nei contratti in corso ai sensi
dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali
clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di
recesso del locatore”.
Ne risulta sancita una riduzione ex lege
degli importi dovuti dalle amministrazioni pubbliche
centrali per canoni di locazione di immobili adibiti ad uso
istituzionale, che si inserisce nel più ampio contesto di
una serie di misure dirette al contenimento dei costi per
locazioni passive a carico dei bilanci pubblici, previste
dall’art. 3 del decreto legge n. 95/2012 ai successivi commi
5 e 6.
Il comma 7, nel testo riscritto dal citato decreto legge n.
66/2014, stabilisce poi che “le
previsioni cui ai commi da 4 a 6 si applicano altresì alle
altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto
compatibili”
con una conseguente estensione dell’ambito di applicazione
soggettiva delle predette misure.
L’interpretazione letterale della
disposizione sopra richiamata che impone la riduzione dei
canoni, riferendosi genericamente ai contratti di locazione
passiva stipulati dalle amministrazioni centrali, senza
fornire ulteriori precisazioni, porta ad affermare che la
riduzione in parola debba essere disposta anche nell’ipotesi
di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche,
anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato.
Si deve ritenere, infatti, che se la legge avesse voluto
escludere queste ultime dall’applicazione della disposizione
in esame lo avrebbe fatto in modo espresso, non diversamente
da quanto stabilito dall’art. 1, comma 478, della legge
23.12.2005, n. 266 che, dettato dalle medesime esigenze di
contenimento della spesa pubblica per locazioni passive,
circoscriveva la riduzione del canone ai soli “contratti
di locazione stipulati dalle amministrazioni dello Stato per
proprie esigenze allocative con proprietari privati” .
Né tale supposta esclusione a favore del locatore pubblico
risulta ricavabile in via interpretativa dai principi
generali che regolano l’attività delle amministrazioni
pubbliche.
Com’è noto le amministrazione pubbliche possono agire anche
nelle forme del diritto privato e concludere contratti che,
per quanto non diversamente disposto dalla legge, sono
soggetti alla disciplina dettata dal codice civile e della
legislazione privatistica.
La legge statale, come si è fatto cenno, è più volte
intervenuta a regolare la materia delle locazioni della
P.A., introducendo a favore del conduttore pubblico, come
nel caso in esame, una serie di eccezioni alla disciplina
codicistica, giustificate essenzialmente dall’esigenza di
contenimento della spesa pubblica.
Analoghe eccezioni non sono viceversa ravvisabili a favore
del locatore pubblico, per il quale, in particolare, non è
dato rintracciare, nel vigente quadro normativo, una
disposizione che lo escluda dalla riduzione richiesta
dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012.
Ne consegue, pertanto, che quest’ultimo disposto,
a prescindere da ogni giudizio di legittimità costituzionale
che non compete a questa Sezione in sede consultiva,
debba trovare applicazione generalizzata nei
confronti di tutti i locatori, quale che sia la natura
pubblica o privata di questi.
Per la medesima ragione, il locatore
pubblico, che subisce la riduzione del canone, può
esercitare il diritto di recesso dal contratto come
espressamente consentito dalla stessa disposizione di legge.
Alla luce delle predette considerazioni si deve quindi
concludere che, allo stato attuale, la
riduzione dei canoni corrisposti dalle amministrazioni
pubbliche per la locazione di immobili a uso istituzionale,
imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012,
trova applicazione, in assenza di una contraria disposizione
di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti
territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il
diritto di recesso
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 12.11.2014 n. 285). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI -
PATRIMONIO:
G.U. 11.11.2014 n. 262, suppl. ord. n. 85/L, "Testo
del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, coordinato con la
legge di conversione 11.11.2014, n. 164,
recante: «Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
►
Art. 2 (Semplificazioni procedurali per le
infrastrutture strategiche affidate in concessione)
►
Art. 4 (Misure di semplificazione per le opere
incompiute segnalate dagli Enti locali e misure finanziarie
a favore degli Enti territoriali)
►
Art. 6 (Agevolazioni per la realizzazione di reti di
comunicazione elettronica a banda ultralarga e norme di
semplificazione per le procedure di scavo e di posa aerea
dei cavi, nonché per la realizzazione delle reti di
comunicazioni elettroniche)
►
Art. 6-ter (Disposizioni per l’infrastrutturazione
degli edifici con impianti di comunicazione elettronica)
►
Art. 7 (Norme in materia di gestione di risorse
idriche. Modifiche urgenti al decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, per il superamento delle procedure di
infrazione 2014/2059, 2004/2034 e 2009/2034, sentenze
C-565-0 del 19.07.2012 e C-85-13 del 10.04.2014; norme di
accelerazione degli interventi per la mitigazione del
rischio idrogeologico e per l’adeguamento dei sistemi di
collettamento, fognatura e depurazione degli agglomerati
urbani; finanziamento di opere urgenti di sistemazione
idraulica dei corsi d’acqua nelle aree metropolitane
interessate da fenomeni di esondazione e alluvione)
►
Art. 8 (Disciplina semplificata del deposito
preliminare alla raccolta e della cessazione della qualifica
di rifiuto delle terre e rocce da scavo che non soddisfano i
requisiti per la qualifica di sottoprodotto. Disciplina
della gestione delle terre e rocce da scavo con presenza di
materiali di riporto e delle procedure di bonifica di aree
con presenza di materiali di riporto)
►
Art. 9 (Interventi di estrema urgenza in materia di
vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa
in sicurezza degli edifici scolastici e dell’Alta formazione
artistica, musicale e coreutica - AFAM)
►
Art. 13 (Misure a favore dei project bond)
►
Art. 14 (Disposizioni in materia di standard tecnici)
►
Art. 16-bis (Disciplina degli accessi su strade
affidate alla gestione della società ANAS Spa)
►
Art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia
edilizia)
►
Art. 17-bis (Regolamento unico edilizio)
►
Art. 21 (Misure per l’incentivazione degli
investimenti in abitazioni in locazione)
►
Art. 22 (Conto termico)
►
Art. 22-bis (Interventi sulle tariffe incentivanti
dell’elettricità prodotta da impianti fotovoltaici)
►
Art. 24 (Misure di agevolazione della partecipazione
delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione
del territorio)
►
Art. 25 (Misure urgenti di semplificazione
amministrativa e di accelerazione delle procedure in materia
di patrimonio culturale)
►
Art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli
immobili demaniali inutilizzati)
►
Art. 31 (Misure per la riqualificazione degli
esercizi alberghieri)
►
Art. 34 (Modifiche al decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163, per la semplificazione delle procedure in materia di
bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati. Misure
urgenti per la realizzazione di opere lineari realizzate nel
corso di attività di messa in sicurezza e di bonifica)
►
Art. 35 (Misure urgenti per la realizzazione su scala
nazionale di un sistema adeguato e integrato di gestione dei
rifiuti urbani e per conseguire gli obiettivi di raccolta
differenziata e di riciclaggio. Misure urgenti per la
gestione e per la tracciabilità dei rifiuti nonché per il
recupero dei beni in polietilene)
►
Art. 38 (Misure per la valorizzazione delle risorse
energetiche nazionali)
---------------
Per una migliore
comprensione della ratio sottesa ai vari articoli si leggano
anche:
● Camera dei Deputati,
dossier 27.10.2014
● Senato della Repubblica,
dossier ottobre 2014
● Senato della Repubblica,
dossier novembre 2014 |
ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
Utilizzo veicoli comunali a guida di amministratori o
privati cittadini per attività istituzionali
dell'amministrazione. Copertura assicurativa.
Gli amministratori comunali possono
essere autorizzati alla guida di autoveicoli di proprietà
dell'Ente in occasione di attività istituzionali.
La modalità legittima attraverso cui privati cittadini
possono essere posti alla guida di veicoli comunali, per le
suddette finalità, passa attraverso l'adesione di detti
cittadini alle organizzazioni di volontariato.
In entrambe le ipotesi, presupposto necessario è che i
veicoli comunali siano coperti da assicurazione RCA non
limitata a determinate categorie di conducenti.
Il Comune pone la questione della guida di veicoli di
proprietà comunale, in occasione di attività istituzionali
dell'Ente, da parte di amministratori comunali o singoli
cittadini volontari. In particolare, il Comune chiede se sia
sufficiente una copertura assicurativa RCA (polizza guida
libera) o se debba stipulare apposita convenzione con le
organizzazioni di volontariato, che preveda la copertura
assicurativa dei soggetti che prestano attività di
volontariato, o se, in alternativa, possa stipulare in
proprio la copertura assicurativa dei soggetti che prestano
attività di volontariato contro gli infortuni e le malattie
connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché per la
responsabilità civile verso i terzi.
In via preliminare, si ritiene di evidenziare l'opportunità
che l'Ente si doti di un regolamento per l'uso degli
automezzi comunali, in cui disciplini la gestione e l'uso
dei veicoli di sua proprietà, compreso l'aspetto relativo ai
soggetti che -previa, ovviamente, autorizzazione dell'Ente-
possono guidare i mezzi e quello inerente alla copertura
assicurativa.
Ciò premesso, la questione posta dall'Ente, relativa
specificamente all'aspetto assicurativo, va esaminata
distintamente a seconda che alla guida degli automezzi
comunali siano posti amministratori o cittadini privati.
Posto che l'Ente specifica che l'uso dei veicoli comunali
avviene per finalità istituzionali, il caso in cui alla
guida di detti automezzi, per tali finalità, siano posti
amministratori si ritiene possa essere assimilato a quello
della guida a mezzo dei dipendenti comunali. In entrambi i
casi si tratta, infatti, di attività di guida strumentale
all'esercizio delle funzioni proprie dell'Ente. Al riguardo,
si ritiene che l'Ente possa stipulare una polizza
assicurativa RC auto, anche per il caso di utilizzo dei
veicoli da parte degli amministratori.
Per quanto concerne, invece, il caso in cui alla guida degli
automezzi comunali vengano posti cittadini privati (non
dipendenti dell'Ente), si ritiene che la fattispecie debba
essere inquadrata nell'ambito della disciplina relativa
all'attività di volontariato.
La normativa vigente non contempla, infatti, la possibilità
che il singolo cittadino svolga attività in favore della
pubblica amministrazione se non attraverso l'adesione ad
organizzazioni di volontariato, con le modalità di cui
appresso [1].
La disciplina del volontariato è contenuta nella L. n.
266/1991 [2],
che considera attività di volontariato quella prestata in
modo personale, spontaneo e gratuito, tramite
l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini
di lucro ed esclusivamente per fini di solidarietà (art. 2).
In ambito regionale, la L.R. n. 23/2012 [3]
prevede la possibilità per le organizzazioni di
volontariato, in possesso dei requisiti previsti, di
stipulare convenzioni con gli enti pubblici, tra cui gli
enti locali, per lo svolgimento di attività a vantaggio
della collettività, indicando nel dettaglio i criteri di
priorità nella scelta delle organizzazioni medesime, nonché
il contenuto obbligatorio della convenzione (art. 14).
In particolare, ai sensi del combinato disposto degli artt.
4 e 7, comma 3, L. n. 266/1991, elemento essenziale della
convenzione è la copertura assicurativa dei soggetti che
prestano attività di volontariato contro gli infortuni e le
malattie connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché
per la responsabilità civile verso i terzi. Gli oneri
relativi a dette coperture sono a carico dell'ente che
usufruisce dell'attività.
Del pari in ambito regionale, l'art. 14, L. R. n. 23/2012,
richiamato, prevede che le convenzioni regolino le coperture
assicurative di cui all'art. 4 della L. n. 266/1991.
Pertanto, in relazione alla circostanza che, in occasione di
attività istituzionali dell'Ente (quali incontri,
gemellaggi, attività sociali e culturali), mezzi comunali
siano guidati da cittadini privati, si ritiene che il Comune
debba attivarsi in base alla normativa vigente in materia,
che non contempla la possibilità per l'ente locale di
stipulare rapporti diretti con il singolo cittadino, ma solo
con le organizzazioni di volontariato iscritte nel registro
di cui all'art. 5, L.R. n. 23/2012, previa stipula della
convenzione di cui al successivo art. 14.
Ciò significa che la modalità legittima attraverso cui
cittadini privati possono essere posti alla guida di veicoli
comunali, per finalità istituzionali dell'ente, passa
attraverso l'adesione di detti cittadini alle organizzazioni
di volontariato.
-----------
[1] Si segnala, peraltro, che ciò nonostante alcune
amministrazioni comunali della nostra regione hanno
previsto, con proprio regolamento, l'istituzione di un
proprio albo di volontari e l'organizzazione dell'apporto
fornito dagli stessi all'interno dell'ente. Tali enti
provvedono, tra l'altro, alle coperture assicurative dei
volontari e alla fornitura di tutti i mezzi e le
attrezzature necessari allo svolgimento del servizio.
[2] Legge 11.08.1991, n. 266, recante: 'Legge-quadro sul
volontariato'.
[3] Legge regionale 09.11.2012, n. 23, recante: 'Disciplina
organica sul volontariato e sulle associazioni di promozione
sociale' (03.11.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ottobre 2014 |
|
PATRIMONIO: Il
taglio dei canoni d'affitto si applica anche agli enti.
La riduzione del 15% sui canoni di locazione degli immobili
adibiti ad uffici pubblici, prevista dall'articolo 3, comma
4 del dl n. 95/2012, non opera soltanto nell'ipotesi in cui
il proprietario sia un privato, ma anche quando a possedere
l'immobile è un ente territoriale. Infatti, allo stato
attuale, nelle previsioni normative vigenti non si rinviene
alcuna deroga che comporti l'esclusione dei predetti gli
enti dall'applicazione della riduzione dei fitti passivi.
Sì è così espressa la sezione regionale di controllo della
Corte dei conti Lombardia, nel testo del
parere 27.10.2014 n. 273, con cui ha fornito un
interessante chiarimento alle disposizioni contenute
all'articolo 3 del dl n. 95/2012, come modificate
dall'articolo 24 del dl n. 66/2014.
Norma che prevede che dallo scorso 1° luglio, con
riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad
oggetto immobili ad uso istituzionale, stipulati da
amministrazioni centrali, i relativi canoni devono essere
ridotti del quindici per cento di quanto sino ad allora
corrisposto.
Su questo punto, il sindaco del comune di Broni (Pv) ha
richiesto l'intervento consultivo della Corte lombarda per
sapere se le disposizioni sopra richiamate avessero
efficacia anche nei confronti degli enti territoriali, in
veste di soggetti proprietari di detti immobili. Il dubbio
del sindaco del comune pavese, infatti, si fonda sul fatto
che un'eventuale riduzione del canone di locazione
comporterebbe minori entrate in bilancio comunale e questo
sarebbe «in contrasto» con la ratio della
spending review che «non sembrerebbe contemplare la
riduzione della spesa pubblica a danno di un'altra
articolazione della pubblica amministrazione».
Secondo la Corte lombarda la norma si applica anche alle
altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del
dlgs n. 165/2001. Vi è di più. La Corte aggiunge nel parere
che, quando il legislatore ha voluto escludere il comparto
degli enti territoriali dall'applicazione di norme sui tagli
alle locazioni passive, lo ha espressamente fatto.
Quindi, posto che la norma si riferisce in generale ai
contratti di locazione passiva stipulati dalle p.a. centrali
«senza fornire ulteriori precisazioni», è pacifico
che i tagli devono essere disposti anche nelle ipotesi di
locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche,
proprietarie dell'immobile locato. Queste ultime, subendo la
riduzione del canone, possono tuttavia esercitare il diritto
di recesso dal contratto (articolo ItaliaOggi del 15.11.2014). |
PATRIMONIO:
Insidie stradali: Se il pedone scivola su un
'cubetto instabile' non segnalato il Comune deve risarcire
il danno.
Una vera e propria tiratina d’orecchie arriva dalla
Cassazione, nei confronti del giudice d’appello, in tema di
responsabilità della P.A. ex art. 2051 c.c.
Chiamata a pronunciarsi in una vicenda riguardante un
sinistro stradale, occorso ad un pedone, il quale scivolando
su un cubetto instabile della pavimentazione della strada,
non visibile e non segnalato, riportava lesioni personali
alla caviglia sinistra, la Corte di Cassazione - Sez. IV
civile (sentenza
23.10.2014 n. 22528) ha colto l’occasione per richiamare
la Corte d’Appello di Napoli, per l’errato “ragionamento
giuridico compiuto”, sulla base di una “giurisprudenza
ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e del
trabocchetto” (vedi: la
raccolta di articoli e sentenze in tema di insidie stradali).
Accolta in primo grado, infatti, la richiesta di
risarcimento danni avanzata dal pedone veniva rigettata in
secondo grado, dal giudice territoriale che dava ragione al
Comune di Guardia Sanframondi.
Per la Cassazione, invece, rispetto alla fattispecie, il
caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui
all’art. 2051 c.c.
Pertanto, ricordando la sequenza consolidata di decisioni in
materia (tra cui Cass. n. 9546/2010) -basata su una lettura
costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite
alla responsabilità civile della P.A. in relazione alla non
corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede,
che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni–
la Cassazione ha affermato che “la presunzione di
responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi
dell'art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni
demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere
di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente
esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto
delle circostanze, della natura limitata del tratto di
strada vigilato”.
Presunzione che può essere superata solo dalla prova del
caso fortuito che, ha sottolineato la Cassazione, non
sussiste nel caso di specie, giacché il danneggiato è caduto
“in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto
da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio
del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di
pericolo”.
Così disponendo, pertanto, la S.C. ha cassato con rinvio
alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione con
il vincolo di attenersi ai principi di diritto enunciati
(commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
La presunzione di responsabilità di
danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per
i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la
custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa
legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile
nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della
natura limitata del tratto di strada vigilato.
La presunzione in tali circostanze resta superata dalla
prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento
del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul
marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato
aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione
delle condizioni di pericolo (nel caso di specie un pedone
scivola su un cubetto instabile della pavimentazione
stradale non visibile, né segnalato, determinando la caduta
lesioni personali alla caviglia sinistra)
(tratta da http://renatodisa.com). |
settembre 2014 |
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PATRIMONIO: Nelle norme di
contabilità non si rinviene alcuna disposizione che
impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali
a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base
all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione
alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di
cui all’art. 118 Cost..
L’attribuzione patrimoniale è consentita
solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o,
comunque, di interesse per la collettività insediata sul
territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito,
poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra
l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i
fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente
evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione
nonché la finalità che con l’atto medesimo intende
soddisfare.
---------------
Il Sindaco del Comune di Giovinazzo chiede alla Sezione un
parere in merito alla possibilità per un Comune di cedere in
diritto di superficie un immobile, appartenente al
patrimonio disponibile, in favore di un altro ente pubblico
(ASL), senza corrispettivo in denaro e a tempo determinato,
a fronte dell’impegno da parte del cessionario di
realizzare, avvalendosi della possibilità di accedere a
finanziamenti pubblici a destinazione vincolata, interventi
di completamento, ristrutturazione e funzionalizzazione del
bene concesso, da destinare a sede di pubblici servizi
rivolti alla collettività locale.
Il Sindaco precisa, inoltre, che alla scadenza del termine
previsto nell’atto di costituzione del diritto reale (da
determinare in base al piano di ammortamento
dell’investimento ed al valore del bene concesso), il Comune
riacquisterebbe la piena proprietà dell’immobile
...
Passando al merito della richiesta, si tratta di valutare se
sia ammissibile un trasferimento -a titolo gratuito e a
tempo determinato -della proprietà superficiaria di un
immobile, rientrante nel patrimonio disponibile comunale, a
favore di altro ente pubblico, a fronte dell’impegno di tale
ente di realizzare interventi sull’immobile medesimo che
dovrà essere destinato allo svolgimento di pubblici servizi
rivolti alla collettività locale.
Sul punto questa Corte si è già pronunciata più volte (cfr.
Sezione regionale per il controllo Lombardia, deliberazione
n. 262/PAR/2012 e Sezione regionale per il controllo
Piemonte, deliberazione n. 36/PAR/2014, quest’ultima avente
per oggetto l’attribuzione ad un soggetto terzo di un
diritto di superficie, a titolo gratuito o dietro
corrispettivo simbolico), rilevando come nelle norme di
contabilità non si rinviene alcuna disposizione che
impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali
a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base
all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione
alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di
cui all’art. 118 Cost..
In altre parole, l’attribuzione patrimoniale, anche a titolo
gratuito, è consentita solo se risulta strumentale al
perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, in quanto
“se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze
della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal
Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a
“fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che
l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del
servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal
soggetto che riceve il contributo“ (Sezione regionale
Lombardia deliberazione n. 262/PAR/2012).
In tale prospettiva, rilievo fondamentale assume la
relazione da mezzo a fine che deve esistere fra
l’attribuzione patrimoniale ed i fini istituzionale
dell’ente, mentre è indifferente sia il titolo-gratuito o
oneroso- dell’attribuzione medesima sia la natura-pubblica o
privata- del ricevente. Ed, infatti, “la natura pubblica o
privata del soggetto che riceve attribuzione patrimoniale è
indifferente se il criterio di orientamento è quello della
necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di
perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa
amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per
molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata” (cfr.
Sezione regionale Lombardia deliberazione n. 262 cit.).
Siffatti principi sono stati ribaditi anche da questa
Sezione con deliberazione n. 113 del 28.05.2014, ove
si
è confermata l’ammissibilità di “attribuzione gratuita a
terzi (anche soggetti privati) di beni pubblici se tale
attribuzione era finalizzata al soddisfacimento di un
adeguato interesse per la collettività insediata sul
territorio”, precisando, tuttavia, che “negli atti di
trasferimento sarà necessario evidenziare adeguatamente le
motivazioni e le finalità pubblicistiche perseguite”.
In conclusione, questa Sezione ribadisce il principio
generale per cui l’attribuzione patrimoniale è consentita
solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o,
comunque, di interesse per la collettività insediata sul
territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito,
poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra
l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i
fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente
evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione
nonché la finalità che con l’atto medesimo intende
soddisfare
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 25.09.2014 n. 165). |
luglio 2014 |
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PATRIMONIO -
ENTI LOCALI:
Chiarimenti sulla disciplina del riconoscimento dei debiti
fuori bilancio.
Il procedimento di riconoscimento del
debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare
un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente,
all’interno della sfera patrimoniale dell’ente,
ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano
dell’adempimento.
Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio
di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini
di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge
attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di
esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e
di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura
(procedura ex art. 194 TUEL).
La funzione di tale procedura è
quella di consentire a debiti sorti al di fuori della
legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare
nella contabilità dell’ente.
----------------
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori
bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o
arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano
debiti per cui si è proceduto a regolare impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per
fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della
prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di
copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile
ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché le passività pregresse si pongono all’interno
di una regolare procedura di spesa, esulano dalla
fenomenologia del debito fuori bilancio e costituiscono,
invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile
all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento
procedimentale di spesa è costituito dalla procedura
ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla
eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le
risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
---------------
Quando nell’anno di competenza
finanziaria non è stata attivata la procedura di spesa
ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella
contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è
la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi
eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta
evidente che il debito in questione, è, per competenza
finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione
degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra
tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori
bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere
i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il
comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme
necessarie nella programmazione finanziaria di propria
competenza per il periodo interessato.
Resta invece salva la facoltà di un
riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti
limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal
comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà
essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente
prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di
responsabilità connessi a esborsi illegittimi.
---------------
Il sindaco del comune in epigrafe richiede chiarimenti sulla
disciplina del riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
In particolare, espone che il comune, con atto consiliare,
ha approvato una convenzione per la cessione in proprietà di
un suolo da sistemare ad area verde e parcheggi;
successivamente la suddetta convenzione è stata sottoscritta
dalle parti.
Nella succitata convenzione era previsto l’impegno del
comune a versare ai proprietari la somma dell’area la somma
di euro 40.000, a seguito del collaudo finale delle opere.
Successivamente, i proprietari hanno eseguito le opere,
come da convenzione, e hanno comunicato l’intendimento di
cederle al comune previo pagamento del corrispettivo;
tuttavia è stato accertato che all’epoca nessuno
stanziamento era stato predisposto.
Il comune chiede quindi se possa procedere legittimamente
al riconoscimento del debito fuori bilancio, ai sensi
dell'art. 194 del T.U. n. 267/2000 e procedere al pagamento
di quanto convenuto.
...
La Sezione ha già avuto modo in diverse occasioni di
occuparsi della tematica dei debiti fuori bilancio (da
ultimo
parere 22.07.2013 n. 339; e
parere 05.02.2014 n. 41) con considerazioni da cui non sussiste motivo per
discostarsi.
Si deve ricordare che, il procedimento di
riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento
giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente
perfezionata ed esistente, all’interno della sfera
patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà
amministrativa sul piano dell’adempimento. Il procedimento
mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la
legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”,
cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente,
e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle
stesse in modo conforme all’ordinamento) e di
sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura
(procedura ex art. 194 TUEL). La funzione
di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al
di fuori della legittima procedura di spesa e di
stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
Al fine di evitare l’insorgere di situazioni debitorie non
assistite dai relativi impegni, il legislatore ha previsto
che solo in alcuni casi tassativi tali debiti possano essere
riconosciuti, attraverso il procedimento di riconoscimento
di legittimità di debiti fuori bilancio; ciò è infatti
possibile solo qualora tali debiti derivino da: “a)
sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi,
di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli
obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti
costitutivi, purché sia stato rispettato l’obbligo di
pareggio del bilancio di cui all’articolo 114 ed il
disavanzo derivi da fatti di gestione; c)
ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal
codice civile o da norme speciali, di società di capitali
costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali; d)
procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere
di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in
violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito
dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza” (art. 194, comma 1, lett. a)-e), Tuel)”.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti
fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività
pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei
primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare
impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL)
ma che, per fatti non prevedibili, di norma
collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad
un debito in assenza di copertura
(mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi
dell’art. 191 TUEL). Proprio perché le
passività pregresse si pongono all’interno di una regolare
procedura di spesa, esulano dalla fenomenologia del debito
fuori bilancio
(cfr., in proposito, la recente deliberazione di questa
Sezione in merito al caso delle prestazioni professionali,
n. 441/2012/PAR) e costituiscono, invero,
debiti la cui competenza finanziaria è riferibile
all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento procedimentale
di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa
(art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di
bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano
insufficienti (art. 193 TUEL).
Tanto premesso circa la funzione e l’effetto della procedura
di riconoscimento e alla distinzione della fenomenologia
delle passività pregresse e dei debiti fuori bilancio, per
rispondere al quesito qui posto è opportuno rammentare i
criteri attraverso cui, in contabilità finanziaria, i debiti
assumono rilevanza e vanno imputati ai bilanci degli enti
pubblici.
In base al principio dell’annualità, i documenti di bilancio
devono rappresentare, a cadenza annuale, fatti che
finanziariamente si riferiscano ad un periodo di gestione
coincidente con l’esercizio finanziario, in modo che siano
rese evidenti tutte le poste di entrata e di spesa che
afferiscono in termini sostanziali al corso dell’anno di
riferimento. Solo così il bilancio potrà servire
correttamente alla sua funzionalità di controllo, sia in
chiave autorizzatoria (bilancio di previsione) che ispettiva
(rendiconto).
Si deve rammentare, infatti, che in contabilità finanziaria,
un debito rileva nella misura in cui esso è certo, liquido e
esigibile. Detto in altri termini, è assai frequente che vi
sia un disallineamento tra esistenza giuridica e rilevanza
contabile di un debito. Un debito, infatti, assume rilevanza
contabile solo se sono venute a maturazione tutte le
condizioni per il suo adempimento pecuniario, in particolare
se il debito è “certo” (non contestato nell’an
e/o nel quantum), liquidato o di pronta liquidazione
(cioè è stato determinato nel suo ammontare) ed è esigibile
(scadenza del termine). Solo la concorrenza di queste
condizioni radica la “competenza finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile attivare
dell’ordinaria procedura di spesa (adozione del
provvedimento amministrativo; assunzione dell’impegno di
spesa; presenza e attestazione della copertura finanziaria;
cfr. l’art. 191 T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti
autorizzati. Tale procedura di spesa consente non solo di
dare rilevanza nel bilancio al debito, ma costituisce il
titolo per l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica
di una posta passiva, della manifestazione finanziaria
(competenza finanziaria) e quello della competenza economica
tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale
di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza
l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente
distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito
non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa”
(cioè l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in
quanto liquidabile ed esigibile) ma di “costo”
(debito, anche di valore e non solo di valuta, sostenuto per
l’acquisto dei fattori produttivi che hanno sostenuto il
ciclo annuale di produzione). Detto in altri termini, a
livello contabile, un debito può avere una competenza
annuale (economica) disallineata rispetto alla sua
manifestazione finanziaria (competenza finanziaria), che può
essere anteriore o successiva.
Tanto premesso, quando nell’anno di
competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di
spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella
contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è
la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi
eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta
evidente che il debito in questione, è, per competenza
finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione
degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra
tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori
bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere
i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il
comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme
necessarie nella programmazione finanziaria di propria
competenza per il periodo interessato.
Resta invece salva la facoltà di un
riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti
limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal
comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà
essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente
prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di
responsabilità connessi a esborsi illegittimi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.07.2014 n. 212). |
PATRIMONIO: Il
Comune non può legittimamente contribuire al pagamento del
canone di locazione di un immobile, di proprietà privata,
destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Ferma restando l’importanza degli strumenti di
concertazione interistituzionale e la rilevanza degli
obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui
all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007,
tuttavia la Sezione ritiene che non
possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le
forme di contribuzione come quella in esame, volte al
pagamento del canone di locazione.
Ciò anche in
considerazione del carattere non episodico della
contribuzione, che deve presumersi possa interessare la
gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in
corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura
transitoria degli accordi in questione, la cui durata in
generale è annuale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Russi ha inoltrato a questa
Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge
131/2003, una richiesta di parere avente ad oggetto la
possibilità di contribuire legittimamente al pagamento del
canone di locazione di un immobile, di proprietà privata,
destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Il Sindaco di Russi ha spiegato che l’edificio che ospitava
la Stazione dei Carabinieri è stato dichiarato parzialmente
inagibile e che l’Arma, attualmente, per poter svolgere
l’attività di presidio, in attesa di una soluzione adeguata,
sta fruendo di un ufficio nella sede municipale, concesso
gratuitamente dal Comune con delibera di giunta. Per
completezza è stato evidenziato che non vi sono immobili di
proprietà del comune adatti allo scopo ed è stato
manifestato il timore che l’Arma possa non essere in grado
di sostenere l’onere di locazione dell’edificio che sarà in
futuro individuato.
Questa Sezione, considerata la natura generale della
problematica, che imponeva un’interpretazione e
un’applicazione unitaria della stessa, tenuto conto della
circostanza che alcune sezioni regionali di controllo si
erano già espresse prospettando una soluzione alla quale non
riteneva di potersi conformare, rimetteva al Presidente
della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di
deferire alla Sezione delle autonomie, ovvero alle Sezioni
riunite, la questione di massima in ordine alla possibilità,
per gli enti locali, in base al quadro normativo vigente, di
contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme.
L’alternativa era di ritenere detta spesa legittimamente
imputabile al bilancio comunale soltanto in presenza di uno
specifico accordo, finalizzato ad incrementare
effettivamente la sicurezza pubblica.
La pronuncia di questa Sezione sulla richiesta di parere era
conseguentemente sospesa e ne veniva data comunicazione ai
Sindaco richiedente. Successivamente, il Presidente della
Corte dei conti rimetteva la questione alla Sezione delle
autonomie, che si è espressa con deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG,
del 27.05.2014.
...
La Costituzione italiana, all’articolo 117, comma 2, lett.
h), include, tra le materie di legislazione statale
esclusiva, “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della
polizia amministrativa locale”. Il successivo articolo 118,
al comma 3, aggiunge che “la legge statale disciplina forme
di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui
alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117
(…)”. Anche la potestà regolamentare in materia spetta
conseguentemente allo Stato, poiché l’art. 117, comma 6,
stabilisce che “la potestà regolamentare spetta allo Stato
nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle
Regioni”.
In merito alla funzione amministrativa concernente ordine
pubblico e sicurezza, occorre ricordare che, a seguito della
riforma costituzionale del 2001, è venuto meno il
parallelismo tra poteri legislativi e amministrativi;
pertanto, il legislatore statale non incontra ostacoli di
natura costituzionale nell’attribuire, in materia, funzioni
agli enti locali, come ha previsto, per esempio, in favore
del sindaco, reso garante della sicurezza urbana, mediante
l’art. 6 del d.l. 23.05.2008, n. 92, rubricato “misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica”, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.07.2008, n. 125.
Nell’ambito di un progressivo coinvolgimento degli enti
locali in materia di ordine e sicurezza pubblica, il
legislatore statale ha disciplinato la possibilità di
stipulare convenzioni tra il Ministero dell’interno e gli
enti territoriali, allo scopo di incrementare i servizi di
pubblica sicurezza. L’art. 39 della legge 16.01.2003,
n. 3 (“Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica
amministrazione”), rubricato “Convenzioni in materia di
sicurezza”, ha stabilito che “Nell’ambito delle direttive
impartite dal Ministero dell’interno per il potenziamento
dell’attività di prevenzione, il Dipartimento della pubblica
sicurezza può stipulare convenzioni con soggetti pubblici e
privati dirette a fornire, con la contribuzione degli stessi
soggetti, servizi specialistici, finalizzati ad incrementare
la sicurezza pubblica. La contribuzione può consistere nella
fornitura dei mezzi, attrezzature, locali, nella
corresponsione dei costi aggiuntivi sostenuti dal Ministero
dell’interno, nella corresponsione al personale impiegato di
indennità (…)”.
Similmente, l’art. 1, comma 439, della legge
27.12.2006, n. 296, recante “Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge finanziaria 2007)”, ha stabilito che “per la
realizzazione di programmi straordinari di incremento dei
servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la
sicurezza dei cittadini, il Ministro dell’Interno e, per sua
delega, i prefetti, possono stipulare convenzioni con
regioni e gli enti locali che prevedano la contribuzione
logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni e
degli enti locali”.
Il fondamento di tali previsioni, ovviamente, non è da
rinvenire nell’art. 118, comma 3, della Costituzione, il
quale introduce la possibilità di concordare forme di
coordinamento tra Stato e Regioni nelle materie de quibus,
bensì più semplicemente nella generale possibilità che ha il
legislatore di disciplinare la materia.
Pertanto, nell’ordinario gli oneri finanziari per la
locazione di locali in favore delle Forze di Polizia statali
sono da considerare a carico dello Stato, al quale è
intestata in via esclusiva la materia dell’“ordine pubblico
e sicurezza”; tuttavia il quadro normativo facoltizza il
Ministero dell’interno a stipulare convenzioni con gli enti
territoriali dirette a fornire, con la contribuzione di
questi ultimi, servizi specialistici finalizzati ad
incrementare la sicurezza pubblica.
Il fine di raggiungere un più efficace controllo del
territorio rispetto a quello ordinariamente assicurato (la
norma fa riferimento, infatti, a “servizi specialistici”),
quindi, giustifica il sacrificio straordinario che comuni e
province possono decidere di sostenere contribuendo alla
funzione in argomento, allo scopo di rafforzarla sul proprio
territorio, anche mediante fornitura di locali. In mancanza
di un accordo, infatti, avente lo scopo di conseguire una
maggiore sicurezza, non può che operare il principio
generale in forza del quale le risorse assegnate agli enti
territoriali sono destinate a finanziare integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite.
Sulla problematica de qua, si sono espresse diverse sezioni
di queste Corte.
La Sezione di controllo della Regione Friuli–Venezia Giulia,
con deliberazione 16.12.2004, n. 25, ha ritenuto
legittima la riduzione del canone di un contratto di
locazione inerente l’uso, come caserma dei Carabinieri, di
un immobile di proprietà comunale, contratto già concluso,
ma non ancora approvato dal Ministero dell’interno. Alla
base della richiesta di riduzione, avanzata dal locale
Prefetto, si poneva la circolare emanata dal Ministero
dell’interno – Dip. della pubblica sicurezza, 12.05.2004, n. 600, la quale invitava, appunto, i prefetti a
proporre agli enti pubblici titolari degli immobili
destinati a caserme una riduzione del canone, in ragione
dell’interesse delle comunità locali a garantire la
funzionalità dei servizi di polizia, nella prospettiva di
una sicurezza partecipata, nella quale gli enti locali
dovrebbero assumere un ruolo rilevante, anche
nell’assicurare la presenza di presidi delle forze
dell’ordine sul territorio.
La Sezione di controllo per il
Friuli-Venezia Giulia ha giudicato legittima la riduzione
del canone, valorizzando il disposto di cui all’art. 39
della legge 3/2003, il quale, secondo quanto affermato dalla
citata sezione “sottende l’esistenza di un interesse
pubblico alla condivisione delle esigenze di ordine
pubblico, intestate non solo all’amministrazione statale
(Ministero dell’interno), ma partecipate anche dalle singole
amministrazioni locali”. Ha concluso il collegio
evidenziando che il comune istante “proprio per favorire la
presenza sul territorio comunale della caserma dei
carabinieri, può quindi ben rinunciare a parte del canone
locatizio”.
La questione in argomento è stata in seguito oggetto di
analisi da parte della Sezione di controllo per la Regione
Sardegna, la quale si è pronunciata con deliberazione
28.01.2010, n. 3. La richiesta di parere riguardava la
possibilità, per il comune istante, di sostenere i costi di
locazione di un immobile da reperire sul mercato e da
destinare a caserma dell’Arma dei Carabinieri.
La richiamata sezione, nel rispondere, ha innanzitutto
evidenziato che l’art. 118, comma 3, della Costituzione
prevede forme di coordinamento tra Stato e Regioni in
materia di ordine pubblico e sicurezza; inoltre, ha
richiamato le disposizioni mediante le quali, nel tempo,
sono state disciplinate modalità di collaborazione tra
l’amministrazione statale e quelle territoriali per
rafforzare la sicurezza locale. In particolare, sono state
ricordate le già menzionate previsioni di cui all’art. 39
della legge 3/2003 e art. 1, comma 439, legge 296/2006,
nonché i piani coordinati di controllo del territorio aventi
ad oggetto una stretta collaborazione tra Polizia municipale
e provinciale e organi della Polizia di stato ed, infine, il
“patto per la sicurezza” siglato tra il Ministero
dell’interno e l’A.N.C.I. il 20.03.2007.
Sulla base del delineato quadro normativo, la Sezione di
controllo per la Sardegna ha concluso che le esigenze di
tutela dell’ordine pubblico si inseriscono nel quadro dei
rapporti e delle valutazioni da assumersi in sede
interistituzionale, secondo le procedure previste dalla
legge. In tale contesto concertativo, potrebbero assumersi
le deliberazioni dello Stato e degli enti territoriali,
incidenti sulle rispettive dotazioni finanziarie, in
relazione ad eventuali forme di contribuzione alla spesa
necessarie per le esigenze di salvaguardia della sicurezza
pubblica.
La Sezione regionale di controllo per la Campania, con
deliberazione 13.03.2012, n. 66, esprimendosi in merito alla
possibilità per un comune di contribuire al pagamento
dell’affitto per i locali in uso alla caserma dei
Carabinieri, pur dichiarando l’inammissibilità oggettiva
della questione, ha citato, mostrando di condividerla, la
soluzione prospettata dalla Sezione di controllo per la
Sardegna con la richiamata deliberazione 3/2010.
Diversa la posizione prospettata dalla Sezione regionale di
controllo per la Calabria, mediante deliberazione
28.04.2009, n. 289. La richiesta di parere aveva ad oggetto
la legittimità della spesa, a carico del bilancio comunale,
per la costruzione di un immobile da destinare a caserma dei
Carabinieri. Detto collegio, pur dichiarando la questione
inammissibile, ha svolto alcune considerazioni. Innanzitutto
ha rimarcato come la possibilità di partecipazione alla
gestione della pubblica sicurezza, da parte delle regioni e
degli enti locali, sia prevista nell’ambito di appositi
programmi straordinari di incremento dei servizi
specialistici di polizia, alla cui realizzazione i soggetti
pubblici in questione possono partecipare contribuendovi, e
come detta partecipazione, in ogni caso, debba essere
disciplinata attraverso specifiche convenzioni appositamente
stipulate tra gli enti locali interessati ed il Ministro
dell’interno (o, per sua delega, il Prefetto).
Pertanto,
essendo disciplinato un articolato contesto di cooperazione
interistituzionale nel campo dei servizi specialistici di
polizia, che appariva carente nella concreta vicenda
segnalata, si è ritenuto che l’operazione prospettata non
fosse realizzabile.
Alla luce di quanto evidenziato, emergeva un contrasto tra
l’interpretazione che dell’art. 39, legge 3/2003, dell’art.
1, comma 439, legge 296/2006, e più in generale dell’intero
quadro normativo in materia, hanno dato le Sezioni di
controllo Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Campania e la
lettura, ad avviso di questo collegio preferibile, fornita
dalla Sezione di controllo per la Calabria. Il conflitto
interpretativo riguardava l’ambito di estensione della
facoltà che hanno gli enti territoriali di contribuire al
pagamento del canone di locazione di un immobile, destinato
ad ospitare una caserma di una Forza di Polizia statale.
Tale possibilità era stata riconosciuta da diverse sezioni
regionali di controllo in misura abbastanza ampia, sulla
base dell’interesse alla condivisione delle esigenze di
ordine e sicurezza pubblica; al contrario, questa Sezione
riteneva dovesse essere limitata ai casi in cui si miri,
mediante specifica convenzione, a perseguire un incremento
della sicurezza pubblica. Solo a seguito della stipulazione
di una specifica convenzione, avente lo scopo di
incrementare la sicurezza, infatti, sembra potersi
giustificare un impegno finanziario degli enti locali, i
quali non dovrebbero, al contrario, essere chiamati a
contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme,
poste ad esclusivo carico dello Stato.
Il contrasto interpretativo induceva questa Sezione a
rimettere la questione di massima al Presidente della Corte
dei conti allo scopo di stabilire se gli enti locali possano
contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme,
o se tale possibilità sia loro consentita solo in presenza
di uno specifico accordo finalizzato ad incrementare
effettivamente la sicurezza pubblica.
La Sezione delle autonomie, con
deliberazione 09.06.2014 n. 16 (disponibile sul
sito web della Corte al quale si rinvia) ha risolto la
questione di massima, rendendo una pronuncia di orientamento
che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 174/2012,
costituisce esercizio di funzione nomofilattica e, pertanto,
vincola le sezioni regionali di controllo. In particolare,
mostrando di condividere l’orientamento espresso da questa
Sezione, ha evidenziato quanto segue: “(…) la
Costituzione, pur attribuendo allo Stato la competenza
esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (art.
117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce, nella nuova
formulazione dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con
legge statale, forme di coordinamento fra Amministrazioni
statali e periferiche, in vista del potenziamento della
sicurezza a livello locale.
Al riguardo, deve osservarsi che una specifica base
normativa e soprattutto finanziaria è stata posta dall’art.
1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, che
autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni
e gli enti locali per realizzare programmi straordinari,
tesi ad un potenziamento dei presidi di sicurezza sul
territorio, accedendo alle risorse logistiche, strumentali e
finanziarie messe a disposizione dagli enti che aderiscono.
(…) La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine
pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento
nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a
valutare le necessità della collettività amministrata in
termini di priorità e di compatibilità finanziarie e
gestionali e, sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare
le eventuali concertazioni interistituzionali, volte
all’adozione di specifici protocolli d’intesa che
individuino obiettivi e risorse.
Peraltro, ferma restando l’importanza degli strumenti di
concertazione interistituzionale e la rilevanza degli
obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui
all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007,
tuttavia la Sezione ritiene che non
possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le
forme di contribuzione come quella in esame, volte al
pagamento del canone di locazione. Ciò anche in
considerazione del carattere non episodico della
contribuzione, che deve presumersi possa interessare la
gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in
corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura
transitoria degli accordi in questione, la cui durata in
generale è annuale”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 07.07.2014 n. 173). |
PATRIMONIO:
La sdemanializzazione di un bene pubblico, quando
non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da
altri atti o comportamenti univoci da parte
dell’amministrazione proprietaria i quali siano concludenti
e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare
la destinazione del bene stesso all’uso pubblico, oppure da
circostanze tali da rendere non configurabile un'ipotesi
diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della
funzione pubblica del bene.
Ne consegue che la sdemanializzazione non si può desumere
dal mero fatto che il bene non sia più adibito, per un certo
tempo a detto uso.
In ogni caso il Collegio
ritiene che nel caso in esame debba essere richiamato
l’orientamento secondo cui la sdemanializzazione di un bene
pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso,
deve risultare da altri atti o comportamenti univoci da
parte dell’amministrazione proprietaria i quali siano
concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima
di conservare la destinazione del bene stesso all’uso
pubblico, oppure da circostanze tali da rendere non
configurabile un'ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia
al ripristino della funzione pubblica del bene. Ne consegue
che la sdemanializzazione non si può desumere dal mero fatto
che il bene non sia più adibito, per un certo tempo a detto
uso (in tal senso: Cons. Stato, IV, 14.12.2002, n. 6923) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.07.2014 n. 3408 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2014 |
|
PATRIMONIO:
Questione di massima concerne la possibilità che il Comune
imputi legittimamente a carico del bilancio comunale la
contribuzione al pagamento del canone di locazione per un
immobile di proprietà privata destinato ad essere adibito a
caserma dell’Arma dei Carabinieri.
Ferma restando l’importanza degli
strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza
degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui
all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007,
tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare
nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di
contribuzione volte al pagamento del canone di locazione.
Ciò anche in considerazione del carattere non episodico
della contribuzione, che deve presumersi possa
interessare la gestione del bilancio dell’ente ben oltre
l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla
natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata
in generale è annuale.
---------------
La questione all’esame
concerne la possibilità che il comune imputi
legittimamente a carico del bilancio comunale la
contribuzione al pagamento del canone
di locazione per un immobile di proprietà privata destinato
ad essere adibito a caserma
dell’Arma dei Carabinieri.
In particolare, la Sezione è chiamata ad esprimere il
proprio avviso in merito alla
questione di massima concernente la corretta interpretazione
delle disposizioni recate
dall’art. 1, comma 439, della legge 27.12.2006, n. 296
(legge finanziaria per il
2007) ove si prevede espressamente che “per la realizzazione
di programmi straordinari
di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico
urgente e per la sicurezza dei
cittadini, il Ministro dell’Interno e per sua delega i
Prefetti, possono stipulare
convenzioni con le regioni e gli enti locali, che prevedano
la contribuzione logistica,
strumentale e finanziaria delle stesse regioni e degli enti
locali.”
1.
In primo luogo, occorre valutare la pregiudiziale
relativa all’ammissibilità, sotto
il profilo oggettivo, della questione posta all’odierno
esame dalla Sezione remittente.
Al riguardo, le Sezioni regionali di controllo chiamate ad
esprimersi su questioni analoghe hanno assunto posizioni
contrastanti. In particolare, le Sezioni per la
Campania e la Calabria, come brevemente riassunto nella
parte in fatto, hanno ritenuto
il quesito inammissibile, in quanto riferito ad uno
specifico atto gestionale e perciò
carente del requisito della generalità.
Di converso, le Sezioni di controllo per le Regioni Friuli
Venezia Giulia e
Sardegna hanno valutato il quesito ammissibile anche sotto
il profilo oggettivo, in
quanto inerente a scelte amministrative dell’ente non ancora
poste in essere e
riguardanti la disciplina da applicarsi alla gestione del
patrimonio del Comune, pertanto
riconducibili nell’alveo della materia di contabilità
pubblica.
La Sezione delle autonomie ritiene che il quesito posto,
diretto a conoscere la
legittimità dell’erogazione a carico del bilancio comunale,
involge una tematica
connessa alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche,
nel quadro degli specifici
obiettivi di contenimento della spesa pubblica, sanciti dai
principi di coordinamento della finanza pubblica, contenuti
nelle leggi finanziarie (ora leggi di stabilità), possa
essere considerato ammissibile anche sotto il profilo
oggettivo. Infatti, oggetto del
quesito in esame è stabilire se gli oneri da sostenere per
il pagamento del canone di
locazione possano essere legittimamente imputati al bilancio
del comune. Ciò postula
un’attività di interpretazione di norme che regolano la
gestione finanziaria e che
sovraintendono al coordinamento della finanza pubblica,
nonché alla salvaguardia degli
equilibri di bilancio.
In particolare, la questione oggetto di parere può essere
ricondotta nell’ambito
della “materia di contabilità pubblica” nell’accezione
dinamica di cui alla deliberazione
delle Sezioni Riunite n. 54/2010, da ultimo ripresa dalla
delibera n. 3/SEZAUT/2014,
ove la Corte ha affermato che materie, nel loro nucleo
originario estranee alla
contabilità pubblica, possono essere ricondotte in tale
ambito, in una visione dinamica
del concetto, che sposti l’ottica dalla gestione
strettamente intesa agli equilibri di
bilancio ed alla funzione di coordinamento della finanza
pubblica.
Atteso, poi, che nella fattispecie sottoposta all’attenzione
della Sezione delle
autonomie non rilevano atti di gestione adottati o
adottandi, il quesito in esame consente
alla Corte di esprimere il proprio avviso in merito
limitatamente al richiamo di principi
e regole che l’ente potrà tenere nella dovuta considerazione
nell’esercizio della propria
discrezionalità, per assumere le determinazioni di
competenza, salvaguardando tanto
l’autonomia gestionale dell’ente richiedente quanto la
posizione di terzietà ed
indipendenza rivestita dalla Corte dei Conti nell’esercizio
della funzione consultiva.
2.
Per quanto riguarda il merito, occorre inizialmente
considerare che la
competenza in materia di accasermamento per l’assolvimento
da parte dell’Arma dei
Carabinieri, dei compiti di tutela dell’ordine pubblico e
della sicurezza spetta al
Ministero dell’Interno .
E’ anche da considerare che la materia dell’ordine pubblico
e della sicurezza
risulta, in forza di quanto disposto dall’art. 117, comma 2,
lett. h), della Costituzione, chiaramente intestata, in via
esclusiva, allo Stato e che, quindi, i relativi oneri
finanziari
ricadono direttamente sul bilancio statale e
specificatamente sullo stato di previsione
della spesa del predetto Ministero.
3.
Dall’attuale assetto delle competenze istituzionali
nonché dall’articolazione
costituzionale della finanza pubblica deriva, come
corollario, il principio di autonomia
finanziaria di entrata e di spesa riconosciuta in capo agli
enti locali, che, avvalendosi
delle proprie risorse finanziarie e patrimoniali provvedono
all’espletamento delle funzioni e dei compiti
istituzionalmente intestatigli. Pertanto,
gli oneri
finanziari
collegati al pagamento del canone di locazione di un
immobile di proprietà privata
adibito a caserma, coerentemente con il quadro delle
competenze istituzionali e con il
citato principio di autonomia finanziaria, ricadono, come
già precisato, sul bilancio
dello Stato.
Tuttavia, deve considerarsi che il testo novellato dell’art.
118 della Costituzione
prevede che la legge statale possa disciplinare forme di
coordinamento fra Stato e
Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza.
Inoltre, l’art. 14 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL) prevede la
possibilità che la legge
affidi ai Comuni eventuali ulteriori funzioni amministrative
per servizi di competenza
statale, assicurando, al contempo, le risorse necessarie e
regolando i relativi rapporti
finanziari.
Al riguardo, occorre rammentare che diverse sono le forme di
collaborazione fra
amministrazioni centrali e locali previste da disposizioni
di legge, intervenute negli ultimi anni, in vista del
perseguimento dell’obiettivo del miglioramento delle
condizioni
di sicurezza locale. In primo luogo, devono rammentarsi “le
convenzioni in materia di
sicurezza”, introdotte dall’art. 39 della legge 16.01.2003, n. 3, che il Dipartimento
della Pubblica sicurezza può stipulare con soggetti pubblici
e privati, al fine di
contribuire, attraverso la fornitura di mezzi, attrezzature
e locali, ad incrementare la
sicurezza pubblica.
Con successiva disposizione di cui
all’art. 1, comma 439, della
legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria per il
2007) il legislatore ha previsto,
per la realizzazione di programmi straordinari di incremento
dei servizi di polizia, di
soccorso tecnico urgente ed in generale per la sicurezza dei
cittadini, la possibilità di
stipula di convenzioni fra il Ministro dell’interno e per
sua delega, i Prefetti e gli enti
territoriali. Convenzioni queste ultime che hanno ad oggetto
la contribuzione logistica,
strumentale e finanziaria e che hanno trovato nell’Accordo
quadro, stipulato, in data 20.03.2007, fra il predetto Ministero e l’ANCI, le linee
generali di regolazione.
Al predetto Accordo hanno fatto
seguito una serie di “Patti per la sicurezza”, sottoscritti
dagli enti territoriali, fra i quali si annoverano sedici
Regioni ed i Comuni di Roma,
Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari e
Napoli.
Con l’Accordo Quadro del marzo 2007 si è avviata una nuova
fase di
collaborazione fra istituzioni centrali e locali nel campo
della sicurezza, caratterizzate
dall’evidenziazione delle specificità delle singole realtà
territoriali.
4.
Per quanto attiene alle risorse finanziarie per
l’attuazione delle predette forme
di concertazione interistituzionale, occorre precisare che
le contribuzioni finanziarie a
tal fine destinate dalle regioni e dagli enti locali sono
state escluse dall’applicazione
dell’art. 1, comma 46, della legge 23.12.2005, n. 266
(legge finanziaria per il
2006) che limita, per ciascuna amministrazione, l’importo
complessivo delle riassegnazioni a quelle effettuate nell’anno 2005.
Inoltre, negli articolati dei Patti per la sicurezza, fino
ad ora adottati, gli enti
firmatari hanno introdotto previsioni specifiche per
l’istituzione di un apposito fondo,
presso la competente Prefettura per finanziarie la
realizzazione di progetti e programmi
speciali, con lo stanziamento di somme ad hoc, in aggiunta a
quelle già destinate presso
ciascuna amministrazione alla finalità della sicurezza
locale.
5.
Premesso quanto sopra, è anche da rappresentare che, alla
luce dell’attuale
quadro normativo vigente in materia di acquisto e locazione
di immobili da parte delle
Amministrazioni dello Stato, nonché alla luce del processo
di razionalizzazione della
gestione del patrimonio immobiliare, avviato ai sensi
dell’art. 2, comma 222, della legge
23.12.2009, n. 191 (legge finanziaria per il 2010) e
proseguito con l’intervento
delle disposizioni recate dal d.l. 06.07.2011, n. 98
convertito in legge con
modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 15.07.2011, n. 111, nonché dal d.l.
06.12.2011, n. 201, convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214,
le
Amministrazioni dello Stato, ivi compreso il Ministero
dell’Interno per quanto riguarda
le caserme, prima dell’avvio della ricerca di soluzioni
“allocative” sul mercato, devono
rivolgersi all’Agenzia del Demanio per l’accertamento
dell’esistenza di immobili di
proprietà dello Stato, ma anche degli enti locali, idonei
all’utilizzo richiesto.
Solo in caso di indisponibilità è possibile per le anzidette
amministrazioni fare
luogo ad indagini di mercato per reperire immobili di
proprietà privata, che risultino idonei alle specifiche
esigenze e, soprattutto, in linea con le necessità già
rappresentate
nel Piano triennale dei fabbisogni di spazi allocativi,
tenendo presenti, comunque, gli
obiettivi di contenimento della spesa pubblica, nonché di
razionalizzazione dell’utilizzo
del patrimonio immobiliare pubblico.
Ulteriori limiti in materia sono stati introdotti, com’è
noto, dalla legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), che,
all’art. 1, comma 138, ha
apportato modifiche alla citata normativa, vietando
sostanzialmente per il 2013
l’acquisto di immobili a titolo oneroso, ma anche la stipula
di contratti di locazione passiva, salvo che si tratti di
rinnovi di contratti, ovvero che la locazione sia stipulata
per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la
disponibilità di locali in sostituzione di
immobili dismessi.
Le anzidette disposizioni trovano applicazione nel caso di
specie e rappresentano
il quadro normativo di riferimento, sia in termini
gestionali che di limiti alla spesa, per
le Amministrazioni centrali, per la stipula di contratti di
locazione passiva e, quindi,
anche per l’Amministrazione dell’Interno, che deve
applicarle nella scelta della corretta
soluzione allocativa delle caserme per le forze di polizia.
6.
Premesso quanto sopra, conclusivamente, deve considerarsi
che la Costituzione,
pur attribuendo allo Stato la competenza esclusiva in
materia di ordine pubblico e
sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce,
nella nuova formulazione
dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con legge statale,
forme di coordinamento fra
Amministrazioni centrali e periferiche, in vista del
potenziamento della sicurezza a livello locale.
Al riguardo, deve osservarsi che una specifica base
normativa e soprattutto
finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma 439, della
legge finanziaria per il 2007, che
autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni
e gli enti locali per realizzare
programmi straordinari, tesi ad un potenziamento dei presidi
di sicurezza sul territorio,
accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie
messe a disposizione dagli
enti che aderiscono.
Le disposizioni in parola prevedono, fra l’altro, la
costituzione di un fondo
speciale in cui allocare le risorse per l’acquisizione di
mezzi e tecnologie, una
contabilità speciale per accelerare le procedure e la
verifica periodica dello stato di
attuazione degli obiettivi concordati, nella prospettiva di
un’eventuale rimodulazione
degli stessi, in vista del rinnovo stesso delle convenzioni.
La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine
pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento
nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a
valutare le necessità della collettività amministrata in
termini di priorità e di
compatibilità finanziarie e gestionali e, sulla scorta di
tali valutazioni, ad avviare le
eventuali concertazioni interistituzionali, volte
all’adozione di specifici protocolli
d’intesa che individuino obiettivi e risorse.
Pertanto, ferma restando l’importanza
degli strumenti di concertazione interistituzionale e la
rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza
pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi,
di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il
2007, tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare
nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di
contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del
canone di locazione. Ciò anche in considerazione del
carattere non episodico della contribuzione, che deve
presumersi possa interessare la gestione del bilancio
dell’ente ben oltre l’esercizio in corso e che, pertanto,
mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in
questione, la cui durata in generale è annuale
(Corte dei Conti. Sez. Autonomie,
deliberazione 09.06.2014 n. 16). |
PATRIMONIO: Gli enti non possono pagare l'affitto di una caserma.
I comuni non possono caricarsi l'onere economico di
partecipare al pagamento del canone di locazione di una
caserma dei carabinieri. Ferma restando l'importanza e la
rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza
pubblica, le forme di contribuzione così intese non possono
essere ammesse, anche in considerazione del carattere non
episodico della contribuzione.
È quanto ha precisato la Sez. Autonomie della Corte dei Conti, nel testo della
deliberazione 09.06.2014 n. 16, con cui,
sollecitata sul punto dalla sezione regionale dell'Emilia
Romagna, ha fornito un indirizzo interpretativo univoco
sulla vicenda che, in questi anni, ha visto diverse
articolazioni della Corte stessa pronunciarsi in senso
opposto.
In vista del perseguimento dell'obiettivo del miglioramento
delle condizioni di sicurezza locale, negli ultimi anni è
stata prevista, per la realizzazione di programmi
straordinari di incremento dei servizi di polizia, di
soccorso tecnico urgente e in generale per la sicurezza dei
cittadini, la possibilità di stipula di convenzioni fra il
ministro dell'interno e per sua delega, i prefetti e gli
enti territoriali (su tutti, i Patti per la sicurezza).
In
questi Patti, ha sottolineato la Corte, gli enti firmatari
hanno introdotto previsioni specifiche per l'istituzione di
un apposito fondo presso la competente prefettura, per
finanziarie la realizzazione di progetti e programmi
speciali, con lo stanziamento di somme ad hoc, in aggiunta a
quelle già destinate presso ciascuna amministrazione alla
finalità della sicurezza locale. Tuttavia, nell'ambito di
questi strumenti, la Corte non ha ritenuto possano rientrare
le forme di contribuzione sopra evidenziate, ovvero quelle
volte al pagamento del canone di locazione di una caserma
dell'Arma.
Ciò anche in considerazione del carattere non
episodico della contribuzione, che deve presumersi possa
interessare la gestione del bilancio dell'ente ben oltre
l'esercizio in corso e che, pertanto, mal si sposa con la
natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata
in generale è annuale. Senza dimenticare che, l'eventuale
partecipazione economica del comune, confliggerebbe con la
previsione della legge di stabilità del 2013, dove,
sostanzialmente, si vieta sia l'acquisto di immobili a
titolo oneroso, ma anche la stipula di nuovi contratti di
locazione
(articolo ItaliaOggi del del 13.06.2014). |
maggio 2014 |
|
INCARICHI
PROFESSIONALI - PATRIMONIO: Contratti,
tagli solo facoltativi. Cade la stretta su consulenze e
incarichi di studio e ricerca. Negli
emendamenti del governo i correttivi al dl Irpef. Slitta la
decisione sulla Tasi.
Non più obbligo, bensì «facoltà» di ridurre del 5% i nuovi
contratti stipulati dalle amministrazioni pubbliche per
acquistare beni e servizi. E, per quanto concerne i
pagamenti, bisognerà mettere nero su bianco (e darne prova
anche sul web) un prospetto trimestrale sulle fatture
saldate, sebbene, in caso di mancato rispetto della norma, i
responsabili non saranno sanzionati.
Sono queste le novità per stato centrale ed enti locali dal
decreto Irpef 66/2014, fino al pomeriggio di ieri al vaglio
delle commissioni bilancio e finanze di palazzo Madama, dove
i relatori (Antonio D'Ali del Ncd e Cecilia Guerra del Pd)
ed il governo hanno depositato una serie di testi
emendativi, alcuni dei quali nel solco della «spending
review».
Resta invece ancora incerta la sorte della proroga Tasi al
16 ottobre, che, pur essendo ormai scontata, non ha ancora
visto la luce. Lo slittamento era atteso in un decreto legge
ad hoc da approvare oggi per poi transitare come
emendamento nel dl 66. Ma la mancata convocazione del cdm
rimanda la soluzione del giallo a martedì prossimo. E resta
incerto se il rinvio al 16 ottobre riguarderà solo le
seconde case o anche le prime (per le quali però si
tratterebbe di un anticipo visto che per quest'anno la Tasi
sull'abitazione principale, nei comuni che non hanno
approvato le delibere entro il 23 maggio, si sarebbe dovuta
pagare in rata unica a dicembre).
Regioni, province, città metropolitane e comuni saranno
fuori dall'obbligo di dare l'altolà ad incarichi di
consulenza, studio e ricerca e a contratti di collaborazione
coordinata e continuativa, quando la spesa complessiva
supera un certo rapporto rispetto alla spesa per personale;
il semaforo rosso ad ulteriori incarichi era contenuto
nell'articolo 14 del testo, e comprendeva tutte le
amministrazioni pubbliche annoverate nel perimetro
individuato dall'Istat, però i senatori hanno approvato una
modifica che consente agli organismi la possibilità di
rimodulare le proprie scelte, oppure di adottare misure
alternative di contenimento delle uscite correnti, sempre,
però, garantendo i medesimi risparmi.
A seguire, grazie ad un ritocco all'art. 8 del
provvedimento, si dà «la facoltà», e si toglie
l'imposizione, di operare una sforbiciata del 5% sui nuovi
contratti per le dotazioni di beni e servizi. E, all'insegna
della trasparenza delle procedure, arriva il vincolo alla
pubblicazione (anche online) di un indicatore trimestrale di
tempestività dei pagamenti; non scatteranno, però, sanzioni
in caso di mancata ottemperanza, inizialmente previste nella
versione originale del decreto, e legate alla retribuzione
di risultato e al trattamento accessorio dei soggetti
responsabili.
Fra le altre norme varate in commissione, una riguarda il
versamento della tassa sulla rivalutazione dei beni di
impresa, che sarà diluita in tre tranche (da salare il 16
giugno, il 16 settembre ed il 16 dicembre) di pari importo,
e senza alcuna corresponsione di interessi. Mentre è stato
disposto che, anche nel 2015, le entrate che deriveranno da
misure straordinarie di lotta all'evasione saranno destinate
alla riduzione generale delle imposte.
Expo 2015.
Concesso alla regione Lombardia di derogare ai limiti di
spesa (imposti dalla legge 122/2010) in materia di «comunicazione
e promozione per le sole voci inerenti al grande evento Expo
2015» sia nel 2014, sia nel 2015. L'emendamento, che ha
ricevuto il via libera dei senatori, stabilisce che
l'amministrazione dovrà, comunque, garantire gli obiettivi
complessivi di riduzione dei costi, rimodulando ed adottando
«misure alternative di contenimento della spesa corrente
al fine di compensare il maggior esborso» per tali
finalità legate all'evento espositivo universale milanese
del prossimo anno.
Documento di cittadinanza.
Per il trattamento della domanda di riconoscimento della
cittadinanza italiana di persona maggiorenne bisognerà
corrispondere la somma di 300 euro, mentre per il rilascio
del passaporto ordinario «è dovuto un contributo
amministrativo di euro 73,50, oltre al costo del libretto»
(articolo
ItaliaOggi del 30.05.2014). |
PATRIMONIO:
Concessione bene patrimoniale indisponibile. Procedura
riservata alle cooperative sociali.
La normativa vigente statale e regionale
(art. 5, L. n. 381/1991; art. 24, L.R. n. 20/2006) consente
all'amministrazione, quando ricorrono le condizioni
previste, di affidare in convenzione alle cooperative
sociali di tipo b) di cui all'art. 1, L. n. 381/1991, gli
appalti di fornitura di beni e servizi diversi da quelli
socio-sanitari ed educativi.
Il Consiglio di Stato ha affermato la valenza eccezionale
dell'art. 5, L. n. 381/1991, in quanto norma derogatoria ai
principi generali di tutela della concorrenza, nel cui
ambito applicativo non è possibile far rientrare contratti
diversi da quelli, di appalto di forniture e servizi,
specificamente indicati. In particolare, l'affidamento in
concessione di un bene pubblico per la gestione di
un'attività rivolta ai cittadini, e non all'amministrazione,
non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 5, L. n.
381/1991, con la conseguenza che la scelta del contraente
deve avvenire nel rispetto delle procedure amministrative
poste a tutela della concorrenza Concessione bene
patrimoniale indisponibile. Procedura riservata alle
cooperative sociali.
Il Comune riferisce dell'intenzione di procedere ad una
selezione pubblica per la concessione in uso di un bene del
patrimonio indisponibile da destinare a punto di ristoro,
esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e
bevande, all'interno di un parco pubblico, con previsione
dell'obbligo di impiegare nella gestione anche soggetti
svantaggiati. In considerazione di quest'ultima circostanza,
il Comune valuterebbe l'idea di riservare l'accesso alla
selezione alle cooperative sociali, ai sensi dell'art. 5, L.
n. 381/1991 [1],
e dell'art. 24, L.R. n. 20/2006 [2],
e di prevedere un canone concessorio ridotto mediante
applicazione per analogia dell'art. 12, D.P.R. n. 296/2005
[3].
Il Comune chiede un parere in ordine alla legittimità del
quadro prospettato, evidenziando che nel caso di specie
trattasi di concessione di bene immobile vincolata alla
realizzazione di attività commerciale e ponendo una
riflessione su una recente pronuncia del Consiglio di Stato
[4],
secondo cui non è possibile applicare l'art. 5, L. n.
381/1991, per la gestione di un bene pubblico e lo
svolgimento di attività rivolta ai cittadini e non
all'Amministrazione, dovendosi, invece, effettuare la
procedura selettiva, a tutela della concorrenza.
Il predetto art. 5 prevede che 'gli enti pubblici,
compresi quelli economici, e le società di capitali a
partecipazione pubblica, anche in deroga alla disciplina in
materia di contratti della pubblica amministrazione',
possono stipulare convenzioni con le cooperative che
svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di
servizi 'per la fornitura di beni e servizi diversi da
quelli sociosanitari ed educativi
[5] il cui
importo stimato al netto dell'iva sia inferiore agli importi
stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti
pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare
opportunità di lavoro per le persone svantaggiate'
(comma 1).
Il Consiglio di Stato ha affermato la valenza eccezionale
dell'art. 5, L. n. 381/1991, in quanto norma derogatoria ai
principi generali di tutela della concorrenza e che, dunque,
deve essere interpretata in maniera restrittiva
[6].
In questi termini, l'ambito applicativo dell'articolo 5
citato è esplicitato dal Consiglio di Stato, il quale
precisa che lo stesso consente all'amministrazione, quando
ricorrono le condizioni specificamente indicate, di affidare
direttamente [7]
alle cooperative sociali di tipo b) gli appalti di fornitura
di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed
educativi [8].
Il Supremo giudice amministrativo specifica il riferimento
della norma ai contratti di appalto di forniture e servizi,
con la conseguenza che non è possibile far rientrare nel suo
campo di applicazione contratti diversi da quelli
specificamente indicati [9].
Più precisamente, la fattispecie giuridica presa in
considerazione dall'art. 5 in argomento consiste nella
fornitura di servizi diretta a soddisfare esigenze
dell'amministrazione pubblica, che questa ha facoltà di
procurarsi, tramite convenzione, in deroga alle norme in
materia di contratti della pubblica amministrazione, da
parte di cooperative sociali allo scopo di creare
opportunità di lavoro per persone svantaggiate
[10].
Nel caso in esame, la fattispecie contrattuale che viene
prospettata è quella della concessione di un bene pubblico
per la gestione di attività di somministrazione di alimenti
e bevande, con la previsione dell'impiego anche di persone
svantaggiate. Ebbene, il Consiglio di Stato ha affermato che
l'affidamento di un bene pubblico per la gestione di
un'attività rivolta ai cittadini, e non all'amministrazione,
non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 5, L. n.
381/1991, con la conseguenza che la scelta del contraente
deve avvenire nel rispetto delle procedure amministrative
poste a tutela della concorrenza. In ogni caso, afferma il
Consiglio di Stato, si impone l'osservanza delle regole
dell'evidenza pubblica quando viene in considerazione la
gestione di un bene pubblico [11].
Ciò chiarito in ordine al campo applicativo del
convenzionamento, limitato agli appalti per la fornitura di
beni e servizi in favore dell'amministrazione, quando
ricorrono le condizioni dell'art. 5 della L. n. 381/1991
[12], e
alla necessaria evidenza pubblica, laddove si sia invece in
presenza della fattispecie concessoria, si passa ora ad
esaminare in quest'ultima ipotesi, ricorrente nel caso di
specie, l'aspetto relativo alla possibile riserva della
procedura selettiva alle cooperative sociali.
Al riguardo, si osserva che la possibilità di ritenere
ammissibile l'indizione di procedure selettive riservate
alle cooperative sociali è stata considerata come ulteriore
espressione della relazione preferenziale delle cooperative
sociali con l'ente pubblico, consentita dall'art. 5, L. n.
381/1991, nei limiti ivi previsti. Il Consiglio di Stato,
nel rilevare la facoltà concessa, dall'art. 5 della L. n.
381/1991, alle amministrazioni pubbliche, di stipulare
convenzioni con le cooperative sociali di tipo b)
[13], ha
affermato come possa ammettersi che detta facoltà comporti
anche la possibilità per l'amministrazione pubblica di
indire gare di appalto, per la fornitura di beni e servizi
diversi da quelli socio-sanitari ed educativi, riservate
alle cooperative di tipo b), purché l'importo
dell'affidamento sia sotto la soglia comunitaria
[14]. Allo
stesso modo, la dottrina ha osservato che, se non sussistono
particolari ragioni collegate alla situazione particolare
tali da indurre l'ente a negoziare direttamente con una
specifica cooperativa sociale, il ricorso all'art. 5 della
L. n. 381/1991 si concretizzerà nella negoziazione riservata
a più cooperative sociali [15].
Qualora, invece, come nel caso in esame, si sia in presenza
di una fattispecie concessoria, ciò 'esclude tout court
l'applicabilità della deroga contenuta nell'art. 5, comma 1,
L. n. 381/1991' [16]:
pertanto, per le considerazioni sopra espresse, anche la
possibilità di costituire una riserva di partecipazione
sembra venire meno.
Un tanto chiarito, per quanto concerne la possibilità per il
Comune di applicare canoni concessori agevolati a
cooperative sociali cui, nel rispetto delle procedure di
legge, dovesse concedere l'uso di immobili del proprio
patrimonio, si esprime quanto segue. Il D.P.R. n. 296/2005,
richiamato dall'Ente, disciplina i criteri di concessione o
locazione di parte dei beni immobili demaniali e
patrimoniali dello Stato, gestiti dall'Agenzia del demanio,
anche a titolo gratuito ovvero a canone agevolato, per
finalità di interesse pubblico o di particolare rilevanza
sociale, in favore di determinati soggetti beneficiari
dell'agevolazione, tra cui le ONLUS (artt. 9, 10, 11 e 12)
[17].
La normativa testé richiamata è espressamente riferita al
patrimonio immobiliare dello Stato, in relazione al quale
reca delle previsioni in deroga al principio generale di
fruttuosità dei beni pubblici: pertanto, trattandosi di
norme di eccezione, non sembrano passibili di applicazione
estensiva in via analogica ai sensi dell'art. 14 delle
Preleggi.
Specificamente per il patrimonio immobiliare degli enti
territoriali, il principio della fruttuosità dei beni
pubblici è affermato dall'art. 32, comma 8, L. 23.12.1994,
n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica)
[18], che
fa salvi gli scopi sociali.
Alla luce di un tanto, compete all'Ente valutare, in
relazione alle peculiarità degli affidamenti del proprio
patrimonio indisponibile, la possibilità di operare
temperamenti al principio di fruttuosità dei beni pubblici,
in considerazione della finalità sociale perseguita.
---------------
[1] L. 08.11.1991, n. 381, recante: 'Disciplina delle
cooperative sociali'.
[2] L.R. 20.10.2006, n. 20, recante: 'Norme in materia di
cooperazione sociale'.
[3] D.P.R. 13.09.2005, n. 296, recante: 'Regolamento
concernente i criteri e le modalità di concessione in uso e
in locazione dei beni immobili appartenenti allo Stato'.
[4] Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342.
[5] L'art. 1, L. n. 381/1991, distingue le cooperative
sociali in quelle di tipo a), aventi ad oggetto la gestione
di servizi socio-sanitari ed educativi, e di tipo b), cui fa
riferimento l'art. 5 della L. 381, aventi ad oggetto lo
svolgimento di attività diverse -agricole, industriali,
commerciali o di servizi- finalizzate all'inserimento
lavorativo di persone svantaggiate.
[6] Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1863;
Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342.
[7] Sul piano dell'ordinamento regionale, cui l'art. 9 della
L. 381 rinvia per l'attuazione delle disposizioni recate,
viene in considerazione, sotto il profilo della convenzione,
l'art. 24, L.R. 20/2006, secondo cui, qualora nel territorio
provinciale interessato abbia sede una pluralità di
cooperative sociali iscritte all'Albo che provvedono
specificamente alla fornitura di beni e servizi richiesti e
l'importo della spesa sia pari o superiore a 50.000 euro per
singola annualità, iva esclusa, e comunque nel rispetto
della soglia di rilevanza comunitaria, la scelta del
contraente con cui stipulare la convenzione di cui all'art.
5, L. n. 381/1991, avviene attraverso procedura negoziata
previo espletamento di gara ufficiosa tra almeno tre
cooperative sociali di cui almeno una scelta con il criterio
di rotazione tra le iscritte all'Albo, ovvero tra tutte le
cooperative presenti qualora le stesse siano in numero
inferiore a tre.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1863, secondo
cui la norma, riferendosi ad appalti, presuppone fattispecie
in cui la relativa prestazione sia rivolta
all'amministrazione.
[9] Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342.
[10] Consiglio di Stato, sez. V, 11.05.2010, n. 2829.
Conforme, Consiglio di Stato n. 1863/2014, cit.. Anche l'AVCP
richiama l'orientamento restrittivo della giurisprudenza
amministrativa in relazione all'art. 5, L. n. 381/1991,
secondo cui detta disposizione, nel riferirsi alla
'fornitura di beni e servizi', offre agli enti pubblici la
possibilità di stipulare convenzioni, alle condizioni ivi
previste, in favore dell'amministrazione richiedente. (Cfr.
AVCP, deliberazione n. 34 del 09.03.2011).
[11] Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342. In
quella fattispecie si trattava di concessione in uso di un
campo sportivo comunale per lo svolgimento dell'attività di
manifestazione fieristica rivolta ai cittadini. Ebbene, in
relazione all'uso dell'immobile comunale, il Consiglio di
Stato ha affermato che si è in presenza di una concessione
di bene pubblico, con la conseguenza che, in attuazione dei
principi generali posti a tutela della concorrenza, devono
essere seguite procedure di garanzia per la scelta del
concessionario.
Per l'applicazione alle concessioni di beni pubblici dei
principi dell'evidenza pubblica di derivazione comunitaria
-concorrenza, parità di trattamento, trasparenza, non
discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità-
cfr. CdS. 19.06.2009, sez. V, n. 4035 e CdS, sez. VI,
25.01.2005, n. 168, che argomentano dalla circostanza per
cui la concessione di un bene pubblico fornisce un'occasione
di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre
una procedura competitiva ispirata ai principi di
trasparenza e non discriminazione.
[12] Cfr. AVCP, deliberazione n. 34 del 09.03.2011.
[13] Con la possibilità di stipulare convenzioni (sistema di
affidamento derogatorio dell'evidenza pubblica) con le
cooperative sociali di tipo b), che occupano soggetti
svantaggiati, il legislatore intende agevolare tali soggetti
in quanto, per le loro condizioni di fragilità, hanno
maggiore difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro.
[14] Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2003, n. 794. Nello
stesso senso, Consiglio di Stato, sez. V, n. 4580/2001,
secondo cui la pubblica amministrazione appaltante non può
legittimamente limitare alle sole cooperative sociali
l'ammissione ad una gara, di importo superiore alla soglia
comunitaria, relativa ad un appalto di servizi, essendo ciò
possibile solo per gli appalti sotto soglia.
[15] Cfr. in dottrina, Giacomo Andolina, Il Comune e le
cooperative sociali: è possibile un rapporto preferenziale?,
su Lexitalia.it.
[16] Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1863, con
riferimento alla concessione di un servizio pubblico, ma le
medesime considerazioni sembrano estensibili anche
all'ipotesi della concessione dei beni (Cfr., al riguardo,
CdS. n. 2342/2013, cit., laddove si afferma che, anche a
prescindere dalla sussistenza di una concessione di servizio
pubblico 'la gestione di un bene pubblico e lo svolgimento
di una attività rivolta ai cittadini e non
all'amministrazione non rientra nell'ambito di applicazione
dell'art. 5 della legge n. 381 del 1991, con la conseguenza
che la scelta del gestore deve avvenire nel rispetto delle
procedure amministrative poste a tutela della concorrenza'.
[17] Ai sensi dell'art. 10, comma 8, D.Lgs. n. 460/1997,
sono ONLUS di diritto le cooperative sociali iscritte al
Registro regionale delle cooperative di cui alla L.R. n.
27/2007 (artt. 3 e 4), e secondo quanto previsto dall'art.
2551 c.c.
[18] Il comma 8 in argomento prevede che 'a decorrere dal
01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al
patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle
disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in
rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore
comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli
scopi sociali'
(28.05.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U.
27.05.2014 n. 121 "Testo
del decreto-legge 28.03.2014, n. 47, coordinato con la legge
di conversione 23.05.2014, n. 80, recante: “Misure
urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle
costruzioni e per Expo 2015.”.".
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
● Art. 3.
- Misure per la alienazione del patrimonio residenziale
pubblico
● Art. 4.
- Programma di recupero di immobili e alloggi di edilizia
residenziale pubblica
● Art. 5.
- Lotta all’occupazione abusiva di immobili. Salvaguardia
degli effetti di disposizioni in materia di contratti di
locazione
● Art. 8.
- Riscatto a termine dell’alloggio sociale
● Art. 10.
- Edilizia residenziale sociale
● Art. 10-ter.
Semplificazione in materia edilizia
● Art. 10-quater.
- Modifiche al decreto legislativo 20.06.2005, n. 122
● Art. 12.
- Disposizioni urgenti in
materia di qualificazione degli esecutori dei lavori
pubblici |
PATRIMONIO: Danno erariale se il canone di locazione è troppo basso.
L'affidamento oneroso di un immobile comunale a soggetti
privati che, in concreto non apporta alcun beneficio per le
casse comunali, esponendole anzi a una perdita, è fonte di
danno erariale cui devono rispondere innanzi al giudice
contabile sia il funzionario che ha disposto tale
affidamento sia il sindaco colpevole di aver omesso
qualsiasi controllo sulla gestione della struttura comunale.
È quanto ha messo nero su bianco la Sez. giurisdizionale
della Corte dei Conti Toscana, nel testo della
sentenza 23.05.2014 n.
96, con la quale ha condannato un funzionario del
comune di Forte dei Marmi e il sindaco della cittadina versiliana per aver affidato, nel triennio 2008-2011, a
ditte private la gestione di spazi espositivi all'interno
del locale palazzetto dello sport.
Ditte che hanno versato canoni di concessioni molto bassi
che, al termine della manifestazione, non hanno coperto le
spese di allestimento sopportate dall'amministrazione
comunale. A detta del collegio giudicante, è inequivocabile
che la scelta di destinare gli spazi espositivi non ha
apportato alcuna utilità al comune. Anzi, come dimostrato
dalla procura, l'aver concesso l'uso della struttura alla
condizioni praticate nel concreto si è rivelata una scelta
antieconomica, poiché l'amministrazione ha subito forti
perdite conseguenti alla spese per allestimento e
condizionamento di tali spazi, che non hanno trovato neppure
copertura con i canoni di affitto versati dagli
aggiudicatari.
A corollario della decisione, il collegio ha ravvisato che
non ritenersi che tale esborso trovi giustificazione
nell'utilità, ovvero nel vantaggio che ne sarebbe conseguito
per l'immagine della città e per il rilancio del turismo,
poiché in atti non è stata fornita prova di tale
circostanza.
Le parti, per dimostrare l'assenza del danno, avrebbero
dovuto provare che l'esposizione allestita nel palazzetto
dello sport avrebbe assunto un peso determinante
nell'aumento delle presenze in loco anche procedendo a dei
raffronti delle presenze negli anni in cui non vi si erano
tenute tali iniziative
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2014). |
PATRIMONIO:
Locazione futura con regole appalti.
Un contratto di locazione di opera futura rientra nella
normativa Ue in materia di appalti. Nessuna possibilità,
quindi, per l'amministrazione comunale di non applicare le
direttive Ue perché se è vero che dall'ambito di
applicazione delle direttive sugli appalti sono esclusi i
contratti di locazione è anche vero che l'inquadramento di
un'operazione non dipende dal diritto nazionale ma dalla
normativa europea.
Lo ha chiarito l'avvocato generale della Corte di giustizia
Ue Nils Wahl nelle
conclusioni 15.05.2014 - C-213/13 su rinvio
pregiudiziale del Consiglio di Stato.
Per l'avvocato generale, le cui conclusioni non sono
vincolanti per la Corte Ue, l'eccezione all'applicazione
della normativa sugli appalti riguarda unicamente beni
immobili esistenti e non «beni la cui costruzione non è
neppure iniziata». La qualificazione di un'operazione
come appalto pubblico di lavori -osserva Wahl- rientra nel
diritto dell'Unione e deve essere effettuata prescindendo
dal diritto nazionale.
Poco importa la qualificazione formale del contratto.
L'avvocato generale fa salva, però, l'autorità di cosa
giudicata, prevedendo nei casi in cui ciò renda impossibile
l'applicazione del diritto Ue un risarcimento dei danni
causati a terzi (articolo
Il Sole 24 Ore del 16.05.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO: Decreto in G.U..
Immobili, p.a. riduca gli acquisti.
Da quest'anno, l'acquisto di immobili destinati ad attività
istituzionali della pubblica amministrazione deve sottostare
preventivamente alle principali regole di indispensabilità e
indilazionabilità dell'operazione. In pratica, l'acquisto
dell'immobile deve soddisfare il superiore interesse
pubblico e non può essere «allungato» nel tempo se questa
dilazione compromette eventuali obiettivi fissati dal
vertice dell'amministrazione pubblica. In relazione al
prezzo, poi, deve essere acquisito il parere di congruità
rilasciato dall'Agenzia del demanio.
Lo prevede il dm
Economia 14/02/2014, in G.U. del 12/05/2014, in relazione
alle disposizioni contenute all'art. 12, c. 1-bis, del dl
98/2011.
Pertanto, nel caso in cui le amministrazioni
pubbliche, tranne gli enti territoriali, previdenziali e
quelli del Servizio sanitario nazionale, comunicano alla
ragioneria generale dello stato il piano triennale di
investimento, come prevede il decreto attuativo delle
disposizioni sopra richiamate (il dm Economia 16/03/2012), il
responsabile del procedimento di ogni p.a. richiedente dovrà
contestualmente documentare l'indispensabilità e l'indilazionabilità
dell'operazione di acquisto.
Il primo requisito, precisa il
dm, attiene alla necessità di procedere in tal senso sia per
un obbligo giuridico che incombe all'amministrazione per il
perseguimento delle proprie finalità che per la tutela ed il
soddisfacimento dei superiori interessi pubblici. Il
secondo, attiene all'impossibilità di differire l'acquisto
senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi
istituzionali. Entrambi tali requisiti si ritengono
soddisfatti nel caso in cui l'acquisto comporti effetti
finanziari ed economici positivi, così riscontrati
dall'organo di controllo interno o dal competente ufficio
della ragioneria.
Sull'iter di acquisto è necessario che si
pronunci l'Agenzia del demanio con l'attestazione di
congruità del prezzo. Documento, questo, che deve essere
acquisito prima della definizione delle operazioni e che
sarà rilasciato gratuitamente per le amministrazioni
indicate all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001,
mentre le restanti amministrazioni dovranno provvedere al
rimborso delle spese sostenute
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2014). |
PATRIMONIO: L'Anas
paga i danni anche se la nevicata è fortissima.
Strade bloccate. In dicembre caso non
eccezionale.
Una nevicata, anche se fortissima,
non può essere considerata un evento eccezionale. Quindi,
l'ente proprietario della strada non può invocare il caso
fortuito e deve risarcire gli utenti rimasti bloccati.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Firenze, con la sentenza
14.05.2014 sul caso di un gruppo di persone rimaste
bloccate (alcune anche per 36 ore) sulla statale
Tosco-Romagnola, durante la nevicata di metà dicembre 2010
che mise in ginocchio l'area fiorentina.
Il Tribunale è partito dall'articolo 14 del Codice della
strada, che enuncia poteri e compiti degli enti proprietari
di strade, facendo loro carico di manutenzione, gestione,
pulizia e controllo tecnico dell'efficienza. Una
formulazione tanto generale da essere non di rado ritenuta
più come indicazione che come vero e proprio obbligo. I
giudici fiorentini, invece, l'hanno intesa come fonte di
responsabilità del custode (articolo 2051 del Codice
civile).
Ciò implica che all'utente basti dimostrare di aver subìto
il danno dalla cosa in custodia e che il custode possa
sottrarsi alla responsabilità solo se prova l'eccezionalità
e l'imprevedibilità dell'evento. E infatti è ciò che ha
fatto l'Anas, ma i giudici hanno ritenuto che a Firenze in
dicembre nessuna nevicata può essere ritenuta eccezionale,
tanto più che era stata prevista dalla Protezione civile.
Tutto ciò, secondo la sentenza, avrebbe dovuto quantomeno
far scattare un coordinamento tra Anas e gestori
dell'autostrada e della superstrada Firenze-Pisa, per
garantire che chi era bloccato sulla Tosco-Romagnola potesse
essere raggiunto tempestivamente. Ma così non è stato. Di
qui i risarcimenti (articolo
Il Sole 24 Ore del 21.05.2014). |
PATRIMONIO: Decreto
in G.U.. Immobili, p.a. riduca gli acquisti.
Da quest'anno, l'acquisto di immobili destinati ad attività
istituzionali della pubblica amministrazione deve sottostare
preventivamente alle principali regole di indispensabilità e
indilazionabilità dell'operazione. In pratica, l'acquisto
dell'immobile deve soddisfare il superiore interesse
pubblico e non può essere «allungato» nel tempo se questa
dilazione compromette eventuali obiettivi fissati dal
vertice dell'amministrazione pubblica. In relazione al
prezzo, poi, deve essere acquisito il parere di congruità
rilasciato dall'Agenzia del demanio.
Lo prevede il dm Economia 14/02/2014, in G.U. del
12/05/2014, in relazione alle disposizioni contenute
all'art. 12, c. 1-bis, del dl 98/2011.
Pertanto, nel caso in cui le amministrazioni pubbliche,
tranne gli enti territoriali, previdenziali e quelli del
Servizio sanitario nazionale, comunicano alla ragioneria
generale dello stato il piano triennale di investimento,
come prevede il decreto attuativo delle disposizioni sopra
richiamate (il dm Economia 16/03/2012), il responsabile del
procedimento di ogni p.a. richiedente dovrà contestualmente
documentare l'indispensabilità e l'indilazionabilità
dell'operazione di acquisto.
Il primo requisito, precisa il dm, attiene alla necessità di
procedere in tal senso sia per un obbligo giuridico che
incombe all'amministrazione per il perseguimento delle
proprie finalità che per la tutela ed il soddisfacimento dei
superiori interessi pubblici. Il secondo, attiene
all'impossibilità di differire l'acquisto senza
compromettere il raggiungimento degli obiettivi
istituzionali. Entrambi tali requisiti si ritengono
soddisfatti nel caso in cui l'acquisto comporti effetti
finanziari ed economici positivi, così riscontrati
dall'organo di controllo interno o dal competente ufficio
della ragioneria.
Sull'iter di acquisto è necessario che si pronunci l'Agenzia
del demanio con l'attestazione di congruità del prezzo.
Documento, questo, che deve essere acquisito prima della
definizione delle operazioni e che sarà rilasciato
gratuitamente per le amministrazioni indicate all'articolo
1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, mentre le restanti
amministrazioni dovranno provvedere al rimborso delle spese
sostenute (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014). |
PATRIMONIO:
Sulla gratuità per l'utilizzo di locali comunali alle
associazioni o gruppi no profit ad alta valenza
sociale.
La deroga al principio generale di
redditività del bene pubblico può essere giustificata solo
dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente
svolta dal soggetto destinatario di tali beni.
A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire
che la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come
attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va
accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le
finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto
le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività
che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a
disposizione.
La Sezione precisa, inoltre, che, oltre all'accertamento in
concreto dell’assenza di uno scopo di lucro
dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un
corretta gestione del bene pubblico di cui si intende
disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un
bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza
e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché
nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale.
Con la conseguenza che risulta rimessa esclusivamente alla
discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che
si assume la responsabilità della scelta, la verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto
dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva
motivazione del provvedimento.
---------------
Il Sindaco del Comune di Curno, con nota prot. n.
4683 del giorno 24.04.2014, dopo aver premesso che:
- nel perseguimento delle proprie finalità istituzionali di
sviluppo sociale delle categorie fragili, il Comune intende
prevedere tariffe agevolate (un euro all'ora) rispetto a
quelle ordinarie (oggi 30 all'ora) o la gratuità per
l'utilizzo di locali comunali alle associazioni o gruppi
no profit ad alta valenza sociale;
- in questo ambito è stato individuato come gruppo ad alta
valenza sociale il gruppo anziani e pensionati che svolge la
propria attività a favore degli anziani del comune di Curno
nell'area ricreativa, culturale e sportiva, per promuovere
la cura della salute e l'informazione medica, servizi di
solidarietà sociale verso le persone anziane non
autosufficienti e svolge percorsi di aggregazione della
popolazione anziana alla scopo di prevenire situazioni di
isolamento ed emarginazione;
- il gruppo anziani e pensionati è l'unica organizzazione
del territorio che offre sevizi gratuiti o con tariffe
calmierate agli anziani residenti in comune,
ha posto alla Sezione il seguente quesito: “se è da
ritenersi legittima tale intenzione della giunta comunale
per tutte le manifestazioni del gruppo anziani, come per
esempio gli auguri natalizi, ove non venga svolta alcuna
attività di natura commerciale”.
...
Il quesito oggetto della richiesta di parere del Comune di
Curno deve ritenersi inammissibile.
Il quesito, infatti, non investe una questione di rilevanza
generale, ma richiede alla Sezione di esprimere una
valutazione che attiene ad una attività gestionale
dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste
di parere devono avere rilevanza generale e non possono
essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali,
onde salvaguardare l’autonomia decisionale
dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di
indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in
quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità
amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione
amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative
opportune cautele e valutazioni che la sana gestione
richiede.
Ad ogni modo, l’ente nell’adottare il provvedimento
gestionale potrà orientare la sua decisione ai principi
generali già espressi da questa Corte.
In particolare si ricorda come la Sezione regionale per il
Veneto (parere
05.10.2012 n. 716), ponendosi in linea di
continuità con quanto già affermato da questa Sezione (cfr.
in particolare
parere 13.06.2011 n. 349 e precedenti ivi
richiamati), ha chiaramente evidenziato come
la deroga al principio generale di redditività del
bene pubblico può essere giustificata “solo dall’assenza
di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal
soggetto destinatario di tali beni. A questo proposito, il
Collegio ritiene opportuno chiarire che la sussistenza o
meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a
conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in
concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità
perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le
modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che
coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione.
[…] La Sezione precisa, inoltre, che, oltre all'accertamento
in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro
dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un
corretta gestione del bene pubblico di cui si intende
disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un
bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza
e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché
nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale”.
Con la conseguenza che risulta rimessa
esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente
apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità
della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e
gestionale dell’atto dispositivo, che dovrà risultare da una
chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 06.05.2014 n. 172). |
PATRIMONIO:
Demanio. La p.a. risparmia sugli
affitti.
Un applicativo per consentire alle amministrazioni di
risparmiare sugli affitti. Si chiama «Paloma» ed è la
piattaforma predisposta dall'Agenzia del demanio per
adempiere alle prescrizioni del «decreto spending» (dl
66/2014).
Il sistema, già attivo dall'anno scorso, consentirà alle
amministrazioni statali di svolgere direttamente le proprie
indagini di mercato, accedendo ad un unico database che
raccoglie sia gli immobili di proprietà pubblica che quelli
di soggetti privati, selezionando i più funzionali alle
esigenze degli enti nel rispetto del parametro metro
quadro/addetto previsto dalla legge. Le p.a. dovranno
effettuare le loro ricerche prioritariamente fra quelli di
proprietà pubblica e, successivamente, tra quelli offerti in
locazione o in vendita da soggetti privati.
Ad oggi sono 130 gli immobili caricati sulla piattaforma che
punta a favorire l'incontro tra domanda e offerta dei beni
disponibili sul mercato. Il database sarà costantemente
aggiornato, con l'inserimento di immobili di proprietà di
soggetti privati e con gli immobili statali liberi o in via
di rilascio (articolo ItaliaOggi del 06.05.2014). |
aprile 2014 |
|
PATRIMONIO:
S. D'Agostini,
STRADE - FASCE DI RISPETTO - INTERVENTI DI URGENZA
- Nozione di strada, classificazione delle strade - Nozione
di fascia di rispetto, come si misurano le fasce di rispetto
e la loro tutela - Procedimento di analisi tecnica e
interventi di urgenza in caso di dissesti e di cedimenti
franosi in fregio alle strade pubbliche (30.04.2014 -
tratto da http://venetoius.it). |
PATRIMONIO:
P. Balzani, STRADE, FRANE E FASCE DI RISPETTO IN URBANISTICA
- La responsabilità in ipotesi frane da fondi finitimi alle
strade pubbliche.
I movimenti franosi da fondi finitimi alle strade
appartenenti a pubblico demanio - Ipotesi di responsabilità
(30.04.2014 - tratto da http://venetoius.it). |
APPALTI - ENTI
LOCALI - PATRIMONIO: G.U.
24.04.2014 n. 95 "Misure urgenti per la competitività e
la giustizia sociale" (D.L.
24.04.2014 n. 66).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
● Art. 8. (Trasparenza e razionalizzazione della
spesa pubblica per beni e servizi)
● Art. 9. (Acquisizione di beni e servizi attraverso
soggetti aggregatori e prezzi di riferimento)
● Art. 10. (Attività di controllo)
● Art. 14. (Controllo della spesa per incarichi di
consulenza, studio e ricerca e per i contratti di
collaborazione coordinata e continuativa)
● Art.
15. (Spesa per autovetture)
● Art. 23. (Riordino e riduzione della spesa di
aziende, istituzioni e società controllate dalle
amministrazioni locali)
● Art. 24. (Disposizioni in materia di locazioni e
manutenzioni di immobili da parte delle pubbliche
amministrazioni)
● Art. 25. (Anticipazione obbligo fattura
elettronica)
● Art. 26. (Pubblicazione telematica di avvisi e
bandi)
● Art. 27. (Monitoraggio dei debiti delle pubbliche
amministrazioni)
● Art. 28. (Monitoraggio delle certificazioni dei
pagamenti effettuati dalle pubbliche amministrazioni con le
risorse trasferite dalle regioni)
● Art. 31. (Finanziamento dei debiti degli enti
locali nei confronti delle società partecipate)
● Art. 41. (Attestazione dei tempi di pagamento)
● Art. 42. (Obbligo della tenuta del registro delle
fatture presso le pubbliche amministrazioni)
● Art. 43. (Anticipo certificazione conti consuntivi
enti locali)
● Art. 48. (Edilizia scolastica) |
ENTI LOCALI -
PATRIMONIO: Edilizia
scolastica, comuni liberi dal patto di stabilità.
Patto di stabilità soft per i comuni che investono in
edilizia scolastica. Gli enti locali avranno a disposizione
122 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014 e 2015. Per
la lista dei comuni beneficiari, però, sarà necessario
attendere il 15.06.2014. Entro questa data, infatti, il
presidente del consiglio dei ministri dovrà individuare i
comuni che potranno trarre vantaggio dall'esclusione e
l'importo di quest'ultima.
Queste le novità, emerse ieri a termine del consiglio dei
ministri, contenute nel decreto Irpef la cui pubblicazione
in G.U. è attesa per i primi giorni della prossima
settimana.
Nel dettaglio, la norma prevede che «per gli anni 2014 e
2015, nel saldo finanziario espresso in termini di
competenza mista rilevante ai fini del rispetto del patto di
stabilità interno, non sono considerate le spese sostenute
dai comuni per interventi di edilizia scolastica.
L'esclusione opera nel limite massimo di 122 milioni di euro
per ciascuno degli anni 2014 e 2015».
Altri fondi in arrivo anche sul fronte della
riqualificazione e la messa in sicurezza degli edifici
scolastici in particolare per quelli in cui è stata rilevata
la presenza di amianto. Complessivamente, infatti, gli
stanziamenti potranno raggiungere quota 300 milioni di euro.
La possibilità di accesso a questi fondi però, «è
subordinata alla previa verifica dell'utilizzo delle risorse
assegnate nell'ambito della programmazione 2007-2013 del
Fondo per lo sviluppo e la coesione».
Effettuata la verifica, infatti, spetterà al Cipe (Comitato
interministeriale per la programmazione economica)
riprogrammare le eventuali risorse non utilizzate e
assegnare le ulteriori risorse disponibili sulla base di un
programma articolato a livello regionale e in relazione alla
tipologia di interventi da effettuare (articolo
ItaliaOggi del 19.04.2014). |
PATRIMONIO: Danni
da caduta, colpa estesa alla vittima.
Risarcimenti. Il comportamento imprudente limita la
responsabilità del «custode».
Per i danni subiti da un
motociclista caduto su una strada provinciale si configura
una doppia responsabilità: sia del custode, vale a dire la
Provincia (in base agli articoli 2043 e 2051 del Codice
civile), sia dell'utente danneggiato, che ha usato il bene
senza la normale diligenza o con un affidamento soggettivo
anomalo sulle sue caratteristiche o, infine, ignorando
eventuali avvisi o divieti.
Lo ha precisato il TRIBUNALE di Napoli -Sez. XII civile-
che, con la
sentenza 14.04.2014 n. 5687 (tratta da
www.ilsole24ore.com), si è pronunciato sul caso della caduta
accidentale di un motociclista, avvenuta a causa -ha
affermato- di un avvallamento situato a margine di un
tombino. Per questo l'uomo ha citato in giudizio la
provincia di Napoli (titolare del bene demaniale), per
vedere riconoscere la responsabilità per omessa custodia
della sede stradale.
Nel giudizio si è costituito l'ente pubblico, che ha
contestato ogni propria responsabilità e invocato l'assenza
di un obbligo di garantire, per tutta l'estensione dalla
rete adibita alla circolazione, l'uniformità del manto
stradale e l'assenza di insidie più o meno avvistabili
dall'utente.
Nel dirimere la controversia, il tribunale riassume i
profili di responsabilità che riguardano, in via generale,
gli enti tenuti alla gestione e alla manutenzione della
strada, rammentando che il custode risponde sia in forza
dell'articolo 2043 del Codice civile (che impone un obbligo
generale di diligenza e attenzione nella gestione del bene),
sia per effetto della presunzione di responsabilità
contenuta nell'articolo 2051 del Codice civile, che
disciplina una sorta di responsabilità oggettiva che può
essere superata solo se l'ente prova che la caduta è stata
provocata da un caso fortuito. Quella prevista dall'articolo
2051 è, in effetti, una presunzione assai gravosa per il
custode della rete stradale, sia per la difficoltà materiale
di estendere il controllo a tutta la rete, sia perché nella
giurisprudenza il concetto di "caso fortuito" è
relegato a ipotesi residuali, come un evento atmosferico
esterno e imprevedibile nelle conseguenze.
Nel caso esaminato, il tribunale di Napoli rileva che la
conformazione dell'insidia stradale era tale da dover
richiedere la pronta attivazione del custode che avrebbe
dovuto esercitare in modo efficace quel potere di dominio
sulla rete viaria, utile per ripristinare lo stato di
agibilità della strada ed evitare pericolo per chi dovesse
transitarvi.
Al tempo stesso, però, il tribunale non omette di
considerare la condotta responsabile e concorrente della
vittima che, vista la conformazione della strada e la
relativa avvistabilità dell'insidia, avrebbe dovuto guidare
il motociclo con attenzione. Nei fatti, secondo il giudice,
il motociclista avrebbe contribuito attivamente alla caduta
e, quindi, a provocare i danni.
Il concorso colposo della vittima che cada a terra per
effetto di una insidia stradale, infatti, può essere
dichiarato in associazione alla colpa del custode, secondo
l'articolo 1227 del Codice civile, che, al primo comma,
dispone che «se il fatto colposo del creditore ha
concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito
secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze
che ne sono derivate». Di conseguenza, il risarcimento
del danno viene ridotto dal giudice nella misura del 50% di
quanto gli sarebbe spettato in totale (articolo
Il Sole 24 Ore del 12.05.2014). |
PATRIMONIO: Edilizia,
il Miur non può tacere. Deve tirare fuori la mappatura delle
41.483 strutture. Il Tar Lazio
condanna il ministero a fare chiarezza entro 60 giorni. Non
serve un regolamento.
Sessanta giorni. Entro due mesi la scuola italiana deve
diventare una casa di vetro, almeno per la sicurezza degli
edifici: il conto alla rovescia è iniziato con la sentenza
n. 3014/2014 del Tar Lazio che ha accolto il ricorso di
Cittadinanzattiva, ordinando al ministero dell'istruzione
pubblicare i dati dell'anagrafe dell'edilizia scolastica e
quelli della mappatura degli elementi non strutturali di
tutti i 41.483 fabbricati italiani frequentati da docenti e
studenti.
Ed è grazie alla riforma Severino che è divenuta realtà
l'operazione-trasparenza voluta dalla onlus di
partecipazione civica: la domanda di accesso civico
inizialmente bocciata dal Miur, ma ora ritenuta legittima
dai giudici, è stata infatti introdotta dall'articolo 5 del
decreto legislativo 33/2013, vale a dire uno dei
provvedimenti delegati della legge 190/2012.
Sono molte le carte che il Ministero dovrà tirare fuori
sulla sicurezza degli edifici scolastici: si tratta in
particolare delle certificazioni di agibilità statica, di
adeguamento sismico, igienico-sanitario, prevenzione
incendi; senza dimenticare la mappatura delle barriere
architettoniche, la presenza di bagni per disabili, l'elenco
degli interventi effettuati e da realizzare relativi alla
rimozione di amianto e la presenza o meno del documento di
valutazione dei rischi e del piano di evacuazione.
Le informazioni disponibili finora, infatti, riguardano solo
33 mila edifici, peraltro aggregati per regioni. Non colgono
nel segno le difese dell'amministrazione: anzitutto
l'articolo 7 della legge 23/1996 stabilisce in modo chiaro
che è attribuita al Miur la «responsabilità della
costituzione e dell'aggiornamento periodico della banca dati
sebbene ciò debba avvenire con la collaborazione degli enti
locali interessati», vale a dire regioni, comuni,
province.
Ma soprattutto non ha senso per il ministero eccepire che
Cittadinanzattiva, piuttosto che un'altra onlus, non abbiano
il diritto ad accedere alle banche dati e che comunque prima
di aprire le porte ai privati che vogliono ficcare il naso
servirebbe una regolamentazione da parte
dell'amministrazione stessa: è stato il decreto sviluppo 2.0
(dl 179/2012) a chiarire che sussiste un obbligo
generalizzato di pubblicazione esteso a tutti i database
pubblici, con la sola eccezione dell'anagrafe tributaria.
Nessun dubbio, dunque, può sussistere sull'esclusiva
legittimazione passiva in capo al ministero dell'istruzione
a provvedere sull'istanza di accesso civico a dati e
informazioni relativi all'anagrafe dell'edilizia scolastica.
Né si può convenire sulla necessaria adozione di un
regolamento ad hoc preventivo all'accesso civico perché
equivarrebbe ad applicare un'interpretazione che di fatto
abroga l'articolo 5 del decreto legislativo 33/2013: si
finirebbe per riconoscere ai singoli enti la possibilità di
differire nel tempo l'efficacia di una disposizione
fondamentale per l'attuazione del principio di trasparenza
nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Il tutto in
assenza di una espressa norma (articolo
ItaliaOggi dell'08.04.2014 - tratto da
www.centroctsudicni.it). |
marzo 2014 |
|
PATRIMONIO: G.U.
31.03.2014 n. 75 "Procedure per la gestione delle
attività di messa in sicurezza e salvaguardia del patrimonio
culturale in caso di emergenze derivanti da calamità
naturali" (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
e del Turismo,
direttiva 12.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI
- PATRIMONIO: G.U.
28.03.2014 n. 73 "Misure urgenti per l’emergenza
abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015" (D.L.
28.03.2014 n. 47).
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
● Art. 3.
- Misure per la alienazione del patrimonio residenziale
pubblico
● Art. 4.
- Piano di recupero di immobili e alloggi di edilizia
residenziale pubblica
● Art. 5.
- Lotta all’occupazione abusiva di immobili
● Art. 8.
- Riscatto a termine dell’alloggio sociale
● Art. 10.
- Edilizia residenziale sociale
● Art. 12.
- Disposizioni urgenti in
materia di qualificazione degli esecutori dei lavori
pubblici |
PATRIMONIO:
OGGETTO: Dismissione del patrimonio immobiliare pubblico
- Art. 11-quinquies del decreto-legge 30.09.2005, n. 203,
convertito, con modificazioni, con legge 02.12.2005, n. 248
(MIBACT Veneto,
circolare 27.03.2014 n. 19/2014). |
PATRIMONIO:
G.U. 18.03.2014 n. 64 "Definizione di poteri derogatori
ai sindaci e ai presidenti delle province interessati che
operano in qualità di commissari governativi per
l’attuazione delle misure urgenti in materia di
riqualificazione e di messa in sicurezza delle istituzioni
scolastiche statali" (D.P.C.M.
22.01.2014). |
PATRIMONIO:
Gli enti si rifanno le caldaie.
Contributi a fondo perduto per sostituire gli impianti.
Il Gestore servizi energetici ha
pubblicato il bando 2014 per gli interventi oltre i 500 kw.
Gli enti locali possono ottenere un contributo a fondo
perduto per la sostituzione di impianti di climatizzazione
invernale esistenti. Il Gestore servizi energetici (Gse) ha
pubblicato il bando 2014 per la procedura di iscrizione ai
registri riservata agli interventi con potenza maggiore di
500 kW e inferiore o uguale a 1.000 kW.
Il bando, disponibile sul sito internet del Gse
(www.gse.it), prevede che l'iscrizione sia possibile dal
31.03.2014 alle ore 9 e fino al giorno 29.05.2014 alle ore
21.
Le risorse destinate all'incentivazione degli interventi per
i quali ricorre l'obbligo di iscrizione ai registri,
definite in termini di spesa cumulata annua, sono pari a
6,91 milioni di euro per gli interventi realizzati dalle
amministrazioni pubbliche e a 22,81 milioni di euro per gli
interventi realizzati dai soggetti privati.
Contributi per la sostituzione di caldaie.
Il bando finanzia
la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale
esistenti con impianti di climatizzazione invernale
utilizzanti pompe di calore elettriche o a gas, anche
geotermiche con potenza termica utile nominale superiore a
500 kWt e fino a 1000 kWt. Inoltre finanzia la sostituzione
di impianti di climatizzazione invernale o di riscaldamento
delle serre esistenti e dei fabbricati rurali esistenti con
generatori di calore alimentati da biomassa con potenza
termica nominale superiore a 500 kWt e fino a 1.000 kWt.
La richiesta di iscrizione, a pena di esclusione, deve
essere trasmessa esclusivamente per via telematica, entro e
non oltre il termine di chiusura dei registri e prima di
realizzare l'investimento, mediante l'applicazione
informatica Portaltermico predisposta dal Gse.
L'applicazione è disponibile al sito applicazioni.gse.it,
accessibile tutti i giorni del periodo di apertura dei
registri, 24 ore su 24, ad eccezione dei giorni di apertura
e di chiusura. La graduatoria è redatta applicando, in
ordine gerarchico, i criteri di priorità di seguito
elencati: minor potenza degli impianti; anteriorità del
titolo autorizzativo/abilitativo; precedenza della data
della richiesta di iscrizione al registro.
Sempre accessibile il contributo per
interventi di potenza fino a 500 kWt.
Oltre agli interventi di sostituzione di caldaie, gli enti
locali possono finanziare interventi per l'isolamento
termico di superfici opache, delimitanti il volume
climatizzato e la sostituzione di chiusure trasparenti
comprensive di infissi delimitanti il volume climatizzato,
nonché l'installazione di sistemi di schermatura e/o
ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione al
sole.
Gli enti locali possono accedere al conto termico anche per
interventi di piccole dimensioni di produzione di energia
termica da fonti rinnovabili e di sistemi ad alta
efficienza. L'incentivo spetta anche per l'installazione di
collettori solari termici, anche abbinati a sistemi di solar
cooling, nonché per la sostituzione di scaldacqua elettrici
con scaldacqua a pompa di calore.
Contributo a fondo perduto in due o cinque
anni. L'incentivo
consiste in un contributo a fondo perduto che viene erogato
in rate annuali per un periodo di due o cinque anni a
seconda del tipo di intervento. Solo nel caso di incentivo
fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata.
L'entità dell'incentivo varia da tipologia a tipologia.
A titolo esemplificativo, per un generatore di calore a
condensazione con potenza maggiore di 35 kWt l'incentivo
massimo è del 40% della spesa che non può risultare maggiore
di 130 euro/kWt, con un incentivo massimo che può ammontare
a 26 mila euro. Se la potenza del generatore si abbassa
sotto i 35 kWt, il costo ammissibile è pari a 160 euro/kWt e
l'incentivo massimo può ammontare a 2.300 euro.
Per gli scaldacqua a pompa di calore l'incentivo è pari al
40% del costo di acquisto, per un massimo erogabile pari a
400 euro per prodotti con capacità uguale o inferiore a 150
litri e a 700 euro per prodotti con capacità maggiori (articolo
ItaliaOggi del 14.03.2014). |
PATRIMONIO: Dall’01.01.2014 gli enti locali possono effettuare operazioni
di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità di
cui al comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 06.07.2011, n.
98, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2011,
n. 111, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della
legge n. 228/2012 (solo in caso di comprovata
indispensabilità ed indilazionabilità delle stesse, il
"prezzo di acquisto" deve essere oggetto di una attestazione
di congruità da parte dell'Agenzia del Demanio).
Con
riferimento alla riconducibilità dell’istituto
dell’espropriazione per pubblica utilità nell’ambito di
applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011,
il Collegio ritiene condivisibile il parere della Sezione
Veneto secondo cui la formulazione della norma disciplina le
sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un
prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo
derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle
procedure espropriative. Ciò peraltro non significa che non
trovino adeguata considerazione, all’interno del
procedimento espropriativo, le prerogative enunciate dal
comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare
l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione
nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori
rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost. l’espropriazione è
consentita, nei casi previsti dalla legge, per motivi di
interesse generale. Tale finalità costituisce il presupposto
indefettibile del potere di esproprio. Il Collegio ritiene
che la disciplina relativa alle procedura di acquisizione di
beni immobili (contenuta nell’art. comma 1-ter dell’art. 12
del d.l. 98/2011) e la disciplina delle procedure
espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001), non siano
fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate da
notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene ai
relativi presupposti.
Con specifico riferimento alla
possibilità di effettuare una permuta da parte dell’ente
locale si deve distinguere la fattispecie della permuta
“pura” dalla fattispecie della permuta con conguaglio di
prezzo. La permuta pura, costituisce un’operazione
finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell’ambito
di applicazione del comma 1-ter. Diversamente, nell’ipotesi
in cui l’operazione comprenda il versamento, da parte
dell’ente territoriale, della differenza di valore fra i
beni immobili oggetto di permuta, con la conseguente
qualificazione dell’operazione non in termini di neutralità
finanziaria, si ricade nell’alveo di applicazione del comma
1-ter.
---------------
Il Sindaco del Comune di
Lomazzo, con nota 30.01.2014, prot. Comunale n. 1889 (prot.
Corte dei Conti, 03.02.2014 n. 1059), ha formulato una
richiesta di parere in merito alla possibilità di acquistare
beni immobili.
In particolare il Sindaco del Comune di Lomazzo chiede:
1) se effettivamente i comuni nell’anno 2014 possano
acquistare beni immobili;
2) ovvero in subordine se, come per il 2013, sia ammesso
acquisire immobili con procedure espropriative, ovvero nei
casi di permuta a parità di prezzo;
3) se sia nel caso di permuta comunque ammissibile
ricevere un immobile di valore inferiore con il versamento
della somma della differenza di valore.
...
A
decorrere dall’01.01.2014 gli enti locali possono
effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei
limiti e con le modalità di cui al comma 1-ter dell’art. 12
del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni
dalla legge 15.07.2011, n. 111, così come introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Attualmente quindi non è più vigente la precedente norma
imperativa che vietava l’acquisto di beni immobili nell’anno
2013, contenuta nel comma 1-quater dell’art. 12 del d.l.
98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della
legge n. 228/2012 ("Per l'anno 2013 le amministrazioni
pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione ... (omissis)... non possono
acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti
di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di
contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire,
a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in
sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad
avere la disponibilità di immobili venduti").
Il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come
introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012,
dispone che “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di
pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente”.
A partire dal 01.01.2014 è stato quindi introdotto
un regime che -al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno e con le modalità indicate dal richiamato comma 1-ter– consente operazioni di acquisto di beni immobili solo
in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità
delle stesse. Nel disciplinare le modalità di acquisto degli
immobili da parte degli Enti Territoriali per l'anno 2014,
il comma 1-ter dispone che il "prezzo di acquisto" debba
essere oggetto di una attestazione di congruità da parte
dell'Agenzia del Demanio.
Con specifico riferimento al quesito, presentato dal Sindaco
del Comune di Lomazzo, relativo alla riconducibilità
dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità
nell’ambito di applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del
d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138,
della legge n. 228/2012, si rileva che sono già intervenute
alcune pronunce di altre Sezioni regionali. In particolare,
dopo un primo parere della Sezione regionale per la Liguria
che, con deliberazione n. 9/2013/PAR, ha succintamente
fornito risposta positiva al quesito, la Sezione regionale
per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha
ritenuto, sulla base di un’approfondita disamina della
problematica, che “la formulazione della norma disciplina le
sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un
prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo
derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle
procedure espropriative. In tal senso si è pronunciata
altresì la Sezione regionale per la Puglia, con
deliberazione n. 89/PAR/2013.
Il Collegio ritiene condivisibile l’impostazione da ultimo
riferita, pur ritenendo di dover svolgere alcune
precisazioni.
Il comma 1-ter -che contiene un’espressa indicazione della
propria finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno”) ed è inserita nell’ambito di una legge di
stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3 della
legge 31.12.2009, n. 196, contiene esclusivamente
norme tese a realizzare effetti finanziari–
contempla una
disciplina delle condizioni e delle modalità delle
operazioni di acquisto di immobili destinata a valere a
tempo indeterminato e prospetta una specifica disciplina dei
presupposti delle suddette operazioni.
Il previgente comma 1-quater (che conteneva un divieto di
acquisto di beni immobili) dell’art. 12 del d.l. 98/2011,
così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n.
228/2012, in vigore per tutto il 2013, era stato oggetto di
una norma di interpretazione autentica (legge n. 64/2013) al
fine di escludere espressamente dall’ambito di applicabilità
del divieto ivi contenuto le procedure espropriative per
pubblica utilità. Non si può quindi non tener conto del
fatto che lo stesso legislatore abbia espressamente voluto –intervenendo con la legge
06.06.2013 n. 64 in riferimento
al comma 1-quater citato- escludere dalla disciplina
limitativa dell’acquisto di beni immobili da parte, fra
l’altro, degli enti territoriali, le procedure
espropriative.
D’altro canto la procedura espropriativa è oggetto di una
compiuta e sistematica disciplina, contenuta nel d.p.r. 08.06.2001, n. 327, recante “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità”, sia con riferimento ai presupposti di
esercizio del potere, sia in relazione alle modalità di
esercizio dello stesso.
L’applicazione del comma 1-ter alle procedure espropriative,
comunque connesse all’esercizio di funzioni fondamentali
dell’ente, quali quelle della programmazione del territorio
e della pianificazione urbanistica, introdurrebbe incisive
limitazioni nell’espletamento delle suddette funzioni e
andrebbe a modificare una disciplina con carattere di
specialità rispetto alla generale regolamentazione delle
procedure di acquisto di beni da parte delle pubbliche
amministrazioni. Il procedimento ablatorio è infatti legato
da un rapporto strutturalmente molto stretto con l’attività
di pianificazione urbanistica dal momento che, da un lato,
l’espropriazione costituisce un imprescindibile strumento di
pianificazione urbanistica e di attuazione del piano
regolatore generale e rappresenta una delle tipiche modalità
di perseguimento delle funzioni fondamentali degli enti
territoriali e, dall’altro lato, la “conformazione della
proprietà” è condizione necessaria del procedimento di
esproprio e nasce dalle prescrizioni urbanistiche contenute
nei piani regolatori.
Una limitazione del potere
espropriativo si ripercuoterebbe anche sulla programmazione
territoriale e sull’effettività della stessa, con
conseguenze che, verosimilmente, andrebbero al di là delle
dichiarate intenzioni del legislatore (conseguire risparmi
di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti
dall’operatività delle disposizioni finalizzate al
conseguimento degli obiettivi posti dal patto di stabilità
interno). Del resto, eventuali vincoli alla potestà
espropriativa delle amministrazioni pubbliche avrebbero
dovuto –alla luce del dettato costituzionale di cui
all’art. 42, comma 3, e della riserva di legge in esso
contenuta, che copre l’indicazione dei soggetti titolari del
potere e degli interessi perseguibili, oltre ai beni
espropriabili e alle regole procedimentali da osservare–
essere espressamente individuati dal legislatore.
Inoltre
risulta piuttosto difficile ritenere che il legislatore
abbia voluto, in modo indiretto ma così incisivo, limitare
l’attività di programmazione e di cura del territorio da
parte degli enti a ciò competenti con una disposizione
volta, in modo espresso, a realizzare effetti finanziari e
senza prevedere alcuna disposizione di raccordo espresso. E
ciò ancor più se si considera che la disciplina di cui al
comma 1-ter –al contrario di quanto previsto nel previgente
1-quarter- contiene potenzialmente una regolamentazione a
tempo indeterminato delle procedure di acquisto di beni
immobili e non svolge invece una funzione esclusivamente
derogatoria, per un tempo limitato, rispetto alla ordinaria
modalità di acquisizione dei beni medesimi.
Dal punto di vista procedurale la disciplina delle modalità
di effettuazione degli acquisti di beni immobili contenuta
nel comma 1-ter verrebbe sostanzialmente a sovrapporsi, in
modo peraltro non organico, all’iter espropriativo di cui al
d.p.r. n. 327/2001. In particolare si porrebbero
necessariamente problemi in ordine alla determinazione del
“prezzo” di acquisizione del bene immobile.
La stessa prescrizione, contenuta nella disposizione di cui
al comma 1-ter in esame, circa l’attestazione di conformità
da parte dell’Agenzia del Demanio in ordine al "prezzo di
acquisto" dell’immobile trova con difficoltà applicazione
nell’ambito di una procedura espropriativa volta
all’adozione di un provvedimento ablatorio, in quanto la
determinazione dell'indennità di espropriazione è soggetta
ai criteri e alla procedura previsti dal T.U. di cui al
d.p.r. 08.06.2001, n. 327. L’art. 20 del T.U. prevede
infatti che il promotore dell'espropriazione compili
l'elenco dei beni da espropriare e dei relativi proprietari,
con una descrizione sommaria, “ed indica le somme che offre
per le loro espropriazioni” oppure rimetta al proprietario,
ove non vi siano esigenze di celerità, anche in base ad una
relazione esplicativa, la precisazione di “quale sia il
valore da attribuire all'area ai fini della determinazione
della indennità di esproprio”.
Inoltre, in base alle previsioni del Testo unico –oltre che
dell’art. 42 della Costituzione, ai sensi del quale "La
proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla
legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi
d'interesse generale"-, è riconosciuto al proprietario un
indennizzo e non un prezzo di acquisto. I due concetti non
possono essere sovrapposti. La Corte costituzionale, con
sentenza n. 348/2007, dopo aver precisato che il criterio di
calcolo dell’indennizzo non deve essere valutato in modo
assoluto ma in relazione al (mutevole) contesto storico di
riferimento, ha indicato il valore di mercato del bene
oblato quale punto di riferimento per determinare
l’indennità di espropriazione ma precisando che non vi è
“coincidenza necessaria fra valore di mercato e indennità
espropriativa” e che “il legislatore non ha il dovere di
commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al
valore di mercato del bene oblato”.
La predetta ricostruzione interpretativa porta ad escludere
dal campo di applicazione della norma vincolistica di cui al
comma 1-ter le procedure di espropriazione per pubblica
utilità. Ciò peraltro non significa che non trovino adeguata
considerazione, all’interno del procedimento espropriativo,
le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la
necessità di comprovare l’indispensabilità e l’indilazionabilità
dell’operazione nell’ottica di conseguire risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno. Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost.
l’espropriazione è consentita, nei casi previsti dalla
legge, per motivi di interesse generale. Tale finalità
costituisce il presupposto indefettibile del potere di
esproprio.
Il trasferimento coattivo deve risultare infatti
“indispensabile per far fronte a bisogni che, pure se
destinati a concretarsi in futuro o a essere soddisfatti
soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal
momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che
valga a far considerare necessario e tempestivo il
sacrificio della proprietà privata nell’ora presente” (Corte
costituzionale, 06.07.1966, n. 90). Attraverso la
dichiarazione di pubblica utilità l’autorità espropriante è
tenuta pertanto a valutare la sussistenza di tali
condizioni, ponderando e confrontando gli interessi
coinvolti e le prerogative di cui sono portatori i soggetti
del procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i
vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal
fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai
principi di economicità ed efficienza, oltre che di
pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2).
D’altro canto la necessità che l’operazione espropriativa si
qualifichi in termini di concretezza assicura che
l’interesse pubblico perseguito non sia solamente ipotetico
ma rivesta i caratteri dell’attualità. “L’espropriazione
deve necessariamente collegarsi e cioè deve essere in
rapporto immediato con la soddisfazione di effettive e
specifiche esigenze rilevanti per la comunità” (Corte
costituzionale, 06.07.1966, n. 90). In particolare il
requisito temporale, declinato in termini di urgenza –e
quindi sottolineando la stretta concomitanza che deve
sussistere fra il l’interesso pubblico a cui è preordinata
l’espropriazione e la procedura ablatoria–, viene richiesto
in modo ancora più incisivo nelle ipotesi di decreto di
esproprio urgente (art. 20 d.p.r. 327/2001) e di decreto
d’occupazione d’urgenza (art. 22-bis d.p.r. n. 327/2001).
Si ritiene pertanto che, nei termini sopra descritti, le due
discipline, la disciplina relativa alle procedura di
acquisizione di beni immobili (contenuta nell’art. comma
1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011) e la disciplina delle
procedure espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001),
non siano fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate
da notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene
ai relativi presupposti.
Con specifico riferimento all’ulteriore quesito posto da
Sindaco del Comune di Lomazzo in ordine alla possibilità di
effettuare una permuta da parte dell’ente locale si deve
distinguere la fattispecie della permuta “pura” dalla
fattispecie della permuta con conguaglio di prezzo.
Si è già detto che il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l.
98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della
legge n. 228/2012 –che contiene un’espressa indicazione
della propria finalità “al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno”- novella un decreto-legge recante
“Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”,
ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la
quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 contiene esclusivamente norme tese a
realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, risolvendosi nella mera diversa allocazione
delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili,
costituisce un’operazione finanziariamente neutra (in
termini, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
la Lombardia, nn. 162/2013/PAR, 164/2013/PAR e 193/2013/PAR)
e pertanto non rientra nell’ambito di applicazione del comma
1-ter.
Peraltro, il comma 1-ter dell’art. 12 citato prevede
espressamente una serie di obblighi concernenti le
operazioni di acquisto che prevedono l'indicazione “del
soggetto alienante e del prezzo pattuito” mentre nel
contratto di permuta le posizioni di alienante e di
acquirenti sono reciproche e predicabili con riferimenti a
entrambi i contraenti. Ciò costituisce un ulteriore indizio
dell’inapplicabilità della disposizione in esame ai casi di
permuta “pura” (in termini Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Lombardia, n. 193/2013/PAR).
Tali considerazioni si applicano ai soli casi di permuta
“pura”, nel presupposto dell’effettiva coincidenza di
valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di
permuta. Diversamente, cioè nell’ipotesi in cui l’operazione
comprenda il versamento, da parte dell’ente territoriale,
della differenza di valore fra i beni immobili oggetto di
permuta, con la conseguente qualificazione dell’operazione
non in termini di neutralità finanziaria, si ricade
nell’alveo di applicazione del comma 1-ter (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere
05.03.2014 n. 97). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 10 del 05.03.2014, "Incentivi
per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di
proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al
regolamento regionale n. 2/2011 recante «Definizione degli
standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle
case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in
attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale
16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di turismo)». Avviso" (decreto
D.U.O. 26.02.2014 n. 1541). |
PATRIMONIO: Permuta
di un’area di proprietà statale con area di proprietà
comunale (parere
04.03.2014 n. 98221 di prot. -
Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 1/2014). |
febbraio 2014 |
|
PATRIMONIO: F.
Palazzotto,
IL DIVIETO DI RINNOVO AUTOMATICO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI
MARITTIME PER ATTIVITÀ TURISTICO-RICREZTIVE A SEGUITO DI
DANNI CAUSATI DA EVENTI ATMOSFERICI ECCEZIONALI E DANNOSI
- La Corte Costituzionale, con la recente sentenza del
04.07.2013 n. 171, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1 della l.reg. Liguria 30.07.2012,
n. 24, che ha tentato di reintrodurre il rinnovo automatico
delle concessioni a seguito di eventi naturali atmosferici
che causassero danni. La Corte ha affermato che il rinnovo o
la proroga automatica delle concessioni, venendo meno agli
obblighi che incombono ai sensi degli artt. 49 e 101 del
TFUE e dell’art. 12 della dir. 2006/123/CE (c.d. dir.
Bolkestein), viola l’art. 117,co. 1, cost., per contrasto
con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema
di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza,
determinando altresì una disparità di trattamento tra
operatori economici, in violazione dell’art. 117, co. 2,
lett. e), dal momento che coloro che in precedenza non
gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità,
alla scadenza della concessione, di prendere il posto del
vecchio gestore. Eliminando la proroga i concessionari non
vengono ricompensati dei propri investimenti, di conseguenza
vengono disincentivati ad effettuare investimenti per
recuperare i beni demaniali danneggiati dalle mareggiate
poiché i loro sforzi rischiano di non portare alcun
vantaggio per la propria attività, stante il rischio che la
loro concessione venga assegnata a un altro operatore.
Adesso, sarà necessario trovare un sistema di incentivi alla
riparazione dei danni subiti dai beni demaniali,
necessariamente più adeguato e coerente don i principi del
diritto europeo
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
PATRIMONIO:
Buca ricolma d'acqua: automobilista
finisce fuori strada ed il Comune paga.
La signora C.D. conveniva in giudizio il Comune di Lauria
per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa
dell'incidente causato dalla presenza sul manto stradale di
una buca ricolma d'acqua, non segnalata, che provocava la
perdita di controllo dell’autovettura e la conseguente
caduta della stessa nella sottostante scarpata. Il Tribunale
di Lagonegro accoglieva la domanda attorea condannando il
Comune convenuto al risarcimento dei danni.
La sentenza veniva impugnata dalla parte soccombente, e la
Corte d’Appello di Potenza perveniva ad opposta conclusione,
rigettando la domanda di risarcimento in accoglimento dei
motivi di gravame proposti dal Comune.
La sig. C.D. proponeva ricorso innanzi alla Corte di
Cassazione.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso e, confermando la
propria aderenza alla concezione oggettivistica della
responsabilità del custode, affermava che l’ente
proprietario di una strada aperta al pubblico transito, si
presume responsabile ex art. 2051 c.c., dei sinistri causati
dalla particolare conformazione della strada o delle sue
pertinenze.
Gli Ermellini tornano ad affrontare rilevanti questioni
attinenti alla responsabilità da cosa in custodia prevista
dall’art. 2051 c.c., operandone il raffronto con la
responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.,
definendone le caratteristiche sotto il profilo causale e
probatorio, soffermandosi in particolare sull’analisi del
concetto di caso fortuito dal punto di vista dell’idoneità
ad escluderne la sussistenza.
Invero, dopo avere premesso alcune questioni processuali
riguardanti la presenza di errori materiali e la
formulazione dei motivi di ricorso in Cassazione, la Corte,
rilevato il carattere oggettivo della responsabilità da cosa
in custodia, ne analizza le caratteristiche intrinseche al
fine di procedere ad un giudizio di legittimità sulla
sentenza impugnata.
Pare opportuno precisare che l’oggettività della
responsabilità da cosa in custodia, che la Suprema Corte
giunge a definire “principio consolidato”, è stata
oggetto di un dibattito giurisprudenziale che ha visto
contrapporsi opposte correnti interpretative: secondo
l’opinione più risalente, che può dirsi superata dalle più
recenti pronunce, l’art. 2051 c.c. non configurerebbe una
responsabilità oggettiva ma fondata su una presunzione di
colpa, pur aggravata sotto il profilo probatorio, in quanto,
in deroga alla regola generale, il danneggiato è tenuto a
fornire la prova che i danni subiti derivano direttamente
dalla cosa, mentre il danneggiante è onerato della prova
dell’assenza di colpa per sottrarsi al risarcimento.
Tale interpretazione si fondava sul raffronto con il
contratto di deposito e sull’assimilazione del proprietario
della cosa oggetto di custodia, con il depositario,
ritrovandone alcune analogie sotto il profilo della
responsabilità. Nel contratto di deposito invero, per
espressa formulazione codicistica caratterizzato da
responsabilità per colpa, il depositario è tenuto ad
osservare nella custodia, la diligenza del buon padre di
famiglia potendosi liberare dall’obbligo di restituire la
cosa affidatagli, solo in presenza del fortuito, dimostrando
la non imputabilità del danno alla propria condotta.
Tale analogia è stata aspramente criticata dall'opposta
corrente interpretativa, alla quale ha aderito la Corte di
Cassazione nelle più recenti pronunce, che consentono di
ritenere ormai consolidata l’interpretazione in chiave
oggettistica della responsabilità del custode, sulla
considerazione che è proprio l'aspetto relativo
all'imputabilità del danno, che differenzia la
responsabilità del titolare della custodia, oggettiva, da
quella del depositario, fondata sulla colpa presunta. Invero
il caso fortuito, che la norma individua come condizione di
esclusione della responsabilità, se nel contratto di
deposito influisce sul profilo soggettivo della
rimproverabilità del danno, così non può dirsi nei confronti
del custode, laddove incide unicamente sotto l'aspetto
oggettivo del profilo causale dell’evento, riconducibile in
tal caso non alla cosa che ne fonte immediata, ma ad un
elemento esterno.
Pertanto non assume rilievo in sé la violazione dell'obbligo
di vigilanza da parte del custode, essendo sufficiente per
l'attribuzione della responsabilità, la sussistenza del
rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha
dato luogo all'evento lesivo.
Sull’oggettività della responsabilità da cosa in custodia si
fonda il regime probatorio agevolato nei confronti del
danneggiato, dal momento che l'inversione dell'onere della
prova in ordine al nesso causale, consente che l’attore, per
ottenere il risarcimento del danno subito, si limiti a
provare l'esistenza del danno e la sua derivazione causale
dalla cosa, non essendo necessaria alcuna prova in ordine
alla condotta tenuta dal custode stesso.
Il concetto di custodia ex art. 2051 c.c. richiede la
sussistenza di un effettivo potere sulla cosa, inteso quale
disponibilità giuridica e materiale, unitamente al
correlativo potere di porre potenzialmente in essere
interventi sulla cosa stessa al fine di impedire le
conseguenze dannose di un’eventuale situazione di pericolo
insita o determinatasi nella cosa stessa. Tale potere deve
dirsi sussistente in capo all’ente proprietario di una
strada aperta al pubblico transito, titolare di una
responsabilità oggettiva per i danni causati dalla
particolare conformazione della strada o delle sue
pertinenze.
La Corte di Cassazione, in accoglimento dei motivi di
gravame proposti dalla danneggiata, ribadisce la propria
posizione interpretativa affermando chiaramente
l’applicabilità nel caso di specie dell’art. 2051 c.c., che
configura una presunzione di responsabilità oggettiva in
capo al Comune.
L’efficienza causale nella determinazione dell'evento
dannoso può dirsi interrotta unicamente dall'interferenza di
un fattore esterno che, interferendo sulla situazione in
atto incida sulla causazione del danno impedendone la
derivazione diretta con la cosa custodita. Il fortuito viene
a configurarsi quale impulso causale autonomo, imprevedibile
ed eccezionale, in grado di produrre autonomamente l’evento
o incidere sulla causazione del danno anche tramite la cosa
custodita.
Si riafferma dunque una responsabilità oggettiva della
pubblica amministrazione sui beni di sua proprietà, ivi
comprese le strade, che attribuisce al custode convenuto di
esonerarsi da responsabilità unicamente tramite la
dimostrazione positiva del caso fortuito, che può consistere
sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista,
imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o
segnalabile ai conducenti nemmeno con l'uso dell'ordinaria
diligenza, sia nella condotta della stessa vittima che
consista nell'omissione delle normali cautele esigibili in
situazioni analoghe, sia nell'impropria utilizzazione del
bene pubblico, che abbia determinato l'interruzione del
nesso eziologico tra lo stesso bene custodia il danno.
Nel caso di specie la Cassazione rileva che la Corte di
merito di secondo grado ha erroneamente fondato la propria
decisione sull’applicabilità dell’art. 2043 c.c. e non sulla
norma prevista dall'art. 2051 c.c., imponendo
conseguentemente un ingiustificato onere probatorio a carico
del danneggiato (Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 18.02.2014 n. 3793 - link a www.altalex.com). |
PATRIMONIO: Stadi, corsia veloce alla ristrutturazione ma senza
residenziale.
Progetti da approvare entro 180 giorni. Legge di stabilità. Le nuove norme per gli impianti sportivi.
Corsia
preferenziale per riqualificare gli stadi e gli impianti
sportivi o costruirne di nuovi. Dal 1° gennaio sono in
vigore le norme per il rilancio dell'impiantistica sportiva
dettate dall'articolo 1, commi 303-306, della legge di
Stabilità (n. 147/2013).
La cosiddetta legge stadi, pur se
con qualche limitazione, asseconda concretamente l'esigenza
di promuovere sia la costruzione di nuovi stadi, sia gli
interventi per l'ammodernamento degli impianti esistenti. La
procedura, che deve concludersi entro 120 giorni (180 in
caso di atti di competenza regionale quali solitamente le
varianti urbanistiche) dal suo avvio, è la seguente:
- il soggetto interessato presenta al Comune uno studio di
fattibilità corredato da un piano economico-finanziario e
dall'accordo con una o più associazioni o società sportive
utilizzatrici in via prevalente;
- il Comune, ove valuti positivamente il progetto in
conferenza di servizi istruttoria, lo dichiara entro 90
giorni di pubblico interesse;
- viene quindi presentato il progetto definitivo, sul quale
il Comune o la Regione -previa conferenza di servizi
decisoria cui partecipano i soggetti titolari di competenze
specifiche- delibera in via definitiva sul progetto,
eventualmente chiedendo le modifiche ritenute strettamente
necessarie.
È importante evidenziare che per legge:
- il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o
permesso comunque denominato necessario alla realizzazione
dell'opera e ne determina la dichiarazione di pubblica
utilità, indifferibilità e urgenza;
- in caso di superamento dei termini fissati dalla legge il
presidente del Consiglio dei ministri, su istanza del
proponente, assegna all'ente interessato 30 giorni per
adottare i provvedimenti necessari e, in difetto, la regione
ovvero lo stesso Presidente del Consiglio per gli impianti
più grandi (superiori ai 4mila posti al coperto e 20mila
allo scoperto) adotta i provvedimenti necessari entro il
termine di 60 giorni;
- in caso di interventi da realizzare su aree di proprietà
pubblica o su impianti pubblici esistenti, il progetto
approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza
pubblica (si veda l'articolo a fianco).
Così descritta la short-track di legge, occorre riferire
delle due disposizioni frutto della mediazione maturata
rispetto alle istanze di chi, per ragioni di tutela
ambientale, si era opposto all'approvazione della normativa
nella sua versione originale. Anzitutto, la norma precisa
che lo studio di fattibilità non può prevedere altri tipi di
intervento, salvo quelli strettamente funzionali alla
fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo
equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa e
concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini
sociali, occupazionali ed economici. È comunque esclusa la
realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale.
La disposizione tutela la posizione di chi teme che dietro
il rilancio dell'impiantistica sportiva si celi solo
l'interesse di ottenere varianti urbanistiche accelerate (se
non di favore) per rendere edificabili aree verdi
periferiche o per consentire la costruzione di nuove case di
alto valore, perché localizzate nelle zone centrali delle
città, ove spesso si collocano gli stadi italiani (da
rilocalizzare).
Può essere che la tutela sia giustificata dalla concreta
esperienza dell'urbanistica italiana, certo è che la nuova
norma avrebbe precluso la realizzazione dell'Emirates
Stadium di Londra. Il nuovo stadio dell'Arsenal (impianto
modernissimo e multifunzionale) è stato costruito su un'area
acquistata dal municipio e in precedenza destinata al
trattamento dei rifiuti, usando il denaro ottenuto con la
vendita degli appartamenti di lusso realizzati al posto
delle tribune del vecchio Highbury.
L'ultima cautela fissata dalla legge attiene al disfavore
per la realizzazione di nuovi stadi. Gli interventi
agevolati, infatti «laddove possibile, sono realizzati
prioritariamente mediante recupero di impianti esistenti o
relativamente a impianti localizzati in aree già edificate».
La norma appare pienamente giustificata, sia perché è
comunque doveroso dedicarsi alla riqualificazione del
patrimonio edilizio (anche sportivo) esistente prima di
consumare nuovo territorio, sia perché la legge non preclude
la realizzazione di nuovi impianti (comunque ammessi sui
cosiddetti brownfield), anche su aree non urbanizzate purché
la scelta sia assistita da idonea motivazione.
---------------
La procedura. Ogni decisione urbanistica viene presa dalla
conferenza dei servizi.
Il nodo delle varianti al Prg.
La prima
ristrutturazione dello stadio di San Siro fu realizzata
negli anni 30 del secolo scorso utilizzando la finanza che
il Comune di Milano mise a disposizione dopo aver comprato
l'impianto dalla famiglia Pirelli. I tempi sono cambiati. Il
rilancio dell'impiantistica sportiva richiede ora
l'intervento dei capitali privati, il cui impiego presuppone
il raggiungimento dell'equilibrio finanziario tra i costi di
realizzazione e gestione dell'impianto e i relativi
proventi.
L'esperienza recente inoltre dimostra che la remunerazione
dei capitali impiegati nell'edilizia sportiva non è
garantita dal reddito prodotto dalla vendita dei biglietti e
dai diritti correlati agli eventi sportivi, vale a dire i
quelli che con denominazione inglese vengono definiti rights
applicati su advertising (inserzioni pubblicitarie), naming
(commercializzazione del nome dell'impianto o suoi settori)
e puring (esclusiva di somministrazione alimenti e bevande).
Buona parte del reddito che ha permesso l'ammodernamento
degli stadi in tutto il mondo deriva infatti dallo sviluppo
sinergico di destinazioni d'uso diverse da quella sportiva,
quali i servizi, il commercio, gli uffici e la residenza.
Questi principi sono finalmente riconosciuti anche in Italia
attraverso le norme della legge di stabilità, secondo cui lo
studio di fattibilità dei nuovi stadi può prevedere anche
altri tipi di intervento, purché «strettamente funzionali
alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del
complessivo equilibrio economico-finanziario
dell'iniziativa».
Per quanto la norma precisi che tra le nuove funzioni sia
esclusa la residenza e richieda, in continuità con le
migliori pratiche internazionali, che gli usi correlati
«concorrano alla valorizzazione del territorio in termini
sociali, occupazionali ed economici», è evidente che la
nuova legge apre la via alla realizzazione di una
impiantistica moderna, multifunzionale, produttrice di
reddito e di servizi per la comunità.
La possibilità di affiancare allo stadio altre destinazioni
urbane pone ovviamente il problema di garantire la
conformità del progetto con le previsioni del piano
regolatore comunale, che non sempre consentono di affiancare
agli stadi i servizi privati, il terziario e le funzioni
retail. È questo un tema che accompagna tutte le politiche
di governo del territorio e che notoriamente è complicato
dal contrasto esistente in materia tra competenze regionali
e statali.
Secondo il vigente assetto costituzionale, è esclusiva
prerogativa delle Regioni dettare le regole procedurali
attraverso cui mutare le previsioni urbanistiche comunali.
La Corte Costituzionale ha così annullato le leggi statali
che prevedevano meccanismi accelerati di variante
urbanistica per favorire la riqualificazione urbana
(decisione n. 393/1992), la dismissione degli immobili
pubblici (decisione n. 340/2009), il social housing
(decisione n. 121/2010).
La legge stadi sul punto prevede un meccanismo estremamente
veloce per cambiare le previsioni dei piani regolatori che,
per esempio, non consentano la realizzazione di un centro
commerciale ai margini dello stadio, stabilendo che «il
provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o
permesso comunque denominato» ivi compresa, quindi, la
variante urbanistica.
Ora, è vero che in tal caso il provvedimento si forma
attraverso una conferenza di servizi decisoria indetta
proprio dalla Regione, ma è altrettanto vero che la
procedura di variante è dettata direttamente dalla norma
statale e prevede meccanismi sostitutori in capo alla
presidenza del Consiglio dei ministri.
I dubbi di incostituzionalità che pendono sulla norma
possono superarsi attraverso leggi regionali che recepiscano
le previsioni della disciplina nazionale anche in ambito
urbanistico, oppure seguendo le ordinarie procedure di
variante previste in sede locale, anche utilizzando la
disposizione del comma 304, per cui comunque «resta salvo il
regime di maggiore semplificazione previsto dalla normativa
vigente».
---------------
Il caso. Confronto concorrenziale aperto ad altri operatori.
Proprietà pubblica, scatta la gara.
Salve poche
eccezioni (Juventus e Mapei stadium, stadi di Udine, Teramo
e Olimpico di Roma, del Coni) tutti gli stadi italiani sono
di piena proprietà comunale. Secondo i principi comunitari
recepiti nell'ordinamento italiano, la loro cessione ai
privati a fini di lucro deve passare da una procedura di
evidenza pubblica, ovvero da una gara.
Le prime bozze della legge stadi erano lacunose sul punto,
prevedendo che qualsiasi società privata interessata a
costruire e gestire gli impianti, solo per aver trovato una
intesa con le associazioni fruitrici dell'impianto, avesse
titolo per presentare un progetto e attuarlo direttamente se
riconosciuto di interesse pubblico dal Comune.Le nuove disposizioni prescrivono ora una vera e propria
procedura di gara mutuata dal modello del project financing
del Codice dei contratti pubblici: «In caso di interventi da
realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti
pubblici esistenti –si legge nella norma– il progetto
approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza
pubblica, da concludersi comunque entro novanta giorni dalla
sua approvazione. Alla gara è invitato anche il soggetto
proponente, che assume la denominazione di promotore. Il
bando specifica che il promotore, nell'ipotesi in cui non
risulti aggiudicatario, può esercitare il diritto di
prelazione entro quindici giorni dall'aggiudicazione
definitiva e divenire aggiudicatario se dichiara di assumere
la migliore offerta presentata. Si applicano, in quanto
compatibili, le previsioni del codice di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di finanza di
progetto».
Se l'aggiudicatario è diverso dal proponente, è
tenuto a subentrare, alle stesse condizioni, negli accordi
proposti dallo stesso proponente
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014). |
APPALTI SERVIZI
- PATRIMONIO:
G. Totino,
Il servizio pubblico di distribuzione del gas. L'Antitrust
ed il Giudice Amministrativo. Nota a margine alla sentenza
del Consiglio di Stato n. 6256 del 27.12.2013 (17.02.2014
- link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 14.02.2014, "Incentivi
per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di
proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al
regolamento regionale n. 2/2011 recante “Definizione degli
standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle
case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in
attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale
16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di turismo)”" (deliberazione
G.R. 07.02.2014 n. 1339). |
PATRIMONIO: Dismissioni
con iter alleggerito. Anche gli enti locali potranno usare
la trattativa privata - Possibile sanare gli abusi edilizi.
Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo
le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una sanatoria delle opere abusive e la possibilità per
Comuni e Province di attivare la trattativa privata arrivano
nuovi incentivi per le dismissioni di immobili pubblici,
compresi quelli degli enti locali. Le novità sono contenute
nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto
Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per
la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il
ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto
l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i
beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni
nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei
beni pubblici:
- si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie
presenti nell'immobile alienato;
- si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che
possono essere oggetto di alienazione;
- si conferisce agli enti territoriali la possibilità di
accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei
beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa
privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il
ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali
irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In
particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e
precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato
acquirente di un immobile di presentare la domanda di
sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di
trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità
edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi
realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate
leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non
rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad
esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a
vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la
destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella
previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia
del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo».
Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni
interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con
destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con
locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con
destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi,
riformulando il precetto normativo con l'inserimento
dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno
essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del
Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo
appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso
non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione
del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie
dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova
procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà
degli enti territoriali. Comuni, Province, Città
metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le
Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e
affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa
autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa
privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
- gli enti territoriali dovranno individuare i beni che
intendono dismettere con propria delibera;
- la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà
mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo
l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
- il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti
territoriali nel proprio decreto dirigenziale di
autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
---------------
Urbanistica. L'ostacolo principale alle
valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.
La valorizzazione
degli immobili pubblici, intesa nel senso della loro
cessione per ottenerne il controvalore in denaro, passa
attraverso tre elementi essenziali: la procedura di vendita
del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la verifica
della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl 133/2013,
convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e tre questi
elementi per agevolare la dismissione del patrimonio
pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che
già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte
dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che,
quindi, ora potranno conferire mandato al ministero
dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con
delibera dagli stessi enti nei propri decreti di
autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende
la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle
condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro
contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i
beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non
prevalentemente abitativo». La norma così non affronta
il vero tema delle modalità procedurali necessarie per
cambiare la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la
cui valorizzazione mediante dismissione richiede spesso
l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi
pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che
gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani
regolatori come immobili a servizio pubblico (standard
urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un
utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante
allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del
controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte
procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano
a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi
edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al
riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19
dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare
la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei
beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione
o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano
escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa
privata che ora viene così potenziata (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.02.2014). |
PATRIMONIO: Dismissioni con iter alleggerito.
Anche gli enti locali potranno usare la trattativa privata -
Possibile sanare gli abusi edilizi.
Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo
le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una
sanatoria delle opere abusive e la possibilità per Comuni e
Province di attivare la trattativa privata arrivano nuovi
incentivi per le dismissioni di immobili pubblici, compresi
quelli degli enti locali. Le novità sono contenute
nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per
la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il
ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto
l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i
beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni
nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei
beni pubblici:
- si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie
presenti nell'immobile alienato;
- si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che
possono essere oggetto di alienazione;
- si conferisce agli enti territoriali la possibilità di
accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei
beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa
privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il
ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali
irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In
particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e
precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato
acquirente di un immobile di presentare la domanda di
sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di
trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità
edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi
realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate
leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non
rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad
esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a
vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la
destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella
previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia
del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo».
Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni
interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con
destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con
locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con
destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi,
riformulando il precetto normativo con l'inserimento
dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno
essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del
Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo
appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso
non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione
del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie
dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova
procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà
degli enti territoriali. Comuni, Province, Città
metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le
Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e
affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa
autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa
privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
- gli enti territoriali dovranno individuare i beni che
intendono dismettere con propria delibera;
- la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà
mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo
l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
- il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti
territoriali nel proprio decreto dirigenziale di
autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
---------------
Urbanistica. L'ostacolo principale alle valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.
La
valorizzazione degli immobili pubblici, intesa nel senso
della loro cessione per ottenerne il controvalore in denaro,
passa attraverso tre elementi essenziali: la procedura di
vendita del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la
verifica della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl
133/2013, convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e
tre questi elementi per agevolare la dismissione del
patrimonio pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che
già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte
dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che,
quindi, ora potranno conferire mandato al ministero
dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con
delibera dagli stessi enti nei propri decreti di
autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende
la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle
condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro
contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i
beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non
prevalentemente abitativo». La norma così non affronta il
vero tema delle modalità procedurali necessarie per cambiare
la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la cui
valorizzazione mediante dismissione richiede spesso
l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi
pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che
gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani
regolatori come immobili a servizio pubblico (standard
urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un
utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante
allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del
controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte
procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano
a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi
edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al
riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19
dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare
la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei
beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione
o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano
escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa
privata che ora viene così potenziata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2014). |
PATRIMONIO: Messa
in sicurezza di edifici scolastici e interventi senza
permesso di costruire. Ecco le deroghe ammesse.
Il D.M. 906/2013 ha predisposto lo stanziamento di 150
milioni per il finanziamento di lavori di riqualificazione e
messa in sicurezza delle scuole, con l’obbligo da parte
degli enti locali di affidamento mediante una procedura più
snella ed immediata entro il 28.02.2014, pena la revoca
delle risorse disponibili.
Il Decreto del Fare ha dato facoltà a sindaci e presidenti
delle Province interessate di operare in qualità di
commissari governativi per gli interventi riguardanti la
messa in sicurezza delle scuole.
Al fine di rispettare i tempi di affidamento dei lavori, il
Presidente del Consiglio dei Ministri ha firmato il Decreto
attuativo del 22.01.2014, che definisce le possibili deroghe
a norme e leggi di seguito riportate:
►
Codice Appalti (D.Lgs.
163/2006):
►
art. 11 (Fasi delle
procedure di affidamento)
►
art. 12 (Controlli
sugli atti delle procedure di affidamento)
►
art. 48 (Controlli
sul possesso dei requisiti)
►
art. 70 (Termini di
ricezione delle domande di partecipazione e di ricezione
delle offerte)
►
art. 71 (Termini di
invio ai richiedenti dei capitolati d'oneri, documenti e
informazioni complementari nelle procedure aperte)
►
art. 122 (Disciplina
specifica per i contratti, di lavori pubblici sotto soglia)
►
art. 123 (Procedura
ristretta semplificata per gli appalti di lavori)
►
art. 125 (Lavori,
servizi e forniture in economia)
►
Decreto 207/2010,
tutte le disposizioni strettamente connesse agli articoli
derogabili del Codice Appalti
►
Legge 241/1990: art.
10-bis (Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza)
►
D.P.R. 380/2001
(Testo Unico in Edilizia): art. 10 (Interventi subordinati a
permesso di costruire) (06.02.2014 - link a
www.acca.it). |
APPALTI SERVIZI
- PATRIMONIO:
S. Ferla,
Rimborsi ai gestori uscenti, tariffe e gare d'ambito per la
distribuzione gas. Note critiche sulla disposizione
introdotta dal Decreto “Destinazione Italia” per
porre rimedio al differenziale V.I.R./R.A.B. (art. 1, comma
16, d.l. n. 145/2013) (04.02.2014 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
gennaio 2014 |
|
PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U.
29.01.2014 n. 23, suppl. ord n. 9/L, "Testo
del decreto-legge 30.11.2013, n. 133, coordinato con la
legge di conversione 29.01.2014, n. 5,
recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU,
l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia»". |
PATRIMONIO: Se
un ente compra immobili a caro prezzo è danno erariale.
L'acquisto di immobili da parte di un ente locale a un
prezzo superiore rispetto alla valutazione operata
dall'Agenzia del territorio, costituisce un esborso privo di
qualsiasi utilità per la stessa amministrazione comunale e,
di riflesso, un danno erariale.
È quanto ha sancito la Sez. giurisdizionale della Corte dei
Conti per la regione Sardegna, nel testo della
sentenza 24.01.2014 n. 12, con cui ha condannato
un dirigente comunale per aver proceduto all'acquisto di
alcuni immobili a prezzi ritenuti notevolmente superiori
rispetto ai valori di mercato determinati dall'Agenzia del
territorio, precedentemente investita dallo stesso comune al
fine di acquisire una valutazione tecnica estimativa degli
stessi immobili.
Il collegio della magistratura contabile sarda ha ritenuto
sussistente il danno erariale, correlandolo al maggior costo
sostenuto dall'ente locale per l'acquisto degli immobili
sopra specificati, tenuto conto che per gli stessi beni
l'Agenzia del territorio, su richiesta del comune, aveva
reso dei pareri fondati su valutazioni che tenevano conto
degli aspetti urbanistici e previa specificazione delle
metodologie estimative adottate.
La valutazione dell'Agenzia, a detta della Corte, consentiva
(se fosse stata seguita) non solo di determinare il più
probabile valore di mercato degli immobili in questione (e
in ciò consistevano le consulenze tecnico-estimali richieste
all'Agenzia del territorio), ma altresì di potersi opporre
alle eventuali ulteriori pretese dei proprietari. È pertanto
pacifico la sussistenza di una condotta gravemente colposa
tenuta dal responsabile del servizio tecnico che, piuttosto
che attenersi ai valori di mercato determinati dall'Agenzia,
«inspiegabilmente e immotivatamente» ha proceduto
all'acquisto degli immobili determinando i maggiori costi
per le casse comunali.
Infine, a nulla può valere l'eccezione sollevata dalla
difesa, consistente nella probabile resistenza che i
proprietari degli immobili avrebbero opposto ove si fossero
mantenuti i prezzi determinati dalla suddetta Agenzia, con
la conseguenza di dover ricorrere a procedimenti
espropriativi connotati da tempi non compatibili con le
esigenze dell'ente locale e della comunità amministrata.
Infatti, la Corte ha rimarcato che una tale evenienza si
pone in radicale contrasto con la possibilità di utilizzare
legittimamente, in alternativa all'acquisto diretto degli
immobili, lo strumento giuridico dell'espropriazione
previsto dalla normativa vigente (articolo
ItaliaOggi del 30.05.2014). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U.
23.01.2014 n. 18, suppl. ord. n. 8, "Criteri ambientali
minimi per l’acquisto di lampade a scarica ad alta intensità
e moduli led per illuminazione pubblica, per l’acquisto di
apparecchi di illuminazione per illuminazione pubblica e per
l’affidamento del servizio di progettazione di impianti di
illuminazione pubblica - aggiornamento 2013" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 23.12.2013). |
PATRIMONIO:
Valutazione dei rischi e gestione della sicurezza nelle
scuole: dall’Inail il manuale completo.
L’Inail in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e
della Ricerca ha pubblicato un utile
manuale (giugno 2013) sulla valutazione dei
rischi e gestione della sicurezza nelle scuole.
Il volume, rivolto alle scuole di ogni ordine e grado,
fornisce modelli, procedure e regolamenti per una buona
gestione della sicurezza in ambito scolastico, in base alle
recenti disposizioni legislative.
Obiettivo della pubblicazione è quello di favorire la
conoscenza della sicurezza nelle scuole, sia sul piano
educativo che formativo ed offrire un utile strumento a
docenti, personale dirigente e consulenti per la sicurezza
per un’efficace individuazione, valutazione e gestione dei
rischi.
Il documento affronta tutte le tipologie di rischio presenti
negli ambienti e negli spazi in cui si svolgono le attività
scolastiche e tratta i diversi aspetti legati alla
sicurezza, tra cui segnaliamo:
●
normativa in materia
di sicurezza nella scuola
●
processo di
valutazione dei rischi e di individuazione delle misure di
prevenzione
●
problematiche
strutturali e di igiene ambientale
●
gestione degli
agenti chimici
●
gestione del rischio
fisico
●
gestione del rischio
biologico
●
dispositivi di
protezione individuale
●
aspetti ergonomici
●
benessere
organizzativo e gestione dello stress lavoro-correlato
●
gestione degli
infortuni e delle malattie professionali
●
sorveglianza
sanitaria
●
rischi per le
lavoratrici madri
●
informazione,
formazione e addestramento
●
gestione delle
emergenze
●
gestione del primo
soccorso
E’ presente anche un utile glossario con i termini della
sicurezza (16.01.2014 - link a www.acca.it). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 13.01.2014, "Aggiornamento
tecnico della direttiva per la gestione organizzativa e
funzionale del sistema di allerta per i rischi naturali ai
fini di protezione civile (d.g.r. 8753/2008)" (decreto
D.U.O. 30.12.2013 n. 12812). |
dicembre 2013 |
|
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI:
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014) -
Selezione norme di interesse dei Comuni (ANCI,
dicembre 2013). |
PATRIMONIO - VARI:
La tassazione dei trasferimenti immobiliari a
titolo oneroso dal 01.01.2014.
Sommario: 1. Gli atti di cui all’art. 1 della tariffa; 2. I
riflessi sulla tassazione delle cessioni soggette ad IVA; 3.
La tassazione degli acquisti della cd. prima casa; 4. I
trasferimenti a titolo oneroso dei terreni agricoli; 5. La
tassazione degli atti societari; 6. L’imposta “minima” per
gli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso; 6.1
L’imposta “minima” per alcune fattispecie particolari; 6.2
La natura dell’ammontare minimo – lo scomputo; 7. Il cd.
assorbimento degli altri tributi: le regole del comma 3
dell’art. 10; 8. La soppressione di esenzioni e
agevolazioni; 9. L’entrata in vigore della disciplina
dell’art. 10; 10. Aumento delle imposte fisse nella misura
di 200 euro: decorrenza (Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 30.12.2013 n. 1011-2013/T). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 18.12.2013, "Approvazione
iniziativa anno 2014 per l’accesso ai contributi in conto
capitale a fondo perduto per la riqualificazione delle
palestre scolastiche di uso pubblico esistenti" (decreto
D.S. 13.12.2013 n. 12217). |
ENTI
LOCALI - PATRIMONIO:
G.U. 14.12.2013 n. 293 "Testo
del decreto-legge 15.10.2013, n. 120, coordinato con la
legge di conversione 13.12.2013, n. 137, recante:
«Misure urgenti di riequilibrio della finanza pubblica
nonché in materia di immigrazione»".
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Di particolare interesse, si legga:
►
Art. 2-bis - Facoltà
di recesso delle pubbliche amministrazioni da contratti di
locazione |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 49 del 03.12.2013, "Modifiche
alla legge regionale 04.12.2009, n. 27 (Testo unico delle
leggi regionali in materia di edilizia residenziale
pubblica)" (L.R.
02.12.2013 n. 17). |
PATRIMONIO:
Contratto di locazione passiva.
Domanda
In caso di rinnovo
del contratto di locazione passiva a un Comune (conduttore)
si applica la riduzione del 15% del canone?
Risposta
L'art. 3, comma 4,
del decreto legge n. 95/2012 prevede ai fini del
contenimento della spesa pubblica, l'ulteriore misura della
riduzione dei canoni pagati dalle amministrazioni pubbliche,
ivi previste, del 15% di quanto attualmente in essere, dal
primo gennaio 2015, salvo il diritto di recesso garantito al
locatore. La norma prevede, poi, che a decorrere dal
15.08.2012 la riduzione del 15% si applica comunque ai
contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data.
Specificamente, l'art. 3, comma 4, identifica le
amministrazioni pubbliche coinvolte dalla misura di
contenimento della spesa indicando le amministrazioni
centrali inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica ai sensi dell'art. 1, comma 3, della
legge 31.12.2009, n. 196, nonché le Autorità indipendenti
ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la
borsa (Consob).
Per quanto concerne il quesito posto circa l'applicazione o
meno della riduzione del 15% agli enti locali, si segnala il
parere della Corte dei conti, sezione di controllo per la
Regione Lazio, n. 3 del 10.01.2013, in ordine ad una
richiesta proveniente da un sindaco e concernente
l'applicazione o meno agli enti locali delle disposizioni di
cui all'art. 3, commi 4, 5 e 6 del dl n. 95/2012.
In particolare, il giudice contabile circoscrive
l'attenzione sul comma 6, il quale, osserva, è espressamente
dettato per le amministrazioni richiamate dal comma 4, che
si riferisce alle amministrazioni centrali come individuate
dall'Istat ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196. Per cui, prosegue, il giudice contabile,
non rientrando i comuni tra le amministrazioni centrali, è
da ritenere che la disposizione di cui al comma 6 (riduzione
15% del canone) non possa ad essi applicarsi (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.12.2013). |
novembre 2013 |
|
PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U.
30.11.2013 n. 281 "Disposizioni urgenti concernenti
l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca
d’Italia" (D.L.
30.11.2013 n. 133). |
PATRIMONIO: Concessione
ad associazione.
Domanda
Un dirigente
pubblico che concede un immobile del Comune in uso gratuito
a un'associazione privata commette danno erariale?
Risposta
Al fine di
rispondere al quesito posto è preliminarmente opportuno
precisare, come più volte ribadito dalla Magistratura
contabile, che le Pubbliche amministrazioni sono tenute a
valorizzare il patrimonio immobiliare pubblico e che tale
valorizzazione consiste in primis nel ricavare un reddito
dalla gestione degli stessi.
La concessione e/o comodato a titolo gratuito è pertanto
vista come extrema ratio (cfr. parere Corti conti
Veneto n. 33/2009). Solo in caso in cui l'utilità sociale
per la comunità è maggiore del ricavato economico (ex
Università, Croce Rossa) è ammessa la concessione e/o
comodato a titolo gratuito. Diversamente il comportamento
tenuto dall'Amministrazione costituisce danno erariale. È
comunque consigliabile prevedere i casi circoscritti in cui
è ammesso l'uso a titolo gratuito degli immobili pubblici,
con apposito regolamento, approvato dal Consiglio comunale.
In merito è inoltre opportuno precisare che la Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Sardegna , con una
recente sentenza (n. 234 del 16.09.2013), ha statuito che
non determina alcun danno erariale il dirigente comunale che
concede un immobile del Comune in uso gratuito a
un'associazione privata se da ciò deriva un corrispettivo
indiretto all'ente come lo svolgimento di servizi e attività
di utilità pubblica, nonché gli obblighi di gestione e
manutenzione dell'immobile in capo all'associazione stessa (articolo
ItaliaOggi Sette del 25.11.2013). |
APPALTI - PATRIMONIO:
Deve essere
esclusa dalla gara pubblica l'impresa che non ha prodotto
l'attestazione del R.U.P. di presa visione dei luoghi dove
devono eseguirsi i lavori, imposta a pena di esclusione dal
disciplinare di gara; ciò in quanto, con il richiedere
l'attestazione della presa di conoscenza delle condizioni
locali e di tutte le circostanze che possono influire
sull'esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla
formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a
carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui
corrisponde una altrettanto precisa responsabilità
contrattuale di quest'ultimo.
La provenienza di detto documento dall'Amministrazione
aggiudicatrice assicura a quest'ultima maggiore tutela, a
presidio dell'interesse, di ordine imperativo,
all'individuazione del contraente più idoneo nonché alla
correttezza e regolarità della gara, e, dunque, in coerenza
con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice
dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad
una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione
proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare
posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo
garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo
contenuto.
---------------
Non è applicabile la norma contenuta nell’art. 46, comma
1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il principio
della tassatività delle cause di esclusione dalla gare
pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della
disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non
costituisce norma di principio estensibile al di fuori di
tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella
normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non
possono trovare piana applicazione (se non quando siano
espressamente richiamati negli atti generali che
costituiscono la lex specialis, autovincolante per
l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita
di beni immobili da parte dello Stato e delle altre
Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, altresì, la norma, espressiva invece di un
principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art.
46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere
di soccorso”, atteso che, una volta constatata la
sostanziale assenza di un requisito essenziale per la
partecipazione in corso di gara, la conseguente
regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in
un'integrazione della domanda proposta, configurandosi
perciò come una violazione del principio della "par
condicio" nei riguardi di altri concorrenti.
Peraltro, come si evince da pag. 12 del predetto avviso, con
inciso riportato con caratteri in grassetto ed
opportunamente sottolineato, la lex specialis ha
disposto che “La mancata presentazione di uno solo dei
documenti, dichiarazioni o della cauzione costituisce
automatica esclusione dalla partecipazione alla gara”.
Inoltre, l’art. 4 della lex specialis prescrive
chiaramente che il concorrente doveva presentare, per ogni
singolo lotto cui intendeva partecipare, a pena di
esclusione, un plico contenente un’elencazione di documenti,
tra cui, per la busta relativa alla documentazione
amministrativa, l’attestazione per cui è causa; l’art. 9,
relativo alle disposizioni di carattere generale, ribadiva
che “L’assenza dei requisiti richiesti per la
partecipazione alla gara e la violazione delle prescrizioni
previste dal presente avviso determineranno l’esclusione
dalla gara”.
Né tale omissione è surrogabile da un’autocertificazione ex
d.P.R. 28.12.2000, n. 445 poiché l’efficacia probatoria
equivalente di quest’ultima è stata espressamente esclusa,
nella specie, dalla lex specialis, che ha prescritto
un mezzo di prova più rigoroso.
Come d’altra parte ha già statuito la Sezione in caso
analogo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 03.07.2012, n.
3881, attinente agli appalti pubblici di lavori), deve
essere esclusa dalla gara pubblica l'impresa che non ha
prodotto l'attestazione del R.U.P. di presa visione dei
luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta a pena di
esclusione dal disciplinare di gara; ciò in quanto, con il
richiedere l'attestazione della presa di conoscenza delle
condizioni locali e di tutte le circostanze che possono
influire sull'esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla
formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a
carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui
corrisponde una altrettanto precisa responsabilità
contrattuale di quest'ultimo. La provenienza di detto
documento dall'Amministrazione aggiudicatrice assicura a
quest'ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di
ordine imperativo, all'individuazione del contraente più
idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, e,
dunque, in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale
norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice
dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad
una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione
proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare
posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo
garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo
contenuto.
Non è, invece, applicabile la norma contenuta nell’art. 46,
comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il
principio della tassatività delle cause di esclusione dalla
gare pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della
disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non
costituisce norma di principio estensibile al di fuori di
tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella
normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non
possono trovare piana applicazione (se non quando siano
espressamente richiamati negli atti generali che
costituiscono la lex specialis, autovincolante per
l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita
di beni immobili da parte dello Stato e delle altre
Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, invece, la norma, espressiva invece di un
principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art.
46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere
di soccorso”, atteso che, una volta constatata la
sostanziale assenza di un requisito essenziale per la
partecipazione in corso di gara, la conseguente
regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in
un'integrazione della domanda proposta, configurandosi
perciò come una violazione del principio della "par
condicio" nei riguardi di altri concorrenti.
Non rilevanti sono le questioni relativa alla numerosità
delle prescrizioni a pena di esclusione e non sono fondate
quelle in ordine alla violazione del cd. favor
partecipationis (come appena detto, non applicabile nel
caso di violazione del principio della par condicio dei
concorrenti) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.11.2013 n. 5470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Federalismo
demaniale. Gli effetti dell'«obolo» del 10 per cento.
L'incognita del Patto frena le alienazioni.
Il 10% dei proventi netti derivanti dalle alienazioni
immobiliari di Comuni e Province va destinato al fondo per
l'ammortamento dei titoli di Stato.
Secondo l'articolo 56-bis, comma 11, del Dl 69/2013 gli enti
territoriali devono destinare al bilancio statale parte
delle risorse nette ricavabili dalla vendita dell'originario
patrimonio immobiliare disponibile, salvo l'obbligo di
utilizzo delle entrate per il ripristino dei limiti massimi
di indebitamento consentiti dall'ordinamento contabile
vigente.
La restante parte di risorse non destinabili al Fondo dovrà
essere utilizzata per la copertura di spese di investimento
oppure, per la parte eccedente, per la riduzione del debito
(articolo 1, comma 443, della legge 228/2012).
Le modalità attuative andranno definite con decreto, ma i
rischi di censura costituzionale della norma sono evidenti.
Già con la sentenza 63 del 26.03.2013, la Consulta ha
dichiarato l'illegittimità di una regola analoga, con cui si
prevedeva questo vincolo di destinazione in caso di vendita
di terreni agricoli regionali.
Resta il fatto che, in assenza di chiarimenti ufficiali, i
bilanci di Comuni e Province dovranno tenere conto della
norma e prevedere uno stanziamento in conto capitale per
l'ammortamento dei titoli di Stato, oppure costituire un
vincolo di destinazione all'eventuale avanzo di
amministrazione 2013.
Occorre tuttavia riflettere su alcune difficoltà
applicative.
La valorizzazione del patrimonio degli enti locali può
infatti comportare la necessità di cessione tramite permuta
dei propri immobili, oppure il loro utilizzo secondo le
finalità fissate dall'articolo 53, comma 6, del Dlgs
163/2006: in base a questa norma, l'appalto di lavori
pubblici può prevedere, a titolo di corrispettivo totale o
parziale, il trasferimento all'affidatario della proprietà
di beni immobili appartenenti all'amministrazione
aggiudicatrice,
In questo caso, l'obbligo di destinazione al bilancio
statale di parte dei proventi derivanti dalle alienazioni
impone la contabilizzazione netta del valore degli immobili,
con evidenti effetti negativi a livello finanziario,
economico e patrimoniale per gli enti cedenti.
Anche sulla cessione di aree Peep (piani di edilizia
economica popolare), in quanto tecnicamente configurabile
alienazione patrimoniale, dovrebbe gravare il vincolo di
destinazione imposto dall'articolo 56-bis.
Poiché i proventi da dismissione patrimoniale costituiscono
entrata rilevante per il calcolo dei saldi finanziari utili
al rispetto del Patto di stabilità interno, occorrerebbe poi
chiarire se anche l'uscita ad essi inerente, ma finalizzata
ad alimentare il Fondo per l'ammortamento dei titolo di
Stato, debba essere considerata, con segno negativo, ai fini
della verifica degli obiettivi di finanza pubblica (articolo
Il Sole 24 Ore del 18.11.2013). |
ENTI
LOCALI - PATRIMONIO: Indirette.
Da gennaio aumenti del 300%. Dal registro stangata per gli
enti locali.
È destinata a colpire soprattutto gli enti locali la riforma
della tassazione indiretta -Registro e imposte ipocatastali-
che dal 01.01.2014 riguarderà i trasferimenti immobiliari.
Per tutte le operazioni dei Comuni non assoggettate ad Iva
la botta sarà pesante: sul versante delle vendite, ad
esempio, non saranno più agevolate le cessioni di alloggi
sociali, di aree Peep e/o Pip, di aree o opere di
urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di convenzioni di
lottizzazione, di immobili di interesse storico-artistico;
sul versante degli acquisti, poi, nuove e più pesanti
aliquote di tassazione riguarderanno tutti gli acquisti di
beni immobili (terreni o fabbricati), compresi gli espropri
e i trasferimenti da privati.
A delineare questo scenario è l'articolo 10 del Dlgs
23/2011, che entrerà in vigore dall'anno prossimo. La norma
modifica radicalmente la tassazione a Registro dei
trasferimenti immobiliari, e incrementa l'imposta fissa da
168 a 200 euro. Nelle operazioni imponibili ad Iva, invece,
non ci saranno modifiche apprezabili, dal momento che per,
effetto della alternativa Iva/Registro, troverà applicazione
l'imposta fissa.
Per la generalità degli atti, l'aliquota base passa dall'8
al 9 per cento; l'unica deroga riguarderà le prime case non
di lusso, il cui trasferimento sconterà un'aliquota che
passa dal 3 al 2 per cento. Tutte le altre ipotesi di
tassazione dei trasferimenti immobiliari previste
dall'articolo 1 della Tariffa, parte I° -di solito più
favorevoli rispetto all'aliquota dell'8%- vengono abrogate.
Allo stesso tempo, l'articolo 10 sopprime tutte le ulteriori
agevolazioni, e introduce un minimo fisso da mille euro per
i trasferimenti immobiliari.
Altre novità sono state poi introdotte dall'articolo 26 del
Dl 104/2013. Per i soli trasferimenti immobiliari, dal 1°
gennaio le attuali imposte ipotecarie e catastali verranno
sostituite da una tassa fissa di 50 euro per ognuna delle
due imposte; nelle altre ipotesi di tassazione l'imposta
fissa, oggi fissata in 168 euro per ognuna delle tre imposte
(Registro, ipotecaria e catastale), aumenta a 200 euro.
Queste novità rivoluzionano l'articolo 1 della Tariffa, che
ora prevede due sole ipotesi di tassazione a Registro degli
atti di trasferimenti della proprietà e dei diritti reali su
immobili: l'aliquota ordinaria passa dall'8 al 9%, e resta
una sola aliquota ridotta per i trasferimenti di prime case
non di lusso, che passa dal 3 al 2%: resta in ogni caso
ferma la misura minima di 1000 euro: una tassazione che
risulta quanto mai regressiva e penalizzante in relazione ai
tanti provvedimenti di esproprio di modesto importo. La
costituzione di un diritto di servitù o l'esproprio di un
reliquato stradale da poche centinaia di euro subirà aumenti
di tassazione anche oltre il 300%.
A colpire gli enti locali è anche l'abrogazione di molti
"regimi speciali". Rispetto all'attuale imposta fissa di
Registro, verrà applicata l'aliquota proporzionale del 9%
sugli atti di trasferimento di aree Peep o Pip, le
concessioni del diritto di superficie, le cessioni gratuite
di aree a Comuni, atti e contratti di attuazione di
programmi di edilizia residenziale, gli espropri di aree
produttive, gli atti di redistribuzione immobiliare e le
operazioni di ricomposizione fondiaria. Stesso incremento di
aliquote per le cessioni di aree o opere a scomputo: dato
atto che l'articolo 51 della legge 342/2000 esclude da Iva
le cessioni nei confronti dei Comuni di aree od opere di
urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di convenzioni di
lottizzazione. Dal 2014 l'agevolazione sarà ridotta per
effetto dell'inasprimento dell'aliquota di Registro, che
compenserà quasi del tutto l'esclusione da Iva di queste
operazioni.
Molti aumenti colpiranno poi le cessioni di alloggi sociali
non soggette ad Iva da parte di Comuni e Iacp, che al posto
del Registro fisso di 168 euro sconteranno 100 euro di
ipotecaria e catastale più il 2% di Registro (articolo
Il Sole 24 Ore del 18.11.2013). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U.
11.11.2013 n. 264 "Testo
del decreto-legge 12.09.2013, n. 104, coordinato con la
legge di conversione 08.11.2013, n. 128, recante:
«Misure urgenti in materia di istruzione, università e
ricerca»".
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Di interesse si leggano:
● Art. 10 - Mutui
per l’edilizia scolastica e per l’edilizia residenziale
universitaria e detrazioni fiscali
● Art. 10-bis - Disposizioni in materia di prevenzione degli
incendi negli edifici scolastici
● Art. 10-ter - Interventi di edilizia scolastica |
PUBBLICO IMPIEGO: Videoregistrazioni.
Domanda
Sono utilizzabili in sede penale, ai fini della prova di un
reato commesso dal dipendente, le videoregistrazioni
effettuate direttamente dal datore di lavoro?
Risposta
L'art. 4 St. Lav. è una disposizione mirata e limitata al
divieto di controllo della attività lavorativa in quanto
tale, ovvero al divieto di controllo della corretta
esecuzione della ordinaria prestazione del lavoratore
subordinato, ma tale stessa disposizione non impedisce,
invece, i controlli destinati alla difesa dell'impresa
rispetto a specifiche condotte illecite del lavoratore o,
comunque, a tutela del patrimonio aziendale.
Secondo la Giurisprudenza vale la piena utilizzabilità ai
fini della prova di reati anche delle videoregistrazioni
effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario
del divieto, laddove agisca non per il controllo della
prestazione lavorativa ma per specifici casi di tutela
dell'azienda rispetto a specifici illeciti.
Perciò non è esatto affermare che dalla citata disposizione
dello Statuto dei Lavoratori discenda un divieto probatorio
che riguardi la polizia giudiziaria, sia perché il divieto,
coerentemente con la sua funzione, è testualmente riferito
al datore di lavoro e sia perché il divieto riguarda solo il
controllo dell'esecuzione dell'ordinaria attività lavorativa
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Come
si configura il mobbing?
Il c.d. «mobbing» è una condotta protrattasi nel tempo con
le caratteristiche della persecuzione finalizzata
all'emarginazione del dipendente, in violazione degli
obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ. Esso si può
realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali
dello stesso datore di lavoro, indipendentemente
dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali
previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro
subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto
e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi
alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva
della condotta del datore di lavoro, che può essere
dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel
tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificamente da una
connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della
violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
PATRIMONIO:
Oneri assicurativi per convenzioni con associazioni.
Compete alle associazioni/imprese
agricole, con cui il Comune stipula una convenzione per
l'attività di pulizia a titolo gratuito, provvedere alla
copertura assicurativa dei propri collaboratori. Nel caso di
convenzione con le organizzazioni di volontariato o le
associazioni di promozione sociale (lr 23/2012) i relativi
oneri assicurativi sono a carico degli enti con cui la
convenzione è stipulata.
Il Comune intende stipulare una convenzione con delle
associazioni locali e delle aziende agricole che si sono
rese disponibili, a titolo gratuito, ad attività di pulizia
del territorio.
Il Comune, che si limiterà unicamente a fornire il
carburante, chiede di conoscere i propri eventuali profili
di responsabilità tanto nel caso di infortunio che dovesse
occorrere ad un soggetto operante per conto di taluna delle
suddette associazioni e/o aziende agricole, quanto nel caso
di danni arrecati a terzi nello svolgimento delle attività
dedotte in convenzione.
In ambedue i casi l'ente chiede di conoscere se sia
legittima la stipula di idonea polizza assicurativa.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni
premettendo che non compete allo scrivente Ufficio
esprimersi in ordine alla legittimità di atti/attività posti
in essere dagli enti locali.
Si osserva, innanzi tutto, come secondo la giurisprudenza
del Consiglio di Stato [1]
gli aderenti alle associazioni che presteranno la loro
attività in forma volontaria non pare possano essere
assimilati ai prestatori di lavoro subordinato di cui
all'articolo 2094 del codice civile. Un tanto come già
chiarito nel parere prot. 13600 dd. 06.03.2012, reso dallo
scrivente, che s'intende qui integralmente richiamato
[2].
Inoltre, tanto le associazioni quanto le aziende agricole in
commento, nella misura in cui per lo svolgimento della
propria attività si avvalgono di singoli soggetti a vario
titolo (volontari, associati, lavoratori dipendenti etc.),
dovrebbero essere dotate di un'organizzazione interna
facente capo ad uno o più responsabili i quali saranno
tenuti all'osservanza delle disposizioni di cui al d.lgs.
09.04.2008, n. 81, recante 'Attuazione dell'articolo 1
della legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro'.
Un tanto pare poter escludere che eventuali profili di
responsabilità del Comune siano riconducibili a quella del
datore di lavoro ai sensi del summenzionato d.lgs. 81/2008.
Da quanto premesso sembra potersi affermare che compete alle
associazioni/imprese agricole in commento provvedere alla
copertura assicurativa dei propri collaboratori. Un tanto,
peraltro, è espressamente previsto dalla disciplina delle
organizzazioni di volontariato e delle associazioni di
promozione sociale (lr 23/2012) la quale dispone (mediante
un rinvio alla disciplina statale di cui rispettivamente
all'art. 4 della l. 266/1991 e all'art. 30 della l.
383/2000) che le predette organizzazioni/associazioni che
svolgono attività mediante convenzioni devono assicurare i
propri aderenti, che prestano tale attività, contro gli
infortuni e le malattie connessi con lo svolgimento
dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso terzi e che i relativi oneri assicurativi sono a
carico degli enti con cui la convenzione è stipulata.
Si suggerisce, in ogni caso, che tanto le attività che
verranno poste in essere dalle associazioni e/o aziende
agricole, quanto gli obblighi relativi alla sicurezza,
gravanti sui responsabili di queste, vadano espressamente
riscontrati nelle convenzioni, che verranno approvate tanto
dagli organi competenti delle associazioni e/o aziende
agricole quanto dell'Ente locale.
Va inoltre tenuto presente che i singoli soggetti incaricati
delle attività dedotte in convenzione opereranno su immobili
di proprietà dell'Ente instante e, presumibilmente, secondo
le direttive con esso concordate. Sulla base di tali
presupposti sembra opportuno che il Comune adotti, comunque,
tutte le precauzioni ritenute utili, in ossequio ai criteri
di diligenza e prudenza che, in via preventiva, possano
escludere o ridurre, per quanto possibile, i fattori di
rischio nell'impiego dei predetti soggetti, in ossequio del
principio del neminem laedere, a tutela dei diritti
soggettivi primari, quali la salute fisica e morale e degli
altri principi che sicuramente informano lo statuto
dell'Ente, quali la salvaguardia del benessere e della
sicurezza dei propri cittadini.
---------------
[1] Consiglio di Stato, Sez. I, 21.01.2004, n. 2040.
[2] Il parere è reperibile sul portale delle autonomie
locali all'indirizzo internet: http://autonomielocali.regione.fvg.it
(06.11.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: Il
Comune paga per le buche in strada.
Infortuni stradali. La rete estesa non è una
giustificazione.
Il gestore di una strada ha sempre l'obbligo di tenerla in
condizioni di sicurezza e non può più liberarsene
semplicemente affermando che l'estensione della propria rete
stradale è talmente estesa da non consentirne una
sorveglianza puntuale e continua.
È il cosiddetto obbligo di custodia, che è stato riaffermato
dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con la
sentenza 05.11.2013 n. 24793, depositata ieri. Ma ciò
non basta a sollevare il danneggiato da ogni responsabilità:
dev'essere lui a dimostrare di aver percorso la strada «con
la dovuta attenzione» e, se si tratta di un pedone, con
le scarpe adatte.
La questione sta nell'interpretare l'articolo 2051 del
Codice civile, che prevede la responsabilità che ha il
custode (e il gestore della strada è assimilato ad esso,
come prevede il regio decreto 2056 del 1923) sulle cose che
ha in custodia, «salvo che provi il caso fortuito».
Per anni, sulla scia della sentenza 156/1999 della Consulta,
la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che l'estensione
della rete bastasse di per sé a configurare il caso
fortuito. Ma già negli ultimi cinque anni la Corte aveva
adottato un'interpretazione più restrittiva per il gestore.
La durata dei processi ha fatto sì che ci siano ancora casi
in cui c'è un verdetto che risale a prima e che non sono
ancora arrivati alla sentenza definitiva. Uno di questi è
appunto quello deciso dalla Cassazione con la sentenza
depositata ieri, che si riferisce alla frattura di una gamba
riportata da una signora inciampata sul dislivello tra una
basola e l'altra di una via di Napoli. L'infortunio è del
2001 e la pronuncia della Corte d'appello era del 2006.
La causa si era sviluppata fondamentalmente sul fatto che il
Comune non potesse garantire una custodia effettiva della
sua rete stradale, a causa della sua vasta estensione (e
quindi non poteva essere ritenuto responsabile della sua
custodia) e sul fatto che la donna abitasse nel quartiere
dov'è avvenuto l'incidente (e quindi ne conoscesse lo stato
delle strade). Si era anche discusso se fosse configurabile
una responsabilità da fatto illecito (articolo 2043 del
Codice civile), perché il dislivello era occultato da
immondizia e scarsa illuminazione.
La Cassazione ha ricordato che ora la sua giurisprudenza è
cambiata. I giudici si riferiscono alla sentenza 20427/2008,
che solleva l'ente proprietario della strada dalle sue
responsabilità solo se dimostra di non aver potuto fare
nulla per evitare il danno, causato da un evento improvviso.
La sentenza di appello sulla vicenda di Napoli si limitava a
respingere la richiesta di risarcimento perché all'epoca
l'obbligo di custodia non era inteso in modo così
stringente. Quindi in appello non ci si era addentrati
nell'analisi dell'eventuale responsabilità della donna. La
Cassazione ha quindi rinviato il caso in appello, dove si
dovrà considerare che il Comune ha una sua responsabilità e
la si dovrà comparare a quella che eventualmente emerge
dalla distrazione della danneggiata e al fatto che potesse
indossare scarpe che hanno amplificato il danno
(articolo
Il Sole 24 Ore del 06.11.2013). |
ottobre 2013 |
|
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 44 del 30.10.2013, "Disposizioni
in materia ambientale. Modifiche alle leggi regionali n.
26/2003 (Disciplina dei servizi locali di interesse
economico generale. Norme in materia di gestione dei
rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse
idriche), n. 7/2012 (Misure per la crescita, lo sviluppo e
l’occupazione) e n. 5/2010 (Norme in materia di valutazione
di impatto ambientale)" (L.R.
29.10.2013 n. 9). |
PATRIMONIO: Diniego
di concessione demaniale.
Domanda
È legittimo il
comportamento dell'Amministrazione che, a fronte della
presentazione di istanza di concessione da parte di un
terzo, nega il rilascio di una concessione demaniale, senza
preventivamente comunicarne i motivi ostativi?
Risposta
L'art. 10-bis
della legge n. 241/1990 e smi prevede che «nei
procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l'autorità competente, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci
giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti
hanno il diritto di presentare per iscritto le loro
osservazioni, eventualmente corredate da documenti».
Tale principio generale si applica anche in materia di
concessioni demaniali. Pertanto, nel merito del quesito
posto, se l'Amministrazione intende respingere una istanza
di concessione demaniale, anche se nell'esercizio dei propri
poteri discrezionali, occorre trasmettere il preavviso
previsto dall'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e smi
(cfr. Consiglio di stato, sezione VI n. 3614 del 09/07/2013)
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013). |
PATRIMONIO:
Corte conti. Legittime le permute alla
pari.
Solo le permute «pure» (in cui gli immobili vengono
scambiati alla pari senza il pagamento di una differenza in
termini di prezzo) sono escluse dal divieto che, ai sensi
della legge di stabilità 2013, ha colpito tutte le
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della p.a. tenuto dall'Istat (e quindi anche gli enti
locali).
Lo ha chiarito la Corte conti del Veneto nel
parere 23.10.2013 n. 302, emessa su richiesta del
comune di Chioggia che voleva sapere se fosse o meno
legittima un'operazione che prevedeva l'acquisizione da
parte dell'ente di un immobile di proprietà della Marina
militare a fronte dell'impegno a realizzare (per un valore
equivalente) un intervento di ristrutturazione su un
immobile di proprietà della Marina.
La Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza
in materia che in più di un'occasione ha ristretto l'ambito
applicativo del divieto ai soli acquisti «a titolo
derivativo» tra privati. Sulla base di questo
presupposto, la sezione veneta ha sempre escluso che la
locuzione «acquisti a titolo oneroso», contenuta
nella legge, potesse estendersi anche alle espropriazioni
per pubblica utilità (che fanno acquisire la proprietà a
titolo originario e senza il pagamento di un corrispettivo
in senso tecnico).
La Corte estende l'esonero anche alle permute a parità di
prezzo, in quanto le stesse rispettano «la ratio della
norma vincolistica volta a escludere esborsi di denaro a
titolo di corrispettivo».
Le tesi della Corte conti Veneto sono state recepite nel
decreto sui pagamenti della p.a. (dl n. 35/2013, convertito
nella legge n. 64) che all'art. 10-bis ha espressamente
escluso dal divieto «le procedure relative agli acquisti
a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per
pubblica utilità, le permute a parità di prezzo» e
infine le operazioni di acquisto programmate da delibere
assunte dagli enti prima del 31.12.2012 (articolo
ItaliaOggi del 29.10.2013). |
PATRIMONIO:
Insidia stradale e condotta negligente del danneggiato: P.A.
senza responsabilità.
Nel danno da insidia stradale, la
concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o
prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di
pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità
dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A.
per difetto di manutenzione della strada pubblica.
Il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti non può
prescindere da un modello relazionale, per cui la cosa deve
essere vista nel suo normale interagire con il contesto dato
talché una cosa inerte può definirsi pericolosa quando
determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di
normale interazione con la realtà circostante.
Pertanto, se il contatto con la cosa provochi un danno per
l’abnorme comportamento del danneggiato, difetta il
presupposto per l’operare della presunzione di
responsabilità di cui l’art. 2051 cod. civ., atteggiandosi
in tal caso la cosa come mera occasione e non come causa del
danno. In particolare, poi, in tema di danno da insidia
stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato
di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la
situazione di pericolo occulto vale ad escludere la
configurabilità dell’insidia e della conseguente
responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della
strada pubblica, dato che quanto più la situazione di
pericolo è suscettibile di essere prevista e superata
attraverso l’adozione di normali cautele da parte del
danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi
l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel
dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che
detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto
ed evento dannoso.
In applicazione degli enunciati principi, già espressi in
precedenti pronunce, la Corte di cassazione ha ritenuto di
confermare la decisione con la quale il la corte di merito,
in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la
domanda di risarcimento danni avanzata nei confronti di
un’amministrazione comunale dal conducente di un ciclomotore
rimasto vittima di lesioni personali in conseguenza di una
caduta dovuta ad una buca presente sul manto stradale.
Facendo corretta applicazione del suddetto criterio
relazionale, osserva il giudice di legittimità nella parte
motiva, si rileva come nel caso in esame il conducente del
motorino fosse ben a conoscenza dell’esistenza di buche
sulla strada da lui percorsa per cui avrebbe dovuto tenere
un comportamento idoneo ad evitarle.
Inoltre, affrontando sia il problema dell’applicabilità
dell’art. 2051 cod. civ. alla custodia esercitata dagli enti
territoriali sulle strade demaniali, sia quello relativo al
valore da attribuire alla non visibilità e non prevedibilità
dei dissesti del manto stradale, la corte del merito,
conclude la Cassazione, ha rilevato che la buca in
corrispondenza della quale il conducente è caduto era
ampiamente prevedibile e che tanto risulta sia dalle
dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo ai Vigili Urbani,
sia dal verbale degli stessi, sia da quanto dichiarato da un
testimone. In conclusione, non opera pertanto nel caso in
esame la presunzione di responsabilità ex art. 2051 cod.
civ. in quanto, essendo il conducente del motorino a
conoscenza dell’esistenza di buche, ben avrebbe potuto
evitarle.
In seguito a tale conoscenza gravava su di lui la prova
della non visibilità e non prevedibilità, il cui onere nel
caso specifico, non è stato adempiuto (commento tratto da
www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile,
sentenza 22.10.2013 n. 23919). |
PATRIMONIO: Concessione
di un'area demaniale.
Domanda
È legittimo
escludere un concorrente, che abbia commesso un'irregolarità
contributiva di minima entità, da una procedura ad evidenza
pubblica per la concessione di un'area demaniale marittima?
Risposta
Alla procedura per
il rilascio di una concessione demaniale marittima non sono
direttamente applicabili le disposizioni che disciplinano
l'aggiudicazione dei contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture.
Nello specifico è illegittima l'esclusione del concorrente
che sia stata disposta per un'irregolarità contributiva di
minima entità, ed è altresì illegittima la clausola del
bando che rechi una simile previsione, dal momento che
risulta violato il principio di proporzionalità (cfr. Tar
Lazio, sezione Latina n. 618 del 15/07/2013).
L'esigenza della proporzionalità nell'azione amministrativa
si articola infatti nei distinti profili inerenti: 1)
l'idoneità, ovvero il rapporto tra il mezzo adoperato e
l'obiettivo perseguito; 2) la necessarietà, ovvero l'assenza
di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in
maniera minore sulla sfera del singolo; 3) l'adeguatezza
ovvero la tollerabilità della restrizione per il privato (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
PATRIMONIO: Buche
in strada costose. Appaltatore dei lavori sempre
responsabile. Cassazione: non rileva
che le risorse della p.a. siano insufficienti.
La società che accetti le condizioni contrattuali
dell'appalto dettate dall'amministrazione si assume la
responsabilità per tutte le conseguenze dannose che possano
derivare a terzi in esecuzione dei lavori, e ciò anche
laddove le risorse messe a disposizione dalla stazione
appaltante risultino inadeguate o insufficienti.
Lo ha stabilito la IV Sez. penale della Corte di Cassazione
con la
sentenza 16.10.2013 n. 42498.
Nel caso concreto il comune di Roma ha affidato a una
società la manutenzione ordinaria, la sorveglianza e
l'intervento sulla grande viabilità del territorio romano.
Durante i lavori è accaduto che un ciclista, percorrendo uno
dei viali sotto manutenzione, si sia imbattuto in una buca
profonda quasi venti centimetri, cadendo rovinosamente a
terra e riportando diverse lesioni.
Dell'incidente è stato chiamato a rispondere
l'amministratore unico della società appaltatrice,
sottoposto a procedimento penale innanzi al giudice di pace
per il reato di lesioni colpose. L'accusa mossa nei suoi
confronti dalla procura è stata quella di aver adempiuto
negligentemente agli obblighi nascenti dall'appalto,
omettendo la dovuta vigilanza sui pericoli nascenti
dall'incarico posto che la buca da cui era scaturito
l'incidente del ciclista non era stata segnalata né erano
state apprestate misure impeditive al verificarsi di eventi
dannosi del tipo di quello accaduto.
All'esito del processo di primo grado il giudice ha ritenuto
fondata la tesi della procura, di conseguenza condannando
l'imputato alla pena della multa assieme al risarcimento dei
danni patiti della parte civile. Della stessa opinione è
stato il tribunale monocratico, adito in appello dai
difensore dell'amministratore unico: per entrambi i giudici
di merito, infatti, la responsabilità dell'imputato derivava
dal non aver lo stesso adempiuto agli obblighi contrattuali
di vigilanza, da effettuarsi 24 ore su 24, e di immediata
eliminazione o segnalazione dei pericoli rilevati sulle
strade.
La decisione del giudice di secondo grado è stata impugnata
in sede di legittimità: alla Suprema corte è stato chiesto
l'annullamento della decisione muovendo dall'asserita
erroneità dei precedenti verdetti di condanna che male
avrebbero rinvenuto i limiti della posizione di garanzia
gravante sui gestori della società appaltatrice: la difesa
ha argomentato la propria tesi osservando come nel
capitolato d'appalto fosse prevista la facoltà della
stazione appaltante di procedere a indagini per verificare
l'esatta esecuzione dei lavori e imporre sanzioni in caso di
mancato rispetto degli obblighi, contestazioni e sanzioni
che non ricorrevano affatto nel caso di specie. D'altra
parte, la difesa ha insistito nel sostenere come i mezzi
destinati dal comune all'attività di sorveglianza del
territorio fossero minimi, tanto che la società appaltatrice
si era trovata costretta a lavorare con una sola squadra di
sorveglianza ogni cinque municipi (ossia per uno spazio di
circa 800 km per ciascuna squadra): da qui il richiamo alla
regola generale, in materia di responsabilità per colpa,
secondo cui non è sufficiente l'oggettiva inosservanza della
regola cautelare di condotta, poiché occorre non di meno che
questa sia soggettivamente imputabile al soggetto agente.
Ebbene, i giudici romani, nel rigettare completamente il
ricorso presentato, hanno risposto a entrambe le censure nei
seguenti termini. Con riferimento alla mancata contestazione
di violazioni degli obblighi da parte dell'amministrazione
comunale, è stato osservato come siffatto profilo non
potesse assumere alcun rilievo poiché si trattava di
circostanze avulse dall'attestazione o meno, in sede penale,
del pieno rispetto, da parte della società, degli obblighi
nascenti dal contratto di appalto né potevano risultare
utili ai fini dell'esonero dell'imputato da ogni
responsabilità.
Analogamente, è stata rigettata la contestazione relativa
alla mancanza di fondi destinati all'attività di
sorveglianza: sul punto, gli ermellini hanno evidenziato
come «l'impossibilità di gestire adeguatamente il
territorio per l'insufficienza del corrispettivo previsto
nell'appalto, non autorizzava certo l'imputata a non
rispettare gli obblighi assunti e a fornire un servizio
assolutamente inadeguato, bensì la obbligava a segnalare al
committente l'impossibilità di garantire il servizio stesso
e di concordare possibili diverse soluzioni». Lambendo i
confini della «colpa per assunzione», dunque, la
Corte capitolina ha redarguito l'imputato sottolineando
come, peraltro, «nulla» lo avesse obbligato a
sottoscrivere il contratto di appalto o, comunque, ad
accontentarsi di corrispettivi inadeguati alla rilevanza
degli impegni che avrebbe dovuto assumere (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.12.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Telefonia
mobile.
Domanda
Il contributo per
i diritti di installazione di strutture su proprietà
pubbliche o private deve esse corrisposto dagli operatori
non proprietari di tali strutture che utilizzino le stesse
per prestare servizi di telefonia mobile?
Risposta
La Corte di
giustizia delle Comunità europee, sezione quarta, con la
sentenza del 12.07.2012 (cause riunite C-55/11, C57/11;
C58/11) – Vodafone España SA, ha interpretato l'articolo 13
della direttiva 2002/20/Ce nel senso che non si applica il
contributo per i diritti di installazione di strutture su
proprietà pubbliche o private, al di sopra o sotto di esse,
agli operatori non proprietari di tali strutture che
utilizzino le stesse per prestare servizi di telefonia
mobile.
Detta normativa, per i giudici europei, ha un'efficacia
diretta atteso che essa attribuisce ai singoli il diritto di
avvalersene dinnanzi al giudice nazionale, anche per
chiedere la disapplicazione dei provvedimenti nazionali che
vengono ad assoggettare a contributo diritti non ricompresi
in detta normativa. Pertanto, ai legislatori nazionali o
locali viene vietata la facoltà di imporre oneri fiscali
contributivi agli operatori che non siano proprietari delle
strutture per il solo fatto che le utilizzano per prestare
servizi di comunicazione elettronica, quali quelli di
telefonia mobile.
Infatti, le frequenze, alla luce di tale principio, sono un
bene di proprietà pubblica, per cui, alla luce di detta
configurazione giuridica, deve esser meglio garantita
l'utilizzazione ottimale dello spettro radio. Ciò comporta
che deve essere garantita al meglio l'utilizzazione e
distribuzione di servizi sulle stesse frequenze, nel
rispetto dei limiti degli standard di compatibilità con il
divieto delle interferenze dannose.
Nel caso, è da sottolineare che, pure a distanza di tempo, i
principi internazionali relativi alle frequenze radio sono
ancora oggi attuali e devono essere rispettati in tutto il
mondo per una corretta ripartizione delle frequenze e delle
loro allocazioni (articolo ItaliaOggi Sette del
14.10.2013). |
PATRIMONIO:
Divieto di transito per veicoli a motore su strade in aree
collinari e boschive.
Tra le strade non appartenenti al
demanio pubblico, rimangono estranee alla disciplina
pubblicistica, venendo regolate da norme di diritto privato,
le c.d. vie agrarie (chiamate anche 'vicinali private').
Sono, di conseguenza, assai circoscritte le possibilità
offerte dalla legge alle amministrazioni locali per limitare
la circolazione su dette strade onde impedire danneggiamenti
all'ambiente circostante, mentre dovrebbe essere
nell'interesse dei proprietari dei fondi interessati
intervenire, utilizzando gli strumenti forniti dal diritto
privato e dal diritto penale, a tutela del proprio diritto
di proprietà e dell'integrità dei terreni ai quali questo
diritto si riferisce.
Il Comune riferisce che, in un'area collinare e boschiva,
sita nell'ambito del proprio territorio, sussistono diverse
strade che attraversano proprietà private. Tra di esse vi è
una strada che pare essere stata realizzata diverso tempo fa
dall'Esercito. Quest'ultimo, interpellato riguardo alla
stessa, sembra abbia dichiarato informalmente il proprio
disinteresse senza però produrre un ufficiale atto di
dismissione.
Poiché tali strade, che non sono pubbliche o ad uso
pubblico, vengono spesso percorse da motoveicoli
fuoristrada, che si spingono anche al di fuori dei sentieri
tracciati, inoltrandosi nei boschi e scavando profondi
solchi nell'ambiente circostante, l'Ente chiede di sapere in
che modo possa legittimamente interdire la circolazione ai
veicoli a motore, con l'eccezione dei mezzi agricoli
appartenenti ai proprietari del fondo, anche se i terreni in
argomento non costituiscono aree soggette a vincolo
idrogeologico di cui alla legge regionale 23.04.2007, n. 9
(Norme in materia di risorse forestali) [1].
In via preliminare, il Comune dovrebbe verificare se la
strada menzionata appartenga tuttora all'Esercito ovvero se
vi sia stata una sdemanializzazione, anche tacita, della
stessa [2].
In caso di appartenenza della via al demanio militare,
spetterebbe, infatti, all'ente proprietario della stessa la
predisposizione di eventuali misure idonee a contrastare
abusi e fenomeni di degrado come quelli segnalati dal Comune
[3].
Le strade che non risultano essere militari e neppure
statali, provinciali o comunali e che, quindi, non
appartengono al demanio pubblico, sono, secondo una
normativa piuttosto risalente, ripresa dalla giurisprudenza
e dalla dottrina, le strade vicinali [4]
e le strade agrarie (quest'ultime chiamate anche vicinali
private) [5].
Le vie vicinali sono strade private o pubbliche, non
iscritte nei registri delle pubbliche vie, che sono idonee
al pubblico transito ed assoggettate al medesimo regime
giuridico delle strade pubbliche. Titolare del diritto d'uso
delle vie vicinali è il comune, ma chi lo esercita è la
collettività considerata come complesso di persone
[6].
Le vie agrarie sono strade private costituite dai passaggi
interpoderali che sono in comunione incidentale tra i
proprietari dei fondi latistanti i quali si servono, iure
domini, di quei percorsi per l'accesso e l'utilizzo dei
terreni. Su tali vie i proprietari partecipanti alla
comunione vantano un diritto d'uso riservato ed esclusivo
[7].
Si osserva, quindi, che mentre le vie vicinali sono di
interesse amministrativo, rimangono, invece, estranee alla
disciplina pubblicistica, venendo regolate da norme di
diritto privato (in particolare da quelle relative alla
comunione), le vie agrarie [8].
Sembrano, perciò, essere assai circoscritte le possibilità
offerte dalla legge al Comune instante per limitare la
circolazione sulle strade interpoderali de quibus le
quali, inoltre, non possono nemmeno godere della protezione
fornita con la L.R. 9/2007 non ricadendo all'interno di
territori sottoposti a vincolo idrogeologico per i quali
sono previste apposite disposizioni riguardanti la
circolazione fuori strada [9].
A dimostrazione di un tanto, si riscontra che unicamente
nelle vie vicinali si applicano le disposizioni del D.Lgs.
30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) in quanto
solo esse rientrano nella definizione fornita dall'art. 2 di
questa normativa che definisce come "strada" l'area
ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei
veicoli e degli animali. In particolare, ai sensi dell'art.
3, comma 1, n. 52, del Nuovo codice della strada, è definita
strada vicinale la 'strada privata fuori dai centri
abitati ad uso pubblico'. Inoltre, ai sensi dell'art. 2,
comma 6, del decreto, le strade vicinali sono assimilate
alle strade comunali.
Per questa ragione, per le strade private non soggette ad
uso pubblico, è esclusa la possibilità per il sindaco del
comune competente, prevista in relazione alle strade
vicinali, di emettere le ordinanze, di cui agli artt. 5,
comma 3 e 6, comma 4, del Nuovo codice della strada, grazie
alle quali l'ente proprietario può stabilire anche obblighi,
divieti e limitazioni di carattere temporaneo o permanente,
anche per determinate categorie di veicoli, in relazione
alle esigenze della circolazione o alle caratteristiche
strutturali delle strade.
Diversa è anche la disciplina per i due tipi di strade che
deriva dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918,
n. 1446 (Facoltà agli utenti delle strade vicinali di
costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la
ricostruzione di esse) [10].
L'art. 15 di tale decreto ha affidato al sindaco compiti di
vigilanza e polizia su tutte le strade vicinali, ma tali
poteri, che sembrano comunque esulare dagli aspetti di
regolamentazione del traffico [11],
possono essere autonomamente esercitati solamente
nell'ipotesi in cui le vie vicinali siano gravate da
pubblico transito, mentre, nel caso di strade private non
soggette ad uso pubblico, il sindaco può attivarsi solamente
a seguito di un'istanza dei consorzi eventualmente
costituiti fra gli utenti [12].
Al contrario, poiché le strade in argomento risultano essere
di proprietà privata e non soggette ad uso pubblico,
dovrebbe essere nell'interesse dei proprietari dei fondi
interessati intervenire, utilizzando gli strumenti forniti
dal diritto privato e dal diritto penale, a tutela del
proprio diritto di proprietà e dell'integrità dei terreni ai
quali questo diritto si riferisce [13].
Un intervento da parte di un comune su strade private, non
interessate dalla pubblica circolazione, potrebbe quindi
giustificarsi solamente qualora sorgessero importanti
esigenze di carattere pubblico.
Tale è evidentemente l'ipotesi in cui si integrino i
presupposti, nel caso de quo difficilmente
riscontrabili, per l'emissione delle ordinanze contingibili
ed urgenti di cui all'art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 che richiedono la sussistenza
di gravi ed imminenti pericoli per la pubblica incolumità e
la sicurezza urbana [14].
Tali provvedimenti rimangono comunque limitati nel tempo,
essendo per loro natura provvisori e sono soggetti a
particolare cautela nella loro applicazione nel caso
riguardino beni di proprietà privata [15].
In relazione, infine, alla possibilità, fatta propria da
alcune amministrazioni comunali, di prevedere, all'interno
dei propri regolamenti di polizia rurale
[16], disposizioni
che pongono il divieto di ingresso nei fondi altrui, si
rileva che risulta abrogato ormai da anni l'art. 110 del
Regio decreto 12.02.1911, n. 297 (Approvazione del
regolamento per la esecuzione della legge comunale e
provinciale) [17].
---------------
[1] Tale normativa ha abrogato la legge regionale
15.04.1991, n. 15 (Disciplina dell'accesso dei veicoli a
motore nelle zone soggette a vincolo idrogeologico o
ambientale. Modifica della legge regionale 22.01.1991, n.
3).
[2] La sdemanializzazione può avvenire grazie ad un
provvedimento di declassificazione, assunto ai sensi
dell'art. 3, comma 6, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495, oppure
in forma tacita, come precisato dalla Corte di cassazione:
'La sdemanializzazione di una strada può anche verificarsi
senza l'adempimento delle formalità previste dalla legge in
materia, ma occorre che essa risulti da atti univoci,
concludenti e positivi della Pubblica Amministrazione,
incompatibili con la volontà di conservare la destinazione
del bene all'uso pubblico. Né il disuso da tempo
immemorabile o l'inerzia dell'ente proprietario possono
essere invocati come elementi indiziari dell'intenzione di
far cessare la destinazione, anche potenziale, del bene
demaniale all'uso pubblico, poiché a dare di ciò la prova è
pur sempre necessario che tali elementi indiziari siano
accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così
significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi
se non quella che la Pubblica Amministrazione abbia
definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica
funzione del bene medesimo' (Cassazione civile, Sez. II,
30.08.2004, n. 17387).
[3] Ai sensi dell'art. 5, comma 3, del decreto legislativo
30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), 'I
provvedimenti per la regolamentazione della circolazione
sono emessi dagli enti proprietari, attraverso gli organi
competenti a norma degli articoli 6 e 7, con ordinanze
motivate e rese note al pubblico mediante i prescritti
segnali'.
[4] L'art. 3, comma 1, n. 52, del decreto legislativo
30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) reca la
definizione della sola strada vicinale come 'strada privata
fuori dei centri abitati ad uso pubblico'.
[5] La distinzione tra i due tipi di strade vicinali deriva
dal diritto romano ed è stata ripresa dal decreto
legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446. V. 'Il
regime giuridico delle strade provinciali, comunali,
vicinali e private', Pietro La Rocca, 2006, Maggioli
Editore, pagg. 209-290.
[6] Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale,
affinché una strada possa rientrare nella categoria delle
strade vicinali pubbliche, devono sussistere: il requisito
del passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale; la concreta idoneità della strada a
soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica,
esigenze di interesse generale; un titolo valido a
sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che
può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da tempo
immemorabile (Cfr. Cass. civ., sez. II, 12.07.1991, n. 7718;
TAR Sardegna, 21.12.2000, n. 1246; Consiglio di Stato, sez.
V, 01.12.2003, n. 7831).
[7] 'Le vie vicinali agrarie formate "ex collazione
privatorum agrorum" traggono la loro origine da situazioni
oggettive di diversa natura, le quali possono essere
determinate dalla volontà coincidente, anche se non
concorde, di tutte le parti, manifestata attraverso il fatto
materiale del conferimento in relazione all'effettiva
esigenza dei fondi (Cass. 27.07.2006 n. 17111) [...]
l'insorgenza della comunione presuppone inevitabilmente che
tutti i partecipanti abbiano in vario modo o misura
contribuito a conferire il sedime della strada, non essendo
ipotizzabile che alla comunione partecipi un soggetto che
nulla abbia conferito, a meno che non ricorra un diverso
titolo negoziale (Cass. 11.02.2005 n. 2751)', Cassazione
civile, sez. II, 05.07.2013, n. 16864.
[8] Come osservato in dottrina, 'le strade private agrarie
sono proprietà comune pro indiviso dei proprietari dei fondi
latistanti [...] e le strade medesime sono completamente
assoggettate alla regolamentazione e alla disciplina
privatistica del condominio' ('Le strade nell'attuale
disciplina legislativa', A. Romano, in 'Amm. It', n. 4,
aprile 1963 e n. 5, maggio 1963, pagg. 309 e ss.)
[9] Tale normativa in particolare prevede, per i territori
soggetti a vincolo idrogeologico o appartenenti ad aree
protette di cui alla legge regionale 30.12.1996, n. 42, il
divieto di circolazione e sosta dei veicoli a motore sui
percorsi fuoristrada, fatte salve alcune eccezioni tra le
quali il passaggio di veicoli per la conduzione dei fondi e
per l'accesso ai beni immobili in proprietà o possesso
(artt. 71-73).
[10] Ai sensi dell'art. 3 del decreto, il comune è tenuto a
contribuire alle spese di manutenzione e
sistemazione/ricostruzione delle strade vicinali soggette a
pubblico traffico da 1/5 fino a metà delle stesse, mentre ha
solo la facoltà di farlo per quelle private e solo fino ad
un massimo di 1/5 della spesa..
[11] L'art. 15, comma 1, specifica che al sindaco spetta
'ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle
strade e all'esecuzione delle opere definitivamente
approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose
abusivamente alterate'.
[12] V. Tar Sardegna, 05.12.1979, n. 399 e Tar Piemonte,
sez, I, 16.03.1989, n. 203.
[13] V. gli artt. 633 (Invasione di terreni ed edifici), 635
(Danneggiamento), 637 (Ingresso abusivo su fondo altrui) del
Codice.
[14] Ai sensi dell'art. 1 del decreto del Ministero
dell'interno 05.08.2008, 'per incolumità pubblica si intende
l'integrità fisica della popolazione e per sicurezza urbana
un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a
difesa, nell'ambito delle comunità locali. del rispetto
delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le
condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza
civile e la coesione sociale'.
[15] 'Quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo
gravante esclusivamente su beni privati sottratti a
qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di
legittimità dell'esercizio del suddetto potere di ordinanza
ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo,
soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale
invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione
pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza
in liti tra privati (magari già incardinate dinanzi al
competente giudice civile)' (Tar Campania, Napoli, sez. V,
19.04.2007, n. 4992).
[16] 'I regolamenti di polizia urbana e rurale solitamente
disciplinano, in conformità ai principi generali
dell'ordinamento giuridico ed in armonia con le norme
speciali e con le finalità degli statuti, comportamenti ed
attività comunque influenti sulla vita della comunità
cittadina e rurale al fine di salvaguardare la convivenza
civile, la sicurezza dei cittadini, la decenza, il decoro,
la più ampia fruibilità dei beni comuni e di tutelare la
qualità della vita e dell'ambiente, con attività di
prevenzione, ma anche con attività diretta all'attuazione e
all'osservanza da parte dei singoli cittadini delle leggi e
dei regolamenti emessi dallo Stato e da altri enti' (v. 'La
disciplina della polizia locale nell'ambito dell'autonomia
regolamentare degli enti locali', Regione Piemonte,
Assessorato Polizia locale, promozione della sicurezza,
2013, pag. 10).
[17] Tale articolo stabiliva -prima dell'abrogazione
avvenuta con la legge 08.06.1990, n. 142- che i comuni, con
i regolamenti di polizia rurale, provvedessero, tra l'altro,
a 'evitare i passaggi abusivi nelle private proprietà'.
Nulla di simile è stato successivamente previsto dalla
stessa L. 142/1990, dal Tuel o da altre disposizioni di
legge (11.10.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Beni culturali. Degrado monumenti e responsabilità enti
pubblici.
L'ente pubblico proprietario del
complesso monumentale lasciato in stato di abbandono, al
degrado e alla vandalizzazione altrui, e altresì tutti
coloro che erano tenuti alla conservazione ed alla vigilanza
del medesimo bene culturale, rispondono innanzitutto ai
sensi degli artt. 677 e 733 c.p. dei danneggiamenti
strutturali e dei pericoli di crollo che siano stati
immediatamente e direttamente causati dalla mancanza di
manutenzione ordinaria (e che nulla abbiano a che fare con
l'opera di eventuali ignoti occupanti abusivi o con gli
abusi edilizi consumati all'interno dello stesso sito o con
la condotta di chi lo ha usato come discarica di rifiuti
-come avvenuto nella specie-).
----------------
Gravano inoltre sul sindaco, e o sul dirigente in suo luogo
delegato, la responsabilità ex art. 328 c.p. per avere
omesso ogni intervento necessario a scongiurare conclamati
pericoli di crollo (nella specie più volte denunziati e già
avvenuti), anche attraverso l'esercizio dei poteri di
ordinanza di cui all'art. 54 t.u. enti locali.
Se poi sul medesimo sito gravano specifici vincoli storico
monumentale, paesaggistico, idrogeologico, di
inedificabilità assoluta, o di altra natura, i predetti enti
tenuti alla manutenzione e conservazione e tutela del bene,
nelle persone dei rispettivi responsabili pro tempore (da
individuarsi ogni volta in base alla funzione), rispondono
delle violazione di detti vincoli, sia di quelle cagionate
direttamente attraverso l'omissioni della cura manutentiva
del bene, sia di quelle riconducibili alle condotte
arbitrarie di terzi, ma favorite significativamente dal
mancato esercizio della doverosa vigilanza.
In particolare i danneggiamenti strutturali, gli abusi
edilizi compiuti all'interno del monumento, così come il
conferimento di rifiuti presso il suo sito (come è avvenuto
nella specie) costituiscono condotte di violazione dei
vincoli monumentale e paesaggistico su esso gravanti, ai
sensi dell'art. 169 e dell'art. 181, comma 1 e 1-bis, del
Dlgs. 42/2004; e sono in concreto riconducibili alla
responsabilità immediata e diretta dei predetti enti
pubblici proprietari o tenuti alla conservazione e alla
tutela, relativamente ai danni da mancanza di manutenzione;
i medesimi enti, relativamente alle violazioni dei vincoli,
compiute da terzi attraverso abusi edilizi e conferimenti
incontrollati di rifiuti, risponderanno a titolo di concorso
laddove la loro inerzia -di fronte a simili scempi- abbia
assunto in concreto i caratteri dell'acquiescenza.
---------------
La totale omissione di ogni vigilanza sul monumento, ove
sotto gli occhi di tutti vi si continuino a consumare per
anni abusi edilizi, conferimenti di rifiuti, adibizioni
abusive e deturpanti di ogni sorta, palesa i caratteri
dell'acquiescenza (a tali abusi) da parte degli enti
responsabili della sorte del monumento, diffondendo nella
popolazione la convinzione del loro disinteresse e della
loro chiara volontà di lasciarne fare a chiunque quel che
creda.
L'ordinamento nel suo complesso appresta al patrimonio
storico e artistico una accentuata tutela conto le azioni
dannose, prevedendo poteri-doveri di tutela di altrettanta
pregnanza, che ricevono particolari riconoscimento e
copertura costituzionale (cfr. tra gli altri gli artt. 838
c.c., l'art. 733, gli artt. 169 e 181 cod. beni culturali, e
innanzitutto l'art. 9 Cost.).
---------------
L'abbandono impietoso di un monumento, costituisce un aperto
dispregio dell'obbligo giuridico di natura generale di
gestione del bene di interesse pubblico secondo i criteri
del buon padre di famiglia.
---------------
La funzione di vigilanza e di tutela di un bene immobile di
notevole importanza monumentale, da esercitarsi innanzitutto
mediante una gestione e una manutenzione ordinaria adeguate,
non afferiscono a profili di discrezionalità del
proprietario o di chi sia investito ad altro titolo della
sua conservazione, anche ove questi siano delle pubbliche
amministrazioni, ma a ben specifici obblighi giuridici di
agire, che si traggono agevolmente dalla disciplina penale
(che incrimina condotte di violazione della integrità del
bene culturale, cfr. artt. 733 e 677 c.p., artt.169 e 181
cod. beni culturali; dalla disciplina civilistica (art. 838
c.c.), dalla normativa di natura amministrativa, che
regolamenta l'esercizio di relativi compiti e poteri
affidati a diversi organismi della p.a., e dal fondamentale
principio di rango costituzionale di tutela del patrimonio
storico e artistico e del paesaggio della nazione (art. 9
Cost. e cfr. inoltre art. 117 Cost., comma 2, lett. S)
(massima tratta da e link a www.lexambiente.it - TRIBUNALE
di Palermo, G.I.P.,
ordinanza 08.10.2013 n. 16090). |
PATRIMONIO: Federalismo
demaniale.
Domanda
A seguito del
trasferimento a un Ente locale di immobili dello Stato
tramite le procedure previste dall'art. 56-bis dl n. 69/2013
(Federalismo demaniale), l'Ente può procedere
all'alienazione di detti immobili o sussistono particolari
vincoli di inalienabilità?
Risposta
L'art. 56-bis,
introdotto in sede di conversione al decreto legge n.
69/2013 («Decreto del Fare»), ha sbloccato e data concreta
attuazione al processo di trasferimento dei beni
patrimoniali dallo Stato agli Enti locali. Dal 01.09.2013
fino al 30.11.2013 gli Enti, in base al principio di
sussidiarietà, potranno avanzare apposita richiesta
all'Agenzia del demanio territorialmente competente per
richiedere il trasferimento in proprietà dei beni.
I beni trasferiti, con tutte le pertinenze, accessori, oneri
e pesi, entrano a far parte del patrimonio disponibile delle
regioni e degli enti locali. Come patrimonio disponibile il
bene può pertanto essere alienato, previo esperimento delle
procedure previste dalla normativa, dall'Ente che ne ha
acquisito la proprietà. La normativa in esame non prevede
nessun particolare vincolo di inalienabilità.
In caso però gli enti decideranno di alienare i beni loro
trasferiti potranno tenere per sé il 75% del ricavato e
destinarlo prioritariamente alla riduzione
dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte
eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno
essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25%
sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli
di Stato. (cfr. art. 56-bis, comma 10, decreto legge n.
69/2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
PATRIMONIO: Ordine
di sgombero
Domanda
Nel caso in cui un
terzo occupi abusivamente un'area demaniale e presenta
un'istanza di regolarizzazione la Pubblica amministrazione
può ordinare ugualmente lo sgombero dell'area ?
Risposta
La Pubblica
amministrazione può ordinare la rimozione delle strutture
abusivamente installate su area demaniale anche in presenza
di un'istanza di regolarizzazione, dal momento in cui non
esiste un principio generale secondo cui la Pubblica
amministrazione non può adottare provvedimenti repressivi in
pendenza di procedimenti di regolarizzazione dell'attività
svolta (cfr. tra gli altri Tar Lazio, Sezione I-ter Roma n.
5551 del 04/06/2013).
Tale divieto deve trovare fondamento in un'esplicita
previsione normativa (ex. art. 38 legge 47/1985), essendo
un'eccezione al principio secondo cui la Pubblica
amministrazione deve intervenire in presenza di ogni
comportamento di privati che realizzi una violazione delle
regole che disciplinano il territorio e l'utilizzo delle
differenti aree (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
PATRIMONIO: Stazioni,
locazione pubblica.
Illegittima la trattativa privata per la locazione di vani
commerciali all'interno della stazione. Ciò quando i
contenuti specifici del contratto vanno ben oltre la
cessione della mera detenzione dell'immobile. Ovvero nel
caso in cui prevedono un'ingerenza delle Ferrovie non
giustificata da un mero rapporto di locazione ed
evidenziano, invece, che il contratto è caratterizzato dalla
volontà di garantire un servizio attinente ai viaggiatori.
Se non vi è in sostanza, ha precisato il Consiglio di Stato,
Sez. VI, nella
sentenza 04.10.2013 n. 4902, una mera connessione
logistica dovuta alla collocazione dell'attività in locali
destinati al servizio pubblico ma una chiara connessione
funzionale con i viaggiatori, va applicato il codice degli
appalti.
Tanto gli appalti «sotto soglia», che fruiscono di
una temporanea esenzione, che gli appalti e le concessioni
di servizi «esclusi», che fruiscono di un regime di
parziale esenzione, precisa infatti la sentenza, rientrano
negli scopi del diritto comunitario. Con la conseguenza che
va applicato l'art. 27 del dlgs 163/2006, il quale estende
l'applicazione dei principi del trattato Ue anche ai
contratti esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto. E ciò
in quanto è posto un principio di rispetto delle regole
minimali di evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e
del mercato, da parte dei soggetti tenuti al rispetto del
codice degli appalti.
Nel caso specifico, il contratto stipulato dalle Ferrovie
prevedeva che la struttura e la destinazione dei locali, i
tipi di servizi da fornire alla clientela, le attrezzature e
gli arredi dovevano essere predisposti e organizzati sotto
la direttiva delle Ferrovie allo scopo del migliore
soddisfacimento delle esigenze dei viaggiatori. Il contratto
prevedeva, inoltre, che «la ditta è obbligata a mantenere
in condizioni di pulizia il pavimento dell'intero atrio
biglietteria, sala d'attesa e quant'altro adibito a luogo di
accesso al pubblico interno ed esterno della stazione» (articolo
ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
PATRIMONIO:
In tema di contratto di locazione e principi di evidenza
pubblica.
Ai servizi di cui all’Allegato II-B,
d.lgs. n. 163 del 2006, si applicano ex art. 20, comma 1,
solo gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque
applicabili ex ante i principi del trattato, sia che si
tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di
concessione.
---------------
L’art. 27, d.lgs. n. 163 del 2006, estende l’applicazione
dei principi del Trattato europeo anche ai contratti
esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto, intendendo
porre un principio di rispetto delle regole minimali di
evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato,
da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli
appalti. Sicché detta disposizione deve dirsi applicabile
anche quando il contratto da stipulare abbia ad oggetto la
prestazione di un servizio funzionalmente connesso ovvero
integrativo di servizio pubblico.
La controversia riguarda un contratto stipulato da FES in
ordine al quale l’odierna appellante, prioritariamente
ripropone le censure di violazione delle regole
dell’evidenza pubblica e, in particolare, dell’art. 27
d.lgs. n. 163 del 2006.
La sentenza di primo grado ha affermato che FSE rientra
nella categoria degli organismi di diritto pubblico e in
tale parte essa non è stata impugnata. Posto, dunque, che si
rientra nell’ambito di applicazione soggettiva del codice e
del diritto comunitario, occorre esaminare i contenuti del
contratto per valutare se la fattispecie sia soggetta ai
principi in materia di evidenza pubblica nonché alla
disposizione in particolare segnalata.
La natura non strettamente privatistica di mera locazione si
desume chiaramente dal tenore del contratto stipulato in
data 04.11.2009 tra FSE e la ditta Caniglia Francesco (cfr.
doc. 1 della produzione di primo grado, depositata il
22.06.2010, di FSE), il cui art. 1, intitolato “oggetto
del contratto” indica che “FSE mette a disposizione
della ditta il complesso dei locali … per la produzione del
servizio di ristorazione per l’esigenza dei viaggiatori,
nonché della rivendita di generi di privativa e
pubblicazioni editoriali nella stazione di Campi Salentina.
La struttura e le destinazione dei locali, i tipi di servizi
da fornire alla clientela, le attrezzature e gli arredi
dovranno essere predisposti e organizzati sotto la direttiva
di FSE allo scopo del miglior soddisfacimento delle esigenze
dei viaggiatori”; il contratto prevede inoltre che “la
ditta è obbligata a mantenere in condizioni di pulizia il
pavimento dell’intero atrio biglietteria, sala d’attesa e
quant’altro adibito a luogo di accesso al pubblico interno
ed esterno della stazione” (art. 4), l’obbligo della
ditta ad attenersi, nella conduzione dell’esercizio, alle “prescrizioni
che al riguardo FES potesse impartire”, la necessità di
autorizzazione di FSE per consentire alla ditta di “essere
coadiuvata nella conduzione dell’esercizio da persona di Sua
fiducia in possesso dei requisiti richiesti”, il
controllo di FSE sugli introiti di esercizio e sulla
gestione contabile (art. 5), il diritto di FSE “di
controllare i prezzi di vendita al pubblico e di richiedere
tutte quelle modificazioni che, a proprio discrezionale
giudizio, ritenesse giusto” (art. 7), gli orari di
apertura e chiusura in funzione degli orari dei treni
(apertura almeno mezz’ora prima del primo treno e fino a
mezz’ora dopo l’ultimo), con facoltà di FSE di “modificare
insindacabilmente tale orario in funzione delle esigenze del
servizio” (art. 11), l’interferenza di FSE in ordine ai
generi di consumo in funzione delle “necessità
dell’utenza” (art. 13), riduzioni di prezzo per il
personale FSE ed altri specificati (art. 16), la non
ammissione del passaggio del pubblico non munito di
biglietto dall’esterno della stazione alla parte dei locali
del bar comunicanti con il piazzale interno e viceversa
(art. 24), il mantenimento nei locali del quadro orari dei
treni (art. 25), la riserva a FSE della pubblicità per conto
terzi sulle pareti dei locali del bar (art. 26).
I contenuti specifici del contratto, che vanno ben oltre la
cessione della mera detenzione dell’immobile e prevedono
un’ingerenza delle FSE non giustificata dal un mero rapporto
di locazione, evidenziano che il contratto stipulato è
caratterizzato dalla volontà di garantire un servizio
attinente ai viaggiatori.
La stessa appellata, del resto, puntualizza che era “interessata
esclusivamente ad offrire celermente un servizio, in parte
indispensabile, volto alla commercializzazione dei biglietti
di trasporto dell’azienda, in parte utile e più volte
richiesto dall’utenza”.
Non vi è, quindi, una mera connessione logistica dovuta alla
collocazione in locali destinati al servizio pubblico ma una
chiara connessione funzionale, ponendosi il servizio di
ristorazione come integrativo del servizio ai viaggiatori
Il servizio di ristorazione è incluso nell’Allegato II –B
(cat. 17) cui si riferisce il primo comma dell’art. 20
d.lgs. 16.04.2006, n. 163 (inserito nel Titolo II “Contratti
esclusi in tutto o in parte”), comma secondo cui si
applicano solo le specificate norme del codice (artt. 65, 68
e 225); il successivo art. 27 (“Principi relativi ai
contratti esclusi”) stabilisce che “l’affidamento dei
contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi
forniture esclusi, in tutto o in parte dall’applicazione del
presente codice, avviene nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere
preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se
compatibile con l’oggetto del contratto”; ai principi di
matrice comunitaria si riferisce anche il terzo comma
dell’art. 30 (“Concessione di servizi”) secondo cui “La
scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei
principi desumibili dal Trattato e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici, in particolare dei principi
di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità,previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tal numero
soggetti qualificati in relazione all’oggetto della
concessione e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Ne deriva, in una lettura coordinata, che ai servizi di cui
all’Allegato II –B, si applicano ex art. 20, comma 1, solo
gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque
applicabili ex ante i principi del trattato (sia che si
tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di
concessione).
La giurisprudenza (cfr., in particolare, Cons. Stato Ad.
plen. 01.08.2001, n. 16), sulla premessa che tanto gli
appalti “sotto soglia”, che fruiscono di una
temporanea esenzione, che gli appalti e le concessioni di
servizi “esclusi”, che fruiscono di un regime di
parziale esenzione, rientrano negli scopi del diritto
comunitario, è orientata nel senso di ritenere che l’art. 27
d.lgs. citato estende l’applicazione dei principi del
Trattato anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o
di oggetto, intendendo porre un principio di rispetto delle
regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della
concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al
rispetto del codice degli appalti.
Nella specie, dunque, non si poteva addivenire alla stipula
del contratto in questione in spregio ai principi di
trasparenza ed imparzialità, omettendo una comparazione tra
le offerte presentate (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.10.2013 n. 4902 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Trattandosi di
terreni di proprietà comunale, l’Amministrazione, una volta
deciso di volerli concedere ad un soggetto privato, ai sensi
dell’art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione
dei principi di trasparenza, eguaglianza e non
discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza
pubblica, per darli in concessione al migliore offerente,
sia perché da tale concessione il Comune ricava un’entrata,
sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce
un’occasione di guadagno per il soggetto privato che
utilizza tale bene.
... per
l'annullamento della Determinazione n. 304 del 29.8.2012
(pubblicata nell’Albo Pretorio on-line il 31.08.2012), nella
parte in cui il Dirigente dell’Unità di Direzione Gestione
Patrimonio del Comune di Potenza ha dato in concessione, per
la durata di 5 anni con scadenza il 29.06.2015 ed
esclusivamente per l’installazione di impianti di
radiodiffusione sonora in ambito locale, il terreno di
proprietà comunale, sito nella Località Poggio Cavallo, alla
Festula 2000;
...
La Determinazione n. 304 del 29.8.2012 è stata impugnata con
il presente ricorso (notificato il 12.07.2013), deducendo:
2) violazione dei principi in materia di evidenza pubblica,
cioè dei principi comunitari e nazionali di trasparenza,
concorrenza e par condicio, in quanto il concessionario di
un bene di proprietà comunale va individuato mediante
l’indizione di un apposito procedimento di evidenza
pubblica;
...
Invece, risulta fondato il
secondo motivo di impugnazione.
Infatti, trattandosi di terreni di proprietà comunale,
l’Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad
un soggetto privato, ai sensi dell’art. 3, comma 1, R.D. n.
2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza,
eguaglianza e non discriminazione, deve indire un
procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione
al migliore offerente, sia perché da tale concessione il
Comune ricava un’entrata, sia perché la concessione di un
bene pubblico costituisce un’occasione di guadagno per il
soggetto privato che utilizza tale bene.
A riprova di ciò, va richiamato l’orientamento
giurisprudenziale in materia di concessioni demaniali
marittime (cfr. C.d.S. Sez. VI n. 168 del 25.01.2005) e
quello recentissimo in tema impianti pubblicitari (cfr.
C.d.S. Ad. Plen. Sent. n. 5 del 25.02.2013), oltre a quello
relativo alle cave di proprietà comunale (cfr. da ultimo TAR
Basilicata Sent. n. 406 del 30.08.2012) (TAR Basilicata,
Sez. I,
sentenza 02.10.2013 n. 578 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2013 |
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PATRIMONIO: Anche
allorquando una concessione di suolo pubblico sia scaduta,
la tollerata occupazione del bene non radica alcuna
posizione di diritto o di interesse legittimo in capo
all’occupante (anche ex concessionario), irrilevante a tal
fine essendo anche il pagamento delle somme corrispondenti
all’originario canone (anche maggiorato), in quanto tali
somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo,
non essendo del resto ammissibile il rinnovo di una
concessione per facta concludentia per l’impossibilità di
desumere per implicito la volontà dell’amministrazione di
vincolarsi.
Come ha precisato la giurisprudenza, anche allorquando una
concessione di suolo pubblico sia scaduta, la tollerata
occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto
o di interesse legittimo in capo all’occupante (anche ex
concessionario), irrilevante a tal fine essendo anche il
pagamento delle somme corrispondenti all’originario canone
(anche maggiorato), in quanto tali somme valgono solo a
compensare l’occupazione sine titulo (C.d.S., sez. V,
27.09.2004, n. 6277), non essendo del resto ammissibile il
rinnovo di una concessione per facta concludentia per
l’impossibilità di desumere per implicito la volontà
dell’amministrazione di vincolarsi (C.d.S., sez. V,
22.11.2005, n. 6489) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4776 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Edifici
scolastici sicuri, sostenibili ed adeguati alle nuove
esigenze didattiche, ecco quanto proposto nelle nuove Linee
Guida.
Il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato le nuove “Linee
guida per le architetture interne delle scuole”, per la
corretta progettazione dell’edilizia scolastica.
La ridefinizione delle Linee guida, strettamente collegata
al piano di innovazione digitale delle scuole, fornisce
nuove soluzioni: non più solo aule, ma spazi modulari e
polifunzionali, facilmente configurabili ed in grado di
rispondere a contesti educativi sempre in evoluzione.
Tradizionalmente l’aula è sempre stata lo spazio unico della
didattica quotidiana, un luogo in cui il docente, posto di
fronte ai ragazzi disposti in file di banchi, trasmetteva
agli studenti le conoscenze da acquisire. L’aula moderna è
ancora uno spazio pensato per interventi frontali ma è ora
uno dei tanti momenti di un percorso di apprendimento
articolato e centrato sullo studente. Quindi cambiano
radicalmente i principi alla base della progettazione
funzionale.
La guida, in particolare, fornisce i criteri generali per la
progettazione di edifici scolastici, con indicazioni
operative su:
►
configurazione e
articolazione interna degli edifici
►
ottimizzazione del
sistema edificio/ambiente
►
scelta dei materiali
da utilizzare
►
materiali da evitare
Particolare attenzione è dedicata nel testo agli impianti
tecnologici, per i quali è necessario puntare sulla
flessibilità.
Il documento è certamente interessante per tutti i tecnici
che operano nel settore della progettazione di edifici ad
uso collettivo (26.09.2013 - link a www.acca.it). |
PATRIMONIO:
Vendita di bene sdemanializzato.
Il bene avente natura demaniale non è,
per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la
sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche
tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un
formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci
e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne
la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così
significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da
quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente
rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene
medesimo.
Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta da un privato
cittadino di poter acquistare una strada di proprietà
dell'Ente (bene demaniale) 'inglobata' da oltre 50
anni nella proprietà del privato stesso.
Riferisce l'Ente che l'area oggetto della richiesta ha ormai
perso i requisiti di strada, essendone stata realizzata
un'altra al limite della proprietà del richiedente, atta a
servire tutti i fondi limitrofi, in conseguenza di una 'sorta
di riordino fondiario'.
Il Comune chiede, quindi, di conoscere se, una volta
sdemanializzata la strada in argomento con apposito atto,
possa procedere alla vendita della stessa al privato,
chiedendogli eventualmente di corrispondere una indennità
per il periodo di utilizzo antecedente alla vendita.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Circa la possibilità di procedere alla vendita del bene
pubblico, successivamente alla sdemanializzazione dello
stesso da parte dell'Amministrazione instante, si richiama
l'attenzione sulla necessità che la vendita venga effettuata
nel rispetto delle regole dell'evidenza pubblica.
Quanto, invece, alla possibilità di richiedere al privato la
corresponsione di un'indennità per il periodo di utilizzo
del bene antecedente alla vendita, si precisa che la stessa
potrebbe essere vantata dall'Ente solo in relazione
all'ultimo quinquennio, risultando prescritta per i periodi
antecedenti [1].
Ad ogni buon conto, in relazione alla fattispecie
prospettata, corre l'obbligo di rappresentare quanto segue,
in modo che l'Ente possa effettuare le valutazioni ritenute
opportune.
Nel possesso indisturbato e protratto da tempo immemore (nel
caso in oggetto, oltre 50 anni) da parte del proprietario
del fondo in cui la strada risulta 'inglobata' potrebbero
ravvisarsi i requisiti per la richiesta di accertamento
dell'avvenuta usucapione [2]
della strada in argomento. Il bene avente natura demaniale
non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la
sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche
tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un
formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci
e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne
la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così
significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da
quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente
rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene
medesimo.
La giurisprudenza [3]
ha al riguardo osservato che '[...] il disuso prolungato
di una strada vicinale da parte della collettività e
l'inerzia dell'amministrazione nella cura della stessa e/o
nell'intervento riguardo ad occupazioni o usi da parte di
privati incompatibili con la destinazione pubblica, non
bastano a comprovare inequivocabilmente la cessata
destinazione del bene (anche solo potenziale) all'uso
pubblico (c.d. sdemanializzazione tacita), occorrendo che
detti indizi siano accompagnati da fatti concludenti e da
circostanze tali da non lasciare adito ad altre ipotesi,
salva quella che la stessa abbia definitivamente rinunciato
al ripristino dell'uso stradale pubblico.'.
Atteso che, nell'ambito di un giudizio intentato per
l'accertamento dell'avvenuta usucapione del bene, la
sdemanializzazione tacita può essere accertata autonomamente
dal Giudice, che deve valutare i comportamenti
dell'amministrazione in rapporto al bene che si sostenga
passato al regime patrimoniale, si considera opportuno che
l'Ente instante verifichi preventivamente se la
sdemanializzazione tacita possa aver operato in relazione al
caso concreto e se il privato intenda conseguentemente far
valere l'usucapione [4],
eventualità che renderebbero di fatto impossibili tanto la
vendita del bene, quanto la richiesta di indennizzo.
---------------
[1] Con riferimento al termine di prescrizione
quinquennale del diritto al risarcimento per l'occupazione
sine titulo del sedime stradale, cfr., tra le altre, Trib.
Napoli Sez. fall., 11.04.2011 e Trib. Bologna Sez. III,
20.09.2007.
[2] L'usucapione potrebbe operare anche a vantaggio
dell'acquirente (attuale proprietario) del terreno in cui è
'inglobata' l'area, atteso che il possesso dello stesso si
può sommare a quello del suo dante causa, ai sensi dell'art.
1146, secondo comma, del codice civile.
[3] Cfr., fra le altre, TAR Umbria Perugia Sez. I, Sent.,
11.07.2011, n. 198; Cons. Stato, IV, 07.09.2006, n. 5209;
TAR Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009, n. 1450.
[4] Nel caso in esame, tale ultima evenienza sembrerebbe
peraltro scongiurata dal fatto che è stato il privato stesso
a richiedere, seppur informalmente, la vendita (25.09.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Condanna per il Comune al risarcimento
dei danni provocati da un incendio sviluppatosi nel parco
pubblico comunale, in adiacenza alla rete di confine con lo
stabilimento dell’attore, e propagatosi all’interno della
proprietà.
I motivi sono manifestamente infondati, quando non
inammissibili, poiché il ricorrente, pur richiamando
formalmente anche la violazione di norme di diritto, pone in
realtà in discussione solo gli accertamenti e le valutazioni
in fatto mediante le quali la Corte di appello ha ritenuto
di escludere l’addebitabilità di un qualunque concorso di
colpa alla danneggiata: accertamenti e valutazioni che
risultano adeguatamente motivati ed oggettivamente
condivisibili.
Il proprietario non ha alcun obbligo di utilizzare in un
modo o nell’altro il proprio fondo, né incorre in alcun
divieto di sistemarvi oggetti ed attrezzi nel modo ritenuto
più conveniente, qualora non sussista alcun elemento o
circostanza idonei a dimostrare la pericolosità di una data
sistemazione.
Il ricorrente non afferma di avere dedotto o dimostrato
alcunché, nelle competenti sedi di merito, circa la
prevedibilità del sinistro verificatosi, quindi circa
l’imputabilità ad imprudenza o a negligenza del danneggiato
del fatto di avere collocato la sue merce in quel
particolare punto dalla sua proprietà, come ha correttamente
rilevato la Corte di appello.
Né sono consentite in questa sede ulteriori indagini in
merito (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.09.2013 n. 21100 - link a
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PATRIMONIO:
Il vantaggio indiretto per il Comune esclude il danno
erariale.
Non determina alcun danno erariale il dirigente comunale che
concede un immobile del Comune in uso gratuito a
un'associazione privata se da ciò deriva un corrispettivo
indiretto all'ente come lo svolgimento di servizi e attività
di utilità pubblica, nonché obblighi di gestione e di
manutenzione dell'immobile in capo all'associazione stessa.
---------------
Il danno azionato
in giudizio deriverebbe, secondo la prospettazione di parte
attrice, dalla concessione a titolo gratuito di un immobile
del patrimonio del Comune di Cagliari a una associazione
privata.
In proposito, occorre preliminarmente osservare che
la normativa in materia di concessione di beni
pubblici prevede espressamente l'affidamento in concessione,
anche gratuita, o in locazione a canone ridotto di beni
immobili demaniali e patrimoniali, destinati ad uso diverso
da quello abitativo. In questi termini, dispone il D.P.R.
13.09.2005, n. 296
(che ha abrogato la legge n. 390 del 1986 e successive
modifiche), agli artt. 9, 10 e 11, con
riguardo a particolari categorie di immobili (tra cui quelli
d’interesse culturale) ed a specifiche tipologie di soggetti
(organizzazioni non lucrative di utilità sociale,
associazioni di promozione sociale) … per finalità di
interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli
scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle
esigenze primarie della collettività e in ragione dei
principi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte
dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria
e straordinaria.
Con riguardo al patrimonio indisponibile
degli Enti locali, specifiche disposizioni stabiliscono:
- la concessione in uso di beni immobili
per il perseguimento di “scopi sociali” che in
concreto possono comportare la fissazione di canoni
inferiori a quelli di mercato
(art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994);
- la previsione di canoni meramente
ricognitori (art.
3, comma 66, della legge n. 549 del 1995)
nella concessione di aree e di impianti sportivi in favore
delle associazioni o società sportive dilettantistiche e
senza scopo di lucro o agli enti di promozione sportiva;
- la concessione in comodato ad
associazioni di promozione sociale e ad organizzazioni di
volontariato, per lo svolgimento delle loro attività
istituzionali
(art. 32, comma 1, della legge n. 383 del 2000).
Alla stregua della disciplina di cui sopra va esaminata la
concessione del bene del patrimonio comunale denominato
Chiesetta Aragonese, il cui rilievo storico culturale non
appare, all’evidenza, suscettibile di un uso per scopi
commerciali o comunque economicamente lucrativi estranei a
finalità pubbliche nelle quali, viceversa, come previsto
dall’art. 2 della concessione, trova giustificazione
prevalente l’affidamento in uso.
Risulta dagli atti di causa e, in particolare, dalla
determinazione n. 9718, del 22.09.2010, che, stante la
necessità di provvedere a un servizio di gestione del bene
per garantirne la fruibilità e l’accesso al pubblico ed
evitare atti vandalici e il nuovo degrado del sito, è stato
richiesto, con nota del 27.07.2010, alle associazioni
interessate di presentare un progetto di gestione e utilizzo
della Chiesetta Aragonese.
Entro i termini stabiliti nella nota di cui sopra, hanno
partecipato alla selezione l’Associazione ISARDI e
l’Associazione CUM - Centro Universitario Musicale: al
progetto presentato dalla prima Associazione è stato
attribuito il punteggio di 8/10 e quello presentato dalla
seconda è stato valutato con il punteggio di 7/10 (doc. 83 e
84 allegati alla citazione). Si legge nella parte motiva
della determinazione che il progetto dell’Associazione
ISARDI è stato ritenuto meglio rispondente alle esigenze
dell’Amministrazione … in quanto prevede numerose attività,
non incentrate su un unico argomento, ma diversificate e
spazianti in più discipline, che, pur rispettando il valore
storico culturale del sito, rendono lo stesso maggiormente
fruibile da una molteplicità di cittadini.
Nella convenzione stipulata con
l’Associazione e approvata con il provvedimento in esame
–il quale prevede espressamente che la concessione del sito
non comporta oneri di alcun genere per l’Amministrazione
Comunale– viene stabilito che il
concessionario è obbligato:
- a garantire l’apertura al pubblico
dell’edificio della Chiesa Aragonese nei giorni e per le ore
previsti dal calendario concordato con il Servizio Cultura
del Comune, nonché in occasione di manifestazioni culturali,
e a presentare trimestralmente allo stesso Servizio una
dettagliata relazione sull’attività svolta e sul numero dei
visitatori (art.
2);
- a gestire gli impianti a servizio dei
locali concessi, assicurando la piena efficienza e
funzionalità degli impianti stessi e assumendo a proprio
carico la relativa responsabilità sia nei confronti del
Comune che dei terzi
(art. 5, c. 1);
- a farsi carico di tutte le spese
occorrenti al funzionamento della struttura: fornitura
dell’energia elettrica, riscaldamento, acqua potabile,
pulizia, rimozione dell’immondizia, e ogni altra spesa
necessaria all’esercizio stesso e, infine, a dotarsi di
arredi e attrezzature consone al sito e previa approvazione
del Servizio (art.
5, c. 2 e 3).
In convenzione si prevede, infine,
l’utilizzazione dell’immobile, oltre che per le finalità
culturali di cui all’art. 2, anche per le finalità
istituzionali dell’Associazione e per la realizzazione del
programma di attività culturali e didattiche presentato ai
fini della concessione
(art. 3): attività queste di interesse
dell’ente locale e svolte o da svolgersi senza oneri a
carico del Comune.
Nel periodo di circa un anno di vigenza della concessione,
l’Associazione interessata ha sostanzialmente assolto agli
obblighi dedotti in convenzione. In ogni caso, nessuno
specifico addebito è stato mosso al riguardo da parte
attrice, fatta eccezione per le spese relative alla
fornitura di energia elettrica sostenute dal Comune nel
periodo, a causa della mancata voltura dell’utenza: spese
che, peraltro, non sono state quantificate né hanno formato
oggetto della pretesa risarcitoria.
Il concreto soddisfacimento delle finalità della concessione
si evince proprio dalla determinazione n. 10218, in data
12.10.2011, di revoca della convenzione, nelle cui premesse
si da atto che con nota del 23.09.2011 era stato contestato
all’associazione il mancato rispetto delle prescrizioni di
cui agli artt. 2 e 3 della convenzione citata e, in
particolare, la mancata apertura della chiesa per diversi
giorni nella settimana dal 12 al 17.07.2011 e nei giorni 6 e
07.09.2011, senza previa tempestiva comunicazione al
pubblico e al Servizio del Comune concedente, e la mancata
presentazione della relazione trimestrale.
In disparte la considerazione che tali osservazioni sono
state formulate nell’imminenza del provvedimento di revoca
della concessione e, probabilmente proprio in funzione della
determinazione stessa, mentre in precedenza non risulta che
sia stato formulato alcun rilievo circa la regolarità e la
correntezza del servizio, vi è da dire che la mancata
apertura al pubblico del monumento per soli otto giorni
nell’arco di un anno, non appare sicuro indice di ulteriori
gravi inadempienze dell’Associazione nell’esecuzione del
rapporto concessorio.
Oltretutto, per quanto riguarda la gestione dell’immobile,
dalla relazione, in data 04.04.2012, redatta dal funzionario
tecnico incaricato dal Comune di verificare lo stato d’uso e
manutenzione del sito, emerge che, a parte la presenza di
macchie di umidità e di distacchi di tinteggiatura
all'interno della struttura e la rottura del vetro della
finestra del box esterno all’edificio (già esistente), non
sono stati rilevati danni dovuti all'uso rispetto alla
situazione del sito constatata all’atto della consegna
dell’01/10/2010.
Per quanto riguarda il danno erariale, che la Procura
attrice ha quantificato in € 13.041,60, pari alla somma
dovuta al Comune nel periodo intercorrente dal 24.09.2010 al
24.04.2012, sulla base della stima peritale redatta dal
tecnico del competente Servizio dell’Ente, la difesa ne ha
eccepito l’infondatezza, contestando l’asserita gratuità
della concessione d’uso del bene comunale perché l’obbligo
di pagare un canone era sostituito dall’onere a carico del
concessionario di effettuare molteplici prestazioni a favore
dell’amministrazione comunale, gran parte delle quali erano
estranee alle spese gestionali ordinarie e ai compiti di
ordinaria manutenzione, rappresentando attività che,
altrimenti, avrebbero dovuto essere svolte dal Comune, con
accollo dei relativi costi.
In ogni caso, ha dedotto la sua non attualità, in quanto il
Comune potrebbe ancora pretendere dall’associazione il
pagamento del proprio credito, non essendo ancora
intervenuto il termine prescrizionale dei cinque anni. Tale
ultima argomentazione non è conferente, ove appena si
consideri che, essendo stata espressamente prevista dal
provvedimento di approvazione della convenzione la gratuità
dell’assegnazione, nessun credito può vantare il Comune nei
confronti dell’associazione.
E’ viceversa coerente con la realtà, risultante dagli atti
di causa, l’assunto della sostanziale onerosità della
concessione.
Si è detto in precedenza che, in ragione
delle sue peculiarità storiche e culturali, il monumento
denominato Chiesetta Aragonese non è affatto assimilabile ad
immobile suscettibile di redditività e/o da destinare a
scopi economicamente lucrativi, rilevando piuttosto finalità
di fruizione pubblica. E’, dunque, fuor di dubbio che con la
sua concessione d’uso il Comune ha conseguito (o si è
ripromesso di conseguire per la durata della concessione) un
risparmio in termini di spese di gestione, di custodia e di
manutenzione del sito, specie con riguardo alle spese del
personale necessario per il compimento di tali attività,
raggiungendo nello stesso tempo lo scopo di consentire la
visita del monumento e di impedire atti vandalici e un nuovo
degrado del sito (considerata anche la sua recente
ristrutturazione).
La forma concessoria adottata si è rivelata
funzionale a garantire la cura del bene, a consentirne la
fruizione pubblica e a realizzare iniziative culturali e
sociali, senza alcun onere per le finanze dell’Ente.
Si può, pertanto, fondatamente ritenere che
la concessione di cui si tratta, ancorché conferita a titolo
formalmente gratuito, non sia stata priva di congruo
corrispettivo per la parte pubblica, in quanto sono stati
espressamente previsti a carico del concessionario servizi e
attività di utilità pubblica, e obblighi di gestione e di
manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile
sicuramente comportanti oneri quantificabili anche
monetariamente.
Sotto questo profilo, nell’affidamento
della gestione della Chiesetta Aragonese all’Associazione
culturale ISARDI non è ravvisabile alcun danno patrimoniale
per l’amministrazione comunale, atteso che, come si è detto
più volte, l’amministrazione comunale, da un lato, ha potuto
soddisfare l’interesse alla fruizione pubblica del sito e,
dall’altro, ha conseguito l’altrettanto rilevante obiettivo
della gestione, della vigilanza e della tutela del
monumento, delle strutture annesse e dell'area verde
circostante, senza onere alcuno a carico del bilancio del
Comune.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si deve,
pertanto, pronunciare il proscioglimento del convenuto dalla
domanda attrice (Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna,
sentenza
16.09.2013 n. 234). |
agosto 2013 |
|
PATRIMONIO:
Alienazione immobile con vincolo di destinazione.
Qualora le disposizioni normative
costitutive del vincolo di destinazione di un edificio
risultino abrogate, non pare sussistere alcun ostacolo
legislativo all'alienabilità dello stesso, senza vincolo di
destinazione.
Il Comune, proprietario di un immobile con vincolo di
destinazione a scuola materna, ai sensi dell'art. 2-ter
della legge 04.08.1978, n. 465, chiede di conoscere se,
attesa l'abrogazione della predetta legge ad opera dell'art.
24 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito con
modificazioni dalla legge 06.08.2008, n. 133, il vincolo di
destinazione possa considerarsi non più operante e l'Ente
possa dunque procedere all'alienazione dell'edificio. Un
tanto in considerazione anche dello stato di abbandono
dell'immobile in argomento e della intervenuta realizzazione
di altra struttura specificamente progettata per accogliere
la nuova scuola materna.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti
considerazioni.
Come già rappresentato nel parere prot. 5073 dd. 22.02.1995,
l'immobile in argomento può essere annoverato tra i beni
appartenenti al patrimonio indisponibile dell'Ente.
Circa il regime giuridico dei beni indisponibili, l'unica
indicazione legislativa esplicita è quella di cui al secondo
comma dell'art. 828 c.c. secondo cui tali beni non possono
essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi
stabiliti dalle leggi che li riguardano. A parte questa
disposizione, manca una disciplina uniforme dei beni
appartenenti al patrimonio indisponibile. In linea generale,
può affermarsi che detti beni sono sottoposti a un regime
differente da quello di diritto comune, ma la portata di
questo regime è solitamente stabilita dalle singole leggi
che li disciplinano. [1]
Si ritiene, dunque, che qualora l'alienabilità non sia
vietata da alcuna norma di legge, essa dovrebbe essere, in
via generale, ammessa.
Atteso che, come descritto in premessa, le disposizioni
normative costitutive del vincolo di destinazione
dell'edificio 'de quo' risultano abrogate, non pare
sussistere alcun ostacolo legislativo all'alienabilità,
senza vincolo di destinazione, del predetto immobile.
---------------
[1] Si osserva, ad esempio, che l'inalienabilità dei beni
indisponibili non è un carattere assoluto come invece è
previsto per i beni demaniali, tuttavia, numerose leggi
speciali sanciscono l'inalienabilità delle miniere, delle
cave, delle torbiere, delle foreste, ecc. (26.08.2013
-
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LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
Oggetto: Istruzioni e linee guida per la fornitura e posa
in opera di segnaletica stradale (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
nota 05.08.2013 n. 4867 di prot.).
---------------
Un freno dai Trasporti alla segnaletica
creativa.
La segnaletica stradale deve essere uniforme e adeguata alle
direttive ministeriali. Sono quindi fuori legge tutte le
iniziative locali finalizzate a valorizzare un
attraversamento pedonale o un incrocio senza il rispetto
delle specifiche tecniche richieste dalla normativa.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la
circolare 05.08.2013 n. 4867 di prot. avente per
oggetto «istruzioni e linee guida per la fornitura e posa
in opera di segnaletica stradale».
Nonostante l'art. 38/6° del codice stradale richiami
chiaramente la necessaria uniformità della segnaletica
stradale sono tanti gli enti proprietari delle strade che in
questi anni hanno intrapreso scelte originali spesso molto
censurabili.
Nonostante le continue e ripetute diffide e due direttive
ad hoc del 24.10.2000 e del 27.04.2006 la questione è
ancora molto combattuta per cui il ministero ha ritenuto
opportuno riepilogare tutta la disciplina in materia alla
luce del regolamento 305/2011/Ue che dal 1° luglio ha
definitivamente sostituito la direttiva 89/106/Ce. In
particolare ai sensi di questa dettagliata disposizione
normativa ora tutta la segnaletica verticale deve essere
marcata Ce e deve rispondere a specifiche tecniche ad hoc
richiamate anche dall'art. 63 del codice degli appalti.
Per quanto non coperto da norme armonizzate, prosegue la
nota centrale, restano valide le norme nazionali per esempio
circa i vincoli e le modalità di impiego dei segnali e dei
dispositivi contemplati nell'art. 45/6° del codice stradale
per i quali è obbligatorio ricorrere a prodotti omologati o
approvati. È il caso per esempio della segnaletica
temporanea di cantiere, dei segnali complementari previsti
dall'art. 42 Cds (tra cui i dispositivi destinati ad
impedire la sosta o limitare la velocità) e tutti gli altri
dispositivi analoghi previsti dal regolamento stradale.
La questione sulla corretta e uniforme applicazione delle
norme in materia di segnaletica però è già stata
adeguatamente approfondita in particolare dalla direttiva
del 27.04.2006 che per la prima volta viene ufficializzata
dopo un periodo di grande incertezza sull'ufficialità della
stessa (articolo ItaliaOggi del 22.08.2013). |
PATRIMONIO:
L. 228/2012, art. 1, comma 141. Limiti di spesa per
l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma
143, della L. 228/2012 dispone che le amministrazioni
pubbliche non possono effettuare spese di ammontare
superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media
negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi,
salvo che l'acquisto dia funzionale alla riduzione delle
spese connesse alla conduzione degli immobili.
Spetta, pertanto, all'Ente valutare la sussistenza o meno
delle condizioni al fine di procedere all'acquisto degli
arredi sulla base di una puntuale quantificazione preventiva
dei costi e dei risparmi conseguenti.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
procedere all'acquisto di mobili e arredi funzionali alla
conduzione del centro di aggregazione giovanile di proprietà
comunale, destinato all'uso non gratuito da parte di terzi,
stante il disposto di cui all'articolo 1, comma 143, della
legge 24.12.2012, n. 228.
In via preliminare, si fa presente che la decisione sulla
sussistenza o meno delle condizioni al fine di procedere
all'acquisto degli arredi attiene al merito dell'azione
amministrativa e rientra nella piena ed esclusiva
discrezionalità e responsabilità di codesto ente, non
potendo lo scrivente sostituirsi agli organi e uffici dello
stesso.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti
considerazioni di carattere generale.
La norma in argomento, facendo salve le misure di
contenimento della spesa già previste dalle vigenti
disposizioni, stabilisce che, per gli anni 2013 e 2014, «le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e
successive modificazioni, ... omissis... non possono
effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento
della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per
l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto sia
funzionale alla riduzione delle spese connesse alla
conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei
revisori di conti verifica preventivamente i risparmi
realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa
derivante dall'attuazione del presente comma».
Alla luce del fatto che la violazione della disposizione in
argomento è valutabile ai fini della responsabilità
amministrativa e disciplinare dei dirigenti, si ritiene
necessario che l'Ente effettui un'analisi approfondita
dell'operazione, nell'ottica di una puntuale quantificazione
preventiva dei costi e dei risparmi conseguenti, avendo
presente che la norma impone che:
a) l'acquisto di mobili e arredi deve essere funzionale alla
riduzione delle spese connesse alla conduzione degli
immobili. Si tratta di un aspetto che solo l'Ente è in grado
di valutare pienamente;
b) i risparmi realizzabili con l'acquisto devono essere
superiori all'entità della spesa di conduzione degli
immobili.
In via collaborativa, si riporta quanto specificato da un
articolo di dottrina [1],
avente ad oggetto 'L'applicazione dei limiti sulle
singole tipologie di spesa: il caso dell'acquisto di mobili
e arredi (articolo 1, comma 141, legge di stabilità n.
228/2012', secondo il quale occorre che il collegio dei
revisori certifichi che i nuovi mobili e arredi consentono
un risparmio sulla base di una motivata analisi economica
che dimostri come tali risparmi siano ottenibili dal mancato
taglio e li quantifichi.
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[1] Pubblicato sulla newsletter quindicinale 'Bilancio e
contabilità news' di martedì 07.05.2013 (01.08.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
luglio 2013 |
|
PATRIMONIO: Alienazione
immobili.
Domanda
Un comune, in
presenza di apposita disposizione regolamentare, ha
provveduto ad alienare un immobile di sua proprietà ad una
fondazione pubblica, senza ricorrere a procedure di
selezione improntate a criteri di evidenza pubblica.
Si chiede se la procedura seguita e la relativa clausola
regolamentare siano legittime.
Risposta
Alla luce delle
disposizioni comunitarie e nazionali, nonché dei più recenti
orientamenti giurisprudenziali in materia, si ritiene che la
procedura seguita dall'ente, seppur conforme alle
disposizioni del regolamento comunale, presenti forti
elementi di criticità.
In primis, si rileva che tale procedura è
astrattamente idonea a pregiudicare la concorrenza in quanto
attribuisce al comune la facoltà di vendere un bene
pubblico, senza garantire un confronto competitivo,
attribuendo in tal modo al diretto aggiudicatario un
ingiustificato vantaggio competitivo.
L'art. 12 della legge n. 127/1997 prevede poi che i comuni e
le province possono procedere alla alienazione del proprio
patrimonio immobiliare anche in deroga alle procedure
previste dalle norme sulla contabilità generale degli enti
locali, fermi restando però i principi generali
dell'ordinamento giuridico contabile. A tal fine sono
assicurati «criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato».
La stessa giurisprudenza amministrativa ha più volte
chiarito che i criteri dell'evidenza pubblica debbono essere
rispettati anche nei casi di alienazione di beni da parte di
una pubblica amministrazione (cfr. Cons. stato, 19.05.2008,
n. 2280).
Ciò posto, si segnala infine che, pronunciandosi su un caso
analogo, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato,
con proprio parere del 20.03.2013, ha auspicato le
eliminazioni delle disposizioni del regolamento comunale che
prevedono l'esclusione di forme di confronto concorrenziale
qualora l'acquirente interessato agli immobili oggetto di
vendita sia un ente pubblico, una società partecipata da un
ente pubblico locale, una fondazione, un'associazione, una
onlus o un ente ecclesiastico (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.07.2013). |
PATRIMONIO: Il
divieto di acquistare immobili.
Domanda
Il divieto per le
pubbliche amministrazioni di procedere all'acquisto di
immobili nell'anno 2013 si estende anche alle procedure
espropriative?
Risposta
La c.d. legge di
stabilità 2013 (legge 24.12.2012 n. 228) nell'introdurre
–con l'art. 1, comma 138– i commi 1-ter e 1-quater all'art.
12 del dl 06.07.2011, n. 98 ha apportato una limitazione di
carattere assoluto, per l'anno 2013, e condizionata alla
verifica dei presupposti di necessità e urgenza, per l'anno
2014, alla possibilità per le Amministrazioni pubbliche di
acquistare la proprietà di immobili a titolo oneroso.
La previsione ut supra ha pertanto una portata
generale in un'ottica di contenimento della spesa pubblica,
imponendo pertanto alle P.a. uno stretto vincolo alle spese
per l'acquisto di beni immobili sia per l'anno 2013, sia,
anche se in modo meno stringente, per il 2014.
Venendo al quesito posto, al silenzio del legislatore in
merito, si sono susseguiti, in questo primo semestre, pareri
da parte delle sezioni regionali della Corte dei Conti,
tutti improntati a una interpretazione tendente ad estendere
il divieto di acquisto previsto dalla norma.
Di particolare importanza, ai fini del quesito posto, la
deliberazione n. 9 del 31.01.2013 della Corte dei conti -
sezione regionale di controllo per la Liguria, dove, in
occasione della risposta alla richiesta di parere formulata
da un Comune, la Corte ha espresso le proprie «coordinate
interpretative», rispetto ai vincoli posti dalle norme
sopra citate.
Nello specifico, per quanto attiene l'estensione del divieto
procedere all'acquisto di immobili nell'anno 2013 anche alle
procedure espropriative, ha precisato la Corte che le
condizioni di cui sopra devono riferirsi applicabili anche
all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere
assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
Il parere della sezione ligure della Corte dei conti ha
finito per assumere una inevitabile forza di contagio.
Concludendo, auspicando un quanto più repentino intervento
del Legislatore in materia, allo stato attuale, considerando
l'orientamento della magistratura contabile, si può
affermare pertanto che il divieto de quo si estenda anche
all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere
assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
È infine doveroso precisare che, in data 05.06.2013, la
Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di
conversione, con modificazioni, del decreto-legge
08.04.2013, n. 35, recante disposizioni urgenti per il
pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Con
tale disposizione il blocco degli acquisti viene tolto per
tutte le acquisizioni per pubblica utilità di cui al dpr
327/2001, ricomprendendo quindi evidentemente anche
l'articolo 42-bis (articolo ItaliaOggi Sette del
22.07.2013). |
PATRIMONIO: Scadenza
della concessione.
Domanda
Alla scadenza
della concessione l'immobile realizzato dal concessionario
sull'area demaniale è acquisito al demanio o resta al
concessionario?
Risposta
L'art. 934 C.C.
prevede che «qualunque piantagione, costruzione od opera
esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario
di questo». È questo il principio dell'accessione.
In particolare, salvo che sia diversamente stabilito
nell'atto di concessione, quando venga a cessare la
concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona
demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun
compenso o rimborso, salva la facoltà dell'autorità
concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione
del bene demaniale nel pristino stato (Art. 49 Codice
navigazione).
Concludendo si può quindi affermare che in mancanza di
previsioni o clausole dirette a sottrarre il bene realizzato
su suolo demaniale alla regola dell'accessione, il bene a
tale regola non sfugge ed è quindi acquisito al demanio, nel
quale il bene è incorporato (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.07.2013). |
PATRIMONIO:
DECRETO DEL FARE/ Agli enti locali 150
mln per la messa in sicurezza delle scuole
Demanio ai comuni, si riparte. Beni statali trasferiti
gratis. Richieste dall'01/09 al 30/11.
Riparte il federalismo demaniale. Dopo
essere stato tenuto tre anni in naftalina (il decreto
legislativo che aveva dato il là alla riforma risale al
2010) la macchina organizzativa per il passaggio a titolo
gratuito degli immobili dello stato a comuni, province e
città metropolitane si rimetterà in moto il 1° settembre.
Da questa data e fino al 30 novembre gli enti locali
interessati a mettere le mani sugli immobili dismessi dallo
stato potranno farne richiesta all'Agenzia del demanio,
indicando l'utilizzo che vorranno farne e le risorse a ciò
destinate. Per gli enti locali sono poi in arrivo 150
milioni per il 2014 da destinare alla riqualificazione e la
messa in sicurezza delle scuole. I fondi saranno ripartiti a
livello regionale per essere poi destinati ai comuni e alle
province sulla base del numero degli edifici scolastici e
della popolazione studentesca. I contributi saranno
ripartiti con decreto del Miur entro il 30 ottobre sulla
base delle graduatorie presentate dalle regioni entro il 15
ottobre.
Sono queste le novità più significative per gli enti locali
contenute negli emendamenti presentati nelle commissioni
affari costituzionali e bilancio della camera dai due
relatori al «decreto del fare» (dl n.69/2013)
Francesco Paolo Sisto (Pdl) e Francesco Boccia (Pd).
Quasi a voler recuperare il tempo perduto, l'emendamento sul
federalismo demaniale prevede tempi stretti per il riscontro
delle richieste degli enti da parte dell'Agenzia del
demanio: 60 giorni dalla ricezione dell'istanza per
comunicare l'esito positivo o negativo. Se le richieste
avranno ad oggetto beni già utilizzati dalla p.a., il
Demanio interpellerà le amministrazioni interessate per
sondare (entro il termine perentorio di 30 giorni) il loro
interesse a continuare a utilizzarli per esigenze
istituzionali.
In caso di mancata risposta da parte degli enti pubblici,
l'Agenzia verificherà che gli immobili non assolvano ad
altre esigenze statali, dopodiché procederà a trasferire i
beni. Qualora sullo stesso immobile giungano richieste di
attribuzione da parte di più livelli di governo, il bene
sarà trasferito in via prioritaria al comune o alla città
metropolitana (e in subordine alle province e alle regioni)
sulla base del principio di sussidiarietà. Gli immobili
trasferiti agli enti locali torneranno allo stato qualora
l'Agenzia accerti che, a distanza di tre anni dal
trasferimento, gli immobili non vengono utilizzati dalle
amministrazioni.
Se gli enti decideranno di alienare i beni demaniali loro
trasferiti, potranno tenere per sé il 75% del ricavato e
destinarlo prioritariamente alla riduzione
dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte
eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno
essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25%
sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli
di Stato (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
PATRIMONIO:
In merito alla possibilità o meno di
stipulare “un contratto di comodato d’uso gratuito per il
mantenimento nella propria cittadina della Tenenza dei
Carabinieri”, la sussistenza di un
rapporto di reciprocità tra Amministrazione dello Stato ed
ente locale (cui fa riferimento il
Sindaco interpellante, esponendo che, a sua volta, il Comune
di Ercolano è “destinatario di un bene di proprietà statale
trasferito a titolo gratuito”)
costituisce elemento di valutazione, valorizzato dallo
stesso testo di legge (cfr. prima parte dell’art. 1, comma
439, della legge n. 311 del 2004 cit.).
Tuttavia ciò non elide la necessità che le scelte
discrezionali dell’Ente siano fondate al riguardo anche
sulla completa e prudente disamina delle compatibilità
finanziarie e gestionali già innanzi richiamate, oltre che
sul soddisfacimento degli interessi della comunità locale.
Le concrete modalità di esercizio, nei sensi suindicati,
della discrezionalità dell’Ente, vanno peraltro demandate
all’esclusiva competenza degli Organi comunali a ciò
preposti, senza possibilità di ingerenze o di previe,
specifiche valutazioni della Sezione in questa sede
consultiva.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di
Ercolano (NAPOLI) ha rivolto a questa Sezione richiesta
di parere avente ad oggetto la possibilità o meno di
stipulare “un contratto di comodato d’uso gratuito per il
mantenimento nella propria cittadina della Tenenza dei
Carabinieri”.
Ai riguardo il Sindaco interpellante, dopo aver richiamato
la normativa in materia di alienazione e di valorizzazione
del patrimonio immobiliare degli enti locali, in particolare
facendo riferimento all’art. 3, comma 2-bis, del decreto
legge 06.07.2012 n. 95, convertito, con modificazioni, nella
legge 07.08.2012 n. 135 (per il quale, tra l’altro, “…Le
Regioni e gli enti locali di cui al decreto legislativo
18.08.2000 n. 267, possono concedere alle Amministrazioni
dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime,
l’uso gratuito di immobili di loro proprietà”), espone
che:
- L’Ente è proprietario di un immobile, facente parte del
proprio patrimonio disponibile, che attualmente versa in
stato di abbandono;
- l’Ente stesso ha partecipato al bando “PIU Europa”
(Programma di Integrazione Urbana previsto dalla Regione
Campania nella propria strategia di sviluppo 2007-2013 con
l’obiettivo di ridare competitività al’intero sistema
regionale in linea con le indicazioni della Commissione
europea), presentando un progetto, ammesso al relativo
finanziamento, avente tra le proprie finalità quella
dell’aumento della sicurezza sociale, individuata come
volano attraverso il quale dar vita al complessivo progetto
di riqualificazione territoriale, inserendo, nel piano
presentato, l’allestimento di una Tenenza dei Carabinieri in
linea con le esigenze dell’Arma e dello stesso Ente locale;
- l’Ente ha proceduto ad un’attenta valutazione comparativa
degli interessi in gioco, ritenendo prudenzialmente che
l’affidamento in comodato gratuito dell’immobile di che
trattasi non solo consentirebbe di acquisire i proventi
relativi al finanziamento del suindicato progetto, ma
compenserebbe la mancata percezione di canoni di locazione
con la valorizzazione del bene stesso conseguente alla sua
ristrutturazione, nonché con i benefici sociali e di indotto
connessi al mantenimento in loco di un presidio di forze
dell’ordine;
- la possibilità -sancita dal surrichiamato art. 3, comma
2-bis, del decreto legge n° 95 del 2012, convertito nella
legge n° 135 del 2012- di utilizzare nella fattispecie la
formula contrattuale del comodato, andrebbe comunque a
collocarsi nel rapporto di reciprocità già intrapreso
dall’Ente e dallo Stato in subiecta materia,
considerato che il Comune di Ercolano già risulta
destinatario di un bene di proprietà statale trasferitogli a
titolo gratuito;
- l’Ente ha comunque avviato un proficuo percorso di
revisione, con contestuale rescissione contrattuale dei
rapporti locativi passivi, allocando in immobili di
proprietà comunale gli uffici comunali già ospitati presso
strutture esterne.
...
L’ammissibilità oggettiva della richiesta di parere in
trattazione va dunque limitata alla sola disamina, in
astratto, della possibilità per l’Ente interpellante di
concedere in comodato d’uso gratuito un immobile di
proprietà comunale all’Arma dei Carabinieri per le finalità
istituzionali di tale Arma, ferme restando, comunque, le
esigenze di rispetto di eventuali obblighi e vincoli
derivanti dalla partecipazione dell’Ente stesso al progetto
“PIU Europa”, oltre che ogni altra necessità di preventiva e
oculata pianificazione della gestione del patrimonio
immobiliare comunale.
Passando dunque, con tali precisazioni, al merito della
richiesta di parere de qua, va osservato che “…rientra
nella sfera di discrezionalità dell’Ente locale la scelta
sulle modalità di gestione del proprio patrimonio
disponibile, purché l’esercizio di detta discrezionalità
avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi
della comunità locale, nonché previa verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo”
(così, condividibilmente, Corte dei conti, Sezione regionale
di controllo per la Lombardia, 17.06.2010, n. 672/2010/PAR).
E’ peraltro evidente, come sostanzialmente evidenziato dallo
stesse Ente interpellante nelle premesse della richiesta di
parere, che le scelte operate in proposito
devono rientrare in un ambito programmatorio gestionale,
anche al fine di operare previamente e con la necessaria
tempestività le necessarie classificazioni dei beni immobili
e di individuare il connesso regime giuridico applicabile.
La norma sopravvenuta citata dal Sindaco (art. 1, comma 439,
della legge 30.12.2004 n. 311, quale modificato dal comma
2-bis dell’art. 3 del decreto-legge 06.07.2012 n. 95, come a
sua volta modificato dalla legge di conversione 07.08.2012
n. 135), nel prevedere testualmente che “Le Regioni e gli
enti locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000 n. 267,
possono concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le
finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di
immobili di loro proprietà”, ha introdotto una specifica
disciplina in subiecta materia, che appare volta
principalmente a contenere la spesa statale relativa ai
canoni corrisposti per locazione di immobili di proprietà
degli enti territoriali.
Non priva di rilevanza appare peraltro la circostanza che la
norma in argomento, quale formulata all’art. 2 del testo
originario del decreto legge n. 95 del 2012, introduceva
l’obbligo (e non già la mera facoltà) per Regioni ed enti
locali di concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le
finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di
immobili di loro proprietà, sicché le modifiche apportate in
sede di conversione del suindicato decreto-legge hanno
attenuato la portata precettiva della norma stessa,
valorizzando in proposito l’esercizio della discrezionalità
degli enti proprietari, con tutte le connesse implicazioni
circa la necessità di oculate valutazioni e di attenta
comparazione degli interessi coinvolti.
Certamente la sussistenza di un rapporto di
reciprocità tra Amministrazione dello Stato ed ente locale
(cui fa riferimento il Sindaco interpellante, esponendo che,
a sua volta, il Comune di Ercolano è “destinatario di un
bene di proprietà statale trasferito a titolo gratuito”)
costituisce elemento di valutazione,
valorizzato dallo stesso testo di legge
(cfr. prima parte dell’art. 1, comma 439, della legge n. 311
del 2004 cit.); tuttavia ciò non elide la
necessità che le scelte discrezionali dell’Ente siano
fondate al riguardo anche sulla completa e prudente disamina
delle compatibilità finanziarie e gestionali già innanzi
richiamate, oltre che sul soddisfacimento degli interessi
della comunità locale
(cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
deliberazione n. 672 del 2010 cit.).
Le concrete modalità di esercizio, nei
sensi suindicati, della discrezionalità dell’Ente, vanno
peraltro demandate all’esclusiva competenza degli Organi
comunali a ciò preposti, senza possibilità di ingerenze o di
previe, specifiche valutazioni della Sezione in questa sede
consultiva (cfr.
Sezione regionale di controllo per la Campania, 23.05.2013,
n. 216) (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 10.07.2013 n. 237). |
giugno 2013 |
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PATRIMONIO: F.
Palazzotto,
IL DIVIETO DI RINNOVO AUTOMATICO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI
MARITTIME PER ATTIVITÀ TURISTICO-RICREZTIVE A SEGUITO DI
DANNI CAUSATI DA EVENTI ATMOSFERICI ECCEZIONALI E DANNOSI
- La Corte Costituzionale, con la recente sentenza del
04.07.2013 n. 171, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1 della l.reg. Liguria 30.07.2012,
n. 24, che ha tentato di reintrodurre il rinnovo automatico
delle concessioni a seguito di eventi naturali atmosferici
che causassero danni. La Corte ha affermato che il rinnovo o
la proroga automatica delle concessioni, venendo meno agli
obblighi che incombono ai sensi degli artt. 49 e 101 del
TFUE e dell’art. 12 della dir. 2006/123/CE (c.d. dir.
Bolkestein), viola l’art. 117,co. 1, cost., per contrasto
con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema
di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza,
determinando altresì una disparità di trattamento tra
operatori economici, in violazione dell’art. 117, co. 2,
lett. e), dal momento che coloro che in precedenza non
gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità,
alla scadenza della concessione, di prendere il posto del
vecchio gestore. Eliminando la proroga i concessionari non
vengono ricompensati dei propri investimenti, di conseguenza
vengono disincentivati ad effettuare investimenti per
recuperare i beni demaniali danneggiati dalle mareggiate
poiché i loro sforzi rischiano di non portare alcun
vantaggio per la propria attività, stante il rischio che la
loro concessione venga assegnata a un altro operatore.
Adesso, sarà necessario trovare un sistema di incentivi alla
riparazione dei danni subiti dai beni demaniali,
necessariamente più adeguato e coerente don i principi del
diritto europeo
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
PATRIMONIO: Immobili
p.a., il Demanio stringe i costi.
Agenzia del demanio al lavoro per il contenimento dei costi
degli immobili della p.a. Grazie a una norma inserita nel
recente ddl semplificazioni, le amministrazioni avranno
l'obbligo di comunicare il proprio fabbisogno di spazio (si
veda ItaliaOggi del 19.06.2013). Cambierà il parametro di
riferimento: dal concetto di metro quadro a persona si andrà
verso il costo totale a persona (total occupancy cost),
includendo quindi anche gli oneri indiretti, compresi quelli
energetici.
A spiegarlo a ItaliaOggi è Stefano Scalera, direttore del
Demanio, a margine di un convegno sulle società di
investimento immobiliare quotate (Siiq), che si è tenuto
giovedì a Milano.
«L'attività si articola in due fasi», afferma
Scalera, «la prima è la raccolta dati da parte delle
amministrazioni. A oggi, nonostante l'adempimento sia
volontario, abbiamo avuto un riscontro da circa il 47% degli
enti. La seconda fase sarà invece costituita dal
benchmarking tra le diverse amministrazioni, relativamente
alle spese collegate agli immobili. Scendere nel dettaglio
delle singole voci è indispensabile per una vera spending
review».
Un processo senz'altro articolato, ma che finora ha
consentito allo stato di risparmiare circa 50 milioni di
euro di sole locazioni. Al centro dei lavori c'erano le Siiq
e i nuovi veicoli societari introdotti dall'articolo 33-bis
del dl n. 98/2011, che possono beneficiare di un trattamento
fiscale analogo. Il binomio real estate-finanza è ancora
debole: mentre alla borsa di Parigi l'industria immobiliare
rappresentata vale il 5% del comparto, in Italia è appena lo
0,2%.
Un fenomeno che rispecchia la scarsa propensione dei
soggetti nazionali ad approdare sui mercati, dal momento che
«solo il 20% del pil è quotato», evidenzia Massimo Tononi,
presidente Borsa Italiana. Secondo il presidente della
Consob, Giuseppe Vegas, «l'immobiliare è il settore che,
forse più di altri, deve seguire trasparenza, regole di
governance chiare e moralità dei protagonisti.
Contemporaneamente a qualche aggiustamento legislativo andrà
operata una selezione accurata dei partecipanti al mercato».
Alessandro Balp, partner dello studio Bonelli Erede
Pappalardo, ha invece passato in rassegna le campagne di
dismissione del mattone pubblico negli altri paesi europei,
«dove negli ultimi dieci anni sono stati privatizzati
immobili per circa 25 miliardi di euro, soprattutto in
Inghilterra, Germania e Olanda. Le operazioni non hanno
riguardato solo cessioni, ma sono state strette anche
partnership pubblico-privato per la manutenzione
straordinaria e la valorizzazione dei fabbricati pubblici
non utilizzati» (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
PATRIMONIO: La
Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di parere del
Sindaco del Comune di Bene Lario (CO), in materia di permuta
immobiliare.
Per effetto della recente norma di
interpretazione autentica (legge 06.06.2013, n. 64), si deve
ritenere che il divieto di acquisto di immobili di cui
all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle
acquisizioni effettuate a seguito di permute a parità di
prezzo.
---------------
Il Sindaco del Comune di Bene Lario (CO) ha formulato alla
Sezione una richiesta di parere in materia di permuta
immobiliare, del seguente tenore.
Il bene oggetto della permuta è un immobile dato in uso
perpetuo alla parrocchia di SS. Vito e Modesto che la
utilizza come casa parrocchiale, ma la nuda proprietà è
rimasta in capo al Comune di Bene Lario. La Curia ha chiesto
di acquistare la nuda proprietà della casa parrocchiale e
offre in permuta terreni di proprietà che si trovano sul
territorio di Bene Lario.
Il Comune sarebbe disponibile alla permuta, in
considerazione del fatto che il bene non è utilizzabile a
fini istituzionali.
Alla luce dell’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012,
che ha disposto il divieto alle pubbliche amministrazioni e
tra queste gli enti locali, di acquistare a qualsiasi titolo
beni immobili, l’organo rappresentativo dell’ente chiede
se sia possibile concludere l’operazione di permuta con la
Curia in considerazione del fatto che l’operazione di per sé
si caratterizza per lo scambio di immobili, senza pagamento
di prezzo in denaro.
...
La Sezione si è già espressa in numerosi precedenti sul tema
del divieto di acquisto di immobili sancito dall’art. 1,
comma 138, della Legge 24.12.2012 n. 228. Tali pronunce,
rese in sede consultiva, devono intendersi integralmente
richiamate (SRC Lombardia, deliberazione nn .73/2013/PAR;
162/2013/PAR; 163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR,
181/2013/PAR, 193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98
(convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111), novellato dalla richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater.
Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma
3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive
modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa
la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB),
non possono acquistare immobili a titolo oneroso né
stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti
di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata
per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la
disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi
ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili
venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e
privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai
commi 4 e 15 dell’articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010,
n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge
30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni
di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto
previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di
entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui alla
prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter. A
decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del
Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente».
Il principio della inapplicabilità del divieto in oggetto
alle procedure di permuta “pura” è stato affermato
nella deliberazione n. 162/2013.
Successivamente è intervenuta la legge 06.06.2013, n. 64, la
quale ha proceduto alla conversione, con modificazioni, del
decreto-legge 08.04.2013, n. 35 (recante “Disposizioni
urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica
amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti
territoriali, nonché in materia di versamento di tributi
degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio
di presidenza della giustizia tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di
interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater,
del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111” (art.
10-bis) il quale, in modo risolutivo esclude dalla portata
applicativa della disposizione alcune ipotesi, e
segnatamente: «1. Nel rispetto del patto di stabilità
interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso,
di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla
legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di
cui al D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a
parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate
da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti
organi degli enti locali e che individuano con esattezza i
compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle
procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle
normative regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del quesito,
per effetto della recente norma di
interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto
di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n.
98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate a
seguito di permute a parità di prezzo
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 28.06.2013 n. 268). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
La Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di parere
del Presidente della Regione Lombardia, relativamente
all’interpretazione 12, comma 1-quater, della legge n.
111/2011 (comma inserito dall’art. 1, comma 138, della legge
n. 228/2012).
In relazione
all’oggetto del primo quesito, per
effetto della recente norma di interpretazione autentica, si
deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di
cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle
acquisizioni effettuate all’interno delle procedure di cui
al T.U. n. 327/2001 (testo unico espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta
impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della
giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa
sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio
il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le
procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche
quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da
legge regionale e statale riconducibili al demanio o al
patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta
salva la salvaguardia del principio di necessità.
---------------
Il Presidente della Regione Lombardia ha formulato alla
Sezione una richiesta di parere del seguente tenore.
L’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011
(comma inserito dall’articolo 1, comma 138, della legge n.
228/2012) prevede quanto segue: “per l'anno 2013 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, (…), non
possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare
contratti di locazione passiva salvo che si tratti di
rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per
acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di
locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per
continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti.
Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per
i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15
dell'articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n.
122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di
immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma
1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del
presente decreto".
Il Presidente della Regione chiede se il divieto posto
dall’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011
riguardi:
a) l’acquisizione tramite il procedimento espropriativo;
b) l’acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad
elevata valenza naturalistica e forestale ai sensi dell’art.
5, comma 1, della l.r. 86/1983.
a. Acquisizione tramite procedimento
espropriativo
La norma, ponendo in via generale il divieto di acquisizione
di immobili a titolo oneroso, sembra non lasciare spazio ad
alcuna eccezione così da ritenere incluso nel divieto anche
l’acquisizione dell’immobile a seguito dell’espropriazione
per pubblica utilità, dal momento che anche l’espropriazione
comporta l’acquisizione di immobili a titolo oneroso.
Tuttavia l’applicazione della norma con riguardo alle
espropriazioni si tradurrebbe nel divieto, per l’anno 2013,
di realizzare anche le opere di pubblica utilità, quali le
opere idrauliche, le opere di difesa del suolo, o comunque
opere infrastrutturali in relazione alle quali gli immobili
da espropriare sono da intestare al demanio pubblico o al
patrimonio indisponibile.
In tali casi, si ritiene che la sospensione del procedimento
espropriativo comporterebbe un sacrificio dell’interesse
pubblico di rilievo superiore o comunque sicuramente
comparabile all’interesse di riduzione della spesa pubblica.
Si chiede, pertanto, se il divieto di acquisto a
titolo oneroso comporti l’indiscriminata sospensione per il
2013 di tutte le procedure espropriative, indipendentemente
dalla finalità e dalla natura dell’opera da realizzare, o se
occorra distinguere tra procedure volte all’acquisizione di
immobili ascrivibili al demanio o al patrimonio
indisponibile (ad esempio procedure di esproprio volte alla
realizzazione di opere idrauliche, opere di difesa del
suolo, opere infrastrutturali) e procedure relative ad
immobili, pur riconosciuti di pubblica utilità, ascrivibili
al patrimonio disponibile.
b) Acquisizione al patrimonio
indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e
forestale ai sensi dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983
L’art. 5, comma 1, della L.r. n. 86/1983 dispone che “I
piani dei parchi e delle riserve prevedono l'acquisizione in
proprietà pubblica delle aree per le quali i piani medesimi
prevedano un uso pubblico nonché delle aree per le quali i
limiti alle attività antropiche comportino la totale
inutilizzazione”.
La regione Lombardia, a decorrere dall’anno 2000, in
attuazione dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983, ha
attivato un processo di acquisizione al patrimonio
indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e
forestale, localizzate all’interno del Sistema regionale
delle aree protette (Parchi Regionali e Naturali, Riserve e
Monumenti Naturali) e strumentali all’attività degli Enti
gestori.
Nel corso degli anni, tale attività ha consentito
l’acquisizione al patrimonio regionale di aree di rilevanza
naturalistica, per una superficie catastale complessiva pari
a circa 775 ettari. Questa superficie è ripartita in 24 Aree
Protette Regionali, tra cui otto Riserve e Monumenti
Naturali, quattordici Parchi Regionali e due PLIS.
Una volta acquisite, le aree entrano a far parte del
patrimonio forestale regionale indisponibile e,
successivamente, vengono assegnate in concessione agli enti
gestori delle aree protette.
Le modalità di acquisizione al patrimonio regionale di aree,
di proprietà privata, ad alta valenza naturale, sono state,
da ultimo, definite con deliberazione di Giunta Regionale n.
IX/2109 del 04.08.2011.
Le risorse disponibili per l’acquisizione delle aree sono
allocate annualmente in un capitolo di bilancio
appositamente dedicato.
Anche in questo caso l’estensione del divieto a questa
tipologia di acquisto comporterebbe un sacrificio
dell’interesse pubblico di rilievo superiore o comunque
comparabile all’interesse di riduzione della spesa: ciò in
quanto l’acquisizione di che trattasi è strumentale al
perseguimento di obiettivi di tutele e salvaguardia
riconducibili a Rete Natura 2000 (d.P.R. 357/1997), anche
con presenza di habitat e specie prioritarie (Direttiva
92/43 CEE “Habitat”) o ad emergenza naturalistica
(faunistiche/floristiche) a rischio di compromissione (legge
regionale 10/2008 e d.g.r. 7736/2008).
Il Presidente della Regione chiede, pertanto, se
il divieto di acquisto a titolo oneroso riguardi le sole
procedure ascrivibili al patrimonio disponibile con
esclusione di quelle, finalizzate al perseguimento di
obiettivi previsti da legge regionale e statale e, in quanto
tali, riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile
dell’ente.
...
La Sezione si è già espressa in numerosi
precedenti sul tema del divieto di acquisto di immobili
sancito dall’art. 1, comma 138 della Legge 24.12.2012 n.
228. Tali pronunce, rese in sede consultiva, devono
intendersi integralmente richiamate
(SRC Lombardia, deliberazione nn. 73/2013/PAR; 162/2013/PAR;
163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR, 181/2013/PAR,
193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98
(convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111), novellato dalla richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater.
Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma
3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive
modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa
la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB),
non possono acquistare immobili a titolo oneroso né
stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti
di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata
per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la
disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi
ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili
venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e
privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai
commi 4 e 15 dell’articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010,
n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge
30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni
di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto
previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di
entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui alla
prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter. A
decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del
Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente».
Il tema della estensibilità del divieto in oggetto alle
procedure di esproprio è stato ampiamente affrontato nelle
deliberazioni nn. 162 e 163/2013/PAR, nonché nn. 169 e
193/2013/PAR e nelle pronunce di altre Sezioni ivi
richiamate.
In tali deliberazioni la Sezione riteneva che il ridetto
divieto si applicasse alle procedure di esproprio, salve le
procedure collegate ad opere di urgenza, anche a
salvaguardia del principio di necessità (in questo senso
anche SRC Liguria
parere 31.01.2013 n. 9).
Successivamente a tali pronunce rese dalla Magistratura
contabile in sede consultiva, è intervenuta la legge
06.06.2013, n. 64, la quale ha proceduto alla conversione,
con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35
(recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei
debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il
riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in
materia di versamento di tributi degli enti locali.
Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza
della giustizia tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di
interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater,
del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111” (art.
10-bis) che, in modo risolutivo esclude dalla portata
applicativa della disposizione alcune ipotesi, tra cui
quelle relative alle procedure per acquisti di pubblica
utilità di cui al T.U. espropriazioni (D.P.R 327/2001), e
segnatamente: «1. Nel rispetto del patto di stabilità
interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso,
di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla
legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di
cui al D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a
parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate
da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti
organi degli enti locali e che individuano con esattezza i
compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle
procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle
normative regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del primo quesito,
per effetto della recente norma di
interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto
di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n.
98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate
all’interno delle procedure di cui al T.U. n. 327/2001
(testo unico espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta
impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della
giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa
sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio
il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le
procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche
quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da
legge regionale e statale riconducibili al demanio o al
patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta
salva la salvaguardia del principio di necessità
(Corte dei Conti, Sez. contr. Lombardia, n. 162/2013) (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 28.06.2013 n. 267). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: La
novella dell'art. 12 del DL 98/2011 (convertito dalla L.
111/2011), operata dal c. 138 dell'art. 1 della L. 228/2012,
prevede “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche (…)
non possono acquistare immobili a titolo oneroso né
stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti
di rinnovi di contratti (…)”.
La stessa disposizione eccettua dal proprio perimetro
applicativo una serie di norme. In linea di principio la
Sezione ha (del.ne 200/2013) precisato che l’inderogabilità
della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate,
escludono categoricamente ulteriori casi di inapplicabilità
della previsioni in relazione alla vantaggiosità
dell’operazione, nel senso auspicato dal comune. Circa
l’applicabilità del divieto alle fattispecie di
espropriazione per pubblica utilità, la questione è stata,
tra l’altro, esaminata e confermata dalla SRC Liguria (del.ne
31.03.2013, n. 9).
Non si può concordare con la tesi per cui l’applicazione
della norma proibitiva ai casi di espropriazione per
pubblica utilità risulterebbe preclusa dalla natura
originaria, e non derivativa, dell’acquisto compiuto
dall’ente. Il testo della norma, riferito agli “acquisti”,
non sembra eccettuare dal proprio perimetro applicativo gli
acquisti a titolo originario, in quanto l’esigenza di
contenimento delle spese pubbliche sussiste anche per le
fattispecie in cui in capo all’ente l’acquisto si determini
a titolo originario: la differenza tra le due modalità
acquisitive pare irrilevante con riguardo al diverso tema
delle ragioni di carattere finanziario. Elemento discretivo
potrebbe essere la sussistenza a carico dell’acquirente di
un obbligazione pecuniaria, solo requisito sussistente ai
fini dell’applicabilità del divieto.
In secondo luogo, il codice civile conosce una serie di
ipotesi, a titolo originario, che non prescindono da
un’attività dell’acquirente, che può essere in condizione di
determinare la propria condotta. Ma, soprattutto, ad
abundatiam, il carattere originario dell’acquisto a titolo
espropriativo risulta affermazione controversa in dottrina e
giurisprudenza. La tesi dell’acquisto a titolo originario si
basa su una serie di disposizioni (oggi contenute nel d.p.r.
08.06.2001, 327, t.u. espr.) quali l’art. 2; l’art. 25; più
in generale, la circostanza che l’intero procedimento
espropriativo prescinda dalla volontà negoziale
dell’interessato.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene
che la qualificazione giuridica dell’acquisto sia
condizionata dalle peculiarità della fattispecie e
dall’interferenza di un procedimento pubblicistico, che
spiegherebbero le norme sopra descritte. Altri elementi
sintomatici (l’art. 23 del d.p.r. 327/2001, che prevede la
trascrizione dell’acquisto; l’istituto della c.d.
retrocessione del bene, che presuppone l’individuazione di
un precedente proprietario; più in generale, la potenziale
interferenza di momenti di carattere negoziale e
volontaristico) indurrebbero a ritenere che l’espropriazione
disciplini e incida l’an del trasferimento e non anche il
quomodo.
La diatriba risulta superata dal dato normativo: con la L.
64/2013, conversione, con modificazioni, del DL 35/2013, il
legislatore ha ritenuto di dettare una disciplina espressa
che (art. 10-bis) prevede “Nel rispetto del PdS interno, il
divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui
all'art. 12, c. 1-quater, del DL 06.07.2011, n. 98,
convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a
titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica
utilità ai sensi del testo unico”.
La sopravvenienza normativa determina la completa
rivisitazione del quadro fattuale e normativo e rende
superflua l’interpretazione della Sezione. Nulla osta a che
l’ente interessato proceda ad acquisizioni espropriative ai
sensi del d.p.r. 08.06.2001, n. 327.
---------------
Il comune richiede chiarimenti sull'art. 12, comma 1-quater,
della legge 15.07.2011, n. 111, inserito dall'art.1, comma
138, della legge 24.12.2012 n. 228 (legge di stabilità
2013).
In particolare, il comune di Varese, ai fini della
realizzazione di opere pubbliche, ha, nel corso degli ultimi
anni, acquisito la disponibilità di aree di proprietà di
terzi e, ciò, sia in forza di procedure espropriative
avviate ai sensi della vigente normativa di cui al d.p.r.
08.06.2001, n. 327, previa occupazione anticipata ex art.
22-bis, concordando in seguito la cessione volontaria dei
beni (art. 45) in superamento del procedimento ablatorio;
che, in assenza di quest' ultimo, in forza di accordi sin
dall'origine raggiunti con la proprietà per la bonaria
acquisizione -a titolo oneroso- di dette aree.
Anche nella maggior parte dei casi di accordo bonario,
l'ente, per ragioni di qualificata urgenza, ha infatti
convenuto con i proprietari di poter occupare le aree
necessarie per la realizzazione dell'intervento
anteriormente alla stipula del formale atto di
compravendita.
Il corrispettivo dell'acquisizione in parola è stato quindi
determinato tenendo conto anche dell'indennità dovuta per la
suddetta occupazione
Il perfezionamento degli atti di trasferimento immobiliare
delle aree già nella disponibilità dell'Amministrazione ed
irreversibilmente trasformate per effetto dell'avvenuta
realizzazione delle previste opere pubbliche risulterebbe,
oggi, inibito, nonostante l'obbligazione in tal senso
antecedentemente assunta dall'Amministrazione e l'avvenuto
accantonamento delle necessarie risorse finanziarie, dalle
disposizioni di cui all'art. 1, comma 138, l. 228/2012.
Non risulterebbe infatti oggettivamente possibile procedere
alla retrocessione di dette aree che, pertanto,
l'Amministrazione continuerebbe a detenere, mantenendo a
proprio diretto carico, pur non avendone la titolarità
giuridica, ogni conseguente responsabilità ed onere
manutentivo.
Al protrarsi del possesso conseguirebbe, necessariamente,
anche un progressivo incremento dell'entità dell'indennità
di occupazione dovuta alla proprietà. L'indennità, infatti,
non è riferibile all'acquisto del diritto di proprietà o di
altro diritto reale, ma, avendo sostanzialmente funzione
sostitutiva della mancata percezione dei frutti ritraibili
dai beni occupati, è direttamente proporzionale al periodo
di occupazione.
Sarebbe quindi, prevedibile, come peraltro già paventato da
taluni, che l'alterazione dell'equilibrio economico sotteso
all'accordo raggiunto con la proprietà, conseguenza diretta
dell'impossibilità per l'Amministrazione di perfezionare
l'acquisto, si traduca nella necessità di una rinegoziazione
del corrispettivo con la proprietà, con aggravio di costi
per l'Amministrazione stessa.
Tanto premesso, il comune richiede se il divieto di
procedere ad acquisizioni a titolo oneroso debba ritenersi
operante anche in relazione a fattispecie, quali quelle
sopra descritte, ove, al contrario, il perfezionamento
dell'acquisizione, già nel 2013, si tradurrebbe in un
concreto risparmio di spesa per l'Amministrazione.
...
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98
(convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge
24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le
autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale
per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare
immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di
locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di
contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire,
a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in
sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad
avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro
applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e
privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in
data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le
esigenze allocative in materia di edilizia residenziale
pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di
programmi e piani concernenti interventi di perequazione
socio-territoriale.
In linea di principio la Sezione ha (anche di recente:
parere 08.05.2013 n. 200) avuto modo di precisare
che l’inderogabilità della norma, e la tassatività delle
eccezioni indicate, escludono in modo categorico che
ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano
ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione,
e quindi nel senso auspicato dal comune.
Passando al diverso problema relativo all’applicabilità del
divieto alle fattispecie di espropriazione per pubblica
utilità, tale questione è stata, tra l’altro, esaminata e
confermata dalla sezione regionale di controllo per la
Liguria della Corte dei Conti (parere
31.01.2013 n. 9).
Non si può in nessun modo concordare con la tesi per cui
l’applicazione della norma proibitiva ai casi di
espropriazione per pubblica utilità risulterebbe preclusa
dalla natura originaria, e non derivativa, dell’acquisto
compiuto dall’ente.
In primis, occorre precisare che il testo della
norma, laconicamente riferito agli “acquisti”, non
sembra affatto eccettuare dal proprio perimetro applicativo
gli acquisti a titolo originario, in quanto l’esigenza di
contenimento delle spese pubbliche sussiste, con tutta
evidenza, anche per le fattispecie in cui in capo all’ente
l’acquisto si determini a titolo originario: la differenza
tra le due modalità acquisitive, infatti, se assume un certo
pregio al fine della risoluzione dei conflitti tra terzi,
pare del tutto irrilevante con riguardo al diverso tema
delle ragioni di carattere finanziario.
Elemento discretivo potrebbe, al massimo, essere la
sussistenza a carico dell’acquirente di un obbligazione
pecuniaria, solo requisito sussistente ai fini
dell’applicabilità del divieto (cfr ultra).
In secondo luogo, occorre rammentare che il codice civile
conosce una serie di ipotesi (si pensi, a puro titolo di
esempio, alla costruzione operata dal fondo con materiali
propri o all’usucapione) che, pur essendo a titolo
originario, non prescindono certo da un’attività
dell’acquirente, che quindi può essere in condizione di
determinare la propria condotta.
Ma, soprattutto, ad abundatiam, va precisato che il
carattere originario dell’acquisto a titolo espropriativo
risulta affermazione ancora controversa in dottrina e
giurisprudenza.
La tesi dell’acquisto a titolo originario si basa infatti su
una serie di disposizioni (oggi contenute nel d.p.r.
08.06.2001, 327, t.u. espr.) quali l’art. 2, che prevede
l’irrilevanza della difettosa individuazione del
proprietario; l’art. 25, che indica quale effetto del
procedimento l’estinzione dei diritti gravanti sul bene; più
in generale, la circostanza che l’intero procedimento
espropriativo prescinda dalla volontà negoziale
dell’interessato.
Tuttavia, altra parte della dottrina e della giurisprudenza
ritiene che la qualificazione giuridica dell’acquisto sia
condizionata dalle peculiarità della fattispecie e
dall’interferenza di un procedimento pubblicistico, che
spiegherebbero le norme sopra descritte.
Per contro, altri elementi sintomatici (l’art. 23 del d.p.r.
327/2001, che prevede la trascrizione dell’acquisto;
l’istituto della c.d. retrocessione del bene, che presuppone
l’individuazione di un precedente proprietario; più in
generale, la potenziale interferenza di momenti di carattere
negoziale e volontaristico – cfr ultra) indurrebbero invece
a ritenere che l’espropriazione disciplini e incida l’an
del trasferimento e non anche il quomodo.
La diatriba risulta per vero ormai superata dal dato
normativo, in quanto, con la legge 06.06.2013, n. 64, di
conversione, con modificazioni, del decreto-legge
08.04.2013, n. 35, il legislatore ha ritenuto di dettare una
disciplina espressa che, tra l’altro (art. 10-bis) tra
l’altro prevede che “Nel rispetto del patto di stabilità
interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso,
di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla
legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di
cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (…)”.
La sopravvenienza normativa determina, ovviamente, la
completa rivisitazione del quadro fattuale e normativo e, di
conseguenza, rende superflua l’interpretazione della
Sezione.
Pertanto, nulla osta a che l’ente interessato proceda ad
acquisizioni espropriative ai sensi del d.p.r. 08.06.2001,
n. 327 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 27.06.2013 n. 251). |
COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO:
Accettazione di una donazione immobiliare.
Ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett.
l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel),
l'accettazione di una donazione immobiliare rientra
nell'ambito delle competenze del consiglio comunale in
quanto, per 'acquisti immobiliari', devono intendersi sia
quelli a titolo oneroso sia quelli a titolo gratuito.
Il Comune chiede di sapere se all'accettazione di una
donazione immobiliare sia competente il Consiglio o la
Giunta comunale.
Tale questione, già affrontata da questo Ufficio
[1],
risulta risolvibile ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett.
l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel) che
prevede, tra le attribuzioni dei consigli, 'gli acquisti
e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altre funzioni'.
Non essendo stato specificato diversamente dal legislatore,
per 'acquisti immobiliari' devono intendersi sia
quelli a titolo oneroso (come nella compravendita) sia
quelli a titolo gratuito (come nella donazione).
Per tale ragione, si ritiene che anche l'accettazione di una
donazione immobiliare rientri all'interno delle competenze
del consiglio comunale.
---------------
[1] V. parere prot. n. 166 del 04.01.2007, reperibile
alla pagina web http://autonomielocali.regione.fvg.it (25.06.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: Via
libera agli affitti delle sedi giudiziarie
I comuni possono stipulare nuove locazioni passive per le
necessità conseguenti alla riforma delle sedi giudiziarie,
in deroga al generale divieto imposto alle pubbliche
amministrazioni dalle disposizioni contenute nella legge di
stabilità 2013.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti Umbria, nel testo del
parere 30.05.2013 n. 111, rispondendo a un
preciso quesito posto dal comune di Perugia.
Se da un lato, il dlgs n. 155/2012 ha disegnato un nuovo
assetto degli uffici giudiziari (tra cui il distretto di
Perugia) prevedendo l'accorpamento delle sezioni distaccate
e degli uffici del giudice di pace, come si concilia
l'esigenza di reperire i necessari e ulteriori spazi
immobiliari per tali uffici, con il divieto a stipulare
contratti di locazione passiva, imposto dall'articolo 1,
comma 138, della legge n. 228/2013.
A questa domanda, il collegio della Corte umbra ha risposto
positivamente. In primo luogo, si osserva che il comune è
tenuto a soddisfare le accresciute esigenze allocative degli
uffici giudiziari, in adempimento a un preciso obbligo di
legge. Il riferimento, rileva il collegio, è alla legge
n.392/1942 che impone ai comuni nei quali hanno sede gli
uffici giudiziari, l'obbligo di provvedere a determinate
spese, tra cui quelle di illuminazione, riscaldamento,
pulizia e custodia. In questo quadro normativo, il
legislatore con una mano impone ai comuni di provvedere alle
esigenze della macchina giudiziaria e, con l'altra, impone
limiti rigorosi all'utilizzo della locazione passiva.
La soluzione del caso si trova rilevando che sia il dlgs
n.155/2012 che la legge di stabilità per il 2013 perseguono
lo stesso obiettivo, ovvero ottenere risparmi dalla spesa
pubblica. Prevedendo la soppressione di piccoli uffici
giudiziari, il legislatore realizza un risparmio e quindi,
senza oneri aggiuntivi per il bilancio statale, i comuni
possono stipulare contratti di locazione passiva.
In definitiva, il comune di Perugia può stipulare locazioni
passive per reperire immobili da destinare alle nuove
esigenze degli uffici giudiziari, a condizioni più
vantaggiose rispetto alle spese che l'amministrazione
giudiziaria sosteneva per la disponibilità degli immobili
destinati ai piccoli uffici giudiziari oggi soppressi (articolo
ItaliaOggi del 14.06.2013). |
maggio 2013 |
|
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
In merito ai cosiddetti "lavori di somma urgenza".
Il comma 3 dell’art. 191 dlgs n. 267/2000 risulta
essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di
“autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in
presenza di situazioni che richiedono un intervento
immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in
presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità
di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di
fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti
lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può
procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei
modi indicati dal terzo comma.
Allora, appare chiara la volontà del legislatore di
consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni
qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo
allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale
circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere
all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di
bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono
sufficienti.
Diversamente, la presenza di fondi a tal
fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può
attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta
necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare
la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
---------------
... il Sindaco del Comune di Riva Ligure chiede alla Sezione
di controllo un parere in merito alla corretta
interpretazione ed applicazione dell’art. 191, comma 3, del
d.lgs. n. 267/2000, (come modificato dall'art. 3, comma 1,
lettera i), legge n. 213 del 2012), in base a cui “Per i
lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi
di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, qualora
i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino
insufficienti, entro dieci giorni dall'ordinazione fatta a
terzi, su proposta del responsabile del procedimento,
sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento
della spesa con le modalità previste dall'articolo 194,
comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura
finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la
rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato
entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta
da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre
dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il
predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.”
Il Sindaco chiede di conoscere se nel caso in cui per i
lavori di somma urgenza i fondi previsti a bilancio siano
sufficienti occorra seguire la procedura di cui all’art. 194
(riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio).
...
Quesito analogo era stato posto dalla provincia di La Spezia
cui questa Sezione di controllo ha rilasciato parere con
delibera n. 12 del 2013, dalle cui conclusioni questa
Sezione non intende discostarsi.
Brevemente il Collegio, nel ripercorrere quanto già
osservato nelle delibera suddetta, ritiene che non sia
indifferente, al fine di un corretto percorso argomentativo,
evidenziare l’allocazione della norma all’interno del TUEL.
L’art. 191, difatti, fissa le “Regole per l'assunzione di
impegni e per l'effettuazione di spese” nel rispetto dei
“Principi di gestione e controllo di gestione” (CAPO IV).
Il primo comma della norma citata individua l’ordinaria
procedura di spesa per cui l’Ente può attivarsi solo se
sussistono l'impegno contabile registrato sul competente
intervento o capitolo del bilancio di previsione e
l'attestazione della copertura finanziaria di cui
all'articolo 153, comma 5. Solo dopo, il responsabile del
servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di
spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la
copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della
prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista
dalla legge, il comma 3 dell’articolato
normativo risulta essere una deroga alla disciplina
ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del
legislatore a derogare in presenza di situazioni che
richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela
di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in
presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità
di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di
fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti
lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può
procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei
modi indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati
appare chiara la volontà del legislatore di
consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni
qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo
allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale
circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere
all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di
bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono
sufficienti.
Diversamente, la presenza di fondi a tal
fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può
attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta
necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare
la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto, la deroga è una sorta di
autorizzazione del legislatore con cui l’Ente può procedere
a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare
interessi primari e consentire, successivamente, attivare un
percorso che consenta l’individuazione delle risorse da
destinare alla copertura finanziaria dei lavori ordinati in
via d’urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano
trovarsi all’interno del bilancio dell’Ente non interessa al
fine della corretta applicazione della norma.
Altro non farà l’Ente, in sede di
riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto
dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al
piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli
equilibri di bilancio) del TUEL
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 22). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 09.05.2013, "Integrazioni
del capitolato d’oneri generale e del capitolato d’oneri
particolare per la vendita in piedi di lotti boschivi di
proprietà pubblica approvato con d.d.g. n. 2481/2012 della
D.g. Sistemi verdi e paesaggio" (decreto
D.G. 30.04.2013 n. 3723). |
APPALTI FORNITURE - PATRIMONIO:
Se sia possibile derogare al divieto di acquisto di beni
immobili previsto dalla norma.
La novella dell'art. 12 del
decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal
comma 138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 prevede
che “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite
nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi
dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e
successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti,
ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la
borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo
oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo
che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione
sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose,
la disponibilità di locali in sostituzione di immobili
dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di
immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro
applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e
privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in
data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le
esigenze allocative in materia di edilizia residenziale
pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di
programmi e piani concernenti interventi di perequazione
socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle
eccezioni indicate, escludono in modo categorico che
ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano
ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione,
e quindi nel senso auspicato dal comune.
---------------
Il comune istante richiede chiarimenti in merito alla
corretta interpretazione dell'art. 12, comma 1-quater ss.,
del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge 24.12.2012, n. 228.
In particolare, il comune specifica di non essere in
possesso di un idoneo magazzino dove poter sistemare i
propri mezzi e i mezzi in dotazione ai gruppo di protezione
civile e volontariato.
Tanto premesso, ed esposto di essere in trattative per
l'acquisto di una porzione di laboratorio da adibire a
magazzino, e di aver nel bilancio di previsione per l'anno
2013 copertura finanziaria per l'operazione di
compravendita, il comune richiede se sia possibile
derogare al divieto di acquisto di beni immobili previsto
dalla norma in commento, attesa l’indubbia convenienza
economica del prezzo richiesto dall’alienante e la
transitorietà del divieto, che potrebbe impedire il
conseguimento delle vantaggiose condizioni offerte.
...
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98
(convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge
24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le
autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale
per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare
immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di
locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di
contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire,
a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in
sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad
avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro
applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e
privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in
data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le
esigenze allocative in materia di edilizia residenziale
pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di
programmi e piani concernenti interventi di perequazione
socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle
eccezioni indicate, escludono in modo categorico che
ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano
ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione,
e quindi nel senso auspicato dal comune (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere 08.05.2013 n. 200). |
aprile 2013 |
|
PATRIMONIO:
Contratti di locazione passiva.
Domanda
È consentito a una
pubblica amministrazione stipulare un contratto di locazione
passiva?
Risposta
La locazione
passiva è quel contratto di locazione dove la pubblica
amministrazione è conduttore di un immobile di proprietà di
terzi.
Gli ultimi interventi del legislatore in materia, in
un'ottica di contenimento della spesa pubblica, tendono a
disincentivare l'utilizzo di questa tipologia contrattuale
da parte delle pubbliche amministrazioni. In particolare,
l'art. 3 del decreto legge sulla spending review
prevede la riduzione del canone di locazione del 15%
rispetto a quanto attualmente corrisposto anche per i
contratti in corso, nonché molte limitazioni al rinnovo del
rapporto di locazione.
L'art. 3 del decreto sulla spending review,
nell'ambito di una serie di misure finalizzate alla
razionalizzazione del patrimonio pubblico, esprime pertanto
un generalizzato disfavore per le locazioni passive,
limitando la possibilità di rinnovare i contratti dopo la
scadenza e di stipularne di nuovi e imponendo la riduzione
dei relativi costi (cfr. Deliberazione della Corte dei
conti, sez. regionale di controllo per il Lazio 09/01/2013
n. 3/2012) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
PATRIMONIO: Natura
del bene pubblico.
Domanda
Quale sia, tra la
concessione amministrativa e la locazione, la tipologia
contrattuale più idonea per la stipulazione di contratti che
abbiano a oggetto l'utilizzazione di una struttura da
destinare ad attività commerciale?
Risposta
Al fine di poter
rispondere al presente quesito è necessaria una breve
premessa in ordine alla natura dei beni immobili pubblici.
Secondo quanto disposto dagli art. 822 e ss. c.c. i beni
immobili di proprietà degli enti pubblici si distinguono in
demaniali e patrimoniali. I beni patrimoniali, a loro volta,
si distinguono in indisponibili e disponibili.
Il demanio e il patrimonio indisponibile, per la loro
intrinseca natura a tutelare maggiormente l'interesse
pubblico, sono inalienabili, inusucapibili e non possono
formare oggetto di diritti a favore dei terzi se non nei
limiti e modi stabiliti dalla legge. I beni patrimoniali
disponibili seguono invece il classico regime privatistico
ex codice civile.
Quel che più conta però, ai fini della risposta al quesito
in esame, è che la corretta qualificazione giuridica del
bene assume una decisiva rilevanza ai fini della scelta
della tipologia contrattuale con cui affidarlo a terzi.
Invero, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del
bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico
della concessione, mentre la natura disponibile del bene
implica la possibilità di un affidamento in locazione (cfr.
Corte conti reg. Sardegna, sez. contr., 07/03/2008, n. 4).
In conclusione quindi l'ente locale non gode di
discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti
(concessione e/o locazione) di attribuzione in godimento a
soggetti terzi del bene ma che, nella scelta tra le varie
soluzioni percorribili, debba avere quale parametro di
riferimento esclusivo la natura del bene che determina il
conseguente regime giuridico a cui lo stesso bene è
sottoposto (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
PATRIMONIO:
Sì alla locazione "diretta" di un
immobile comunale non utilizzato a fini economici.
La decisione 5 aprile 2013, n. 285 risolve la questione
circa la possibilità per una civica P.A. di concedere “in
via diretta” a un privato la locazione di un bene
demaniale da utilizzarsi per un limitato periodo di tempo e
senza scopo di lucro.
Il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 30 e
144, D.Lgs. n. 163/2006, ha gravato la determinazione con
cui il competente dirigente, senza l’esperimento di una
procedura a evidenza pubblica, ha concesso in locazione a un
partito politico un immobile comunale da adibire a “luogo
di propaganda politica”.
Il TAR di Ancona, però, ha escluso l’applicabilità dei
principi sull’evidenza pubblica, atteso che il Comune non
solo aveva a disposizione ulteriori immobili comunali idonei
a soddisfare similari esigenze, ma era dotato di un
regolamento per cui era possibile l’affidamento a trattativa
privata delle concessioni di immobili, il cui canone annuo
di locazione era di modesta entità.
IL CASO
Il deducente, candidato Sindaco alle scorse consultazioni
elettorali, ha contestato la legittimità del provvedimento
di (diretta) concessione in locazione di un immobile
comunale a un partito politico, in quanto, a suo opinare, il
Comune avrebbe dovuto concedere il predetto bene previo
esperimento di una procedura a evidenza pubblica.
LE NORME VIOLATE
L’interessato, reputando che la concessione in locazione di
un bene demaniale sia da equiparare, in termini di
disciplina, alle concessioni di servizi o di lavori
pubblici, ha eccepito la violazione degli artt. 30 e 144,
D.Lgs. n. 163/2006.
Orbene, con riferimento alle concessioni di servizi, è
appena il caso di rammentare come l’art. 30 cit. sancisce
che: “1. Salvo quanto disposto nel presente articolo, le
disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di
servizi.
2. Nella concessione di servizi la controprestazione a
favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di
gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il
servizio. Il soggetto concedente stabilisce in sede di gara
anche un prezzo, qualora al concessionario venga imposto di
praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a
quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e
dell'ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia
necessario assicurare al concessionario il perseguimento
dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti e
della connessa gestione in relazione alla qualità del
servizio da prestare.
3. La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto
dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei
principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non
discriminazione, parità di trattamento, mutuo
riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui
sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in
tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto
della concessione e con predeterminazione dei criteri
selettivi.
4. Sono fatte salve discipline specifiche che prevedono
forme più ampie di tutela della concorrenza.
5. Restano ferme, purché conformi ai principi
dell'ordinamento comunitario, le discipline specifiche che
prevedono, in luogo delle concessione di servizi a terzi,
l'affidamento di servizi a soggetti che sono a loro volta
amministrazioni aggiudicatrici.
6. Se un'amministrazione aggiudicatrice concede a un
soggetto che non è un'amministrazione aggiudicatrice diritti
speciali o esclusivi di esercitare un'attività di servizio
pubblico, l'atto di concessione prevede che, per gli appalti
di forniture conclusi con terzi nell'ambito di tale
attività, detto soggetto rispetti il principio di non
discriminazione in base alla nazionalità.
7. Si applicano le disposizioni della parte IV. Si applica,
inoltre, in quanto compatibile l'art. 143, comma 7”.
Parallelamente, in materia di concessioni di lavori
pubblici, il successivo art. 144 prevede che: “1. Le
stazioni appaltanti affidano le concessioni di lavori
pubblici con procedura aperta o ristretta, utilizzando il
criterio selettivo dell'offerta economicamente più
vantaggiosa.
2. Quale che sia la procedura prescelta, le stazioni
appaltanti pubblicano un bando in cui rendono nota
l'intenzione di affidare la concessione.
3. I bandi relativi alle concessioni di lavori pubblici
contengono gli elementi indicati nel presente codice, le
informazioni di cui all'all. IX B e ogni altra informazione
ritenuta utile, secondo il formato dei modelli di formulari
adottati dalla Commissione in conformità alla procedura di
cui all'art. 77, par. 2, direttiva 2004/18. 3-bis. I bandi e
i relativi allegati, ivi compresi, a seconda dei casi, lo
schema di contratto e il piano economico finanziario, sono
definiti in modo da assicurare adeguati livelli di
bancabilità dell'opera.
4. Alla pubblicità dei bandi si applica l'art. 66 ovvero
l'art. 122”.
LA DECISIONE DEL TAR
Il G.A. marchigiano non ha ritenuto meritevoli di
accoglimento le censure mosse dal deducente.
Sul proposito ha, infatti, precisato che mentre l’art. 30
del Codice riguarda unicamente le concessioni di servizi,
l’art. 144 afferisce le sole modalità di affidamento delle
concessioni di lavori relativi alla costruzione e gestione
di opere pubbliche.
Inoltre, ha sottolineato che le concessioni sono costituite
da veri e propri contratti che presentano le stesse
caratteristiche di un appalto pubblico, a eccezione del
corrispettivo dei servizi o dei lavori consistente nel
diritto di gestire il servizio pubblico o l’opera, ovvero in
tale diritto accompagnato da un prezzo.
Di conseguenza, l’adito Collegio ha ritenuto che l’essenza
della concessione -di lavori o servizi pubblici– risiede
nella circostanza per cui il concessionario si remunera per
l’appunto erogando il servizio all’utenza, oppure sfruttando
il bene demaniale a fini economici.
Al contempo, ha osservato che le concessioni amministrative
sono entrate nell’alveo di applicazione della normativa
comunitaria sugli appalti pubblici in quanto, dal punto di
vista della tutela della concorrenza, le stesse possiedono
uguale incidenza sul mercato; non a caso, il concessionario
di beni o servizi pubblici ricava un’utilità sfruttando
economicamente beni pubblici che non sono disponibili in
quantità illimitata.
Di tal ché, il giudicante ha rilevato che le suddette
concessioni, poiché in grado di alterare le ordinarie
dinamiche del mercato, devono essere assegnate mediante le
procedure competitive di cui agli artt. 30 e 144 del D.Lgs.
n. 163/2006.
Orbene, con riferimento al caso di specie, il TAR ha
evidenziato l’inapplicabilità delle suddette disposizioni e
principi, atteso che il partito politico non avrebbe svolto
nel locale concesso in locazione alcuna attività economica.
Parallelamente, ha soggiunto la dirimente circostanza per
cui il Comune aveva comunicato al ricorrente la
disponibilità di altri locali aventi caratteristiche e
ubicazione simili a quelle dell’immobile concesso in
locazione all’avversario partito politico.
E ancora, ferma restando la regola per cui gli appalti
aventi valore esiguo possono essere affidati senza gara, il
Tribunale ha precisato che il regolamento comunale sulla
gestione dei beni demaniali e patrimoniali stabiliva la
possibilità di “… affidamento a trattativa privata delle
concessioni allorquando il canone annuo di locazione è
inferiore a €. 5.000,00”.
In considerazione di siffatte emergenze, il Collegio di
Ancona ha ritenuto che la civica P.A. non aveva alcun onere
di bandire un confronto concorrenziale per il rilascio della
concessione dell’immobile in questione, anche avuto riguardo
alla circostanza per cui lo stesso non era stato mai oggetto
di interesse da parte di nessuna delle forze politiche più
“tradizionali”.
I PRECEDENTI ED I POSSIBILI IMPATTI
PRATICO-OPERATIVI
La pronuncia in esame cristallizza il fermo principio per
cui le pubbliche Amministrazioni possono affidare, in via
diretta, la locazione di un bene demaniale soltanto nelle
ipotesi in cui il privato non intenda svolgere, all’interno
dello stesso, qualsivoglia attività economica, in grado di
determinare non solo alterazioni concorrenziali, ma anche
entrate economiche in favore dell’Erario.
Sul punto il TAR di Pescara, con riferimento alla locazione
di un locale demaniale in cui sarebbe stata svolta
un’attività di commercio al pubblico, ha dichiarato
l’illegittimità della delibera con cui la Giunta comunale,
in spregio ai canoni di trasparenza, imparzialità e par
condicio, aveva stabilito l’affidamento diretto in favore di
un soggetto.
Invero, il Comune avrebbe dovuto procedere alla preliminare
pubblicazione di un avviso, onde passare all’affidamento
della locazione dell’immobile di sua proprietà solo mediante
l’esperimento di idonea procedura concorrenziale che avrebbe
consentito la partecipazione di tutti i potenziali aspiranti
(TAR Abruzzo Pescara, Sez. I, 05.11.2008, n. 878 in
www.giustizia-amministrativa.it).
E ancora, Palazzo Spada ha rimarcato la rilevanza dello
svolgimento di una procedura a evidenza pubblica per la
concessione di beni pubblici –nella specie di una cava di
marmo– passibili di utilizzo economico, attesa l’esigenza di
garantire una migliore gestione delle risorse dell’ente e,
così, il miglior utilizzo di beni che fanno parte del
patrimonio o del demanio e che vengono ceduti in godimento a
terzi con ricavo di un corrispettivo a incremento delle
entrate finanziarie (Cons. Stato, Sez. VI, 04.04.2007, n.
1523, in www.giustizia-amministrativa.it).
Eppertanto, alla stregua delle suindicate decisioni, può
ragionevolmente ritenersi che l’indizione di una formale
gara per l’affidamento in locazione di un immobile demaniale
non è necessaria qualora il privato, per mezzo del medesimo
bene, intenda esercitare un’attività che in alcuna guisa
incide sul mercato, né tampoco sull’entrate erariali
(commento tratto da www.ispoa.it - TAR Marche,
sentenza 05.04.2013 n. 285 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2013 |
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PATRIMONIO: Costituisce
principio ormai pacifico quello per cui anche per i cc.dd.
contratti attivi (mediante cui la p.a. si procura entrate,
come vendita e locazione) sussiste un obbligo di rispetto
dei principi di trasparenza e di imparzialità.
Per ciò che concerne in particolare l’alienazione degli
immobili di proprietà pubblica, tali principi appaiono
invero ancor più radicati alla luce della risalenza della
relativa disciplina, a mente della quale la vendita deve
avvenire secondo modalità tali da garantire gli interessi
pubblici con la massima trasparenza ed imparzialità nella
scelta del contraente, esclusivamente attraverso le seguenti
procedure: pubblici incanti o asta pubblica (sulla base del
valore di stima, previe pubblicazioni, affissioni ed
inserzioni da ordinarsi dall'Amministrazione demaniale in
conformità del regolamento di esecuzione).
In via del tutto eccezionale, qualora gli incanti siano
andati deserti e l'Amministrazione lo ritenga conveniente,
gli immobili possono essere venduti, purché non siano
variati se non a tutto vantaggio dell'Ente, il prezzo e le
condizioni di vendita, mediante le modalità di gara della
licitazione privata o della trattativa privata. La vendita è
poi deliberata a favore di colui che abbia fatto la maggiore
offerta in aumento rispetto alla base d'asta nel bando di
gara stabilita.
... per l'annullamento della deliberazione Consiglio
Comunale n. 44/2011 nella parte in cui delibera la vendita
mediante trattativa privata dell'area individuata al CT
Foglio n. 310, mappale n. 214 di proprietà del Comune di
Milano.
...
In linea di diritto costituisce principio ormai pacifico
quello per cui anche per i cc.dd. contratti attivi (mediante
cui la p.a. si procura entrate, come vendita e locazione)
sussiste un obbligo di rispetto dei principi di trasparenza
e di imparzialità.
Per ciò che concerne in particolare l’alienazione degli
immobili di proprietà pubblica, tali principi appaiono
invero ancor più radicati alla luce della risalenza della
relativa disciplina, a mente della quale la vendita deve
avvenire secondo modalità tali da garantire gli interessi
pubblici con la massima trasparenza ed imparzialità nella
scelta del contraente, esclusivamente attraverso le seguenti
procedure: pubblici incanti o asta pubblica (sulla base del
valore di stima, previe pubblicazioni, affissioni ed
inserzioni da ordinarsi dall'Amministrazione demaniale in
conformità del regolamento di esecuzione). In via del tutto
eccezionale, qualora gli incanti siano andati deserti e
l'Amministrazione lo ritenga conveniente, gli immobili
possono essere venduti, purché non siano variati se non a
tutto vantaggio dell'Ente, il prezzo e le condizioni di
vendita, mediante le modalità di gara della licitazione
privata o della trattativa privata. La vendita è poi
deliberata a favore di colui che abbia fatto la maggiore
offerta in aumento rispetto alla base d'asta nel bando di
gara stabilita.
Questo è quanto prevede la Legge n. 783 del 1908 ed il
successivo regolamento di esecuzione R.D. n. 454 del 1908.
L'articolo 12, comma 2, della legge 15.05.1997 numero 127 ha
invero disposto che "I comuni e le province possono
procedere alle alienazioni del proprio patrimonio
immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge
24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al
regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454,
e successive modificazioni, nonché alle norme sulla
contabilità generale degli enti locali, fermi restando i
princìpi generali dell'ordinamento giuridico-contabile. A
tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate
forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti
proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente
interessato".
A tal fine è quindi fatto obbligo alle amministrazioni,
secondo la condivisa opinione giurisprudenziale (cfr. ad es.
Tar Catania n. 419/2009) di assicurare idonei criteri di
trasparenza ed adeguate forme di pubblicità per acquisire e
valutare concorrenti proposte di acquisto, la cui
determinazione non può essere rimessa al libero arbitrio, ma
ad una normazione contenuta nel dedicato regolamento
adottato dall'ente interessato.
Nel caso di specie, per un verso è mancata del tutto la
predisposizione di tali adeguate forme di pubblicità, avendo
la p.a. proceduto direttamente a disporre la trattativa
privata diretta, peraltro immotivatamente ed illogicamente
nel contesto di una delibera avente diverso e più ampio
oggetto. Per un altro verso, la delibera si è altresì posta
in diretta violazione della disciplina regolamentare che lo
stesso comune resistente si è conseguentemente dato nel
1998.
A quest’ultimo riguardo, mentre la delibera non ha speso una
parola di motivazione in ordine alla verifica della
sussistenza di tali eccezionali presupposti per ricorrere
alla trattativa privata diretta (e le difese giudiziali sul
punto non sono ammissibili a fronte del consolidato
principio che vieta l’integrazione in giudizio della
motivazione), nel caso de quo gli stessi neppure risultano
sussistere.
Sul punto, l’unico possibile specifico riferimento,
ricavabile dalla lettera c) dell’art. 8 del regolamento in
merito all’interclusione, risulta non indicato in delibera e
smentito dalle produzioni delle parti, atteso che l’interclusione
stessa eventualmente riguarda tre diversi immobili
confinanti, tutti possibili interessati. Né del pari è
invocabile l’ipotesi residuale del terzo comma: sia per
generalità della stesso, che conseguentemente deve essere
restrittivamente inteso quale deroga ed eccezione ad un
principio; sia per mancata indicazione di ragioni tali da
integrare le necessarie circostanze speciali. A quest’ultimo
proposito, la delibera richiama: l’appartenenza storica ad
un immobile già dismesso, in gran parte smentita dalla
situazione di fatto emersa con la pluralità di immobili e
proprietà confinanti, oltre che per la diversità soggettiva
rispetto all’invocato fondo immobiliare; i tempi ed i costi
di una gara che non sarebbero convenienti per
l’amministrazione, secondo una valutazione invero illogica e
collidente, prima facie, con la ratio sottesa
ai principi concernenti l’obbligo di una procedura
trasparente ed aperta, che è (anche, oltre alla tutela degli
interessi collettivi della trasparenza e della par condicio)
quella (egoistica per la p.a.) di ottenere il miglior prezzo
possibile.
Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va accolto
con conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 13.03.2013 n. 677 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Responsabile del settore gestione del
territorio di un Comune e omissione di regolare manutenzione
per gli impianti ed i dispositivi di sicurezza presso il
parco comunale e la biblioteca.
Dichiara inammissibile il ricorso avverso la
sentenza 27.02.2012 n. 46
del
TRIBUNALE di
Bergamo, Sez. distaccata di Clusone
e, di fatto, resta
confermata la condanna in 1° grado (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.03.2013 n. 10932). |
PATRIMONIO:
Acquisto immobili. Art. 12, D.L. n. 98/2011, come novellato
dalla legge di stabilità 2013.
Il divieto di acquistare immobili a
titolo oneroso, per l'anno 2013, di cui al nuovo comma
1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, è stabilito per
tutte le amministrazioni pubbliche, ivi compresi gli enti
territoriali. La clausola di salvezza prevista per gli
acquisti già autorizzati con decreto del Ministro
dell'economia e delle finanze prima dell'01.01.2013 è
espressamente riferita alle Amministrazioni centrali.
La Corte dei Conti, nell'osservare che il comma 1-quater
pone 'un divieto assoluto di acquistare, a qualunque titolo,
diritti immobiliari nell'esercizio 2013', ha affermato,
però, che occorre 'evitare che l'applicazione pedissequa di
tale divieto conduca al risultato opposto rispetto a quello
voluto dal Legislatore'. In particolare, per il Giudice
contabile: per quanto concerne le procedure espropriative, è
conforme alla volontà del legislatore portare a termine
quelle per cui risultino, in data antecedente
all'01.01.2013, un decreto di occupazione di urgenza con la
corresponsione della relativa indennità; per i contratti
preliminari stipulati prima dell'01.01.2013, il comma
1-quater introduce una fattispecie di impossibilità
giuridica sopravvenuta per factum principis preclusiva alla
conclusione dei contratti definitivi per l'anno 2013.
Il Comune chiede alcuni chiarimenti in merito alle nuove
disposizioni aggiunte all'art. 12, D.L. n. 98/2011
[1], a
seguito della novella dettata dall'art. 1, comma 138, L. n.
228/2012 [2],
statuenti misure restrittive per l'acquisto di beni immobili
da parte delle pubbliche amministrazioni. L'Ente chiede, in
particolare, di sapere se trovi applicazione agli enti
locali il nuovo comma 1-quater dell'art. 12.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 12, comma 1, D.L. n. 98/2011 (non interessato dalla
novella del 2012) prevede che a partire dal 01.01.2012 le
operazioni di acquisto e vendita di immobili, da parte delle
amministrazioni pubbliche [3]
sono subordinate alla verifica del rispetto dei saldi
strutturali di finanza pubblica da attuarsi con decreto di
natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle
finanze. La disposizione esclude espressamente dal suo
ambito di applicazione, tra gli altri, gli enti
territoriali.
Il nuovo comma 1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011,
stabilisce che, per l'anno 2013, tutte le amministrazioni
pubbliche [4],
incluse le autorità indipendenti, tra cui la Consob, non
possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare
contratti di locazione passiva salvo che si tratti di
rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata, a
condizioni più vantaggiose, per sostituire immobili dismessi
o per continuare ad avere la disponibilità di immobili
venduti. Dall'ambito soggettivo di applicazione del comma
1-quater in argomento sono espressamente esclusi gli enti
previdenziali pubblici e privati, mentre gli enti
territoriali (venendo al quesito posto dall'Ente) si
intendono ricompresi nell'alveo delle amministrazioni
pubbliche ivi indicate [5].
L'ente pone, inoltre, l'attenzione sul comma 1-quater
laddove esclude dal divieto le operazioni di acquisto di
immobili già autorizzate con il decreto ministeriale di cui
al comma 1 (come sopra chiarito, riferito alle
Amministrazioni centrali), prima dell'entrata in vigore
della novella del 2012 [6],
e chiede se una tale esclusione possa applicarsi in via
analogica agli enti territoriali ed, altresì, se possano
ritenersi esclusi gli acquisti conseguenti a procedure
espropriative.
Al riguardo, atteso che le nuove disposizioni recate
dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012, non dispongono in
modo specifico, si auspica che i competenti organi statali
intervengano tempestivamente a fornire gli opportuni
chiarimenti [7],
esulando l'interpretazione delle norme statali dalla
competenza dello scrivente Servizio.
Si segnala, comunque, il
parere 31.01.2013 n. 9 della Corte dei conti,
sezione di controllo per la Regione Liguria, in ordine ad
una richiesta proveniente da un comune e concernente la
corretta interpretazione dell'art. 1, comma 138, della Legge
di stabilità 2013, di novella dell'art. 12, D.L. n. 98/2011.
In particolare, sul nuovo comma 1-quater dell'art. 12
richiamato, il Giudice contabile, nell'osservare che lo
stesso pone 'un divieto assoluto di acquistare, a
qualunque titolo, diritti immobiliari nell'esercizio 2013',
afferma, però, che occorre 'evitare che l'applicazione
pedissequa di tale divieto conduca al risultato opposto
rispetto a quello voluto dal Legislatore'.
A tal fine, per quanto concerne le procedure espropriative,
la Corte dei conti distingue l'ipotesi della sola
dichiarazione di pubblica utilità, per la quale non sembra
porsi alcun problema, nel senso dell'applicazione, in questa
ipotesi, delle nuove limitazioni agli acquisti immobiliari,
dalla diversa situazione, tutt'altro che infrequente, che la
dichiarazione di pubblica utilità sia stata accompagnata
dall'emissione, antecedente all'01.01.2013, di un decreto di
occupazione di urgenza dell'area preordinata
all'espropriazione con la contemporanea corresponsione della
relativa indennità. In quest'ultimo caso, secondo la Corte,
'il procedimento è giunto ad un livello tale (tempus
regit actum) da ritenere possibile e più soddisfacente alla
ratio finanziaria voluta dal Legislatore condurlo a termine,
anche con possibile accordo di cessione volontaria
intervenuto nel frattempo, piuttosto di lasciare ferma la
situazione con una complessiva perdita maggiore di denaro
pubblico, costituita dall'artificioso prolungamento del
periodo di occupazione rispetto all'immissione definitiva
nella proprietà da parte dell'ente'.
Mentre, per quanto riguarda la concreta esecuzione dei
negozi preparatori -contratti preliminari di compravendita
stipulati prima dell'01.01.2013, per i quali non sia stato
ancora concluso il contratto definitivo, e diritti di
prelazione da esercitarsi entro termini perentori- la Corte
dei conti ritiene che il nuovo comma 1-quater introduca una
'fattispecie di impossibilità giuridica sopravvenuta per
factum principis preclusiva all'esercizio dei diritti di
prelazione e alla conclusione dei contratti definitivi per
l'anno 2013, laddove negli esercizi successivi anche questa
tipologia di acquisti immobiliari dovrà soggiacere al
requisito dell'indispensabilità ed indilazionabilità',
di cui al nuovo comma 1-ter [8],
D.L. n. 98/2011 [9].
---------------
[1] D.L. 06.07.2011, n. 98, recante: 'Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 111/2011.
[2] L. 24.12.2012, n. 228, recante: 'Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(Legge di stabilità 2013)'.
[3] Il comma 1 in argomento si riferisce alle
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del
comma 3 dell'articolo 1 della L. n. 196/2009, con
l'esclusione degli enti territoriali, degli enti
previdenziali e degli enti del servizio sanitario nazionale,
nonché del Ministero degli affari esteri con riferimento ai
beni immobili ubicati all'estero.
[4] Il comma 1-quater in argomento si riferisce alle
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del
comma 3 dell'articolo 1 della L. n. 196/2009.
Il coinvolgimento di tutte le amministrazioni pubbliche è
evidenziato dalla Camera, Temi dell'Attività parlamentare,
Acquisto, vendita e manutenzione degli immobili pubblici,
all'indirizzo web: http://www.camera.it.
[5] Cfr. parere Anci del 17.01.2013. Per il coinvolgimento
degli enti territoriali nelle disposizioni della legge di
stabilità 2013 (L. n. 228/2012), cfr.: Eduardo Racca, 'Legge
di stabilità: tutte le novità misura per misura', in 'Il
sole 24 ore Enti locali', 03.01.2013.
[6] Il comma 1-quater è inserito dall'art. 1, comma 138, L.
n. 228/2012, a decorrere dall'01.01.2013.
[7] Si rileva che dette questioni non risultano affrontate
nella circolare 05.02.2013, n. 2, del Ministero
dell'economia e delle finanze.
[8] Il nuovo comma 1-ter dell'art. 12, D.L. n. 98/2011,
dispone che, a partire dal 01.01.2014, gli Enti territoriali
e gli Enti del Servizio sanitario nazionale, per ottenere
risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal
Patto di stabilità interno, possono acquistare immobili solo
nel caso in cui sia comprovata documentalmente
l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestata dal
Responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è,
altresì, attestata dall'Agenzia del Demanio, previo rimborso
delle spese. Sul sito Internet dell'ente deve essere data
preventiva notizia dell'operazione di acquisto, con
l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito.
[9] Per completezza di esposizione, si segnala il diverso
avviso dell'ANCI (di maggiore apertura, invero), per cui il
legislatore non ha inteso porre le amministrazioni pubbliche
di fronte al rischio di contenziosi derivanti ad esempio da
compromessi di acquisto che non possono essere rispettati
per effetto di norme sopravvenute, o di contenziosi
derivanti dal ritardato pagamento di indennità di esproprio
con ulteriori aggravi economici per l'ente espropriante.
Per cui, ad avviso dell'Associazione di categoria, si può
ritenere che le operazioni già avviate prima dell'entrata in
vigore della legge di stabilità 2013 (01.01.2013) possano
trovare completamento nell'anno in corso e che, comunque,
siano ammissibili operazioni connesse ad interventi di
pubblica utilità in conseguenza di progetti o piani di
attuazione che hanno già trovato le relative fonti di
finanziamento nei bilanci degli anni precedenti.
Per l'ANCI, tale interpretazione, peraltro, sembra risultare
coerente con quanto previsto per le amministrazioni dello
Stato per le quali il comma 1-quater dell'art. 12 del D.L.
n. 98/2011, come introdotto dalla legge di stabilità 2013,
fa salve le operazioni di acquisto di immobili già
autorizzate prima dell'entrata in vigore della stessa legge
n. 228 (Cfr. parere Anci del 16.01.2013) (08.03.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
febbraio 2013 |
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PATRIMONIO:
I proventi di una servitù di passaggio
su un terreno di proprietà comunale sono obbligatoriamente
ascrivibili al titolo III dell'entrata del bilancio (entrate
extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non
tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e
trasferimenti di capitale).
---------------
Con la nota indicata
in epigrafe il Sindaco del Comune di Casaletto Spartano
chiede a questa Sezione un parere in ordine alla possibilità
di acquisizione di un fabbricato “da destinare alla
collettività generale e da includere nel patrimonio degli
usi civici posseduti dal comune”, utilizzando somme
provenienti dal pagamento, da parte della Società Snam
progetti, della servitù di passaggio di un gasdotto
realizzato su terreni gravati da usi civici.
Il comune prosegue chiedendo se i proventi di cui alla
citata servitù possano essere iscritti al titolo IV della
parte entrate del bilancio di previsione, finanziando la
spesa, prevista al titolo II della parte spesa dello stesso
bilancio, per l’acquisizione dell’immobile predetto.
...
Premesso che la Sezione non può affrontare la complessa
questione attinente all’immobile relativamente alla
possibilità di essere o meno, lo stesso, incluso nel
patrimonio degli usi civici del comune, in quanto non in
possesso degli elementi utili alla sua risoluzione (essendo,
la materia degli usi civici, dettagliatamente disciplinata
da una specifica normativa di settore e da copiosa
giurisprudenza che varia in relazione alle concrete
situazioni specifiche e riguardando, in linea di massima,
provvedimenti amministrativi di tipo ricognitivo e non
costitutivo dell’uso), nel merito dei quesiti sottoposti
–possibilità di acquisizione dell’immobile in oggetto
utilizzando i proventi rimessi all’ente da una società,
quale corrispettivo della servitù per il passaggio su
terreni di sua proprietà, e iscrizione dei proventi stessi
nel titolo IV delle entrate– la stessa Sezione si esprime
nei seguenti termini.
Il d.leg. 18.08.2000, n. 267, T.U. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, e precisamente
l’articolo n. 199 del titolo IV –Investimenti-, prevede
quanto segue: “Fonti di finanziamento. 1. Per
l’attivazione degli investimenti gli enti locali possono
utilizzare:
a) entrate correnti destinate per legge agli investimenti;
b) avanzi di bilancio, costituiti da eccedenze di entrate
correnti rispetto alle spese correnti aumentate delle quote
capitali di ammortamento dei prestiti;
c) entrate derivanti dall’alienazione di beni e diritti
patrimoniali, riscossioni di crediti, proventi da
concessioni edilizie e relative sanzioni;
d) entrate derivanti da trasferimenti in conto capitale
dello stato, delle regioni, da altri interventi pubblici e
privati finalizzati agli investimenti, da interventi
finalizzati da parte di organismi comunitari e
internazionali;
e) avanzo di amministrazione, nelle forme disciplinate
dall’articolo 187;
f) altre forme di ricorso al mercato finanziario consentite
dalla legge.".
Considerato che le entrate che l’ente
intende utilizzare –proventi di una servitù di passaggio su
un terreno di sua proprietà– sono obbligatoriamente
ascrivibili al titolo III dell’entrata del bilancio (entrate
extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non
tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e
trasferimenti di capitale),
ed escluso il caso in cui l’ente stesso non sia a conoscenza
di una specifica disciplina giuridica (correlata alla
situazione di fatto dell’immobile che solo esso è in grado
di conoscere e che sfugge invece a questa Corte, non avendo
essa la disponibilità degli elementi fattuali della
fattispecie concreta), che gli consenta di applicare la
lettera a) della normativa succitata –utilizzo di entrate
correnti destinate per legge agli investimenti-,
questa Sezione esprime parere negativo all’utilizzo
specifico dei proventi della servitù per l’acquisto
dell’immobile, ritenendo che non sia consentito, alla luce
di quanto esplicitamente espresso dalla normativa,
l’utilizzo di entrate correnti per l’attivazione di
qualsiasi investimento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 28.02.2013 n. 25). |
PATRIMONIO: Iscrizione
dei beni negli elenchi.
Domanda
L'iscrizione dei
beni negli elenchi, di cui all'art. 58 dl n. 112/2008 (Piano
delle alienazioni e valorizzazioni), produce conseguenze a
favore della vendibilità del bene?
Risposta
Il comma 3 dell'art. 58 dl 112/2008, prevede che «Gli
elenchi di cui al comma 1, da pubblicare mediante le forme
previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto
dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti
trascrizioni, e producono effetti previsti dall'articolo
2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi
dell'iscrizione del bene in catasto.»
Dalla disposizione ut supra emerge pertanto che la
norma riconosce a tali elenchi, in assenza di precedenti
trascrizioni, conseguenze di favore per la vendibilità del
bene: hanno effetti dichiarativi della proprietà e non
costitutivi. Producono gli stessi effetti della trascrizione
(Art. 2644 del Codice civile), e quelli sostitutivi
dell'iscrizione catastale del bene. Spetta invece al
responsabile del procedimento, se necessario procedere alla
trascrizione degli elenchi, intavolazione e voltura. Contro
l'iscrizione del bene nel Piano delle alienazioni è previsto
il ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla
pubblicazione, e sono confermati gli altri rimedi di legge.
Inoltre visti gli importanti e dirompenti effetti che
produce l'approvazione di tali elenchi, tra cui quello
dichiarativo della proprietà, la deliberazione di
approvazione del Piano delle alienazioni e valorizzazioni,
di competenza del Consiglio, è preceduta da altra distinta
deliberazione con cui l'organo di governo individua,
redigendo apposito elenco, i beni immobili non strumentali
all'esercizio delle funzioni istituzionali suscettibili di
valorizzazione ovvero di dismissione. Tale delibera, di
competenza della Giunta, precede l'adozione del piano e
contiene la sola elencazione dei beni individuati. La stessa
deve essere pubblicata «mediante le forme previste»
per l'Ente locale (come il Piano delle opere pubbliche).
Gli effetti dell'approvazione del Piano, tra cui quello
dichiarativo della proprietà, sono prodotti comunque, lo si
ribadisce, solo a seguito dell'approvazione della delibera
di Consiglio (articolo ItaliaOggi Sette del 25.02.2013). |
PATRIMONIO:
La Sezione, chiamata a rendere parere in merito alla
possibilità di alienare l’immobile, in caso di plurime aste
andate deserte, ad un prezzo ribassato e all’esistenza di
limite economico minimo entro il quale si possa procedere
alla vendita in rapporto al valore di acquisizione, giunge
alla conclusione che non si rinviene
un limite normativo oltre il quale l’amministrazione non
possa scendere nella determinazione del valore da porre a
base di gara per l’atto dispositivo in parola.
Si precisa, tuttavia, che detto valore
dovrà mantenersi comunque congruo rispetto alla situazione
concreta del mercato, oltre che, come posto in evidenza dal
medesimo Comune, al prezzo di acquisizione, ove il bene sia
entrato recentemente nel patrimonio dell’Ente.
L’esigenza di valutare costantemente la
congruità del valore di un bene da alienare, o acquisire,
costituisce, infatti, uno dei principi cardine della
contabilità e contrattualistica pubblica, cui l’art. 12 del
d.lgs. n. 127/1997 fa riferimento.
---------------
Il Sindaco del Comune di Calcinato (LO), con nota del
07.12.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di
parere inerente le modalità di alienazione di un immobile
comunale.
In particolare, il Comune ha inserito un immobile, acquisito
nel 2009 per il valore stimato di circa un milione di euro,
nel piano delle alienazioni. Con successivi provvedimenti
del responsabile dell’area tecnica, sono state bandite varie
aste per la vendita: la prima, nel 2010, con base di gara
pari a € 1.020.000 e l’ultima, nel 2012, dopo una riduzione
dell’area in vendita, con base di gara di € 872.100. Tutte
le suddette procedure sono andate deserte.
La mancata alienazione dipende dalla grave crisi del mercato
immobiliare e, in particolare, di quello industriale.
Pertanto il Comune vorrebbe bandire altre gare, anche a
prezzi ancora ribassati, al fine di evitare un ulteriore
depauperamento del bene, oggi in stato di abbandono (oltre a
risparmiare l’onere derivante dalle spese di manutenzione).
Posto che la questione ha notevole incidenza sul bilancio
dell'ente, il Sindaco chiede un parere circa la
possibilità di alienare l’immobile ad un prezzo ribassato e,
a tal fine, se vi sia un limite economico minimo entro il
quale si possa procedere alla vendita, in rapporto al valore
di acquisizione.
In alternativa, chiede se può essere opportuno attendere
una futura ripresa del mercato immobiliare, al fine di
alienare l’immobile con maggiore valorizzazione.
...
L’Ente istante può trarre utili indicazioni dall’art. 12 (“Disposizioni
in materia di alienazione degli immobili di proprietà
pubblica”) della legge n. 127 del 15/05/1997 (“Misure
urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e
dei procedimenti di decisione e di controllo”) in base
al quale: “I comuni e le province possono procedere alle
alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in
deroga alle norme di cui alla L. 24.12.1908, n. 783, e
successive modificazioni, ed al regolamento approvato con
R.D. 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché
alle norme sulla contabilità generale degli enti locali,
fermi restando i princìpi generali dell'ordinamento
giuridico-contabile. A tal fine sono assicurati criteri di
trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e
valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con
regolamento dell'ente interessato”.
La norma evidenzia come i Comuni, pur non essendo
obbligati a seguire le disposizioni (ancora parzialmente
vigenti) per l’alienazione dei beni immobili dello Stato,
debbano comunque osservare i criteri di trasparenza, parità
di trattamento e pubblicità, da definire con regolamenti
interni dell’Ente medesimo, conformi ai principi generali
della contrattualistica pubblica (l'ampiezza della
deroga, giustificata dall’esigenza di procedere celermente
alla definizione dei provvedimenti concernenti l'alienazione
di beni, anche per consentire il risanamento dei bilanci
degli enti locali, è stata evidenziata da Consiglio di
Stato, Sez. V, sentenza n. 4418 del 13/07/2006).
Il precetto normativo sopra esposto risulta sostanzialmente
conforme, fra l’altro, all’art. 27 del Codice dei contratti
pubblici, d.lgs. n. 163/2006, emanato in esecuzione delle
Direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE, che, per i contratti
esclusi in tutto in parte dall’applicazione della disciplina
comunitaria (fra cui quelli attivi di alienazione di beni
mobili e immobili, mentre quelli passivi, di acquisto e
locazione, sono oggetto di specifica considerazione
nell’art. 19 del d.lgs. n. 163/2006), richiede che
l’affidamento avvenga nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza e proporzionalità.
Si rinvia, per approfondimenti, alle Comunicazioni
interpretative della Commissione europea del 12.04.2000
(richiamata nella Circolare della Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Dipartimento per le politiche comunitarie, n.
945 del 01.03.2002) e del 01.08.2006. E, per i precedenti
giurisprudenziali, alle sentenze della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea 03.12.2001, C-59/2000; 07.12.2000,
C-324/1998; 13.10.2005, C-458/2003; 20.10.2005, C-264/2003).
La presenza di un limite oltre il quale, andate deserte
una serie di aste, non è possibile far scendere il prezzo
del bene a base di gara, non si rinviene neppure nella legge
che disciplina l’alienazione dei beni immobili dello Stato
(non applicabile direttamente ai Comuni per effetto del
citato art. 12 della legge n. 127/1997).
L’art. 6 della legge n. 783 del 24/12/1908 (“Unificazione
dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni
immobili patrimoniali dello Stato”) prevede infatti
quanto segue: “Qualora il primo esperimento d'asta vada
deserto, il secondo avrà luogo mediante offerte per schede
segrete con le modalità di cui al primo comma del presente
articolo. L'aggiudicazione sarà pronunciata a favore di
colui la cui offerta sia la maggiore e raggiunga almeno il
prezzo indicato nell'avviso d'asta.
Riuscito infruttuoso anche il secondo esperimento
l'amministrazione demaniale potrà ordinare ulteriori
esperimenti d'asta con successive riduzioni, ciascuna delle
quali non potrà eccedere il decimo del valore di stima”.
Allo stesso modo, l’art. 38 del R.D. n. 454 del 17/06/1909
(“Regolamento per l'esecuzione della L. 24.12.1908, n.
783, sull’unificazione dei sistemi di alienazione e di
amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato”),
come sostituito dall'art. 1 del R.D. 09.12.1940, n. 1837
dispone che: “Qualora riesca infruttuoso anche il secondo
esperimento d'incanto e l'Intendenza, ovvero il Ministero
delle finanze, quando il prezzo di asta superi le lire
20.000.000, ritenga che la ripetuta diserzione non sia
causata da eventuale elevatezza del prezzo medesimo, ma da
altre cagioni, provvede per nuovi esperimenti mediante
estinzione di candele vergini o a schede segrete sullo
stesso prezzo.
Nel caso contrario si procede ad ulteriori esperimenti
d'asta con successive riduzioni, ciascuna delle quali non
può eccedere il decimo del valore di stima, salvo il
disposto dell'art. 54”.
L’ultimo inciso rinvia alla disposizione che permette
all’amministrazione statale, in caso di plurime aste andate
deserte, di procedere a trattativa privata.
In conclusione, non si rinviene un limite normativo oltre
il quale l’amministrazione non possa scendere nella
determinazione del valore da porre a base di gara per
l’alienazione di un’immobile.
Appare evidente che quest’ultimo dovrà mantenersi
comunque congruo rispetto alla situazione concreta del
mercato, oltre che, come posto in evidenza dal medesimo
Comune, al prezzo di acquisizione, ove il bene sia entrato
recentemente nel patrimonio dell’Ente.
L’esigenza di valutare costantemente la congruità del
valore di un bene da alienare, o acquisire, costituisce,
infatti, uno dei principi cardine della contabilità e
contrattualistica pubblica, cui l’art. 12 del d.lgs. n.
127/1997 fa riferimento (ne è espressione, per esempio,
in tema di contratti passivi, l’art. 89 del d.lgs. n.
163/2006) (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere
14.02.2013 n. 50). |
gennaio 2013 |
|
PATRIMONIO:
Circa la vendita di un cespite immobiliare.
Il bando di gara prescrive, per la
partecipazione, di presentare una dichiarazione unica
contenente la dichiarazione di "ben
conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta –per cui
intende partecipare– nello stato di fatto e di diritto in
cui si trova nonché nello stato manutentivo e conservativo e
di giudicare quindi il prezzo fissato a base d’asta congruo
e tale da consentire l’aumento che andrà ad offrire” nonché
l’“attestazione rilasciata dal responsabile del procedimento
di avvenuta presa visione dello stato giuridico del bene cui
si intende partecipare”.
Reputa il Collegio che la clausola in esame mira a garantire
che i partecipanti alla vendita immobiliare abbiano piena
contezza delle caratteristiche del bene che si accingono ad
acquistare e che detta partecipazione avvenga in maniera
responsabile, mediante la presentazione di offerte aderenti
e congrue rispetto al valore effettivo del bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile
del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in
maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di
ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che,
peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di
stile inserita nel modello predisposto
dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione
viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare
che il concorrente ha preso visione di tutta la
documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa
allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella
volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello
stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione
giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche
urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione,
ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola divistata
miri ad imporre un ingiustificato aggravio della procedura,
dovendosi al contrario ritenere del tutto proporzionata
rispetto agli scopi (partecipazione informata delle imprese
partecipanti alla gara) che essa mira a realizzare”.
---------------
Tutta la disciplina contenuta nel codice dei contratti
pubblici non si applica, per espressa previsione dell’art.
19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai contratti
pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la locazione,
quali che siano le relative modalità finanziarie, di
terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o
riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita
l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici
ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti
aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per
oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e
opere”.
Ne deriva che le disposizioni ed i principi contenuti nella
normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non
possono trovare piana applicazione nelle procedure di
dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato
e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non quando siano
espressamente richiamati negli atti generali che
costituiscono la lex specialis autovincolante per
l’Amministrazione.
I rilievi sollevati dalla ricorrente principale sono
condivisibili.
Al punto 4), rubricato “Documentazione da presentare”,
l’Avviso pubblico stabilisce che nella busta n. 1,
contenente la documentazione amministrativa, avrebbe dovuto
essere inserita una dichiarazione unica, come da fac-simile
in allegato B, contenente, tra l’altro, la dichiarazione di
“ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta
–per cui intende partecipare– nello stato di fatto e di
diritto in cui si trova nonché nello stato manutentivo e
conservativo e di giudicare quindi il prezzo fissato a base
d’asta congruo e tale da consentire l’aumento che andrà ad
offrire” nonché l’ “attestazione rilasciata dal responsabile
del procedimento di avvenuta presa visione dello stato
giuridico del bene cui si intende partecipare”.
La Commissione, nel riammettere in gara la RE.DE. s.r.l., ha
ritenuto ultronea ed inutilmente gravatoria del procedimento
questa seconda attestazione.
Reputa, invece, il Collegio che la clausola in esame mira a
garantire che i partecipanti alla vendita immobiliare
abbiano piena contezza delle caratteristiche del bene che si
accingono ad acquistare e che detta partecipazione avvenga
in maniera responsabile, mediante la presentazione di
offerte aderenti e congrue rispetto al valore effettivo del
bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile
del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in
maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di
ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che,
peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di
stile inserita nel modello predisposto
dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione
viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare
che il concorrente ha preso visione di tutta la
documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa
allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella
volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello
stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione
giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche
urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione,
ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola
divistata miri ad imporre un ingiustificato aggravio della
procedura, dovendosi al contrario ritenere del tutto
proporzionata rispetto agli scopi (partecipazione informata
delle imprese partecipanti alla gara) che essa mira a
realizzare” (cfr. TAR Puglia–Lecce, sez. I, 04.06.2012,
n. 1025).
Né può sostenersi, nel caso di specie, l’applicazione
dell’art. 46, commi 1 ed 1-bis, del d.lgs. n. 163/2001,
atteso che tutta la disciplina contenuta nel codice dei
contratti pubblici non si applica, per espressa previsione
dell’art. 19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai
contratti pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la
locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie,
di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o
riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita
l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici
ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti
aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per
oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere”.
Ne deriva che, al contrario di quanto sostenuto dalla
ricorrente incidentale, le disposizioni ed i principi
contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza
pubblica non possono trovare piana applicazione nelle
procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte
dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non
quando siano espressamente richiamati negli atti generali
che costituiscono la lex specialis autovincolante per
l’Amministrazione (TAR Lazio–Roma, sez. II, 22.09.2008, n.
8429).
Nel caso in esame l’avviso d’asta non contiene alcun
richiamo alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 163/2006
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 04.01.2013 n. 22 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
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PATRIMONIO: È il Comune l’unico responsabile del marciapiede.
Oneri. La competenza per danni e manutenzione.
Sono molti i
Comuni che hanno deliberato ordinanze con le quali
attribuiscono ai condòmini l’onere di curare la manutenzione
del tratto di marciapiede antistante lo stabile (soprattutto
l’onere di spargere sul marciapiede antistante ai palazzi il
sale nei periodi invernali), liberandosi così dalle spese di
gestione dei marciapiedi e dalla responsabilità in caso di
incidenti dovuti alla mancata o inesatta manutenzione. Ma
queste ordinanze non possono ribaltare sui condomìni le
responsabilità dei danni causati a terzi da mancata
manutenzione.
Il marciapiedi antistante al condominio, infatti, a
differenza dei cortili e degli spazi interni, è suolo
pubblico e quindi appartiene totalmente alla pubblica
amministrazione. Il decreto legislativo 285/1992 (codice della
Strada) definisce chiaramente il concetto di strada pubblica
e annovera i marciapiedi nel demanio.
L’articolo 3, numero 33, infatti, specifica che si intende
per marciapiede «parte della strada, esterna alla
carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta,
destinata ai pedoni». Ed è quindi illegittimo che una
semplice ordinanza comunale deroghi a un decreto
legislativo.
In particolare, il Comune mantiene la proprietà del
marciapiedi anche per la porzione antistante allo stabile
condominiale e tale diritto di proprietà comprende l’onere
di effettuare le opere di manutenzione dovute e necessarie.
Non esiste quindi alcun obbligo in capo al condominio e al
suo amministratore di effettuare riparazioni o manutenzioni
per rendere sicuro o agibile il marciapiedi. Si può
affermare quindi che l’estensione del condominio arriva fino
alle proprie mura esterne (tranne che esiste un’area «di sedime» dell’edificio), e che il marciapiede antistante non
ne faccia parte.
Questa affermazione risulta cruciale, oltre che per le spese
di manutenzione già accennate, al fine di determinare chi
debba rispondere dei danni cagionati dal marciapiede.
Sul punto risulta chiara una sentenza emessa dalla IV Sez.
sez. civile del TRIBUNALE di Torino, che con
sentenza 05.12.2012 dirimeva
ogni dubbio in merito a queste problematiche.
Nel caso in oggetto un passante era scivolato sul
marciapiede a causa della neve accumulatasi, e aveva chiesto
un risarcimento al condominio antistante al camminamento.
Nell’atto di citazione la parte attrice aveva citato il
condominio, in persona del suo amministratore pro tempore,
ritenuto proprietario del marciapiede e quindi onerato dello
spargimento del sale.
La difesa del condominio era stata, principalmente, quella
di contestare la propria legittimazione a stare in giudizio.
Il legale dello stabile, infatti, aveva sottolineato come il
marciapiede fosse indiscutibilmente parte della strada e
quindi del demanio comunale. Di conseguenza, a prescindere
da eventuali ordinanze comunali di senso contrario, era lo
stesso Comune a doversi occupare della manutenzione della
carreggiata, compreso lo spargimento di sale in periodo
invernale. Il giudice ha dato ragione al condominio.
È infatti responsabile per i danni cagionati dalla cosa in
custodia colui che ha del bene la custodia, intesa come
potere di gestione. E, come chiarisce il Codice della
strada, «gli enti proprietari delle strade (...) provvedono:
a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature,
impianti e servizi» (articolo Il Sole 24 Ore del
25.08.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PATRIMONIO: Illegittimo
impedire l’ingresso dei cani nei parchi.
Sono illegittime le ordinanze urgenti
che impongano il divieto di ingresso dei cani nei parchi. E’
illegittima una ordinanza contingibile ed urgente con la
quale un Ente locale, per la tutela igienico sanitaria e/o
la prevenzione di pericoli per la pubblica incolumità,
disponga il divieto assoluto di introdurre cani in alcune
aree verdi del territorio comunale, nel caso in cui difetti
una situazione di effettiva eccezionalità ed imprevedibilità
tale da far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli
per la pubblica incolumità.
Lo ha stabilito il TAR Sardegna, Sez. I, con la
sentenza 30.11.2012 n. 1080.
E’ infatti noto, spiegano i giudici amministrativi isolani,
che il potere di emanare ordinanze di cui all’art. 50, comma
5, d.lgs. 267 del 2000 (TUEL), peraltro riservato al
Sindaco, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o
di non fare a carico dei destinatari; tuttavia, il potere
ivi previsto presuppone, da un lato, una situazione di
pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e,
dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui
non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via
ordinaria dall'ordinamento.
L'ordinanza non può, invece, essere utilizzata per
soddisfare esigenze che siano prevedibili ed ordinarie
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Il
Collegio ribadisce che l’indirizzo politico-legislativo (che
si è venuto affermando negli ultimi anni) riconosce alla
gestione del patrimonio immobiliare pubblico una
valorizzazione finalizzata all'utilizzo dei beni secondo
criteri privatistici di redditività e di convenienza
economica.
Il Comune non deve perseguire,
costantemente e necessariamente, un risultato soltanto
economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni
patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche
curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità
amministrata “l'ente locale rappresenta la propria comunità,
ne cura gli interessi, ne promuove lo sviluppo".
L'eventuale scelta di disporre di un
bene pubblico ad un canone di importo diverso da quello
corrispondente al suo valore di mercato, ad avviso della
Sezione deve avvenire a seguito di “un’attenta ponderazione
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa
esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui
però deve tenersi nella massima considerazione l’interesse
alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio
pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui
questo gode (art. 119, comma 6, Cost.)”.
Altresì, “l’interesse alla
conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio
pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione
dei principi di buon andamento e di sana gestione ed impone
all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che
consentano un equo temperamento degli interessi in gioco,
adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che
comporti il minor sacrificio possibile degli interessi
compresenti”.
Naturalmente tale valutazione comparativa tra i vari
interessi in gioco nonché della verifica della compatibilità
finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, è rimessa
esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente
apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità
della scelta, e che dovrà risultare da una chiara ed
esaustiva motivazione del provvedimento.
---------------
Il Sindaco del Comune di Treviso, con la nota
indicata in epigrafe, ha posto alla Sezione un quesito in
ordine alle modalità di determinazione del canone dei beni
demaniali e patrimoniali dell’ente locale, affidati in
gestione alle associazioni di interesse collettivo nei campi
della cultura, dello sport e del sociale (come ad esempio,
palestre, campi sportivi, edifici).
A questo riguardo il Sindaco richiama il principio,
affermato dall’art. 2, comma 4, del Decreto legislativo
28.05.2010, n. 86, di massima valorizzazione funzionale dei
beni attribuiti al patrimonio dell’ente locale, a vantaggio
diretto o indiretto della collettività, ed anche il
principio di sussidiarietà verticale, in base al quale i
cittadini, idoneamente associati, possono essere destinatari
dell’esercizio di attività pubbliche, se queste vengono
svolte in maniera più economica, efficiente ed efficace
rispetto a quanto l’ente di riferimento possa garantire.
Per questo motivo, l’ente chiede se il solo modo
legittimo di procedere, in materia di valorizzazione del
proprio patrimonio, sia quello di sfruttare il bene in base
al valore di mercato, idoneamente periziato, o se sia
possibile impostare uno sfruttamento del bene patrimoniale
non sul valore di mercato, bensì su un valore più basso, in
considerazione delle finalità sociali, senza scopo di lucro,
delle associazioni di interesse collettivo alle quali l’ente
affiderebbe la gestione dei beni pubblici.
A questo proposito, il Sindaco richiama la norma di cui
all’art. 32, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724 che
dispone che “a decorrere dal 01.01.1995, i canoni annui
per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei
comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore,
determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei
beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di
mercato, fatti salvi gli scopi sociali”.
...
Passando al merito della questione, poiché nella richiesta
in argomento viene fatto un indistinto riferimento ai beni
demaniali e patrimoniali, la Sezione ritiene opportuno
ricordare preliminarmente che tali categorie di beni,
sebbene condividano l’attitudine ad essere utilizzati per
fini di pubblico interesse, hanno in realtà un regime
giuridico diverso.
Infatti, i beni demaniali (individuabili dalla lettura
combinata degli artt. 822 e 824 c.c.) hanno come loro
naturale e necessaria destinazione l’adempimento di una
pubblica funzione e sono, pertanto, assoggettati ad una
disciplina pubblicista; quelli patrimoniali, invece, si
suddividono in due ulteriori categorie: i beni patrimoniali
indisponibili (individuati dall’art. 826, commi 2 e 3, c.c.)
che, in quanto destinati ad un pubblico servizio, sono
sottoposti anch’essi alla disciplina pubblicistica; ed i
beni patrimoniali disponibili, categoria residuale, che sono
soggetti al regime giuridico proprio dei beni di diritto
privato, dal momento che realizzano l’interesse pubblico
solo in via strumentale ed indiretta, in virtù della
destinazione data ai redditi ricavati derivante (dai frutti
naturali o civili), facendoli concorrere in questo modo al
finanziamento della spesa pubblica.
Con riferimento in particolare agli enti locali, si fa
inoltre presente che la riforma del Titolo V della
Costituzione ha riconosciuto che gli enti territoriali hanno
un proprio patrimonio (art. 119 Cost., comma 7) e non solo
il demanio e che, a seguito del c.d “federalismo
demaniale”, attuato con il D.Lgs. 85/2010, è stata
prevista l’attribuzione a titolo non oneroso, ad ogni
livello di governo, di beni statali secondo dei criteri di
territorialità, di sussidiarietà, di adeguatezza, di
semplificazione e di capacità finanziaria. Con quest’ultimo
requisito si intende la capacità finanziaria dell’ente
territoriale al quale è trasferito il bene, di garantirne le
esigenza di tutela, di gestione e di valorizzazione. Proprio
con riferimento a questi beni statali così attribuiti, il
legislatore ha specificato che l’ente dispone del bene
nell’interesse della collettività, favorendone la “massima
valorizzazione funzionale”, secondo il principio
richiamato dal Sindaco di Treviso nel quesito.
La Sezione, infine, ricorda anche quanto previsto dall’art.
58 del decreto legge 25.06.2008, convertito dalla legge
03.08.2008, n. 133, che prescrive agli enti territoriali di
procedere al riordino e valorizzazione del proprio
patrimonio immobiliare attraverso l’adozione di appositi
piani di alienazione immobiliare, che vanno allegati ai
bilanci di previsione.
Da queste premesse si deduce che le varie
forme di gestione del patrimonio introdotte di recente dal
legislatore sono tutte finalizzate alla valorizzazione
economica delle dotazioni immobiliari dei vari enti
territoriali, di volta in volta coinvolti, nel senso che le
diverse forme di utilizzazione o destinazione dei beni in
argomento devono mirare all’incremento del valore economico
delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività
finale. Si tratta, infatti, di gestire dinamicamente partite
del patrimonio immobiliare per potenziare le entrate di
natura non tributaria.
Queste osservazioni permettono al Collegio di indicare
alcuni principi rilevanti per il quesito posto dal Sindaco
di Treviso.
Infatti, l’ente, ai fini della possibilità
di concedere la disponibilità di un bene appartenente al suo
patrimonio, a delle condizioni diverse da quelle di mercato,
in considerazione delle peculiari finalità sociali
perseguite dal soggetto beneficiario (associazioni di
interesse collettivo senza fini di lucro), dovrà tener
conto, nell’ambito delle valutazioni da effettuare
nell’esercizio della sua esclusiva discrezionalità, di una
serie di principi che espongono di seguito.
Innanzitutto, indipendentemente dallo
strumento giuridico che verrà utilizzato per disporre del
bene (provvedimento amministrativo se si tratta di bene
demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile;
negozio di diritto privato se si tratta di bene patrimoniale
disponibile), l’atto di disposizione dovrà comunque tener
conto dell’obbligo di assicurare una gestione economica dei
beni pubblici, in modo da aumentarne la produttività in
termini di entrate finanziarie.
Quest’obbligo rappresenta infatti una delle
forme di attuazione da parte delle pubbliche amministrazione
del principio costituzionale di buon andamento (art. 97
Cost.) del quale l’economicità della gestione amministrativa
costituisce il più significativo corollario (art. 1, L
241/1990 e s.i.m.). Ne consegue che, da un lato, l’azione
amministrativa deve garantire livelli ottimali di
soddisfazione dell’interesse pubblico generale attraverso
l’impiego di risorse proporzionate; dall’altro, deve
conseguire il massimo valore ottenibile dall’impiego delle
risorse a disposizione.
In questo senso si è espressa anche questa
Sezione con la
delibera n. 33/2009/PAR che ha affermato,
con riferimento alla cessione gratuita di un immobile
comunale, come questa non possa considerarsi una modalità
tipica di valorizzazione del patrimonio proprio perché “non
reca alcuna entrata all’ente e costituisce un utilizzo non
coerente con le finalità del bene, ma addirittura una fonte
di depauperamento e, dunque, di danno patrimoniale per
l’ente”.
La Sezione fa anche presente che il principio generale di
redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso
ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o
addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito
mediante lo sfruttamento economico dei beni.
A questo riguardo il Collegio richiama non
solo quanto previsto dall’art. 32, comma 8, della legge
23.12.1994, n. 724
(cui si fa espresso riferimento nella richiesta di parere in
questione) in ordine alla considerazione
degli “scopi sociali” che possono giustificare un
canone inferiore a quello di mercato per la locazione di
beni del patrimonio indisponibile dei comuni, ma anche la
disposizione di cui all’art. 32 della legge 07.12.2000, n.
383 che consente agli enti locali di concedere in comodato
beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati
per fini istituzionali, alle associazioni di promozione
sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo
svolgimento delle loro attività istituzionali.
In questo caso la mancata redditività del
bene è comunque compensata dalla valorizzazione di un altro
bene ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e
fondamento nell’art. 2 della Costituzione
(in questo senso vedi anche delibera della Sezione di
controllo della Lombardia n. 349/2011).
La Sezione tuttavia ritiene rilevante evidenziare che
le predette eccezioni si giustificano alla
luce delle particolari caratteristiche che rivestono i
beneficiari di tali disposizioni sulle quali si ritiene
opportuno fare delle chiare precisazioni.
Infatti, nelle norme sopra citate si fa riferimento ad una
categoria ben individuata di soggetti, quali organizzazioni
di volontariato ed associazioni di promozione sociale (art.
32, L 383/2000), secondo la definizione contenuta nell’art.
2 della L 383/2000 che comprende “le associazioni
riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i
loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di
svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o
di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della
libertà e dignità degli associati”.
D’altra parte, anche il beneficio previsto dall'art. 32,
comma 8, della L 724/1994, limitatamente ai canoni annui dei
beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni, in
considerazione degli “scopi sociali”, va letto, ad
avviso di questo Collegio, in riferimento a quanto previsto
dal comma 3 del medesimo articolo che esclude
dall’incremento dei canoni annui dei beni patrimoniali,
questa volta dello Stato, una serie di categorie di soggetti
(vedove o persone già a carico di dipendenti pubblici
deceduti per causa di servizio, ecc.) tra le quali sono
comprese anche le associazioni e fondazioni con finalità
culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose,
senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione
sociale, con determinati requisiti.
Dalla lettura delle norme in questione, risulta pertanto
evidente che la deroga alla regola della
determinazione di canoni dei beni pubblici secondo logiche
di mercato di cui alla citata norma, appare giustificata
solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività
concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni.
A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire
che la sussistenza o meno dello scopo di
lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale
profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando
non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore,
ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali
viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene
pubblico messo a disposizione, alla stessa stregua del
parametro che viene utilizzato, ad esempio, per valutare il
carattere economico o meno dei servizi pubblici locali.
La Sezione prende atto che attualmente la tradizionale
contrapposizione tra impresa e assenza di scopo di lucro ha
assunto contorni via via più sfumati, dal momento che viene
riconosciuta la possibilità di svolgere un’attività
economica organizzata anche da parte di soggetti diversi
dall’imprenditore, purché comunque destinata al fine della
produzione o dello scambio di beni e servizi di utilità
sociale e diretta a realizzare finalità di interesse
generale. Ci si riferisce, in particolare, alla figura
dell’impresa sociale introdotta dal D.lgs. 155/2006;
tuttavia, anche in questo caso, il legislatore, oltre ad
indicare in modo tassativo i settori in cui i beni ed i
servizi prodotti o scambiati si considerano di utilità
sociale, fa dell’assenza d lucro l’elemento costitutivo
della figura (precisando, tra l’altro anche il divieto di
distribuzione, anche in forma indiretta, di utili o di
avanzi di gestione).
La Sezione precisa, inoltre, che, oltre
all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di
lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di
un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende
disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un
bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza
e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché
nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale.
La Sezione ritiene, ancora che, ove la
disposizione del bene sia attuata con un provvedimento,
la concessione ad un soggetto di un’utilità a condizioni
diverse da quelle previste dal mercato, possa essere
qualificata come “vantaggio economico” ai sensi
dell’art. 12 della legge 07.08.1990, n, 241
(vedi in questo senso la citata delibera della Sezione
Lombardia n. 349/2011). Tale norma, sotto la rubrica “Provvedimenti
attributivi di vantaggi economici”, stabilisce che “la
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili
finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono
subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da
parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste
dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui
le amministrazioni stesse devono attenersi”; poi, al
secondo comma, aggiunge che “l'effettiva osservanza dei
criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare
dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al
medesimo comma 1”.
Questa norma va letta anche con riferimento alla disciplina
introdotta di recente dall’art. 18 del decreto legge
22.06.2012, n. 183, con dalla legge 07.08.2012, n. 134, in
tema di amministrazione aperta, che disciplina in maniera
dettagliata il regime di pubblicità sulla rete internet
delle concessione di “sovvenzioni, contributi, sussidi ed
ausili finanziari alle imprese e l’attribuzione dei
corrispettivi…e comunque di vantaggi economici di qualunque
genere di cui all’articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241
ad enti pubblici e privati”; regime di pubblicità che, a
partire dal 01.01.2013, diventa una condizione legale di
efficacia, a determinate condizioni, del titolo legittimante
le concessioni stesse.
Se, invece, l’atto dispositivo è di
diritto privato, si raccomanda all’ente di garantire,
comunque, un’adeguata forma di pubblicità.
Il Comune dovrà, inoltre, redigere il relativo verbale di
consistenza dei luoghi al fine di accertare l’effettiva
consistenza dei beni, anche allo scopo della corretta
determinazione del canone dovuto. L’atto costitutivo del
diritto reale dovrà poi contenere il regime quanto più
dettagliato possibile delle rispettive obbligazioni, alla
luce dei sopra citati principi di massima valorizzazione del
bene e di trasparenza, prevedendo anche un obbligo di
rendicontazione periodica.
In conclusione, il Collegio ribadisce che
l’indirizzo politico-legislativo (che si è venuto affermando
negli ultimi anni) riconosce alla gestione del patrimonio
immobiliare pubblico una valorizzazione finalizzata
all'utilizzo dei beni secondo criteri privatistici di
redditività e di convenienza economica.
Aggiunge, tuttavia, il Collegio che il
Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente,
un risultato soltanto economico in senso stretto
nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a
fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere
lo sviluppo della comunità amministrata “l'ente locale
rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne
promuove lo sviluppo”
(art. 3, comma 2, D ).
L'eventuale scelta di disporre di un bene
pubblico ad un canone di importo diverso da quello
corrispondente al suo valore di mercato, ad avviso della
Sezione deve avvenire a seguito di “un’attenta
ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in
gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale
dell’ente, in cui però deve tenersi nella massima
considerazione l’interesse alla conservazione ed alla
corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della
tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6,
Cost.)”,
secondo il principio già affermato nella citata delibera
33/2009/PAR di questa Sezione.
Nella stessa pronuncia viene inoltre ribadito che “l’interesse
alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio
pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione
dei principi di buon andamento e di sana gestione ed impone
all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che
consentano un equo temperamento degli interessi in gioco,
adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che
comporti il minor sacrificio possibile degli interessi
compresenti”.
Naturalmente tale valutazione comparativa
tra i vari interessi in gioco nonché della verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto
dispositivo, è rimessa esclusivamente alla discrezionalità
ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la
responsabilità della scelta, e che dovrà risultare da una
chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 05.10.2012 n. 716). |
PATRIMONIO: La
proprietà delle scarpate stradali. Chi deve provvedere alla
manutenzione e come si determinano i confini.
Le scarpate stradali sono da considerarsi parti delle strade
su cui insistono, in quanto pertinenze la cui staticità
influisce sull'agibilità delle strade stesse. In tal senso,
esse possono essere paragonate ai fossi e alle banchine.
Del resto, lo stesso articolo 3, n. 10), del decreto
legislativo n. 285/1992 (Codice della strada) prevede
espressamente che in assenza di atti di acquisizione o di
fasce di esproprio di progetto, i confini stradali vadano
rinvenuti nel piede della scarpata, se la strada è in
rilevato, o nel ciglio superiore della scarpata, se la
strada è in trincea.
I soggetti onerati della manutenzione delle
scarpate.
Da quanto detto, deriva che proprietario delle scarpate e
onerato del loro mantenimento è esclusivamente l'ente
proprietario della strada. I privati proprietari dei fondi
limitrofi, invece, non hanno alcun obbligo in tal senso.
Su questi ultimi, piuttosto, ricade un obbligo manutentivo
relativamente alle ripe che sono situate nei fondi limitrofi
alle strade, ovverosia relativamente a quelle zone di
terreno immediatamente sovrastanti o sottostanti le
scarpate.
Sulla base dell'articolo 31 del Codice della strada,
infatti, i proprietari delle ripe sono chiamati a mantenerle
in una condizione tale da non rischiare di causare frane,
cedimenti o ingombri delle strade, cadute di massi o
materiali o qualsiasi ulteriore insidia atta a generare
danni.
Del resto, l'ente proprietario della strada, pur se
chiamato, ai sensi dell'articolo 14 del Codice della strada,
a provvedere alla manutenzione e alla pulizia non solo della
sede stradale in senso stretto ma anche delle sue
pertinenze, non può veder esteso il proprio obbligo di
tutela della sicurezza degli utenti della strada sino al
punto di doversi occupare della gestione anche di zone
estranee ad essa, pur se circostanti.
Il parere n. 2158/2012 del Consiglio di
Stato.
Sulla questione si sono espressi in diverse occasioni sia i
giudici di merito che i giudici di legittimità, ma una
particolare rilevanza la assume il parere n. 2158 reso dal
Consiglio di Stato in data 09.05.2012, con il quale, nel
respingere il ricorso dinanzi al Presidente della Repubblica
fatto da un privato cittadino avverso una delle numerose
ordinanze emesse dai Comuni nei confronti dei proprietari
dei fondi limitrofi alle sedi stradali, si è fatta chiarezza
circa i confini degli obblighi manutentivi dei privati
rispetto a quelli degli enti gestori delle strade.
Tale parere risulta rilevante, peraltro, anche per aver
precisato, confermando la sentenza della Cassazione n. 1730
del 25.06.2008, come per la definizione di "strada"
(e in conseguenza della scarpata) assuma rilievo la
destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico e
non la titolarità pubblica o privata della proprietà
(commento tratto da www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
Per la definizione di “strada”
assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del
codice della strada, la destinazione di una determinata
superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o
privata della proprietà.
---------------
L’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale
il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e
pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende
alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe
site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada,
devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in
modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse
a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di
sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale,
nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano
immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata
del corpo stradale.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal signor S.V. avverso l’ordinanza del Comune di
Terni concernente esecuzione di lavori su terreni confinanti
con strada pubblica;
...
Premesso:
Con ordinanza n. 13217 del 21.01.2009, il sindaco del Comune
di Terni, ai sensi degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del
2000, ha intimato a tutti i proprietari ed ai soggetti
aventi titolo sui terreni confinanti con il corpo delle
strade di pubblico transito, di tenere regolate le siepi,
togliere i rami che si protendono oltre il confine stradale,
rimuovere gli alberi che cadono sul piano stradale, non
piantare alberi, siepi, piantagioni nelle fasce di rispetto
laterali alle strade all’esterno di centri abitati
relativamente ai tratti in rettilineo o in curva, nonché
nelle aree di visibilità in corrispondenza delle
intersezioni.
L’ordinanza prevede che i suddetti lavori debbano essere
eseguiti entro il 20.05.2009, disponendo, in caso di
violazione, l’avvio di azioni di tutela ed ingerenza
straordinaria con rivalsa della spesa a carico
dell’inadempiente e con irrogazione delle sanzioni
amministrative previste dalla legge per le specifiche
violazioni accertate secondo le procedure di cui all’art.
211 del Codice della Strada, salvi gli interventi di
indifferibile urgenza.
Avverso tale ordinanza propone ricorso straordinario al Capo
dello Stato il signor S.V., proprietario di alcune
particelle di terreno prospicienti strade, chiedendone
l’annullamento per eccesso di potere per falsità dei
presupposti, travisamento dei fatti e illogicità manifesta.
In sintesi il ricorrente, premesso che le strade di
interesse sono diventate di pubblico transito raramente per
cessione volontaria ma soprattutto per acquisizione
appropriativa e/o accessione invertita, con ampliamenti non
risultanti in catasto (per cui pende causa civile attivata
dal ricorrente), ritiene che le opere imposte relativamente
alle scarpate confinanti con la strada siano di competenza
del Comune.
Ciò in quanto l’area di pertinenza sotto la responsabilità
del Comune è delimitata dal “confine stradale” inteso
come “limite del corpo stradale che contiene la sede
stradale, ovvero la carreggiata e le fasce di pertinenza
(comprese le scarpate), come afferma peraltro la stessa
ordinanza imponendo il taglio “dei rami che protendono oltre
il confine stradale”.
Doglianze queste ribadite e sviluppate con memoria aggiunta
presentata, a confutazione delle controdeduzioni del Comune,
in data 04.01.2010.
L’Amministrazione, acquisite le controdeduzioni del Comune,
che deduce preliminarmente la inammissibilità del ricorso
per difetto di concretezza dell’interesse fatto valere,
ritiene chiede conclude per la reiezione del ricorso.
Considerato:
Pur considerando che il gravame è volto avverso un atto
generale e che il ricorrente non fornisce una prova concreta
degli effetti immediati dell’atto sulla propria situazione
fattuale, ritiene la Sezione di poter considerare il ricorso
ammissibile, tenuto conto che trattasi di atto
potenzialmente in grado di incidere sui diritti e interessi
del ricorrente, in quanto proprietario di aree confinanti
con strade pubbliche.
Nel merito il ricorso è da respingere.
In ordine alle connotazione dei luoghi effettuata dal
ricorrente, va considerato come, per la definizione di “strada”,
assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del
codice della strada, la destinazione di una determinata
superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o
privata della proprietà (cfr., Cass. Sez. II, sent. 17350
del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è volta a
precisare e ad imporre gli obblighi manutentivi, ordinari e
straordinari, previsti ai fini della sicurezza, che
incombono sui proprietari e gli aventi titolo dei terreni
confinanti con il “corpo stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3, punto 10, del d.
leg.vo n. 285 del 1992 stabilisce che, “qualora non vi
siano atti di acquisizione o fasce di esproprio di progetto",
come nel suo caso, il “confine stradale” è
identificato “nel piede della scarpata se la strada è in
rilevato o dal ciglio superiore della scarpata se la strada
è in trincea”, gli obblighi manutentivi ed il taglio dei
sensi insistenti sulla strada e involgenti le scarpate non
sono legittimamente addossabili ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato, nell’imporre ai
confinanti gli obblighi ivi previsti, nel richiamare
esplicitamente la normativa vigente al riguardo, non appare
adottato in violazione della suddetta normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e l’esecuzione dei
lavori, relativamente a coloro che siano proprietari o
abbiano comunque titolo nei terreni “confinanti” con
il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della strada assegna
all’ente comunale il compito di provvedere alla
manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma
tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti,
in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle
strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada,
devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in
modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse
a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di
sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale,
nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano
immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata
del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto dall’ordinanza in
questione, diretta a soggetti responsabili di terreni
privati posti oltre il confine stradale, mentre rimangono a
carico del Comune gli interventi riguardanti le strade in
quanto tali, comprese le fasce di rispetto e le scarpate,
ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale responsabilità del
confinante che abbia illecitamente operato sulla sede
stradale medesima.
Il ricorrente, d’altra parte, non evidenzia situazioni
concrete che possono, nei suoi confronti, concretare una
illegittima applicazione dell’ordinanza in questione che, se
verificata, potrà determinare l’attuazione di specifici
rimedi contenziosi.
Né assumono consistenze le osservazioni svolte in ordine
alla procedura sanzionatoria di cui l’atto impugnato fa
ricognizione, coerente alle disposizioni normative vigenti,
mentre non assume alcun rilievo la lamentata entità delle
spese necessarie ad assicurarne l’adempimento delle
prescrizioni, in luogo di una astratta azione preventiva,
che rientra a pieno titolo nei poteri-doveri della Pubblica
Amministrazione.
Per le esposte considerazioni l’atto impugnato non è affetto
dai lamentati vizi di legittimità ed il ricorso è da
respingere
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 09.05.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Per la definizione di “strada”,
assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma
primo, del codice della strada, la
destinazione di una determinata superficie
ad uso pubblico, e non la titolarità
pubblica o privata della proprietà.
L’art. 14 del codice della strada assegna
all’ente comunale il compito di provvedere
alla manutenzione, gestione e pulizia della
sede stradale, ma tale obbligo non si
estende alle aree estranee circostanti, in
particolare alle ripe site nei fondi
laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice
della strada, devono essere mantenute dai
proprietari delle medesime in modo da
impedire e prevenire situazioni di pericolo
connesse a franamenti e cedimenti del corpo
stradale o delle opere di sostegno,
l’ingombro delle pertinenze e della sede
stradale, nonché la caduta di massi o altro
materiale, qualora siano immediatamente
sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla
strada, la scarpata del corpo stradale.
In ordine alle connotazione dei luoghi
effettuata dal ricorrente, va considerato
come, per la definizione di “strada”,
assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma
primo, del codice della strada, la
destinazione di una determinata superficie
ad uso pubblico, e non la titolarità
pubblica o privata della proprietà (cfr.,
Cass. Sez. II, sent. 17350 del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è
volta a precisare e ad imporre gli obblighi
manutentivi, ordinari e straordinari,
previsti ai fini della sicurezza, che
incombono sui proprietari e gli aventi
titolo dei terreni confinanti con il “corpo
stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3,
punto 10, del d. leg.vo n. 285 del 1992
stabilisce che, qualora non vi siano atti di
acquisizione o fasce di esproprio di
progetto, come nel suo caso, il “confine
stradale” è identificato “nel piede
della scarpata se la strada è in rilevato o
dal ciglio superiore della scarpata se la
strada è in trincea”, gli obblighi
manutentivi ed il taglio dei sensi
insistenti sulla strada e involgenti le
scarpate non sono legittimamente addossabili
ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato,
nell’imporre ai confinanti gli obblighi ivi
previsti, nel richiamare esplicitamente la
normativa vigente al riguardo, non appare
adottato in violazione della suddetta
normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e
l’esecuzione dei lavori, relativamente a
coloro che siano proprietari o abbiano
comunque titolo nei terreni “confinanti”
con il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della
strada assegna all’ente comunale il compito
di provvedere alla manutenzione, gestione e
pulizia della sede stradale, ma tale obbligo
non si estende alle aree estranee
circostanti, in particolare alle ripe site
nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice
della strada, devono essere mantenute dai
proprietari delle medesime in modo da
impedire e prevenire situazioni di pericolo
connesse a franamenti e cedimenti del corpo
stradale o delle opere di sostegno,
l’ingombro delle pertinenze e della sede
stradale, nonché la caduta di massi o altro
materiale, qualora siano immediatamente
sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla
strada, la scarpata del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto
dall’ordinanza in questione, diretta a
soggetti responsabili di terreni privati
posti oltre il confine stradale, mentre
rimangono a carico del Comune gli interventi
riguardanti le strade in quanto tali,
comprese le fasce di rispetto e le scarpate,
ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale
responsabilità del confinante che abbia
illecitamente operato sulla sede stradale
medesima (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 09.05.2012 n. 2158 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Va
condanno il dirigente dell'ufficio tecnico per non aver
tenuto gli impianti elettrici (nel caso di specie, del parco
comunale, della biblioteca e dell'archivio del Comune) in
condizioni di sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81 l'obbligo
della sicurezza grava sia sul datore di lavoro e sia sul
dirigente.
All'udienza odierna avveniva la discussione. Al termine
della stessa il PM chiedeva l'assoluzione dell'imputato per
non aver commesso il fatto; la difesa si associava.
Ritiene questo decidente che in base agli elementi acquisiti
nel corso del giudizio debba essere, invece, affermata la
penale responsabilità di L.G. per tutte e tre le
contravvenzioni allo stesso ascritte.
...
Riferisce in udienza in ordine ai fatti il tecnico Asl della
prevenzione G.D.:
- che interveniva presso il Comune di Severe nel 2008 in due
distinte occasioni per verificare la idoneità degli impianti
elettrici sotto il profilo della sicurezza;
- che, esattamente il controllo riguardava il 20.05.2008 il
Parco Comunale ed il 28.05.2008 la Biblioteca comunale (e
l'archivio comunale);
- che per il Parco Comunale esattamente le carenze rilevate
erano tre, così puntualizzate nel verbale di contestazione
delle irregolarità: "Sono rotti i morsetti di connessione
dei conduttori PE ai dispersori collocati lungo il perimetro
del campo da tennis, gli interruttori del quadro generale
non riportano chiare indicazioni dei circuiti ai quali si
riferiscono ed il dispositivo differenziale del quadro
prese, collocato all'aperto, è guasto e privo di pannello di
protezione";
- che il verbale di violazione veniva elevato nei confronti
del geom. L.G., quale responsabile del settore gestione del
territorio del Comune di Sovere;
...
Al prevenuto L. viene, invero, rimproverato -nella
contestazione che la Pubblica accusa ha elevato
elevato- di non aver tenuto gli impianti elettrici del parco
comunale, della biblioteca e dell'archivio del Comune di
Sovere in condizioni di sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81 l'obbligo
della sicurezza grava sia sul datore di lavoro e sia sul
dirigente.
...
Non vi è necessità di avere una particolare competenza per
rendersi conto che gli impianti elettrici sono in uno stato
di abbandono mancando pure i normali interventi di
manutenzione per la sostituzione, ad cs., delle luci che non
funzionano (significativamente la Asl, come visto, respinge
la richiesta di proroga del termine inerente gli adempimenti
relativi al parco comunale perché ritiene che si sia di
fronte a semplici interventi di ordinaria manutenzione).
Segue che la pratica stessa non può non avere una priorità
nella gestione (dovendo altrimenti prendersi l'iniziativa
doverosa della chiusura per motivi di sicurezza
dell'archivio, della biblioteca e del parco comunale), con
evidente stimolazione del progettista se lo stesso tarda a
fare i sopralluoghi e poi a redigere il progetto.
Non c'è traccia di un impegno simile del prevenuto. Solo
dopo i controlli della Asl lo stesso si attiva in qualche
modo.
La colpevolezza appare quindi innegabile (TRIBUNALE di
Bergamo, Sez. distaccata di Clusone,
sentenza 27.02.2012 n. 46). |
anno 2011 |
|
PATRIMONIO:
La decisione se procedere o meno alla
stipula di apposita convenzione con la locale associazione
sportiva per la gestione degli impianti sportivi di
proprietà comunale -al fine di consentire agli utenti
amministrati (giovani atleti, studenti ecc.) lo svolgimento
dì attività sportiva nel territorio comunale- attiene al
merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente,
nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità
dell’ente.
---------------
in linea generale, si ricorda che la
concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte
del patrimonio disponibile di un ente locale, va qualificata
in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” in
favore di un soggetto di diritto privato, anche se la
disciplina codicistica del negozio di comodato pone a carico
del comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in
particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che
<<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese
sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma
aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere
rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la
conservazione della cosa, se queste erano necessarie e
urgenti>>).
---------------
All’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di
settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che
ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito
di beni facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente
locale.
In particolare, <<l’ente locale
nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione
del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e
pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende
perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì
deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita
rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale
medesimo>>.
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell’ente
locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio
patrimonio disponibile e l’erogazione di contributi, purché
l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa
valutazione e comparazione degli interessi della comunità
locale, nonché previa verifica della compatibilità
finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte, la natura pubblica o
privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale
o finanziaria <<è indifferente, purché detta attribuzione
trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici
dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione
pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà
orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici
finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di
compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente),
soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la
legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990
sui principi generali procedimento amministrativo, ha
affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con
gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia
previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto
pubblico>>.
---------------
Il Sindaco del Comune di Verdello ha posto alla Sezione un
quesito del seguente tenore: <<L'amministrazione sta
valutando la possibilità di stipulare apposita convenzione
con la locale associazione sportiva per la gestione degli
impianti sportivi di proprietà comunale al fine di
consentire agli utenti amministrati (giovani atleti,
studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel
territorio comunale dato che la promozione dello sport e le
attività dì facilitazione della attività agonistica, a
livello dilettantistico, rientrano tra le finalità
istituzionali dell'ente locale>>.
In particolare, l’ente locale istante chiede di <<conoscere
se, alla luce delle recenti restrizioni legislative in tema
di riduzione dei costi della finanza pubblica:
1) il Comune possa concedere alla locale associazione
sportiva (unica presente in loco direttamente l'uso della
gestione degli impianti di proprietà comunale, degli arredi
e delle strutture dei locali senza alcun corrispettivo;
2) il Comune possa accollarsi, in tutto o in parte, gli
oneri inerenti le spese per l'energia elettrica, la
fornitura di acqua ed il riscaldamento derivanti dall'uso
dei locali da parte degli utenti, restando a carico della
associazione sportiva la gestione degli impianti e delle
strutture compresa la manutenzione ordinaria. Le tariffe per
l'utilizzo degli impianti e delle palestre, saranno
stabilite dall'amministrazione comunale mentre i proventi
derivanti dall'utilizzo o del subaffitto a terzi degli
impianti, resterebbero appannaggio della associazione
sportiva. Le spese, infine; di manutenzione straordinaria,
trattandosi di impianti di proprietà comunale, sono a carico
del Comune;
3) l'amministrazione inoltre dovrebbe accollarsi la
erogazione di un contributo annuale, a titolo di concorso
dell'ente, nelle spese per la manutenzione ordinaria degli
impianti e la gestione generale del centro sportivo;
4) il Comune possa concedere un ulteriore contributo da
finalizzare per la promozione e il sostegno delle attività e
per la promozione della pratica sportiva della popolazione e
ciò perché tali erogazioni contributive non sembrano in,
contrasto con il disposto dell'art. 12 della legge della L .
n. 241/1990, in ordine alla concessione di contributi,
atteso che la effettiva erogazione è comunque subordinata
alla stipulazione di una apposita convenzione; né sembra in
contrasto con l'art. 6, comma 9, D.L. n. 78/2010, in tema di
divieto di sponsorizzazioni, poiché l'erogazione dei
contributi di che trattasi, verrebbe concessa per promuovere
e facilitare l'accesso ai giovani della attività sportiva
dilettantistica nell'ambito delle finalità istituzionali
dell'ente>>.
...
In via preliminare la Sezione precisa che
la decisione se procedere o meno alla stipula di apposita
convenzione con la locale associazione sportiva per la
gestione degli impianti sportivi di proprietà comunale -al
fine di consentire agli utenti amministrati (giovani atleti,
studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel
territorio comunale- attiene al merito dell’azione
amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed
esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente.
Inoltre, l’ente locale istante chiede di <<conoscere se,
alla luce delle recenti restrizioni legislative in tema di
riduzione dei costi della finanza pubblica:
1) il Comune possa concedere alla locale associazione
sportiva (unica presente in loco direttamente l'uso della
gestione degli impianti di proprietà comunale, degli arredi
e delle strutture dei locali senza alcun corrispettivo.
2) il Comune possa accollarsi, in tutto o in parte, gli
oneri inerenti le spese per l'energia elettrica, la
fornitura di acqua ed il riscaldamento derivanti dall'uso
dei locali da parte degli utenti, restando a carico della
associazione sportiva la gestione degli impianti e delle
strutture compresa la manutenzione ordinaria. Le tariffe per
l'utilizzo degli impianti e delle palestre, saranno
stabilite dall'amministrazione comunale mentre i proventi
derivanti dall'utilizzo o del subaffitto a terzi degli
impianti, resterebbero appannaggio della associazione
sportiva. Le spese, infine; di manutenzione straordinaria,
trattandosi di impianti di proprietà comunale, sono a carico
del Comune.
3) L'amministrazione inoltre dovrebbe accollarsi la
erogazione di un contributo annuale, a titolo di concorso
dell'ente, nelle spese per la manutenzione ordinaria degli
impianti e la gestione generale del centro sportivo;
4) il Comune possa concedere un ulteriore contributo da
finalizzare per la promozione e il sostegno delle attività e
per la promozione della pratica sportiva della popolazione e
ciò perché tali erogazioni contributive non sembrano in,
contrasto con il disposto dell'art. 12 della legge della L.
n. 241/1990, in ordine alla concessione di contributi,
atteso che la effettiva erogazione è comunque subordinata
alla stipulazione di una apposita convenzione; né sembra in
contrasto con l'art. 6, comma 9, D.L. n. 78/2010, in tema di
divieto di sponsorizzazioni, poiché l'erogazione dei
contributi di che trattasi, verrebbe concessa per promuovere
e facilitare l'accesso ai giovani della attività sportiva
dilettantistica nell'ambito delle finalità istituzionali
dell'ente>>.
Anche con riferimento a queste specifiche richieste occorre,
preliminarmente, osservare che il quesito non investe una
questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di
esprimersi sul contenuto di specifiche clausole da inserire
nella convenzione implicante una valutazione che attiene ad
una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste
di parere devono avere rilevanza generale e non possono
essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali,
onde salvaguardare l’autonomia decisionale
dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di
indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in
quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità
amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione
amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative
opportune cautele e valutazioni che la sana gestione
richiede.
Ad ogni modo, l’ente nell’adottare il provvedimento
gestionale potrà orientare la sua decisione ai principi
generali che seguono.
Con riferimento ai punti nn. 1, 2 e 3 dell’istanza di
parere, in linea generale,
si ricorda che la concessione in uso
gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio
disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di
attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di
un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina
codicistica del negozio di comodato pone a carico del
comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in
particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che
<<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese
sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma
aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere
rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la
conservazione della cosa, se queste erano necessarie e
urgenti>>).
Ne consegue che, nel caso di specie, viene in rilievo la
disciplina generale dei provvedimenti attributivi di
vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della legge in
materia di procedimento amministrativo (L. 07.08.1990, n.
241). L’art. 12 cit., sotto la rubrica <<Provvedimenti
attributivi di vantaggi economici>>, stabilisce che <<la
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili
finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono
subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da
parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste
dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui
le amministrazioni stesse devono attenersi>>; poi, al
secondo comma, aggiunge che <<l'effettiva osservanza dei
criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare
dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al
medesimo comma 1>>.
Chiarito che il provvedimento attributivo del vantaggio
economico in favore di soggetto di diritto privato deve
essere adottato nel rispetto dei principi generali dettati
dalla l. n. 241/1990, nonché delle norme regolamentari
dell’ente locale, occorre altresì evidenziare che
all’interno dell’ordinamento generale o nella
disciplina di settore degli enti territoriali non esiste
alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione
in uso gratuito di beni facenti parte del patrimonio
disponibile dell’ente locale.
In particolare, come ha già ricordato questa Sezione, <<l’ente
locale nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla
gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e
pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende
perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì
deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita
rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale
medesimo>> (si
veda la delibera Lombardia/429/2010/PAR del 15.04.2010 con
riferimento al contratto di comodato e, più in generale, le
delibere Lombardia, 29/06/2006, n. 9, Lombardia 13/12/2007
n. 59, Lombardia 05/06/2008 n. 39 per l’erogazione di
contributi da parte degli enti locali in favore di soggetti
privati).
Dunque, rientra nella sfera della
discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di
gestione del proprio patrimonio disponibile e l’erogazione
di contributi, purché l’esercizio di detta discrezionalità
avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi
della comunità locale, nonché previa verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto
dispositivo.
D’altra parte, la natura pubblica o privata
del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale o
finanziaria <<è indifferente, purché detta attribuzione
trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici
dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione
pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà
orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici
finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di
compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente),
soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la
legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990
sui principi generali procedimento amministrativo, ha
affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con
gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia
previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico>>
(così, Lombardia/429/2010/PAR del 15.04.2010).
Con riferimento al punto n. 4 dell’istanza di parere,
inoltre, si aggiunga che alla stregua del divieto di “spese
per sponsorizzazioni” introdotto dall’art. 6, comma 9,
d.l. n. 78/2010, questa Sezione ha valorizzato una nozione
lata di sponsorizzazione di matrice giuscontabile, in
coerenza con la ratio di riduzione degli oneri a
carico delle Amministrazioni e con finalità anti-elusive.
In sede consultiva, in merito all’obbligo di riduzione della
spesa per sponsorizzazioni ex art. 61, commi 6 e 15, del
d.l. n. 112/2008, ha infatti statuito che “il
termine sponsorizzazioni .. si riferisce a tutte le forme di
contribuzione a terzi alle quali possono ricorrere gli enti
territoriali per addivenire alla realizzazione di eventi di
interesse per la collettività locale di riferimento”
(delibera n. 2/2009). Dunque, il divieto di
spese per sponsorizzazioni ai sensi dell’art. 6, comma 9,
del d.l. 31.05.2010, n. 78, presuppone anche un vaglio di
natura telelogica.
Ciò che assume rilievo per qualificare una
contribuzione comunale, a prescindere dalla sua forma, quale
spesa di sponsorizzazione del tutto interdetta dopo
l’entrata in vigore del citato decreto, è la relativa
funzione. La spesa di sponsorizzazione presuppone la
semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza del
Comune, così da promuoverne l’immagine. Non si configura,
invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di
un soggetto terzo, rientranti nei compiti del Comune,
nell’interesse della collettività anche sulla scorta dei
principi di sussidiarietà orizzontale ex art. 118 Cost.
In via puramente esemplificativa, il
divieto di spese per sponsorizzazioni non può ritenersi
operante nel caso di erogazioni ad associazioni che erogano
servizi pubblici in favore di fasce deboli della popolazione
(anziani, fanciulli, etc.), oppure a fronte di sovvenzioni a
soggetti privati a tutela di diritti costituzionalmente
riconosciuti, quali i contributi per il c.d. diritto allo
studio o contributi per manifestazioni a carattere
socio-culturale (et similia).
In sintesi, tra le molteplici forme di
sostegno all’associazionismo locale l’elemento che connota,
nell’ordinamento giuscontabile, le contribuzioni tutt’ora
ammesse (distinguendole dalle spese di sponsorizzazione
ormai vietate) è lo svolgimento da parte del privato di
un’attività propria del comune in forma sussidiaria.
L’attività, dunque, deve rientrare nelle competenze
dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da
soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto
che (direttamente) da parte di comuni e province,
rappresentando una modalità alternativa di erogazione del
servizio pubblico e non una forma di promozione
dell’immagine dell’Amministrazione.
Dunque, come ha già ricordato più volte questa Sezione, <<se
la finalità perseguita dal Comune con l’erogazione di un
contributo annuale alle Associazioni che operano sul
territorio è quella di sostenere le associazioni locale che
abbiano specifiche caratteristiche di collegamento con la
Comunità locale, risultanti sia dall’iscrizione nel Registro
locale che dallo svolgimento di attività e prestazioni in
favore della Comunità insediata sul territorio sul quale
insiste l’ente locale, si tratta di prestazione che non
rientra nella nozione di spesa per sponsorizzazione vietata
dall’art. 6, co. 9, del d.l. n. 78, conv. in l. n. 122 del
2010 e, come tale, ammissibile, nei limiti delle risorse
finanziarie dell’ente locale e nel rispetto dei vincoli di
finanza pubblica di carattere generale>>
(Lombardia/122/2011/PAR del 10.03.2011;
Lombardia/285/2011/PAR del 16.05.2011).
Tale profilo teleologico, idoneo ad
escludere la concessione di contributi dal divieto di spese
per sponsorizzazioni, deve essere palesato dall’ente locale
in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione dovrà palesare i presupposti di fatto e
l’iter logico alla base dell’erogazione a sostegno
dell’attività svolta dal destinatario del contributo
(ovvero, dovrà evidenziare che il contributo viene erogato
per finalità effettivamente legate allo sviluppo sociale),
nonché l’erogazione dovrà essere rispondente ai criteri di
efficacia, efficienza ed economicità delle modalità
prescelte di resa del servizio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.06.2011 n. 349). |
anno 2010 |
|
PATRIMONIO:
Oggetto: PIANIGA (Venezia) - Villa Calzavara Pinton -
Contratto di leasing - QUESITO (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 13.10.2010 n. 32/2010). |
PATRIMONIO:
La possibilità per l’ente locale di
stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito avente ad
oggetto un bene immobile facente parte del patrimonio
disponibile, è rimessa ad una scelta discrezionale operata
dall’Ente, non sindacabile dalla Sezione che non può
ingerirsi nelle concrete scelte amministrative
dell’Amministrazione stessa.
---------------
Il Presidente della Provincia di Lecco ha posto alla Sezione
un quesito in ordine alla compatibilità dell’istituto del
comodato ad uso gratuito, di un bene immobile facente parte
del patrimonio disponibile, con le norme relative alla
corretta gestione del patrimonio immobiliare pubblico.
In maggior dettaglio, nella richiesta di parere, l’ente
provinciale specifica che intende concedere in uso gratuito
un bene immobile -facente parte del suo patrimonio
indisponibile- in favore della Fondazione Cassa di Risparmio
delle Provincie Lombarde che persegue fini di solidarietà
sociale nell’ambito territoriale della provincia medesima;
aggiunge che l’amministrazione provinciale partecipa alla
nomina del Consiglio di amministrazione della fondazione e
che gli amministratori sono scelti da un comitato di nomina
presieduto dal Prefetto.
...
Venendo al merito della richiesta, occorre preliminarmente
osservare che il quesito non investe una questione di
rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimersi
su di una specifica fattispecie implicante una valutazione
che attiene ad una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste
di parere devono avere rilevanza generale e non possono
essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali,
onde salvaguardare l’autonomia decisionale
dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di
indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in
quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità
amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione
amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative
opportune cautele e valutazioni che la sana gestione
richiede.
Dunque, in merito al quesito posto dalla Provincia di Lecco,
l’attività consultiva di questa Sezione va limitata ai
principi che vengono in considerazione nella fattispecie
prospettata, ai quali gli organi dell’Ente, al fine di
assumere le determinazioni di loro competenza, nell’ambito
della loro discrezionalità, possono riferirsi.
Al fine di individuare la disciplina generale applicabile al
caso di specie occorre evidenziare la natura di soggetto di
diritto privato della fondazione bancaria che persegue fini
di solidarietà sociale nell’ambito territoriale della
provincia di Lecco; a prescindere dal fatto che
l’amministrazione provinciale partecipi alla nomina del
Consiglio di amministrazione della fondazione e che gli
amministratori siano scelti da un comitato di nomina
presieduto dal Prefetto.
Ne consegue che la concessione in uso
gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio
disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di
attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di
un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina
codicistica del negozio di comodato pone a carico del
comodatario le spese per l’utilizzo del bene
(in particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita
che <<il comodatario non ha diritto al rimborso delle
spese sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo
comma aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di
essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la
conservazione della cosa, se queste erano necessarie e
urgenti>>).
Ne consegue che, nel caso di specie, viene in rilievo la
disciplina generale dei provvedimenti attributivi di
vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della legge in
materia di procedimento amministrativo (L. 07.08.1990, n.
241), normativa –tra l’altro- che viene correttamente
richiamata dall’art. 7 del Regolamento della Provincia di
Lecco.
L’art. 12 della legge n. 241/1990, sotto la rubrica <<Provvedimenti
attributivi di vantaggi economici>>, stabilisce che <<la
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili
finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono
subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da
parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste
dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui
le amministrazioni stesse devono attenersi>>; poi, al
secondo comma, aggiunge che <<l'effettiva osservanza dei
criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare
dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al
medesimo comma 1>>.
Chiarito che il provvedimento attributivo
del vantaggio economico in favore di soggetto di diritto
privato deve essere adottato nel rispetto delle norme
regolamentari dell’ente locale, nonché dei principi generali
dettati dalla l. n. 241/1990, occorre altresì evidenziare
che all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina
di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma
che ponga uno specifico divieto di concessione in uso
gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio
disponibile dell’ente locale.
In maggior dettaglio, non sussiste un
divieto in ordine alla natura del bene in quanto i beni
patrimoniali disponibili sono beni che appartengono all’Ente
pubblico uti privatorum. Il bene immobile facente
parte del patrimonio disponibile dell’ente non ha una
destinazione o, comunque, un’utilità pubblica e, quindi, è
assoggettato in linea di massima alla disciplina
privatistica.
Tuttavia, l’ente locale nell’esercizio
della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio
patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le
finalità pubblicistiche che intende perseguire con la
stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì
verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle
finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo
(anche se non si riferiscono al contratto di comodato ma,
più in generale, all’erogazione di contributi in favore
degli enti locali si vedano precedenti delibere di questa
Sezione, quali Lombardia, 29/06/2006, n. 9, Lombardia
13/12/2007 n. 59, Lombardia 05/06/2008 n. 39).
Dunque, rientra nella sfera della
discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di
gestione del proprio patrimonio disponibile, purché
l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa
valutazione e comparazione degli interessi della comunità
locale, nonché previa verifica della compatibilità
finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte, la natura pubblica o privata del soggetto che
riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente, purché
detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei
fini pubblicistici dell’ente locale, posto che la stessa
amministrazione pubblica –in ragione del principio di
sussidiarietà orizzontale- opera ormai utilizzando, per
molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata. In
quest’ottica, inoltre, la legge n. 15 del 2005 che ha
novellato la legge n. 241/1990 che regola i principi
generali procedimento amministrativo, ha affermato a chiare
lettere che l’amministrazione agisce con gli strumenti del
diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di
utilizzare quelli di diritto pubblico.
In conclusione, la possibilità per l’ente
locale di stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito
avente ad oggetto un bene immobile facente parte del
patrimonio disponibile, è rimessa ad una scelta
discrezionale operata dall’Ente, non sindacabile dalla
Sezione che non può ingerirsi nelle concrete scelte
amministrative dell’Amministrazione provinciale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 17.06.2010 n. 672). |
anno 2009 |
|
PATRIMONIO: Non
risulta precluso a priori per l’amministrazione l’utilizzo
del comodato quale forma di sostegno e di contribuzione
indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse,
strumentali alla realizzazione delle proprie finalità
istituzionali.
Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta
valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco,
rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente
apprezzamento dell’ente, e che dovrà risultare da una chiara
ed esaustiva motivazione del provvedimento.
---------------
La Provincia di Verona, con nota a firma del suo Presidente,
ha formulato ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n.
131/2003 i seguenti quesiti:
1. Se l’ente, dovendo procedere alla programmazione
degli interventi di valorizzazione del patrimonio di cui
all’art. 58, comma 1, del D.L. n. 112/2008, conv. in L. n.
133/2008, possa cedere gratuitamente la proprietà di
immobili ad enti come Università o enti di ricerca, per
favorire lo svolgimento di attività di formazione o ricerca.
In particolare, l’ente chiede se il rispetto del
principio di redditività e l’interesse alla corretta
gestione del patrimonio immobiliare pubblico possano essere
considerati secondari rispetto a finalità di interesse
generale, quali quelle di permettere ad enti, come
l’Università, di disporre di un proprio patrimonio per
gestire l’attività didattica e contribuire, così, alla
crescita culturale della comunità.
A tal proposito, l’ente ricorda che l’art. 34, comma 1, del
vigente regolamento per la disciplina dei contratti
stabilisce espressamente il divieto di effettuare donazioni
di beni immobili.
2. Se, viceversa, sia da valutare più rispondente alle
regole giuscontabili procedere nella fattispecie alla
concessione gratuita degli immobili di proprietà Provinciale
tramite un contratto di comodato gratuito a tempo
determinato, che manterrebbe la proprietà degli immobili in
capo alla Provincia, trasferendo semplicemente l’uso con i
relativi oneri di manutenzione.
In questo caso, la redditività del patrimonio sarebbe
assicurata indirettamente dalle finalità perseguite e
avverrebbe nel pieno rispetto dell’art. 39 del regolamento
Provinciale dei contratti, che stabilisce che “Non è
consentito concedere beni di proprietà Provinciale in
comodato, se non in casi eccezionali o per motivi sociali o
di pubblico interesse rapportato alle funzioni Provinciali,
da indicare nel provvedimento a contrarre di cui all’art. 3.
Sono, comunque, a carico del comodatario gli esborsi che
farebbero carico al comodante per tutta la durata del
contratto, oltre che le spese occorrenti per servirsi del
bene di cui all’art. 1808, comma 1, del codice civile. Tale
somma può essere anche determinata all’atto della stipula
del contratto in modo forfetario, sulla base di apposita
stima che tiene conto degli oneri sostenuti al momento dalla
Provincia.”
...
Venendo al merito, la Sezione preliminarmente ricorda
che mentre i beni riservati e quelli
destinati all’uso pubblico consentono all’amministrazione di
perseguire direttamente i suoi fini attraverso la funzione
pubblica cui assolvono, i beni patrimoniali cd. “disponibili”
sono beni di proprietà di enti pubblici, non strumentali
all’esercizio di pubbliche funzioni, che giovano ai fini
dell’amministrazione solo indirettamente, in quanto
generalmente produttivi di reddito (derivante da frutti
naturali o civili).
In quest’ottica, la legislazione più recente, al fine di
pervenire ad una gestione efficace e redditizia del
patrimonio pubblico, ha avviato processi di graduale
dismissione e/o di valorizzazione degli immobili pubblici,
volta ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione
e fruizione pubblica del patrimonio stesso (cfr., ad es.,
art. 9 L. n. 537 del 24/12/1993, art. 12 della L. 15/05/1997
n. 127, art. 19 della L. 23/12/1998 n. 448, art. 3-bis del
D.L. n. 351/2001, conv. in L. n. 224/2001, art. 7 del d.l.
15.04.2002 n. 63 conv. in L. n. 112/2002),
non ritenendo conforme ai principi del buon andamento della
gestione pubblica mantenere beni di importante valore in uno
stato di quasi totale inutilizzabilità economica.
Importanti segnali in questo senso sono venuti anche con
l’introduzione dell’art. 2, c. 594 e seguenti, della legge
n. 244/2007, che ha previsto l’obbligo di adozione, da parte
delle amministrazioni pubbliche, di piani triennali
finalizzati alla razionalizzazione dell’utilizzo, tra
l’altro, di beni immobili ad uso abitativo o di servizio,
-con esclusione dei beni infrastrutturali-, e la
trasmissione di apposite relazioni all’organo di controllo
interno ed alla Sezione regionale della Corte dei conti
competente per territorio.
Con specifico riferimento alla realtà degli enti locali,
l’art. 58 del D.L. n. 112/2008, conv. in L. n. 133/2008, ha
imposto agli enti territoriali di redigere annualmente un
piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, da
allegare al bilancio di previsione, in cui inserire i
singoli beni immobili ricadenti nel territorio di
competenza, non ritenuti strumentali all'esercizio delle
proprie funzioni istituzionali, ed ha previsto una procedura
semplificata al fine della classificazione di tali beni come
patrimoniali disponibili –presupposto per poter essere
alienati liberamente-, nonché di variante urbanistica con
riferimento alla eventuale nuova destinazione d’uso da
imprimere.
La Provincia di Verona, dovendo procedere alla
programmazione degli interventi di valorizzazione di cui al
citato art. 58, chiede se può cedere gratuitamente la
proprietà di alcuni immobili ad Università o enti di ricerca
e se, in particolare, le finalità pubbliche di didattica, di
ricerca e di crescita culturale della collettività
amministrata possano ritenersi prevalenti rispetto ai
principi di redditività e di corretta gestione del
patrimonio pubblico.
La Sezione esprime forti perplessità in merito, sulla base
delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto, bisogna premettere che la
cessione gratuita di un immobile non rientra tra le tipiche
modalità di valorizzazione del patrimonio ipotizzate dal
legislatore, generalmente riconducibili ad ipotesi di
concessione onerosa –eventualmente nelle forme di cui
all’art. 143 del D. Lgs. n. 163/2006-, o di locazione
infracinquantennale a privati a fini di riqualificazione o
riconversione
(es., art. 1, comma 259, L. n. 296/2006), nonché ad ipotesi
di permuta (es., art. 1, comma 262, L. n. 296/2006),
o di conferimento o costituzione di fondi
comuni di investimento immobiliare
(es., art. 4 e ss. del D.L. n. 351/2001, conv. in L. n.
224/2001, art. 58 D.L. n. 112/2008).
Ciò posto, bisogna considerare che se lo
scopo del patrimonio disponibile è generalmente quello di
produrre reddito, risulta evidente che una cessione gratuita
di un immobile non solo non reca alcuna entrata all’ente, e
dunque costituisce un utilizzo non coerente con le finalità
del bene, ma addirittura può risultare fonte di
depauperamento –e dunque di danno- patrimoniale per l’ente,
che è invece tenuto ad improntare la gestione del proprio
patrimonio a criteri di economicità ed efficienza, e a
scegliere la soluzione che ottimizzi al massimo i costi di
gestione in relazione anche alle finalità cui il patrimonio
è adibito.
Ed invero, pur volendo prescindere da ragionamenti
aprioristici, non può tuttavia negarsi che
un’eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito
dovrebbe avvenire a seguito di un’attenta ponderazione
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa
esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui,
però, deve tenersi nella massima considerazione l’interesse
alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio
pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui
questo gode (art. 119, comma 6 novellato), e della sempre
crescente attenzione postavi dal legislatore in occasione di
alcune recenti normative di settore (tra cui, appunto,
l’art. 58 del D.L. n. 112/2008).
L’interesse alla conservazione e alla
corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerare
primario anche perché espressione dei principi di buon
andamento e di sana gestione, ed impone all’ente di
ricercare tutte le alternative possibili che consentano un
equo contemperamento degli interessi in gioco, adottando la
soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor
sacrificio possibile per gli interessi compresenti.
Il rischio di depauperamento patrimoniale per l’ente
potrebbe peraltro assumere connotazioni ancora più
problematiche qualora l’Università dovesse, nella propria
autonomia, deliberare la trasformazione in fondazione di
diritto privato, avvalendosi della facoltà riservatale
dall’art. 16 del D.L. n. 112/2008 conv. in L. n. 133/2008.
In ogni caso, nella fattispecie l’amministrazione ha già
ritenuto a priori che l’interesse all’integrità del
patrimonio provinciale sia imprescindibile, e dunque
prevalente rispetto a qualsiasi ulteriore interesse pubblico
da realizzare, visto che la donazione di immobili è
espressamente vietata dall’art. 34 del regolamento dei
contratti dell’ente.
Con riferimento al secondo quesito, si rileva che
anche il comodato (art. 1803 – 1812 c.c.), in quanto
contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo
infruttifera, e dunque non in linea con la tradizionale
redditività dei beni patrimoniali disponibili.
E’ per questo motivo che lo stesso regolamento provinciale
dei contratti all’art. 39 stabilisce la regola generale che
“non è consentito concedere beni di proprietà Provinciale
in comodato”. In questo caso, però, non vi è un
definitivo depauperamento da parte dell’ente, in quanto
questo concede semplicemente in uso un bene, di cui può
rientrare in possesso alla scadenza del termine, o
addirittura immediatamente in caso di urgente ed imprevisto
bisogno (art. 1809 c. 2 c.c.).
In questo senso si giustificano le aperture da parte del
regolamento provinciale, che ammette la possibilità di
ricorrere a tale istituto qualora ricorrano casi
eccezionali, o qualora sussistano motivi sociali o di
pubblico interesse rapportati alle funzioni provinciali.
Non risulta, dunque, precluso a priori per
l’amministrazione l’utilizzo del comodato quale forma di
sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di
attività di pubblico interesse, strumentali alla
realizzazione delle proprie finalità istituzionali. Ciò
potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione
comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa
esclusivamente alla discrezionalità e al prudente
apprezzamento dell’ente, e che dovrà risultare da una chiara
ed esaustiva motivazione del provvedimento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 24.04.2009 n. 33). |
anno 2008 |
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PATRIMONIO:
Dalla sussistenza o meno della
pubblica fruizione delle strade "vicinali" discende
l’obbligo o meno per il comune di compartecipazione alle
spese: per le strade vicinali di uso pubblico, il comune è
tenuto (art. 3 del
D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446)
a concorrere alle spese di
manutenzione, sistemazione e ricostruzione in misura
variabile da un quinto sino alla metà della spesa, a seconda
della loro importanza, mentre per le altre il concorso del
comune è facoltativo, e può essere concesso a fini diversi
dalla manutenzione e in misura non eccedente il quinto della
spesa.
Tali limiti di compartecipazione
sono inderogabili, in quanto il legislatore con tale
disciplina, tenendo conto dello speciale regime giuridico di
tali strade, ha già contemperato a monte gli interessi
pubblici e privati in gioco, demandando ai comuni solo la
possibilità di scegliere in concreto l’ammontare della
contribuzione all’interno dei limiti minimi e massimi
consentiti.
Tale scelta, corredata da esaustiva
motivazione anche in relazione al grado di fruizione
pubblica della strada oggetto di intervento, dovrà
ovviamente seguire criteri di trasparenza, parità di
trattamento, economicità e razionalità di gestione, e dovrà
tener conto anche delle disponibilità finanziarie
complessive dell’ente.
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Nel caso in esame, il sindaco del comune di Pozzonovo (PD)
ha richiesto un parere ai sensi dell’art. 7, comma 8,
della L. n. 131/2003 in ordine alla possibilità per il
comune di farsi integralmente carico degli oneri di
sistemazione delle strade vicinali, presenti in gran numero
nel territorio comunale ed in cattivo stato manutentivo, in
ragione della notevole importanza che esse assumono nel
contesto della viabilità urbana.
Gli uffici comunali hanno sollevato perplessità di ordine
giuridico in merito a tale possibilità -essendo l’entità
massima del concorso del comune a tali spese fissata
dall’art. 3 del D.L.Lgt 1/9/1918 n. 1446-, e hanno paventato
il rischio per l’ente di incorrere in responsabilità
amministrativa.
A sostegno della legittimità della contribuzione integrale
da parte dell’ente, il sindaco invoca il fatto che tali
strade hanno perso da decenni il loro carattere rurale e
sono ormai entrate a far parte a tutti gli effetti della
viabilità pubblica, nonostante l’area di sedime stradale sia
rimasta privata.
...
Ciò premesso, e venendo al merito, il Collegio rileva che
le strade vicinali in questione, a differenza delle strade
comunali, non appartengono al demanio dell’ente (le relative
aree di sedime stradale sono infatti di proprietà dei
privati frontisti).
Nei confronti di tali strade,
tuttavia, il comune può essere titolare di un diritto reale
di uso pubblico (che si inquadrerebbe tra i diritti
demaniali su beni altrui di cui all’art. 825 del codice
civile), per il cui riconoscimento, secondo la
giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass. Civ., sez. II, sent.
n. 3108 del 19.05.1984) devono concorrere una serie di
requisiti: il passaggio abituale (cioè non occasionale o
sporadico) esercitato da una collettività di persone
qualificate dalla appartenenza ad un gruppo territoriale, la
concreta idoneità delle strade a soddisfare esigenze di
pubblico interesse (per esempio, il collegamento con la via
pubblica o il loro collegamento con edifici di interesse
collettivo, quali chiese o edifici pubblici), e l’esistenza
di un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto
in questione, che può consistere in un provvedimento della
Pubblica Amministrazione, in un atto spontaneo dei privati
di messa a disposizione del bene ("dicatio ad patriam"),
in una convenzione, nell'usucapione o nell'uso "ab
immemorabili". Non sono sufficienti a tal fine
l’iscrizione della strada nell’elenco delle strade vicinali
e la mancanza di un provvedimento comunale di declassamento
(Cfr. TAR Campania, sent. 29/06/2006 n. 721 e TAR Sardegna,
sent. 07/08/2006 n. 1599).
Le strade vicinali, soprattutto se
di uso pubblico, pur appartenendo alla viabilità rurale
minore, assolvono ugualmente ad una funzione di ausilio alla
viabilità locale, ed è per questo motivo che ai fini del
codice della strada
(art. 2, comma 6, lett. D, del D.Lgs. n. 285/1992)
sono assimilate alle strade comunali
e soggette (art.
14, comma 4, CDS)
ad una serie di funzioni da parte
dei comuni (controllo tecnico dell'efficienza delle strade e
relative pertinenze, apposizione e manutenzione della
segnaletica stradale, servizi di polizia stradale, ecc.),
tipiche degli enti proprietari.
Tra questi compiti vi è anche quello
di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione,
e di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle
strade e delle pertinenze
(art. 14, c. 1, CDS).
I comuni, tuttavia, sono chiamati ad assolvere a tali
obblighi di manutenzione solo in caso di inadempimento da
parte dei soggetti a ciò tenuti, -ossia i consorzi per la
manutenzione delle strade vicinali, da costituirsi con la
procedura di cui all’art. 2 del D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446-,
o qualora si tratti di interventi urgenti. Da ciò, dunque,
l’obbligo di recuperare le somme di altrui spettanza
eventualmente anticipate.
I consorzi in questione (in cui il Comune è rappresentato
con voto proporzionale alla misura del concorso alle spese),
sulla base di quanto dispone l’art. 14 della L. n.
12.02.1958 n. 126, sono obbligatori per quanto concerne
le strade vicinali di uso pubblico (infatti, il comune
può anche promuoverne d’ufficio la costituzione), mentre
sono facoltativi, a mente dell’art. 1 e 3, c. 2, del
D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446, per le strade vicinali non
soggette a tale uso.
Dalla sussistenza o meno della
pubblica fruizione discende anche l’obbligo o meno per il
comune di compartecipazione alle spese: per le strade
vicinali di uso pubblico, il comune è tenuto
(art. 3 del D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446)
a concorrere alle spese di
manutenzione, sistemazione e ricostruzione in misura
variabile da un quinto sino alla metà della spesa, a seconda
della loro importanza, mentre per le altre il concorso del
comune è facoltativo, e può essere concesso a fini diversi
dalla manutenzione e in misura non eccedente il quinto della
spesa.
Tali limiti di compartecipazione
sono inderogabili, in quanto il legislatore con tale
disciplina, tenendo conto dello speciale regime giuridico di
tali strade, ha già contemperato a monte gli interessi
pubblici e privati in gioco, demandando ai comuni solo la
possibilità di scegliere in concreto l’ammontare della
contribuzione all’interno dei limiti minimi e massimi
consentiti.
Tale scelta, corredata da esaustiva
motivazione anche in relazione al grado di fruizione
pubblica della strada oggetto di intervento, dovrà
ovviamente seguire criteri di trasparenza, parità di
trattamento, economicità e razionalità di gestione, e dovrà
tener conto anche delle disponibilità finanziarie
complessive dell’ente
(Corte
dei Conti, Sez. regionale di controllo
Veneto,
parere 07.11.2008 n. 140). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 07.07.2008, "Applicazione
dell'art. 21 «Viabilità agro-silvo-pastorale, gru a cavo e fili a
sbalzo» della l.r. 28.10.2004, n. 27 e della «Direttiva relativa
alla viabilità locale di servizio all'attività agro-silvo-pastorale» ai
sensi della delibera di Giunta regionale n. 14016 dell'08.08.2003
con particolare riguardo agli aspetti legati alla regolamentazione e
alla chiusura" (circolare
regionale 01.07.2008 n. 11). |
anno 2003 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 35 del 29.08.2003, "Direttiva
relativa alla viabilità locale di servizio all’attività
agro-silvo-pastorale" (deliberazione
G.R. 08.08.2003 n. 14016). |
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