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62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
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66-L.R. 23/1997
67-L.R. 31/2014
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69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
74-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
87
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
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90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
98-
RUMORE
99-SAGOMA EDIFICIO
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dossier PATRIMONIO
novembre 2023

EDILIZIA PRIVATA: Rimozione cancello – Chiusura area demaniale – Ordinanza ripristino stato dei luoghi – Ordinanza di rimozione – Piano alienazioni Comune – Classificazione immobile – Patrimonio disponibile comunale – Illegittimità ordinanza demolizione – Tipicità e nominatività provvedimenti amministrativi – Violazione art. 823, secondo comma, c.c.
Deve considerarsi illegittima l’ordinanza comunale mediante la quale si dispone l’immediata rimozione di un cancello installato su un terreno comunale, nel caso in cui si tratti di immobile appartenente al patrimonio disponibile dell’Ente locale.
Il potere di autotutela esecutiva, infatti, non può essere esercitato dalla pubblica amministrazione per la difesa dei beni rientranti nel patrimonio disponibile, per i quali la stessa dovrà avvalersi delle ordinarie azioni attribuite dall’ordinamento civilistico per la tutela della proprietà e del possesso(1).

---------------
   (1) In tal senso si v. TAR Campania–Salerno, sez. III, sent. 21.02.2022, n. 524
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.11.2023 n. 1399 - link a www.ambientediritto.it).
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... per l’annullamento
   – dell’ordinanza del responsabile del Settore 5 del Comune di Casali del Manco del 12.12.2022, n. 89, avente ad oggetto “Rimozione cancello su porzione di reliquato di terreno di proprietà comunale adiacente la particella 270, foglio 2, sezione B, limitrofo la piazzetta Yuri Gagarin in località Pedace”;
   – dell’ordinanza del responsabile del Settore 5 del Comune di Casali del Manco del 15.12.2022, n. 90, avente ad oggetto “Rimozione cancello su porzione di reliquato di terreno di proprietà comunale adiacente la particella 270, foglio 2, sezione B, limitrofo la piazzetta Yuri Gagarin in località Pedace – modifica ordinanza n. 89/2022”;
...
1. I ricorrenti impugnano le ordinanze n. 89 del 12.12.2022 e n. 90 del 15.12.2022, notificate rispettivamente in data 12 e 16.12.2022, con le quali il comune di Casali del Manco aveva ordinato il ripristino dello stato dei luoghi mediante rimozione di un cancello in ferro posizionato in adiacenza alla particella 270 del foglio 2 sezione B, posto a chiusura di area demaniale.
2. Con la prima ordinanza, notificata ai signori De Lu.Sa. e Le.Fr., il comune resistente ordinava agli stessi di effettuare la suddetta rimozione, assegnando allo scopo il termine di cinque giorni. Quindi, a seguito di diffida inoltrata in data 14.12.2022 da parte dei signori De Lu., che contestavano la non congruità del termine di cinque giorni loro assegnato per adempiere, l’amministrazione comunale emanava l’ordinanza n. 90 del 15.12.2022 con la quale, richiamato il precedente provvedimento, assegnava il corretto termine di novanta giorni per porre in essere il comportamento esecutivo imposto.
Come emerge dal testo della prima ordinanza, presupposto per l’emanazione della stessa erano la nota prot. n. 17138 del 16.11.2022, con la quale il Comune intimato sollecitava i signori De Lu. a rimuovere sia il cancello posto a chiusura di area demaniale sia il legname posto all’interno di detta area, ed il successivo sopralluogo, dal quale era emerso che non risultava effettuata la rimozione del cancello.
3. I signori De Lu. insorgevano avverso le due descritte ordinanze, presentando tempestivo ricorso notificato al comune di Casali del Manco, nonché al comando stazione Carabinieri di Casali del Manco ed al comando provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Cosenza.
I ricorrenti premettevano che la loro famiglia risulta proprietaria da oltre settanta anni degli immobili censiti al foglio 2, particelle 919 e 270 del catasto fabbricati dell’ex comune di Pedace, attualmente divenuto comune di Casali del Manco, con adiacente porzione di terreno di circa 30 mq, che risulta chiusa da tempo immemorabile da un cancello, e che sussistono vari errori ed imprecisioni nelle mappe catastali, le quali riportano come esistenti immobili demoliti nel corso del tempo, alcuni dei quali ricostruiti con variazioni ed ampliamenti anche notevoli.
Premettevano inoltre i ricorrenti che il comune intimato aveva adottato la deliberazione consiliare n. 12 del 24.06.2021, concernente l’approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare comunale per gli anni 2021/2023, inserendo nel detto piano, fra l’altro, l’area di cui al reliquato adiacente la particella 909 e denominata «Reliquato di terreno Comune di Pedace – C.so Garibaldini», area di cui i ricorrenti si affermano proprietari, con la precisazione che per tale motivo avevano convenuto il comune di Casali del Manco avanti il Tribunale di Cosenza al fine di conseguire l’accertamento e la dichiarazione degli esatti confini fra i due fondi ovvero, in subordine, l’accertamento dell’intervenuta usucapione dell’area in loro favore.
Tanto premesso, con l’unico motivo di impugnazione i ricorrenti censuravano le due ricordate ordinanze deducendo la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267 del 2000, dell’art. 58, comma 2, d.l. n. 112 del 2008 (convertito in legge n. 133 del 2008), e degli artt. 822 e segg. c.c., nonché sostenendo un eccesso di potere per sviamento, per travisamento dei fatti e/o dei presupposti, per contraddittorietà, per illogicità.
In particolare, dopo avere premesso che i comuni possono emettere ordinanze di ripristino ex art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267 del 2000 soltanto per la tutela di beni demaniali o patrimoniali indisponibili, dovendo altrimenti avvalersi delle normali azioni civilistiche per il recupero della disponibilità del bene, i ricorrenti osservavano che il comune intimato non poteva emettere una ordinanza di ripristino per l’area de qua agitur per mancanza del carattere di demanialità della stessa, in considerazione del fatto che, a seguito della ricordata deliberazione di consiglio comunale n. 12 del 24.06.2021, e per effetto del disposto dell’art. 58, comma 2, d.l. n. 112 del 2008, detta area risultava passata dal demanio al patrimonio disponibile dell’ente.
Pertanto, l’adozione dell’ordinanza di ripristino impugnata, e della successiva ordinanza di correzione del termine assegnato per adempiere spontaneamente, concretava violazione sia dell’art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267 del 2000, sia dell’art. 58, comma 2, d.l. n. 112 del 2008. Inoltre, il fatto di avere qualificato come demaniale il bene oggetto dell’ordinanza di ripristino determinava altresì un eccesso di potere per sviamento.
A sostegno del fatto che lo stesso comune intimato avrebbe da sempre riconosciuto la titolarità in capo ad essi del diritto dominicale, i ricorrenti producevano il permesso di costruire in sanatoria emesso in data 22.12.2011 in favore della sig.ra An.Ca., loro dante causa a titolo universale, permesso relativo all’immobile censito al foglio 2, particella n. 919, nonché la c.i.l.a. n. 09/2020 del 15.05.2020, relativa al medesimo immobile.
4. I ricorrenti presentavano, unitamente alla domanda di annullamento dei provvedimenti de quibus, anche istanza di tutela cautelare, deducendo che il cancello di cui era ordinata la rimozione sarebbe sempre aperto nelle ore diurne, restando viceversa chiuso nelle sole ore notturne per motivi di sicurezza, ma che per i momenti di chiusura avevano fornito al comune la relativa combinazione automatica per l’apertura.
Sotto altro profilo, deducevano i ricorrenti che la rimozione del predetto cancello arrecherebbe un grave pregiudizio nei loro confronti, sia sotto il profilo economico per i costi sostenuti per la sua installazione, sia sotto il profilo della sicurezza.
5. Il Tribunale adito prima disponeva con decreto cautelare la sospensione dell’efficacia dei provvedimenti impugnati, e poi, all’esito della camera di consiglio del giorno 22.03.2023, confermava la sospensione con ordinanza collegiale.
Nello specifico, la Sezione riteneva che il ricorso fosse assistito dal requisito della verosimile fondatezza, con particolare riferimento al dedotto vizio di eccesso di potere, non sembrando adeguatamente valutata la sussistenza dei presupposti per l’emissione delle ordinanze di demolizione, con particolare riferimento alla titolarità (pubblica o privata) e all’eventuale qualità (demaniale o patrimoniale disponibile) dell’area interclusa dal cancello.
Inoltre, la Sezione riteneva prevalente, nel bilanciamento degli interessi coinvolti, quello della sicurezza dei ricorrenti, tutelata dalla presenza del cancello.
...
7. Il ricorso risulta fondato nei termini che seguono, e deve quindi trovare accoglimento.
...
8. Dichiarata la tardiva produzione delle difese del comune intimato, e quindi la loro inutilizzabilità processuale, va condivisa la censura di illegittimità dei provvedimenti impugnati dedotta da parte ricorrente.
Va rilevato che, per effetto di quanto deciso con la deliberazione consiliare n. 12 del 24.06.2021 del comune di Casali del Manco, concernente il piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare comunale per gli anni 2021/2023, l’immobile denominato «Reliquato di terreno Comune di Pedace – C.so Garibaldini» risultava inserito nel piano delle alienazioni del predetto ente. Occorre inoltre evidenziare che, per effetto dell’art. 58, comma 2, d.l. n. 112 del 2008, l’inserimento di un immobile nel predetto piano ne determina la conseguente classificazione come bene appartenente al patrimonio disponibile.
In conseguenza di quanto statuito con la ricordata deliberazione consiliare, e per effetto del richiamato dettato normativo, l’immobile denominato «Reliquato di terreno Comune di Pedace – C.so Garibaldini», oggetto delle impugnate ordinanze, appartiene al patrimonio disponibile del comune di Casali del Manco.
Attesa la suvvista qualificazione giuridica, il comune intimato non poteva emettere l’ordinanza di rimozione n. 89 del 12.12.2022 (e la successiva ordinanza n. 90 del 15.12.2022 di correzione della precedente), in quanto detto provvedimento, espressione dell’autotutela esecutiva della pubblica amministrazione, può essere legittimamente emesso soltanto per la tutela di beni ricadenti nell’ambito del demanio ovvero del patrimonio indisponibile comunale.
Come affermato in giurisprudenza, il potere di autotutela esecutiva non può essere esercitato dalla pubblica amministrazione per la difesa dei beni rientranti nel patrimonio disponibile, per i quali la stessa dovrà avvalersi delle ordinarie azioni attribuite dall’ordinamento civilistico per la tutela della proprietà e del possesso (così TAR Campania–Salerno, sez. III, sent. 21.02.2022 n. 524).
L’adozione delle ricordate ordinanze è quindi avvenuta in violazione del disposto dell’art. 823, secondo comma, c.c., nonché in violazione dei princìpi di tipicità e di nominatività dei provvedimenti amministrativi, corollari del principio di legalità, in base ai quali il provvedimento amministrativo, mediante il quale la pubblica amministrazione esercita un determinato potere, deve essere identificato dalla norma di legge che prevede quel potere.
Alla pubblica amministrazione risultano conferiti poteri tipici, ognuno dei quali risponde ad una funzione specifica, con la conseguenza che essa può adottare esclusivamente gli atti previsti dalle norme.
E nel caso de quo agitur, il potere di autotutela esecutiva, ed i provvedimenti che ne rappresentano attuazione, non possono essere esercitati ed adottati, avendo detti atti ad oggetto un bene patrimoniale disponibile, cioè un bene non contemplato dal legislatore per l’esercizio di quel potere e per l’emanazione di dette ordinanze.
9. Sulla base di quanto esposto, il ricorso proposto dai signori De L. merita accoglimento e, per l’effetto, devono essere annullate le descritte ordinanze n. 89 del 12.12.2022 e n. 90 del 15.12.2022 del comune di Casali del Manco.

novembre 2021

PATRIMONIOConcessioni demaniali marittime, disciplina UE, non-applicazione della norma interna, autotutela e obbligo di gara. La sentenza dell’Adunanza plenaria.
L’Adunanza plenaria fa chiarezza sulla (non) conformità all’ordinamento UE e, segnatamente, alla direttiva n. 2006/123/CE, della disciplina nazionale che ha disposto nel 2018 la proroga delle concessioni demaniali marittime fino al 2033.
L’articolata pronuncia, la quale ripercorre l’assetto normativo e giurisprudenziale in materia, con specifico riferimento all’obbligo di non applicazione delle norme incompatibili con l’ordinamento europeo anche da parte delle pubbliche amministrazioni, ha approfondito questioni di ordine sostanziale (in tema di valore provvedimentale o meno degli atti applicativi di una norma da disapplicare) e processuale (differimento degli effetti della decisione), di particolare rilevanza.
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Beni pubblici – Demanio marittimo – Concessioni – Finalità turistico-ricreative – Disciplina nazionale – Proroghe o rinnovi automatici – Illegittimità
   Beni pubblici – Demanio marittimo – Concessioni – Finalità turistico-ricreative – Proroghe e giudicato favorevole – Prosecuzione del rapporto in capo agli attuali titolari – Esclusione
  
Beni pubblici – Demanio marittimo – Concessioni – Finalità turistico-ricreative – Proroghe e giudicato favorevole – Rapporto in capo agli attuali titolari – Efficacia fino al 31.12.2023
L’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
   a) Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative –compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34 del 2020, convertito in l. n. 77 del 2020– sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione (1).
   b) Ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. (e anche nei casi in cui tali siano stati rilasciati in seguito a un giudicato favorevole o abbiamo comunque formato oggetto di un giudicato favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata. La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata, infatti, anche il giudicato è comunque esposto all’incidenza delle sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto (2).
   c) Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31.12.2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’UE (3).

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   (1-2-3) I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, resa a margine di una vicenda contenziosa riguardante il diniego, opposto da un Comune, di proroga della concessione demaniale marittima ex l. n. 145 del 2018, ha enunciato i principi di diritto di cui in massima a seguito di deferimento, ex art. 99, comma 2, c.p.a., disposto con decreto del Presidente del Consiglio di Stato 24.05.2021, n. 160 (oggetto della News US in data 23.06.2021).
Detto deferimento muoveva dalla particolare rilevanza economico-sociale delle questioni, onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate e uniformità di orientamenti giurisprudenziali.
La decisione in rassegna è coeva alla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 09.11.2021, n. 17, resa in un parallelo giudizio d’appello, inerente a sentenza di primo grado recante diverse statuizioni.
Il deferimento era diretto a verificare i poteri e i doveri dei giudici e dell’Amministrazione, in tutte le sue articolazioni, a fronte di leggi statali e regionali in contrasto con la normativa europea, con particolare riferimento all’applicabilità o meno della moratoria prevista dall’art. 182, comma 2, d.l. 19.05.2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17.07.2020, n. 77, alle aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell’art. 1, commi 682 ss., della l. 30.12.2018, n. 145.
   II. – L’iter procedimentale e contenzioso che ha condotto alla controversia dinanzi al giudice d’appello si è così articolato:
      a) la parte ricorrente in primo grado, titolare di concessione demaniale marittima, esercita l’attività di stabilimento balneare e, in vista della scadenza del titolo concessorio alla data del 31.12.2020, ha proposto istanza al Comune competente al fine di conseguire la proroga fino al 31.12.2033 ex art. 1, comma 682, della l. n. 145 del 2018;
      b) il Comune ha deliberato di esprimere diniego sull’istanza di proroga di cui alla l. n. 145 del 2018 e di rivolgere formale interpello al concessionario al fine di conoscere se lo stesso intendesse avvalersi della facoltà di prosecuzione dell’attività ex art. 182 del d.l. n. 34 del 2020, convertito con l. n. 77 del 2020, con contestuale pagamento del canone per l’anno 2021 ovvero, in via alternativa, di non avvalersi di tale facoltà e di accettare una proroga tecnica della concessione per la durata di anni tre;
      c) successivamente sono intervenuti i provvedimenti dirigenziali di rigetto dell’istanza di proroga e della correlata successiva istanza di annullamento in autotutela;
      d) l’operatore economico, non avendo espresso preferenza per alcuna delle due opzioni offerte dal comune e ritenendo di avere diritto alla proroga della concessione fino al 2033, ha impugnato, con richiesta di annullamento, il diniego nonché i provvedimenti dirigenziali conseguenti, chiedendo, ad un tempo, l’accertamento del diritto al conseguimento della proroga del titolo;
      e) il ricorso è stato, in parte qua, accolto con sentenza del Tar per la Puglia, sez. st. Lecce, sez. I, 15.01.2021, n. 73, con conseguente caducazione degli atti impugnati;
      f) avverso la predetta sentenza è stato interposto appello dalla parte pubblica e, in seno al relativo giudizio, si è innestata la pronuncia della Plenaria in rassegna.
Il parallelo giudizio definito con la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 17 del 2021, cit., muoveva –come si è anticipato– da una statuizione di rigetto del ricorso di primo grado (contenuta nella sentenza Tar per la Sicilia, sez. st. Catania, sez. III, 15.02.2021, n. 504), proposto avverso il provvedimento con il quale l’Amministrazione aveva rigettato l’istanza dell’operatore economico privato volta ad ottenere l’estensione della validità della concessione demaniale marittima, ai sensi della l. n. 145 del 2018.
   III. – Il percorso argomentativo seguito dall’Adunanza plenaria, che ha ricostruito l’assetto ordinamentale ed interpretativo sul tema, è così articolato:
      g) sul versante –strettamente processuale– dell’ammissibilità degli interventi nel giudizio di primo grado:
         g1) non è sufficiente a consentire l’intervento la sola circostanza che l’interventore sia parte di un (altro) giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella oggetto del giudizio nel quale intende intervenire;
         g2) osta al riconoscimento di una situazione che lo legittimi a intervenire l’obiettiva diversità di petitum e di causa petendi che distingue i due processi, sì da non potersi configurare in capo al richiedente uno specifico interesse all’intervento nel giudizio ad quem;
         g3) al contrario, laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui l’intervento si riferisce;
         g4) non a caso, in base a un orientamento del tutto consolidato, nel processo amministrativo l’intervento ad adiuvandum o ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale (v. ex plurimis, sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, n. 853, in Vita not., 2016, 217);
         g5) va ricordato, come ha già chiarito da Cons. Stato, Ad. plen., 04.11.2016, n. 23 (in Guida al dir., 2017, 2, 50, con nota di PONTE; Urbanistica e appalti, 2017, 410, con nota di FIGUERA e oggetto della News US in data 10.11.2016), che risulterebbe peraltro sistematicamente incongruo ammettere l’intervento volontario in ipotesi, come quella qui esaminata, che si risolvessero nel demandare ad un giudice diverso da quello naturale (art. 25, comma primo, Cost.) il compito di verificare in concreto l’effettività dell’interesse all’intervento (e, con essa, la concreta rilevanza della questione ai fini della definizione del giudizio a quo);
      g6) considerazioni in parte analoghe valgono per l’intervento spiegato dalle associazioni di categoria sul rilievo che:
I) nel processo amministrativo la legittimazione attiva (e, dunque, l’intervento in giudizio) di associazioni rappresentative di interessi collettivi obbedisce a regole stringenti, essendo necessario che la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell’associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale, e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati;
II) resta quindi preclusa ogni iniziativa giurisdizionale che non si riverberi sugli interessi istituzionalmente perseguiti dall’associazione, sorretta dal solo interesse al corretto esercizio dei poteri amministrativi o per mere finalità di giustizia, finalizzate esclusivamente alla tutela di singoli iscritti, atteso che l’interesse collettivo dell’associazione deve identificarsi con l’interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non con la mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati;
III) per autorizzare l’intervento di un’associazione esponenziale di interessi collettivi occorre, quindi, un interesse concreto ed attuale (imputabile alla stessa associazione) alla rimozione degli effetti pregiudizievoli prodotti dal provvedimento controverso;
IV) né, per le ragioni già esposte, a giustificare l’intervento può rilevare la circostanza che la risoluzione delle questioni di diritto sottese al caso del singolo associato possa avere una rilevanza anche sulla posizione di altri concessionari: non può ritenersi sufficiente a radicare la legittimazione all’intervento la necessità di sostenere una tesi di diritto e, quindi, la mera ed astratta finalità di giustizia (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9, in Foro it., 2016, III, 65; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365, con nota di GALLI, CAVINA; Nuovo dir. amm., 2016, 3, 53, con nota di NARDOCCI);
      h) sul rapporto tra disciplina nazionale e disciplina UE in tema di rilascio e rinnovo delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative:
         h1) la questione è stata già in gran parte scandagliata dalla sentenza Corte di giustizia UE, sez. V, 14.07.2016, C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa (in Urbanistica e appalti, 2016, 1211, con nota di BOSCOLO; Riv. regolazione mercati, 2016, 2, 160, con nota di SQUAZZONI; Riv. regolazione mercati, 2016, 2, 182, con nota di SANCHINI; Dir. trasporti, 2017, 519, con nota di ANCIS; Riv. dir. navigaz., 2017, 213, con nota di LIBERATOSCIOLI; Dir. maritt., 2017, 714, con nota di MOZZATI, VERMIGLIO; Giornale dir. amm., 2017, 60, con nota di BELLITTI; Riv. it. dir. turismo, 2016, 17, 41, con nota di NICOTERA; Riv. it. dir. turismo, 2018, 45, con nota di PRADA) la quale ha affermato, in sintesi, i seguenti principi:
I) l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva n. 2006/123/CE deve essere interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati;
II) l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico-ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo;
         h2) anche dopo la sentenza della Corte di giustizia, nonostante essa sia stata recepita da una copiosa giurisprudenza nazionale, il dibattito sulla compatibilità eurounitaria della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege è continuato, soprattutto in ambito dottrinale, allorché si è negato che il diritto UE imponga l’obbligo di evidenza pubblica per il rilascio delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative; in questa prospettiva, si è apertamente contestata:
I) l’applicabilità sia dei principi generali a tutela della concorrenza desumibili dall’art. 49 TFUE;
II) l’applicabilità dell’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE;
         h3) l’applicabilità dell’art. 49 TFUE è stata messa in discussione ritenendo mancante nel caso di specie il requisito dell’interesse transfrontaliero certo, il cui accertamento è stato rimesso dalla Corte di giustizia alla valutazione del giudice nazionale;
         h4) rispetto all’applicazione dell’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE sono stati mossi due ordini di obiezioni:
I) il primo volto a sostenere l’assenza della risorsa naturale scarsa (requisito la cui sussistenza la Corte di giustizia ha demandato al giudice nazionale);
II) il secondo, volto radicalmente ad escludere la possibilità di far rientrare le concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative nella nozione di autorizzazione di servizi e, quindi, nel campo di applicazione dell’art. 12 della citata direttiva;
         h5) tali obiezioni non sono condivisibili e deve essere ribadito il principio secondo cui il diritto UE impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31.12.2033 delle concessioni in essere;
      i) quanto all’applicabilità dell’art. 49 TFUE, va evidenziato che:
         i1) la Corte di giustizia, con sentenza sez. VI, 07.12.2000, C-324/98, Telaustria e Telefonadress (in Corriere giur., 2001, 489, con nota di FERRONI; Urbanistica e appalti, 2001, 487, con nota di LEGGIADRO; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2000, 1419, con nota di GRECO) ha chiarito che qualsiasi atto dello Stato che stabilisce le condizioni alle quali è subordinata la prestazione di un’attività economica è tenuto a rispettare i principi fondamentali del Trattato e, in particolare, i principi di non discriminazione in base alla nazionalità e di parità di trattamento, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva, con un “adeguato livello di pubblicità” che consenta l’apertura del relativo mercato alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle relative procedure di aggiudicazione;
         i2) le ragioni di fondo alla base di tale giurisprudenza giustificano la loro applicazione ad ogni fattispecie (anche non avente carattere puramente negoziale per il diritto interno) che dia luogo a prestazione di attività economiche o che comunque costituisca condizione per l’esercizio di dette attività, sicché:
I) quando sia accertato che un contratto (di concessione o di appalto), pur se si collochi al di fuori del campo di applicazione delle direttive, presenti un interesse transfrontaliero certo, l’affidamento, in mancanza di qualsiasi trasparenza, di tale contratto ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate a tale appalto;
II) l’interesse transfrontaliero certo consiste nella capacità di una commessa pubblica o, più in generale, di un’opportunità di guadagno offerta dall’Amministrazione anche attraverso il rilascio di provvedimenti che non portano alla conclusione di un contratto di appalto o di concessione, di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri (cfr., quanto agli indici identificativi dell’interesse transfrontaliero certo, Corte di giustizia UE, Corte di giustizia UE, sez. IV, 06.10.2016, C-318/15, Tecnoedi Costruzioni Srl, in Foro amm., 2016, 229, citata come “Corte di giustizia, 06.10.2016, n. 318”; 15.05.2008, C-147/06, C-148/06, Soc. Secap, in Urbanistica e appalti, 2008, 10, 1123, con nota di BALOCCO; Appalti & Contratti, 2008, 7, 81, con nota di GRECO; Giornale dir. amm., 2008, 11, 1103, con nota di PASQUINI; Guida al dir., 2008, 27, 107, con nota di MEZZACAPO; Guida enti locali, 2008, 47, 68, con nota di BECCARIA);
         i3) con riferimento al “mercato” delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, tali criteri devono evidentemente essere “adattati”, tenendo conto della particolarità del settore di mercato che viene in considerazione; j) l’obbligo di evidenza pubblica discende, comunque, dall’applicazione dell’art. 12 della c.d. direttiva n. 2006/123/CE, che prescinde dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo (Corte di giustizia UE, grande sezione, 30.01.2018, C360/15 e C31/16, College van Burgemeester en Wethouders van de gemeente Amersfoort e Visser Vastgoed Beleggingen, in Foro amm., 2018, 3, punto 103) , limitandosi il giudice nazionale ad accertare il requisito della scarsità della risorsa naturale (Corte di giustizia UE, sez. V, 14.07.2016, C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa, cit.);
      k) le conclusioni cui è giunta nel 2016 la Corte di giustizia sono state, specie nell’ambito del dibattito dottrinale, oggetto di tentativi di confutazione secondo i seguenti argomenti volti a dubitare della immediata applicabilità della direttiva a fattispecie quale quella oggetto di giudizio:
         k1) sarebbe stata necessaria una preventiva armonizzazione delle normative nazionali applicabili in tale settore;
         k2) la direttiva n. 2006/123/CE, se applicata alle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa, comporterebbe un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia di turismo, ponendosi così in contrasto con quanto oggi prevede l’art. 195 TFUE;
         k3) la concessione di beni demaniali non rientrerebbe comunque nella nozione di autorizzazione di servizi, sul rilievo che –tra l’altro– gli oggetti dei due provvedimenti permissivi (concessione demaniale e autorizzazione alla prestazione del servizio) corrono su binari paralleli e non si confondono, con conseguente estraneità della concessione demaniale al campo applicativo dell’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE;
         k4) le aree demaniali marittime, fluviali o lacuali non potrebbero in ogni caso considerarsi risorse scarse: mancherebbe, quindi, anche in fatto, il presupposto per applicare la norma della direttiva servizi;
         k5) in ogni caso la direttiva n. 2006/123/CE e, in particolare, l’art. 12, sarebbe priva del livello di dettaglio e di specificità necessario ai fini della diretta applicabilità, in assenza di un puntuale recepimento da parte del legislatore nazionale. Non si tratterebbe, in altri termini, di una direttiva self-executing;
      l) nessuno di tali argomenti risulta meritevole di condivisione. Ciò in considerazione che:
         l1) l’obiettivo della la direttiva n. 2006/123/CE, la cui base giuridica va individuata nel Capo II e nel Capo IV TFUE, è:
I) eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio, garantendo l’implementazione del mercato interno e del principio concorrenziale ad esso sotteso (Corte di giustizia UE, grande sezione, 30.01.2018, C360/15 e C31/16, cit., punto 104) e non di “armonizzare” le discipline nazionali che prevedono ostacoli alla libera circolazione;
II) istituire un quadro giuridico generale a vantaggio di un’ampia varietà di servizi (“qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, artt. da 9 a 13);
         l2) la portata conformativa dell’art. 12 citato sulle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa non si riverbera in modo diretto sulla politica nazionale in materia di turismo: il rilascio della concessione rappresenta, infatti, solo una precondizione per l’esercizio dell’impresa turistica (nella specie lo stabilimento balneare), la cui attività, successivamente al rilascio, non è certo governata dalla normativa contenuta nella direttiva (la Corte di giustizia ha espressamente affermato che essa “si applica a numerose attività in costante evoluzione, tra le quali figurano i servizi collegati con il settore immobiliare, nonché quelli nel settore del turismo” (Corte di giustizia UE, grande sezione, 22.09.2020, C-724/2018 e C-727/2018, in Corriere giur., 2020, 1561, punto 35);
         l3) l’obiettivo (art. 1) è quello di “stabilire le disposizioni generali che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori nonché la libera circolazione dei servizi, assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi”: ciò al fine, appunto, di rendere possibile l’attuazione della libera circolazione dei servizi nel mercato interno;
         l4) una lettura sostanzialistica degli effetti economici del provvedimento di concessione evidenzia come, a prescindere dalla qualificazione giuridica che esso riceva nell’ambito dell’ordinamento nazionale, procuri al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull’assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi: ne discende che il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa erogando servizi turistico-ricreativi va considerato, nell’ottica della direttiva n. 2006/123/CE, un’autorizzazione di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara;
         l5) ci si trova al cospetto di una risorsa “scarsa”:
I) il concetto di scarsità va, invero, interpretato in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della “quantità” del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio che tramite esso viene immesso sul mercato e della concreta disponibilità di aree ulteriori rispetto a quelle attualmente già oggetto di concessione;
II) la valutazione della scarsità della risorsa naturale, invero, dipende essenzialmente dall’esistenza di aree disponibili sufficienti a permettere lo svolgimento della prestazione di servizi anche ad operatori economici diversi da quelli attualmente “protetti” dalla proroga ex lege (in molte Regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere oggetto di concessione, che nella maggior parte dei casi coincide con la percentuale già assentita);
         l6) la direttiva n. 2006/123/CE deve considerarsi self-executing sul rilievo che:
I) il livello di dettaglio che una direttiva deve possedere per potersi considerare self-executing dipende, invero, dall’obiettivo che essa persegue e dal tipo di prescrizione che è necessaria per realizzare il risultato;
II) da tale punto di vista, l’art. 12 della direttiva persegue l’obiettivo di aprire il mercato delle attività economiche il cui esercizio richiede l’utilizzo di risorse naturali scarse, sostituendo, ad un sistema in cui tali risorse vengono assegnate in maniera automatica e generalizzata a chi è già titolare di antiche concessioni, un regime di evidenza pubblica che assicuri la par condicio fa i soggetti potenzialmente interessati;
III) rispetto a tale obiettivo, la disposizione ha un livello di dettaglio sufficiente a determinare la non applicazione della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege fino al 2033 e ad imporre, di conseguenza, una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità;
IV) deve, pertanto, affermarsi l’incompatibilità comunitaria della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata delle concessioni già rilasciate;
      m) anche la moratoria emergenziale prevista dall’art. 182, co. 2, d.l. n. 34 del 2020 presenta profili di incompatibilità comunitaria del tutto analoghi a quelli fino ad ora evidenziati, dovendosi affermare che "più che essere funzionale al “contenimento delle conseguenze economiche prodotte dall’emergenza epidemiologica” da COVID-19, la reiterata proroga della durata delle concessioni balneari prevista dalla legislazione italiana scoraggia […] gli investimenti in un settore chiave per l’economia italiana e che sta già risentendo in maniera acuta dell’impatto della pandemia” (cfr. correlata lettera di costituzione in mora della Commissione UE);
      n) non sussistono i presupposti, nel caso di specie, per disporre un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, ricorrendo una delle situazioni in presenza delle quali, in base alla c.d. “giurisprudenza Cilfit” (di recente, ribadita, sia pure con alcuni correttivi volti a renderla più flessibile, dalla Corte di giustizia UE, grande camera, nella sentenza 06.10.2021, C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi (oggetto della News US in data 03.11.2021), in presenza di una questione che è stata già oggetto di interpretazione da parte della Corte di giustizia: gli argomenti invocati per superare l’interpretazione già resa dal giudice europeo non sono in grado di sollevare ragionevoli dubbi;
      o) è pacifico il potere della p.a. di non applicazione delle norme nazionali in contrasto con l’ordinamento UE e ciò con riferimento non soltanto ai regolamenti ma anche alle direttive self-executing (cfr. i principi espressi in Corte cost. 11.07.1989, n. 389, in Foro it., 1991, I; Corte di giustizia CE, 22.06.1989, C-103/88, in Riv. dir. internaz. privato e proc., 1989, 71; Cons. Stato, sez. V, sez. V 06.04.1991, n. 452, in Foro amm., 1991, 1076);
      p) la legge nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché contenuta in una direttiva self-executing, non può essere applicata né dal giudice né dalla pubblica amministrazione, senza che sia all’uopo necessario sollevare una questione di legittimità costituzionale (Corte cost., 08.06.1984, n. 170 (in Foro it., 1984, I, 2062, con nota di TIZZANO; Giust. civ., 1984, I, 2353, con nota di SOTGIU; Dir. comunitario scambi internaz., 1984, 193, con nota di CAPELLI DONNARUMMA; Giur. it., 1984, I, 1, 1521, con nota di BERRI; Dir. e pratica trib., 1984, II, 1073, con nota di MARESCA; Giur. cost., 1984, I, 1222, con nota di GEMMA);
      q) un sindacato di costituzionalità in via incidentale su una legge nazionale anticomunitaria è oggi possibile solo se tale legge sia in contrasto con una direttiva comunitaria non self-executing oppure, secondo la recente teoria della c.d. doppia pregiudizialità, nei casi in cui la legge nazionale contrasti con i diritti fondamentali della persona tutelati sia dalla Costituzione sia dalla Carta dei diritti fondamentali UE (cfr., in particolare, Corte cost., 10.05.2019, n. 112, in Guida al dir., 2019, 26, 64, con nota di BRICCHETTI; Dir. pen. e proc., 2020, 197, con nota di ACQUAROLI; Giur. comm., 2019, II, 1279, con nota di AMATI; Giur. cost., 2019, 1364, con nota di ANZON DEMMIG); Corte cost. 21.03.2019, n. 63 (in Foro it., 2019, I, 2663; 21.02.2019, n. 20 (in Foro it., 2020, I, 125, con nota di TRAPANI, nonché oggetto della News US in data 04.03.2019; Giur. cost., 2019, 226, con nota di REPETTO; Giornale dir. amm., 2019, 601, con nota di AVEARDI; Guida al dir., 2019, 12, 90, con nota di PONTE; Dir. informazione e informatica, 2019, 79, con nota di POLLICINO, RESTA; Riv. corte conti, 2019, 1, 227, con nota di CHIATANTE; Dir. Internet, 2019, 57, con nota di MARONGIU); Corte cost., 14.12.2017, n. 269 (in Foro it., 2018, I, 26, in Foro it., 2018, I, 405, con nota di SCODITTI, in Giust. pen., 2017, I, 321, con nota di DELLI PRISCOLI, in Giur. cost., 2017, 2925, con note di SCACCIA, REPETTO, FEDELE, in Riv. dir. internaz., 2018, 282, in Riv. giur. trib., 2018, 105, con nota di FERRARA, in Corriere trib., 2018, 684, con nota di MISCALI, erroneamente indicata in Corte cost. n. “289/17”);
      r) nessun legittimo affidamento può discendere in capo agli operatori dalle proroghe ex lege della durata delle concessioni demaniali sul rilievo che:
         r1) la lettera di messa in mora della Commissione europea del 03.12.2020, nel rilevarne l’insussistenza, ricorda che “secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte”:
I) “in primo luogo, rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato dall’amministrazione”;
II) “in secondo luogo, tali rassicurazioni devono essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono”;
III) “in terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle norme applicabili”;
         r2) in termini più generali si è affermato che, “qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, egli non può invocare il beneficio della tutela del legittimo affidamento nel caso in cui detto provvedimento venga adottato” (Corte di giustizia CE, sez. I, 14.10.2010, C-67/09, Nuova Agricast Srl e Cofra Srl, in Foro it., 2013, IV, 313, con nota di GRASSO);
         r3) d’altronde, la necessità dell’assoggettamento delle concessioni demaniali principi di concorrenza ed evidenza pubblica emergeva, ancor prima della direttiva n. 2006/123/CE, dalla procedura di infrazione UE del 2008, dalla coeva segnalazione AGCM e dalla giurisprudenza (si vedano: Corte cost., 18.07.2011, n. 213 in Dir. trasporti, 2012, 441, con nota di CUCCU; 20.05.2010, n. 180, in Dir. trasporti, 2011, 167, con nota di FIORILLO; Giur. cost., 2010, 2161, con nota di ESPOSITO; Riv. dir. navigaz., 2011, 311, nota di SALAMONE, SIMONE; Cons. Stato, sez. V, 31.05.2007, n. 2825, in Dir. trasporti, 2008, 463, con nota di CALLERI; sez. IV, 25.01.2005, n. 168, in Urbanistica e appalti, 2005, 329, con nota di CARANTA);
      s) sul rapporto tra effetti (sul provvedimento applicativo) della disapplicazione della norma interna in contrasto con l’ordinamento UE e l’esercizio dei poteri di autotutela:
         s1) secondo la stessa giurisprudenza comunitaria, il principio di primazia del diritto UE di regola non incide sul regime di stabilità degli atti (amministrativi e giurisdizionali) nazionali che risultino comunitariamente illegittimi;
         s2) in linea di principio, quindi, va escluso un obbligo di autotutela (o anche di riesame), a maggior ragione laddove il provvedimento amministrativo risulti confermato da un giudicato;
         s3) si possono richiamare, a tal proposito, con specifico riferimento alla questione dell’obbligo di autotutela su un atto amministrativo comunitariamente invalido, le sentenze Corte di giustizia CE 12.02.2008, C-2/06, Kempter (in Rass. trib., 2008, 1190, con nota di BARTOLOTTA; Dir. comm. internaz., 2008, 437, con nota di LAJOLO, MILANO; Guida al dir.-Dir. comunitario e internaz., 2008, 2, 52, con nota di CASTELLANETA; Dir. comunitario scambi internaz., 2008, 463, con nota di LOMBARDO; Giust. amm., 2008, 1, 177, con nota di DE LUCA; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2008, 1517, con nota di CORTESE) e 13.01.2004, C-453/00, Khune (in Giornale dir. amm., 2004, 723, con nota di DE PRETIS; Urbanistica e appalti, 2004, 1151, con nota di CARANTA; Dir. comunitario scambi internaz., 2004, 485, con nota di GATTINARA; Guida al dir., 2004, 11, 111, con nota di MONDINI; Giust. amm., 2004, 176, con nota di TULUMELLO), in cui la Corte UE, pur escludendo la sussistenza di un generalizzato obbligo di autotutela o di riesame, individua alcune condizioni in presenza delle quali tale obbligo sussiste, anche in presenza di giudicato che abbia escluso l’illegittimità del provvedimento medesimo;
         s4) nel caso di specie, tuttavia, non si pone propriamente una questione di autotutela amministrativa su provvedimenti amministrativi sul rilievo che:
I) l’atto di proroga è un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla stessa direttamente riconducibile (Cons. Stato, sez. VI, 18.11.2019 n. 7874, in Foro it., 2020, III, 65, con nota di TRAVI A.; Riv. dir. navigaz., 2019, 827, con nota di MONTESANO);
II) la formulazione letterale dell’art. 1, comma 682, della l. n. 145 del 2018 non lascia spazio a dubbi, perché la norma direttamente dispone che le concessioni demaniali già rilasciate “vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge hanno una durata, con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge, di anni quindici” (sull’ambito oggettivo di applicabilità della disposizione è intervenuto il d.l. n. 104 del 2020);
III) la proroga del termine avviene, quindi, automaticamente, in via generalizzata ed ex lege, senza l’intermediazione del potere amministrativo, trattandosi di una legge-provvedimento che non dispone in via generale e astratta, ma, intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete, recepisce e “legifica”, prorogandone il termine, le concessioni demaniali già rilasciate, con una fonte di regolazione del rapporto che torva la sua base nella legge e non nel provvedimento;
IV) conseguentemente, se la proroga è direttamente disposta per legge ma la relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto UE, l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset, come se non si fosse mai prodotto;
V) l’Amministrazione, dunque, non esercita alcun potere di autotutela (con i vincoli che la caratterizzano): se l’atto eventualmente adottato dall’amministrazione svolge la sola funzione ricognitiva (e nei termini appunto in cui svolga questa sola funzione), mentre l’effetto autoritativo è prodotto direttamente dalla legge, la non applicabilità di quest’ultima impedisce il prodursi dell’effetto autoritativo della proroga (il provvedimento di secondo grado in cui si esprime l’autotutela non può avere ad oggetto una disciplina contenuta nella legge), dovendosi rinvenire una natura ricognitiva nel provvedimento adottato dalla p.a.;
         s5) analoghe considerazioni valgono anche nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale:
I) ferma restando l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata –in applicazione dei principi di certezza e stabilità del diritto e dei rapporti giuridici di cui è espressione la res iudicata, diventati essi stessi princìpi non solo degli Stati membri ma anche del diritto UE– riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali (Corte di giustizia UE, sez. IV, 11.09.2019, C-676/17, Oana Mădălina Călin, con ulteriori richiami; sez. I, 16.03.2006, C-234/04, Rosmarie Kapferer, in Guida al dir., 2006, 14, 109, con nota di CASTELLANETA; 01.06.1999, C-126/97, Eco Swiss, in Foro it., 1999, IV, 470, con nota di BASTIANON; Dir. e pratica società, 1999, 16, 81, con nota di DITTA; in termini cfr. anche Cons. Stato, Ad. plen., 09.04.2021, n. 6, oggetto della News US in data 20.04.2021 e Cass. civ., sez. V, 27.01.2017, n. 2046), nel caso di specie, tali principi vanno adeguati tenendo conto che il giudicato incide su un rapporto di durata (qual è appunto quello che deriva dal rilascio o dal rinnovo della concessione demaniale);
II) sotto tale profilo, va, infatti, ricordato che le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di giustizia hanno la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate (Cons. Stato, Ad. plen. 09.06.2016, n. 11, in Foro it., 2017, III, 186, con nota di VACCARI; Giornale dir. amm., 2017, 372, con nota di CARBONARA e oggetto della News US in data 24.06.2016);
III) esse sono equiparabili ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato (come accade quando viene in considerazione un rapporto di durata) determina non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica (id est: per quella parte di rapporto non coperta dal giudicato, non vi sono ostacoli a dare immediata attuazione allo jus superveniens di derivazione comunitaria, sicché l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che ha disposto la proroga ex lege delle concessioni demaniali determina il venir meno degli effetti della concessione, in conseguenza della non applicazione della disciplina interna);
      t) sul differimento della non applicazione della norma interna in contrasto con l’ordinamento UE mediante la modulazione degli effetti temporali della decisione (da attuarsi secondo i principi espressi in Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n. 13, in Foro it., 2018, III, 145, con nota di CONDORELLI; Foro amm., 2017, 2377; Urbanistica e appalti, 2018, 373, con nota di FOLLIERI; Riv. giur. urbanistica, 2018, 123, con nota di ROSSA; Rass. avv. Stato, 2018, fasc. 1, 134, con nota di VITULLO e MUCCIO; Riv. giur. edilizia, 2018, I, 130; Dir. proc. amm., 2018, 1133, con nota di CASSATELLA; Riv. giur. edilizia, 2018, I, 1022, con nota di APERIO BELLA e PAGLIAROLI; Riv. amm., 2018, 94; la stessa decisione è stata inoltre oggetto della News US in data 08.01.2018, alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina ed in giurisprudenza):
         t1) il notevole impatto (anche sociale ed economico) che la immediata non applicazione, nel caso di specie, può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni, giustifica il differimento in avanti degli effetti della decisione;
         t2) la deroga alla retroattività trova fondamento nel principio di certezza del diritto (in tal senso, e con riferimento all’ordinamento UE, Corte di giustizia CE, 15.03.2005, C-209/03, Bidar, in Guida al dir., 2005, 16, 102, con nota di CORRADO);
         t3) nel caso di specie, peraltro, la graduazione degli effetti è resa necessaria dalla constatazione che la regola in base alla quale le concessioni balneari debbono essere affidate in seguito a procedura pubblica e imparziale richiede di prevedere un intervallo di tempo necessario per svolgere la competizione, nell’ambito del quale i rapporti concessori continueranno a essere regolati dalla concessione già rilasciata;
      u) conclusivamente sono stati enunciati i principi di cui in massima.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      v) sull’ammissibilità dell’intervento in ipotesi di interventore parte di un (altro) giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella oggetto del giudizio nel quale intende intervenire:
         v1) Cons. Stato, Ad. plen., sentenza non definitiva 02.04.2020, n. 10 (in Foro it., 2020, III, 379, nonché oggetto della News US in data 14.04.2020, citata nella sentenza in rassegna; Guida al dir., 2020, 21, 108, con nota di GIZZI; Merito, 2020, 5, 69, con nota di CHIARELLI; Urbanistica e appalti, 2020, 670, con nota di MIRRA; Foro amm., 2020, 722, con nota di GRIGNANI; Giornale dir. amm., 2020, 505, con nota di MOLITERNI; Nuovo notiziario giur., 2020, 463, con nota di PALMIERI; Rass. avv. Stato, 2020, 2, 91, con nota di BELLI; Giur. it., 2021, 157, con nota di INGEGNATTI; Foro amm., 2020, 1374, con nota di IANNOTTA; www.giustamm.it, 2020, 6, con nota di SESSA; Riv. giur. urbanistica, 2020, 954, con nota di AGNOLETTO);
         v2) Cons. Stato, Ad. plen., 04.11.2016, n. 23, cit.;
      w) sulla modulabilità degli effetti dell’annullamento (anche giustiziale, oltre che giurisdizionale) del provvedimento amministrativo, cfr.: Cons. Stato, sez. I, parere 30.06.2020, n. 1233 (oggetto della News US in data 13.07.2020 alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), il quale ha evidenziato che:
         w1) la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2011, n. 2755, in Urbanistica e appalti, 2011, 927, con nota di TRAVI; Riv. neldiritto, 2011, 1228, con nota di RONCA; Guida al dir., 2011, fasc. 26, 103 (m), con nota di LORIA; Giornale dir. amm., 2011, 1310 (m), con nota di MACCHIA; Giur. it., 2012, 438, con nota di FOLLIERI; Riv. giur. ambiente, 2011, 818, con nota di DE FEO, TANGARI; Dir. proc. amm., 2012, 260, con nota di GALLO, GIUSTI; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2012, 566, con nota di AMOROSO, ANNUNZIATA, con riferimento all’illegittimità del piano faunistico venatorio della regione Puglia, per omesso svolgimento del procedimento di valutazione ambientale strategica):
I) si è espressa nel senso della configurabilità di una tale possibilità, non solo sul rilievo della potenziale compromissione degli equilibri ambientali derivanti dall’eliminazione degli effetti del piano originariamente approvato, ma anche in ragione del contenuto delle pretese fatte valere dalla parte ricorrente;
II) il principio di effettività della tutela giurisdizionale “nella declinazione desumibile tanto dalle fonti sovranazionali (articoli 6 e 13 della CEDU), quanto da quelle interne (articoli 24 e 113 della Costituzione), imponeva una modulazione temporale dell’efficacia tipica del dictum giudiziale, in vista della necessità di assicurare una soddisfazione non meramente formale dell’interesse fatto valere con la domanda”;
III) il riconoscimento di deroghe alla naturale retroattività degli effetti caducatori non incontrerebbe alcuna preclusione nelle norme sostanziali e processuali, laddove rispettivamente disciplinano l’annullamento in autotutela degli atti amministrativi (art. 21-nonies l. n. 241 del 1990) e i contenuti delle sentenze che dispongono l’annullamento del provvedimento impugnato (art. 24, comma 1, lett. a), c.p.a.);
IV) i poteri valutativi esercitabili dal giudice in ordine all’efficacia del contratto stipulato sulla base dell’aggiudicazione illegittima, ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a., costituirebbero un ulteriore indice normativo a sostegno della compatibilità sistematica di pronunce che, accertata la difformità dell’atto a contenuto generale rispetto al parametro legale, escludono la produzione di effetti caducatori sino all’adozione del nuovo provvedimento da parte dell’amministrazione;
V) in considerazione dalla ascrivibilità della disciplina ambientale al novero delle competenze concorrenti fra Stati membri e istituzioni UE, gli interessi fatti valere in tale ambito materiale devono essere tutelati dai giudici nazionali secondo livelli di garanzia non inferiori rispetto a quelli assicurati dal diritto eurounitario. In questo senso, le disposizioni di cui all’art. 264 TTFUE, specie nella parte in cui affidano alla Corte di giustizia UE la facoltà di precisare gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi, troverebbero ingresso nell’ordinamento interno in qualità di principi idonei a garantire una tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche soggettive dedotte in giudizio;
         w2) sulla base dei medesimi argomenti, Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n. 13, cit., ha ammesso la configurabilità di deroghe all’efficacia retroattiva delle pronunce con cui il giudice della nomofilachia modifica orientamenti giurisprudenziali consolidati;
         w3) il cosiddetto prospective overruling, tuttavia, condivide con la graduazione della portata caducatoria delle sentenze di annullamento, null’altro che la comune riconducibilità alle tecniche di governo dell’efficacia delle pronunce giurisdizionali;
         w4) “l’elaborazione di principi di diritto innovativi rispetto all’orientamento precedentemente consolidato, in quanto formulati in sentenze dichiarative di interpretazione intese a rendere manifesto il significato dell’originario dato normativo, esprime una naturale tendenza alla retroazione dei nuovi canoni esegetici. Tuttavia, a fronte della potenziale lesione di controinteressi di rango costituzionale, l’operatività del revirement giurisprudenziale può essere limitata alle sole fattispecie che vengano in rilievo posteriormente alla pubblicazione della nuova decisione”;
         w5) la giurisprudenza di legittimità ha precisato che l’ammissibilità di interventi nomofilattici con efficacia ex nunc è subordinata alla cumulativa presenza dei seguenti requisiti:
I) la nuova interpretazione incida su norme processuali;
II) il mutamento giurisprudenziale sia stato imprevedibile e sopravvenga a un distinto orientamento consolidato nel tempo, in modo da indurre la parte a un ragionevole affidamento sulla perdurante validità dell’indirizzo anteriore;
III) l’overruling precluda l’esercizio del diritto di azione o di difesa delle parti;
         w6) in senso conforme e in applicazione dei presupposti precisati dalla giurisprudenza di legittimità, la giurisprudenza amministrativa ha escluso la differibilità nel tempo dei principi di diritto enunciati in tema di riapertura delle graduatorie ad esaurimento e di superamento della pregiudiziale amministrativa nella domanda di risarcimento del danno;
         w7) la citata sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n. 13, si discosta da tale orientamento in quanto giunge ad estendere la portata del prospective overruling anche all’esegesi di norme a contenuto sostanziale;
         w8) in ogni caso, il potere di disporre la decorrenza ex nunc degli effetti delle sentenze a contenuto interpretativo non può assimilarsi alle tecniche di modulazione della portata caducatoria delle pronunce costitutive di annullamento degli atti illegittimi, le quali, lungi dall’incidere sulla stabilità di precedenti giurisprudenziali consolidati, contengono un accertamento circa la legittimità o l’illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato in vista della soddisfazione di un interesse protetto dall’ordinamento nazionale. Le prime, invece, individuano il momento a partire dal quale il nuovo orientamento interpretativo deve essere applicato;
         w9) pertanto, l’indagine sulla graduazione degli effetti dell’annullamento non può “che essere condotta sulla base di criteri distinti rispetto a quelli cui la giurisprudenza ordinaria e amministrativa ricorre per giustificare la praticabilità del prospective overruling”;
         w10) le principali critiche mosse dalla dottrina avverso la graduazione degli effetti caducatori delle sentenze di annullamento sono le seguenti:
I) nel sistema della giustizia amministrativa il contenuto tipico dell’azione di annullamento, consistente nella eliminazione del provvedimento illegittimo dalla realtà giuridica, sarebbe violato dalle decisioni con cui il giudice dispone il mantenimento dell’efficacia dell’atto impugnato nelle more dell’ulteriore esercizio del potere. La natura costitutiva della sentenza di annullamento imporrebbe la caducazione degli atti impugnati e i relativi effetti demolitori sarebbero radicalmente indisponibili;
II) vi sarebbero dei profili di contrasto con l’art. 113, comma 3, Cost., ai sensi del quale la legge determina quali organi della giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa;
III) la necessaria intermediazione legislativa nella definizione dei poteri di annullamento osterebbe all’autonoma gestione giudiziaria dell’efficacia delle pronunce costitutive, dal momento che la produzione del risultato demolitorio potrebbe essere legittimamente escluso nelle sole ipotesi predeterminate dalla fonte primaria;
IV) il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non consentirebbe al giudice di modulare il contenuto del decisum in senso difforme rispetto alla pretesa annullatoria fatta valere con la domanda di parte;
V) anche gli argomenti di diritto positivo dedotti dalla giurisprudenza amministrativa non sarebbero ritenuti idonei a pervenire al risultato della modulazione degli effetti della sentenza;
         w11) non sono condivisibili i rilievi critici mossi dalla dottrina, con riferimento al contenuto tipico delle pronunce costitutive di annullamento:
I) in esito al complesso percorso evolutivo che vede la pretesa alla soddisfazione del bene della vita acquisire una valenza centrale entro la struttura dell’interesse legittimo, la disciplina processuale delle azioni esperibili a fronte dell’esercizio del potere richiede un costante adeguamento interpretativo alle esigenze di effettività imposte dalla cognizione di una posizione giuridica soggettiva sostanziale;
II) la considerazione del moderno schema dei rapporti di diritto pubblico, nel quale il bene della vita inciso dall’esercizio del potere diviene elemento costitutivo di una situazione giuridica soggettiva sostanziale, esige la costruzione di un apparato rimediale idoneo ad assicurare a quest’ultima una protezione adeguata alla sua intrinseca natura;
III) il canone di effettività della tutela giurisdizionale si pone a fondamento di un sistema atipico di azioni, la cui esperibilità garantisce la soddisfazione di interessi giuridicamente rilevanti mediante strumenti processuali non necessariamente coincidenti con quelli espressamente previsti dalla legge;
IV) l’atipicità dell’apparato rimediale può presentare anche una declinazione di tipo contenutistico, nella misura in cui la decisione del giudice esprima una sintesi degli interessi in conflitto non astrattamente predeterminabile dal legislatore;
V) quindi, l’estensione dell’oggetto della cognizione al rapporto giuridico controverso, al di là dei confini imposti dal mero scrutinio di legittimità dell’atto impugnato, può giustificare il riconoscimento di poteri valutativi in ordine alla perduranza degli effetti dell’atto illegittimo, nell’ottica del bilanciamento fra le esigenze di tutela fatte valere dalla parte ricorrente e i controinteressi generali e particolari rilevanti nel caso concreto;
VI) la domanda di annullamento contiene sempre il quid minus della domanda di mero accertamento dell’illegittimità con effetti non retroattivi o non eliminatori e, sotto il profilo
dei poteri del giudice, l’attribuzione del potere di decidere quando annullare l’atto illegittimo può implicare anche il potere, meno incisivo di stabilire da quando far decorrere la portata della sentenza di annullamento dell’atto;
         w12) con riferimento alla violazione della riserva di legge prevista dall’art. 113, comma 3, Cost., nella parte in cui richiede l’intermediazione legislativa per determinare i casi e gli effetti dell’annullamento giurisdizionale:
I) nessuna norma di diritto sostanziale o processuale espressamente preclude l’individuazione di deroghe alla portata retroattiva delle pronunce a contenuto demolitorio;
II) il vigente assetto processuale, oltre a rimettere al giudice la valutazione circa la necessità dell’annullamento dell’atto illegittimo, accentua il carattere conformativo delle decisioni adottabili: il combinato disposto degli artt. 30, comma 1, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a. consente la proposizione di domande atipiche di condanna, le quali, se formulate contestualmente ad altra azione, possono condurre alla pronuncia di sentenza di accoglimento che obbliga l’amministrazione all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio;
III) la dichiarazione di efficacia dell’atto illegittimo sino al nuovo esercizio del potere da parte dell’amministrazione rinviene quindi nella disciplina processuale di rango primario un fondamento normativo;
         w13) con riferimento alla incompatibilità fra le tecniche di modulazione degli effetti demolitori e il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato:
I) l’oggetto dell’azione di annullamento comprende la domanda di accertamento circa l’illegittimità dell’atto impugnato;
II) ne discende che la pronuncia con cui il giudice sospende provvisoriamente la produzione dell’effetto eliminatorio della sentenza o stabilisce che l’atto illegittimo sia annullato senza far retroagire gli effetti della caducazione, non può ritenersi difforme rispetto ai contenuti del petitum;
         w14) in chiave sistematica, le deroghe alla retroattività delle sentenze di annullamento del contratto, previste dagli artt. 1443 e 1445 c.c. a tutela dell’incapace e del terzo subacquirente, confermano la validità dell’orientamento che ammette la modulazione degli effetti delle pronunce demolitorie, ove tale soluzione sia imposta dalla necessità di proteggere adeguatamente gli interessi dedotti in giudizio;
         w15) la soluzione della modulabilità degli effetti dell’atto trae fondamento nell’evoluzione del sindacato del giudice che si è trasformato da giudizio di mera conformità dell’atto a un determinato parametro normativo a giudizio sul legittimo esercizio della funzione amministrativa con riferimento al rapporto;
         w16) anche la giurisprudenza ha rilevato che l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio; conseguentemente si aprono le porte ad un giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata;
         w17) l’impostazione accolta si pone in continuità con l’indirizzo adottato dalla giurisprudenza eurounitaria;
         w18) la Corte di giustizia UE ritiene infatti di poter decidere, di volta in volta, sugli effetti dell’annullamento nel caso di riscontrata invalidità di un regolamento e anche nei casi di impugnazione delle decisioni, delle direttive e di ogni altro atto generale; w19) ai sensi dell’articolo 264 TFUE, se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia UE dichiara nullo e può precisare gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi;
         w20) la giurisprudenza europea ha in diversi casi ritenuto di mantenere gli effetti dell’atto impugnato per un determinato periodo di tempo sul presupposto che l’annullamento con effetto immediato avrebbe potuto arrecare un pregiudizio grave e irreversibile dell’efficacia delle misure imposte dall’atto caducato;
         w21) anche l’analisi delle tradizioni giurisprudenziali straniere (in specie francese) dimostra il diffuso riconoscimento di deroghe alla retroattività delle sentenze di annullamento;
         w22) risponde meglio al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale la possibilità di modulare gli effetti dell’annullamento il quale:
I) dovrà, tuttavia, essere utilizzato in modo accorto e solo nelle ipotesi in cui si renda necessario per una migliore tutela degli interessi fatti valere nel giudizio in confronto con quelli pubblici e privati coinvolti, anche al fine di evitare che le esigenze di effettività della tutela trasmodino in situazioni di incertezza giuridica o amministrativa;
II) potrà intervenire in tutte le ipotesi in cui occorre evitare che l’annullamento di un atto dell’amministrazione possa generare una condizione amministrativa di vuoto regolatorio, tale da determinare effetti peggiorativi della posizione giuridica tutelata con il ricorso, nel senso di pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato aspira a conseguire o mantenere;
      x) la casistica delle pronunce volte a modulare nel tempo gli effetti caducatori della sentenza presenta –tendenzialmente– il comune denominatore dell’esigenza di garantire la corretta applicazione del diritto eurounitario, soprattutto in campo ambientale, rispetto al quale la caducazione immediata dei provvedimenti impugnati darebbe luogo (come negli emblematici casi appena citati di Cons. Stato, sez. I, parere 30.06.2020, n. 1233 e Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2011, n. 2755) ad effetti opposti a quelli che la disciplina sovranazionale intende tutelare. Ciò induce a sottolineare come:
         x1) una cosa sia definire il potere modulatorio della pronuncia in situazioni in cui vengono in rilievo aspetti di rilevanza eurounitaria da salvaguardare, per il quali lo stesso ordinamento UE ammette (id est: sostanzialmente impone, cfr. Corte di giustizia, v. sentenza grande sezione, 28.02.2012, C-41/11, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne, in Riv. giur. ambiente, 2012, 566, con nota di GRATANI; Foro amm.-Cons. Stato, 2012, 3102, con nota di FELIZIANI; Riv. quadrim. dir. ambiente, 2013, 3, 51, con nota di GIUSTI) il differimento degli effetti della pronuncia al fine di garantire immediata effettività al diritto UE;
         x2) altra cosa sia individuare, più in generale, il fondamento ontologico, che sembra non essere ancora nitidamente definito, di tale potere in ogni ulteriore caso, posto dalla giurisprudenza in termini di “non esclusione” (fermo restando che pur deponendo i fondamentali richiami al principio di effettività della tutela, alla regola di atipicità delle azioni nel c.p.a. o a specifiche disposizioni codicistiche nel senso del radicamento di tale potere, diverse sono le critiche della dottrina riferite alla modulazione degli effetti del nuovo principio di diritto espresso in sede nomofilattica: cfr. nota di CONDORELLI a Cons. Stato, sez. VI, 03.12.2018 n. 6858, in Foro it., 2019, III, 238);
      y) per una casistica (più o meno) recente di decisioni, tra le diverse, che involgono il differimento degli effetti della decisione:
         y1) Tar per l’Emilia Romagna, sez. I, 19.04.2021, n. 388 che ha negato il differimento della pronuncia caducatoria richiesta dal controinteressato in un giudizio avente ad oggetto una procedura selettiva, sul rilievo che la modulazione degli effetti caducatori nei termini avanzati finirebbe col dequotare “il petitum stesso dell’azione giurisdizionale attivata dalla ricorrente e cioè la possibilità dell’acquisizione del bene della vita preclusa ab origine dalla adottata determinazione di esclusione della candidata al concorso in questione (rivelatasi illegittima), il che è inammissibile”;
         y2) Cons. Stato, Sez. III, 24.02.2016, n. 748 (in Giur. it., 2016, 1722, con nota di SCOCA) in tema di scioglimento di consiglio comunale per infiltrazione mafiosa, secondo cui “L'efficacia temporale dell'annullamento può, peraltro, essere limitata alla sua operatività ex nunc (e, cioè, dalla pubblicazione della presente decisione), in conformità alla richiesta formulata oralmente in udienza pubblica dal difensore dello S. e in coerenza con il contestuale ed equilibrato soddisfacimento in via integrale dell'interesse morale del ricorrente e di quelli pubblici implicati dal commissariamento (per il periodo in cui ha prodotto i suoi effetti)”;
         y3) Cons. Stato, sez. III, 16.02.2021, n. 1409 (in Foro amm., 2021, 265), la quale ha accolto l’appello “ai soli fini della adozione, da parte del Comune appellato e con effetto ex nunc -sulla base del potere di questo Giudice di modulare l'effetto conformativo della propria pronuncia a seguito della citata sentenza CGUE- di nuovi atti concernenti la cessione della farmacia, considerato che il protrarsi, ulteriormente nel tempo, di un assetto contrattuale basato su norme nazionali ritenute in contrasto con quelle eurounitarie costituirebbe violazione diretta degli effetti di una pronuncia immediatamente vincolante della CGUE, che, avendo interpretato la norma, ne ha ritenuto ex tunc la illegittimità, e per la quale soltanto l'esercizio del consentito potere, da parte di questo Giudice, di adeguamento anche temporale degli effetti conformativi, può condurre alla non irretroattività degli effetti, così come, seppure in via subordinata, chiesto dalle parti appellate”;
         y4) Tar per la Sicilia, sez. st. Catania, sez. I, 30.04.2019, n. 966, secondo cui, in materia di piano paesaggistico, “poiché […] il piano impugnato rileva anche ai fini del rispetto della normativa ambientale europea (cfr. art. 36 delle Norme di attuazione del medesimo piano) altrimenti violata, il Collegio deve disporre che la integrale caducazione dei provvedimenti impugnati sia differita, in avanti, fino alla riadozione delle eventuali misure di salvaguardia (art. 143, c. 9 d.lgs. n. 42 del 2004) da parte dell'Assessorato regionale dei beni culturali e, comunque, fino a non oltre 180 giorni dalla pubblicazione della […] sentenza, periodo nel quale essa spiega unicamente effetti conformativi”;
         y5) Cons. Stato, sez. III, 09.07.2013, n. 3636 (in Riv. regolazione mercati, 2015, 2, 199, con nota di MARRA), secondo cui “Il mantenimento degli effetti di una delibera annullata, seppur in via temporanea ed eccezionale, risponde ad una logica precisa, dichiaratamente ispirata al principio del buon andamento (art. 97 Cost.)”;
         y6) Cons. Stato, sez. III, 07.01.2013, n. 21 (in Riv. regolazione mercati, 2015, 2, 199, con nota di MARRA), secondo cui “Al fine di prevenire possibili difficoltà in sede esecutiva ed in osservanza del principio del buon andamento, appare opportuno consentire in via straordinaria all'autorità di disporre il mantenimento degli effetti della stessa delibera; naturalmente rimane fermo l'obbligo di prestare ottemperanza alla presente sentenza con la corrispondente sollecitudine”;
         y7) Tar per il Lazio, sez. II-ter, 13.07.2012, n. 6418 (in Arch. giur. oo. pp., 2012, 1503), secondo cui:
I) di regola, in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa, l'accoglimento dell'azione di annullamento comporta l'annullamento con effetti ex tunc del provvedimento risultato illegittimo, con salvezza degli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa, che può anche retroattivamente disporre con un atto aventi effetti "ora per allora";
II) tuttavia, quando l'applicazione di tale regola risulterebbe incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, la regola dell'annullamento con effetti ex tunc dell'atto impugnato a seconda delle circostanze deve trovare una deroga, o con la limitazione parziale della retroattività degli effetti o con la loro decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti dell'annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi;
III) la legislazione ordinaria non preclude al giudice amministrativo l'esercizio del potere di determinare gli effetti delle proprie sentenze di accoglimento, atteso che, da un lato, la normativa sostanziale e quella processuale non dispongono l'inevitabilità della retroattività degli effetti dell'annullamento di un atto in sede amministrativa o giurisdizionale (cfr. art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 ed art. 34, comma 1, lett. a, c.p.a.), dall'altro, dagli artt. 121 e 122 c.p.a. emerge che la rilevata fondatezza di un'azione di annullamento può comportare l'esercizio di un potere valutativo del giudice, sulla determinazione dei concreti effetti della propria pronuncia. Tale potere valutativo, attribuito per determinare la perduranza o meno degli effetti di un contratto, va riconosciuto al giudice amministrativo in termini generali quando si tratti di determinare la perduranza o meno degli effetti di un provvedimento;
IV) il giudice amministrativo, nel determinare gli effetti delle proprie statuizioni, deve ispirarsi al criterio per cui esse devono produrre conseguenze coerenti con il sistema, e cioè armoniche con i principi generali dell'ordinamento e, soprattutto, con quello di effettività della tutela;
         y8) Tar per l’Abruzzo, sez. st. Pescara, 13.12.2011, n. 693 (in Urbanistica e appalti, 2012, 707, con nota di FOÀ), secondo cui:
I) “Il giudice può annullare le norme tecniche di attuazione del prgc con decorrenza dal momento in cui è mancata la sottoposizione a valutazione ambientale strategica ed alla verifica di conformità alla pianificazione sovraordinata, ordinando al comune di sottoporre la variante alla valutazione ambientale e di conformità alla pianificazione superiore entro un termine di otto mesi, usufruendo eventualmente delle norme di salvaguardia; la decorrenza del termine comporta la perdita di efficacia della variante e la reviviscenza della precedente normativa, con obbligo dell'amministrazione di rideterminarsi”;
II) “Ove l'efficacia ex tunc dell'annullamento risulti incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, il giudice amministrativo può disporre la limitazione parziale della retroattività degli effetti o la loro decorrenza ex nunc o disporre esclusivamente gli effetti conformativi; tale potere valutativo spetta al giudice amministrativo in termini generali, quando si tratti di determinare la perduranza o meno degli effetti di un provvedimento; in applicazione del principio di cui all'art. 1 del codice del processo amministrativo (sulla «tutela piena ed effettiva»), il giudice può emettere le statuizioni che risultino in concreto satisfattive dell'interesse fatto valere e deve interpretare coerentemente ogni disposizione processuale”;
      z) il differimento degli effetti temporali della pronuncia nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia UE (tra le diverse):
         z1) Corte cost., 17.03.2021, n. 41 (in Dir. e pratica lav., 2021, 8069);
         z2) Corte di giustizia UE, grande sezione, 25.06.2020, C-24/19 (in Foro it., 2020, IV, 419, secondo cui “Qualora risulti che una valutazione ambientale, ai sensi della direttiva n. 2001/42/CE, avrebbe dovuto essere realizzata prima dell'adozione dell'ordinanza e della circolare sulle quali si fonda un'autorizzazione relativa all'installazione e alla gestione di impianti eolici contestata dinanzi al giudice nazionale, cosicché tali atti e tale autorizzazione non sarebbero conformi al diritto dell'Unione, tale giudice può mantenere gli effetti dei citati atti e di tale autorizzazione solo qualora il diritto interno glielo consenta nell'ambito della controversia di cui è investito, e qualora l'annullamento di detta autorizzazione possa avere significative ripercussioni sull'approvvigionamento di energia elettrica dell'intero Stato membro interessato, e unicamente per il lasso di tempo strettamente necessario per rimediare a tale illegittimità; spetta al giudice del rinvio, se del caso, procedere a tale valutazione nella controversia principale”;
         z3) Corte di giustizia UE, sez. VI, 27.06.2019, C-597/17, Belgisch Syndicaat van Chiropraxie, in Foro it., 2019, IV, 460, secondo cui “In circostanze come quelle di cui al procedimento principale, un giudice nazionale non può avvalersi di una disposizione nazionale che lo autorizza a mantenere taluni effetti di un atto annullato per conservare provvisoriamente l'effetto di disposizioni nazionali che esso ha dichiarato incompatibili con la direttiva n. 2006/112/CE fino a quando tali disposizioni siano rese conformi con la direttiva di cui trattasi, al fine, da una parte, di limitare i rischi della mancanza di certezza del diritto derivanti dall'effetto retroattivo di tale annullamento e, dall'altra, di evitare l'applicazione di un regime nazionale anteriore a tali disposizioni incompatibile con la direttiva stessa”;
         z4) Corte cost., 11.02.2015, n. 10 (in Foro it., 2015, I, 1502, con nota di ROMBOLI; id. 2015, I, 1922, con nota di TESAURO; Riv. giur. trib., 2015, 384, con nota di BORIA; Corriere trib., 2015, 958, con nota di STEVANATO; Riv. dir. trib., 2014, II, 455, con note di RUOTOLO, CAREDDA; Dir. e pratica trib., 2015, II, 436, con nota di CAMPODONICO; Giur. it., 2015, 1324, con note di COSTANZO, MARCHESELLI, PINARDI SCAGLIARINI; Dialoghi trib., 2015, 62, con note di GALLIO, SOLAZZI BADIOLI, STEVANATO, LUPI; Giur. cost., 2015, 45, con note di ANZON DEMMIG, GROSSO, PUGIOTTO, GENINATTI SATÈ; Riv. neldiritto, 2015, 1055, con nota di PIROZZI; Giur. cost., 2015, 585, con nota di NOCILLA; Riv. dir. trib., 2015, II, 3, con note di FEDELE, CROCIANI; Dir. e pratica trib., 2015, II, 905, con note di MISTRANGELO, ZANOTTI; Riv. trim. dir. trib., 2015, 981, con note di AMATUCCI);
         z5) in materia di concorsi, cfr. Corte di giustizia UE grande sezione, 27.11.2012, C-566/10P, Repubblica italiana contro Commissione, in Foro it., 2013, IV, 63, con nota di GRASSO (l’Autore ha evidenziato che in quel caso “la decisione dispiegherà i suoi effetti soltanto come precedente giacché, nel caso concreto, al fine di preservare il legittimo affidamento dei candidati prescelti, la Corte di giustizia ha ritenuto opportuno non rimettere in discussione i risultati dei concorsi espletati. In precedenza, la Corte di giustizia […] aveva affermato che qualora una prova di un concorso generale bandito per la costituzione di una riserva di assunzioni venga annullata, i diritti di un ricorrente che non ha superato tale prova sono adeguatamente tutelati se la commissione giudicatrice e l’autorità che ha il potere di nomina riesaminano le loro decisioni e cercano una soluzione equa per il suo caso senza che sia necessario modificare i risultati del concorso nel loro complesso o annullare le nomine effettuate in esito allo stesso; si tratta infatti di conciliare gli interessi dei candidati svantaggiati da un’irregolarità commessa in occasione di un concorso e gli interessi degli altri candidati”);
      aa) sugli effetti di vincolo della decisione della Corte di giustizia UE resa in sede di rinvio pregiudiziale anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto: Cons. Stato, Ad. plen., 09.06.2016, n. 11, cit. e giurisprudenza ivi richiamata;
      bb) sulla idoneità di una norma sopravvenuta (cui si equipara una sentenza della Corte di giustizia UE) ad incidere sopra un rapporto disciplinato da un giudicato:
         bb1) Cass. civ., sez. lav., 17.08.2018, n. 20765, secondo cui “In ordine ai rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che eventualmente ne costituiscano il contenuto, sui quali il giudice pronuncia con accertamento su una fattispecie attuale ma con conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro, l'autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo, il quale pertanto esplica la propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l'unico limite di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento”;
         bb2) Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2016, n. 1551, ivi i richiami alle pronunce della Plenaria che sul tema sono intervenute (Ad. plen., 09.02.2016, n. 2, in Foro it., 2016, III, 185; 13.04.2015, n. 4, id., 2015, III, 265; 15.01.2013, n. 2 cit.; 03.12.2008, n. 13, in Giornale dir. amm., 2009, 147, con ampia nota di riferimenti di DE LEONARDIS; 11.05.1998, n. 2, in Foro it., 1998, III, 297; 21.02.1994, n. 4, id., Foro it., 1994, III, 313; 08.01.1986, n. 1, id., 1986, III, 97);
         bb3) Cons. Stato, sez. V, 03.05.2012, n. 3547, in Foro it., 2012, III, 612, con nota di TRAVI;
      cc) sull’obbligo di evidenza pubblica per i contratti attivi della p.a.: Cons. Stato, comm. sp., parere 10.05.2018, n. 1241 (in Giur. it., 2018, 1979, con nota di MEALE);
      dd) sul rapporto fra leggi provvedimento e atti amministrativi successivi adempitivi:
         dd1) va rilevato che:
I) la pronuncia in rassegna reca elementi di novità, nel senso che esclude la configurabilità dell’esercizio autotutela ove la legge produca direttamente determinati effetti giuridici (nella specie di proroga automatica della concessione demaniale) e, ad un tempo –per ineludibili ragioni di certezza giuridica– sostiene l’obbligo della pubblica amministrazione al ritiro dei meri provvedimenti attuativi;
II) una siffatta impostazione può astrattamente determinar effetti in punto di giurisdizione del giudice amministrativo stagliandosi, al cospetto di essa, comportamenti di mero fatto in relazione ai quali la pubblica amministrazione non esercita poteri autoritativi;
         dd2) sulle leggi provvedimento, da ultimo:
I) Corte cost., 29.03.2021, n. 49 (oggetto della News US in data 03.05.2021, alla quale si rinvia per ogni ulteriore approfondimento sulla nozione di legge-provvedimento, sulla compatibilità con l’architettura costituzionale e sulla riserva di amministrazione);
II) Corte cost., 23.06.2020, n. 116 (in Foro it., 2020, I, 3715, con nota di D'AURIA G., DELLA VALLE; Giur. cost., 2020, 1308, con nota di PINELLI), secondo cui:
   - “la Corte, nel sanzionare l’intervento legislativo regionale, non si è limitata a prendere atto del contrasto con il principio fondamentale formulato dalla legge statale, ma ha anche valorizzato il ruolo svolto dal procedimento amministrativo nell’amministrazione partecipativa disegnata dalla legge 07.08.1990, n. 241”;
   - “il portato delle numerose pronunce in materia è stato di recente puntualizzato nel senso che il procedimento amministrativo costituisce il luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto «[è] nella sede procedimentale […] che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela. La struttura del procedimento amministrativo, infatti, rende possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 07.08.1990, n. 241[…]: efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza. Viene in tal modo garantita, in primo luogo, l’imparzialità della scelta, alla stregua dell’art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, dell’interesse primario, in attuazione del principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.»” (sentenza 05.04.2018, n. 69, in Riv. giur. ambiente, 2018, 335, con nota di BOEZIO, GALDENZI; Dir. agr., 2018, 321, con nota di BUTTURINI; Id., 2020, 45, con nota di CAMILLERI);
   - “l’insistente valorizzazione delle modalità dell’azione amministrativa e dei suoi pregi non può evidentemente rimanere confinata nella sfera dei dati di fatto, ma deve poter emergere a livello giuridico-formale, quale limite intrinseco alla scelta legislativa, pur senza mettere in discussione il tema della “riserva di amministrazione” nel nostro ordinamento”;
   - “In effetti, se la materia, per la stessa conformazione che il legislatore le ha dato, si presenta con caratteristiche tali da enfatizzare il rispetto di regole che trovano la loro naturale applicazione nel procedimento amministrativo, ciò deve essere tenuto in conto nel vagliare sotto il profilo della ragionevolezza la successiva scelta legislativa, pur tipicamente discrezionale, di un intervento normativo diretto”;
         dd3) sulla impugnazione diretta davanti al G.A. della legge provvedimento: Cons. Stato, sez. IV 22.03.2021, n. 2409, secondo cui “È inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso con il quale si impugni in via diretta dinanzi al giudice amministrativo un atto avente forza di legge, chiedendone l’annullamento previa rimessione alla Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che nella specie si tratti di una legge-provvedimento”;
      ee) sull’obbligo di rinvio pregiudiziale, cfr. News US, in data 08.11.2021, a Corte di giustizia UE, grande sezione, 06.10.2021, C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, cit. e giurisprudenza (e relative ulteriori News US sul tema ivi richiamate);
      ff) in dottrina:
         ff1) sulla proroga delle concessioni demaniali marittime: R. TRUDU, La nuova proroga delle concessioni demaniali marittime deve essere disapplicata, in Azienditalia, 2019, 6, 889; G. MARCHEGIANI, La proroga al 2033 delle concessioni balneari nell’ottica della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea, in Urbanistica e appalti, 2021, 2, 153; G. ASTEGIANO, S. PETRILLI, L’affidamento o il rinnovo della gestione di un bene demaniale deve avvenire tramite gara, in Azienditalia, 2021, 6, 1180;
         ff2) sul differimento degli effetti della pronuncia giurisdizionale: A. TRAVI, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, in Urbanistica e appalti, 2011, 8, 937; R. VILLATA, Ancora spigolature sul nuovo processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 857; C. E. GALLO, I poteri del giudice amministrativo in ordine alle proprie sentenze di annullamento, ivi, 2012, 285; E. FOLLIERI, L’ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2012, II, 438;
         ff3) circa l’obbligo di non applicazione norme nazionali in contrasto col diritto UE e segnatamente con direttive autoesecutive v.: G. TESAURO, Manuale di diritto dell’Unione Europea, Napoli, 2020, 2799 ss.; R. BARATTA, Il sistema istituzionale dell’Unione Europea, Milano, 2020, 200 ss. Sostiene l’A. che “La giurisprudenza ha individuato i requisiti che determinano l’effetto diretto preclusivo nel contenuto vincolante della disposizione. L’effetto diretto applicativo –di una singola norma (non di un atto complessivamente considerato)– è dato dalla chiarezza, precisione, completezza di contenuto (la norma dunque contiene gli elementi necessari per essere applicata in concreto) e infine dalla non condizionalità (la norma non richiede altre valutazioni discrezionali agli Stati membri, né alle istituzioni); in altri termini, quest’ultimo presuppone che la norma sia dotata di un contenuto dispositivo compiuto e immediatamente applicabile.
La sentenza della Corte che accerta l’effetto diretto ha natura dichiarativa e non costitutiva: l’effetto diretto è dunque un attributo che la norma possiede ab origine a decorrere dalla sua entrata in vigore o dalla scadenza del periodo transitorio se di diritto primario. L’effetto diretto è quindi intrinsecamente retroattivo. Peraltro, in ipotesi eccezionali la Corte ha ridotto gli effetti nel tempo della sentenza, limitandoli ai soli rapporti giuridici sorti ex post.
In Defrenne la Corte, dopo aver chiarito che la parità di trattamento nelle retribuzioni tra lavoratori di sesso maschile e femminile è uno dei principi fondamentali dell’Unione sancito dai Trattati (art. 157(1), TFUE) e che tale principio doveva essere applicato direttamente dai giudici nazionali dinanzi ai quali i singoli potevano invocarlo, ha stabilito che –eccezionalmente per considerazioni di certezza del diritto e tenuto conto delle implicazioni che la sentenza avrebbe avuto sull’impiego pubblico e privato– non potevano essere rimesse in discussione le retribuzioni relative al passato; pertanto, l’effetto diretto non poteva essere fatto “valere a sostegno di rivendicazioni relative a periodi di retribuzione anteriori alla data della sentenza” (sent. 08.04.1976, 43/75, cit., punti 71-75).
Analogamente, la Corte ha ritenuto che anche il regime professionale privato (di prestazioni pensionistiche) ricadeva nella sfera applicativa del principio della parità di retribuzione il cui effetto diretto era stato accertato in Defrenne; tuttavia, tale effetto non poteva incidere sui rapporti giuridici pregressi perché, in caso contrario, l’equilibrio finanziario di numerosi regimi pensionistici avrebbe rischiato di essere “retroattivamente sconvolto” (sent. 17.05.1990, C-262/88, Barber, ECLI:EU:C:1990:209). […] Come si intuisce, l’effetto diretto è rafforzato dal principio del primato del diritto dell’Unione: le disposizioni dotate di effetto diretto sono invocabili dinanzi alle autorità nazionali e prevalgono sulle norme interne incompatibili determinando così il divieto di applicare il diritto interno difforme (effetto diretto preclusivo).
Effetto diretto e primato non sono qualità facilmente dissociabili. Le sentenze della Corte che recano un accertamento preclusivo impediscono l’applicazione del diritto interno difforme e si ergono a protezione dell’effettività del diritto dell’Unione nei confronti delle autorità statali in virtù dei principi della primazia del diritto dell’Unione e della leale cooperazione, i quali si impongono anche all’autorità amministrativa (art. 4(3), commi 2 e 3 TUE).
Ora, l’effetto diretto preclusivo del diritto interno difforme è frutto di un procedimento logico scomponibile in tre momenti: in una prima fase, è necessario confrontare norma interna e disposizione dell’Unione per identificare l’esistenza di un contrasto tra esse; in una seconda fase, si accerta se l’incoerenza non sia in realtà apparente perché componibile in base all’interpretazione conforme (v. infra § 3); solo nella terza e ultima fase, in via di extrema ratio, si disapplica il diritto interno in ragione della primazia del diritto dell’Unione.
In queste prime fasi l’effetto diretto della disposizione europea non presuppone la completezza e il carattere incondizionato della stessa, ma più semplicemente richiede che essa possiede carattere vincolante in capo allo Stato membro. A sua volta, l’effetto diretto applicativo è logicamente successivo e si produce a condizione che la norma europea sia chiara precisa e incondizionata. Come si vede, l’effetto diretto della disposizione sovranazionale assume rilievo in tutte le fasi del confronto con il diritto interno, sostituendosi propriamente ad esso solo al temine di quel procedimento.
L’effetto diretto applicativo della disposizione europea si determina in pratica –colmando il vuoto normativo creatosi nel diritto interno in seguito all’accertamento preclusivo– qualora la pretesa individuale fatta valere dinanzi all’autorità statale non possa prescindere dall’applicazione della norma europea, perché la sola disapplicazione del diritto interno difforme non è sufficiente a garantire i diritti individuali protetti dal diritto dell’Unione: solo in questo caso la norma dell’Unione diviene fonte di diritti individuali. Se invece la pretesa dedotta in giudizio o dinanzi all’organo amministrativo è tutelabile sulla base della sola rimozione degli effetti del diritto interno (effetto diretto preclusivo), quest’ultimo può essere sufficiente per garantire l’effettività del diritto sovranazionale nella fattispecie dedotta in giudizio. Come accennato, l’obbligo di assicurare il primato del diritto dell’Unione sulla norma interna incompatibile è rivolto ai giudici nazionali e agli organi della pubblica amministrazione.
Nella sentenza Costanzo (22.06.1989, C-103/88, Costanzo, cit.), la Corte ha stabilito che, al pari del giudice nazionale, anche gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, sono tenuti ad applicare le disposizioni produttive di effetti diretti e a disapplicare le norme nazionali difformi.
Tuttavia, l’amministrazione, a differenza del giudice, non dispone del potere di rinvio pregiudiziale, ancorché l’accertamento degli effetti impeditivo e applicativo/sostitutivo spesso necessiti dell’accertamento interpretativo della Corte di giustizia a fronte di un testo normativo complesso: in virtù dell’art. 19(1), TUE, ad essa spetta di chiarire i primi due passaggi sopra indicati, nonché la ricorrenza delle condizioni che presiedono all’effetto diretto. E ciò è tanto più vero se si considera che tali accertamenti presuppongono la padronanza dei criteri interpretativi del diritto dell’Unione elaborati dalla Corte di giustizia nel corso di decenni di progressivo affinamento. Insomma, l’ipotesi che l’amministrazione possa svolgere i compiti insiti nei momenti del procedimento logico-argomentativo sopra richiamati, senza l’intervento della Corte di giustizia, è di ardua percorribilità.
Ciò nonostante, il rilievo dell’eccessiva responsabilità gravante sull’amministrazione, e quello, correlato, del livello elevato di conoscenza del diritto dell’Unione egualmente gravante su di essa, non sono stati oggetto di specifica considerazione da parte della stessa Corte.
Per questo motivo, l’effetto preclusivo in capo alle autorità amministrative nazionali dovrebbe essere circoscritto al solo contrasto con il diritto dell’Unione che dia luogo a una violazione manifesta accertata da una previa pronuncia della Corte di giustizia. Il primato della norma produttiva di effetto diretto sulla disposizione interna incompatibile costituisce una garanzia minima che non fa venir meno la necessità di abrogare o modificare la disposizione interna incompatibile
” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 09.11.2021 n. 18 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2021

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: E' illegittima l'ordinanza sindacale di sgombero di un'area comunale, abusivamente occupata nonché recintata, poiché viziata da incompetenza.
Il ricorso, che ha ad oggetto un’ordinanza di sgombero di un’area comunale occupata abusivamente dal ricorrente, va accolto, in quanto è fondato l’assorbente motivo dell’incompetenza del Sindaco, trattandosi di atto gestionale.
Invero, come noto, la ripartizione delle competenze amministrative tra gli organi politici e quelli burocratici va effettuata in base al principio generale di distinzione fra atti di gestione e atti d’indirizzo, che trova riscontro non solo nell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, ma altresì, in termini generali, nell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 30.03.2001, il quale comporta che tutta l’attività gestionale rientra, unitamente alle scelte che le sono inerenti, nella sfera delle competenze dirigenziali, e non in quella degli organi politici.
Nella specie viene in considerazione un’ordinanza di sgombero di un’area abusivamente occupata, la quale rientra nella competenza dirigenziale, senza che a diversa conclusione possa addivenirsi sulla base del mero richiamo fatto dal Sindaco al comma 4-bis dell’art. 54 del TUELL, che presuppone e non fonda il potere di adozione dell’atto, che nella specie, come detto, è mancante.

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... per l’annullamento:
   - dell’ordinanza sindacale n. 13 del 23.04.2020, notificata il giorno 23 successivo, con la quale il Sindaco ha ordinato “lo sgombero per il rilascio immediato dell’area di proprietà del Comune di Cattolica Eraclea, ricadente sulle Via Filippo Turati - Arciprete Sebastiano Gentile, con la relativa bonifica e ripristino dello stato dei luoghi”;
...
Con ricorso, notificato il 20.06.2020 e depositato il 16 luglio successivo, il signor Mi.Fa. ha chiesto l’annullamento, previa sospensiva e vinte le spese, dell’ordinanza n. 13 del 23.04.2020, con cui il Sindaco del Comune di Cattolica Eraclea gli ha intimato di sgomberare l’area ivi indicata, in quanto di proprietà pubblica e dallo stesso abusivamente occupata, nonché recintata, per i seguenti motivi:
   1) Violazione degli artt. 7 e 10-bis della l. n. 241 del 1990.
   2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del TUELL. Difetto dei presupposti e della motivazione. Sviamento e incompetenza.
   3) Eccesso di potere sotto i profili: della carenza di motivazione; del difetto di motivazione; della violazione del principio del legittimo affidamento.
Si è costituito in giudizio il Comune di Cattolica Eraclea che ha depositato una memoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso, poiché infondato, vinte le spese.
...
Il ricorso, che ha ad oggetto un’ordinanza di sgombero di un’area comunale occupata abusivamente dal ricorrente, va accolto, in quanto è fondato l’assorbente motivo dell’incompetenza del Sindaco, trattandosi di atto gestionale.
Invero, come noto, la ripartizione delle competenze amministrative tra gli organi politici e quelli burocratici va effettuata in base al principio generale di distinzione fra atti di gestione e atti d’indirizzo, che trova riscontro non solo nell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, ma altresì, in termini generali, nell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 30.03.2001, il quale comporta che tutta l’attività gestionale rientra, unitamente alle scelte che le sono inerenti, nella sfera delle competenze dirigenziali, e non in quella degli organi politici (in termini CGA, sez. giur., 17.06.2016, n. 173).
Nella specie viene in considerazione un’ordinanza di sgombero di un’area abusivamente occupata, la quale rientra nella competenza dirigenziale, senza che a diversa conclusione possa addivenirsi sulla base del mero richiamo fatto dal Sindaco di Cattolica Eraclea al comma 4-bis dell’art. 54 del TUELL, che presuppone e non fonda il potere di adozione dell’atto, che nella specie, come detto, è mancante.
Tale considerazione era già stata fatta negli stessi termini nell’ordinanza cautelare di accoglimento, nella quale si era, altresì, fatto esplicito riferimento alla circostanza che “rimaneva impregiudicato il potere/dovere del Comune di riadottare l’atto, ove ritenga accertata, alla stregua della convenzione relativa al piano di lottizzazione, l’occupazione di un’area pubblica, mediante ordinanza dirigenziale” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 01.07.2021 n. 2134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2021

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOCome noto, la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini del relativo riparto tra giudice ordinario (G.O.) e giudice amministrativo (G.A.), rileva il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato in funzione non solo e non tanto della concreta pronuncia chiesta al giudice, bensì della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati.
Nel caso in esame l’esponente non contesta uti singulus, quale cittadino appartenente alla collettività cui pertiene l’uso pubblico della via, l’esistenza del potere del Comune di concedere a tempo indeterminato ad uno o ad alcuni soggetti (frontisti e residenti) l’uso particolare ed eccezionale di una porzione della strada demaniale o privata gravata da diritto demaniale di uso pubblico: fattispecie che, configurando una possibile carenza di potere in astratto (per difetto della norma attributiva della potestà pubblicistica), sarebbe rimessa alla cognizione del G.O..
Invero, il ricorrente, in qualità di proprietario immobiliare confinante con la via oggetto dell’avversata trasformazione, censura lo scorretto esercizio del potere autorizzatorio e di controllo dell’Amministrazione civica sull’intervento edilizio, radicando così una controversia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f) c.p.a..
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1. Il signor Lu.Ve. si ritiene leso dalla costruzione di una rampa in pietra sulla scalinata di via Caduti Pievesi, lamentando che l’immutazione dello stato dei luoghi –consentendo l’utilizzo di una porzione della salita, prima interamente pedonale, con moto e scooter– arreca turbamento alla quiete della propria limitrofa abitazione. Esperisce, quindi, sia un’azione demolitoria, impugnando i titoli edilizi e paesaggistici legittimanti l’opera, sia un’azione contra silentium, denunziando la mancata risposta dell’Amministrazione al proprio atto di significazione e diffida.
2. In punto di fatto occorre premettere che la salita in parola è una tipica crêuza ligure, ossia una via stretta e ripida, che fende verticalmente il versante collinare di Pieve Ligure, raggiungendo i fondi ivi collocati e collegandosi a mezza costa con la viabilità comunale che attraversa Pieve Alta (cfr. doc. 16 ricorrente e doc. 10 resistente).
Il signor Iv.Gu., proprietario di un immobile che affaccia sul viottolo, dopo avere conseguito i titoli edificatori e paesistici gravati, ha modificato l’ultimo tratto della salita, sostituendo i preesistenti gradoni con un nuovo manufatto in pietra, consistente per circa metà della larghezza del passaggio in una rampa e per la restante parte in una scalinata, divise da una ringhiera in ferro (v. fotografie sub. docc. 14-15-17 ricorrente e doc. 9 resistente). Ha altresì installato, in cima allo scivolo, una sbarra motorizzata, circoscrivendo così la possibilità di accesso ai soli soggetti autorizzati, frontisti e residenti della zona, mentre la parte pedonale è rimasta percorribile da chiunque.
L’opera è stata realizzata in forza della deliberazione della Giunta comunale in data 19.10.2015, recante l’approvazione del progetto, dell’autorizzazione paesaggistica del 23.02.2016 e della S.C.I.A. in data 18.03.2016 (non vi è invece alcuna D.I.A. in data 18.03.2016, la cui menzione nella comunicazione di fine lavori costituisce un evidente refuso). Il signor Gu. ha iniziato i lavori il 21.03.2016 e li ha ultimati il successivo 3 agosto (cfr. docc. 5 e 8 resistente).
Va infine rilevato che la delibera giuntale e l’autorizzazione paesistica fanno riferimento ad una “rampa per mezzi agricoli”, mentre di fatto il nuovo passaggio viene utilizzato per transitare con motoveicoli (v. fotografie sub doc. 14 ricorrente).
3. Si osserva preliminarmente che la natura giuridica della salita denominata via Caduti Pievesi (v. targa toponomastica, doc. 14 ricorrente) è controversa fra le parti: il ricorrente sostiene che rientrerebbe nel demanio stradale comunale ex art. 824 cod. civ.; l’Amministrazione obietta che si tratterebbe di una via privata (formatasi da tempo immemore ex collatione agrorum privatorum), soggetta a servitù di pubblico transito ex art. 825 cod. civ. (c.d. strada vicinale di uso pubblico).
Al riguardo, premesso che è comunque riservato al giudice ordinario l’accertamento con efficacia di giudicato del carattere demaniale o privato con diritto reale di pubblico uso di una strada (trattandosi di questione attinente a situazioni giuridiche di diritto soggettivo: cfr., ad esempio, Cass. civ., sez. I, 15.07.2020, n. 15033), il Collegio non reputa necessario lo scrutinio del tema in parola, nemmeno in via incidentale, non rivestendo concreta rilevanza ai fini del presente giudizio.
Sempre in via preliminare, si ritengono opportune le seguenti precisazioni in punto di giurisdizione.
Come noto, la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini del relativo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato in funzione non solo e non tanto della concreta pronuncia chiesta al giudice, bensì della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. III, 24.03.2020, n. 2071; Cass. civ., sez. un., ord. 14.01.2020, n. 416; Cass. civ., sez. un., ord. 17.07.2017, n. 17618).
Nel caso in esame l’esponente non contesta uti singulus, quale cittadino appartenente alla collettività cui pertiene l’uso pubblico della via, l’esistenza del potere del Comune di concedere a tempo indeterminato ad uno o ad alcuni soggetti (frontisti e residenti) l’uso particolare ed eccezionale di una porzione della strada demaniale o privata gravata da diritto demaniale di uso pubblico: fattispecie che, configurando una possibile carenza di potere in astratto (per difetto della norma attributiva della potestà pubblicistica), sarebbe rimessa alla cognizione del G.O. (sulla possibilità di agire in giudizio uti civis, con i mezzi ordinari di tutela, a difesa del diritto di uso pubblico cfr., ex multis, Cons. St., sez. II, 12.05.2020, n. 2999; per un’ipotesi affine di carenza di potere in astratto si veda TAR Veneto, sez. III, 09.10.2017, n. 897).
Invero, il ricorrente, in qualità di proprietario immobiliare confinante con la via oggetto dell’avversata trasformazione, censura lo scorretto esercizio del potere autorizzatorio e di controllo dell’Amministrazione civica sull’intervento edilizio, radicando così una controversia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f) c.p.a. (cfr., ex aliis, Cons. St., sez. IV, 10.10.2018, n. 5820) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 12.05.2021 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2021

PATRIMONIO: Danni causati all’auto da una buca.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo e suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso.
(Nella specie, la Corte ha ritenuto non operante la presunzione di responsabilità a carico dell’ente ex art. 2051 c.c., in un caso di sinistro stradale causato da una buca presente su una strada di solito usata da mezzi agricoli, atteso che le condizioni della strada avrebbero richiesto una maggiore prudenza alla guida)
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 03.02.2021 n. 2525 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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ORDINANZA
I due motivi all'esame non censurano adeguatamente la motivazione della sentenza d'appello impugnata, che è, peraltro, coerente con l'orientamento in materia di questa Corte (oramai risalente e del quale non constano significative evoluzioni, sì veda Cass. n. 23919 del 22/10/2013 Rv. 629108 - 01): «L'ente proprietario d'una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2031 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l'utente danneggiato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di pericolo. Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e l'evento dannoso. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che non operasse la presunzione di responsabilità a carico dell'ente ex art. 2031 cod. civ., in un caso di sinistro stradale causato da una buca presente sul manto stradale, atteso che il conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle buche, per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle).».

gennaio 2021

PATRIMONIO: Responsabilità da cattiva manutenzione delle pubbliche strade.
La responsabilità da cose in custodia presuppone che il soggetto al quale sia imputata sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere di sorveglianza, di modifica dello stato dei luoghi ed esclusione che altri vi apportino modifiche.
Quindi, per le strade aperte al traffico è configurabile la responsabilità dell’ente pubblico, a meno che questi non dimostri di non aver potuto fare nulla per evitare il danno e l’ente proprietario non può fare nulla solo quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest’ultima, al pari dell’eventuale colpa esclusiva del danneggiato in ordine al verificarsi del fatto, integra il fortuito, quale scriminante della responsabilità del custode.
In sintesi, agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è sempre applicabile l’art. 2051 c.c. in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione e la responsabilità può essere esclusa dal fortuito, individuabile questo in relazione a quelle situazioni di pericolo provocate dagli stessi utenti, ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa che, nel caso di specie, non è dato individuare
(TRIBUNALE di Benevento, sentenza 07.01.2021 n. 10 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ottobre 2020

PATRIMONIO: La percepibilità del pericolo occulto.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso.
Ne deriva che la possibilità per il danneggiato di percepire agevolmente l’esistenza di una situazione di pericolo incide sulla concreta configurabilità del nesso eziologico fra la cosa ed il danno e pone in risalto il comportamento colposo del danneggiato
(TRIBUNALE di L’Aquila, sentenza 29.10.2020 n. 481 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

agosto 2020

PATRIMONIO: G.U. 27.08.2020 n. 213 "Definizione dei parametri per la determinazione delle tipologie dei piccoli comuni che possono beneficiare dei finanziamenti previsti dalla legge 06.10.2017, n. 158" (Ministero dell'Interno, decreto 10.08.2020).

PATRIMONIO: Condotta incauta del danneggiato e prova liberatoria per il custode.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza un’anomalia stradale, vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. della p.a. per difetto di manutenzione della strada pubblica (nel caso specifico la Corte ha confermato la sentenza di primo grado che, in un caso di caduta di pedone dovuta a buca, aveva escluso l’imprevedibilità e l’invisibilità dell’alterazione del fondo stradale, sia soggettiva che oggettiva, sia in ragione delle dimensioni della buca –cm. 20 di profondità e cm. 30 di diametro-, sia della sua localizzazione, in quanto la buca pur essendo prossima al marciapiede si trovava ad una distanza tale da essere ben visibile, nonostante il dislivello della banchina, sia delle condizioni meteorologiche – primo pomeriggio di una giornata di agosto con buone condizioni di visibilità, non piovosa) (Corte di Appello Roma, Sez. I, sentenza 24.08.2020 n. 4003 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

luglio 2020

PATRIMONIO: Danni per difetto di manutenzione del demanio stradale.
Le violazioni del codice della strada ad opera del danneggiato non sono tali da interrompere il nesso eziologico fra il difetto di manutenzione del demanio stradale da parte dell’ente locale e l’evento stesso, ma assumono rilevanza ai fini del riconoscimento di un concorso di colpa del danneggiato idoneo a diminuire, in proporzione dell’incidenza causale, la responsabilità del danneggiante.
(Nella specie: il danneggiato è caduto dalla bicicletta a causa di una buca situata sul manto stradale ed ha inciso il fatto che il sinistro è avvenuto in pieno giorno, su un tratto di strada rettilineo e con asfalto asciutto in quanto si tratta di circostanze che inducono a ritenere che, usando la dovuta diligenza il danneggiato si sarebbe verosimilmente accorto della presenza della buca sulla strada e avrebbe potuto limitare la velocità alla quale procedeva sulla sua bicicletta, riducendo così l’entità delle lesioni riportate a seguito della caduta, per tali motivi la responsabilità del danneggiato ha inciso nella misura del 30%)
(TRIBUNALE di Firenze, Sez. II, sentenza 04.07.2020 n. 1570 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

maggio 2020

PATRIMONIO: Responsabilità della PA: quando è esclusa?
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della Pubblica Amministrazione per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso (TRIBUNALE di Brindisi, sentenza 19.05.2020 n. 629 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Le locazioni nella fase dell'emergenza Covid-19.
DOMANDA:
Questa Amministrazione ha concesso in locazione i locali di un bar unitamente alla licenza per 6 anni, dal 04.02.2020 al 03.02.2026. A seguito dell'emergenza COVID il bar ha chiuso l'attivita nei mesi di marzo, aprile e per la prima metà di maggio. Sta riaprendo ora con tutte le limitazioni dettate dalla necessità di contenimento del contagio.
Il gestore ha fatto pervenire richiesta di azzeramento del canone per i periodi di chiusura e di riduzione per il periodo in cui dovranno giocoforza servire meno clienti a causa delle regole di distanziamento.
Considerato che il decreto "Cura Italia" contiene delle disposizioni in merito agli affitti privati mentre noi non ne abbiamo trovate per questo tipo di attività, chiediamo se sia possibile aderire alla richiesta di azzeramento e sulla base di quale normativa, per non incorrere nel caso di danno erariale, se un azzeramento comporti una necessità di proroga del contratto nella misura corrispondente ai mesi di chiusura e, infine, se sia configurabile una diminuzione del canone.
Si tenga presente che l'attività era molto vitale e che il bar in questione era un centro di ritrovo utile alla comunità
RISPOSTA:
L’art. 65 del D.L. n. 18/2020 convertito con Legge n. 27/2020 (cd. “Decreto Cura Italia”) ha previsto che, al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da Covid19, venga riconosciuto ai soggetti esercenti attività d’impresa, per l’anno 2020, un credito d’imposta nella misura del 60% dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1.
Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione e non si applica alle attività che sono state identificate come essenziali (es. farmacie, parafarmacie, punti vendita di generi alimentari di prima necessità, ecc.). Detto credito d’imposta, non concorre alla formazione del reddito ai fini dell’Ires e dell’Irap.
Fatta eccezione per tale vantaggio fiscale, nel nostro ordinamento non esiste una norma specifica che permetta al conduttore di ottenere la sospensione o la riduzione del canone di locazione nel caso si verifichino cause imprevedibili o di forza maggiore.
La possibilità di modificare il canone è dunque demandata alle parti del contratto. Sarà pertanto possibile chiedere al locatore la sospensione o la riduzione del canone, ma il medesimo non è in alcun modo obbligato ad accettare una revisione.
Nel caso del verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili che rendono eccessivamente onerosa la prestazione oggetto del contratto di locazione, il conduttore può chiedere la risoluzione del contratto ai i sensi dell’art. 1467 C.c.. Tale norma prevede infatti che “nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458”.
Con specifico riguardo ai contratti di locazione di immobili adibiti ad attività industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico l’art. 27 della Legge n. 392/1978 prevede che “indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata”.
Il rispetto delle misure di contenimento relative all’emergenza epidemiologica da “Covid-19” potrebbe aver creato al conduttore un danno economico-finanziario tale da incidere significativamente sull’andamento dell’attività, causandogli uno squilibrio finanziario che non rende più sostenibile il pagamento del canone di locazione, ovvero l’utilizzo dell’immobile.
In proposito è opportuno ricordare che l’art. 91 del Decreto “Cura Italia” sopra citato ha aggiunto il comma 6-bis all’art. 3 del D.L. n. 6/2020 convertito con Legge n. 13/2020, in base al quale il rispetto delle misure di contenimento relative all’emergenza epidemiologica da “Covid-19” è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 del Cc., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.
Pertanto, nel caso in cui il conduttore sia impossibilitato ad adempiere correttamente alle scadenze di pagamento dei canoni a causa dell’emergenza “Covid–19”, il medesimo potrà chiedere la sospensione dei pagamenti, senza che ciò costituisca presupposto per la decadenza del contratto o l’applicazione di interessi moratori. Rimane comunque nella discrezionalità del locatore la decisione se accettare o meno tale richiesta.
Premesso quanto sopra e tenuto conto degli strumenti giuridici che il nostro ordinamento mette a disposizione del conduttore, il medesimo potrà quindi richiedere la risoluzione del contratto oppure una sospensione del canone di locazione sino al termine del periodo di emergenza.
Nulla osta, ovviamente, alla possibilità per le parti di procedere alla rinegoziazione del canone di locazione al posto della risoluzione del contratto, anche tenuto conto che in base allo stesso articolo 1467 C.c. “la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.
In proposito si aggiunga quanto previsto dall’art. 1464 C.c. in base al quale “quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l'altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale”.
In caso di impossibilità parziale della prestazione, dunque, la norma richiamata consente alla parte che subisce la detta impossibilità di richiedere la riduzione della prestazione da essa dovuta oppure, in alternativa, il recesso dal contratto.
Rientrano, pertanto, nella sfera di applicabilità della norma da ultimo richiamata, tutti i casi in cui una prestazione sia diventata parzialmente impossibile per cause non addebitabili al locatore (tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

marzo 2020

PATRIMONIOL'ufficio tecnico di questo Comune ha in corso lavori di ristrutturazione per un miglioramento delle prestazioni energetiche generali e specifiche di alcuni ambientali che sono stati i finanziati nell'ambito di un progetto nazionale (D.Dirett. 10.07.2019) ed è in attesa di conoscere eventuali disposizioni di proroga, annunciate come imminenti.
Ci sono novità sia per questo che per altri finanziamenti eventualmente in scadenza?

Il Ministero dello Sviluppo Economico con D.Dirett. 10.07.2019 "Modalità di attuazione dell'intervento a sostegno delle opere di efficientamento energetico e sviluppo territoriale sostenibile realizzate dai comuni" ha dato attuazione al D.L. 30.04.2019, n. 34, recante: «Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi», convertito, con modificazioni, dalla L. 28.06.2019, n. 58 che prevede l'assegnazione di contributi ai comuni per interventi di efficientamento energetico e sviluppo territoriale sostenibile, come individuati al comma 3 del medesimo articolo.
Recentemente è stata pubblicata (con entrata in vigore il 01/03/2020) la L. 28.02.2020, n. 8 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30.12.2019, n. 162, recante disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica" (cosiddetto "Milleproroghe") che contiene almeno 2 disposizioni di interesse nello specifico settore per gli Enti locali:
   1) L'art. 1 comma 8-ter che differisce al 30.06.2020 il termine entro cui i comuni beneficiari di contributi per interventi di efficientamento energetico e sviluppo territoriale sono obbligati ad iniziare l'esecuzione dei lavori (il differimento del termine previsto si applica ai comuni che non hanno potuto provvedere alla consegna dei lavori entro il termine fissato al 31.10.2019, per fatti non imputabili all'amministrazione). La norma dispone "8-ter. Il termine di cui all'art. 30, comma 5, decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58, è differito al 30.06.2020, per i comuni che non hanno potuto provvedere alla consegna dei lavori entro il termine del 31.10.2019, per fatti non imputabili all'amministrazione".
   2) L'art. 1 comma 10-septies che differisce dal 15.01.2020 al 15.05.2020, il termine per la richiesta del contributo da parte degli enti locali, a copertura della spesa di progettazione definitiva ed esecutiva per interventi di messa in sicurezza del territorio, e proroga, altresì, dal 28.02.2020 al 30.06.2020, il termine per la definizione dell'ammontare del previsto contributo, attribuito a ciascun ente locale. La norma dispone "Per l'anno 2020, il termine di cui all'articolo 1, comma 52, della legge 27.12.2019, n. 160, è differito dal 15 gennaio al 15 maggio e il termine di cui all'articolo 1, comma 53, della citata legge n. 160 del 2019 è differito dal 28 febbraio al 30 giugno. Sono fatte salve le richieste di contributo comunicate dagli enti locali dopo il 15.01.2020 e fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Pertanto potrete fruire del differimento approvato con il Milleproroghe per i lavori descritti nel quesito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34, art. 30 - D.Dirett. 10.07.2019 del Ministero dello Sviluppo Economico - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 52 - D.L. 30.12.2019, n. 162 - L. 28.02.2020, n. 8 (11.03.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

febbraio 2020

PATRIMONIOL'ufficio patrimonio di questa Regione chiede di conoscere se, relativamente a contratti di locazione di immobili di proprietà, debba procedere ai sensi del codice degli appalti (anche in relazione agli obblighi di tracciabilità) o se l'ente possa procedere in autonomia applicando le norme del Codice Civile.
L'art. 17 del Codice degli appalti (D.Lgs. 18.04.2016, n. 50) "Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi" dopo le modifiche apportate dal D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 esclude dal proprio campo di applicazione i contratti "a) aventi ad oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni".
Tale esclusione non determina in automatico la piena libertà di azione dell'Amministrazione in quanto, come riconosciuto dalla giurisprudenza "Gli artt. 4 e 17, lett. a), del codice dei contratti vanno interpretati nel senso che per i contratti attivi e passivi della P.A., ad oggetto l'acquisto o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili, si devono rispettare i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica previsti dall'art. 4 per tutti i contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, e spetta all'ANAC la relativa vigilanza e il controllo ai sensi dell'art. 213 del D.Lgs. n. 50/2016".
In tale ottica l'ANAC con Comunicato 16.10.2019 del Presidente "Indicazioni relative all'obbligo di acquisizione del CIG e di pagamento del contributo in favore dell'Autorità per le fattispecie escluse dall'ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici" ha previsto l'applicazione a tali contratti degli obblighi di tracciabilità mediante acquisizione del codice identificativo gara (smart-cig) a prescindere dall'importo.
Pertanto, allo stato attuale, pur fuori dal campo di applicazione del codice degli appalti, la disciplina applicabile ai contratti di locazione vede comunque l'applicazione di taluni principi e del vincolo di tracciabilità propri della disciplina generale in materia di contratti pubblici.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 17 - D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 - Comunicato 16.10.2019 del Presidente ANAC
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. V, 29.01.2020, n. 720 - Cons. Stato Sez. comm. spec. Parere, 10.05.2018, n. 1241
(26.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PATRIMONIO: Opponibilità a terzo di servitù di veduta acquisita per usucapione.
L’acquisto della servitù può avvenire, tra l’altro, per usucapione, ove si tratti di servitù apparenti, cioè quelle al cui esercizio sono destinate opere visibili e permanenti (artt. 1031 e 1061 c.c.).
Per quanto riguarda la proprietà di immobili e i diritti reali immobiliari, l’usucapione costituisce modo di acquisto a titolo originario, che avviene ex lege, in virtù del possesso continuato per venti anni (art. 1158 c.c.).
Ai sensi dell’art. 2651 c.c., è suscettibile di trascrizione la sentenza da cui risulti l’acquisto per usucapione di una servitù: trattasi di sentenza dichiarativa, la cui trascrizione ha funzione di sola pubblicità-notizia, non quella di risolvere i conflitti tra acquirenti a titolo derivativo e acquirenti a titolo originario.
In proposito, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo il quale il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e l’acquisto per usucapione è sempre risolto a favore del secondo, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta l’usucapione e dell’anteriorità della trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione dell’acquisto a titolo derivativo.
Ne deriva che il Comune, che ritenga di aver acquistato un diritto di servitù per usucapione, può far valere nei confronti del terzo acquirente del fondo servente detto diritto reale per il fatto della sua venuta ad esistenza, ex lege, al ricorrere dei presupposti di legge, ai sensi dell’art. 1158 c.c., non necessitando a tal fine la trascrizione.

Il Comune riferisce che un edificio di sua proprietà (fondo dominante) possiede una servitù di veduta di fatto su altro edificio di proprietà privata (fondo servente) giacente a confine.
Detta servitù si è protratta per oltre venti anni pacificamente e senza interruzioni; peraltro non è stata accertata con sentenza del Giudice e quindi non è stata trascritta nei registri immobiliari. Posto che l’immobile privato è stato di recente venduto ad un terzo, il Comune chiede se è legittimato a pretendere nei suoi confronti il rispetto della servitù di cui si tratta.
Ai sensi dell’art. 1031 c.c., la costituzione delle servitù può avvenire:
   a) in attuazione di un obbligo di legge (servitù coattive);
   b) per volontà dell’uomo (contratto, testamento: si tratta delle c.d. servitù volontarie, art. 1058, c.c.);
   c) per usucapione;
   d) per destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.)
In particolare, poste le circostanze riferite dal Comune relative al protrarsi pacifico della servitù per oltre venti anni, si osserva che ove si tratti di servitù apparente, la stessa può sorgere anche per usucapione ventennale.
L’istituto dell’usucapione riguarda infatti la proprietà e i diritti reali di godimento, ad eccezione delle servitù non apparenti, che ricorrono quando non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio (art. 1061 c.c.)
[1].
Specificamente, le servitù apparenti sono quelle al cui esercizio sono destinate opere –anche formatesi naturalmente
[2]–, visibili e permanenti, obiettivamente finalizzate all’esercizio della servitù: tali cioè da appalesare in modo non equivoco, per la loro struttura e funzione, l’esistenza di un peso gravante sul fondo servente [3], al proprietario di quest’ultimo [4].
Quanto all’usucapione, l’art. 1158 c.c., in tema di beni immobili e diritti reali immobiliari, prevede che il possesso continuato per venti anni fa acquisire al possessore – attraverso l’istituto dell’usucapione – la titolarità del diritto reale (proprietà, diritti reali di godimento) corrispondente alla situazione di fatto esercitata. L’usucapione costituisce, dunque, un modo di acquisto a titolo originario della proprietà e dei diritti reali minori, che avviene ex lege, nel momento stesso in cui matura il termine normativamente previsto.
Le peculiarità dell’istituto dell’usucapione si ripercuotono sull’atteggiarsi della trascrizione degli acquisti per usucapione, atteso che la trascrizione riguarda atti e dunque non si presta a rispecchiare vicende di acquisto a titolo originario.
Sono, invece, suscettibili di trascrizione, ai sensi dell’art. 2651 c.c., le sentenze da cui risulta acquistato per usucapione un diritto di proprietà o un diritto reale di godimento di cui ai nn. 1, 2 e 4 dell’art. 2643, tra cui, per quanto di interesse, il diritto di servitù.
Ed invero, l’usucapiente può avere interesse, per eliminare ogni incertezza in ordine al suo acquisto ovvero per ottenere un titolo utile per la trascrizione, a promuovere un giudizio di accertamento dell’intervenuta usucapione
[5], che, in ogni caso, si concluderebbe con una sentenza avente valore dichiarativo e non già costitutivo.
La trascrizione di detta sentenza dichiarativa (ove vi sia), ai sensi dell’art. 2651 c.c. richiamato, ha funzione di sola pubblicità-notizia, cioè di rendere noti determinati fatti o atti ai terzi, ma non quella di risolvere i conflitti tra acquirenti a titolo derivativo e acquirenti a titolo originario
[6].
In proposito, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo il quale il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e l’acquisto per usucapione è sempre risolto a favore del secondo, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta l’usucapione e dell’anteriorità della trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione dell’acquisto a titolo derivativo
[7].
Calando questi principi nel caso di specie, ne conseguono alcune considerazioni per quanto riguarda l’(avvenuto) acquisto per usucapione del diritto di servitù e relativamente ai rapporti tra il Comune e il terzo acquirente che vorrebbe sopraelevare l’edificio di proprietà privata (fondo servente), impedendo così l’esercizio della servitù di veduta di cui trattasi.
Sotto il primo profilo, si osserva che il possesso ininterrotto del diritto reale di servitù per oltre venti anni –riferito dal Comune– è astrattamente idoneo a determinare in favore del Comune l’acquisto a titolo originario di detto diritto reale, ai sensi dell’art 1158 c.c., ove, beninteso, si tratti di una servitù apparente.
In proposito, con specifico riferimento all’acquisto per usucapione di una servitù di veduta, la Corte di cassazione ha affermato che la visibilità delle opere destinate all’esercizio della servitù deve far capo ad un punto d’osservazione non necessariamente coincidente col fondo servente –ipotesi normale, ma non per questo esclusiva– ma anche esterno al fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una pubblica via
[8].
Per converso, per giungere a ritenere la non visibilità delle finestre che si aprono sul fondo oggetto della veduta (fondo servente), deve essere dimostrata l’esistenza di una situazione di fatto tale che il proprietario di detto fondo non abbia avuto possibilità alcuna di vederle dal suo fondo e da alcun luogo viciniore
[9].
L’accertamento delle circostanze che integrano l’usucapione di una servitù di veduta è da farsi caso per caso
[10] ed in ipotesi di contestazione l’eliminazione di ogni incertezza al riguardo può derivare da una sentenza che accerti un tanto, che il Comune riferisce non esservi stata.
Il Comune, che ritenga di aver acquistato il diritto di servitù sull’edificio (fondo servente) per usucapione, può lo stesso far valere detto diritto nei confronti del terzo acquirente
[11]: ed invero –come suesposto– il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e l’acquirente per usucapione è sempre risolto a favore dell’acquirente per usucapione, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta l’usucapione e della sua anteriorità rispetto alla trascrizione dell’acquisto a titolo derivativo.
E questo poiché, come detto sopra, la trascrizione della sentenza da cui risulti acquistato un diritto per usucapione, ex art. 2651 c.c., ove vi fosse, avrebbe solo funzione di pubblicità - notizia, e non quella di risolvere il conflitto tra acquirente a titolo originario e acquirente a titolo derivativo
[12].
Pertanto, a fronte della domanda del Comune se sia legittimato a pretendere il rispetto della servitù di veduta nei confronti del terzo acquirente, si osserva che il Comune può far valere detto diritto reale per il fatto della sua venuta ad esistenza, ex lege, al ricorrere dei presupposti di legge, ai sensi dell’art. 1158 c.c., non necessitando a tal fine la trascrizione.
---------------
[1] V. Cass., sez. un., 21.11.1996, n. 10285, secondo cui il requisito dell’apparenza è necessario per l’acquisto della servitù per usucapione.
[2] Ad es. un sentiero creatosi per effetto del calpestio, v. Cass. 27.05.2009, n. 12362.
[3] V. Cass. 31.05.2010, n. 13238.
[4] Cass. civ., sez. II, 24.09.2014, n. 24401.
[5] V. Cass. 26.04.2011, n. 9325.
[6] La sentenza avente contenuto dichiarativo non rientra, infatti, tra gli atti costitutivi di diritti reali, di cui all’art. 2643. c.c. –che al n. 14 menziona specificamente le sentenze che operano la costituzione, il trasferimento o la modificazione del diritto di proprietà e di diritti reali di godimento– soggetti a trascrizione, al fine di renderli opponibili a terzi, ai sensi dell’art. 2644 c.c.
In particolare, quest’ultima norma codicistica prevede che gli atti (costitutivi di dritti reali) soggetti a trascrizione, di cui all’art. 2643 c.c., non hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi.
[7] Cass. civ., sez. II, 06.12.2000, n. 15503; Cass. civ., sez. II, 28.01.1985, n. 443.
[8] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[9] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[10] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[11] Ove questi contesti il fatto dell’avvenuto verificarsi dell’usucapione, si renderà, peraltro, necessario l’accertamento del Giudice.
[12] Come, invece, avviene per la trascrizione degli atti costitutivi di diritti reali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2643 e 2644 c.c. (v. nota 12)
(20.02.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando la natura del corso d’acqua rileva solo strumentalmente, non avendo gli atti impugnati, diretti a perseguire altri fini, immediata incidenza sul regime delle acque pubbliche, non vi è ragione per adire le competenze specifiche del Tribunale superiore delle acque pubbliche.
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Nel regime anteriore a quello introdotto alla l. 05.01.1994, n. 37, art. 4 (che, nel sostituire il testo dell'art. 947 c.c., ha espressamente escluso, per il futuro, tale eventualità), la sdemanializzazione tacita dei beni del demanio idrico non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più adibito anche da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendo desumersi una volontà di rinunzia univoca e concludente da una situazione negativa di mera inerzia o tolleranza.
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L’art. 826 Cod. civ. stabilisce al terzo comma che “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”.
Tenuto conto di tale ultima locuzione, consolidata giurisprudenza afferma che l’inclusione di un bene nel patrimonio indisponibile comunale richiede la sussistenza di due requisiti congiunti: la manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio; l’effettiva e attuale destinazione del bene a pubblico servizio.
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1. In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice amministrativo a favore del giudice ordinario o del Tribunale delle acque pubbliche, spiegata dal resistente Comune di Ospitaletto a mezzo di memorie difensive.
L’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia è, infatti, inammissibile, laddove formulata, come nel caso di specie, solo in note defensionali e non con tempestiva proposizione di specifico motivo di appello incidentale contro la sentenza di primo grado, in conformità all’art. 9 Cod. proc. amm., per il quale il difetto di giurisdizione nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronunzia impugnata che in modo implicito o esplicito ha statuito sulla giurisdizione (ex multis, Cons. Stato, V, 11.03.2019, n. 1612; 17.09.2018, n. 5439; III, 04.08.2015, n. 3842).
Nel caso in esame, ricorre la seconda delle predette ipotesi, avendo la sentenza appellata espressamente statuito sulla giurisdizione del giudice amministrativo, respingendo l’eccezione di difetto di giurisdizione di questo a favore del giudice ordinario, spiegata nel giudizio di primo grado dallo stesso Comune di Ospitaletto.
Ne deriva l’impossibilità, in seno al presente giudizio, in carenza di proposizione sul punto di un rituale motivo di appello, di contestare la potestas iudicandi; né osta all’applicazione della regola codicistica, come ritiene il Comune, il fatto che l’eccezione sia stata arricchita in appello mediante l’ulteriore indicazione di altro giudice asseritamente competente (Tribunale superiore delle acque pubbliche): la contestazione infatti è pur sempre rivolta a sovvertire il capo di sentenza relativo alla giurisdizione amministrativa ritenuta dal primo giudice, che, in difetto di proposizione di uno specifico motivo di appello, è passata in giudicato.
Vale comunque rilevare che gli atti di autotutela possessoria per cui è causa, come meglio in fatto, sono diretti non a ripristinare la funzione del canale irriguo da tempo in disuso e allo stato ricoperto, bensì a recuperare la relativa area di sedime per la costruzione di un’opera pubblica.
Si rende pertanto applicabile il principio ripetuto in giurisprudenza secondo cui quando la natura del corso d’acqua rileva solo strumentalmente, non avendo gli atti impugnati, diretti a perseguire altri fini, immediata incidenza sul regime delle acque pubbliche, non vi è ragione per adire le competenze specifiche del Tribunale superiore delle acque pubbliche (Cass. Sez. un., 27.04.2005, n. 896; 27.10.2006, n. 23070; 17.04.2009, n. 9149; 19.04.2013, n. 9534; 21.03.2017, n. 7154; Cons. Stato, IV, 30.06.2017, n. 3230; V, 11.07.2016, n. 3055).
1.1. Sempre in via preliminare, deve rilevarsi l’inammissibilità delle difese comunali anche laddove sostengono che gli atti gravati, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, non costituirebbero espressione dell’autotutela possessoria di cui all’art. 823, secondo comma del Codice civile, trattandosi di meri inviti al rilascio, non integranti neanche una vera e propria attività provvedimentale: anche tale questione non può essere rimessa in discussione nel presente giudizio, avendo formato oggetto di una espressa qualificazione da parte della sentenza appellata, che è sul punto rimasta inoppugnata.
2. Passando al merito dell’appello, si osserva che il primo giudice ha richiamato il pacifico orientamento giurisprudenziale che afferma che la tutela amministrativa accordata ai beni demaniali dall’art. 823, secondo comma Cod. civ. sia estendibile anche ai beni del patrimonio indisponibile. In applicazione del predetto principio, ha ritenuto la legittimità degli atti di autotutela possessoria adottati dal Comune di Ospitaletto, rilevando la loro afferenza a un’area appartenente al demanio idrico o comunque al patrimonio indisponibile comunale.
Ciò posto, ferma la correttezza del predetto principio generale, tali conclusioni non possono qui trovare conferma.
3. Va innanzitutto escluso, in uno al quarto motivo di appello, che l’area possa ritenersi attualmente ricompresa nel patrimonio idrico comunale per la presenza al suo interno di un canale irriguo da tempo in disuso e ormai ricoperto.
Restano pertanto assorbite le ulteriori difese sul punto svolte dagli appellati, che hanno eccepito per un verso la violazione del divieto di integrazione postuma della motivazione dell’atto amministrativo, facendo rilevare che la natura demaniale idrica del bene è stata invocata dal Comune, che nel secondo atto gravato aveva affermato che la striscia di terreno in parola apparteneva al patrimonio indisponibile dell’Ente, solo in corso di causa, per altro verso che lo stesso Comune non ha assolto l’onere su di esso incombente di dimostrare in giudizio che il bene abbia effettivamente natura pubblica.
3.1. Il primo giudice, per affermare che l’area in parola fa parte del demanio idrico, si è fondato sul fatto storico della presenza di un canale irriguo risultante dalle cartografie catastali. Di contro, ha reputato irrilevante sia che esso non emergesse dalla mappatura del reticolo idrico minore del 2003, recepita nel piano regolatore generale comunale, perché avente mero valore dichiarativo, sia che la funzione irrigua fosse oramai da tempo completamente esaurita a causa dell’intensa attività edificatoria realizzata nell’intera zona.
Ha poi escluso la sdemanializzazione tacita del bene idrico, osservando che la modifica definitiva dei luoghi, nella parte più vicina al canale irriguo in parola, è avvenuta solo nel 2005, con la copertura del canale realizzata in occasione della presentazione di una dichiarazione di inizio attività per la costruzione di un edificio residenziale e l’ampliamento di un fabbricato preesistente, ovvero quando era già vigente il relativo divieto, introdotto dall’art. 4 della l. 37/1994.
Tale ultima ricostruzione, in particolare, non convince, dovendosi rilevare, di contro, in accoglimento delle censure svolte dagli interessati con la prima parte del quarto motivo di appello, la sdemanializzazione tacita del bene in epoca anteriore al 1994.
3.2. Sul tema, la giurisprudenza ha affermato il principio per cui “nel regime anteriore a quello introdotto alla l. 05.01.1994, n. 37, art. 4 (che, nel sostituire il testo dell'art. 947 c.c., ha espressamente escluso, per il futuro, tale eventualità), la sdemanializzazione tacita dei beni del demanio idrico non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più adibito anche da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendo desumersi una volontà di rinunzia univoca e concludente da una situazione negativa di mera inerzia o tolleranza” (Cass., Sez. un. n. 12062 del 2014; 03.03.2016, n. 4189).
Nel caso di specie si ravvisano le predette condizioni positive.
In particolare, la circostanza che il canale irriguo non sia da lungo tempo più adibito all’uso pubblico è elemento incontestatamente emergente dal fascicolo di causa, così come è incontestato che il ripristino della funzione irrigua non è il presupposto dei provvedimenti gravati: l’Amministrazione procedente ha infatti espressamente ricollegato l’ordine di sgombero di cui trattasi alla realizzazione di un’opera pubblica del tutto svincolata da tale funzione.
Tanto chiarito, emerge che l’Amministrazione comunale non è estranea alla sottrazione del bene alla funzione idrica a suo tempo avvenuta, ma ne è anzi il principale attore, avendone determinato l’avvio a partire dall’atto di acquisto del mappale 133, avvenuto nel 1973 allo scopo di costruire la palestra contestualmente edificata. Tale costruzione ha infatti determinato, come emerge dalla perizia depositata in primo grado dagli appellanti, l’edificazione del canale nel tratto interessato dall’opera pubblica, avvenuta negli anni '70-'80, e la costruzione di un muro all’interno della proprietà comunale a opera della stessa Amministrazione, che ha isolato dalla stessa la striscia di terreno poi inglobata nel giardino degli appellanti.
Non si tratta, pertanto, di una mera tolleranza o inerzia, bensì di una condotta positiva, che non può non essere interpretata come riconoscimento della irrilevanza della funzione irrigua del canale presente in tale terreno, che, del resto, è rilevabile anche alla luce della successiva urbanizzazione della zona, che la stessa perizia, precisato non trattarsi di un canale di scolo delle acque, descrive nei seguenti termini: “L’ex canale in passato possedeva funzione di canale irriguo per i terreni posti a sud del canale stesso, ma tale funzione è venuta meno nel momento in cui sono cominciate le edificazioni sia a sud che a nord dello stesso, dagli atti esaminati risulta che sul mappale 133 la palestra è stata realizzata già negli anni 70, mentre a sud per quanto riguarda il mappale dei ricorrenti il primo stabile, posto più a sud, è stato edificato nel 1985, mentre ad est il parco è stato realizzato nella seconda metà degli anni 90 ed il polo scolastico è stato realizzato nel 2003”.
Nel descritto contesto, non è dato comprendere da quali elementi il primo giudice tragga la conclusione che “è verosimile che fino a quel momento [ovvero sino al momento della ulteriore copertura del canale realizzata nel 2005] l’utilità del canale irriguo non fosse ancora venuta meno, o non completamente”, e che “è verosimile, e perfettamente ragionevole, che il muro servisse a proteggere i frequentatori della palestra dalla presenza del fosso, senza interferire con la funzione irrigua rispetto ai terreni collocati a una quota inferiore verso sud…”: si tratta, infatti, di asserzioni dichiaratamente ipotetiche, che non trovano vieppiù alcun riscontro oggettivo nel fascicolo di causa, mentre non vi è dubbio che il Comune era nella condizioni di poter dimostrare in giudizio in vario modo, laddove effettivamente sussistente, l’utilità residua del canale irriguo nel periodo intercorrente tra il 1973 e il 2005, ciò che, invece, non ha fatto.
Inoltre, la persuasività delle predette affermazioni del primo giudice è ulteriormente sconfessata dalla stessa sentenza appellata, laddove riferisce, contraddittoriamente, che “era evidente già all’epoca della costruzione della palestra comunale, negli anni ’70, che la presenza del canale irriguo era destinata a recedere rispetto alle prospettive di urbanizzazione dell’intera zona … ”, soprattutto considerando che tale urbanizzazione, sempre per quanto attiene alla ulteriore copertura del canale del 2005, risulta realizzata mediante DIA, che è strumento che, pur non implicando necessariamente una espressa autorizzazione comunale, non esclude il potere di controllo amministrativo sull’edificazione privata, che, tra l’altro, avendo a oggetto, in tesi, la copertura di un canale irriguo ancora in funzione, non poteva certo passare inosservata.
Ne deriva che non può dirsi che l’immutazione definitiva dello stato del canale sia avvenuta nel 2005 a opera esclusiva della DIA menzionata dal primo giudice, in quanto essa non ha costituito altro che l’inevitabile conseguenza di un processo originatosi ben in precedenza, per effetto delle scelte via via compiute dall’Amministrazione comunale a partire dalla realizzazione della palestra negli anni ‘70, che ha comportato la sottrazione, senza prospettiva di ritorno, del bene idrico alla sua destinazione.
Sulla base di tali evidenze, non può condividersi neanche l’irrilevanza che il primo giudice ha conferito alla mancata mappatura del canale irriguo nel reticolo minore idrico del 2003, recepito dal vigente PRG del Comune di Ospitaletto: la valenza meramente dichiarativa di tale cartografia non può infatti trasformare in prova l’assenza di qualsiasi elemento attestante l’uso pubblico del bene nel periodo intercorrente tra l’emanazione della legge del 1994 e la DIA del 2005.
4. Va altresì esclusa l’appartenenza dell’area in parola al patrimonio comunale indisponibile, come affermato sia dal giudice di prime cure che dal Comune di Ospitaletti nel secondo provvedimento oggetto di impugnativa
Il primo giudice ha sul punto considerato che l’Ente ha acquistato il mappale in cui è ricompresa l’area per cui è causa nel 1973 al fine di realizzare la palestra comunale, nonché, comunque, l’intendimento del Comune di includere la stessa area (già erroneamente ritenuta soggetta al regime del demanio idrico) nel proprio patrimonio indisponibile, per effetto del suo previsto asservimento a due beni di tale patrimonio (plesso scolastico e palestra comunale).
Tali elementi non sono però sufficienti.
4.1. L’art. 826 Cod. civ. stabilisce al terzo comma che “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”.
Tenuto conto di tale ultima locuzione, consolidata giurisprudenza afferma che l’inclusione di un bene nel patrimonio indisponibile comunale richiede la sussistenza di due requisiti congiunti: la manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio; l’effettiva e attuale destinazione del bene a pubblico servizio (tra tante, Cons. Stato, VI, 29.08.2019, n. 5934; IV, 30.01.2019, n. 513; Cass. Civ., Sez. un., 25.03.2016, n. 6019; 28.06.2006, n. 14685; II, 16.12.2009, n. 26402; 09.09.1997, n. 8743).
Il secondo requisito nel caso di specie è del tutto insussistente.
Come sopra già rilevato, nel corso degli anni ’70 il Comune, successivamente al suo acquisto, ha realizzato sul mappale n. 133, nel cui ambito insiste la striscia di terreno ora rivendicata dal Comune, la palestra comunale, e ha contestualmente delimitato l’area a ciò destinata mediante l’edificazione di un muro in cemento armato, escludendo tale striscia.
La predetta porzione di area non è dunque asservita alla palestra, ed è, allo stato, inglobata nel giardino di proprietà degli appellanti, che, per l’effetto, l’hanno da tempo adibita a un uso privato, che è rimasto incontestato sino all’adozione degli atti di cui si discute.
Nel descritto contesto, il Comune non può utilmente invocare ai fini per cui è causa la destinazione prevista nell’atto di acquisto, che non è sufficiente ad assoggettare il bene al regime del patrimonio indisponibile (Cons. Stato, 06.12.2007, n. 6259; Cass. Civ., Sez. un., 28.06.2006, n. 14865), ove la relativa destinazione non divenga poi effettiva.
E’, pertanto, fondata la censura di cui pure al quarto motivo di appello, con cui gli interessati sostengono l’erroneità della conclusione del primo giudice che annovera la porzione di area in parola tra i beni comunali indisponibili, perché fondata su una destinazione al pubblico servizio “pro futuro”, laddove la giurisprudenza sottolinea la necessità della sua concreta ed attuale esistenza, con conseguente fondatezza anche del quinto motivo, con cui gli interessati deducono l’insussistenza dei presupposti per il ricorso allo strumento dell’autotutela possessoria, da cui sono esclusi, come rilevato anche dal primo giudice, i beni del patrimonio disponibile (Cass. Civ., Sez. un., 03.12.2010, n. 24563) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.02.2020 n. 1123 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

gennaio 2020

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 28.01.2020 n. 22 "Revisione delle reti stradali relative alle Regioni Emilia Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto" (D.P.C.M. 21.11.2019).

PATRIMONIO: Sinistri su strada aperta al pubblico transito.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Cosenza, Sez. I, sentenza 20.01.2020 n. 127 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 02.01.2020, "Programma degli interventi prioritari sulla rete viaria di interesse regionale - Aggiornamento 2019" (deliberazione G.R. 09.12.2019 n. 2604).

dicembre 2019

PATRIMONIOL’avvalimento nelle concessioni.
Domanda
È corretto consentire l’istituto dell’avvalimento una concessione decennale di gestione di una struttura pubblica?
Risposta
L’istituto dell’avvalimento ai fini della partecipazione alle procedure di gara, in particolare a quelle inerenti le concessioni, trova disciplina nell’art. 172, co. 2, del d.lgs. 50/2016, in base al quale si stabilisce che: “Per soddisfare le condizioni di partecipazione di cui al comma 1, ove opportuno e nel caso di una particolare concessione, l’operatore economico può affidarsi alle capacità di altri soggetti, indipendentemente dalla natura giuridica dei suoi rapporti con loro. Se un operatore economico intende fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore che disporrà delle risorse necessarie per l’intera durata della concessione. Per quanto riguarda la capacità finanziaria, la stazione appaltante può richiedere che l’operatore economico e i soggetti in questione siano responsabili in solido dell’esecuzione del contratto. Alle stesse condizioni, un raggruppamento di operatori economici di cui all’articolo 45 può fare valere le capacità dei partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti. In entrambi i casi si applica l’articolo 89”.
Il richiamo all’art. 89, ovvero norma che definisce l’istituto dell’avvalimento nelle procedure di aggiudicazione di appalti, fa ritenere in modo chiaro, la volontà del legislatore nazionale di consentirne il ricorso anche nel caso di procedure finalizzate all’affidamento di concessioni.
Tuttavia a differenza degli appalti, nelle concessioni si chiede alla pubblica amministrazione di fare delle concrete valutazioni in ordine all’opportunità di consentire la possibilità di affidarsi alla capacità di altri soggetti, e quindi eventualmente di limitare nella disciplina speciale di gara il ricorso a tale istituto.
La natura stessa di una concessione, quale contratto che presenta spesso una durata importante, rende inadatto l’istituto dell’avvalimento, proprio per la concreta difficoltà nella dimostrazione, all’amministrazione aggiudicatrice, circa la capacità dell’operatore partecipante di poter effettivamente disporre, per tutta la durata del contratto, e quindi per un periodo ad esempio ultradecennale, delle risorse necessarie.
Soprattutto quando si tratta dei requisiti di capacità tecnica ed organizzativa nelle concessioni ove l’oggetto principale è una gestione complessiva, proprio per la difficoltà di valutare e considerare tutti quei fattori e quegli elementi che incidono concretamente sull’equilibrio economico e finanziario.
Pertanto, fermo restando la natura dell’istituto dell’avvalimento che la giurisprudenza considera di applicazione generale e volto a consentire la più ampia partecipazione, nel caso di concessioni, è necessario valutare l’opportunità, in base agli specifici affidamenti, di introdurre negli atti di gara delle clausole che ne limitino il ricorso (18.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ottobre 2019

PATRIMONIO: Oggetto: DPR 151/2011 Attività n. 80 - Gallerie stradali più lunghe di 500 metri - Adempimenti procedurali e tecnici - Indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno, Dipartimento VV.F., nota 31.10.2019 n. 16510 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI - PATRIMONIO: OGGETTO: acquisto di terreno comunale da parte di amministratore del Comune tramite permuta – sussistenza di un interesse pubblico – divieto di cui all’art. 1471 c.c. e all’art. 15 del Regolamento comunale – applicabilità – parere (Legali Associati per Celva, nota 29.10.2019 - tratto da www.celva.it).
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Il Comune di La Thuile ha sottoposto alla nostra attenzione, per il tramite del CELVA, quesito avente ad oggetto le modalità di applicazione dell’art. 1471 c.c., recante “Divieti speciali di comprare”, nonché dell’art. 15 del Regolamento comunale per la disciplina delle alienazioni di beni immobili. (...continua).

PATRIMONIO: L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito.
In tema di responsabilità civile, l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo e, nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso (TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 02.10.2019 n. 1116 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

settembre 2019

PATRIMONIOCollocazione di dossi rallentatori.
Domanda
L’amministrazione comunale, al fine di moderare la velocità nell’attraversamento del centro abitato, è intenzionata ad installare dei rallentatori di velocità, tipo i classici dossi gialli.
Qual è la normativa e quali sono i limiti a riguardo?
Risposta
Il regolamento di esecuzione del Codice della strada (D.P.R. 495/1992) all’art. 179 dal titolo “rallentatori di velocità”, disciplina tipologia e modalità di tali strumenti atti a far rispettare appunto i limiti di velocità.
Ai sensi dell’art. 179 si possono distinguere due tipologie di rallentatori: le bande trasversali e i dossi artificiali.
Le bande trasversali possono essere ad effetto ottico, acustico o vibratorio e si possono adottare su tutte le strade. I commi 2 e 3 della norma indicano come devono essere realizzati i tre diversi sistemi.
I dossi artificiali, invece, possono essere posti esclusivamente su “strade residenziali”. Il codice della strada, all’art. 2, non contiene la classificazione di “strada residenziale”: è dunque necessario riferirsi alla definizione di “zona residenziale” di cui il punto 58 dell’art. 3 del Codice che definisce la zona residenziale come la “zona urbana in cui vigono particolari regole di circolazione a protezione dei pedoni e dell’ambiente, delimitata lungo le vie d’accesso dagli apposi segnali di inizio e fine”.
In tal senso la circolare del Ministero dell’Interno n. 300/A/45182/103 del 07.09.1999 chiarisce che, al fine di poter collocare i dossi rallentatori, è necessario delimitare l’area interessata e qualificarla come “residenziale” (1).
La seconda parte del comma 5, dell’art. 179 del Regolamento di attuazione, precisa inoltre che, per i dossi, “ne è vietato l’impiego sulle strade che costituiscono itinerari preferenziali dei veicoli normalmente impiegati per servizi di soccorso o di pronto intervento”.
In conclusione va sottolineato, alla luce di quanto sopra descritto, che i dossi subiscono molte limitazioni circa la loro collocazione. Inoltre, è stato verificato che spesso, chi ha ottenuto la collocazione dei dossi al fine di limitare la velocità dei veicoli che transitano vicino alla proprietà privata, successivamente chieda che vengano rimossi per i rumori e le vibrazioni prodotti dal passaggio di veicoli pesanti.
È consigliabile pertanto valutare attentamente l’eventuale collocazione di tali rallentatori.
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(1)“Attesa l’assenza nel Codice di una specifica definizione della normativa di strada residenziale, mentre per converso, com’è noto, la disposizione dell’art. 3, comma 1, n. 58, del Codice fornisce la definizione di zona residenziale, appare possibile identificare dette aree, solo sulla scorta della zonizzazione prevista dai singoli strumenti urbanistici generali (PP.RR.GG.) ed in particolare facendo riferimento alle zone territoriali omogenee (opportunamente identificate nelle apposite cartografie) nelle quali la definizione e le modalità di intervento fanno capo alle normative tecniche di attuazione dei medesimi strumenti urbanistici generali, in relazione alle disposizioni del Codice della Strada” (27.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIO - TRIBUTI: Pubblicità su rotatorie.
Domanda
È possibile utilizzare le rotatorie per collocare dei cartelli pubblicitari della ditta che si occupa della manutenzione della stessa; inoltre è possibile posizionare dei manifesti o striscioni al fine di pubblicizzare manifestazioni, eventi di varia natura o sagre paesane?
Risposta
Spesso le amministrazioni comunali optano per la collocazione nelle aiuole all’interno delle rotatorie stradali di supporti di vario genere che pubblicizzano aziende, generalmente florovivaistiche, le quali, in cambio di tale pubblicità, si fanno carico della manutenzione delle aiuole stesse.
Durante il periodo primaverile ed estivo è aperta anche la stagione delle manifestazioni locali.
La rotatoria diventa spazio per pubblicizzare gli eventi, spesso con striscioni o cartelli che, per forma, dimensioni e posizionamento, non garantiscono la sicurezza stradale.
Tecnicamente la rotonda è assimilabile ad un incrocio (intersezioni a raso): ai sensi dell’art. 23, comma 1 e dell’art. 51, commi 3 e 4, del Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice della strada, l’installazione di cartelli, insegne d’esercizio e di altri mezzi pubblicitari è vietata, con sanzioni pecuniarie elevate, oltre alla rimozione, in caso di inosservanza.
L’ente proprietario potrà quindi essere chiamato a rispondere nel caso di eventuali sinistri: tali cartelli pubblicitari sono di per sé motivo di distrazione e reale pericolo per la sicurezza stradale.
Si rimanda, per completezza, alla circolare del Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti del 18.04.2012, n. 1699.
C’è da segnalare però, in conclusione, che, tra le modifiche al Codice della strada in discussione in queste settimane alla Camera dei Deputati, c’è una norma che consentirebbe la possibilità di derogare a tale divieto assoluto.
Il comma 7-bis dell’art. 23 del Codice della strada, che con ogni probabilità verrà inserito, avrà infatti il seguente tenore: “In deroga al comma 1, ultimo periodo, al centro delle rotatorie nelle quali vi sia un’area verde, la cui manutenzione è affidata a titolo gratuito a società private o ad altri enti, è consentita l’installazione di un’insegna di esercizio dell’impresa o ente affidatario, fissata al suolo. Per l’istallazione dell’insegna di cui al presente comma si applicano in ogni caso le disposizioni di cui al comma 4.” (20.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

luglio 2019

PATRIMONIOLa verifica dell'interesse culturale dei beni.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 42/2004, introduce all'art. 12 il procedimento per la verifica dell’interesse culturale dei beni mobili ed immobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli enti pubblici ed alle persone giuridiche private senza fine di lucro.
L’art. 12 prevede che tutti i beni che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, siano sottoposti all'accertamento dell’interesse culturale attraverso una procedura che prevede l’invio dei dati identificativi e descrittivi delle cose immobili e mobili ai fini della valutazione di merito da parte dei competenti uffici del Ministero.
Un Comune riceve da un soggetto privato la proposta di cessione, a titolo oneroso, del diritto di utilizzo della propria banca dati, formata da documenti di testo e fotografici pubblici e privati, riguardanti la storia del Comune, dalle origini fino alla sua costituzione formale, avvenuta oltre 60 anni fa.
Tale banca dati costituisce un vero e proprio archivio storico, dal 1857 al 1960, comprendente foto del paese, mappe del litorale dell’IGM di F., mappe catasto terreni, etc.
Le fonti archivistiche consultate e dalle quali è stata tratta la documentazione che si vorrebbe cedere, a titolo oneroso, al Comune proviene da Archivi di Stato, di Comuni e Province, Archivi parrocchiali, universitari e dell’Agenzia delle Entrate.
Si chiede di conoscere se, a vostro parere:
   - tale proposta rientri nella particolare attività di vendita o commercio di archivi o singoli documenti o beni librari, particolarmente delicata poiché potrebbe coinvolgere anche beni culturali sottoposti a tutela, ai sensi del citato decreto legislativo;
   - alla luce della normativa vigente, sia onere del Comune eventuale cessionario dei beni, sottoporre la proposta del soggetto privato alla previa vigilanza della competente soprintendenza archivistica e bibliografica per l’autorizzazione o dichiarazione di interesse culturale, ovvero avvalersi della collaborazione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
O se, al contrario, spetti al cedente la verifica de quo, prima di intraprendere ogni azione di vendita/donazione della banca dati in oggetto.
RISPOSTA:
Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è stato già oggetto di modifiche introdotte con i due decreti legislativi nn. 156 e 157 del 24.03.2006 ed è in attesa di ulteriore revisione per impulso del Ministero dei Beni Culturali.
Sul piano squisitamente operativo uno degli aspetti, maggiormente problematici è rappresentato proprio dal procedimento di verifica di interesse culturale di cui all’art. 12 di cui al quesito.
Così come confezionata la disposizione legislativa ha comportato difficoltà interpretative -riguardanti specialmente le limitazioni soggettive da applicare al procedimento di che trattasi- tra i fruitori della norma e gli stessi soggetti chiamati ad applicarla.
Il procedimento amministrativo per dettato normativo stabilisce con chiarezza che può essere avviato d’ufficio o su richiesta dei singoli soggetti cui i beni appartengono, ma non esprime una altrettanto chiara individuazione dei diversi termini iniziali del procedimento nelle due ipotesi.
Con tutta probabilità nella mente del legislatore il fulcro sta nella ricezione della documentazione relativa al bene da sottoporre a verifica da parte dell’Agenzia del Demanio, indipendentemente dal suo avvio nelle distinte ipotesi.
In buona sostanza la durata del procedimento è fissata in gg. 60, di cui 30 per il completamento della istruttoria (Soprintendenza). Ferma ogni fondata perplessità sul rispetto dei termini fissati nonostante la dichiarazione di perentorietà, ci sembra interessante il fatto che il risultato della verifica, connesso all’inserimento in un archivio informatico per finalità di monitoraggio del patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi, estende le disposizioni procedimentali "...omissis...” anche agli immobili appartenenti alle regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché alla proprietà degli altri enti ed istituti pubblici (comma 12).
Ciò che a noi precipuamente interessa è di individuare l’ambito soggettivo di applicazione per eventualmente escludere dal regime normativo il caso descritto dal quesito.
In proposito va detto che ciascun provvedimento individua i soggetti destinatari del provvedimento finale riferito al c.d. procedimento di verifica dell’interesse.
In rapida sintesi facendo riferimento anche alle disposizioni che li nominano, i soggetti sono:
   a) le Amministrazioni dello Stato (D.L. n. 269/2003, d.lgs. n. 42/2004 e D.M. 28.02.2005);
   b) le Regioni, le Province, le Città metropolitane ed i Comuni (norme c/s);
   c) enti ed istituti pubblici (norme c/s);
   d) persone giuridiche private senza fine di lucro (D.M. 25.01.2005);
   e) istituti ed enti religiosi (Accordo 08.03.2005).
Si può agevolmente notare che trattasi di soggetti pubblici o ad essi equiparati. Esiste poi un regime differenziato di tutela per le cose di interesse storico artistico in relazione alla natura giuridica dei soggetti cui le cose appartengono –privati o “pubblici”- (già dalla legge n. 1089/1939).
Tra i due regimi differenziati l’elemento discriminante è rappresentato dal modo di individuazione dei beni oggetto di tutela.
Per i privati, infatti, occorre un provvedimento ad hoc dell’Amministrazione –debitamente notificato- che assoggetti il bene al regime di vincolo, mentre per quei soggetti definibili “pubblici” l’assoggettamento alla tutela avviene ex lege, ovverosia attraverso disposizioni ad hoc.
Tra i privati si devono far rientrare tutti quei soggetti che dotati di personalità giuridica non perseguano un fine di lucro, come ad esempio gli enti ecclesiastici legalmente riconosciuti, associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni private che abbiano acquistato la personalità giuridica mediante un formale riconoscimento, ma senza fini di lucro.
Un ulteriore criterio da tenere come parametro di riferimento è costituito dal diverso livello dell'interesse che il bene deve avere per assumere la qualità di bene culturale.
I soggetti interessati da tale procedimento sono anche i privati e le persone giuridiche private con scopo di lucro, con la conseguenza che “trattandosi in definitiva di competizione di diversi interessi entrambi di rango costituzionale, quale quello alla tutela del patrimonio artistico da un lato, e quello della proprietà privata dall'altro” (Cons. Stato, sez. VI, 27.08.2001, n. 4508, in Riv. giur. ed., 2001, I, p. 1167) è stato previsto un procedimento particolarmente rigoroso e tuzioristico.
Stando al citato principio, per i beni pubblici (ed assimilati) l'interesse di riferimento è solo quello "semplice" (art. 10 comma primo) e cioè senza altra aggettivazione, mentre per i beni dei privati l'interesse deve essere «particolarmente importante» [art. 10, comma 3, lettera a)] e addirittura "eccezionale" per i beni indicati nel citato dispositivo (lettera e)
Per i beni di appartenenza privata, quindi, il regime di tutela viene rinviato al momento della relativa dichiarazione o, per meglio dire, al momento dell'inizio della fase procedimentale, individuato dalla norma nella comunicazione dell'avvio del procedimento (articolo 14 comma 1).
Sembra anche opportuno segnalare in proposito che l’obiettivo è quello di tutelare in maniera preventiva tutti quei beni che, per la loro natura e per la loro appartenenza, rivestono un potenziale interesse culturale, dall'altro la necessità di un procedimento che consenta la liberalizzazione della circolazione (esigenza quest'ultima particolarmente avvertita allorché si è attuata una politica di alienazione di parte del patrimonio pubblico).
In ordine alla efficacia, è prevalente l'opinione che il provvedimento ha natura meramente dichiarativa in quanto concernente una qualità oggettiva del bene, “in esso intrinsecamente presente”. Quest'ultima tesi -che in passato la Corte costituzionale ha fatto propria respingendo ogni dubbio di incostituzionalità della L. n. 1089/1939 ed ogni tentativo di pretendere la corresponsione di un indennizzo a ristoro del pregiudizio derivante dall'imposizione del vincolo- appare preferibile, ove si consideri che l'interesse culturale di un bene non viene creato dal provvedimento amministrativo, che si limita a riconoscerlo, rivelarlo e dichiararlo pubblicamente, ma esiste sin dall'origine.
La giurisprudenza amministrativa regionale ci è d’ausilio nel ricordarci che, come ogni provvedimento amministrativo la dichiarazione deve essere supportata da una valida motivazione con particolare riguardo “all'esistenza degli elementi fattuali e di giudizio giustificativi dell'interesse artistico o storico atto a determinare l'imposizione del vincolo, così da rendere possibile la ricostruzione dell'iter logico seguito dall'amministrazione” (Tar Veneto, sez. II, 29.10.1996, n. 1801, in Giur. mer., 1997, p. 603), nonché “deve accertare il collegamento dei beni e della loro utilizzazione con gli accadimenti della storia e della cultura, individuando l'interesse particolarmente importante del bene, che può dipendere o dalla qualità dell'accadimento che col bene appare collegato o dalla particolare rilevanza che il bene stesso ha rivestito per la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura” (C.d.S., Sez. VI, 24.03.2003, n. 1496).
CONCLUSIONI
Quale che sia il procedimento di verifica, esso spetta al MIBAC (Ministero per i beni e le attività culturali), in ordine alla esistenza o meno dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (categoria questa ultima entro la quale potrebbe astrattamente rientrare il caso esposto dal quesito).
Si ricorda anche che l'attivazione su richiesta della parte si fonda sulla possibilità che, attraverso tale procedura, si ottenga la liberalizzazione del bene da ogni vincolo in ordine alla tutela ed alla circolazione.
L'esito della verifica, che viene proposta d'ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono (comma 2 articolo 12), può risultare negativo ovvero positivo.
Qualora nelle cose sottoposte a verifica non sia stato riscontrato l'interesse sopra evidenziato, le cose medesime sono escluse dal regime di tutela (comma 4, articolo 12).
Si ricorda per completezza di trattazione che avverso la dichiarazione di cui all'articolo 13 è ammesso ricorso al Ministero, per motivi di legittimità e di merito, entro trenta giorni dalla notifica della dichiarazione (articolo 16).
Fermo restando quanto sopra chiarito e salva la possibilità da parte del privato interessato di avviare il procedimento di verifica - diretto non di certo all’ente locale coinvolto - chi scrive ritiene che, salvo smentita da parte dell’Organo Ministeriale valutatore, dei beni immateriali in questione, per come descritti dal quesito e consistenti in una mera, se pure finalizzata e tematica raccolta documentativa e di quant'altro concernente la storia culturale e sociale del Comune, non sarà positivamente riscontrato, accertato e dichiarato l’interesse culturale ex art. 12 del Codice.
In ogni caso, soltanto successivamente ad un eventuale riscontro positivo, l’amministrazione locale potrà valutare l’ipotesi di acquisizione del bene al proprio patrimonio, a titolo grazioso o oneroso rispettando ogni disposizione legislativa (Tuel) e regolamentare (Regolamento di Contabilità) al fine di adottare dei legittimi e regolari provvedimenti comunali acquisitivi (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIOAcquisto complesso immobiliare da destinare a nuova sede protezione civile.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, introdotto dall’art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo modificato dall’art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017, stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all’acquisto di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a comprovarne l’indispensabilità e l’indilazionabilità, nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
L’art. 1, c. 905, lett. d), L. n. 145/2018, stabilisce che, a decorrere dall’esercizio 2019, il suddetto comma 1-ter non si applica ai comuni e alle loro forme associative che approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il 31 dicembre.
L’art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall’art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all’art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall’art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in tutto o in parte con legge regionale.

Il Comune riferisce di avere individuato un capannone nella zona industriale ove vorrebbe trasferire la nuova sede della protezione civile ed espone che per detto capannone e per il terreno su cui insiste è stato emesso avviso d’asta giudiziaria per l’unico complesso immobiliare, cui il Comune vorrebbe partecipare quale offerente, autorizzato da delibera consiliare ai sensi dell’art. 42 del D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL), e motivando l’iniziativa con il perseguimento della cura di uno specifico interesse pubblico.
Sulla legittimità di detta operazione, il Comune chiede un parere, avuto riguardo al divieto di acquisto per gli amministratori dei beni affidati alla loro cura, di cui all’art. 1471 c.c.
L’art. 1471 c.c., stabilisce che “non possono essere compratori nemmeno all’asta pubblica, né direttamente, né per interposta persona”, tra gli altri, “gli amministratori dei beni dello Stato, dei comuni, delle province o degli altri enti pubblici, rispetto ai beni affidati alla loro cura”.
Il divieto in commento è sancito a pena di nullità (art. 1471, ultimo comma, c.c.) ed è volto a garantire che chi amministra beni pubblici abbia a tutelare effettivamente gli interessi affidati alle sue cure e non contrapponga o sovrapponga ad essi il proprio personale interesse
[1]. Si tratta dunque di una norma che mira a scongiurare situazioni di conflitto di interessi in cui possono incorrere gli amministratori comunali, rispetto ai beni del comune [2], cioè ai beni dell’ente amministrato [3].
Nel caso di specie, è il Comune che intende acquistare il complesso immobiliare di cui si tratta per destinarlo alla nuova sede della protezione civile, per cui non viene in considerazione il divieto di acquisto di cui all’art. 1471 c.c., riferito al divieto per gli amministratori, nella loro persona, di acquistare beni di proprietà comunale.
Peraltro, per quanto concerne gli acquisti di immobili da parte degli enti locali, vengono in considerazione vincoli finanziari in tema di contenimento della spesa pubblica, in relazione ai quali, sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato dall’art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere dall’01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento.
Le disposizioni di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a valere su risorse stanziate con apposita delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica o cofinanziate dall’Unione europea ovvero dallo Stato o dalle regioni e finalizzate all’acquisto degli immobili stessi. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio previo rimborso delle spese.
L’art. 1, comma 905, lett. d), L. n. 145/2018
[4] , ha previsto che a decorrere dall’esercizio 2019, ai comuni e alle loro forme associative che approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell’anno precedente non trovano applicazione, tra l’altro, le disposizioni di cui all’art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011.
Sul piano dell’ordinamento regionale, l’art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall’art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all’art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall’articolo 1, comma 138, della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
Alla luce del quadro normativo delineato, compete all’Ente verificare nel caso concreto la possibilità di procedere all’acquisto del complesso immobiliare di cui si tratta, accertando la ricorrenza dei presupposti legittimanti richiesti dalla normativa statale, oppure la possibilità di applicare la norma regionale citata. A quest’ultimo riguardo, si precisa che la stessa postula che nei decreti di assegnazione dei fondi regionali di finanziamento vi sia la specifica previsione delle somme a disposizione per l’acquisto degli immobili di interesse.
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[1] Cfr. Consiglio nazionale del notariato. Ufficio Studi, Dizionario giuridico del notariato: nella casistica pratica, Giuffrè, 1006, p. 396.
[2] Cfr. Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, pareri del 6 aprile 2009 e 22.11.2004. Il Ministero dà un’interpretazione ampia della locuzione “amministratori” destinatari del divieto, comprensiva del Sindaco, degli assessori, dei consiglieri, in considerazione della valenza generale che riveste l’individuazione delle categorie degli amministratori effettuata dal comma 2 dell’art. 77 del TUEL.
Nel senso di un’accezione ampia della nozione di amministratori di cui all’art. 1471, anche la giurisprudenza di merito: Appello Milano, 28.04.1961, GI, 1961, I, 2, 538, richiamata da Consiglio nazionale del notariato. Ufficio Studi, op. cit., p. 397.
Sulla scia di detto orientamento, questo Servizio ha affermato l’applicazione del divieto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c., agli organi di governo dell’ente locale, e dunque sindaco, assessori, consiglieri: v. nota n. 8965 del 31.05.2007 e nota n. 7440/2017.
[3] Cfr. Francesco Caringella, Giuseppe De Marzo, Manuale di diritto civile, Volume 3, Giuffrè Editore, 2008, p.1068.
[4] Recante: “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2009 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021”
(24.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PATRIMONIOEstinzione concessione cimiteriale a seguito di estumulazione.
In caso di concessione rilasciata per la tumulazione in loculo comunale di salma individuata nel contratto, in dottrina e in giurisprudenza si ritiene che l’estumulazione del feretro determini l’estinzione della concessione per esaurimento della funzione.
Il Comune riferisce di una concessione cimiteriale, della durata di novantanove anni, con la quale è stato attribuito al concessionario ed eredi l’uso di un loculo
[1] per l’“inumazione” (rectius tumulazione) individuale della salma (del figlio del concessionario) indicata nel contratto. Gli eredi del concessionario, successivamente deceduto, hanno fatto istanza al Comune di estumulare dal loculo detta salma, al fine di ridurla in cassetta ossario e ritumularla nello stesso loculo, ove hanno manifestato la volontà di riporre in futuro anche la salma della madre [2].
Il Comune ritiene di poter accogliere la domanda di estumulazione, mentre è dell’avviso di non consentire la tumulazione nel loculo di cui si tratta di un feretro diverso da quello del soggetto nominalmente individuato nella concessione, in quanto osserva che il loculo è stato concesso per un determinato scopo e di conseguenza l’estumulazione determina l’estinzione della concessione per esaurimento della finalità per cui la stessa è stata fatta. Sulla correttezza o meno di siffatta impostazione il Comune chiede parere.
Sentita l’Area promozione salute e prevenzione della Direzione centrale salute, politiche sociali e disabilità, si esprime quanto segue.
Si premette che l’attività di questo Servizio consta nel fornire un supporto giuridico generale sulle questioni poste dagli enti, che possa essere di aiuto per la soluzione dei casi concreti che li riguardano, in relazione alle loro peculiarità.
Si precisa altresì che questo Servizio non è deputato ad esprimere considerazioni sugli atti negoziali stipulati dall’Ente, la cui interpretazione compete solo alle parti da cui provengono e, in ultima istanza, al giudice competente eventualmente adito.
Un tanto premesso, in via collaborativa si esprimono le seguenti considerazioni.
Dalla lettura del contratto di concessione, emerge che il Comune dà e concede e il privato contraente “accetta, si obbliga e stipula per sé ed eredi l’uso del loculo …per inumazione della salma” della persona ivi identificata.
In particolare, per quanto concerne gli eredi, nel contratto si specifica che alla morte del concessionario “il diritto di uso, relativo al loculo concesso, passerà alla morte del concessionario agli eredi”, con l’espressa riserva che il “Comune non riconoscerà mai, per i relativi diritti ed obblighi, che uno solo degli eredi”, da designarsi nei modi ivi stabiliti.
Il diritto di uso concesso non potrà in nessun modo e per nessun titolo essere ceduto ad altri, eccettuato quanto previsto per gli eredi.
Dalle espressioni sopra richiamate, sembrerebbe che il contratto attribuisca al concessionario e agli eredi il diritto di tumulare nel loculo il feretro del soggetto ivi espressamente e nominativamente indicato.
A voler assumere, muovendo dal tenore letterale del contratto, che il Comune abbia concesso e il concessionario abbia accettato (per sé e i suoi eredi) l’uso del loculo per la tumulazione di una salma specifica, questo porterebbe a ritenere che l’estumulazione di quel feretro determini l’estinzione della concessione per esaurimento della finalità per cui questa era stata chiesta ed ottenuta.
E così, con specifico riferimento all’ipotesi del posto a tumulazione individuale (colombario, loculo, a seconda delle denominazioni localmente usate, che possono essere variamente diversificate) concesso “esclusivamente” per il feretro di defunto determinato o comunque per il quale l’atto di concessione specifichi che la concessione è stata fatta per accogliervi quel determinato feretro, la dottrina ha osservato che qualora venga richiesta l’estumulazione del feretro di destinazione, si ha l’effetto che viene ad esaurirsi il fine originario per cui era sorta la concessione e, conseguentemente, si ha l’estinzione della concessione
[3].
Peraltro, si ribadisce che, trattandosi di atto negoziale, la relativa interpretazione compete unicamente alle parti, con la conseguenza che il Comune potrebbe anche aderire ad un’interpretazione del contratto di concessione diversa da quella che appare corrispondente al tenore letterale dello stesso.
Al riguardo, risulta ad ogni modo utile suggerire al Comune di regolamentare espressamente l’istituto della concessione di loculi di proprietà comunale, per uso esclusivamente di salma determinata oppure per uso del concessionario e dei suoi familiari, anche per quanto concerne la fattispecie dell’estinzione.
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[1] Trattasi di loculo di proprietà del Comune.
[2] Della persona la cui salma è ivi tumulata.
[3] Sereno Scolaro, Le concessioni cimiteriali, Maggioli, 2008, pagg. 220-222. Lo stesso autore osserva inoltre che, nel caso in cui invece, a fronte di una concessione d’uso stipulata per una determinata salma, il loculo venisse utilizzato per altra persona, si avrebbe la fattispecie della decadenza della concessione per inadempimento contrattuale, consistente nel fatto del mancato uso del loculo per la destinazione impressa nell’atto di concessione (cfr. Sereno Scolaro, La polizia mortuaria, op. cit, p. 280). Si veda anche TAR Parma 12.06.2006, n. 290, che evidenzia come la concessione cimiteriale sia strettamente connessa e subordinata alla permanenza in loco della salma e si estingua quando questa sia estumulata. Cfr. nota n. 1956 del 13.02.2018 di questo Servizio
(04.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia.
La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali ogni volta che sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sul bene stesso. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi sono solo figure sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della Pubblica Amministrazione, mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche, essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito (TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 02.07.2019 n. 1701  - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

giugno 2019

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Comune di Villeneuve - rete fognaria pubblica - interferenza con lavori di nuova costruzione - richiesta di spostamento delle condotte - parere (Legali Associati per Celva, nota 21.06.2019 - tratto da www.celva.it).

aprile 2019

PATRIMONIO: Cimiteri, illegittima la riserva agli islamici.
È illegittima la clausola di una convenzione con la quale un comune ha stabilito che nel reparto islamico del cimitero debbano essere accolti solo i defunti di quella religione, appositamente attestata da un Centro islamico.

Lo ha sancito il TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, con la sentenza 20.04.2019 n. 383.
Comune di Bergamo e Centro culturale islamico onlus avevano stipulato una convenzione che designava quest'ultima come assegnataria di un'area sulla quale essa avrebbe provveduto alla realizzazione del reparto cimiteriale riservato e separato, a sua cura e spese.
Tale convenzione prevedeva che il Centro si impegnasse ad accogliere nel proprio cimitero tutti i defunti di quella religione. In seguito, per fare fronte all'incremento della richiesta di sepolture islamiche, il comune aveva previsto l'inclusione nel reparto speciale islamico –appositamente ed opportunamente orientato e organizzato secondo le esigenze della liturgia coranica– di un'ulteriore area.
In occasione di tale ampliamento, però, il comune aveva parzialmente modificato il contenuto della convenzione, prevedendo che nel reparto islamico del cimitero venissero accolti tutti i defunti di quella religione con la preventiva attestazione della professione della fede islamica da parte del Centro culturale islamico di Bergamo. In mancanza dell'attestazione il comune avrebbe disposto l'ordinaria inumazione nel campo comune del cimitero di Bergamo.
Con ricorso alcune associazioni islamiche avevano subito impugnato tale modifica, che avrebbe violato i principi costituzionali relativi al diritto di libertà dell'espressione religiosa, subordinando la sepoltura nel settore islamico all'attestazione della fede islamica demandata a un soggetto privato quale l'Associazione centro culturale islamico onlus, senza, peraltro, fissare criteri o vincoli. Il Tar accoglie il ricorso.
Deve, infatti, ritenersi illegittima la clausola successivamente apposta dall'ente locale. In particolare il collegio ha osservato che tale clausola è in contrasto con i principi costituzionali che garantiscono la libertà di religione e della sua professione. Libertà che risulta chiaramente violata nel momento in cui la possibilità di accedere al rito funebre islamico per il deceduto è subordinata all'acquisizione, da parte dei parenti, di una certificazione attestante la fede islamica dello stesso, rilasciata da un soggetto privo di alcuna legittimazione in tal senso, trattandosi di una mera associazione privata (articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019).

PATRIMONIO: Responsabilità dell’ente pubblico.
L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Infatti, nella materia de qua sussiste una presunzione di responsabilità dell’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito, ai sensi dell’art. 2051 c.c., relativamente ai sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua estensione, essendo tale responsabilità esclusa solo dal caso fortuito, che può consistere sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa vittima, ricollegabile all’omissione delle normali cautele esigibili in situazioni analoghe
(TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 462 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

marzo 2019

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOAcquisto di fondi per la realizzazione di aree pubbliche.
DOMANDA:
Un Comune rappresenta che, dopo aver accantonato una quota di avanzo vincolato derivante da monetizzazioni aree di standard urbanistiche, vorrebbe impegnarlo per l'acquisizione di un terreno adiacente ad un campo da calcio che era stato concesso in comodato al Comune e che il proprietario vuole vendere o, altrimenti, vedersi restituito.
RISPOSTA:
In relazione al supposto impiego di dette risorse per l'acquisto del sedime adiacente all'impianto sportivo comunale si osserva quanto segue.
L'art. 46 della Legge Regionale Lombardia n. 12/2005 prevede testualmente, per quanto qui più interessa, che: “La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150) , deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica
;”.
A sua volta, poi, tale previsione va letta in combinato disposto con il successivo art. 90 avente ad oggetto le aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale ove, tra le altre condizioni, viene precisato che “Nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.
Orbene, date per legittime le monetizzazioni degli standard già svolte, l’utilizzo delle risorse derivanti è subordinata alla verifica a valle, da parte del Comune, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi sia destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano (cfr. Corte dei conti, sez. Lombardia, del. 100/2017) (31.03.2019 - link a www.conord.eu).

PATRIMONIO: Danni da insidia stradale.
In tema di responsabilità da insidia stradale, la collocazione del bene demaniale all’interno del perimetro urbano delimitato dallo stesso comune è elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene, dal cui difetto di manutenzione è derivato il danno, sicché non può revocarsi in dubbio che l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze, indipendentemente dalla loro riconducibilità a scelte discrezionali della P.A. (Corte di Appello Bari, Sez. III, sentenza 14.03.2019 n. 653 - massima da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Risarcibilità danno ingiusto.
Premesso che la norma primaria sulla responsabilità aquiliana definisce l’area della risarcibilità con una clausola generale espressa dalla formula “danno ingiusto”, in forza della quale è risarcibile il danno che ha le caratteristiche dell’ingiustizia, cioè il danno arrecato non iure, che è ravvisabile nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione, quindi derivante da un comportamento non giustificato da altra norma, che si risolva nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, consegue che il mancato guadagno dell’imprenditore per le difficoltà (o l’impossibilità) di accesso della clientela al proprio esercizio commerciale in conseguenza del protrarsi dei lavori di manutenzione di una strada pubblica, la cui causa venga indicata dal privato nella inadeguata valutazione da parte dell’ente proprietario della complessità delle opere, per l’omesso espletamento delle opportune indagini e verifiche tecniche, non può collegarsi eziologicamente ad un’attività illecita della pubblica amministrazione, non essendo ipotizzabile in via generale una regola che imponga a questa di fissare preventivamente i tempi di esecuzione dei lavori su beni pubblici ad essa appartenenti, la programmazione e la progettazione dei quali rientra nella insindacabile discrezionalità dell’amministrazione stessa (TRIBUNALE di Lecce, Sez. I, sentenza 04.03.2019 n. 782 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

febbraio 2019

PATRIMONIOContributo investimenti L. 145-2018.
Domanda
Sono assessore ai LL.PP. in un comune di 7.100 abitanti. La legge di bilancio ci ha assegnato 70mila euro per interventi sul patrimonio comunale. Quali sono gli interventi che si possono realizzare? Con quali tempi e procedure?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alle somme stanziate dall’art. 1, commi da 107 a 114, della legge 145/2018 (legge di bilancio 2019). Tali somme sono finalizzate alla realizzazione di investimenti per la messa in sicurezza di scuole, strade, edifici pubblici e patrimonio comunale, nel limite complessivo di 400 milioni di euro, purché non siano già interamente finanziati da altri soggetti.
Per chiarire le tipologie di spese finanziabili è intervenuto nelle scorse settimane il Ministero dell’Interno con la pubblicazione sul proprio sito di 27 faq il cui testo integrale è reperibile qui. In particolare, la faq n. 12 precisa che in ogni caso non sono finanziabili gli interventi di manutenzione ordinaria. Il contributo non può pertanto essere destinato a spese correnti.
Gli interventi da realizzare devono essere aggiuntivi rispetto a quanto già previsto nella prima annualità del piano triennale delle opere pubbliche dell’ente beneficiario. I lavori devono essere affidati ai sensi degli articoli 36, comma 2, lettera b), e 37, comma 1, del Codice degli appalti e dovranno essere avviati entro il termine perentorio del 15 maggio prossimo. In virtù della deroga introdotta dal comma 912, per il solo 2019, l’affidamento potrà avvenire, pertanto:
   1 .per importi fino a 40mila euro con affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici;
   2 .per importi pari o superiori a 40 mila euro e fino a 150 mila euro tramite affidamento diretto previa consultazione, se esistenti, di tre operatori economici;
   3. per importi pari o superiori a 150 mila euro e inferiori a 350 mila euro, mediante procedura negoziata, previa consultazione, sempre ove esistenti, di almeno 10 operatori economici.
I tempi per l’avvio dei lavori sono evidentemente molto stretti. Per gli enti che hanno approvato il bilancio di previsione prima dell’entrata in vigore della legge 145/2018 si rende inoltre necessario adottare apposita variazione che ne preveda gli stanziamenti al titolo IV dell’entrata e al titolo II della spesa. E’ possibile procedere con deliberazione della giunta comunale, adottata in via d’urgenza con i poteri del consiglio, ai sensi dell’art. 175, comma 4, del TUEL motivata proprio con l’urgenza di affidare e avviare l’intervento.
Cosa succede se l’ente non rispetta la scadenza del 15 maggio? La risposta è contenuta nel comma 111: esso prevede la revoca del contributo, in tutto o in parte, disposta con decreto del Ministero dell’Interno entro il 15.06.2019. L’ammontare complessivo delle somme revocate sono assegnate, con il medesimo decreto, ai comuni che hanno iniziato l’esecuzione dei lavori in data antecedente alla scadenza del 15 maggio, dando priorità ai comuni con data di inizio dell’esecuzione dei lavori meno recente e non oggetto di recupero. I comuni beneficiari di tale ulteriore riparto sono tenuti ad iniziare l’esecuzione dei lavori entro il 15 ottobre prossimo.
Le somme sono erogate dal Ministero dell’Interno per il 50 per cento previa verifica dell’avvenuto inizio dell’esecuzione dei lavori attraverso il sistema di monitoraggio BDAP-MOP, e per il restante 50 per cento previa trasmissione al Ministero dell’Interno del certificato di collaudo o del certificato di regolare esecuzione rilasciato dal direttore dei lavori.
Infine la legge impone agli enti di dare la massima pubblicità all’intervento realizzato: essi devono rendere nota la fonte di finanziamento, l’importo assegnato e la finalizzazione del contributo nel proprio sito internet, nella sezione «Amministrazione trasparente». Il sindaco deve infine fornire tali informazioni al consiglio comunale nella prima seduta utile (25.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIO: OGGETTO: Ampliamento del cimitero comunale su aree private – acquisizione al patrimonio comunale ed accatastamento del sedime - parere legale (Legali Associati per Celva, nota 22.02.2019 - tratto da www.celva.it).

PATRIMONIO: Gestione di impianti sportivi nel nuovo codice dei contratti, diverse modalità contrattuali.
Domanda
Diverse strutture pubbliche sportive comunali sono in scadenza, alla luce del nuovo codice dei contratti quali sono i sistemi che si possono utilizzare per l’affidamento del servizio di gestione degli impianti sportivi?
L’art. 90, co. 25, l. 289/2002, relativo alla preferenza a favore di società e associazioni sportive dilettantistiche è ancora applicabile?
Risposta
Per consolidato orientamento giurisprudenziale la gestione di impianti sportivi assume i caratteri tipici di un servizio pubblico. La nozione di servizio pubblico è omologa a quella di servizio di interesse generale di derivazione comunitaria, quale attività di produzione di beni e servizi che si distinguono dalle comuni attività economiche, perché perseguono una finalità di interesse generale che ne giustifica l’assoggettamento ad un regime giuridico differenziato (c’è obbligo di pubblico servizio quando il mercato non soddisfa da solo la necessità). La dottrina è giunta ad individuare gli indici di riconoscimento della pubblicità del servizio, identificandoli nella coesistenza di alcuni presupposti, quali:
   • l’attività deve consistere in una prestazione;
   • per la gestione del servizio deve esistere un’organizzazione stabile con un controllo pubblico che assicuri un livello minimo di erogazione;
   • l’attività deve essere diretta ad una generalità di cittadini e presentare il carattere dell’universalità (il servizio deve essere reso a tutti i soggetti che ne facciano richiesta a prescindere dal loro status).
Nel caso della gestione di impianti sportivi comunali trattasi di un servizio pubblico locale ai sensi dell’art. 112 del d.lgs. n. 267/2000, dove l’utilizzo del patrimonio si fonda con la promozione dello sport, che unitamente all’effetto socializzante ed aggregativo, diventa uno strumento di miglioramento della qualità della vita a beneficio non solo per la salute dei cittadini ma anche per la vitalità sociale della comunità (es. culturale, di sviluppo, turistico, di immagine del territorio, ecc.). Con riferimento poi alla “natura” del bene, gli impianti sportivi di proprietà comunale appartengono al patrimonio indisponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 826 del c.c., essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della collettività allo svolgimento delle attività sportive.
Prima di individuare le differenti forme contrattuali da utilizzare per l’affidamento in gestione di un impianto sportivo alla luce del nuovo codice, come correttamente fatto dall’ANAC nella delibera n. 1300 del 14.12.2016, a cui si fa espresso rinvio, occorre comprendere la distinzione tra servizi pubblici locali a rilevanza economica e privi di rilevanza economica.
Ai fini della qualificazione di un servizio pubblico locale sotto il profilo della rilevanza economica, occorre verificare in concreto se l’attività da espletare presenti o meno il connotato della “redditività”, anche solo in via potenziale. Il servizio ha rilevanza economica quando da quella attività, chi la gestisce, ha la possibilità potenziale di coprire tutti i costi (la contribuzione a copertura dei costi è indice di rilevanza economica ponendo il servizio in una situazione di appetibilità per gli operatori). Inoltre, per qualificare un servizio pubblico come avente rilevanza economica o meno si deve prendere in considerazione non solo la tipologia del servizio, ma anche la soluzione organizzativa che l’ente locale, quando può scegliere, sente più appropriata per rispondere alle esigenze dei cittadini.
Al contrario, un servizio è privo di rilevanza economica quando è strutturalmente antieconomico, perché potenzialmente non remunerativo (il mercato privato non è in grado o non è interessato a fornire quella prestazione).
Nel caso specifico la redditività di un impianto sportivo deve essere valutata caso per caso, con riferimento ad elementi quali, costi e modalità di gestione, tariffe per l’utenza (libere o imposte), quote sociali, attività praticate, oneri manutentivi, attività accessorie, obiettivi della gestione sociale, e sulla base di un realistico piano finanziario.
Pertanto fatta questa preliminare introduzione, si possono individuare principalmente tre distinte modalità di affidamento:
   • per gli impianti con rilevanza economica mediante concessione di servizi ai sensi degli artt. 164 e s.s. del codice ed in quanto ricorrano gli elementi indicati dal legislatore per la qualificazione della “concessione” (art. 3, co. 1, lett. vv)) e s.s.);
   • per la gestione di impianti sportivi privi di rilevanza economica (art. 164, co. 3, del d.lgs. 50/2016) mediante appalto di servizi, in quanto l’utilità finale non è resa ad una popolazione indifferenziata, ma direttamente all’ente locale e in assenza di rischio operativo;
   • per l’uso associativo del bene privo di rilevanza economica, mediante concessione amministrativa dell’impianto da affidare sempre con procedura ad evidenza pubblica (impianti di piccolissime dimensione dove non è ipotizzabile una gestione economica del servizio).
Da ultimo si segnala che la via preferenziale di cui all’art. 90 della l. 289/2002, normativa superata, può essere operante solo come valorizzazione dell’associazionismo in un contesto sociale e progettuale, quale elemento di valutazione nell’offerta economicamente più vantaggiosa (20.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOComuni, contributi ai privati. Per realizzare interventi a beneficio della comunità. Per la Corte conti del Piemonte non conta la qualificazione soggettiva del beneficiario.
Un comune può erogare un contributo a un soggetto privato per un intervento di adeguamento della viabilità, destinato ad essere fruito dall'intera comunità.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo Piemonte, con il parere 06.02.2019 n. 7 ha chiarito che qualunque genere di intervento di natura economica da parte dell'amministrazione comunale, per poter essere eventualmente qualificato in termini di legittimità, deve sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, comma 2, del dlgs n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità.
Pertanto, se l'azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal comune, l'erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, e ciò in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale, la Corte dei conti precisa che la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, se il criterio di orientamento è quello della necessità che l'attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell'ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge prevede che l'amministrazione agisca con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non vi sia l'obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico.
Il profilo di maggior interesse del particolare tipo di interazione si sostanzia peraltro nello sviluppo concreto del principio di sussidiarietà statuito dall'art. 118 della Costituzione.
La Corte dei conti rileva come l'amministrazione comunale abbia pieno interesse al fatto che gli edifici insistenti su pubblica via, o alla medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano mantenuti in piena efficienza o che in relazione agli stessi vengano garantite le necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
L'amministrazione deve pertanto evidenziare i presupposti di fatto e l'iter logico alla base dell'erogazione a sostegno dell'attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa delle prestazioni per la realizzazione dell'intervento, potendo peraltro disciplinare il rapporto nella prospettiva di un'azione coordinata al perseguimento delle finalità pubbliche nell'ambito di uno strumento quale una convenzione, regolante anche i relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni restitutorie.
Specifiche cautele dovranno essere adottate dal comune relativamente alla corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere nello stesso strumento convenzionale adeguate rendicontazioni sulle attività rese e sulle opere realizzate, sì di permettere il controllo da parte dell'ente locale sull'effettiva destinazione della spesa al fine pubblico per cui è stata sostenuta
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).
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PARERE
Il Sindaco del Comune di Moriondo Torinese (TO)
, riproponendo un quesito, già sottoposto di recente alla Sezione Regionale di Controllo del Piemonte di questa Corte e dalla medesima dichiarato inammissibile con Deliberazione n. 132/2018, ha riformulato, attraverso l’istanza all’esame, la richiesta di parere in termini generali ed astratti.
Più precisamente, viene chiesto se sia “...lecita sotto il profilo contabile l’esecuzione di un’opera pubblica in forma diversa da quella canonica”, o meglio, a mezzo della richiesta di parere viene chiesto di precisare se sia lecita l’attribuzione di un contributo pubblico a privati al fine di conseguire “...l’adattamento ad esigenze di viabilità di immobile adiacente a pubblica via”, con la precisazione che detto intervento verrebbe eseguito a cura del soggetto privato affidatario dell’incarico sotto la supervisione della parte pubblica.
...
Il quesito, riproposto dall’Ente interessato, concerne la problematica della eventuale destinazione di fondi comunali, sotto forma di contributo pubblico, a sostegno di interventi su beni di proprietà di un soggetto giuridico diverso –segnatamente, privato– riferendosi il quesito ad immobili privati, adiacenti a pubblica via, che necessitino di interventi funzionali ad esigenze di sicurezza della viabilità.
La Sezione ritiene di ribadire (v., Sez. Controllo Piemonte, parere 23.03.2018 n. 30) che qualunque genere di intervento di natura economica da parte dell’amministrazione comunale, per poter essere eventualmente qualificato in termini di legittimità, debba necessariamente sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il Comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, co. 2, D.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità. A tal fine, il Comune, dovendo in via generale realizzare gli interessi della collettività locale, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000, esercita tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio nonché dello sviluppo economico e della sicurezza.
Al riguardo, va osservato che
la giurisprudenza contabile, nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha elaborato da tempo il principio generale per cui se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (come tali generalmente ammissibili), l’erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, e ciò “…in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (v., ex multis, Corte conti, Sez. Controllo Lombardia 13.12.2007, n. 59; id, parere 31.05.2012 n. 262).
Di modo che compete esclusivamente all’Ente valutare, nell’esercizio della propria discrezionalità, se la spesa, oltre che finanziariamente sostenibile, possa effettivamente corrispondere, in concreto, al perseguimento di un interesse pubblico affidato alle proprie cure.
Inoltre, anche in ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale, la medesima giurisprudenza ha precisato che
la natura pubblica o privata del soggetto, che riceve l’attribuzione patrimoniale, è indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge di disciplina del procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico (Corte conti, Sez. Contr. Lombardia, 13.01.2010 n. 1; id. parere 31.05.2012 n. 262; Corte conti, Sez. Contr. Piemonte, parere 19.02.2014 n. 36).
Sotto il richiamato profilo, in base alle norme ed ai principi della contabilità pubblica,
non solo non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove le stesse siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali ma l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
E’ stato altresì precisato che
ogniqualvolta l’amministrazione ricorra a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosca loro benefici di natura patrimoniale (come nella forma della contribuzione) ovviamente le cautele debbono essere maggiori –rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici- anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte conti, Sez. Contr. Lombardia, parere 11.09.2015 n. 279).
Ne discende che sotto il profilo della liceità da un punto di vista contabile dell’esecuzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità
il discrimine circa il corretto impiego delle risorse pubbliche risulta condizionato dall’effettivo perseguimento e realizzazione di un interesse pubblico (comunque riferibile all’ente pubblico interessato) a prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale.
In tale contesto non sembra revocabile in dubbio che l’amministrazione comunale sia interessata al fatto che gli edifici insistenti su pubblica via, o alla medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano mantenuti in piena efficienza e/o che in relazione agli stessi vengano garantite le necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
In situazioni peculiari, l’ente locale, al fine di realizzare gli interventi oggetto del quesito, piuttosto che procedere direttamente con il ricorso a strumenti pubblicistici, può agire, in via mediata, per il tramite di soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, rappresentando la stessa una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a finanziare lavori manutentivi e/o di adeguamento per le finalità rappresentate su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro, privato), deve, comunque, si ribadisce, trovare puntuale giustificazione nella dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse della comunità locale.
Il necessario profilo teleologico, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni (come noto interdetto alle amministrazioni pubbliche, v., art. 6, comma 9, del decreto legge 31.05.2010, n. 78, e art. 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135), deve essere palesato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione avrà cura di evidenziare i presupposti di fatto e l’iter logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
D’altro canto una siffatta tipologia di intervento potrebbe essere disciplinata tra i soggetti interessati in virtù di un’azione coordinata nell’ambito di uno strumento quale una convenzione, regolante altresì i relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni restitutorie.
E’ necessario, comunque, sottolineare che simile convenzione, da stipularsi tra ente pubblico e privato, debba evidenziare le finalità pubbliche perseguite e le modalità di destinazione ad uso pubblico del bene oggetto dell’intervento.
Altrettante cautele dovranno essere adottate dal Comune relativamente alla corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere convenzionalmente adeguate rendicontazioni sul servizio reso e/o sulle opere realizzate, al fine di permettere il controllo da parte dell’Ente locale sull’effettiva destinazione della spesa al fine pubblico per cui è stata sostenuta.
Sulla base di quanto premesso, competerà all’amministrazione comunale procedere ad effettuare tutte le valutazioni discrezionali di propria spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio.

PATRIMONIOPossibilità di affittare una caserma per i vigili del fuoco e limiti di spesa.
Domanda
Sono l’assessore alla protezione civile di un piccolo comune. La caserma dei Vigili del fuoco presente sul territorio comunale dovrà essere a breve ristrutturata. Nel frattempo il mio ente sta valutando di prendere in affitto da terzi un immobile da adibire a sede temporanea. E’ possibile farlo?
Risposta
Il quesito trova fondamento normativo nell’art. 3 del d.l. 95 del 06/07/2012. In particolare il comma 4-bis stabilisce infatti che: “Per le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.”.
La legge tuttavia parla di ‘contribuzione’ da parte del comune e non di accollo integrale in capo a sé del canone di locazione. Il che lascia intendere che il concorso all’onere da parte del comune debba essere parziale e non integrale, senza che venga indicata la quota massima di tale concorso.
Sulla questione si è pronunciata recentemente la Sezione regionale Emilia-Romagna della Corte dei conti, a fronte di uno specifico quesito posto da un comune, con proprio parere 15.10.2018 n. 118.
La Corte, nel richiamare il proprio precedente pronunciamento di cui alla deliberazione n. 151/2017/PAR del 12/10/2017 ha affermato che deve ritenersi esclusa la possibilità per uno o più comuni di farsi carico interamente, seppur per un periodo limitato di tempo, dei relativi oneri. Ciò anche in considerazione dell’etimologia del termine ‘contribuire’ che, ricorda la Corte, “(…) deriva dal latino con-tribùere, quindi ‘dare insieme’”.
Il caso esaminato prevedeva che la locazione avesse carattere episodico. La Corte ha tuttavia affermato che la durata della locazione, quand’anche episodica e temporanea, non rileva ai fini del suddetto divieto. Né rileva, conclude la Corte, il fatto che, nel caso esaminato, un comune limitrofo si fosse reso disponibile “(…) a farsi carico di parte della spesa per il canone, poiché il Legislatore ha riferito la possibilità di contribuzione proprio ai comuni appartenenti al territorio di competenza, quindi implicitamente riconoscendo la necessità che parte dell’onere ricada comunque sul bilancio statale”.
La recente deliberazione della Sezione Emilia-Romagna richiama anche un precedente parere della Sezione Liguria, di cui alla deliberazione n. 91 del 14/12/2017. Quest’ultimo, a fronte di un quesito analogo, pur partendo da presupposti differenti, perveniva tuttavia alla conclusione opposta, affermando infatti che il comune può “contribuire al pagamento del canone di locazione (anche nella sua totalità)” in riferimento alle caserme utilizzate dalle forze dell’ordine.
La Sezione Liguria sostiene infatti che la ratio dell’art. 3, comma 4-bis del d.l. 95/2012 è quella di ridurre il peso finanziario che grava sullo Stato, consentendo ai comuni di contribuire alla relativa spesa per finalità di sicurezza pubblica. La Sezione Emilia-Romagna, pur pervenendo ad una risposta diversa afferma come non vi siano le condizioni per rimettere la questione alla Sezione Autonomie, né alla Sezioni Riunite della Corte affinché si pronuncino in maniera univoca.
In conclusione, fermo restando il contrasto interpretativo fra le due sezioni regionali, è opportuno qui ricordare che, in ogni caso, il canone di locazione dovuto dagli enti locali per immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi, di nuova stipulazione deve essere ridotto del 15 per cento rispetto al canone definito dall’Agenzia del Demanio, quale soggetto chiamato a verificarne la convenienza tecnica ed economica. A stabilirlo è il comma 6 del medesimo art. 3 del d.l. 95/2012.
Infine si rammenta che per i contratti di locazione aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale, già in essere alla data di entrata in vigore del decreto legge, i canoni sono ridotti automaticamente sempre del 15%, fatto salvo il diritto di recesso del locatore (04.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

gennaio 2019

PATRIMONIO: Adeguamento del canone di locazione passiva pagati dal Comune.
Domanda
In materia di affitti passivi per immobili adibiti a finalità istituzionali, pagati dal comune a favore di terzi, è stato reintrodotto il loro adeguamento all’indice Istat, che era sospeso a tutto il 31 dicembre scorso?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alla norma contenuta nella manovra estiva varata nel 2012 dall’allora ‘governo Monti’ con il decreto legge n. 95 del 06/07/2012, poi convertito in legge n. 135 del 07.08.2012. In particolare, all’art.  essa prevedeva una serie di misure finalizzate alla razionalizzazione del patrimonio pubblico e alla riduzione dei costi per locazioni passive a carico delle amministrazioni pubbliche.
Il comma 1 introduceva il divieto di adeguare il canone di locazione passivo, dovuto dai soggetti inseriti nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, alla variazione degli indici ISTAT. Tale norma, prevista in origine per il solo triennio 2012-2014 è stata via via confermata anche per gli anni successivi dai vari decreti ‘milleproroghe’ o leggi di bilancio.
La recente legge di bilancio 2019 (n. 145 del 30/12/2018, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 302 del 31/12/2018, il cui testo integrale è reperibile al seguente link) è intervenuta estendendone l’applicazione anche all’anno 2019. A prevederlo è infatti il comma 1133, lett. c) dell’articolo unico che modifica il comma 1 aggiungendo in coda proprio l’anno corrente.
La risposta al quesito è pertanto negativa, ovvero: nulla è cambiato per il 2019 rispetto agli anni precedenti. Anche per il 2019, pertanto, vige il divieto di adeguare i canoni di locazione passivi pagati dall’ente a terzi alla variazione dell’indice ISTAT. Ciò va ad evidente beneficio del bilancio comunale, che si trova pertanto a sostenere una spesa inferiore a quella eventualmente prevista dal contratto di locazione passiva.
È qui solo il caso di ricordare che lo stesso art. 3 del d.l. n. 95 del 06/07/2012 nei commi successivi prevede l’automatica riduzione dei canoni di locazione passiva per immobili ad uso istituzionale, nella misura del 15 per cento rispetto a quelli contrattualmente previsti. Tale riduzione si applica sia per i contratti già in corso alla data di entrata in vigore del decreto, sia per quelli sottoscritti successivamente.
La riduzione del canone di locazione si inserisce infatti automaticamente nei contratti in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ai sensi dell’articolo 1339 del codice civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti. E’ tuttavia fatto salvo il diritto di recesso del locatore. Per i nuovi contratti di locazione, sempre relativi ad immobili da adibirsi a finalità istituzionali, la riduzione del 15 per cento si applica sul canone definito come congruo dall’Agenzia del Demanio.
Tutte queste norme si applicano infatti anche agli enti territoriali, così come previsto dal successivo comma 7 del medesimo articolo, nel testo oggi vigente, introdotto dal d.l. n. 66 del 24/04/2014. La norma trova ovvia applicazione anche per i contratti di locazione in cui l’ente locale sia soggetto attivo (locatore) nei confronti di altra amministrazione pubblica (locatario).
Si pensi al caso in cui il comune abbia sottoscritto un contratto di locazione attiva con il Ministero dell’Interno per un edificio adibito a locale stazione dei carabinieri. Il Ministero, in quanto soggetto passivo di un contratto avente ad oggetto un fabbricato adibito ad uso istituzionale beneficerà della norma di cui sopra, a scapito, questa volta, del comune locatore.
Pertanto, se, ad esempio, il canone di locazione annuo è di € 12.000,00, esso verrà automaticamente ridotto del 15%, ovvero di € 1.800,00. Al comune non verrà riconosciuto neppure l’eventuale adeguamento agli indici ISTAT qualora previsto nel contratto. Il comune avrà pertanto un’entrata di bilancio pari all’85% del canone contrattualmente stabilito, ovvero pari ad € 10.800,00.
In quest’ultimo caso, pertanto, la norma, nata per contenere i costi delle locazioni passive a carico delle pubbliche amministrazioni, penalizza l’ente locale che, in qualità di soggetto attivo del contratto di locazione, subisce una minore entrata di bilancio (28.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIOOggetto: Quesito in merito ai requisiti professionali dei dirigenti preposti agli uffici di protezione civile comunali (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile, nota 25.01.2019 n. 4329 di prot.).

PATRIMONIO: Acquisto immobile da destinare a Caserma dei Carabinieri.
Quesito
Il Comune chiede se ed eventualmente entro che limiti possa legittimamente procedere all’acquisto di un immobile di proprietà privata, attualmente locato come caserma dei Carabinieri ed alla cui vendita i proprietari abbiano necessità di procedere; ciò al fine di evitare la delocalizzazione dell'attuale stazione di comando.
Parere espresso
La materia dell’accasermamento rientra nella competenza dello Stato e, nel caso specifico, del Ministero dell’Interno, sul quale pertanto indubbiamente gravano in prima istanza i relativi oneri. Questo provvede all’alloggiamento dei Carabinieri tramite la messa a disposizione di strutture idonee rientranti nel proprio patrimonio, ove presenti, oppure, in mancanza, verificando la possibilità di acquisire in locazione passiva immobili delle Amministrazioni locali o, in ultima istanza, di proprietà di privati.
Presupposto per un’attivazione del Comune sul tema in oggetto è dunque, anzitutto, che pervenga ad esso una specifica richiesta dal Commissariato del Governo (cui sono state attribuite tutte le funzioni esercitate a livello periferico dallo Stato).
Ciò precisato, va approfondito fino a che punto l’Amministrazione possa legittimamente spingere la propria azione, ove, come nel caso di specie, non abbia un immobile idoneo libero da mettere a disposizione e, precisamente, se possa acquistarne uno, per destinarlo a Caserma e locarlo al Corpo.
In verità, un intervento sussidiario del Comune, ove risulti effettivamente necessario ad assicurare il mantenimento di un presidio di pubblica sicurezza, appare coerente con le finalità istituzionali proprie degli enti locali.
A suffragare tale affermazione, apparentemente solo di buon senso, soccorrono del resto le argomentazioni dedotte nella deliberazione n. 91/2017 della Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Liguria, inerente un caso analogo, secondo la quale «la sicurezza dei cittadini non può appartenere ad un unico livello di Amministrazione (lo Stato), ma deve rappresentare una responsabilità per tutti gli enti che si occupano degli interessi pubblici della collettività amministrata, concorrendo, infatti, “a soddisfare interessi pubblici generali meritevoli di intensa e specifica tutela”». In tal senso è senz’altro legittimo, secondo il Collegio, che l’Ente locale di “prossimità” «si adoperi con attività amministrativa e finanziaria, a garantire la sicurezza dei cittadini coadiuvando l’attività statale e delle Prefetture».
A conferma di tale inquadramento, il Collegio richiama alcune specifiche disposizioni presenti nell’ordinamento giuridico che consentono ai Comuni di alleggerire il peso finanziario che grava sullo Stato per la sicurezza: il comma 439 della legge n. 311 del 2004, che riconosce ai comuni la facoltà di concedere in uso gratuito alle amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, beni immobili di loro proprietà; il comma 4-bis. dell’art. 3, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, che riconosce ai comuni la facoltà di contribuire al pagamento del canone di locazione determinato dall’Agenzia delle Entrate, di immobili, di proprietà di terzi, destinate a caserme delle forze dell’ordine.
Il Collegio sottolinea come le finalità perseguite da tali norme siano evidentemente conseguibili anche con diverse modalità, compreso l’acquisto diretto dell’immobile, a patto che la decisione consegua ad un’attenta ponderazione in merito alla maggior convenienza, sotto il profilo finanziario, della scelta optata rispetto alle possibili alternative.
Il Comune dovrà quindi essere in grado di dimostrare:
   - l’effettiva necessità del proprio intervento, per evitare la delocalizzazione dell'attuale stazione di comando; a tal fine occorrerà disporre di una espressa richiesta di attivazione da parte del Commissariato del Governo che dia conto della indisponibilità del proprietario a rinnovare il contratto di locazione in essere;
   - l’assenza di alternative più economiche rispetto all’acquisto di un immobile e, in particolare, l’assenza di altri immobili idonei acquistabili sul territorio comunale, a condizioni più vantaggiose di quello attualmente abitato dal Corpo; in proposito il Comune darà conto di aver esperito lo scorso anno idoneo avviso pubblico, con esito negativo e, nell’ipotesi -prospettata- che l’immobile in questione sia posto in vendita ad un’asta fallimentare, dell’opportunità di acquistarlo a condizioni vantaggiose.
Naturalmente è essenziale che di tutte queste circostanze e valutazioni si dia conto attraverso una compiuta e documentata motivazione.
Con riguardo ai quesiti ancillari al tema principale sopra affrontato, si conferma che:
   • nel caso in cui l'immobile sia messo all'sta, non si ritiene che sussistano motivi o norme che impediscono all'amministrazione di presentare offerta; peraltro, in tal caso dovranno essere valutate le condizioni per far precedere l'offerta da un provvedimento che autorizza la presentazione della medesima e modalità per garantirne la segretezza;
   • il comproprietario dell’immobile consigliere comunale può alienare pro quota il bene, non partecipando ovviamente al provvedimento che autorizza l’acquisto, in quanto la normativa vigente pone in capo al consigliere solo il divieto di essere acquirenti di beni immobili del Comune (07.01.2019 - link a www.comunitrentini.it).

PATRIMONIO: Applicazione riduzione canone locazioni passive, ex art. 3, comma 4, D.L. n. 95/2012, a contratti tra pubbliche amministrazioni.
Secondo la giurisprudenza contabile, l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dal D.L. n. 66/2014, che stabilisce dall’01.01.2014 la riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva stipulati dalle Amministrazioni centrali, si applica anche nell’ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche.
Con particolare riferimento ad immobili comunali locati ad uso stazione dell’Arma dei carabinieri, per la Corte dei conti Friuli Venezia Giulia, sez. reg. contr., deliberazione n. 40/2016, la riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’Ordine rappresenta una forma di sostegno consentita dall’ordinamento, assimilabile al contributo diretto dei Comuni per il pagamento dei canoni di locazione di caserme ospitate in immobili privati, possibile ai sensi dell’art. 1, c. 500, L. n. 208/2015.

Il Comune riferisce di un proprio immobile dato in locazione nel 2007 ad una pubblica amministrazione centrale ad uso “stazione dell’Arma dei Carabinieri” e che il relativo canone, “soggetto ad aggiornamento annuale ai sensi dell’art. 1, comma 9-sexies della L. n. 118/1985
[1] secondo espressa previsione pattizia, è stato unilateralmente ridotto del 15% dalla p.a. locataria ai sensi dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012 [2].
Il Comune chiede se sia legittima la suddetta riduzione avuto riguardo in particolare alla deliberazione 15.12.2015, n. 157, della Corte dei conti, sez. reg. contr. Emilia Romagna.
L’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dall’art. 24, c. 4, lett. a), D.L. n. 66/2014, ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali, prevede la riduzione del 15% dei canoni di locazione, a decorrere dall’01.07.2014
[3]. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti [4].
Un tanto richiamato sul piano normativo, si concentra ora l’attenzione sul quadro giurisprudenziale nella materia di interesse, osservato necessariamente nella sua evoluzione anche alla luce della normativa introdotta dopo la deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna richiamata dall’Ente istante.
Con riferimento a quest’ultima, si esprimono, comunque, alcune considerazioni in via del tutto collaborativa e lungi da qualsiasi valutazione in ordine alla lettura della stessa data dalle parti del contratto di locazione in essere.
La richiesta di parere su cui si pronuncia la Corte dei conti emiliana concerne l’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, “nell’ipotesi in cui il comune abbia dato in concessione e non in locazione un determinato immobile ad altro ente pubblico”.
La questione viene esaminata dal Giudice contabile sotto il profilo soggettivo dell’applicabilità della norma quando le parti del rapporto di concessione siano due pubbliche amministrazioni e sotto il profilo oggettivo dell’applicazione della norma medesima prevista per i rapporti di locazione anche ai rapporti di concessione di beni pubblici. Ebbene, la Corte dei conti osserva che sotto il primo profilo l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni: preclusiva al riguardo è la finalità della norma del “contenimento della spesa pubblica” che non si realizza qualora il rapporto concessorio intervenga tra due pubbliche amministrazioni.
D’altro canto –osserva ancora il Giudice contabile emiliano– sotto il profilo oggettivo, il carattere eccezionale della disposizione di cui all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, insuscettibile di interpretazione analogica (art. 14 delle Preleggi) inevitabilmente preclude che la stessa, formulata per un contratto di locazione, trovi applicazione per la fattispecie non sovrapponibile di un rapporto concessorio.
Un tanto esposto in ordine alla deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna n. 157/2015, si osserva, peraltro, che altre posizioni giurisprudenziali sono state espresse sul tema che ci occupa.
Sempre nell’ambito della magistratura contabile, la Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, deliberazione 21.05.2015, n. 76, ha affermato che l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, deve trovare applicazione generalizzata in favore delle p.a. conduttrici quale che sia la natura dei locatori, pubblica o privata, condividendo in tal senso integralmente i passaggi argomentativi della Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 12.11.2014, n. 285.
In particolare, se il legislatore avesse voluto escludere dalla misura riduttiva del canone di cui all’art. 3, c. 4, in argomento, le locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato, lo avrebbe fatto in modo espresso. Per cui la misura di contenimento dei costi per le locazioni passive a carico dei bilanci pubblici, in assenza di una contraria disposizione di legge, trova applicazione anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso.
Sulla questione dell’applicazione della riduzione del canone di locazione del 15%, di cui all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, nell’ipotesi in cui i contraenti del contratto di locazione siano entrambi parti pubbliche e con specifico riferimento a locazione di immobile comunale adibito a locale caserma dei Carabinieri, si è espressa anche la Corte dei conti, sez. reg. contr. Friuli Venezia Giulia, deliberazione 27.04.2016, n. 40.
La Corte dei conti friulana osserva che la problematica posta dal Comune richiedente, che al riguardo richiama la deliberazione n. 157/2015 della Corte dei conti Emilia Romagna, va esaminata con i necessari raccordi anche con la normativa intervenuta successivamente a detta deliberazione, in relazione ad una fattispecie diversa, che la Corte ritiene tuttavia connessa a quella in esame.
In particolare, la deliberazione n. 40/2016 prende in considerazione l’art. 1, c. 500, L. 28.12.2015, n. 208 (Legge di stabilità per il 2016), il quale ha introdotto il comma 4-bis all’art. 3 del D.L. n. 95/2012, secondo cui “per le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate”.
Alla luce della novella del 2015 –afferma la Corte dei conti friulana– è da ritenersi superato l’orientamento espresso dalla Corte dei conti, Sezione Autonomie, deliberazione 09.06.2014, n. 16, secondo cui, nell’ambito del coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del potenziamento della sicurezza a livello locale (art. 118, comma 3, Cost.), tra gli strumenti di concertazione interistituzionale non sarebbe possibile prevedere forme di contribuzione da parte dei Comuni volte al pagamento del canone di locazione per le caserme delle Forze dell’ordine. Orientamento di cui –ad avviso della Corte dei conti Friuli Venezia Giulia– la deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna n. 157/2015 pare porsi come un’applicazione seppur indiretta.
Ed invero, il contributo diretto ai canoni di locazione per caserme ospitate in immobili privati rappresenterebbe una forma di aiuto economico assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine, trattandosi in ambedue i casi di forme di sostegno consentite dall’ordinamento.
Ne consegue –osserva la Corte dei conti– che:
   a) opera ex lege la riduzione del canone del 15% per tutte le locazioni passive gravanti su Amministrazioni pubbliche per il godimento di immobili adibiti ad uso istituzionale, senza distinzione tra immobili di proprietà pubblica o privata;
   b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.
E tale impostazione giuridica per la Corte dei conti friulana appare già di per sé risolutiva (in senso affermativo n.d.r.) della questione ad essa sottoposta
[5] circa l’applicazione della riduzione del canone quando i contraenti del contratto di locazione –nel caso, di immobile comunale adibito a locale caserma dei Carabinieri– siano entrambi parti pubbliche [6].
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[1] La legge 05.04.1985 n. 118 ha convertito, con modificazioni, il D.L. 07.02.1985, n. 12, al cui art. 1 ha aggiunto il comma 9-sexies in argomento, che sostituisce l’art. 32 (Aggiornamento del canone), L. 27.07.1978, n. 392, alla cui lettura si rinvia.
[2] Si riporta il testo dell’art. 3, comma 4, in parola: “Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presene decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parte, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle seguenti condizioni: a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d’uso, per il periodo di durata del contratto di locazione; b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti, nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti”.
[3] La novella del 2014 anticipa all’01.07.2014 la decorrenza della decurtazione del 15% originariamente fissata all’01.01.2015.
[4] Il comma 7 del richiamato art. 3, a seguito della novella del 2014, estende la riduzione del 15% ai contratti di locazione passiva stipulati dalle altre amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001 (art. 24, c. 4, lett. b), D.L. n. 66/2014).
[5] E ciò –osserva la Corte dei conti– ancorché dalla normativa citata non si evinca una espressa indicazione circa l’applicabilità della predetta riduzione ai canoni di locazione relativi ad immobili di proprietà pubblica locati ad altra pubblica Amministrazione.
[6] Su questa linea, v. anche Corte dei conti Emilia Romagna, deliberazioni 03.05.2016, n. 45, e 24.10.2017, n. 155, ove la Corte richiama integralmente –condividendole– le argomentazioni della Corte dei conti Lombardia n. 285/2014 citata, nel senso dell’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, pure alle locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato
(04.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

dicembre 2018

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oneri di urbanizzazione: i vincoli di destinazione finanziaria in vista del bilancio di previsione 2019/2021.
I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal D.P.R. n. 380 del 2001 (oneri di urbanizzazione), a partire dall'01.01.2018, possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei vincoli stabiliti per il 2018, e senza vincoli temporali, dall'art. 1, comma 460, L. n. 232 del 2016.
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Il Sindaco del Comune di Ugento (LE) ha formulato una richiesta di parere in ordine alla modalità di utilizzo della quota parte dell’avanzo destinato ai sensi del comma 460 dell’art. 1 della legge 232/2016.
In particolare, nella nota sopra richiamata, il Sindaco, premette che con l’art. 1, comma 460, della legge 232/2016, così come modificato dall’art. 1-bis, comma 1 del Decreto Legge n. 148/2017, è stato previsto che a “decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per opere pubbliche”.
Ciò posto, il Sindaco, evidenzia che tali novità limiterebbero “la libertà d’azione degli enti che non potranno più decidere di utilizzare gli oneri per la totalità delle spese di investimento ma solo per quelle contemplate dal comma 460, fuoriuscendo, quindi dagli interventi finanziabili gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le attrezzature informatiche, per i quali dovranno essere individuate nuove fonti di finanziamento, non facili da reperire”.
Il Sindaco chiede pertanto:
   - senza contravvenire i sopra riportati dispositivi normativi, se sia possibile “utilizzare la quota parte dell’Avanzo destinato rinveniente dal rendiconto dell’esercizio precedente regolarmente approvato e generato dai proventi dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, incassati da questo Ente in costanza di vigenza della normativa precedente al comma 460 della legge 232/2016, per il finanziamento della spesa per gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le attrezzature informatiche, eccetera, i quali non sarebbero più finanziabili con i predetti proventi in base alla normativa vigente;
   - come sia possibile, per gli Enti di medio piccole dimensioni ed in costanza della vigente normativa, conciliare le ricorrenti spese per le manutenzioni degli impianti e attrezzatture degli automezzi del sistema informativo eccetera, con il carattere di eccezionalità delle residuali fonti di finanziamento di spesa per investimenti attualmente reperibili
”.
...
Nel caso di specie il secondo quesito è con tutta evidenza inammissibile.
Il primo quesito, invece, relativo all’interpretazione della disciplina relativa al comma 460 della legge 232/2016, appare oggettivamente ammissibile.
Preliminarmente, il Collegio ribadisce tuttavia, che l’attività consultiva non può estendersi, sotto il profilo interpretativo, sino a formulare suggerimenti risolutivi di questioni che involgono singole fattispecie concrete e specifiche, tanto più se, come nel caso di specie, l’intervento della Sezione potrebbe comportare un’ingerenza nell’iter del procedimento spettante esclusivamente alle valutazioni dell’Amministrazione e, inoltre, la soluzione del quesito potrebbe generare interferenze con altre funzioni spettanti a questa Corte.
Il Collegio si soffermerà, quindi, più in generale sui principi di diritto del quadro normativo di riferimento.
Come è noto, il principio dell’”unità”, compreso tra i principi contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 (allegato 1) e a cui gli enti locali devono conformare la gestione finanziaria, dopo avere affermato che “è il complesso unitario delle entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la totalità delle sue spese durante la gestione” -aggiunge che– “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento”.
Lo stesso principio stabilisce ancora che “i documenti contabili non possono essere articolati in maniera tale da destinare alcune fonti di entrata a copertura solo di determinate e specifiche spese, salvo diversa disposizione normativa di disciplina delle entrate vincolate”.
I principi generali dell’Ordinamento, quindi, affermano inequivocabilmente il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale. L’utilizzazione di entrate in conto capitale per finanziamento di spese correnti, in deroga al principio sopra richiamato, può essere autorizzata solo da specifiche disposizioni di legge quali sono state quelle che, nell’ultimo decennio, hanno riguardato proprio i proventi derivanti dai c.d. “oneri di urbanizzazione”.
Con la deliberazione n. 38/2016/PAR del 09.02.2016, cui si rinvia, la Sezione di controllo per la Lombardia ha ricostruito l’evoluzione legislativa relativa all’utilizzazione dell’entrate in oggetto sino al 2016.
Successivamente, con la deliberazione n. 81/2017/PAR, la stessa Sezione ha ripercorso le disposizioni in vigore per gli anni 2017 e 2018.
L’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 108 (legge di stabilità per il 2016) dispone che “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all'articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo unico, possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche”.
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232 (legge di bilancio per il 2017, così come modificato dall’art. 1-bis, comma 1, del Decreto Legge n. 148/2017), dispone viceversa che “
a decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per opere pubbliche.”
Nel 2017, quindi, tali proventi potevano essere destinati totalmente al finanziamento delle spese correnti elencate dalla legge di stabilità per il 2016, in deroga al principio di generica destinazione a spese di investimento.
A decorrere dal 01.01.2018, viceversa, le entrate derivanti dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi e dalle relative sanzioni devono essere destinate esclusivamente agli specifici utilizzi, attinenti prevalentemente a spese in conto capitale, indicati dal comma 460, così come modificato nel 2017 e quindi, in particolare:
   1. alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
   2. al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate;
   3. a interventi di riuso e di rigenerazione;
   4. a interventi di demolizione di costruzioni abusive;
   5. all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico;
   6. a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico;
   7. a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano;
   8. a spese di progettazione per opere pubbliche.
Come è stato chiarito da Arconet in risposta alla FAQ n. 28 del 19.02.2018,
l’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n. 232, per le entrate derivanti dai titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, individua un insieme di possibili destinazioni, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dell’ente. Si ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge, non rappresenti un vincolo di destinazione specifico ma una generica destinazione ad una categoria di spese”.
Il Legislatore, quindi, differentemente da quanto avvenuto con riferimento e limitatamente all’utilizzo nel 2016 e nel 2017, ha ritenuto di privilegiare nel 2018 un utilizzo prevalente per spese in conto capitale delle entrate da oneri di urbanizzazione. E nel disciplinare tale principio ha specificato che tale destinazione debba avvenire “senza vincoli temporali”.
In altri termini, come è già stato affermato da questa Corte, quindi,
per effetto della predetta legge dal 2018 “i proventi da “oneri di urbanizzazione” cessano di essere entrate con destinazione generica a spese di investimento per divenire entrate vincolate alle determinate categorie di spese ivi comprese le spese correnti, limitatamente agli interventi di manutenzione ordinaria sulle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (Corte Conti, Sezione Controllo Lombardia, deliberazione n. 81/2017/PAR).
Alla luce delle predette considerazioni è possibile affermare, in risposta al quesito formulato nella presente richiesta di parere, che
i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”), a partire dall’01.01.2018, possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei vincoli stabiliti per il 2018, e senza vincoli temporali, dall’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232 (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 12.12.2018 n. 163).

novembre 2018

PATRIMONIO: Sponsorizzazione per manutenzione aiuola.
Domanda
Una ditta ci ha proposto di occuparsi della manutenzione di un’aiuola comunale gratuitamente in cambio dell’esposizione di un cartello pubblicitario. Qual è il corretto trattamento fiscale e contabile di tale operazione?
Risposta
Come previsto dall’articolo 43 dalla legge n. 449/1997 “Al fine di favorire l’innovazione dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati, le pubbliche amministrazioni possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini di lucro, costituite con atto notarile”.
Nella risoluzione 88/E dell’11.07.2005 l’Agenzia delle Entrate ha affermato che l’operazione di sponsorizzazione va assoggettata a Iva con l’aliquota ordinaria, da applicare sulle somme versate dallo sponsor a fronte della prestazione di servizi dello “sponsee”. Ciò in quanto la sponsorizzazione è stata qualificata come una «forma atipica di pubblicità commerciale», alla quale si deve di conseguenza riconoscere, in base all’articolo 4, comma 5, lettera i), del Dpr 633 del 1972, carattere «in ogni caso commerciale», anche se la prestazione è resa da un ente pubblico o privato che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.
Questa conclusione vale anche con riferimento alle sponsorizzazioni tecniche e a quelle “miste”, che realizzano un’operazione permutativa, da assoggettare all’imposta separatamente da quella in corrispondenza della quale è effettuata. In questo caso, pertanto, sia lo sponsor che lo “sponsee” sono tenuti alla fatturazione sulla base del valore della prestazione e ai successivi adempimenti previsti dalla legge.
Si rileva sul caso specifico una prassi diffusa in diversi enti secondo la quale il comune compensa solo la parte imponibile mentre introita l’IVA che poi dovrà versare all’Erario. In tal caso, ipotizzando una fattura reciproca di € 1000 + IVA, il comune:
   • dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
   • per 1000 € compenserà mandato e reversale;
   • in entrata chiuderà i restanti 220 con la reversale di introito da parte del manutentore;
   • in uscita chiuderà i restanti 220 con un mandato a favore delle proprie partite di giro in entrata atto ad innescare il meccanismo di gestione dello split payment.
Al contrario, si evidenzia che la circolare 27/E/2017 prevede: “la scissione dei pagamenti non sia applicabile ai rapporti tra fornitori e PA e Società che siano riconducibili nell’ambito di operazioni permutative di cui all’art. 11 del DPR n. 633 del 1972 secondo cui “Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate”.
Se si applicasse tale previsione, ipotizzando ancora una fattura reciproca di € 1000 + IVA, contabilmente il comune:
   • dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
   • per 1220 € compenserà mandato e reversale (12.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ottobre 2018

PATRIMONIOL'art. 3, comma 4-bis, del d.l. n. 95/2012 dev'essere interpretato nel senso che i comuni non possano in ogni caso farsi carico dell'intera spesa per i contratti di locazione per locali da adibire a caserme delle Forze dell'ordine.
Ciò, anche nel caso in cui la contribuzione avrebbe carattere episodico, poiché per un periodo di tempo limitato, finalizzato a poter disporre di un immobile per consentire un intervento di manutenzione straordinaria di uno stabile ordinariamente adibito a caserma.
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La richiesta di parere, formulata dal Sindaco di Tresigallo (FE), concerne la possibilità, da parte di un comune, di stipulare, a seguito di procedura a evidenza pubblica, un contratto di locazione, in veste di conduttore, con un soggetto locatore privato, al fine di poter disporre di un immobile da adibire ad alloggio di servizio da concedere in uso gratuito al Comando dei Carabinieri.
Ciò, per un periodo di tempo limitato, finalizzato a consentire l’esecuzione di un intervento di manutenzione straordinaria avente a oggetto l’edificio ove è ubicata la caserma dell’Arma.
Si domanda, in particolare, se il comune possa farsi carico dell’intera spesa inerente il canone di locazione (con esclusione dei soli oneri per le utenze), spesa che, tuttavia, sarebbe in parte rimborsata da un comune limitrofo il quale, anche in vista di una possibile fusione, condivide con l’ente istante l’interesse al mantenimento di un presidio dei Carabinieri sul territorio.
Il Comune nel caso di specie ha comunque assicurato la disponibilità di locali tali da consentire il presidio operativo ai Carabinieri; la problematica riguarda, pertanto, solo il reperimento di un locale da adibire ad alloggio di servizio.
...
2.1. Preliminarmente, occorre individuare il quadro normativo rilevante ai fini del parere.
La legge 28.12.2015, n. 208, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, all’art. 1, comma 500, ha previsto quanto segue: “All’articolo 3 del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, dopo il comma 4 è inserito il seguente: ‘4-bis. Per le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate’”.
2.2. Questa Sezione, con deliberazione del 12.10.2017, n. 151/2017/PAR, alla quale si rimanda per un approfondimento della problematica, si è già pronunciata in merito alla possibilità, da parte dei comuni, di contribuire al pagamento del canone di locazione delle caserme delle forze dell’ordine appartenenti al territorio di competenza, ospitate presso proprietà private.
In particolare, in essa è stato affermato che “il legislatore si è riferito ad un contributo, quindi ad un mero concorso pro quota, non anche alla possibile assunzione integrale dell’onere in argomento” e che, poiché, la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza risulta, in forza di quanto disposto dalla Costituzione, intestata in via esclusiva allo Stato, la disposizione di cui all’art. 1, comma 500, dev’essere considerata di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità che deroga al riparto delle funzioni delineato dalla Carta fondamentale.
In favore della lettura secondo la quale l’onere in argomento non potrebbe gravare interamente sul comune, oltre alle richiamate considerazioni è utile ricordare l’etimologia del termine “contribuire”, utilizzato dal legislatore, che deriva dal latino, con-tribùere, quindi “dare insieme”.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione n. 91, del 14.12.2017, successiva al richiamato precedente di questa Sezione, ha invece affermato la possibilità, per i comuni, in riferimento alle caserme utilizzate dalle forze dell’ordine, di “contribuire al pagamento del canone di locazione (anche nella sua totalità)”.
Quest’ultima ricostruzione si pone in contrasto con l’interpretazione che questa Sezione ritiene preferibile, tuttavia occorre rilevare come sia stata affermata nell’ambito di un obiter dictum.
Pertanto, non sembra ravvisarsi un contrasto tale da rendere necessario sospendere la pronuncia per rimettere gli atti al Presidente della Corte dei conti, per consentirgli di decidere se deferire la questione alla Sezione delle autonomie (ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, secondo il quale per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza in materia di attività consultiva, la citata sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano), oppure, in alternativa, chiedere l’adozione, da parte delle Sezioni riunite, di una pronuncia di orientamento generale (ai sensi dell’art. 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, qualora riconosca la sussistenza di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica).
Non sembra incidere sulla risposta da dare al quesito la circostanza che, nel caso oggetto della richiesta di parere operata dal Sindaco di Tresigallo, la contribuzione avrebbe carattere episodico: valgono comunque le considerazioni espresse in ordine al significato da attribuire al termine “contribuire”, utilizzato in merito al pagamento del canone; inoltre, la circostanza che, essendo la sicurezza pubblica materia intestata in via esclusiva allo Stato, la disposizione di cui al già richiamato art. 1, comma 500, dev’essere considerata di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità derogatoria rispetto al riparto di funzioni. Ne consegue che deve ritenersi esclusa la possibilità per uno o più comuni di intestarsi interamente, seppur per un periodo di tempo limitato, gli oneri in questione.
Per completezza si evidenzia come la situazione prospettata abbia a oggetto la contribuzione al pagamento del canone di locazione del solo alloggio di servizio, avendo il comune già assicurato che metterà a disposizione locali idonei allo svolgimento delle attività operative.
Non rileva, infine, la disponibilità da parte del comune limitrofo a farsi carico di parte della spesa per il canone, poiché il legislatore ha riferito la possibilità di contribuzione proprio ai comuni appartenenti al territorio di competenza, quindi implicitamente riconoscendo la necessità che parte dell’onere ricada comunque sul bilancio statale (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.10.2018 n. 118).

PATRIMONIO: Insidia stradale: la prevedibilità del pericolo occulto.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica (Corte di Appello Firenze, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2308 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

settembre 2018

PATRIMONIO: Sull'atto di diniego della voltura del contratto locatizio.
“In tema di riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne consegue che spetta al giudice ordinario la controversia promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto locatizio” atteso che in tale fase del rapporto sussistono unicamente diritti soggettivi.
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Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014, n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, come risulta a seguito della sentenza di illegittimità costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la finalità sociale che la connota in quella dei servizi pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è configurabile nella fase successiva al provvedimento di assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito di un rapporto privatistico di locazione e non esercita poteri autoritativi”.
Nelle sentenze più recenti è stato pure chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice amministrativo, in virtù del sottostante rapporto concessorio ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b) c.p.a., sol se si ponga mente alla sentenza della Corte Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla conclusione che vada ricondotto alla discussa figura giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto nella prima fase della individuazione del soggetto con cui l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in ordine a tutte le vicende che si verificano quali il rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come nel caso in esame, il subentro.
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1. Con ricorso notificato il 12.9.2005 e depositato l’11.10.2005, parte ricorrente espone di avere presentato, in data 24.09.2002, istanza di voltura del contratto di locazione per l’immobile sito nel Comune di Roma in via ... n. 86, Ed. 5, scala 1, interno 9, di proprietà comunale, a seguito del decesso dell’originario assegnatario, ossia il nonno, Signor Fr. Di Fr., avvenuto in data 22.12.2001 e con lo stesso convivente nell’immobile dal 20.02.1999.
2. L’amministrazione avrebbe adottato il provvedimento impugnato senza un’adeguata istruttoria, sarebbe incorsa in difetto di motivazione, e avrebbe desunto la mancanza dei requisiti previsti per il subentro dall’art. 3, comma 1, lett. B) della Legge Regionale del Lazio 26.06.1987 n. 33, ma considerato che la legge individua quale requisito la “residenza anagrafica” avrebbe erroneamente dichiarato insussistente tale requisito in capo al ricorrente.
3. Il ricorrente afferma di essere residente fin dalla nascita nel Comune di Roma e, con decorrenza dal 20.02.1999, nello stesso immobile di via ... n. 86, scala 1, int. n. 9, in relazione al quale ha presentato la richiesta di voltura.
...
7. Il ricorso, in accoglimento dell’eccezione della difesa comunale, è da dichiarare inammissibile per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo.
8. Il Tribunale si è già occupato numerose volte della questione e specificatamente del diniego di voltura: (TAR Lazio III-quater, 23.03.2016 n. 3592, 24.02.2016 n. 2560, 29.11.2013 n. 10232, 31.10.2013 n. 9333, 24.04.2018 n. 4480/2018).
Anche la Corte di Cassazione ha chiarito che: “In tema di riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne consegue che spetta al giudice ordinario la controversia promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto locatizio” (Cassazione, Sezioni Unite, ord. 09.10.2013, n. 22957) atteso che in tale fase del rapporto sussistono unicamente diritti soggettivi.
Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014, n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, come risulta a seguito della sentenza di illegittimità costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la finalità sociale che la connota in quella dei servizi pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è configurabile nella fase successiva al provvedimento di assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito di un rapporto privatistico di locazione e non esercita poteri autoritativi” (TAR Lazio, sez. III-quater, n. 2248/2014 ed anche del tutto analoga: TAR Lazio, sezione III-quater, 26.02.2014, n. 2265 e tutta la giurisprudenza ivi citata: Cons. St., sez. V, 16.05.2011, n. 2949; 11.08.2010, n. 5617; 02.10.2009, n. 5140; sez. IV, 31.03.2009, n. 2001; Cass. civ., S.U., 02.06.1997, n. 4908).
Nelle sentenze più recenti sopra citate è stato pure chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice amministrativo, in virtù del sottostante rapporto concessorio ai sensi dell’art. 133 comma 1, lett. b) c.p.a., sol se si ponga mente alla sentenza della Corte Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla conclusione che vada ricondotto alla discussa figura giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto nella prima fase della individuazione del soggetto con cui l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in ordine a tutte le vicende che si verificano quali il rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come nel caso in esame, il subentro.
Nel caso in esame, si verte su un atto di diniego della voltura, che va, dunque, a incidere sulla fase contrattuale regolativa del rapporto intrattenuto dal dante causa del ricorrente con l’amministrazione comunale e non piuttosto sulla fase prodromica all’assegnazione dell’alloggio che incardinerebbe la giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che in essa sono spesi poteri discrezionali dell’Amministrazione generativi di interessi legittimi.
Pertanto, ai sensi dell’art. 11 del Codice del Processo Amministrativo,
il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito e va ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario dinanzi al quale la controversia andrà riassunta nel termine perentorio di tre mesi da passaggio in giudicato della presente sentenza, fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 28.09.2018 n. 9648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2018

PATRIMONIO: Accordo (ex art. 15, l. 241/1990) tra una p.a. ed un ente pubblico economico per la concessione in uso di beni pubblici, presupposti e condizioni (parere 06.07.2018-363198, AL 19666/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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A) Con nota del 14.04.2017 codesta Amministrazione chiedeva alla Scrivente di esprimere il proprio parere in ordine alla possibilità di interpretare in via estensiva il comma 233 dell’art. 4 della L. n. 350/2003, recante disposizioni in materia di concessioni di spazi in comodato d’uso gratuito a favore delle amministrazioni pubbliche, al fine di verificare la possibilità di applicare tale disciplina nei confronti di ENIT - Ente nazionale italiano del turismo.
Il problema si poneva in quanto, a seguito della trasformazione di ENIT in ente pubblico economico, questo aveva perso il carattere di “amministrazione pubblica”, che costituisce il requisito indispensabile per poter accedere alla disciplina di cui al comma 233 citato. Tale disposizione infatti prevede la possibilità, per gli uffici all’estero, di concedere in comodato d’uso gratuito spazi a favore delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs n. 165/2001. (...continua).

giugno 2018

PATRIMONIO: Obblighi di manutenzione delle aree latistanti un percorso pedonale privato.
   
1) Affinché una strada privata possa dirsi assoggettata ad un uso pubblico/servitù pubblica è necessario che sussistano le seguenti condizioni:
a) l'uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati uti cives in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un'utilizzazione uti singuli, cioè finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso a un determinato immobile di proprietà privata;
b) l'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù;
c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico.
   2) L’obbligo di manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale non si estende alle aree estranee ad essa e circostanti: grava, infatti, sui proprietari delle ripe dei fondi laterali alle strade l’obbligo di mantenerle in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti o scoscendimenti del terreno, o la caduta di massi o altro materiale sulla strada, dove per ripe devono intendersi le zone immediatamente sovrastanti e sottostanti la scarpata del corpo stradale.

Il Comune chiede un parere in merito all’individuazione dei soggetti tenuti alla messa in sicurezza di un’area latistante un percorso pedonale che collega il centro cittadino alle pendici del monte sito nel medesimo comune.
Più in particolare, riferisce dell’esistenza di un sentiero di proprietà privata aperto all’uso pubblico il quale è stato oggetto di apposizione di idonea segnaletica di divieto di accesso da parte sia del privato che dell’amministrazione comunale, la quale ha, altresì, provveduto a transennare detto percorso; il tutto a causa del pericolo di caduta di grossi massi sullo stesso. Ciò premesso l’Ente desidera sapere a chi competa l’eliminazione delle cause che hanno comportato l’insorgenza di detto pericolo, atteso che anche l’area latistante il sentiero in oggetto è di proprietà privata.
In via preliminare, si osserva che, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, num. 48), del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), si definisce “sentiero (o Mulattiera o Tratturo)” la “strada a fondo naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni o di animali”.
Il successivo articolo 14 del medesimo D.Lgs. 285/1992, stabilisce che gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono, tra l’altro, “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi” (lett. a)) ed “alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta” (lett. c)).
Al contempo, la giurisprudenza
[1] ha rilevato che “se un comune consente alla collettività l’utilizzazione, per pubblico transito, di un’area di proprietà privata assume l’obbligo di accertarsi che la manutenzione dell’area e dei relativi manufatti non sia trascurata; e l’inosservanza di tale dovere di sorveglianza, che costituisce un obbligo primario della pa, per il principio del neminem laedere, integra gli estremi della colpa e determina la responsabilità per il danno cagionato all’utente dell’area, nulla rilevando che l’obbligo della manutenzione incomba sul proprietario dell’area”. [2]
La sussistenza di tale “dovere di sorveglianza” che fa capo alla Pubblica Amministrazione comporta che la stessa debba “a) segnalare ai proprietari [dei fondi privati] le situazioni di pericolo suscettibili di recare pregiudizio agli utenti della strada; b) adottare i presidi necessari ad eliminare i fattori di rischio conosciuti o conoscibili con un attento e doveroso monitoraggio del territorio; c) come extrema ratio, permanendo l'eventuale negligenza dei proprietari dei fondi finitimi nel rimuovere le situazioni di pericolo, chiudere la strada al traffico
[3].
Premesso quanto sopra, con riferimento all’ulteriore aspetto, che qui rileva, dell’individuazione del soggetto tenuto a rimuovere le cause che hanno comportato l’insorgenza della situazione di pericolo sul percorso pedonale in questione, si tratta in primis di stabilire se sullo stesso possa o meno essere provata l’esistenza di una servitù di uso pubblico/servitù pubblica
[4].
Qualora mancasse una tale prova, in applicazione delle regole civilistiche sulla proprietà privata, seguirebbe che solo il proprietario dovrebbe provvedere alla manutenzione dell’area di sua proprietà, ferma rimanendo, tuttavia, la possibilità per lo stesso di chiudere il passaggio ai terzi. In altri termini, l’obbligo ricadente sul solo privato cittadino della manutenzione delle aree presuppone che le stesse non siano gravate da servitù di pubblico transito e ciò giustifica, altresì, il potere del proprietario di chiudere il proprio fondo impedendone l’accesso ai terzi
[5].
Affinché una “strada” privata possa dirsi assoggettata ad un uso pubblico/servitù pubblica è, invece, necessario che sussistano le seguenti condizioni:
   1) l'uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati uti cives in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un'utilizzazione uti singuli, cioè finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso a un determinato immobile di proprietà privata;
   2) l'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù;
   3) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico.
[6]
Quest’ultimo può consistere nel protrarsi dell’uso per il tempo necessario all’usucapione, nella avvenuta stipulazione di una convenzione tra il proprietario e l’ente pubblico, in provvedimenti amministrativi di natura ablativa, nell’uso da tempo immemorabile, nella dicatio ad patriam, cioè nel comportamento del proprietario che mette volontariamente il bene a disposizione della collettività indeterminata di cittadini, con carattere di continuità e, quindi, non in via precaria o di mera tolleranza
[7].
Qualora venisse accertata l’esistenza dell’uso pubblico sul sentiero seguirebbe l’obbligo anche da parte del Comune di provvedere alla manutenzione dello stesso.
Circa l’entità di tale partecipazione sono state riscontrate posizioni non univoche in giurisprudenza, anche in relazione alle diverse realtà fattuali su cui la stessa si è trovata a pronunciarsi. In particolare, accanto ad alcune pronunce che riconoscono l’obbligo esclusivo dell’ente locale di provvedere alla manutenzione delle “strade” ad uso pubblico, sul presupposto che trattavasi di aree soggette quasi esclusivamente all’uso pubblico
[8], altre, invece, affermano che il Comune debba partecipare alle spese di manutenzione in applicazione, diretta [9] o analogica dell’articolo 3, primo comma, del decreto legge luogotenenziale 1 settembre 1918, n. 1446 [10] il quale, dettato con precipuo riferimento alle strade vicinali, recita: “Il Comune è tenuto a concorrere nella spesa di manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali soggette al pubblico transito in misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, secondo la diversa importanza delle strade.”.
Si riporta, al riguardo, quanto affermato dal TAR Lombardia, Brescia, sez. I, nella sentenza dell’11.11.2008, n. 1602: "La norma di riferimento per stabilire la misura della partecipazione dei comuni agli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade vicinali è in effetti l'art. 3 del DLLgt. 1446/1918, il quale prevede una misura variabile da 1/5 fino a metà della spesa a seconda dell'importanza delle strade. Condizione essenziale perché possa sorgere l'obbligo di contribuzione è che le vicinali siano soggette a pubblico transito.”
[11].
Da ultimo necessita rilevare che le considerazioni sopra esposte afferiscono non solo al sentiero in senso stretto ma anche all’area latistante lo stesso. In questo senso la giurisprudenza
[12] ha affermato che: “È in colpa la Pubblica Amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada, né provveda ad inibirne l'uso generalizzato; ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione di una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o per le sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione”.
Viceversa tale obbligo di manutenzione, gestione e pulizia delle strade non si estende alle aree circostanti, in particolare alle ripe
[13] site nei fondi laterali alle strade. Soccorre, al riguardo, l’articolo 31 del codice della strada il quale, al comma 1, stabilisce che: “I proprietari devono mantenere le ripe dei fondi laterali alle strade, sia a valle che a monte delle medesime, in stato tale da impedire franamenti o cedimenti del corpo stradale, ivi comprese le opere di sostegno di cui all’art. 30 [14], lo scoscendimento del terreno, l'ingombro delle pertinenze e della sede stradale in modo da prevenire la caduta di massi o di altro materiale sulla strada. Devono altresì realizzare, ove occorrono, le necessarie opere di mantenimento ed evitare di eseguire interventi che possono causare i predetti eventi.”.
Come rilevato da recente giurisprudenza
[15]sussistono […] obblighi manutentivi in capo ai proprietari relativamente alle aree esterne al confine stradale e, in particolare, riguardo alle ripe situate nei fondi laterali alle strade, ai sensi dell’art. 31 cit., in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo. […] Ne consegue che le norme di cui agli artt. 30 e 31 del C.d.S. delineano un quadro stabile dei rapporti tra proprietari dei fondi finitimi e enti proprietari delle strade, addossando ai primi gli oneri della manutenzione delle ripe dei fondi laterali ovvero la realizzazione di opere di mantenimento”.
Ancora, la medesima pronuncia giurisprudenziale ha, altresì, rilevato -come anche altre pronunce intervenute su tale tema
[16]- che: “l’obbligo di manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale non si estende alle aree estranee ad essa e circostanti: grava, infatti, sui proprietari delle ripe dei fondi laterali alle strade l’obbligo di mantenerle in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti o scoscendimenti del terreno, o la caduta di massi o altro materiale sulla strada, dove per ripe devono intendersi le zone immediatamente sovrastanti e sottostanti la scarpata del corpo stradale (Cass. n. 13087/2004)”.
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[1] In tal senso si veda Cassazione civile, sentenza del 15.06.1979, n. 3387 richiamata da Cassazione civile, sez. III, sentenza del 04.01.2010, n. 7. Nello stesso senso si veda, anche, Cassazione civile, sez. III, sentenza del 12.01.1996, n. 191 ove si afferma che: «Gli obblighi di prevenzione derivano dalla gestione di fatto della cosa perché soltanto chi la esercita, anche in mancanza di una titolarità de jure, è in grado di predisporre tutte le cautele necessarie per prevenire ogni prevedibile danno. Tali criteri interpretativi valgono soprattutto quando […] una strada viene, di fatto utilizzata per pubblico transito, perché tale circostanza fa insorgere, a carico dell’ente l’obbligo di assicurare che l’utenza si svolga senza pericoli e la conseguente responsabilità aquiliana verso i terzi danneggiati dall’inosservanza di tale obbligo” (Cass. 1174/1977). […] gli obblighi di prevenzione, derivando unicamente dal concreto utilizzo pubblico, si debbono ad esso collegare al di fuori di ogni rilevanza della titolarità de jure». Di recente sul punto anche Cassazione civile, sez. III, sentenza del 14.03.2018, n. 6141.
[2] Per completezza espositiva si segnala che la giurisprudenza, nel sancire l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere alla manutenzione delle strade anche di proprietà privata, se soggette ad uso pubblico, riconnette la responsabilità sulla stessa gravante sia all’avvenuta violazione del principio del neminem laedere sancito nell’articolo 2043 c.c. sia ai più stringenti requisiti richiesti dall’articolo 2051 c.c. relativo alla responsabilità per danni cagionati da cose in custodia. In questo senso si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza dell’11.11.2011, n. 23562.
[3] In questo senso si veda, Cassazione civile, sez. III, sentenza n. 6141/2018, già citata in nota 1; Cassazione civile, sez. III, sentenza del 22.10.2014, n. 22330; Cassazione civile, sez. III, sentenza dell’11.11.2011, n. 23562.
[4] Sul presupposto della natura privata dell’area di cui trattasi.
[5] Peraltro, come rilevato anche dalla giurisprudenza (TAR Sicilia, sez. II, sentenza del 01.04.2016, n. 989), il fatto che il sentiero in riferimento sia utilizzato anche dalla collettività non è indice che di per sé depone per l’esistenza dell’uso pubblico, potendo tale fatto essere ricondotto alla mera tolleranza del proprietario.
[6] In questo senso si è espressa, in maniera univoca la giurisprudenza, sia amministrativa che di legittimità. Si vedano, tra le altre, Cassazione, civile, sez. II, sentenza del 29.11.2017, n. 28632; Cassazione civile sez. II, 10/01/2011, n. 333; Cass. civ., sez. II, 21.05.2001, n. 6924. Consiglio di Stato, sez. IV, 15.06.2012, n. 3531 e Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 728; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.02.2011, n. 1240; TAR Milano, sez. III, 11.03.2016, n. 507.
[7] Si vedano, al riguardo, tra le altre, TAR Marche, sez. I, sentenza del 01.02.2016, n. 48; TAR Napoli sez. VI, sentenza del 03.08.2016, n. 4013; Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 21.06.2007, n. 3316. In dottrina (A. Angiuli, “Strada pubblica e servitù di passaggio di uso pubblico”, in Giurisprudenza italiana, fasc. 7, 2001, pag. 1370) si è affermato che “tale fattispecie di servitù non può sorgere con il semplice uso di fatto o attraverso una unilaterale manifestazione di volontà della P.A. ma può aver origine attraverso la cosiddetta dicatio ad patriam, posta in essere dal proprietario del fondo, o da una convenzione fra privato e P.A., oppure per usucapione del relativo diritto”.
[8] In questo senso si veda TAR Puglia, Lecce, sez. II, sentenza del 28.01.2004, n. 818 ove si afferma che: “il comune di XX ha già da tempo riconosciuto che la via in questione è utilizzata dalla collettività, il che (fermo restando la proprietà della strada da parte del Consorzio) costituisce una situazione giuridica corrispondente all’esercizio di una servitù ed impone all’ente esponenziale della collettività che esercita l’uso di curarne la manutenzione; ciò in quanto l’uso della strada da parte della collettività secondo le caratteristiche e nella misura delle strade comunali (art. 2 D.Lgs. n. 285 del 1992) viene ad assorbire l’uso che della stessa fanno i privati a ciò abilitati dai proprietari o dall’ente proprietario, sicché questo viene a confondersi in quello.
Non si ritiene che nella specie sia applicabile per analogia il D.L.Lgt. n. 1446/1918 (che all’art. 3 recita […]). Infatti, l’ubicazione della strada in questione e quindi l’assunzione da parte della stessa delle caratteristiche delle strade comunali, esclude l’applicazione di una norma formulata per una situazione oggettivamente diversa, nella quale l’uso pubblico ha un rilevo limitato e si aggiunge a quello privato”. Nello stesso senso si veda TAR Lecce, sez. II, sentenze del 01.04.2004, n. 2265 e del 22.07.2004, n. 5368.
[9] Si veda al riguardo Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 23.05.2005, n. 2584 nella parte in cui recita: “o la strada è nazionale, regionale […], provinciale o comunale, ed allora, non presenta caratteri della strada privata, ma è pubblica, e l’onere della manutenzione va posta a carico del soggetto proprietario, oppure è privata e l’onere della manutenzione non può essere posto a carico del Comune, salvo quando dipenda dalla costituzione del consorzio”.
[10] Per completezza espositiva, si segnala che il D.Lgt. 1446/1918 era stato abrogato, a decorrere dal 16.12.2009, dall'articolo 2, comma 1, del D.L. 22.12.2008 n. 200. Successivamente l'efficacia dell’indicato decreto è stata ripristinata dall'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 01.12.2009, n. 179.
[11] Prosegue l’indicata sentenza affermando che: “L'esistenza dell'obbligo in capo ai comuni è indipendente dalla formazione di un consorzio tra gli utenti, sia nella forma facoltativa di cui all'art. 2 del DLLgt. 1446/1918 sia nella forma obbligatoria di cui all'art. 14 della legge 12.02.1958 n. 126. La costituzione del consorzio è necessaria per imporre la ripartizione delle spese tra i privati, mentre nei confronti del comune competente per territorio l'obbligo di finanziamento è una conseguenza automatica del diritto di uso pubblico secondo il principio generale dell'art. 1069 cc. in materia di opere necessarie per la conservazione della servitù.”.
[12] Cassazione civile, sez. VI, ordinanza del 07.02.2017, n. 3216.
[13] La definizione di ripa è contenuta nell’articolo 3, comma 1, num. 44) del D.Lgs. 285/1992 secondo cui essa è quella “zona di terreno immediatamente sovrastante o sottostante le scarpate del corpo stradale rispettivamente in taglio o in riporto sul terreno preesistente alla strada”.
[14] L’articolo 30 del codice della strada recita: “1. I fabbricati ed i muri di qualunque genere fronteggianti le strade devono essere conservati in modo da non compromettere l'incolumità pubblica e da non arrecare danno alle strade ed alle relative pertinenze.
   2. Salvi i provvedimenti che nei casi contingibili ed urgenti possono essere adottati dal sindaco a tutela della pubblica incolumità, il prefetto sentito l'ente proprietario o concessionario, può ordinare la demolizione o il consolidamento a spese dello stesso proprietario dei fabbricati e dei muri che minacciano rovina se il proprietario, nonostante la diffida, non abbia provveduto a compiere le opere necessarie.
   3. In caso di inadempienza nel termine fissato, l'autorità competente ai sensi del comma 2 provvede d'ufficio alla demolizione o al consolidamento, addebitando le spese al proprietario.
   4. La costruzione e la riparazione delle opere di sostegno lungo le strade ed autostrade, qualora esse servano unicamente a difendere ed a sostenere i fondi adiacenti, sono a carico dei proprietari dei fondi stessi; se hanno per scopo la stabilità o la conservazione delle strade od autostrade, la costruzione o riparazione è a carico dell'ente proprietario della strada.
   5. La spesa si divide in ragione dell'interesse quando l'opera abbia scopo promiscuo. Il riparto della spesa è fatto con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti , su proposta dell'ufficio periferico dell'A.N.A.S., per le strade statali ed autostrade e negli altri casi con decreto del presidente della regione, su proposta del competente ufficio tecnico.
   6. La costruzione di opere di sostegno che servono unicamente a difendere e a sostenere i fondi adiacenti, effettuata in sede di costruzione di nuove strade, è a carico dell'ente cui appartiene la strada, fermo restando a carico dei proprietari dei fondi l'obbligo e l'onere di manutenzione e di eventuale riparazione o ricostruzione di tali opere.
   7. In caso di mancata esecuzione di quanto compete ai proprietari dei fondi si adotta nei confronti degli inadempienti la procedura di cui ai commi 2 e 3.
   8. Chiunque non osserva le disposizioni di cui al comma 1 è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 422 ad euro 1.697”.
[15] Consiglio di Stato, sez. III, sentenza del 26.01.2017, n. 329. Nello stesso senso si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza del 02.08.2000, n. 10112; TAR Liguria, Genova, sez. I, sentenza del 18.11.2013, n. 1386 la quale, dopo aver precisato che: “in sostanza la norma di cui all’art. 31 individua una situazione di normalità esistente e impone ai proprietari finitimi di mantenere questa situazione”, prosegue rilevando che “l’attività di manutenzione comprende tutte quelle attività volte a impedire l’alterazione dello stato dei luoghi, quali per esempio pulizia dei sedimi e dei boschi e così via.”
[16] Tra queste si veda, anche, Cassazione civile, sez. III, sentenza del 02.08.2000, n. 10112
(28.06.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Installazione di un chiosco su proprietà pubblica e necessità del titolo edilizio.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica non è sufficiente il provvedimento di concessione per l'occupazione occorrendo, altresì, l'ulteriore e autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari, quali l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti (fattispecie relativa alla installazione di un chiosco che, in base a quanto disposto nel regolamento comunale per la disciplina del commercio sulle aree pubbliche, dà luogo ad un manufatto chiuso, di dimensioni contenute, generalmente prefabbricato, e strutturalmente durevole, posato su suolo pubblico, o su aree private soggette a servitù di uso pubblico, non rimuovibile al termine della giornata lavorativa).
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La legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione in concessione di uno spazio di area pubblica per l'installazione del chiosco è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto necessario dimostrare il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati.
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, è infatti, sufficiente a radicare la legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione, dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla qualità panoramica, ambientale, paesaggistica.
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Il chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo marciapiede su cui si affacciano gli immobili dei ricorrenti, rientrando pertanto nella visione di insieme dei palazzi d’epoca prospicienti la zona ... che si incontra con ... peraltro pressoché adiacente al Castello Sforzesco di Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo storico ed architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo effettivamente introdurre un elemento di discontinuità nell’area in questione, come detto connotata da immobili di particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse dei ricorrenti alla sua contestazione.
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale.
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Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41, c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale, deve essere fornita dalla parte che la eccepisce, trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c., all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei confronti dei provvedimenti dell'amministrazione, riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost..
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Per giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato l'onere della prova della data di ultimazione delle opere, essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture, ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa l'epoca di realizzazione del manufatto.
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E' illegittima l'autorizzazione comunale di installazione di un chiosco su suolo pubblico senza preventivamente rilasciare il permesso di costruire.
Invero, in base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett. e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n. 221 del 28.12.2015, tra gli "interventi di nuova costruzione", per i quali è necessario il permesso di costruire, rientrano anche quelli relativi l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche per l'installazione di un chiosco.
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto invece ad un utilizzo reiterato nel tempo, come tale idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico.
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Non ha pregio nella fattispecie la tesi per cui dovrebbe tuttavia trovare applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree pubbliche, di cui alla L.R. n. 6/2010, oltre a quella regolamentare, che escluderebbero espressamente, per l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di costruire.
Ciò detto essendo la normativa in materia di commercio e quella edilizia preordinate alla tutela di beni giuridici differenti, dovendo pertanto essere applicate congiuntamente, come pacificamente ritenuto in giurisprudenza, secondo cui, malgrado le attività commerciali siano attualmente liberamente insediabili con riguardo al loro numero, non esistendo contingenti massimi autorizzabili, le stesse rimangono tuttavia soggette ai limiti fissati dalla normativa edilizia, oltreché a quella posta a tutela dei beni culturali, ed alla pianificazione urbanistica e paesaggistica.
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010 conferma peraltro espressamente la coesistenza tra la normativa dettata in materia di commercio e quella edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate, nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente, la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica, non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari, quali l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti.
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... per l'annullamento del provvedimento del 26.09.2016, con il quale il Comune di Milano - Settore Commercio, SUAP e Attività Produttive, ha autorizzato l'installazione di un chiosco per la somministrazione di alimenti in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-, dell'autorizzazione paesaggistica n. 328 del 04.08.2016, con cui il Comune di Milano – Ufficio Tutela del Paesaggio, sulla scorta del parere espresso dalla Commissione per il Paesaggio, ha rilasciato l'assenso, per i profili di sua competenza, all'installazione del chiosco, della Deliberazione della Giunta Comunale – Settore Commercio, SUAP e Attività Produttive, n. 2858 del 30.12.2014, con la quale sono state dettate le linee di indirizzo per la predisposizione del bando, approvato con Determina Dirigenziale n. 1 del 08.01.2015, anch'essa qui gravata, per l'assegnazione di n. 82 posteggi c.d. “extra-mercato”, tra cui figura anche il posteggio ubicato nella posizione “-OMISSIS- -OMISSIS-”, e di ogni altro atto ad essi preordinato, presupposto, conseguenziale e/o comunque connesso.
...
Con delibera n. 2858 del 30.12.2014 la Giunta del Comune di Milano ha approvato le linee guida di indirizzo per l’assegnazione di n. 83 posteggi extra-mercato, al fine di implementare il numero delle postazioni distribuite in tutta la città che utilizzano strutture di vendita tipo banco, chiosco, trespolo, e autonegozio, individuando altresì le ubicazioni destinate alla loro installazione, e con determina n. 1 del 08.01.2015, è stato approvato il relativo bando pubblico.
Con il presente ricorso, gli istanti impugnano
il provvedimento di autorizzazione all’installazione di un chiosco in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-, in favore del Sig. Va., in esito alla procedura prevista dalla citata delibera n. 2858/2014, parimenti gravata, unitamente alla relativa autorizzazione paesaggistica, deducendo che ciò avrebbe dovuto essere preceduto dal rilascio di un permesso di costruire (primo motivo), la mancanza di una puntuale istruttoria in ordine alla sua compatibilità con le caratteristiche dell’area (secondo motivo), che ne pregiudicherebbe la viabilità (terzo motivo) ed il decoro architettonico (quarto motivo), oltreché la ritardata conclusione dei lavori (quinto motivo).
...
I) In via preliminare, il Collegio deve scrutinare le eccezioni di inammissibilità del ricorso, che sono tuttavia infondate.
I.1.1) Con una prima eccezione, la difesa comunale deduce la carenza di interesse ed il difetto di legittimazione attiva in capo ai ricorrenti, evidenziando che, mentre nell’atto introduttivo del giudizio, essi si dichiarano residenti nella zona di -OMISSIS-, nella procura alle liti, solo una parte di essi (17 su 26), deduce di essere residente nelle vicinanze dell’area di cui in oggetto. In ogni caso, gli istanti non dimostrerebbero “quali interessi specifici” sarebbero effettivamente lesi dai provvedimenti impugnati, limitandosi ad evidenziare potenziali pregiudizi alla viabilità, ed all’utilizzazione di taluni servizi.
Analogamente, secondo il controinteressato, premesso che “il criterio della vicinitas non sarebbe stato sufficiente a fornire le condizioni dell’azione”, in ogni caso, “i ricorrenti avrebbero dovuto provare di essere residenti”, laddove invece, alcuni di loro, avrebbero ammesso di esserlo in zone diverse da quelle interessate dai provvedimenti impugnati.
Con la citata ordinanza n. 211/2018, rilevato che i ricorrenti si erano limitati a dichiarare la loro residenza, nell’atto di procura alle liti, e che effettivamente, per alcuni di loro, la stessa non si trova nelle vicinanze del chiosco oggetto dei provvedimenti impugnati, ai fini dello scrutinio dell’eccezione, il Collegio ha ordinato di depositare in giudizio documentazione comprovante il loro collegamento con l'area interessata dall'intervento, ciò a cui hanno provveduto in data 19.03.2018.
I.1.2) In linea generale, osserva il Collegio che la legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione in concessione di uno spazio di area pubblica per l'installazione del chiosco è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto necessario dimostrare il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati (TAR Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 23.02.2017, n. 109).
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, è infatti sufficiente a radicare la legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione, dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla qualità panoramica, ambientale, paesaggistica (C.S. Sez. IV, 09.09.2014, n. 4547).
I.1.3) Con riferimento al caso di specie, in esito alla citata ordinanza istruttoria, i ricorrenti hanno dimostrato la loro vicinitas con il chiosco oggetto del presente giudizio, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
In particolare, gli istanti hanno infatti depositato i certificati di residenza di n. 9 ricorrenti, relativi al civico n. 63 di -OMISSIS-, posto a circa 20 m. dal chiosco, e di n. 8 ricorrenti, residenti al civico n. 67, posto a circa 70 metri dal chiosco, dimostrando pertanto la sussistenza del loro stabile collegamento con l’area oggetto del presente giudizio.
Come desumibile dall’esame del materiale fotografico e dalle planimetrie depositate in giudizio, ed ulteriormente illustrate dalle parti nel corso dell’udienza pubblica, il chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo marciapiede su cui si affacciano gli immobili dei ricorrenti, rientrando pertanto nella visione di insieme dei palazzi d’epoca prospicienti la zona di -OMISSIS- che si incontra con -OMISSIS-, peraltro pressoché adiacente al Castello Sforzesco di Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo storico ed architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo effettivamente introdurre un elemento di discontinuità nell’area in questione, come detto connotata da immobili di particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse dei ricorrenti alla sua contestazione (C.S., Sez. IV, 08.01.2016, n. 35).
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale (C.S., Sez. VI, 05.01.2015, n. 11).
I.1.4) Quanto infine a 3 ricorrenti, che hanno comprovato il loro diritto di proprietà su talune unità immobiliari poste al civico 63, senza tuttavia esservi residenti, ed altri 6, che hanno invece documentato lo svolgimento di attività commerciale e di amministratore di condominio nello stesso, evidenzia il Collegio che, in primo luogo, la giurisprudenza considera provata la vicinitas, in relazione ad una situazione di stabile collegamento, anche a fronte di un titolo di frequentazione della zona interessata (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 30.01.2018, n. 126, TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 08.03.2013, n. 627), e che comunque, anche ritenendo gli stessi privi di interesse ad agire, ciò non pregiudicherebbe l’ammissibilità del ricorso, con riferimento alle restanti posizioni.
Per giurisprudenza pacifica, il ricorso collettivo si risolve infatti in una pluralità di azioni contestualmente proposte mediante un unico atto, non comunicandosi agli altri le posizioni soggettive di ciascuno dei ricorrenti, tanto che un’eventuale pronuncia di inammissibilità dell’azione per uno dei ricorrenti, non preclude comunque una pronuncia di merito per l’altro (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 17.12.2012, n. 3056).
I.2.1) Con una seconda eccezione, il controinteressato deduce l’inammissibilità del ricorso per mancata notifica ai controinteressati.
Avendo infatti gli istanti impugnato anche i provvedimenti che hanno assegnato agli operatori economici selezionati la gestione di altri chioschi, l’accoglimento del presente ricorso, a loro dire, pregiudicherebbe anche la loro posizione, rivestendo pertanto gli stessi la qualifica di controinteressati necessari.
In particolare, poiché in caso di annullamento dei provvedimenti oggetto del presente giudizio deriverebbe “la chiusura di tutti i chioschi presenti sul territorio comunale in forza del bando impugnato”, dovrebbe ritenersi che gli istanti abbiano presentato “tante autonome domande di annullamento rivolte nei confronti di tutti i concorrenti che sono stati selezionati per l’ottenimento dei posteggi”.
I.2.2) Osserva in contrario il Collegio che, malgrado i ricorrenti abbiano effettivamente impugnato, oltre all’autorizzazione all’installazione del chiosco da collocarsi in -OMISSIS-, e la relativa autorizzazione paesaggistica, anche la citata delibera n. 2858/2014, in materia di linee di indirizzo per la predisposizione del bando per l’assegnazione dei posteggi “extra mercato”, tuttavia, ciò ha avuto luogo, coerentemente al loro interesse, nella parte in cui “figura anche il posteggio ubicato nella posizione -OMISSIS- -OMISSIS-”.
Come sopra evidenziato, i ricorrenti non sono infatti operatori economici, interessati a contestare l’illegittima modalità di svolgimento della procedura di assegnazione delle postazioni commerciali, quanto invece residenti, o comunque titolari di posizioni qualificate, strettamente correlate all’area in cui verrà posizionato il chiosco del controinteressato.
Per giurisprudenza pacifica, l’esercizio dei poteri di interpretazione della domanda attribuiti al giudice devono infatti muovere dall’individuazione del bene giuridico cui l’interessato aspira, e che l'attività amministrativa gli ha negato, dovendo a tal fine considerarsi, al di là delle espressioni formali utilizzate dalle parti, la concreta situazione dedotta in causa, e le effettive finalità che la parte intende perseguire (C.S. Sez. V, 23.02.2018, n. 1147, che conferma TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2933/2014).
Conseguentemente, l’eventuale pronuncia di annullamento dei provvedimenti in questa sede impugnati, non produrrebbe alcun effetto nei confronti degli ulteriori assegnatari, che non sono pertanto controinteressati nel presente giudizio, ferma restando ovviamente la facoltà, in capo al Comune, di adottare ulteriori provvedimenti nei loro confronti, suscettibili di essere autonomamente contestati.
Peraltro, osserva incidentalmente il Collegio come la citata delibera n. 2858/2014 non abbia espressamente prescritto che le installazioni oggetto dei posteggi “extra mercato” debbano essere prive del permesso di costruire, avendo infatti principalmente ad oggetto la “selezione degli operatori per il commercio su area pubblica con le modalità previste dalla L.R. 02.02.2010 n. 6 Testo Unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere, e dal Regolamento per la Disciplina del Commercio su aree pubbliche adottato con Delibera di Consiglio Comunale n. 9/2013”, non incidendo pertanto sulla disciplina urbanistica ed edilizia applicabile, i cui contenuti non possono che essere desunti dalle relative disposizioni speciali in materia.
I.3.1) Con un’ulteriore eccezione, il controinteressato deduce l’inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione dei provvedimenti gravati, essendo gli stessi stati pubblicati all’Albo Pretorio del Comune.
L’eccezione va respinta, non avendo l’istante in realtà fornito la prova di detta pubblicazione, che è stata espressamente contestata dai ricorrenti.
Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41, c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale, deve essere fornita dalla parte che la eccepisce, trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c., all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei confronti dei provvedimenti dell'amministrazione, riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost. (C.S., Sez. V, 03.02.2016 n. 424).
I.3.2) Sotto altro aspetto, evidenzia il controinteressato che, a prescindere dalla pubblicazione dei provvedimenti impugnati all’Albo Pretorio, i ricorrenti erano comunque al corrente dell’installazione del chiosco in una data antecedente al termine di sessanta giorni dalla proposizione del ricorso, e precisamente, in relazione ai lavori occorsi per la sua installazione, documentando le date di loro effettuazione.
In via preliminare, osserva il Collegio che, per giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato l'onere della prova della data di ultimazione delle opere, essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture, ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa l'epoca di realizzazione del manufatto (TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 27.09.2017, n. 638), ciò che non ha tuttavia avuto luogo nel caso di specie.
La documentazione che secondo l’interessato comproverebbero l’esecuzione dei lavori, menziona infatti un sopralluogo effettuato in data 02.02.2016, tuttavia antecedente al posizionamento del chiosco, richiedendosi il relativo nulla osta (doc. n. 15), oltreché l’esecuzione dei lavori necessari agli allacciamenti delle utenze (docc.ti 16-19), senza invece minimamente comprovare la sua vera e propria installazione, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
I.3.3) Un’ulteriore prova dell’avvenuta cognizione degli interventi oggetto del presente giudizio, sarebbe inoltre fornita da una lettera indirizzata dai ricorrenti al Sindaco di Milano, pubblicata in data 30.04.2017 su un quotidiano locale, in cui gli stessi si lamentano della costruzione del chiosco di che trattasi.
Anche detti rilievi sono infondati, essendo il ricorso stato notificato in data 16.06.2017, e pertanto prima di sessanta giorni decorrenti dalla pubblicazione della citata lettera, senza che il controinteressata abbia dimostrato l’esistenza di altre comunicazioni dei ricorrenti antecedenti.
I.4) Ulteriormente, il controinteressato deduce l’inammissibilità del ricorso, per mancata impugnazione di atti presupposti, ed in particolare, della delibera n. 1036/2012, che avrebbe dettato i criteri per il rilascio delle concessioni per l’installazione dei chioschi, e della graduatoria definitiva pubblicata in data 08.05.2015, oltreché del Regolamento per la disciplina del Commercio sulle Aree Pubbliche, del Regolamento Cosap, del Regolamento Edilizio, del Regolamento per la Disciplina del diritto ad occupare il Suolo, del Regolamento sul sistema dei controlli interni, del parere favorevole condizionato del 15.09.2015 del Settore Pianificazione e Programmazione, dell’Ufficio Programmazione Mobilità, dell’Ufficio Programmazione Arredo Urbano, quello del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del 24.08.2015, dell’Autorizzazione Paesaggistica della Commissione del paesaggio del 04.08.2016, e della Relazione del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del 04.03.2016.
Anche tale eccezione è infondata, non avendo il controinteressato comprovato che gli atti di cui lamenta la mancata impugnazione prevedessero la possibilità di autorizzare i chioschi con le modalità contestate nel ricorso, ed in primis, in assenza del permesso di costruire.
...
II.1) Quanto al merito, con il primo motivo, l’istante deduce l’illegittimità dell’autorizzazione all’installazione del chiosco per cui è causa, rilasciata dal Comune di Milano al controinteressato, in considerazione del mancato rilascio di un permesso di costruire avente ad oggetto tale struttura, ciò che sarebbe invece stato necessario, trattandosi di un’opera permanente e non rimuovibile.
II.1.1) Osserva il Collegio che, in base a quanto disposto nell’art. 25, punto 3, del Regolamento per la disciplina del commercio sulle aree pubbliche del Comune di Milano, la struttura di tipo “chiosco”, dà luogo ad un manufatto chiuso, di dimensioni contenute, generalmente prefabbricato, e strutturalmente durevole, posato su suolo pubblico, o su aree private soggette a servitù di uso pubblico, non rimuovibile al termine della giornata lavorativa.
In base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett. e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n. 221 del 28.12.2015, tra gli "interventi di nuova costruzione", per i quali è necessario il permesso di costruire, rientrano anche quelli relativi l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti.
In relazione a quanto sopra, il motivo va pertanto accolto, avendo il Comune di Milano illegittimamente autorizzato l’installazione del chiosco in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-, senza preventivamente rilasciare il permesso di costruire.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche per l'installazione di un chiosco (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2282).
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto invece ad un utilizzo reiterato nel tempo (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 13.03.2017, n. 409), come tale idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico (C.S., Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842).
II.1.2) Secondo la difesa comunale e della controinteressata, nella fattispecie per cui è causa, dovrebbe tuttavia trovare applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree pubbliche, di cui alla L.R. n. 6/2010, oltre a quella regolamentare, che escluderebbero espressamente, per l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di costruire.
Detti argomenti non hanno tuttavia pregio, essendo la normativa in materia di commercio e quella edilizia preordinate alla tutela di beni giuridici differenti, dovendo pertanto essere applicate congiuntamente, come pacificamente ritenuto in giurisprudenza, secondo cui, malgrado le attività commerciali siano attualmente liberamente insediabili con riguardo al loro numero, non esistendo contingenti massimi autorizzabili, le stesse rimangono tuttavia soggette ai limiti fissati dalla normativa edilizia, oltreché a quella posta a tutela dei beni culturali, ed alla pianificazione urbanistica e paesaggistica (TAR Marche, Sez. I, 16.04.2014, n. 434).
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010, invocato dalla difesa comunale, conferma peraltro espressamente la coesistenza tra la normativa dettata in materia di commercio e quella edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate, nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente, la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica, non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari, quali l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti (C.S. Sez. VI, 27.02.2012 n. 1106).
II.1.3) Parimenti, anche la giurisprudenza citata dalla difesa resistente (C.S., Sez. V, 05.11.2012, n. 5589, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 19.09.2013, n. 2248), conferma in realtà la fondatezza del motivo, in quanto riferita ad una fattispecie in cui era il Comune a realizzare le opere in assenza del permesso di costruire, essendo a tal fine equipollente la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, laddove il chiosco oggetto del presente giudizio è in proprietà esclusiva del controinteressato, non rientrando inoltre nel concetto di “opera pubblica”, come invece aveva luogo nelle citate decisioni.
Analogamente, anche i precedenti di questo Tribunale (Sez. I, 22.12.2014 n. 3123, 19.12.2013, n. 2889) non risultano pertinenti, in quanto aventi ad oggetto fattispecie antecedenti all’entrata in vigore della citata L. n. 221/2015, disciplinate da una differente versione del Regolamento Edilizio Comunale, ed in ogni caso, riferite ad “un manufatto in uso precario e amovibile”, la cui installazione era prevista per un periodo inferiore a dodici mesi (n. 3123/2014 cit.), diversamente da quello per cui è causa.
Neppure infine è pertinente alla fattispecie oggetto del presente giudizio C.S., Sez. VI, 21.11.2017 n. 5394, sia in quanto dettata in materia di impianti pubblicitari, sia soprattutto poiché, in tale pronuncia, il giudice d’appello non ha ravvisato la necessità di richiedere il titolo edilizio per la loro installazione, ritenendo che i vincoli previsti dall’art. 3 D.Lgs. n. 507/1993, tuttavia estraneo alla fattispecie per cui è causa, di per sé, tutelassero adeguatamente il corretto assetto del territorio.
II.1.4) Da ultimo, anche il richiamo all’art. 116, c. 4, del Regolamento Edilizio Comunale, secondo cui i chioschi, se realizzati su suolo pubblico, “non costituiscono oggetto di titolo abilitativo edilizio, ma sono installati secondo le modalità previste dai provvedimenti che autorizzano l’uso del suolo”, risulta irrilevante nel presente giudizio.
Come infatti correttamente osservato dai ricorrenti, detta norma si riferisce ai “manufatti provvisori”, la cui “permanenza non può superare i ventiquattro mesi”, laddove invece quello per cui è causa sarà installato per una durata di dodici anni.
Ad abundantiam, osserva il Collegio che anche ove l’art. 116 cit. potesse essere letto nei termini suggeriti dal controinteressato, ciò risulterebbe tuttavia incompatibile con l’art. 3, c. 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 citato, come modificato dalla L. n. 221/2015, trovando in tal caso applicazione il c. 2 dello stesso art. 3, secondo cui “le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”, dovendo in tal caso il Collegio disporre in parte qua la disapplicazione del Regolamento Edilizio Comunale, in quanto contrastante, in termini di palese contrapposizione, con il disposto legislativo primario (C.S., Sez. V, 28.09.2016 n. 4009).
...
In conclusione,
il ricorso va pertanto accolto, quanto al primo motivo, e respinto per il resto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.06.2018 n. 1485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2018

PATRIMONIODevoluzione del patrimonio sociale a scopi di pubblica utilità.
Le società espressione del “cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di prevedere nei propri statuti la devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale –dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati– a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico.
Il Comune, nel riferire di essere proprietario di un immobile allo stesso trasferito da una società in liquidazione, chiede un parere circa la destinazione a pubblica utilità del bene stesso, atteso l’onere posto nell’atto di trasferimento della proprietà immobiliare in riferimento.
Più in particolare, ai fini di chiarire la situazione in essere, precisa di avere ricevuto, nell’anno 1997, da una società “latteria sociale turnaria”, ormai sciolta e posta in liquidazione, a titolo di devoluzione del patrimonio sociale, un immobile con l’obbligo, espressamente indicato nel contratto di cessione, “di destinare il bene a pubblica utilità e in particolare a sede delle varie associazioni culturali, sportive, ricreative e simili”.
Tanto premesso, l’Ente riferisce di aver concesso una parte dell’indicato fabbricato in favore delle associazioni culturali, sportive e ricreative locali e che ulteriori sale del medesimo immobile sono state destinate ad uso civico e centro di aggregazione giovanile attrezzato, nonché all’occorrenza, quale luogo per seggi elettorali.
Nel precisare di aver soddisfatto “tutte le richieste di locali per gli scopi sociali di cui sopra”, l’Ente avrebbe intenzione di locare una unità abitativa del fabbricato in riferimento, utilizzando le somme che percepirebbe a titolo di canone per “recuperare almeno in parte i costi di gestione e manutenzione che l’immobile richiede”. Desidera, a tal fine, sapere se una tale volontà contrasti o meno con l’onere apposto nell’atto di devoluzione.
In via preliminare, si osserva che i pareri espressi da questo Ufficio in materia giuridico-amministrativa sono privi di qualsiasi efficacia vincolante. In particolare, con riferimento alla fattispecie in essere giova da subito precisare che, ferme le considerazioni che nel prosieguo verranno espresse, l’interpretazione delle clausole contrattuali compete unicamente alle parti contraenti o, in caso di contestazione, all’autorità giudiziaria eventualmente adita.
Tutto ciò premesso, si osserva che le società espressione del “cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di prevedere nei propri statuti la “devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale –dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati– a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico
[1].
La finalità delle norme volte a porre tale vincolo di destinazione al patrimonio residuo di tali società è stata concordemente identificata in quella di “garantire che i benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo svolgimento di un’attività priva di tale carattere e, comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito”
[2]. Al contenuto dell’obbligo di devoluzione è stata fornita una interpretazione ampia “comprensiva di tutti i casi nei quali sussisteva l’esigenza di evitare che benefici conseguiti grazie alle agevolazioni stabilite in favore dell’attività mutualistica fossero eterodestinati rispetto a questo scopo[3].
Ciò premesso, pare che la finalità -di destinazione a pubblica utilità del bene- che la disposizione contrattuale, attuativa di norme di legge, mira a realizzare possa considerarsi non disattesa qualora una parte dell’immobile venga concessa in locazione col vincolo della destinazione delle somme riscosse a titolo di canone locatizio per sopperire alle spese di gestione e manutenzione del fabbricato medesimo.
Infatti, una volta che l’Ente abbia concesso i locali a vantaggio delle associazioni indicate, in modo tale da soddisfare pienamente le esigenze delle stesse per gli scopi sociali in argomento, si è dell’avviso che la destinazione a pubblica utilità delle rimanenti parti dell’immobile in oggetto possa avvenire anche indirettamente, consentendo, con i proventi della locazione, di mantenere i locali medesimi in uno stato di funzionalità e di decoro tali da migliorarne l’utilizzo da parte delle associazioni stesse.
Si consideri, altresì, che la disposizione contrattuale che impone l’onere all’atto di devoluzione del bene in riferimento
[4] utilizza una formulazione ampia, atteso che la stessa, nell’individuare le possibili forme di utilizzo del bene per pubblica utilità, individua in termini meramente esemplificativi e non tassativi –come è confermato dall’utilizzo dell’inciso “in particolare [5]– le possibili modalità di utilizzo dei locali in oggetto.
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[1] In questo senso si veda l’articolo 26 del D.Lgs. C.P.S. 14.12.1947, n. 1577.
[2] Corte Costituzionale, sentenza 19-23.05.2008, n. 170.
[3] Corte Cost., sentenza n. 170 del 2008.
[4] La quale, si ribadisce, prevede l’obbligo di “destinare il bene a pubblica utilità e in particolare a sede delle varie associazioni culturali, sportive, ricreative e simili”.
[5] Tale espressione linguistica viene usata di norma nei casi in cui si voglia fornire un’elencazione meramente esemplificativa e non tassativa delle fattispecie da ricomprendere. Si veda, ad esempio, “Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi”, Manuale per le Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, dicembre 2007, pag. 26 ove si afferma che «il carattere esemplificativo di un’enumerazione si esprime attraverso l’uso di locuzioni quali “in particolare”, “tra l’altro”»
(29.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Sinistri stradali in centri urbani.
L’appartenenza del bene al demanio o al patrimonio della pubblica amministrazione e il suo uso diretto da parte di un numero rilevantissimo di utenti sono solo indici sintomatici dell’impossibilità di evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo in un bene, ma non la attestano in modo automatico, sicché l’art. 2051 c.c., trova applicazione ogni qualvolta nel caso concreto non sia ravvisabile soggettiva impossibilità di un esercizio del potere di controllo dell’ente sul bene in custodia, determinata appunto dal suo uso generale da parte dei terzi e della sua notevole estensione.
In quest’ottica, relativamente ai sinistri avvenuti sulle strade dei centri urbani, l’elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è causato il danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune
(TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 17.05.2018 n. 1202 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

marzo 2018

PATRIMONIOPermuta immobiliare senza vincoli per gli Enti Locali.
La manovra economica correttiva del luglio 2011, approvata con il Dl 98/2011, nell’intento di ottenere risparmi di spesa, ha imposto agli enti territoriali un vincolo di finanza pubblica in materia di operazioni immobiliari in base al quale (a decorrere dal 01.01.2014) essi possono effettuare operazioni di acquisto di immobili solo se ne siano documentate l'indispensabilià, l'indilazionabilità e la congruità del prezzo (quest'ultima attestata dall'Agenzia del Territorio, incorporata dall'Agenzia delle Entrate).
La decisione della Corte dei conti veneta
Il regime vincolistico, disciplinato dall'articolo 12, comma 1-ter, del decreto n. 98, ha sollevato una rilevante questione circa il suo perimetro oggettivo di applicazione, che è stata recentemente affrontata dalla Corte dei conti, sezione di controllo per il Veneto, nella parere 22.03.2018 n. 110.
Più in dettaglio, viene fornita una precisazione circa la corretta interpretazione della disposizione in merito alla riconducibilità al suo alveo applicativo dell'istituto giuridico della permuta immobiliare.
Al riguardo, i giudici del controllo veneto rilevano come in passato la giurisprudenza contabile sia più volte intervenuta chiarendo che la norma si riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo, frutto di una contrattazione tra ente locale e privato, con specifico riferimento al prezzo; viceversa, la sua applicazione è stata esclusa in caso di procedimento autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo (come nell'ipotesi di esproprio), oppure nel caso di acquisizione al patrimonio pubblico di opere di urbanizzazione a scomputo (assimilata all'appalto di lavori).
Da questa interpretazione la sezione del Veneto ricava il principio generale secondo cui la norma vincolistica in questione produce effetti esclusivamente nei confronti degli atti posti in essere iure privatorum dalla Pa in cui la stessa acquisti i beni immobili in contropartita dell'esborso di un prezzo a titolo di corrispettivo. Pur rientrando la permuta nell'ambito degli atti in cui l'ente locale agisce iure privatorum, a parere della sezione Veneto, questa operazione immobiliare è fuori dal regime restrittivo sulla scorta dell'esegesi letterale della norma.
Interpretazione della norma
Sotto il profilo lessicale, dopo aver richiamato l'articolo 1552 del codice civile («la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro»), ravvisando l'incompatibilità con la disposizione in rassegna, che impone espressamente delle restrizioni alle (sole) «operazioni di acquisto di immobili», i magistrati veneti concludono per l'esclusione delle operazioni di permuta dall'ambito delle limitazioni mancando il sinallagma del trasferimento di bene dietro versamento di corrispettivo.
Alla stessa conclusione si perviene pensando allo scopo della disciplina vincolistica il cui fine risiede nel freno agli esborsi di denaro da parte degli enti per l'acquisto del patrimonio immobiliare; circostanza, invece, aliena alla fattispecie permutativa ove nessun versamento di denaro a titolo di corrispettivo viene a sostanziarsi, bensì unicamente un trasferimento di un bene in cambio di un altro bene. In questa prospettiva, infatti, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali dell'ente, il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non regolata dal divieto.
Questa posizione interpretativa viene confermata dalla giurisprudenza sia con riferimento alla permuta “pura”, ovvero al trasferimento reciproco di immobili a parità di prezzo, sia relativamente alla permuta “spuria”, cioè quando il valore del bene del privato risulti diverso da quello pubblico da trasferire, nel particolare caso in cui il valore dell'immobile di proprietà della pubblica amministrazione sia superiore a quello della controparte privata, laddove i giudici veneti risolvono la necessità di omogeneizzare il trasferimento incrociato con il correttivo della compensazione a carico del privato (sotto forma –ad esempio– di opere specifiche come la manutenzione degli immobili trasferiti o altri interventi) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2018).
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MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Veggiano (PD) ha formulato
a questa Sezione una richiesta di parere in merito all'ambito applicativo dell'art. 12 del decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011.
Nel dettaglio, il Sindaco ha specificato che è intenzione dell’Amministrazione Comunale individuare un magazzino con uffici da destinare alla Protezione Civile Comunale. Anziché realizzare ex novo tale magazzino, come originariamente indicato nel programma triennale dei lavori pubblici, l’Amministrazione Comunale vorrebbe permutare un’area di proprietà comunale con un lotto di proprietà privata con sovrastante un fabbricato idoneo allo scopo.
Il Sindaco precisa che “il valore della permuta risulta positivo per l’Amministrazione, essendo il valore dell’area comunale ben superiore al valore del lotto con fabbricato proposto dal privato. La differenza tra i due valori di stima sarà destinato esclusivamente ad opere per la manutenzione stessa del fabbricato o per altre opere programmate”.
Il Sindaco chiede chiarimenti in merito all’applicazione dell’art. 12 del decreto legge n. 98/2011 e precisa, comunque, che, nel caso di specie, sussistono i presupposti dell’indispensabilità e indilazionabilità richiesti dalla norma in questione.
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Ciò nonostante, quanto al quesito prospettato, seppure è da considerarsi apprezzabile lo sforzo dell’Amministrazione Comunale di Veggiano di evidenziare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione, il parere può essere reso solo ed esclusivamente in merito alla riconducibilità dell’istituto giuridico della permuta ai vincoli di finanza pubblica di cui all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011.
Lo stesso non può considerarsi ammissibile per la parte che inerisce il caso concreto che interessa il Comune di Veggiano.
Venendo al merito, il quesito concerne la corretta applicazione dell'art. 12 del decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, e successivamente modificato, secondo cui “
a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (…) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilià e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento (…). La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente”.
La giurisprudenza contabile è più volte intervenuta sulla portata dell’articolo in questione, precisando che
la norma si riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo frutto di una contrattazione tra le parti con specifico riferimento al prezzo. Viceversa, tale norma non si applica quando vi sia un procedimento autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo, come nel caso dell’esproprio.
La norma de qua si applica, pertanto, agli atti posti in essere iure privatorum dalla Pubblica Amministrazione, in cui la stessa acquisti tali beni e corrisponda per essi un prezzo a titolo di corrispettivo.
Le considerazioni che precedono sono altresì funzionali alla soluzione del quesito prospettato nella richiesta di parere, inerente all’applicabilità delle suddette norme vincolistiche all’istituto della permuta.
E’ vero, infatti, che la permuta rientra nell’ambito degli atti iure privatorum della Pubblica Amministrazione, ma è altrettanto vero che non si può prescindere dall’interpretazione letterale della norma e dalla sua ratio.
Sotto il profilo letterale, si sottolinea che, ai sensi dell’art. 1552 c.c., “la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro”. Il comma 1-ter dell’art. 12 citato, invece, impone espressamente delle limitazioni per quanto riguarda “le operazioni di acquisto di immobili”. Ne deriva che
possono considerarsi escluse dall’ambito delle limitazioni di cui all’art. 12 le operazioni di permuta, non essendovi alcun trasferimento di un bene dietro versamento di un corrispettivo.
Alla medesima conclusione dell’esclusione della riconducibilità della permuta alla disposizione di cui all’art. 12, comma 11, del decreto legge n. 98/2011 si perviene se si indaga la ratio della norma. Fine di tale disposizione è quello di limitare esborsi di denaro per l’acquisto del patrimonio immobiliare. In caso di permuta, invece, non v’è alcun versamento di denaro a titolo di corrispettivo, ma unicamente un trasferimento di un bene in cambio di un altro bene.
Giova ricordare che questa Sezione ha più volte ribadito tali concetti, seppur riferendosi alla permuta “pura”, ovverosia al trasferimento reciproco di immobili a parità di prezzo (cfr. Corte dei conti - Sezione Veneto n. 149/2013/PAR e Corte dei conti - Sezione Veneto n. 150/2013/PAR).
Ove, nei casi in cui non ci si trovi dinanzi ad una ipotesi di permuta c.d. “pura”, in quanto il valore del lotto di un privato con annesso, o meno, un fabbricato, risulti diverso dal valore del terreno o dell’immobile da trasferire, possono, comunque, applicarsi i medesimi principi, seppur, a seconda della circostanza concreta, con gli opportuni correttivi.
Infatti, in tutte le circostanze nelle quali il valore del bene di proprietà della pubblica amministrazione sia superiore a quello del privato, in permuta, appare necessario che l’operazione preveda forme di compensazione rispetto al maggior valore del bene pubblico trasferito.
In tal senso, l’amministrazione pubblica avrebbe diritto di ottenere, in aggiunta, anche opere specifiche (consistenti, a mero titolo esemplificativo, nella manutenzione degli immobili trasferiti, piuttosto che in altri interventi, ovviamente previsti o, eventualmente, da prevedersi nell’ambito della programmazione delle opere pubbliche).
Alla luce di quanto sopra evidenziato,
non vi sono ragioni per ritenere che, sia i casi di permuta “pura”, sia quelli rientranti nell’ambito delle fattispecie di permuta c.d. “spuria”, siano riconducibili all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011.

PATRIMONIO: Il giudice amministrativo ha reiteratamente chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di immobili, prima della stipula del contratto, la posizione del privato ha natura di interesse legittimo e che, pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo.
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La delibera del Consiglio Comunale con la quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di strada
e la vendita diretta è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d. 827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41 ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di approvazione del contratto .
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12, comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n. 127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12, comma 2).
Ne consegue che
la più recente normativa non ha affrancato l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto”.
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... per l'annullamento:
   - della determinazione del Responsabile del Settore Area Tecnica del Comune di Solignano 05/06/2017, n. 79, reg. gen. 147, recante "Alienazione ex relitto stradale in località Case Bertacca – esatta individuazione dell'estensione dell'area oggetto di alienazione";
   - di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente, ivi compresa la nota del Responsabile del Settore Area Tecnica del Comune di Solignano 19/07/2017, prot. n. 3857 e la comunicazione e-mail 12/06/2017 a firma dello stesso Responsabile;
...
Il ricorso è fondato.
Devono, tuttavia, preliminarmente, esaminarsi le eccezioni proposte dalla controinteressata e dal Comune.
Con riguardo all’eccepita inammissibilità per difetto di giurisdizione, si rileva che la sig.ra Le. non ha attivato alcuna posizione di diritto soggettivo, ma ha impugnato una delibera del Consiglio Comunale e una determina dirigenziale, lamentando la lesione del proprio interesse legittimo a partecipare alla mancata procedura di evidenza pubblica per l’acquisto del relitto stradale, come confermato anche nella diffida pervenuta il 14.06.2017 al Comune di Solignano e come reso evidente dalle censure contenute in ricorso.
Gli atti impugnati sono provvedimenti amministrativi con i quali l’amministrazione discrezionalmente dispone la sdemanializzazione e la vendita dell’area sdemanializzata alla sig.ra Bu., in relazione ai quali sono configurabili solo posizioni di interesse legittimo rientranti, ai sensi dell’art. 7 c.p.a., nella giurisdizione di questo giudice.
Il giudice amministrativo ha, peraltro, reiteratamente chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di immobili, prima della stipula del contratto, la posizione del privato ha natura di interesse legittimo e che, pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo (tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1781/2014).
L’eccezione va quindi respinta.
La difesa della controinteressata eccepisce poi la carenza di interesse in capo alla ricorrente in quanto assume che la stessa non sarebbe più in termini per impugnare una delibera del 1992.
Anche tale eccezione è infondata.
La ricorrente utilizza, in quanto proprietaria di terreni contigui all’area, il tratto stradale di cui si tratta, e sebbene non possa contestarsi che la sua proprietà confina con il relitto stradale, il Comune di Solignano non ha mai comunicato alla medesima né ai suoi danti causa l’intenzione di sdemanializzare la strada né tanto meno l’intenzione di cederla alla vicina sig.ra Bu..
La presenza di possibili altri soggetti interessati all’acquisto si evince dal Verbale della deliberazione del Consiglio Comunale ove si legge che la vendita è condizionata al mantenimento del diritto di passaggio per gli aventi causa.
Eppure non vi è traccia nel testo del provvedimento della tempestiva notificazione a nessuno dei soggetti potenzialmente interessati al diritto di passaggio.
La necessità di notifiche o comunicazioni ai proprietari vicini si ricava dalla disciplina di cui agli artt. 41 di cui al RD 827/1924, come anche dall’art. 12, comma 2, della legge 127/1997, ove si prevede che i Comuni e le Province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
La sig.ra Le., in quanto proprietaria di terreni contigui all’area per la quale vi è controversia, come si evince dalle planimetrie prodotte in giudizio, aveva senz’altro titolo ad essere avvisata adeguatamente della sdemanializzazione e della intenzione di alienare il bene, con conseguente irrilevanza della pubblicazione della delibera sul B.U.R.E.R. ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione, atteso che detta forma di pubblicità non appare adeguata per chi è facilmente identificabile come soggetto interessato e senza considerare che l’atto a suo tempo pubblicato non identificava la particella oggetto di sdemanializzazione e cessione.
Pertanto, la ricorrente, avendo avuto piena conoscenza del provvedimento lesivo solo a seguito dell’accesso, lo ha tempestivamente impugnato.
Anche questa eccezione va quindi respinta, poiché infondata.
Nel merito il ricorso è fondato.
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione delle norme in materia di amministrazione del patrimonio e di contabilità dello Stato e degli enti pubblici ove prevedono che la cessione di beni immobili di pubblica proprietà siano preceduti da procedure di evidenza pubblica idoneamente pubblicizzate che nel caso di specie non sono state esperite, né l’Amministrazione ha motivato sulle ragioni per le quali avrebbe derogato, ricorrendo all’affidamento diretto alla sig.ra Bu. senza prima verificare l’esistenza di controinteressati.
Il motivo è fondato.
La delibera n. 2 del 1992 del Consiglio Comunale con la quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di strada in località Casa Bertacca e la vendita alla sig.ra Bu. è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d. 827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41 ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di approvazione del contratto (cfr. Tar Liguria n. 380/2008, ma vedi anche Tar Napoli VII 5456/2015).
Atteso che nel caso di specie non ricorre alcuna delle ipotesi che consentono la trattativa privata, il Comune avrebbe dovuto far precedere la deliberazione del 1992 dall’esperimento di una procedura di evidenza pubblica.
Ciò non è avvenuto.
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12, comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n. 127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12, comma 2).
Ne consegue che
la più recente normativa non ha affrancato l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto che nel caso di specie risultano totalmente omessi, con evidente compromissione anche dell’interesse pubblico ad una maggiore entrata, ove si fosse consentito a più di un soggetto di presentare una offerta in una situazione nella quale la presenza di altri confinanti era anche facilmente rilevabile, considerata la modesta dimensione del reliquato stradale.
L’atto è poi affetto anche da difetto di istruttoria laddove, pur nella consapevolezza di soggetti interessati al diritto di passaggio, l’Amministrazione Comunale ha omesso una verifica della situazione del reliquato stradale mancando di identificare ed interpellare i proprietari confinanti con il bene oggetto di sdemanializzazione, e poi di alienazione, che potevano essere interessati all’acquisto.
L’accoglimento della scrutinata censura contenuta nel primo motivo di ricorso comporta l’annullamento della Deliberazione del Consiglio Comunale del 07.02.1992 e travolge anche la determina n. 79 del 05/06/2017, atto meramente esecutivo che ha il suo indefettibile presupposto nella deliberazione consiliare.
Ne consegue l’assorbimento delle altre censure a fronte della necessità per il Comune di rinnovare tutti gli atti qui impugnati per effetto dell’annullamento del provvedimento presupposto del 1992.
In conclusione il ricorso va accolto e per l’effetto annullata la deliberazione del 1992, con conseguente caducazione della determina n. 79 del 2017, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 21.03.2018 n. 83 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIOPer gli enti restano i paletti all'acquisto di immobili.
Per gli enti territoriali gli acquisti di immobili restano contingentati.

Lo ha chiarito la Corte dei conti Lombardia con il parere 09.03.2018 n. 78, chiarendo nuovamente la portata applicativa dall'art. 12 del dl 98/2011.
Tale disposizione, nel testo modificato dalla l. 228/2012, prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, le p.a. locali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove sussistano precise condizioni. In primo luogo, occorre l'attestazione di indispensabilità e indilazionabilità dell'acquisito da parte del responsabile del procedimento.
Inoltre, la congruità del prezzo di acquisito deve essere attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese e fatto salvo quanto previsto dal contratto di servizi stipulato ai sensi dell'art. 59 del dlgs 300/1999. Infine, delle operazioni di acquisto deve essere data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente.
Tale disciplina (che ha sostituito l'ancora più restrittivo divieto di procedere a nuovi acquisiti previsto per il 2013) è tuttora in vigore, per cui restano valide anche lo modalità attuative stabilite dal decreto del ministro dell'economia e delle finanze 14.02.2014 e le istruzioni operative sono state fornite con la circolare della Ragioneria generale dello stato n. 19/2014.
In particolare, l'art. 3 del citato dm dispone in ordine all'individuazione dei requisiti di indispensabilità e indilazionabilità degli acquisti programmati, affinché la relativa attestazione non sia generica, ma esponga le concrete motivazioni poste a fondamento delle operazioni di acquisto. In merito al requisito dell'indispensabilità, si chiarisce che lo stesso attiene all'assoluta necessità di procedere all'acquisto di immobili in ragione di un obbligo giuridico incombente all'amministrazione nel perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero nel concorso a soddisfare interessi pubblici generali meritevoli di intensa e specifica tutela (ad esempio, rispetto delle norme vigenti in materia di tutela dell'ambiente, della sicurezza sui luoghi di lavoro ecc.).
Quanto all'indilazionabilità, l'attestazione deve comprovare che l'amministrazione si trova effettivamente nell'impossibilità di differire l'acquisto, se non a rischio di compromettere il raggiungimento degli obiettivi istituzionali o di incorrere in possibili sanzioni
(articolo ItaliaOggi del 20.03.2018).
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MASSIMA
Un ente locale, per procedere all’acquisizione di beni immobili, deve dimostrare nel provvedimento di autorizzazione, salvo che ricorrano una delle eccezioni previste dalla norma, l’esistenza dei requisiti di “indispensabilità e indilazionabilità”, richiesti dall’art. 12, comma 1-ter del d.l. n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, esplicitando puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base dell’acquisto al patrimonio comunale ed evidenziando i vantaggi, anche economici, derivanti da tale opzione.

PATRIMONIOAcquisto di immobili solo se indispensabile e urgente. Il via libera spetta all'agenzia del Territorio.
Per poter acquistare immobili, gli enti locali devono sempre verificare l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti previsti dall'articolo 12, comma 1-ter, del Dl 98/2011, con particolare riferimento alla indispensabilità, indilazionabilità e congruità economica del prezzo. Operazione, quest'ultima, che spetta all'agenzia del Territorio e non più a quella del Demanio.

Lo affermano la sezione regionale di controllo per il Piemonte della Corte dei conti con il parere 02.03.2018 n. 26 e quella per la Lombardia con il parere 09.03.2018 n. 78.
Il primo caso
Nel caso esaminato dalla sezione Piemonte, il Comune ha avviato le procedure per lo scioglimento di una Srl a capitale interamente pubblico, costituita per la gestione dei parcheggi pubblici. Nominati i liquidatori, a seguito della presentazione del bilancio finale di liquidazione, il Comune avrebbe avuto intenzione di avere in assegnazione l'immobile adibito a parcheggio.
Ha chiesto alla sezione come regolarsi con l'articolo 12, comma 1-ter, del Dl 98/2011 nel testo modificato dall'articolo 1, comma 138, della legge 228/2012, che consente agli enti territoriali di effettuare operazioni di acquisto di immobili «solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento». La congruità del prezzo è attestata dall'agenzia del Demanio, previo rimborso delle spese.
Il secondo caso
Il caso esaminato dalla sezione Lombardia riguarda una convenzione per l'uso di un'area di proprietà ecclesiastica finalizzata alla realizzazione di un nuovo parcheggio a uso pubblico. La parrocchia proprietaria ha comunicato la volontà di cedere le aree e pertanto il sindaco ha chiesto un parere circa la possibilità di acquisto, previa acquisizione di perizia tecnica che ne quantificasse il reale valore di mercato. Gli stringenti criteri del comma 1-ter si applicano anche nel caso di assegnazione dell'immobile ai soci a seguito di scioglimento societario e in quello di cessione dell'area?
I vincoli
Nell'esprimere il parere, le due sezioni si trovano in perfetta sintonia, escludendo qualsiasi deroga alla regola generale e attestando che le disposizioni del comma 1-ter devono applicarsi a tutti gli acquisti di immobili posti in essere successivamente al 1° gennaio 2014, indipendentemente dalla natura dell'operazione di acquisto e dal tipo contrattuale utilizzato.
I criteri devono, dunque, essere applicati anche nel caso di acquisizione di un immobile a seguito dello scioglimento di una società partecipata, così come in quello del terreno di proprietà parrocchiale, perché l'elemento di distinzione per l'applicabilità della disciplina è dato dalla presenza di un contratto in cui l'effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico.
Per la valutazione dei requisiti della «indispensabilità e indilazionabilità» è, quindi, necessario che il provvedimento di autorizzazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base dell'acquisto al patrimonio comunale, evidenziando in particolare i vantaggi, anche economici, derivanti da tale opzione.
Pochi i casi in cui è possibile escludere la soggezione alla disciplina limitativa: l'acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo, posto che l'acquisizione avviene a seguito di un contratto assimilato all'appalto di lavori pubblici e non ad una compravendita; l'acquisto di immobili effetto di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità; l'acquisizione di immobili aventi titolo nel contratto di permuta e di transazione.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del demanio, i magistrati contabili rammentano che l'articolo 6, comma 1, della legge 158/2017 ha spostato la competenza in carico all'Agenzia del territorio che, peraltro, a decorrere dal 01.12.2012, è stata incorporata dall'Agenzia delle entrate (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.03.2018).
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MASSIMA
L'art. 1, comma 138, legge n. 228/2012 è applicabile a tutti gli acquisti di immobili posti in essere successivamente al 01.01.2014, indipendentemente dalla natura dell'"operazione di acquisto" (e, quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal momento in cui quest'ultima sia stata eventualmente deliberata dal competente organo (l'art. 42 TUEL riserva la competenza al Consiglio - lett. L).
L'Amministrazione richiedente, prima di procedere alla realizzazione del progetto dovrà verificare l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti previsti dal comma 1-ter dell'articolo 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111 ed in particolare l'indispensabilità, l'indilazionabilità e la congruità economica dell'operazione, con le specifiche modalità previste.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio (cfr. delibera di questa sezione di controllo n. 197/2017), l'articolo 6, comma 1, della Legge 06.10.2017, n. 158, ha previsto che la suddetta valutazione, per i soli casi indicati, spetti all'Agenzia del Territorio, e non più all'Agenzia del Demanio.
Sulla base del D.L. n. 95 del 06.07.2012, convertito in Legge n. 135 del 07.08.2012, l'Agenzia del Territorio, a decorrere dal 01.12.2012 è stata incorporata dall'Agenzia delle Entrate (art. 23-quater).

febbraio 2018

PATRIMONIO: Responsabilità della PA per difetto di manutenzione della strada pubblica.
In tema di responsabilità da cose in custodia con riferimento alle strade, il grado di diligenza che è preteso dall’utente della strada è direttamente proporzionale all’evidenza ed all’entità delle sconnessioni o dei dissesti percepibili.
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della Pubblica Amministrazione per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso
(TRIBUNALE di Lecce, sentenza 19.02.2018 n. 597 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Acquisizione con pagamento rateale.
Domanda
Gli amministratori del mio Ente vorrebbero acquisire un fabbricato già ultimato da destinare a sede della nuova farmacia comunale che stiamo per aprire finanziandolo con Avanzo, non abbiamo tuttavia a disposizione gli spazi necessari sul Pareggio di Bilancio.
Si era pertanto valutato di procedere con un pagamento rateale dello stesso (già concordato con l’attuale proprietario) da iscrivere anche nell’atto di acquisto.
E’ corretto tale modo di procedere o si configura come elusivo dei citati vincoli di finanza pubblica?
Risposta
Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dall’assunto che non si palesa mai elusione laddove, a fronte di una scelta dell’Ente legittima, si segue il corretto metodo di contabilizzazione dell’operazione. Nel caso oggetto di quesito, il problema non è tanto –come vedremo– l’elusione del Pareggio di Bilancio, quanto i riflessi del principio generale di “prevalenza della sostanza sulla forma” sull’iscrizione in contabilità dell’operazione. Andiamo con ordine e vediamo il perché.
Il principio contabile applicato 4/2 al punto 5.3.2, al fine di garantire il rispetto del citato principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma, prevede che per l’acquisizione di un investimento già realizzato con pagamento frazionato negli esercizi successivi sia necessario “registrare la spesa di investimento imputandola interamente all’esercizio in cui il bene entra nel patrimonio dell’ente“, provvedendo alla registrazione contestuale:
   a) del debito nei confronti del soggetto a favore del quale è previsto il pagamento frazionato, imputato allo stesso esercizio dell’investimento, provvedendo alla necessaria regolarizzazione contabile;
   b) dell’impegno per il rimborso del prestito, con imputazione agli esercizi secondo le scadenze previste contrattualmente a carico della parte corrente del bilancio.
Ovvero si dovrà trattare tale acquisizione come se avvenisse all’atto del rogito con mutuo (compensando il mandato al titolo 2 e la reversale al titolo 6 per l’importo rinviato agli anni successivi), mentre si dovranno trattare le successive rate di pagamento dell’atto come se si stesse rimborsando la quota capitale del mutuo stesso (emettendo il mandato a saldo del fornitore dal capitolo iscritto al titolo 4).
Ai fini del rispetto del Pareggio di Bilancio, ciò determina che non risultando rilevante l’Entrata da mutuo quanto non lo era quella da Avanzo, di fatto non si ottiene nessun vantaggio effettivo su tale fronte per l’Ente a gestire tale operazione alle condizioni dettagliate nel quesito (05.02.2018 - link a www.publika.it).

PATRIMONIO: L'immobile scolastico.
DOMANDA:
Il nostro ente è proprietario del 30% dell’immobile adibito a scuola secondaria di 1° grado con altri due comuni limitrofi, che hanno rispettivamente la quota di proprietà del 50% e del 20%.
L’Amministrazione Comunale intende effettuare lavori di sistemazione dello stabile per un importo di circa 1.000.000,00 di euro utilizzando gli spazi finanziari sblocca scuola 2018, anche senza accordo o contribuzione da parte degli altri due enti che, anche per problemi di vincoli di bilancio, non possono attualmente partecipare alla spesa.
Si chiede quindi se tecnicamente e contabilmente sia fattibile che il nostro ente proceda autonomamente accollandosi l’intero importo della spesa, a fronte di un incremento del valore dell’immobile anche per gli altri proprietari. In caso negativo può essere fattibile procedere comunque previo accordo tra gli stessi che esenti il nostro ente dalla contribuzione delle future spese di manutenzione straordinaria fino al raggiungimento dell’importo anticipato per conto degli altri comuni proprietari.
RISPOSTA:
Si ritiene che non sia legittimo che il Comune in questione, proprietario in misura pari al 30% della scuola, proceda a farsi carico dell’intera spesa finalizzata a realizzare un intervento volto a “sistemare lo stabile” per un importo di 1 milione di euro, senza avere sottoscritto un accordo con gli altri enti proprietari della quota restante; questo accordo, dovrebbe prevedere, oltre alla autorizzazione a procedere, anche la proporzionale contribuzione al sostenimento della spesa.
Pertanto si ritiene che, per potere procedere, sia necessario sottoscrivere tra gli enti proprietari, una convenzione adottata ai sensi dell’articolo 30 del Tuel. Questa convenzione dovrà stabilire i rapporti finanziari e i reciproci obblighi e garanzie, che si verranno a stabilire tra gli enti a seguito della realizzazione dell’intervento in questione.
Si ritiene anche che sia possibile prevedere che l’ente che realizza l’intervento sia esentato dalle future spese di manutenzione straordinarie, fino al raggiungimento dell’importo anticipato dal Comune; in proposito, si ritiene, però, che in questa convenzione debba anche essere riportato un credibile e realistico piano di futura manutenzione straordinaria, in base al quale sia possibile ipotizzare il recupero delle somme anticipate dal Comune (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

dicembre 2017

PATRIMONIOOGGETTO: Richiesta di installazione di un lampione di pubblica illuminazione in strada extraurbana locale – obbligatorietà – parere (Legali Associati per Celva, nota 29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di Rhêmes-Notre-Dame ha ricevuto un’istanza volta a ottenere dal Comune stesso l’installazione di un lampione di pubblica illuminazione di fronte a un fabbricato posto ai margini di un abitato isolato.
Riferimenti normativi: PRGC
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Non accogliere la richiesta
Quesiti: Tenuto conto che si tratta di una località di alta montagna dove il passaggio sia veicolare che pedonale notturno è molto limitato se non quasi nullo, e di una strada percorribile solo in periodo estivo, quando le ore di luce sono maggiori;
- tenuto conto, altresì, del fatto che non vi sono in loco attraversamenti pedonali, né imbocchi di strade pubbliche, né ostacoli (cunette, scale, pali) sulla strada comunale;
- tenuto conto, infine, che il minimo inquinamento luminoso ben si confà alla caratteristica del luogo;
con la presente si chiede se ci siano fondamenti normativi o giurisprudenziali alla richiesta che pongano a carico dell’Amministrazione l’obbligo di provvedere.

novembre 2017

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: Sul potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune.
L'ordinanza sindacale, volta al recupero di uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela possessoria "iuris publici" perché diretta al ripristino nell'interesse della collettività di uno stato di fatto reputato preesistente, conseguendone la sussistenza della giurisdizione amministrativa trattandosi di azione relativa alla verifica della legittimità o meno del potere azionato.
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante l'uso pubblico del terreno oggetto della presente controversia (in particolare, la titolarità di una servitù prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale.
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più generale potere di autotutela possessoria di diritto pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del 1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e impedimenti al libero transito esercitato anche in via di fatto dalla collettività.
Va ancora ricordato che sussiste il potere dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore motivazione.
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale.
I poteri di autotutela iuris publici che discendono dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non presentano la medesima identità di ratio delle azioni di cui dispone il privato e possono essere esercitati anche dopo che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla turbativa; l’autotutela esecutiva è espressione di un potere autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la situazione di disponibilità del bene in favore della collettività.

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Quanto alla questione della competenza ad adottare il provvedimento, va ricordato che per giurisprudenza costante, il generale potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune, di cui all'art. 378 l. n. 2248 del 1865, all. F, spetta al sindaco e non può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore d.lgs. n. 267 del 2000.
Ciò sia in ragione della persistente vigenza della norma, sia della riconducibilità del potere di tutela ivi previsto alla funzione di ufficiale di governo del sindaco, le cui competenze sono espressamente fatte salve dall'art. 107, comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del 2000.
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In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere, si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione, mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che, pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi competenti a provvedere o siano espressione di poteri differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata adottata alla stregua di presupposti in parte differenti concretatisi medio tempore.
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Sono inconferenti e comunque infondate le censure che partono dal presupposto che il provvedimento impugnato sia un’ordinanza contingibile e urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto, trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e, come è noto, il nomen iuris attribuito dall'Amministrazione a un proprio atto o provvedimento non vincola il giudice adito, che può riqualificarlo, occorrendo invero avere riguardo alla struttura stessa dell'atto impugnato.
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento amministrativo va individuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza.

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Nel merito il ricorso è infondato per i motivi che di seguito si espongono.
Intanto, è pacifica la giurisdizione del giudice amministrativo, venendo in rilievo, in via principale, non l'accertamento del diritto di proprietà o di altro diritto reale, ma la legittimità di un provvedimento autoritativo incidente su posizioni di interesse legittimo.
Va precisato che l'ordinanza sindacale, volta al recupero di uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela possessoria "iuris publici" perché diretta al ripristino nell'interesse della collettività di uno stato di fatto reputato preesistente, conseguendone la sussistenza della giurisdizione amministrativa trattandosi di azione relativa alla verifica della legittimità o meno del potere azionato (cfr. Tar Campania, Salerno sez. II, 05.03.2013, n. 517).
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante l'uso pubblico del terreno oggetto della presente controversia (in particolare, la titolarità di una servitù prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale (Tar Sicilia, Catania sez. I, 04.11.2015, n. 2552).
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più generale potere di autotutela possessoria di diritto pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del 1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e impedimenti al libero transito esercitato anche in via di fatto dalla collettività (Tar Lazio, Roma, sez. II, 17.10.2016, n. 10344).
Va ancora ricordato che sussiste il potere dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore motivazione (Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n. 3531).
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale (cfr., sul principio generale, Cons. Stato, Sez. V, n. 6283 del 2013, Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n. 3531).
I poteri di autotutela iuris publici che discendono dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non presentano la medesima identità di ratio delle azioni di cui dispone il privato e possono essere esercitati anche dopo che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla turbativa; l’autotutela esecutiva è espressione di un potere autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la situazione di disponibilità del bene in favore della collettività (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.04.2015, n. 2196).
Nel caso qui all’attenzione del Collegio, dall'esame della documentazione versata in atti, emerge che prima della collocazione delle transenne nel terreno in questione, sussisteva l'uso pubblico dello stesso, dovendosi ritenere sufficienti, per l'emanazione del provvedimento di autotutela, le evidenze documentali (tra le altre si vedano documenti nn. 9, 9-bis e 10 produzioni dell’amministrazione), suffragate dall'accertamento dello stato dei luoghi da parte di organi comunali.
In particolare, tutte le fotografie depositate dall’amministrazione attestano che il terreno era pacificamente già oggetto di transito veicolare e di utilizzo pubblico.
Quanto alla questione della competenza ad adottare il provvedimento, va ricordato che per giurisprudenza costante, il generale potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune, di cui all'art. 378 l. n. 2248 del 1865, all. F, spetta al sindaco e non può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore d.lgs. n. 267 del 2000; ciò sia in ragione della persistente vigenza della norma, sia della riconducibilità del potere di tutela ivi previsto alla funzione di ufficiale di governo del sindaco, le cui competenze sono espressamente fatte salve dall'art. 107, comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del 2000 (Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011, n. 3509).
In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere, si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione, mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che, pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi competenti a provvedere o siano espressione di poteri differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata adottata alla stregua di presupposti in parte differenti concretatisi medio tempore (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 14.08.2015, n. 5261).
Va ancora precisato che sono inconferenti e comunque infondate le censure che partono dal presupposto che il provvedimento impugnato sia un’ordinanza contingibile e urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto, trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e, come è noto, il nomen iuris attribuito dall'Amministrazione a un proprio atto o provvedimento non vincola il giudice adito, che può riqualificarlo, occorrendo invero avere riguardo alla struttura stessa dell'atto impugnato (ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. III, 23.02.2016, n. 2525).
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento amministrativo va individuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza (in questo senso, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 03.09.2015, n. 581 e Cons. giust. amm. Sicilia, 14.05.2014 n. 282).
Il ricorso è in definitiva infondato e deve essere rigettato (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.11.2017 n. 679 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2017

PATRIMONIO: Alienazione immobile comunale vendita con riserva di proprietà.
I beni patrimoniali disponibili sono di proprietà privata del comune e, come tali, soggetti alle regole del diritto comune, eccetto la alienazione che deve avvenire secondo criteri di trasparenza e pubblicità, nell'ambito di un procedimento che garantisca un confronto concorrenziale tra quanti possano essere interessati all'acquisto del bene (L. n. 783/1908; L. n. 127/1997).
A queste regole soggiace anche l'istituto della vendita con riserva di proprietà di cui all'art. 1523 c.c., che, se pur disciplinata nel codice civile con riferimento alla vendita dei beni mobili, viene estesa da certa giurisprudenza e dottrina anche ai beni immobili.

Il Comune riferisce di aver dato in locazione un proprio immobile (con contratto prossimo alla scadenza) e di aver ricevuto da parte del conduttore proposta di acquisto dell'immobile medesimo con patto di riservato dominio, ai sensi dell'art. 1523 c.c., quindi mediante il pagamento del prezzo a rate, con il trasferimento della proprietà al momento del pagamento dell'ultima rata
[1]. Il Comune chiede se possa procedere a detta forma di vendita.
Al fine della disamina del quesito, si ritiene di muovere dai principi generali che regolano la gestione del patrimonio immobiliare comunale, sia per quanto concerne l'affidamento che per la vendita degli immobili comunali, di interesse nel caso di specie.
Riguardo all'affidamento, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile dell'immobile determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione amministrativa, mentre per i beni del patrimonio disponibile l'attribuzione in godimento a soggetti terzi deve essere effettuata secondo gli schemi del diritto privato
[2].
La situazione rappresentata dall'Ente -di locazione di un proprio immobile rispetto al quale il conduttore ha manifestato la volontà di acquisto- lascia supporre l'appartenenza del bene di cui si tratta al patrimonio disponibile comunale.
A questo proposito, e venendo all'aspetto della vendita, va detto che -come osserva la giurisprudenza- i beni patrimoniali disponibili sono di proprietà privata del comune e, come tali, soggetti alle regole del diritto comune, eccetto la alienazione che deve avvenire secondo modalità tali da garantire gli interessi pubblici con la massima trasparenza ed imparzialità nella scelta del contraente, attraverso le procedure dei pubblici incanti o asta pubblica (L. n. 783/1908)
[3].
Peraltro, l'art. 12, c. 2, L. n. 127/1997, dispone che 'i comuni e le province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783 [...]. A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato'
[4]. A quest'ultimo riguardo, il Giudice amministrativo ha precisato che 'è fatto obbligo alle amministrazioni di assicurare idonei criteri di trasparenza ed adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, la cui determinazione non può essere rimessa al libero arbitrio, ma ad una normazione contenuta nel dedicato regolamento adottato dall'ente interessato' [5].
Posto il quadro normativo rappresentato, la vendita con riserva di proprietà (art. 1523 c.c.) -che, a rigore, è disciplinata nel Libro VI del codice civile, 'Delle obbligazioni', Sezione II, 'Della vendita di cose mobili', ma viene estesa da certa giurisprudenza e dottrina anche ai beni immobili
[6]- potrà essere eventualmente attivata dall'Ente secondo criteri di trasparenza e pubblicità, nell'ambito di un procedimento che garantisca un confronto concorrenziale tra quanti possano essere interessati all'acquisto del bene [7], anche tenuto conto delle modalità di vendita interamente rese note nel bando, nella specie della possibilità del pagamento rateale del prezzo, secondo il meccanismo dell'art. 1523 c.c..
In ordine all'istituto della vendita con riserva di proprietà, si evidenzia che la stessa si configura quale vendita garantita dalla proprietà del bene: il venditore concede un beneficio finanziario al compratore, in quanto gli permette di pagare con una dilazione rateizzata; nel contempo la riserva di proprietà assolve una funzione di garanzia reale a favore del venditore, il quale, se non viene pagato, può recuperare il bene, del quale ha conservato la proprietà
[8].
Gli artt. 1525 e 1526 c.c. disciplinano l'inadempimento da parte del compratore e la risoluzione del contratto; il mancato pagamento di una sola rata dà luogo alla risoluzione del contratto soltanto se questa rata supera l'ottava parte del prezzo e l'eventuale patto contrario non ha effetto (art. 1525 c.c.); inoltre, se il contratto è risolto per inadempimento del compratore, questi ha diritto alla restituzione delle rate pagate, salvo il diritto del venditore ad un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno. Qualora le parti abbiano pattuito che le rate pagate prima della intervenuta risoluzione del contratto rimangano acquisite al venditore a titolo di indennità (per l'uso e il deprezzamento della cosa), il giudice ha comunque il potere di ridurre l'indennità stessa
[9].
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[1] Si riporta il contenuto dell'art. 1523 c.c.: 'Nella vendita a rate con riserva della proprietà, il compratore acquista la proprietà della cosa col pagamento dell'ultima rata di prezzo, ma assume i rischi dal momento della consegna'.
[2] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4. La magistratura contabile richiama, in questo senso, la giurisprudenza uniforme di legittimità (tra le altre, Cass. civ. sez. III, 22.06.2004, n. 11608) e amministrativa (tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. V, 06.12.2007, n. 6265).
[3] Tar Catania, sez. III, 27.02.2009, n. 419; Tar Milano, sez. IV, 13.03.2013, n. 677. Il Giudice amministrativo osserva come, ai sensi della L. n. 783/1908, in via del tutto eccezionale, qualora gli incanti siano andati deserti e l'Amministrazione lo ritenga conveniente, gli immobili possano essere venduti a trattativa privata, alle condizioni ivi previste.
[4] Cfr. Tar Milano n. 677/2013 e Tar Catania n. 419/2009 citt..
[5] Cfr. Tar Catania n. 419/2009 cit., che ha annullato una delibera comunale che aveva autorizzato la vendita diretta di un'area senza gara ufficiosa, senza garantire una adeguata pubblicità e trasparenza della procedura, in contrasto con l'art. 12, L. n. 127/1997. Conforme, Tar Milano n. 677/2013 cit., che ha annullato una delibera comunale che aveva disposto la vendita a trattativa privata di un immobile, mancando del tutto, da parte della p.a., la predisposizione di adeguate forme di pubblicità e non motivando, la delibera, in ordine alla sussistenza degli eccezionali presupposti per ricorrere alla trattativa privata diretta (in quel caso, peraltro, ritenuti non sussistenti).
[6] In giurisprudenza, cfr.: Cass. civ. 03.04.1980, n. 2167, richiamata da Tribunale di Bari 02.05.2012, n. 1536; conforme: Tribunale di Vicenza, sez. II, 10.02.2011, n. 168.
In dottrina, cfr.: Paolo Cendon, Commentario al codice civile, Volume 37, Giuffrè, 2008, p. 47.
Anche nella prassi, si registrano bandi di gara di amministrazioni comunali per l'alienazione di beni immobili mediante pubblico incanto, che prevedono la possibilità della vendita con riserva di proprietà, ai sensi dell'art. 1523 c.c..
[7] Un tanto, anche qualora, ai sensi della normativa vigente, venga in considerazione un diritto di prelazione in favore del conduttore.
[8] Andrea Torrente e Piero Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 705 e 706.
[9] Si osserva che l'eventualità dell'inadempimento del compratore potrebbe esporre l'Ente ai costi, in termini di tempo e di spesa, per il recupero in sede giudiziale dell'immobile e per il soddisfacimento dei diritti risarcitori o di indennizzo spettanti
(09.10.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Disposizione testamentaria in favore del Comune. Adempimento dell'onere apposto al legato.
Nel caso d'inadempimento dell'onere testamentario, l'autorità giudiziaria può pronunciare la risoluzione della disposizione testamentaria, se la risoluzione è stata prevista dal testatore, o se l'adempimento dell'onere ha costituito il solo motivo determinante della disposizione.
Il mancato adempimento deve, inoltre, essere imputabile al legatario inadempiente per dolo o colpa grave, in relazione alla diligenza minima cui è tenuto l'onerato stesso.

Il Comune, avendo ricevuto un immobile a titolo di legato testamentario, gravato da un onere, chiede un parere circa le modalità di adempimento dello stesso.
Più in particolare, riferisce che, con disposizione testamentaria, pubblicata nell'anno 1948, è stato disposto in suo favore il legato di un immobile gravato dal seguente modus: 'Al Comune di XX lascio il mio stabile sito in XX a condizione che con le rendite analoghe, ricavate detto Comune istituisca una borsa di studio, perpetua, per uno studente disagiato, meritevole, iscritto al primo anno della facoltà di legge presso una Università; frequenti diligentemente i corsi universitari, sino ad ottenere la laurea, entro i termini prefissi dalle analoghe disposizioni universitarie e risieda in Comune XX'.
L'Amministrazione, pur avendo bandito con regolarità i bandi per l'assegnazione di borse di studio rispettose delle condizioni indicate dal testatore, è riuscita ad assegnare nel tempo pochissime di esse tanto che, allo stato attuale, nel bilancio dell'Ente esiste una cospicua somma risultante dall'accumulo delle rendite non assegnate nel corso degli anni pregressi.
Ciò premesso, l'Ente desidera sapere se possa destinare le rendite accumulate per 'riconoscere annualmente dei premi scolastici a studenti meritevoli che frequentino università e scuole di ogni ordine e grado, residenti sul territorio comunale, da erogare con priorità agli studenti di famiglie disagiate' nonché per sostenere 'progetti che siano riconducibili a servizi scolastici in senso lato (a titolo esemplificativo e non esaustivo: ampliamento dei servizi scolastici a domanda individuale, riduzione e/o abbattimento delle tariffe per le famiglie meno abbienti, etc.)'. In particolare, desidera sapere quali conseguenze potrebbero scaturire da una tale decisione.
In via generale, si ricorda che non è compito degli Uffici regionali esprimersi circa la legittimità o meno degli atti comunali, attesa l'avvenuta abrogazione del regime del controllo sugli atti degli enti locali a far data dalla riforma del titolo V della Costituzione operata dalla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni giuridiche generali relative agli istituti giuridici afferenti la situazione sopra descritta.
Il legato è una disposizione testamentaria a titolo particolare in base alla quale un soggetto (legatario) succede in uno o più rapporti determinati. Ai sensi dell'articolo 647 c.c. 'Tanto all'istituzione di erede quanto al legato può essere apposto un onere'. Il modus (modo), o onere, viene definito come un peso che il gratificato di una liberalità subisce per volontà dello stesso soggetto che fece l'attribuzione.
[1]
Con specifico riferimento all'adempimento/inadempimento dell'onere soccorre il disposto di cui all'articolo 648 c.c. il quale, al primo comma, recita: 'Per l'adempimento dell'onere può agire qualsiasi interessato.'. Il secondo comma dispone, poi, che: 'Nel caso d'inadempimento dell'onere, l'autorità giudiziaria può pronunziare la risoluzione della disposizione testamentaria, se la risoluzione è stata prevista dal testatore, o se l'adempimento dell'onere ha costituito il solo motivo determinante della disposizione'.
In via preliminare, si rileva che solo l'autorità giudiziaria, eventualmente investita della questione con un'apposita azione di adempimento o di risoluzione, può stabilire se la destinazione da parte del Comune delle rendite già maturate per finalità assimilabili (e non coincidenti) a quelle oggetto dell'onere testamentario costituisca o meno attuazione della volontà testamentaria.
[2]
A ciò si aggiunga la considerazione che, come risulta dall'analisi del secondo comma dell'articolo 648 c.c., la risoluzione della disposizione testamentaria può essere pronunciata dal giudice se la risoluzione è stata prevista dal testatore (ipotesi non relativa al caso in esame), o se l'adempimento dell'onere ha costituito il solo motivo determinante della disposizione. Circa tale ultima fattispecie la giurisprudenza, benché datata, ha rilevato che: 'Tale risoluzione richiede un congruo apprezzamento delle circostanze in cui l'inadempimento si verifica in relazione alla volontà del testatore, a differenza di quanto avviene per la condizione, il cui verificarsi fa perdere efficacia alla disposizione'
[3].
Ancora, è stato affermato che: 'Alla risoluzione della disposizione testamentaria domandata dall'erede nei confronti del legatario (o del coerede) inadempiente all'eventuale modus apposto dal testatore (espressamente qualificata in termini di risoluzione per inadempimento dall'art. 648 c.c.), devono ritenersi applicabili le norme che disciplinano il rimedio previsto, in via generale, dagli art. 1453 ss. c.c. per la mancata esecuzione di obbligazioni, con particolare riferimento sia all'importanza, sia all'imputabilità del fatto oggettivo del mancato adempimento, imputabilità che, trattandosi di prestazione a titolo gratuito, deve configurarsi necessariamente secondo le forme del dolo o della colpa grave, in relazione alla diligenza minima cui è tenuto l'onerato.'.
Da ultimo si consideri, altresì, quanto affermato dalla Cassazione civile nella sentenza del 26.07.2005, n. 15599 la quale recita: «In tema di legato modale l'adempimento dell'onere non si configura come condizione sospensiva dell'efficacia della disposizione testamentaria del "de cuius" in favore dell'onerato e la relativa azione di adempimento, come quella di risoluzione del legato, presuppone, come per ogni altra azione, la prova di un concreto interesse all'adempimento o, nell'ipotesi di inadempimento, alla risoluzione della stessa disposizione testamentaria. In ogni caso, l'inadempimento non determina, di per sé, la perdita del legato se non sia richiesta e pronunciata la risoluzione, in presenza degli altri requisiti previsti dall'art. 648 cod. civ.».
Le considerazioni che precedono devono, altresì, tenere in debita considerazione il fatto che l'azione di risoluzione/adempimento della disposizione modale è soggetta all'ordinario termine prescrizionale decennale, decorrente dal momento in cui il diritto poteva essere esercitato.
[4]
Segue che, in applicazione dei principi sopra espressi, l'eventuale utilizzo, da parte del Comune, delle rendite pregresse, maturate nell'ultimo decennio, per finalità solo assimilabili a quelle oggetto dell'onere testamentario potrebbe, in linea teorica, legittimare la richiesta, da parte dei soggetti a ciò legittimati,
[5] di risoluzione della disposizione testamentaria in riferimento.
Tuttavia, nel ribadire che solo un giudice concretamente investito della questione potrebbe valutare la sussistenza o meno di tutti i requisiti richiesti dalla normativa in essere per un'eventuale pronuncia di risoluzione, ad avviso di chi scrive non sembrerebbero ricorrere, con riferimento alla fattispecie descritta, i presupposti legittimanti la dichiarazione di risoluzione della disposizione testamentaria. In particolare, ciò che pare mancare è l'imputabilità dell'inadempimento al Comune per dolo o colpa grave, avendo questi bandito con regolarità le borse di studio nel rispetto della volontà testamentaria.
[6]
Quanto, invece, alle rendite relative al periodo antecedente all'ultimo decennio, essendosi ormai prescritta l'azione di risoluzione, le stesse possono considerarsi ormai acquisite al patrimonio comunale senza vincolo di destinazione.
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[1] Così, D. Prosciutto, 'Modus contrattuale', in AltalexPedia, 2016.
[2] Così, a titolo di esempio, si riporta una sentenza della Corte d'Appello di Napoli (dell'08.04.2005) la quale ha stabilito che: 'L'onere apposto ad un legato testamentario a favore di una istituzione di assistenza e beneficenza, e consistente nella destinazione di un immobile a nosocomio a beneficio dei poveri preferibilmente residenti in un dato Comune è adempiuto anche se l'immobile in oggetto, venga destinato essenzialmente a gerontocomio, fornendo però comunque una pur minimale assistenza medica a persone anziane, afflitte da malattie croniche'.
[3] Cassazione civile, Sez. Unite, sentenza dell'08.03.1958, n. 795.
[4] In questo senso si è espresso il Tribunale di Bari, sez. II, con la sentenza del 01.06.2016 ove si afferma che: 'Il legato modale è un onere testamentario relativamente al quale l'inadempimento dell'onere, ove pur avente rilevanza risolutoria, per volontà del testatore, non determina la risoluzione ope legis della disposizione testamentaria modale, ma costituisce il presupposto per la pronunzia risolutoria del Giudice che ha natura di sentenza costitutiva con efficacia ex nunc. Ne consegue che l'azione volta alla risoluzione della disposizione modale è soggetta all'ordinario termine prescrizionale decennale, decorrente dal momento in cui il diritto poteva essere esercitato.'.
[5] A tale riguardo la giurisprudenza ha affermato che: «In tema di legato modale, l'inadempimento del "modus" ad opera del legatario legittima il beneficiario, al pari dei prossimi congiunti, ancorché eredi, a proporre, oltre all'azione di adempimento, quella di risoluzione, ex art. 648, comma 2, c.c., avendo egli interesse, ove sia anche erede, a conseguire il vantaggio patrimoniale derivante dalla restituzione della "res" e, in ogni caso, a soddisfare le esigenze morali perseguite dal "de cuius", rimaste irrealizzate a causa dell'inadempimento dell'onerato.» (Cassazione civile, sez. II, sentenza del 07.03.2016, n. 4444).
[6] Per completezza espositiva, si osserva che nel caso, astrattamente ipotizzabile, in cui fosse esperita vittoriosamente un'azione di risoluzione della disposizione testamentaria il Comune perderebbe la proprietà dell'immobile ricevuto con conseguente danno erariale connesso ad una tale perdita
(05.10.2017 - link a
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settembre 2017

PATRIMONIO: Competenza manutenzione strada vicinale ricadente nel territorio di un consorzio di bonifica.
In merito alla manutenzione delle strade vicinali di uso pubblico, si osserva che l'art. 14 della l. 126/1958 prevede la costituzione di un consorzio tra tutti coloro che, in base ad un concreto accertamento di fatto, traggono maggiore giovamento dall'utilizzo della strada. I partecipanti a tale consorzio sono chiamati a concorrere alle spese di manutenzione della strada insieme al Comune territorialmente competente.
Il Comune, che 'condivide' alcuni tratti stradali con un consorzio di bonifica in virtù della presenza di numerosi canali irrigui sul proprio territorio, chiede un parere in merito a quale sia, tra i due, l'ente competente alla manutenzione di una di tali vie di comunicazione, che corre vicino ad uno di questi canali, il cui cattivo stato di conservazione potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini che la percorrono.
Sentita la titolare di P.O. per il coordinamento degli interventi di viabilità regionale e sicurezza stradale della Direzione centrale infrastrutture e territorio ed il titolare di P.O. per la programmazione ed attuazione delle attività connesse alla realizzazione delle opere pubbliche di bonifica ed irrigazione mediante l'istituto della delegazione amministrativa intersoggettiva ai consorzi di bonifica della Direzione centrale risorse agricole, forestali e ittiche, si formulano le seguenti considerazioni.
La manutenzione di una strada compete, in via generale, al soggetto giuridico che ne è proprietario. L'art. 14, comma 1, del Codice della strada prevede, infatti, che: 'Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze; c) alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta'. Il Codice della strada, all'art. 2, comma 5, distingue, per tali finalità, le strade di proprietà pubblica in statali, regionali, provinciali e comunali.
Diversa è la disciplina per le strade private. Sono private le vie cosiddette agrarie o vicinali private costituite da passaggi in comunione incidentale tra i proprietari dei fondi latistanti serviti da quei medesimi passaggi
[1].
Tali strade assumono carattere pubblico qualora adducano a luoghi pubblici di interesse generale e vengano utilizzate abitualmente dalla generalità dei cittadini
[2]. In tal caso, tali vie vengono assimilate alle strade comunali, così come previsto dall'art. 2, comma 7, del Codice della strada [3]. Il Comune è tenuto a concorrere alla spese di manutenzione delle stesse, potendo promuovere d'ufficio la costituzione di un consorzio obbligatorio fra i proprietari ed esercitando su tali strade i poteri di tutela ex Codice della strada, come previsto dall' art. 14 della legge 12.02.1958, n. 126 [4].
Venendo ora alla normativa in materia di consorzi di bonifica, si osserva che la legge regionale di riferimento è la n. 28 del 29.10.2002 (Norme in materia di bonifica e di ordinamento dei Consorzi di bonifica [...]). L'art. 2 della medesima legge definisce tali consorzi quali 'enti pubblici economici non commerciali' che 'svolgono la loro attività entro i limiti consentiti dalla legge e dai rispettivi statuti'. Il successivo art. 4, comma 1, lett. h), prevede che a tali consorzi 'possono essere delegati la progettazione, esecuzione, esercizio, vigilanza e manutenzione' 'di strade interpoderali e vicinali'.
Per quanto riguarda la disciplina specifica che si è dato il Consorzio de quo, si osserva che il suo statuto sostanzialmente ripropone, all'art. 2, quanto previsto dalla citata legge regionale relativamente alle finalità ed alle funzioni, stabilendo, tra l'altro, che l'ente, nell'ambito delle proprie attribuzioni e del proprio comprensorio, provvede alla 'sistemazione e manutenzione delle strade interpoderali e vicinali'.
Il regolamento del Consorzio è, invece, più preciso per quanto riguarda la manutenzione delle opere di bonifica e delle loro pertinenze. Di particolare interesse è l'art. 8 che testualmente recita: 'Gli argini dei canali consorziati di bonifica servono, di massima, solo per il contenimento delle acque e sono perciò mantenuti dal Consorzio. Per quelli che hanno acquistato od acquistino il carattere di strada pubblica o privata, il mantenimento spetta agli Enti ed ai proprietari interessati'.
Occorre viceversa rilevare che il quesito del Comune contiene una terminologia atecnica che non agevola l'interprete: infatti non è chiaro il significato della 'condivisione' di tratti stradali fra Comune e Consorzio e manca qualsiasi riferimento alle tipologie stradali contemplate dal Codice della strada.
Dalla normativa applicabile, sopra brevemente esposta, e dalle considerazioni riportate in merito alle caratteristiche della strada di interesse del Comune, si ritiene che andrebbe in primo luogo verificata, in concreto, la sussistenza delle condizioni necessarie alla riconduzione della stessa alle 'strade vicinali pubbliche' al cui verificarsi, come è stato detto, il comune è tenuto a concorrere nelle spese di manutenzione, insieme agli utenti di dette vie, all'interno di un consorzio appositamente costituito
[5].
Per quanto riguarda la misura della contribuzione, si riporta quanto espresso nella deliberazione n. 240/2008 della Sezione regionale del Veneto della Corte dei conti: 'per le strade vicinali di uso pubblico, il comune è tenuto (art. 3 del D.L.Lgt. 01/09/1918 n. 1446) a concorrere alle spese di manutenzione, sistemazione e ricostruzione in misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, a seconda della loro importanza [...] Tali limiti di compartecipazione sono inderogabili, in quanto il legislatore con tale disciplina, tenendo conto dello speciale regime giuridico di tali strade, ha già contemperato a monte gli interessi pubblici e privati in gioco, demandando ai comuni solo la possibilità di scegliere in concreto l'ammontare della contribuzione all'interno dei limiti minimi e massimi consentiti'.
Il Consorzio di bonifica, nonostante quanto previsto dal proprio regolamento interno, potrebbe pure, in tale contesto, essere chiamato a concorrere, pro quota, alla partecipazione delle spese nella misura in cui sia un utilizzatore di tale strada. Come precisato, infatti, dal TAR del Friuli Venezia Giulia
[6], tra i c.d. utenti chiamati a consorziarsi ed a partecipare alle spese di manutenzione della strada vicinale pubblica, sono da annoverare tutti coloro che, in base a un concreto accertamento di fatto, presuntivamente ritraggono dall'utilizzo della strada un effettivo e concreto giovamento in misura e con modalità nettamente differenziate rispetto a tutti gli altri che pure ne fanno uso
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[1] Cfr. Tribunale Chieti, sentenza 15.10.2009, n. 748: "La via agraria, cioè la strada privata che i proprietari dei fondi latistanti aprono e mantengono per transitarvi secondo le esigenze della coltivazione, viene formata mediante conferimento di suolo (cd. "collatio agrorum privatorum") o di altro apporto dei vari proprietari, in modo da fondare una comunione ("communio incidens"), per la quale il godimento della strada non è "iure servitutis" ma "iure proprietatis" e, pur avendo di regola, fondi fronteggianti, può essere utilizzata, in relazione alla necessità del tracciato, da più fondi in consecuzione, fermo restando il principio che essa possa servire a tutti i proprietari dei fondi in tutte le direzioni, onde ciascuno ne abbia per tutta la sua lunghezza la proprietà "pro indiviso".
[2] Più precisamente, la Giurisprudenza (Cassazione civile, sez. VI sentenza 22.03.2017, n. 7242, Cassazione civile, sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 354; TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 09.01.2008, n. 48; TAR Marche, Ancona, sez. I, sentenza del 10.10.2007, n. 1595) ha precisato che la natura pubblica della strada dipende dalla coesistenza effettiva delle tre condizioni di seguito indicate: 1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale; 2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via; 3. un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
[3] Art. 2, comma 7, del Codice della strada: 'Le strade urbane di cui al comma 2, lettere D e F, sono sempre comunali quando siano situate nell'interno dei centri abitati, eccettuati i tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti. Sono comunali anche le strade che congiungono il capoluogo del comune con le sue frazioni o le frazioni tra loro, ovvero che congiungono il capoluogo con la stazione ferroviaria, tramviaria o automobilistica, con un aeroporto o porto marittimo, lacuale o fluviale, interporti o nodi di scambio intermodale o con le località che sono sede di essenziali servizi interessanti la collettività comunale. Ai fini del presente codice le "strade vicinali" sono assimilate alle strade comunali'.
[4] Art. 14 (Consorzi per le strade vicinali di uso pubblico) della l. 126/1958: 'La costituzione dei consorzi previsti dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446, per la manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali di uso pubblico, anche se rientranti nei comprensori di bonifica, è obbligatoria. In assenza di iniziativa da parte degli utenti o del Comune, alla costituzione del consorzio provvede di ufficio il prefetto'.
[5] V. TAR Lombardia Milano Sez. III, sentenza 11.03.2016, n. 507: 'La destinazione delle strade vicinali "ad uso pubblico", imposta dal codice della strada di cui al D.Lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste debbano necessariamente essere interessate da un transito generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti), l'ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell'art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di gestione ai sensi dell'art. 3 D.Lgs.Lgt. n. 1446/1918, "Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse"), onde garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si realizza'.
[6] TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 24.07.1989, n. 277
(27.09.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: La conoscenza da parte dell’utente dello stato di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso (nella specie, relativa ad un sinistro provocato da una buca, l’utente era a conoscenza della presenza del pericolo e avrebbe potuto evitarlo)
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 26.09.2017 n. 22419 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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ORDINANZA
Il ricorso -con il quale si censura, in sostanza, la violazione dell'art. 2051 cod. civ. e l'omesso esame di un fatto decisivo- è inammissibile.
La decisione è conforme all' orientamento di questa corte secondo cui l'ente proprietario d'una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l'utente danneggiato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e l'evento dannoso (Sez. 3, Sentenza n. 23919 del 22/10/2013, Rv. 629108; nella specie, la Corte ha ritenuto non operante la presunzione di responsabilità a carico dell'ente ex art. 2051 cod. civ., in un caso di sinistro stradale causato da una buca presente sul manto stradale, atteso che il conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle buche, per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle).
Nella specie i giudici di merito hanno accertato che la Re. conosceva l'esistenza della buca e, in generale, lo stato di cattiva manutenzione della strada in cui si è verificato il sinistro. Pertanto, l'ordinaria diligenza avrebbe dovuto sconsigliare alla ricorrente di uscire di notte, in condizioni di scarsa visibilità, per far passeggiare il cane proprio in quel punto. Tale condotta è idonea a interrompere il nesso eziologico fra la condotta attribuibile al Comune di Scandicci e il danno patito dalla Renna. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell'art. 385, comma primo, cod. proc. civ., nella misura indicata nel dispositivo.

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Contributi a favore degli enti locali per l’incremento delle dotazioni di piccola entità per la protezione civile (d.g.r. 7051/2017) – Procedura per l’accesso al contributo e modulistica" (decreto D.U.O. 15.09.2017 n. 11138).

PATRIMONIO: La possibilità di prevedere la situazione di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Parma, Sez. I, sentenza 04.09.2017 n. 1217 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

luglio 2017

PATRIMONIO: Acquisto terreni.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo modificato dall'art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017, stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all'acquisto di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a comprovarne l'indispensabilità e l'indilazionabilità, nell'ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
La giurisprudenza contabile tende ad escludere dall'applicazione del comma 1-ter le procedure espropriative, caratterizzate dal fatto che è riconosciuto al proprietario non un prezzo di acquisto ma un indennizzo, e al cui interno trovano comunque adeguata considerazione le prerogative del comma 1-ter.
L'art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall'art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in tutto o in parte con legge regionale.

Il Comune riferisce di aver concluso nel 2015 la realizzazione di una pista forestale, per cui ha avuto un finanziamento in parte regionale e in parte comunale (mutuo) e avendo ottenuto preventivamente dai proprietari dei terreni interessati la disponibilità alla cessione dei medesimi, per il corrispettivo pattuito, mediante accordo bonario del 2008, ratificato dal Consiglio comunale nel 2014.
L'Ente chiede, dunque, al fine di regolarizzare la pratica, se può procedere all'acquisto dei terreni già previsto nell'accordo bonario del 2008, tenuto conto dei vigenti limiti previsti dall'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, e della giurisprudenza in proposito o, in caso contrario, se possa sanare l'intervento acquisendo l'area secondo le norme di interesse contenute nel Testo unico sulle espropriazioni
[1].
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale si esprime quanto segue.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato dall'art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. Le disposizioni di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a valere su risorse stanziate con apposita delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica o cofinanziate dall'Unione europea ovvero dallo Stato o dalle regioni e finalizzate all'acquisto degli immobili stessi. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio previo rimborso delle spese.
Sul piano dell'ordinamento regionale, l'art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall'art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'articolo 1, comma 138, della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
Avuto riguardo a quest'ultima previsione regionale, l'Ente potrà innanzitutto verificare se nei decreti di assegnazione dei fondi regionali di finanziamento vi sia la specifica previsione delle somme a disposizione per l'acquisizione dei terreni interessati dalla pista forestale. In tal caso, infatti, le operazioni di acquisto saranno possibili ai sensi di detta norma regionale.
Se così non fosse, in relazione alle ipotesi prospettate dall'Ente di acquistare i terreni secondo l'accordo bonario con i rispettivi proprietari ratificato con atto consiliare nel 2014, oppure di sanare l'intervento acquisendo l'area secondo la disciplina di interesse contenuta nel Testo unico sulle espropriazione, si esprimono le seguenti considerazioni, con la precisazione che l'aspetto dell'acquisizione sanante ai sensi del D.P.R. n. 327/2001 verrà trattato in generale sotto il profilo della riconducibilità dell'espropriazione per pubblica utilità nell'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente, avuto riguardo alla giurisprudenza formatasi sul punto. Ulteriori considerazioni puntuali sul punto potranno essere espresse, per quanto di competenza, dal Servizio lavori pubblici, infrastrutture di trasporto e comunicazione, che legge per conoscenza, qualora lo riterrà opportuno.
Le acquisizioni di immobili da parte delle pp.aa. a mezzo procedura espropriativa o in quanto programmate da delibere dei competenti organi comunali sono state poste dal legislatore come fattispecie derogatorie alla previgente norma di divieto di acquisto di immobili, di cui al comma 1-quater dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011, valida per l'anno 2013.
Con l'art. 10-bis del D.L. 08.04.2013, n. 35, inserito dalla legge di conversione 06.06.2013, n. 64, il legislatore ha, infatti, dettato una norma di interpretazione autentica dell'art. 12, c. 1-quater, D.L. n. 98/2011, escludendo dal divieto di acquisto ivi previsto, tra l'altro, le 'procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché [...] alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni [...]'.
Visto che l'atto consiliare dell'Ente di ratifica dell'accordo bonario risulta avvenuto nel 2014 e dunque successivamente alla data del 31.12.2012 prevista dalla norma di interpretazione autentica, la possibilità di estendere le fattispecie di salvezza ivi previste anche alla disposizione dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, è circoscritta alla sola ipotesi derogatoria della procedura espropriativa.
In proposito, si sono espresse alcune Sezioni regionali della Corte dei conti nel senso di escludere dette procedure espropriative dall'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente.
La Corte dei conti Lombardia, sulla scia delle Sezioni regionali per il Veneto e per la Puglia, ha espresso l'avviso per cui la formulazione del comma 1-ter disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi i soli acquisti iure privatorum, ove le pp.aa. agiscono al pari dei soggetti privati, mentre non si applica alle procedure espropriative per pubblica utilità, ove è riconosciuto al proprietario non un prezzo di acquisto ma un indennizzo, che non può rappresentare un corrispettivo.
Questo, peraltro, non significa -afferma la Sezione lombarda- che all'interno del procedimento espropriativo non trovino adeguata considerazione le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare l'indispensabilità e la non dilazionabilità dell'operazione, nell'ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno. Ed infatti, attraverso la dichiarazione di pubblica utilità, l'autorità espropriante è tenuta a ponderare e confrontare gli interessi coinvolti e le prerogative di cui sono portatori i soggetti del procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai principi di economicità ed efficienza, oltre che di pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2)
[2].
Peraltro, per completezza espositiva, va segnalato anche l'orientamento della Corte dei conti Piemonte, la quale, successivamente alla norma di interpretazione autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, osserva che per quanto riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere state identificate eccezioni, alle condizioni ivi indicate, in sede d'interpretazione autentica
[3].
---------------
[1] D.P.R. 08.06.2001 n. 327, recante: 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (Testo A)'.
[2] Corte dei conti Lombardia 05.03.2014, n. 97, che richiama Corte dei conti Veneto 12.06.2013, n. 148 e Corte dei conti Puglia, deliberazione 03.05.2013, n. 89. Per la Sezione pugliese, l'estensione delle limitazioni all'acquisto di beni immobili di cui al comma 1-ter anche alle procedure espropriative si tradurrebbe nel divieto di avviare o proseguire procedimenti di espropriazione per pubblica utilità in assenza di un'espressa disposizione legislativa ed in contrasto con l'art. 42, comma 3, della Costituzione recante, invece, il fondamento della potestà espropriativa della pubblica amministrazione. (Secondo il dettato dell'art. 42, c. 3, Cost., la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale).
La tesi dell'esclusione delle procedure espropriative dalla soggezione alla disciplina del comma 1-ter è confermata da Corte dei conti Lombardia, 24.09.2015, n. 310.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402. Ed invero, nel caso sottoposto al suo esame, la Corte dei conti ritiene escluso dall'applicazione del comma 1-ter il procedimento ablativo, per la circostanza specifica di essere questo già in corso e già nello stadio successivo all'approvazione del progetto definitivo e alla dichiarazione di pubblica utilità, in una fase cioè in cui risulta in re ipsa integrato il requisito di indispensabilità e indilazionabilità richiesto dal comma 1-ter citato. D'altro canto, la ratio della deroga, espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative, risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive condizioni di cui al comma 1-ter
(17.07.2017 -
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PATRIMONIO - SICUREZZA LAVORO: Sicurezza scuole: responsabile il sindaco o il dirigente?
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
in tema di tutela della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro negli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi il dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di spesa. E la condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente la qualità di datore di lavoro è che questo sia dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa.
Più in particolare, si è affermato che
il dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali e di spesa.
Ne consegue che,
qualora l'organo politico dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in concreto detta competenza.
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RITENUTO IN FATTO
1. - Con sentenza del 17.02.2015, il Tribunale di Vibo Valentia ha condannato l'imputato alla pena dell'ammenda, per il reato di cui agli artt. 46, comma 2, 55, comma 5, lettera c), 64, comma 1, lettera c), 68, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 81 del 2008, per avere, nella sua qualità di Sindaco di un Comune, quale datore di lavoro, omesso di attuare le misure necessarie al fine di verificare che i luoghi di lavoro (scuola materna comunale) venissero sottoposti alla regolare manutenzione tecnica ed eliminare quanto più rapidamente possibile i difetti rilevati, tali da pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo, con unico motivo di doglianza, la mancanza di motivazione in relazione all'avvenuta individuazione, da parte del Comune, del responsabile del servizio scuole, nella persona del dirigente comunale Pi.Ra..
Tale soggetto sarebbe -ad avviso della difesa- l'unico responsabile delle omissioni oggetto di contestazione, in ossequio al principio generale della distinzione dei ruoli e delle competenze degli organi politici e gli organi amministrativi e di gestione, ai sensi dell'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. - Il ricorso è infondato.
Il ricorrente non contesta il fatto nella sua materialità, limitandosi ad affermare che la responsabilità penale avrebbe dovuto essere ritenuta sussistente in capo al solo soggetto dirigente del Servizio scuole comunale, Pi.Ra., per il principio della distinzione tra ruolo politico e ruolo amministrativo nell'ambito dell'ente locale.
3.1. - Non vi è dubbio che tale principio sia espressamente affermato dall'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, perché tale disposizione attribuisce «ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti» e stabilisce che questi «si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo» (comma 1).
Ai sensi del successivo comma 2, spettano «ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108».
E a ciò deve aggiungersi, con specifico riferimento al settore della sicurezza sul lavoro, che l'art. 2, comma 1, lettera b), secondo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008, prevede che «nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione del rapporto di lavoro» dovendosi considerare quali "poteri di gestione" quelli conferiti con deliberazione dell'amministrazione di appartenenza.
Da tale complesso normativo, deriva, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che,
in tema di tutela della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro negli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi il dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di spesa (Sez. 3, n. 47249 del 30/11/2005, Rv. 233017). E la condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente la qualità di datore di lavoro è che questo sia dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa (Sez. 3, n. 2862 del 17/10/2013, dep. 22/01/2014, Rv. 258374; Sez. 4, n. 34804 del 02/07/2010, Rv. 248349).
Più in particolare, si è affermato che
il dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali e di spesa (Sez. 3, n. 6370 del 07/11/2013, dep. 11/02/2014, Rv. 258898).
Ne consegue che,
qualora l'organo politico dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in concreto detta competenza.
3.2. - Non vi è dubbio che tali principi si attaglino, in astratto, anche alla fattispecie qui in esame.
Nondimeno, deve rilevarsi che la difesa non ha fornito in concreto alcuna prova né dell'effettivo conferimento della qualifica dirigenziale del servizio scuole comunale a Pi.Ra., né di quali siano l'oggetto e i limiti di tale eventuale conferimento, né della disponibilità da parte del dirigente di autonomi poteri ai fini della realizzazione della regolare manutenzione tecnica e della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori scolastici.
Ci si limita infatti ad asserire che il Tribunale non avrebbe preso in considerazione tali circostanze, senza richiamare gli atti dai quali le stesse sarebbero emerse. Anzi, dalla lettura della sentenza impugnata, risulta che la difesa ha espressamente rinunciato proprio all'audizione di Pi.Ra., soggetto dalla stessa indicato quale dirigente responsabile della sicurezza sul lavoro nel settore scolastico e, di conseguenza, della contestata omissione.
La lamentata mancanza di motivazione della sentenza impugnata risulta, dunque, insussistente (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 05.07.2017 n. 32358).

giugno 2017

PATRIMONIO: Validità contratto di affitto di fondo rustico.
Perché un contratto di cui è parte una p.a. possa dirsi validamente concluso, occorre la manifestazione di volontà dell'organo cui la legge attribuisce la legale rappresentanza dell'ente pubblico, previe le eventuali delibere di altri organi, nonché la forma scritta ad substantiam.
In tal senso si esprime la giurisprudenza, muovendo dalla disciplina generale della forma dei contratti pubblici contenuta nel R.D. n. 2440/1923 (artt. 16, 17 e 18), che impone la forma scritta anche quando la p.a. agisce iure privatorum.
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi rustici, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982, art. 41, che ha deformalizzato i contratti di affitto a coltivatore diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a forma libera, non può ritenersi concluso un contratto di affitto agrario con la p.a. in forza di un comportamento concludente, anche protrattosi per anni.

Il Comune riferisce di aver affittato, nell'anno 1993 e per la durata di venti anni, un fondo rustico, sito nel proprio territorio e oggetto di comproprietà con altro comune
[1], a privato cittadino, che ha da allora realizzato diverse costruzioni dietro rilascio dei necessari titoli abilitativi edilizi.
Posto che nel dicembre 2013 è intervenuta la scadenza del contratto in argomento, il Comune chiede come comportarsi di fronte alle domande di permesso di costruire avanzate dal privato affittuario, il quale sostiene che il contratto in questione è da considerarsi prorogato ex lege, in quanto si tratta di fondo rustico affittato ad imprenditore agricolo.
La disamina del quesito postula la definizione dell'attuale sussistenza o meno del contratto di affitto di fondo rustico, considerato che, ai sensi della L.R. n. 19/2009, è riconosciuto il diritto di eseguire opere edilizie, oltre che al proprietario, tra gli altri, all'affittuario di fondo rustico (art 21, comma 2, lett. b).
Per orientamento consolidato della giurisprudenza, espresso anche in tema di contratti di affitto di fondi rustici, i requisiti di validità dei contratti posti in essere dalla p.a., anche iure privatorum, attengono alla manifestazione della volontà e alla forma. In particolare, occorre la manifestazione di volontà da parte dell'organo al quale è attribuita la legale rappresentanza dell'ente, previe eventuali deliberazioni dei propri organi deliberativi che hanno valore di atti interni preparatori della successiva manifestazione esterna, e la forma che deve essere scritta, a pena di nullità, sicché nei confronti della stessa p.a. non è configurabile il rinnovo tacito del contratto
[2].
Pertanto, ove faccia difetto sia una manifestazione di volontà dell'ente pubblico, proveniente dall'organo al quale dalla legge è attribuita la legale rappresentanza dell'ente stesso, previe le eventuali delibere di altri organi, nonché la forma scritta ad substantiam, non si è in presenza di un contratto, mancando in radice l'accordo tra le parti, presupposto dell'art. 1321 c.c.
[3], con la conseguenza che il contratto deve considerarsi giuridicamente inesistente [4].
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi rustici, la Corte di cassazione ha affermato che non rileva che l'amministrazione richieda la restituzione del fondo molto tempo dopo la scadenza del contratto
[5], non essendo ipotizzabile una rinnovazione tacita del contratto, che verrebbe ad eludere il requisito della forma scritta fissato dall'art. 17 del R.D. 18.11.1923, n. 2440. La normativa speciale dettata in tema di contratti della p.a. prevale, infatti, sulla disciplina dei rapporti tra privati [6].
E così, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982, art. 41
[7], che ha deformalizzato i contratti di affitto a coltivatore diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a forma libera, non può ritenersi concluso un contratto di affitto agrario con la p.a. in forza di un comportamento concludente, anche protrattosi per anni [8]. E a nulla rileva la previsione dell'art. 6, D.Lgs. n. 228/2001, che estende le disposizioni della L. n. 203/1982 anche ai terreni degli enti pubblici che siano oggetto di affitto o di concessione amministrativa, poiché questa norma attiene, come risulta dalla stessa rubrica all''utilizzazione agricola dei terreni demaniali e patrimoniali indisponibili' e non al momento genetico del rapporto [9].
Alla luce dell'orientamento giurisprudenziale riportato, non sembrerebbe ad oggi potersi ritenere in corso di validità il contratto di affitto di fondo rustico stipulato dal Comune istante nel 1993 (anche in nome e per conto del comune comproprietario), essendo scaduti i 20 anni di durata pattuiti nell'accordo e non essendo intervenuta una nuova manifestazione di volontà, nelle forme dovute, dei Comuni proprietari.
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[1] In base al regolamento disciplinante i rapporti tra i due comuni per la gestione del bene in comproprietà di cui si tratta, quello nel cui territorio è ubicato detto bene (Comune istante) è competente alla gestione, e in particolare può operare la gestione straordinaria solo su espressa delega dell'altro comune comproprietario. Il contratto di affitto in questione è stato stipulato dal Comune istante, in rappresentanza anche dell'altro comune comproprietario in virtù del suddetto regolamento, e previa delega di quest'ultimo. In particolare, la durata dell'affitto è stata pattuita 'di anni 20 a partire dalla data di stipulazione del contratto'.
[2] Cfr. specificamente per i contratti di affitto di fondi rustici, Cass. civ., sez. III, 16.01.2009, n. 976; Cass. civ., sez. III, 15.12.2000, n. 15862; Cass. civ., sez. III, 08.05.2014, n. 9975.
[3] Cass. civ., sez. III, 15.12.2000, n. 2611.
[4] Cass. civ. sez. I, 21.05.2002, n. 7422.
[5] Nel caso in esame, la scadenza della durata ventennale del contratto è avvenuta nel dicembre 2013.
[6] Cass. civ., n. 9975/2014.
In generale, è consolidato in giurisprudenza l'orientamento che fa risalire agli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923 l'obbligo della forma scritta ad substantiam per tutti i contratti stipulati dalla p.a., anche iure privatorum. Tra le tante, v. Cass. civ., sez. II, 18.05.2011, n. 10910 e Cass. civ., sez. II, 30.07.2004, n. 14570. Conforme anche Corte dei conti, sez. reg. contr. Regione Puglia, 22.01.2014, n. 16.
Anche l'ANAC (parere n. 43 del 27.01.2011) osserva che la disciplina generale della forma dei contratti pubblici è contenuta nel decreto sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440/1923), agli articoli 16 (forma pubblica amministrativa), 17 (contratti a trattativa privata) e 18 (contratti stipulati con ditte e società commerciali). Secondo tale disciplina, tutti i contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione, anche quando quest'ultima agisce iure privatorum, richiedono la forma scritta ad substantiam. V. anche Corte di Appello di Napoli, Ufficio del Referente per la Formazione decentrata, 12.12.2011, Il Contenzioso civile in tema di locazioni,
secondo cui, a norma dell'art. 1350 n. 13 c.c., la forma scritta è richiesta a pena di nullità 'per...gli altri atti specialmente indicati dalla legge'. Le leggi che disciplinano i contratti della p.a. prevedono per l'appunto tale requisito formale.
[7] L'art. 41 della legge 03.05.1982, n. 203, (Norme sui contratti agrari), prevede che 'i contratti agrari ultranovennali, compresi quelli in corso, anche se verbali o non trascritti, sono validi ed hanno effetto anche riguardo ai terzi'.
[8] Cass. civ., n. 9975/2014 e Cass. civ., n. 15862/2000 su contratto di affitto di fondo rustico. Conformi: Cass. civ., sez. vi, 23.06.2011, n. 13886 e Cass. civ., sez. III, 23.01.2006, n. 1223, su contratto di locazione. In particolare quest'ultima, nell'escludere radicalmente la rinnovazione tacita del contratto ex art. 1597 c.c. qualora ne sia parte una p.a., precisa l'inidoneità di circostanze quali la permanenza del conduttore nell'immobile, il pagamento e la riscossione dei canoni, a determinare la rinnovazione del contratto. Proprio perché la volontà della p.a. non può desumersi da fatti concludenti, ma deve essere espressa in forma scritta a pena di nullità.
[9] Cass. civ., n. 9975/2014
(17.06.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Attribuzioni patrimoniali immobiliari in favore di soggetti privati.
La gestione del patrimonio pubblico è improntata al principio di redditività, la cui deroga è subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto beneficiario, fermo restando l'obbligo di un'esaustiva motivazione della scelta dell'ente, in considerazione dell'interesse pubblico perseguito, che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene soddisfatto mediante lo sfruttamento economico dei beni, secondo i principi giurisprudenziali già consolidati.
Inoltre, la Corte dei conti, chiamata a pronunciarsi in tema di attribuzioni patrimoniali (attinenti al patrimonio immobiliare) a terzi privati senza scopo di lucro, al fine di svolgere attività di interesse per la comunità insediata sul territorio locale, secondo i principi della sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 118, Cost., ha affermato che l'ente locale che voglia procedere ad un tanto deve farlo nel rispetto dell'art. 12, L. n. 241/1990, avendo cura di predeterminare i casi, le condizioni e le modalità per la concessione di simili utilità ed il confronto concorrenziale tra gli aspiranti.

Il Comune pone un quesito in ordine alla riconducibilità di attività di interesse generale svolta da soggetto imprenditoriale alla finalità istituzionale della promozione dello sviluppo economico del territorio e dunque alla sussidiarietà orizzontale, ai sensi dell'art. 118 Cost..
In particolare, il Comune pone l'ipotesi dell'attribuzione gratuita ad un operatore commerciale, selezionato nel rispetto della normativa di settore, della disponibilità del sito ove svolgere un concerto, al fine di agevolare e mantenere detta manifestazione sul proprio territorio.
Si precisa che l'attività di questo Servizio consta nel fornire un supporto giuridico generale di ausilio agli enti per la soluzione dei casi concreti che si presentano. Si esprimeranno dunque in questa sede considerazioni sulla tematica delle gestione del patrimonio immobiliare comunale, cui si riconduce il quesito posto, sulla scorta delle quali, in via collaborativa, si formuleranno alcune osservazioni relative al caso di specie, che l'Ente potrà valutare nella sua autonomia.
L'atto di disposizione di un bene pubblico
[1] è improntato al principio della gestione economica dei beni pubblici, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie.
L'obbligo della gestione economica del bene pubblico rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, L. n. 241/1990)
[2].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così, la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i principi già consolidati, secondo cui le modalità di gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[3], che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni [4]- ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai soggetti possibili affidatari dei beni del patrimonio locale, come condizione necessaria tanto per mitigare quanto per escludere la redditività del patrimonio pubblico [5].
Un tanto esposto in generale e venendo al caso di specie, si osserva, in via collaborativa, che non si rinvengono in proposito motivi per discostarsi dal principio della redditività del patrimonio pubblico, ed in particolare dalla posizione più recente della giurisprudenza che subordina la deroga a detto principio all'assenza dello scopo di lucro in capo ai soggetti possibili beneficiari.
Ed invero, in relazione all'ipotesi prospettata dall'Ente di ricondurre l'attività di interesse generale del soggetto imprenditore, cui valuterebbe di attribuire gratuitamente il sito ove tenere un grande concerto, alle proprie finalità istituzionali, nella specie dello sviluppo economico, secondo i principi di sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 118 Cost., si ritengono utili le seguenti ulteriori considerazioni sempre alla luce degli apporti giurisprudenziali.
La Corte dei conti -chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di attribuire un diritto reale, a titolo gratuito o dietro corrispettivo simbolico, ad un'associazione senza fini di lucro operante sul territorio- ha affrontato in termini generali la facoltà di un ente di procedere ad attribuzioni patrimoniali attinenti al patrimonio immobiliare a terzi soggetti, presenti sul territorio comunale, al fine di consentire lo svolgimento di attività che presentino interesse per l'amministrazione locale o per la comunità insediata sul territorio locale. Ebbene, il magistrato contabile ha affermato che nel momento in cui l'ente locale ricorra a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, lo stesso deve rispettare l'art. 12, L. n. 241/1990, avendo cura di predeterminare i casi, le condizioni e le modalità per la concessione di simili utilità ed il confronto concorrenziale tra gli aspiranti
[6].
Muovendo da quest'ultimo aspetto e tornando al caso di specie, risulta sussistere un regolamento dell'Ente in tema di concessione di contributi ed altre erogazioni economiche, ai sensi dell'art. 12, L. n. 241/1990. Fermo restando che l'interpretazione e l'applicazione di detto regolamento competono esclusivamente all'Ente, si osserva in via collaborativa, avuto riguardo alla natura imprenditoriale del soggetto terzo riferita dall'Ente, che il regolamento in parola prevede che la concessione di contributi ed altre erogazioni economiche è rivolta a favore di persone fisiche che non svolgono attività imprenditoriale e persone giuridiche pubbliche o private che non hanno scopo di lucro.
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[1] Provvedimento amministrativo se si tratta di bene demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile; negozio di diritto privato se si tratta di bene patrimoniale disponibile (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, 05.10.2012, n. 716).
[2] La giurisprudenza trae il principio di fruttuosità dei beni pubblici dalla lettura combinata degli artt. 9, c. 3, L n. 537/1993, e 32, c. 8, L. n. 724/1994, che impongono la determinazione e l'aggiornamento dei canoni dei beni dati in concessione a privati, sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato, e da cui deriva il principio della gestione del patrimonio pubblico in modo da incrementare le entrate patrimoniali dell'amministrazione (cfr. Corte dei conti, sez. II, giurisdizionale d'appello, 22.04.2010, n. 149; Corte dei conti, sez. reg. contr. Puglia, 14.11.2013, n. 170).
[3] V. Corte di conti, sez. reg. contr. Lombardia, 09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013 cit.; Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit..
[5] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit., richiamata dalle Corti dei conti Puglia, 12.12.2014, n. 216; Lombardia, 06.05.2014, n. 216; Molise, 15.01.2015, n. 1.
In particolare, la Corte dei conti Veneto argomenta l'assenza dello scopo di lucro dalla lettura degli artt. 32, c. 8, L. n. 724/1994 -che prevede una deroga alla determinazione dei canoni dai comuni secondo logiche di mercato, in considerazione degli 'scopi sociali'- e 32, L. n. 383/2000 -che consente agli enti locali di utilizzare il comodato in favore di organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale-: norme da cui emerge, osserva la Corte dei conti, il riferimento delle eccezioni ivi previste a categorie ben individuate di beneficiari, connotati dall'assenza dello scopo di lucro.
Sulla scorta di queste riflessioni, le deliberazioni richiamate rimettono alla valutazione discrezionale dell'ente interessato -in considerazione delle proprie finalità istituzionali, attraverso un'attenta valutazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi negli anni precedenti dalla magistratura contabile- la possibilità di prevedere tariffe agevolate o la gratuità per l'utilizzo di beni pubblici in favore di soggetti che sono pp.aa. o privati connotati dall'assenza di scopo di lucro.
Per una disamina dell'evoluzione giurisprudenziale in tema di gestione del patrimonio pubblico, v. note di questo Servizio n. 11715/2016 e n. 7491/2015, all'indirizzo web della Regione Friuli Venezia Giulia: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[6] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 19.02.2014, n. 36.
L'obbligo degli enti locali di predeterminare le condizioni e le modalità per la concessione di vantaggi economici è altresì posto, sul piano dell'ordinamento regionale, dal combinato disposto degli artt. 2, c. 2-bis, e 30, L.R. n. 7/2000
(14.06.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Cessione gratuita di immobile comunale.
La gestione del patrimonio pubblico è improntata al principio di redditività, la cui deroga è subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto beneficiario, fermo l'obbligo di un'esaustiva motivazione in considerazione dell'interesse pubblico perseguito, che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene soddisfatto mediante lo sfruttamento economico dei beni, secondo i principi giurisprudenziali già consolidati.
La posizione della Corte dei conti assume toni ancor più rigorosi con riferimento alla cessione gratuita di un immobile, che si palesa in contrasto con l'interesse primario alla conservazione e alla corretta gestione del patrimonio pubblico. Nel contesto di questa posizione restrittiva, solo in caso di mancato trasferimento di denaro tra enti dello stesso ordinamento, la Corte dei conti ha escluso la sussistenza di un illecito erariale.
In proposito, con riferimento al caso di specie, va detto che il Comune è ente locale ricompreso tra le pp.aa. di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001, mentre l'ATER è ente pubblico economico assoggettato alla disciplina generale delle persone giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del codice civile per quanto compatibile (art. 37, L.R. n. 1/2016).

Il Comune pone un quesito in merito alla possibilità di cedere a titolo gratuito all'ATER un immobile comunale, inserito nel piano delle valorizzazioni
[1] come immobile 'privo di valore' [2], al fine della sua ristrutturazione e successiva costruzione di alloggi popolari da concedere in locazione a canone concordato.
Si premette che l'attività di consulenza di questo Servizio consta nel fornire agli enti locali un supporto giuridico generale sulle questioni poste, che possa essere utile come cornice di legittimità della concreta attività amministrativa, volta alla realizzazione dell'interesse pubblico perseguito. Per cui, in questa sede, la questione posta dall'Ente verrà trattata sotto il profilo generale della legittima gestione del patrimonio pubblico, avuto riguardo alle riflessioni elaborate dalla giurisprudenza sul punto. Mentre, si precisa sin d'ora, per quanto concerne l'aspetto dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione dell'immobile di cui si tratta, al fine della costruzione di alloggi popolari da locare a canone concordato, e le modalità attraverso cui un tanto possa avvenire, ulteriori specifiche considerazioni potranno essere espresse, per quanto di competenza, dalla Direzione centrale infrastrutture e territorio, Area interventi a favore del territorio, Servizio edilizia, in indirizzo.
L'atto di disposizione di un bene pubblico è improntato al principio della gestione economica dei beni pubblici, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie. L'obbligo della gestione economica del bene pubblico rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, L. n. 241/1990)
[3].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così, la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i principi già consolidati, secondo cui le modalità di gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[4], che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni [5]- ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai soggetti possibili affidatari (in comodato) dei beni del patrimonio locale, tanto per mitigare quanto per escludere la redditività del patrimonio pubblico [6].
Queste considerazioni della Corte dei conti sulla deroga alla redditività assumono un tono ancora più rigoroso con specifico riferimento alla cessione gratuita dell'immobile. Per la Corte dei conti, se lo scopo del patrimonio pubblico è quello di produrre reddito, risulta evidente che una cessione gratuita di un immobile non può considerarsi una modalità tipica di valorizzazione del patrimonio in quanto non solo non reca alcuna entrata all'ente, e dunque costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del bene, ma addirittura può risultare fonte di depauperamento -e dunque di danno- patrimoniale per l'ente, che è invece tenuto ad improntare la gestione del proprio patrimonio a criteri di economicità e di efficienza
[7].
In particolare, per la Sezione Veneta 'non può negarsi che un'eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito dovrebbe avvenire a seguito di un'attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell'ente, in cui, però, deve tenersi nella massima considerazione l'interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6 novellato), e della sempre crescente attenzione postavi dal legislatore (tra cui, appunto, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008). L'interesse alla conservazione e alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione, ed impone all'ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo contemperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti'
[8].
Ed ancora, per la Corte dei conti la perdita di un cespite deve essere adeguatamente compensata da una partita di carattere finanziario o con un''utilitas' di carattere patrimoniale (in termini di uso, proprietà, servizi). Tale utilitas, infatti, solo eccezionalmente può trovare giustificazione in interessi di carattere non patrimoniale, in base a precipue disposizioni di legge che tipizzano l'interesse tra gli scopi perseguibili dall'ente o che espressamente autorizzano l'alienazione gratuita
[9].
Nel contesto di questa posizione restrittiva, solo con riferimento ad enti dello stesso ordinamento, specificamente nel caso di mancato trasferimento di denaro nell'ambito di enti facenti parte dello stesso settore, la Corte dei conti ha escluso la sussistenza di un illecito erariale, giacché prescindendo dall'indubbia differente personalità giuridica, trattasi di una partita di giro nell'ambito di una finanza sostanzialmente unitaria
[10].
Ma in proposito e con riferimento al caso di specie va detto che il Comune è ente locale ricompreso tra le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001, mentre l'ATER è ente pubblico economico assoggettato alla disciplina generale delle persone giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del codice civile per quanto compatibile (art. 37, L.R. n. 1/2016).
Per completezza di esposizione, si osserva che la giurisprudenza contabile, muovendo dal fatto che non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca al comune di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che in base all'ordinamento deve perseguire, ha affermato che l'attribuzione di beni, se intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, anche se apparentemente a 'fondo perso', non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo
[11]. Si tratta, tuttavia, di pronunce che non concernono espressamente gli atti di gestione del patrimonio pubblico, per i quali la Corte dei conti ha affermato gli specifici principi sopra richiamati.
Un tanto esposto in generale, per la definizione più opportuna dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione dell'immobile di cui si tratta, per le finalità indicate della sua ristrutturazione e successiva costruzione di alloggi popolari da concedere in locazione a canone concordato, ci si rimette alle considerazioni che riterrà di esprimere la Direzione centrale infrastrutture e territorio, Area interventi a favore del territorio, Servizio edilizia, ai sensi della L.R. n. 1/2016, per quanto di competenza in materia.
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[1] In tema di interventi di valorizzazione del territorio, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008, convertito in L. n. 133/2008, ha imposto agli enti territoriali di redigere annualmente un piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, da allegare al bilancio di previsione, in cui inserire i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non ritenuti strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile, fatto salvo il rispetto delle tutele di natura storico-artistica, archeologica, architettonica e paesaggistico-ambientale.
[2] In tal modo si esprime l'Ente.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, deliberazione 02.10.2012, n. 716; Corte dei Conti, sez. reg. contr. Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170.
[4] V. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia, deliberazioni 09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[5] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013, cit.; Corte dei conti Veneto, n. 716/2012, cit..
[6] Corte dei conti Veneto, n. 716/2012, cit., richiamata dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione 12.12.2014, n. 216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n. 216; Molise, deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[7] Corte dei Veneto, deliberazione 24.04.2009, n. 33 e n. 716/2012 cit.; conforme: Corte dei conti Puglia, n. 170/2013, cit..
[8] Corte dei conti Veneto n. 33/2009 cit. Le valutazioni della Sezione veneta sono richiamate e condivise dalla Corte dei conti Friuli Venezia Giulia, che, seppur in un caso non sovrapponibile a quello in esame, per la differenza di valore dell'immobile, ha ritenuto che 'la cessione definitiva a titolo gratuito (donazione) non sia compatibile con l'obbligo di valorizzazione contemplato dall'art. 58 del D.L. 25.06.2008 n. 112' (Corte dei conti, sez. reg. contr. Friuli Venezia Giulia, deliberazione 30.04.2014, n. 94).
[9] Corte dei conti, sez. reg. contr. Campania, deliberazione 06.10.2014, n. 205.
[10] Corte dei conti, sez. giurisd., Sicilia, 02.07.2010, n. 1477; Corte dei conti, sez. giurisd. Trentino A. Adige, 16.03.2009, n. 18.
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia, 29.05.2012, n. 262, con riferimento alla possibilità per un comune di effettuare lavori di restauro di un bene immobile non appartenente al patrimonio dell'ente locale, nello specifico il campanile di una Chiesa, con entrate comunali; Corte dei conti, sez. reg. contr., Piemonte, 12.02.2014, n. 36, con riferimento al diritto di superficie, su area comunale, in favore di una locale associazione dedita alla pubblica assistenza, senza fini di lucro
(06.06.2017 -
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maggio 2017

PATRIMONIO: Alienazione terreno comunale.
Prima della stipula del rogito l'Ente è tenuto al rispetto delle procedure e dei termini posti a tutela dei terzi, ai sensi dell'articolo 58 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, nella considerazione che l'Ente è tenuto una sola volta ai suddetti adempimenti con riferimento al medesimo bene.
Il Comune informa che nel piano di valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale inserito nel Documento unico di programmazione (DUP), allegato al bilancio di previsione 2016-2018, era stato inserito un bene comunale la cui alienazione risulta iniziata ma non ancora conclusa. L'Ente ha previsto nel nuovo piano di valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale inserito nel DUP, allegato al bilancio di previsione 2017-2019, l'alienazione del medesimo terreno.
Pertanto, l'Ente chiede un parere per conoscere se, prima della stipula del rogito del terreno suddetto, si debbano attendere le necessarie pubblicazioni e conseguenti adempimenti connessi all'approvazione del nuovo piano di valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale, riferito al triennio 2017-2019.
La normativa in materia di ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare degli enti locali è contenuta nell'articolo 58 del D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito con modifiche dalla legge 06.08.2008, n. 133.
[1].
In particolare, l'articolo 58 del D.L. 112/2008 prevede che attraverso una delibera dell'organo di Governo venga redatto un apposito elenco degli immobili non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione, costituendo in tal modo il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (comma 1).
L'inserimento degli immobili nel piano su richiamato ne determina la loro classificazione come patrimonio disponibile. Con successiva deliberazione il consiglio comunale approva il piano delle alienazioni e valorizzazioni, determinando le destinazioni d'uso urbanistiche degli immobili ivi contenuti (comma 2).
Gli elenchi degli immobili devono essere pubblicati nelle forme previste da ciascun Ente e hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644
[2] del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto. A tutela dell'interesse di eventuali soggetti terzi, è ammesso ricorso amministrativo contro l'iscrizione del bene nell'elenco, entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Pertanto, prima della stipula del rogito l'Ente è tenuto al rispetto delle procedure e dei termini posti a tutela dei terzi, ai sensi della normativa sopra richiamata, nella considerazione che l'Ente è tenuto una sola volta ai suddetti adempimenti con riferimento al medesimo bene.
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[1] Art. 58 (Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali)
<<1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, nonché di società o Enti a totale partecipazione dei predetti enti, ciascuno di essi, con delibera dell'organo di Governo individua, redigendo apposito elenco, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione nel quale, previa intesa, sono inseriti immobili di proprietà dello Stato individuati dal Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del demanio tra quelli che insistono nel relativo territorio.
2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile, fatto salvo il rispetto delle tutele di natura storico-artistica, archeologica, architettonica e paesaggistico-ambientale. Il piano è trasmesso agli Enti competenti, i quali si esprimono entro trenta giorni, decorsi i quali, in caso di mancata espressione da parte dei medesimi Enti, la predetta classificazione è resa definitiva. La deliberazione del consiglio comunale di approvazione, ovvero di ratifica dell'atto di deliberazione se trattasi di società o Ente a totale partecipazione pubblica, del piano delle alienazioni e valorizzazioni determina le destinazioni d'uso urbanistiche degli immobili. Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, disciplinano l'eventuale equivalenza della deliberazione del consiglio comunale di approvazione quale variante allo strumento urbanistico generale, ai sensi dell'articolo 25 della legge 28.02.1985, n. 47, anche disciplinando le procedure semplificate per la relativa approvazione. Le Regioni, nell'ambito della predetta normativa approvano procedure di co-pianificazione per l'eventuale verifica di conformità agli strumenti di pianificazione sovraordinata, al fine di concludere il procedimento entro il termine perentorio di 90 giorni dalla deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si applica il comma 2 dell'articolo 25 della legge 28.02.1985, n. 47. Le varianti urbanistiche di cui al presente comma, qualora rientrino nelle previsioni di cui al paragrafo 3 dell'articolo 3 della direttiva 2001/42/CE e al comma 4 dell'articolo 7 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e s.m.i. non sono soggette a valutazione ambientale strategica.
3. Gli elenchi di cui al comma 1, da pubblicare mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto.
4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura.
5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui al comma 1 è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Omissis>>
[2] 2644. Effetti della trascrizione.
Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno effetto [c.c. 509] riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto [c.c. 507, 2659, 2667] o iscritto [c.c. 2839] anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi [c.c. 2643, 2652, n. 3, 2653, n. 1, 2685, 2827, 2857, 2914, n. 1].
Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui che ha trascritto [c.c. 2666] alcuna trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l'acquisto risalga a data anteriore [c.c. 1380, 2649, 2655, 2812, 2848, 2866, 2913, 2915]
(11.05.2017 -
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aprile 2017

PATRIMONIODemanio senza automatismi. Addio al rinnovo delle concessioni senza selezione. APPALTI/ Una sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia.
Addio rinnovo automatico delle concessioni demaniali in essere anche dopo il decreto legge enti locali 113/2016, il tutto in ossequio alla sentenza C-458/14 della Corte Ue che ha dichiarato illegittimo l'affidamento a privati delle spiagge italiane, prorogato al 31.12.2020 senza «una imparziale e trasparente procedura di selezione dei potenziali candidati».
E ciò perché l'articolo 24, c. 3-septies, del dl 113/2016 introduce in pratica una moratoria sulle concessioni esistenti ma senza un termine finale certo.

Così la sentenza 27.04.2017 n. 959 del TAR Lombardia-Milano, Sez. I.
La controversia nasce dalla procedura a evidenza pubblica bandita dal comune per la gestione di uno stabilimento balneare. I giudici di Lussemburgo hanno già bocciato la norma di cui all'articolo 1, comma 18, del decreto legge 194/2009 che prorogava le autorizzazioni demaniali per gestire attività turistiche e ricreative in riva al mare e ai laghi. Ma dopo la sentenza Ue nel dl 113/2016 è stata introdotta una norma secondo cui i rapporti pendenti conservano validità fino a quanto la materia non sarà regolata dallo stato nazionale secondo i principi eurounitari di libera concorrenza.
E anche voler condividere l'interpretazione della società ricorrente secondo cui la proroga prevista all'articolo, comma 3-septies, del dl 113/2016 debba trovare applicazione con riferimento alle concessioni non solo di beni demaniali ma anche di beni appartenenti al patrimonio indisponibile, queste norme devono essere disapplicate per contrasto con il diritto Ue (articolo ItaliaOggi del 31.05.2017).
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MASSIMA
9.1 Prima di esaminare le censure, occorre delineare il quadro normativo la cui applicazione al caso di specie è oggetto della presente controversia.
9.2 L’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come modificato dall'articolo 1, comma 1, della legge 26.02.2010, n. 25, in sede di conversione e, successivamente, dall'articolo 34-duodecies, comma 1, del D.L. 18.10.2012, n. 179, dall'articolo 1, comma 547, della Legge 24.12.2012, n. 228 e, da ultimo, dall'articolo 1, comma 291, della Legge 27.12.2013, n. 147, dispone che: “ferma restando la disciplina relativa all'attribuzione di beni a regioni ed enti locali in base alla legge 05.05.2009, n. 42, nonché alle rispettive norme di attuazione, nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico-ricreative, ad uso pesca, acquacoltura ed attività produttive ad essa connesse, e sportive, nonché quelli destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento di tali concessioni, sulla base di intesa in sede di Conferenza Stato-regioni ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, che è conclusa nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell'esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti, nonché in funzione del superamento del diritto di insistenza di cui all'articolo 37, secondo comma, secondo periodo, del codice della navigazione, [che è soppresso dalla data di entrata in vigore del presente decreto], il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31.12.2015 è prorogato fino al 31.12.2020, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 03, comma 4-bis, del decreto-legge 05.10.1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.12.1993, n. 494. All'articolo 37, secondo comma, del codice della navigazione, il secondo periodo è soppresso”.
9.3 La conformità al diritto comunitario di questa norma è stata oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, disposto con sentenza di questo Tribunale n. 2401/2014 e con ordinanza del Tar Sardegna n. 224/2015.
La Corte, con sentenza del 14.07.2016, ha affermato che:
   1) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12.12.2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati.
   2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo.

9.4 A seguito della decisione della Corte di Giustizia, il legislatore italiano, con legge n. 160 del 07.08.2016, ha introdotto, in sede di conversione al d.l. n. 113/2016, all’art. 24, il comma 3-septies, ai sensi del quale: “nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea, per garantire certezza alle situazioni giuridiche in atto e assicurare l'interesse pubblico all'ordinata gestione del demanio senza soluzione di continuità, conservano validità i rapporti già instaurati e pendenti in base all'articolo 1, comma 18, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n. 25”.
10.1 Così delineato il quadro normativo, si può procedere con l’esame delle doglianze formulate dalla ricorrente.
10.2 Anche a volere condividere la linea interpretativa prospettata dalla ricorrente, secondo cui la proroga prevista all’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009 ed all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n. 113/2016 debba trovare applicazione con riferimento alle concessioni non solo di beni demaniali ma anche di beni appartenenti al patrimonio indisponibile, queste norme devono essere disapplicate per contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza sopra richiamata.
Per costante giurisprudenza, al pari di regolamenti e direttive, anche le pronunce della Corte di Giustizia della Comunità europea hanno, difatti, efficacia diretta nell'ordinamento interno degli stati membri, vincolando sia le amministrazioni che i giudici nazionali alla disapplicazione delle norme interne con esse configgenti (Cfr. C. Cost., 19.04.1985, n. 113 che ha affermato l’immediata applicabilità delle statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 16.05.2016, n. 139).
10.3 La presente controversia ha ad oggetto il contratto in forza del quale il Comune di Como ha attribuito alla ricorrente il diritto utilizzare il compendio denominato “lido di Villa Olmo”, appartenente al patrimonio indisponibile, quale lido e stabilimento balneare, dietro versamento di un canone periodico e senza alcun corrispettivo a carico dell’amministrazione.
Tale contratto presenta i caratteri della concessione, ai sensi del diritto dell’Unione, essendo il rischio d’impresa a carico della società Villa Olmo s.n.c.
La concessione rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 12 della direttiva 2006/123 in quanto:
   - deve essere qualificata quale autorizzazione, ai sensi delle disposizioni della direttiva, in quanto atto formale che il prestatore deve ottenere dall’autorità nazionale al fine di potere esercitare l’attività economica;
   - il numero di autorizzazioni disponibili per l’attività in questione è indubbiamente limitato per via della scarsità delle risorse naturali, quali sono, in generale, le rive del lago di Como, suscettibili di sfruttamento economico solo in numero limitato, e quale è, in particolare, il compendio in questione, in considerazione delle sue peculiarità (in relazione alla sua ubicazione ed alla sua storia);
   - la concessione d’uso del bene in questione non rientra nella categoria delle concessioni di servizi, escluse dall’ambito di applicazione della direttiva 2006/123 e rientranti in quello della direttiva 2014/23, per le ragioni affermate dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 14.07.2016 (punti 44-48) ed estensibili anche al caso di specie.
10.4 L’art. 12, c. 1, della direttiva 2006/123, dispone che, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, il rilascio delle autorizzazioni deve essere soggetto ad una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.
10.5 Come affermato dalla Corte di Giustizia ai punti 50 e ss. della sentenza sopra richiamata, “una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123.
Inoltre, la proroga automatica di autorizzazioni relative allo sfruttamento economico del demanio marittimo e lacuale non consente di organizzare una procedura di selezione come descritta al punto 49 della presente sentenza
”.
La Corte ha poi affermato che,
pur se l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2006/123 prevede espressamente che gli Stati membri possano tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a motivi imperativi d’interesse generale, “è previsto che si tenga conto di tali considerazioni solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva.
Pertanto l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva in questione non può essere interpretato nel senso che consente di giustificare una proroga automatica di autorizzazioni allorché, al momento della concessione iniziale delle autorizzazioni suddette, non è stata organizzata alcuna procedura di selezione ai sensi del paragrafo 1 di tale articolo
”.

Inoltre, “
una giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione”.
La previsione di cui all’art. all’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, contrasta quindi con l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123.
10.6 Un identico contrasto deve ritenersi sussistente con riferimento alla previsione di cui all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n. 113/2016.
Con tale norma, il legislatore -nel prevedere la conservazione della validità dei rapporti già instaurati e pendenti in base all'articolo 1, comma 18, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n. 25 “nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea”– ha, difatti, sostanzialmente reintrodotto un rinnovo automatico delle autorizzazioni concesse, oltretutto senza la previsione di un termine finale certo, che impedisce lo svolgimento di procedure comparative, eludendo così, al pari dell’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, il dettato della direttiva 2006/123 e le indicazioni date dalla Corte di Giustizia.
10.7
Poiché le norme invocate dalla ricorrente si pongono in contrasto con il diritto comunitario, esse devono essere disapplicate. A ciò consegue la piena legittimità della decisione del Comune di Como di non considerare efficace la concessione in questione e di procedere alla pubblicazione del bando per l’assegnazione del compendio immobiliare.

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICA: Nel rispetto della disciplina vincolistica di settore anche di livello regionale, nel corso dell’esercizio 2017, i proventi connessi agli oneri di urbanizzazione e alla monetizzazione degli standard qualitativi aggiuntivi possono essere utilizzati per finanziare una spesa in conto capitale.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da parte del comune, che “tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.

Ne consegue che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica –da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi e destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano.
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Il Sindaco del Comune di Novedrate (CO) -dopo aver rappresentato che tra gli obiettivi strategici dell’azione amministrativa rientra l’acquisizione al patrimonio comunale del fabbricato storico denominato “Villa Casana”, della Cappella Gentilizia e del parco circostante attualmente di proprietà privata da conseguire mediante la permuta di un’area comunale posta all’interno dell’area di trasformazione afferente all’obiettivo strategico in cui la complessiva operazione si inscrive e dopo aver, altresì, ricordato che il Comune risulta tenuto al versamento anche di una somma pari alla differenza di valore fra i beni immobili oggetto di permuta– ha rivolto alla Sezione il seguente quesito:
se è possibile far fronte alla suddetta differenza di valore utilizzando all’uopo lo standard qualitativo aggiuntivo pari ad euro 300.000,00, il fondo per il Centro storico nella misura del 3% ed i proventi da permessi di costruire (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) che il privato dovrà versare nelle casse dell’Ente per la realizzazione dell’intervento edilizio programmato. Si precisa, nel contempo, che è intenzione delle parti sottoscrivere il contratto di permuta entro il corrente anno stante l’utilizzo per fini tipici degli oneri di urbanizzazione previsto a decorrere dall'esercizio 2018 dalla Legge n. 232/2016, articolo 1, commi 460-461”.
...
2. Giova preliminarmente evidenziare come la materia oggetto del quesito in esame è stata, di recente, oggetto, nei suoi principi generali, di analisi da parte di questa Sezione nella deliberazione n. 81/2017/PAR. Facendo applicazione dei principi affermati in tale pronuncia, deve preliminarmente ricordarsi, sul piano generale, che, nei principi contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 (allegato 1) si esplicita che:
   - “è il complesso unitario delle entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la totalità delle sue spese durante la gestione”;
   - “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento”.
Nei predetti principi, dunque, viene ribadito il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
2.1. Ciò premesso, essendo l’operazione di permuta sopra richiamata finalizzata all’acquisizione al patrimonio comunale di un fabbricato storico e di alcune pertinenze, che sarebbero complessivamente destinate allo svolgimento di alcune funzioni pubbliche, essa si sostanzierebbe, come noto, in una spesa in conto capitale. Alla stessa può, dunque, farsi ancora fronte, nel corrente esercizio, con l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione (per il successivo esercizio 2018, cfr. commi 460-461 dell’art. 1 della Legge n. 232/2016, che non contemplano, tra le operazioni finanziabili con in predetti oneri, l’acquisizione di immobili).
2.2. Facendo nuovamente applicazione dei principi generali fissati nella richiamata deliberazione n. 81/2017/PAR, può passarsi ad affrontare il profilo attinente all’utilizzo dei proventi relativi allo standard qualitativo aggiuntivo, tenuto conto del combinato disposto dell’art. 90 e dell’art. 46, comma 1, della legge regionale lombarda 11.03.2005, n. 12. Tali disposizioni prevedono, infatti, che:
   Art. 90 - Aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.
1. I programmi integrati di intervento garantiscono, a supporto delle funzioni insediate, una dotazione globale di aree o attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, valutata in base all’analisi dei carichi di utenza che le nuove funzioni inducono sull’insieme delle attrezzature esistenti nel territorio comunale, in coerenza con quanto sancito dall’articolo 9, comma 4.
2. In caso di accertata insufficienza o inadeguatezza di tali attrezzature ed aree, i programmi integrati di intervento ne individuano le modalità di adeguamento, quantificandone i costi e assumendone il relativo fabbisogno, anche con applicazione di quanto previsto dall’articolo 9, commi 10, 11 e 12.
3. Qualora le attrezzature e le aree risultino idonee a supportare le funzioni previste, può essere proposta la realizzazione di nuove attrezzature indicate nel piano dei servizi di cui all’articolo 9, se vigente, ovvero la cessione di aree, anche esterne al perimetro del singolo programma, purché ne sia garantita la loro accessibilità e fruibilità.
4. È consentita la monetizzazione della dotazione di cui al comma 1 soltanto nel caso in cui il comune dimostri specificamente che tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico. In ogni caso la dotazione di parcheggi pubblici e di interesse pubblico ritenuta necessaria dal comune deve essere assicurata in aree interne al perimetro del programma o comunque prossime a quest’ultimo, obbligatoriamente laddove siano previste funzioni commerciali o attività terziarie aperte al pubblico.
5. Nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano.
   Art. 46 - Convenzione dei piani attuativi.
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica;
   b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere devono essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all’entità ed alle caratteristiche dell’insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale;
   c) altri accordi convenuti tra i contraenti secondo i criteri approvati dai comuni per l’attuazione degli interventi.
2. La convenzione di cui al comma 1 può stabilire i tempi di realizzazione degli interventi contemplati dal piano attuativo, comunque non superiori a dieci anni.

Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da parte del comune, che “tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.

2.3. Ne consegue, per quanto qui maggiormente interessa, che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica –da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi e destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano (cfr. parere 15.11.2012 n. 487 di questa Sezione).
2.4. A non diverse conclusioni può pervenirsi in riferimento all’utilizzo del “fondo per il Centro storico”, sulla cui natura e funzione non è fornito alcun dettaglio nella richiesta di parere in esame, ove lo stesso sia costituito con contributi qualificabili come standard qualitativi aggiuntivi.
2.5. Resta, comunque, fermo che, come del resto affermato dallo stesso Ente nella richiesta di parere, la delineata operazione deve essere posta in essere nel pieno rispetto del disposto del comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n. 98/2011, non trattandosi di permuta “pura” (cfr. deliberazione di questa Sezione n. 97/2014/PAR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.04.2017 n. 100).

marzo 2017

PATRIMONIO: Giurisdizione del giudice ordinario se lo sgombero riguarda un bene appartenente al patrimonio disponibile.
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Giurisdizione – Demanio e patrimonio – Patrimonio disponibile – Ordine sgombero locale occupato – Controversia – Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l’ordinanza con la quale il Comune ha diffidato a sgomberare un locale occupato, appartenente al proprio patrimonio disponibile, trattandosi di ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, quindi, nulla (1).
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   (1) Il Tar –premesso che il Comune ha inteso esercitare un potere autoritativo e non inviare una semplice diffida iure privatorum– ha richiamato, a supporto delle conclusioni cui è pervenuto, la giurisprudenza secondo cui:
   a) l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'Amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi solo per tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile; di conseguenza, l'eventuale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere, trattandosi di bene che appartiene al patrimonio disponibile dell'ente, va qualificata come atto nullo secondo i principi sanciti dall'art. 21-septies, l. 07.08.1990, n. 241;
   b) l'atto nullo non produce alcun effetto degradatorio delle posizioni soggettive di cui si assume la lesione, e se dall’esecuzione del provvedimento sono derivati effetti pregiudizievoli, gli stessi vanno considerati come violazioni di diritti soggettivi la cui tutela appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario (Cons. St., sez. V, 08.03.2010, n. 1331);
   c) la controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale di proprietà comunale facente parte del patrimonio disponibile dell'ente territoriale appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un rapporto di matrice negoziale, da cui derivano in capo ai contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in termini di diritto soggettivo, nel cui ambito l'Amministrazione agisce iure privatorum -al di fuori cioè dell'esplicazione di qualsivoglia potestà pubblicistica- non soltanto nella fase genetica e funzionale del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più specificamente, si traduce nell'assenza di poteri autoritativi sia sul versante della chiusura del rapporto stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene (Tar Napoli, sez. VII, 06.02.2015, n. 931) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 20.03.2017 n. 1531 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGOStrisce pedonali non possono essere verdi. Paga il funzionario.
Come prescrive il Codice della strada, i colori utilizzati per gli attraversamenti pedonali sono regolamentati in maniera perentoria e tale colorazione deve essere applicata su tutto il territorio nazionale. Pertanto, qualora un comune dovesse disporre diversamente, la spesa sostenuta per l'acquisto della vernice colorata, in luogo di quella tradizionale, costituisce un danno erariale.

È quanto ha messo nero su bianco la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Veneto, nel testo della sentenza 14.03.2017 n. 38 con cui ha condannato un funzionario tecnico di un comune del padovano per aver disposto, su 55 attraversamenti pedonali in città, una colorazione non consentita.
Il collegio della magistratura contabile ha infatti sottolineato come il regolamento attuativo del Codice della strada dispone, all'articolo 145, che gli attraversamenti pedonali devono essere evidenziati sulla carreggiata mediante zebrature con strisce bianche parallele alla direzione di marcia e che nessun altro segno è consentito. Ne deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo stradale degli attraversamenti pedonali, è palesemente contraria alle disposizioni del Codice della strada.
La Corte ha altresì richiamato il dm 27/04/2006 del Ministero delle infrastrutture, con cui si ribadisce che la colorazione delle strisce pedonali sia uniforme sull'intero territorio nazionale e che, in caso di violazione, la responsabilità ricade sugli enti proprietari delle strade (articolo ItaliaOggi del 18.03.2017).
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MASSIMA
2. L'odierno giudizio è finalizzato all'accertamento della pretesa risarcitoria avanzata dal Procuratore regionale in ordine al
danno erariale di € 1.155,00, asseritamente arrecato al Comune di San Martino di Lupari (PD) da Gi.St.Ba., responsabile dell'Area tecnica-manutenzioni, in relazione alla realizzazione, nel territorio comunale, di attraversamenti pedonali su manto stradale di colorazione non consentita.
3. Dagli atti di causa si evince che il convenuto, con le determinazioni contrassegnate dai numeri 199/2008, 119/2009, 123/2010, 138/2010, 169/2010, 74/2012, 113/2012, 122/2012 e 148/2012, assunte nella qualità di responsabile di Area, aveva fatto realizzare n. 55 attraversamenti pedonali su manto stradale di colorazione verde; come da comunicazione dello stesso funzionario, la differenza di spesa, effettuata al fine di realizzare il passaggio pedonale su fondo verde, anziché sul fondo stradale non colorato, ammonta a € 21,00 per ciascun attraversamento e, pertanto, ad € 1.155,00 in totale.
Rileva il Collegio che l'art. 40 del codice della strada (D.lgs. 30.04.1992 n. 285) nel disciplinare la segnaletica orizzontale, costituita da strisce, frecce e scritte poste sulla pavimentazione stradale per regolare la circolazione stradale, per guidare gli utenti e per fornire prescrizioni circa il comportamento da seguire, rinvia al regolamento per quanto riguarda le forme, le dimensioni, i colori, i simboli e le caratteristiche dei segnali orizzontali.
Lo stesso Codice (art. 45) vieta, tuttavia, l'impiego di segnaletica stradale non conforme a quella stabilita dal codice stesso, dal Regolamento o dai decreti e dalle direttive ministeriali.
Il Regolamento, approvato con DPR 16.12.1992 n. 495, espressamente stabilisce che i colori dei segnali orizzontali sono il bianco, il giallo, l'azzurro e il giallo alternato con il nero (art. 137, comma 5); che gli attraversamenti pedonali sono evidenziati sulla carreggiata mediante zebrature con strisce bianche parallele alla direzione di marcia (art. 145); che nessun altro segno è consentito sulle carreggiate stradali soggette a pubblico transito, all'infuori di quanto previsto dalle norme in questione (art. 155).
Da ciò deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo stradale dell'attraversamento pedonale, deve ritenersi contraria alle precise disposizioni poste dal Codice della strada e dal Regolamento.

Peraltro,
il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con il decreto ministeriale 27.04.2006 n. 777 (II° direttiva sulla corretta ed uniforme applicazione delle norme del codice della strada in materia di segnaletica e criteri per l'istallazione e la manutenzione), ha espressamente ribadito (punto 5) sia la cogenza della normativa stradale in ordine alla colorazione degli attraversamenti pedonali, sia la necessità che la colorazione sia uniforme sull'intero territorio nazionale; ha, inoltre, segnalato le responsabilità ricadenti sugli enti proprietari delle strade in caso di violazione delle anzidette disposizioni.
Tali prescrizioni costituivano peraltro oggetto della circolare 1/2001 della Prefettura di Padova, inviata a tutti i Sindaci della Provincia, in cui si richiamavano le disposizioni normative, la direttiva ministeriale e la normativa europea (UN 1436 del 2004) in ordine al divieto di utilizzare colorazioni diverse da quelle espressamente previste.
Tanto premesso,
il Collegio ritiene che la maggiore spesa effettuata dal Comune per la realizzazione degli attraversamenti pedonali colorati costituisca danno erariale in quanto non solo contraria alle disposizioni di legge ma anche di nessuna utilità per l'amministrazione stessa e la Comunità amministrata.
4.
Tale danno è addebitabile al signor Gi.St.Ba., per avere adottato la scelta di apporre una colorazione non consentita, in frontale contrasto con le disposizioni di legge sopra richiamate.
Ritiene, al riguardo, il Collegio che la condotta antigiuridica addebitata al convenuto sia supportata dalla colpa grave. La valutazione della sussistenza dell'elemento psicologico, nella intensità prevista dalla legge, va effettuata attraverso un giudizio di rimproverabilità per l'atteggiamento antidoveroso della volontà che sarebbe stato possibile non assumere, con valutazione ex ante, in base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della serie causale produttiva del danno (teoria della concezione normativa della colpevolezza).

Nel caso di specie,
il convenuto, per la sua qualificazione professionale (responsabile dell'Area tecnica-manutenzioni del Comune), avrebbe potuto certamente rilevare l'antigiuridicità della scelta effettuata, solo verificando le chiare disposizioni normative in materia, alla luce della modifica cromatica che andava a introdurre nella segnaletica orizzontale posta nel territorio dell'Ente locale, sicuramente innovativa rispetto ad una tradizionale coloratura.
Peraltro, nel periodo di tempo in cui tale innovazione venne introdotta (2008-2012) era intervenuta, ancorché non ve ne fosse necessità, anche una specifica circolare chiarificatrice della Prefettura di Padova. In buona sostanza,
sarebbe bastato un minimo di diligenza da parte del funzionario e un approfondimento sulla questione per valutare la portata delle disposizioni normative e per ricercare, ove non in possesso della Amministrazione, le direttive fornite dal competente Ministero nella materia de qua.
5. Per tutto quanto precede, il Collegio condanna il signor Gi.St.Ba. al pagamento, in favore del Comune di San Martino di Lupari (PD), della somma di € 1.155,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali calcolati dalla data di pubblicazione della sentenza sino al soddisfo.
6. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale regionale per il Veneto
definitivamente pronunciando,
condanna BA.Gi.St. al pagamento, in favore del Comune di San Martino di Lupari (PD), della somma complessiva di € 1.155,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre interessi legali dalla data della sentenza sino all'effettivo pagamento.

febbraio 2017

PATRIMONIO: Responsabilità della PA per circolazione di pedoni e veicoli.
La P.A. è tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in condizioni di sicurezza: a tale obbligo l’ente proprietario della strada viene meno non solo quando non provvede alla manutenzione di quest’ultima, ma anche quando il danno sia derivato dal difetto di manutenzione di aree private destinate al pubblico transito atteso che è comunque obbligo dell’ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza.
(Nel caso in esame veniva riconosciuta la sussistenza della responsabilità per colpa presunta del Comune che non aveva predisposto le dovute attività di manutenzione in un tratto stradale privato adibito alla circolazione pubblica in cui era rovinosamente caduto un soggetto)
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E' in colpa la pubblica amministrazione la quale:
   - né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada,
   - né provveda ad inibirne l'uso generalizzato.
Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione
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6. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che, anche ad ammettere che il luogo del sinistro fosse di proprietà privata, esso era nondimeno di uso pubblico, sicché l'amministrane comunale aveva comunque l'obbligo di provvedere Lilla sua manutenzione. Pertanto, non tenendo conto della colpa scaturente dalla violazione di quest'obbligo, la sentenza impugnata avrebbe violato gli artt. 2 d.lgs. 285/1992 e 22, comma 3, l. 2248/1865.
Il motivo è fondato.
Questa Corte ha già più volte stabilito che l'amministrazione comunale è tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in condizioni di sicurezza: ed a tale obbligo l'ente proprietario della strada viene meno non solo quando non provvede alla manutenzione di quest'ultima, ma anche quando il danno sia derivato dal difetto di di manutenzione di aree limitrofi alla strada, atteso che è comunque obbligo dell'ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza (Sez. 3, Sentenza n. 23362 del 11/11/2011, Rv. 620314).
Infatti il Comune il quale consenta alla collettività l'utilizzazione, per pubblico transito, di un'area di proprietà privata, si assume l'obbligo di accertarsi che la manutenzione dell'area e dei relativi manufatti non sia trascurata.
Ne consegue che l'inosservanza di tale dovere di sorveglianza, che costituisce un obbligo primario della P.A., per il principio del  neminem laedere, integra gli estremi della colpa e determina la responsabilità per il danno cagionato all'utente dell'area, non rilevando che l'obbligo della manutenzione incomba sul proprietario dell'area medesima (Sez. 3, sentenza n. 7 del 04/01/2010, Rv. 610958).
...
4.3. La memoria depositata dal Comune di San Giovanni Rotondo deduce altresì, quanto al merito dell'impugnazione, che:
   - il giudice di merito non ha mai accertato se la strada ove avvenne il fatto fosse di uso pubblico o meno;
   - il relativo accertamento costituisce oggetto di un apprezzamento di fatto;
   - conseguentemente, esso non è censurabile in sede di legittimità.
Tali deduzioni sono in tesi corrette, ma non pertinenti rispetto al presente giudizio: esse, pertanto, non consentono di rigettare il ricorso.
1,a Corte d'appello di Bari, infatti, ha rigettato la domanda sul presupposto che la vittima patì lesioni cadendo su una strada di proprietà privata.
I ricorrenti hanno impugnato tale statuizione, deducendo che il Comune ha il dovere di vigilare e manutenere anche le are private aperte al pubblico transito di veicoli e pedoni.
Tale deduzione è sostanzialmente corretta, per le ragioni già indicate dalla relazione preliminare, e sopra trascritte.
Ne consegue che oggetto del terzo motivo di ricorso non è una quaestio facti (la proprietà privata o pubblica di un'area), ma una quaestio juris (stabilire se l'obbligo di custodia gravante sull'amministrazione locale si estenda alle aree aperte al pubblico transito ma di proprietà privata).
4.4. Il ricorso deve quindi essere accolto limitatamente al terzo motivo.
Il giudice di rinvio, nel riesaminare la domanda, si atterrà al seguente principio di diritto: 'E' in colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada, né provveda ad inibirne l'uso generalizzato. Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione" (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 07.02.2017 n. 3216).

PATRIMONIO: Gli immobili comunali.
DOMANDA:
Il Comune ha affidato nel 2009 alla propria partecipata (affidamento in house) l’attività di manutenzione e valorizzazione degli immobili comunali – quasi tutti destinati a pubblici servizi e fini istituzionali. Gli immobili sono stati affidati in concessione alla Società affinché la stessa avesse titolo giuridico per realizzare gli investimenti, contabilizzarli nel proprio stato patrimoniale ed ammortizzarli per tutta la durata della concessione.
Il Comune, in quanto proprietario -e su parere della Corte dei Conti- ha mantenuto tali immobili nel proprio inventario e stato patrimoniale al valore in corso prima della concessione e proseguendo nell’ammortamento annuale.
Allo scadere della concessione il Comune dovrebbe aggiornare il proprio stato patrimoniale per il maggior valore determinato dalle migliorie/nuovi investimenti realizzati dalla società anche se non è chiaro con quale criterio valorizzerà tali interventi.
Il contratto di servizio prevede un corrispettivo annuo per la gestione ordinaria ed un corrispettivo annuo per la manutenzione straordinaria da riconoscere alla società per una durata di 20 anni.
Il corrispettivo per la manutenzione straordinaria ha lo scopo di remunerare le manutenzioni straordinarie effettuate annualmente ma anche gli oneri diretti e indiretti che la società sostiene a fronte degli investimenti (nuove opere) realizzate nei primi 5 anni di attività.
Fino al 31.12.2015 il Comune registrava tale spesa (il canone per le manutenzioni straordinarie) al titolo II ma come costo nel conto economico. In questo modo si evitava una doppia registrazione di incrementi di valore sugli stessi beni (da parte della società e da parte del Comune).
Chiediamo il vostro parere rispetto alla corretta contabilizzazione della fattispecie tenuto conto dei nuovi principi contabili.
RISPOSTA:
Si ritiene che le procedure seguite fino al 2015 siano corrette; inoltre, si ritiene che, tenuto anche conto di quanto precisato dall'allegato 4/3 al D.lgs. 118/2011, ai paragrafi 4.16 (pagina 7), 4.18 (pagina 8) e 6.12 (pagina 16), l’ente, per il 2016 e anni successivi, debba continuare con il metodo seguito negli anni passati.
Per quanto riguarda i criteri di valorizzazione degli investimenti che sono stati realizzati dalla Società, si ritiene che si debbano applicare i principi illustrati nell'agosto 2014 dall’Organismo Italiano di Contabilità OIC 16 a proposito delle “immobilizzazioni materiali”; in particolare si ritiene che si debba fare riferimento a quanto stabilito per i “costi di acquisto” (si veda i punti da 26 a 28) e per i costi di “ampliamenti, ammodernamenti, miglioramenti e rinnovamento” (si veda i punti 41-43) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

gennaio 2017

PATRIMONIO: L'indennità di avviamento commerciale.
DOMANDA:
Questo Comune detiene in proprietà due unità immobiliari, appartenenti al patrimonio disponibile, destinati ad attività commerciali (tabaccheria e attività di somministrazione).
Nel corso degli anni, questi beni sono stati concessi in locazione con affidamento diretto. Gli attuali contratti scadono (fine dei dodici anni) il 31/12/2016. Il contratto prevedeva l'estinzione del medesimo alla seconda scadenza sessennale. Ai conduttori è stata comunicata un anno prima della scadenza l'intenzione dell'Amministrazione di procedere con la stipula di un nuovo contratto.
L'Amministrazione ha poi legittimamente deciso di pubblicare un bando per il reperimento del nuovo conduttore, nel quale è previsto il diritto di prelazione a favore dei conduttori uscenti ai sensi dell'art. 40 della legge 392/1978. L'attuale conduttore del bar rivendica, in caso di mancata aggiudicazione, la corresponsione dell'indennità per perdita di avviamento pari a 18 mensilità, elevabili a 36 nel caso in cui il nuovo aggiudicatario apra un'attività equivalente entro l'anno.
Con la presente, si chiede se effettivamente tale indennità sia dovuta, anche nel caso in cui il contratto sia giunto a naturale scadenza e sulla base che il Comune non possa rinnovare tacitamente il contratto, in quanto dovuta la forma scritta.
RISPOSTA:
Il conduttore di un locale ad uso commerciale ha diritto all'"indennità per la perdita di avviamento", ai sensi dell’art. 34 della l. n. 392/1978, solo in caso di recesso anticipato del locatore. La previsione legislativa mira, infatti, a tutelare il conduttore, dai disagi e dalle difficoltà derivanti alla sua attività commerciale a causa della disdetta del contratto di locazione da parte del proprietario/locatore e a disincentivare il locatore dal recesso anticipato spingendolo ad attendere la scadenza naturale del contratto per evitare di incorrere nell'obbligo del versamento delle somme a titolo di indennità.
Il pagamento dell'indennità di avviamento commerciale, pertanto, riveste una funzione riparatoria, mirando a compensare i disagi e i costi che il conduttore dovrà affrontare, a causa della volontà di recesso del locatore, per la perdita della sede in cui viene esercitata l'attività quale elemento fondamentale dell'azienda.
Nel caso concreto, in cui il contratto è giunto a naturale scadenza, l’indennità non è dovuta, mancando il presupposto del recesso unilaterale (ed improvviso) del locatore e quindi la conseguente esigenza di tutela e risarcimento del conduttore (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

dicembre 2016

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOOGGETTO: servitù di uso pubblico a parcheggio autoveicoli – costituzione in via convenzionale – modalità di estinzione – parere (Legali Associati per Celva, nota 12.12.2016 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di La Salle dispone di area pubblica che è stata dismessa dai privati ai fini dell’ottenimento di concessione edilizia (anno 1985).
Il Consiglio Comunale nel 1986 delibera a favore dell’acquisizione (o meglio dell’intenzione di acquisire) l’area. La successiva convenzione che prevede l’istituzione del parcheggio pubblico consiste in una scrittura privata registrata (anno 1992) di servitù permanente gratuita di parcheggio ad uso pubblico. L’area si compone di solaio in cemento armato che sovrasta autorimessa.
I privati ora chiedono di essere reimmessi nel possesso privato dell’area che ad oggi è parcheggio ed è stato mantenuto (asfalto, cartelli, strisce, sgombero neve,...) ad opera del Comune. Il Comune ad oggi utilizza detta area come parcheggio pubblico e vuole porlo parzialmente a pagamento (zone blu).
Riferimenti normativi: D.P.R. n. 327 del 2001
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: - possibile applicare art. 42-bis
Quesiti: Si chiede se i proprietari dell'area hanno diritto alla reimmissione in possesso del parcheggio come da loro richiesta.

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: Parere in merito a questioni che riguardano il valore di vendita delle reti e degli impianti di proprietà alla distribuzione del gas.
La cessione delle reti e degli impianti si inquadra, in termini generali, nella disciplina di diritto comune concernente il patrimonio indisponibile (articolo 826 c.c.), tali dovendo considerarsi i beni in questione, ove di proprietà di enti pubblici e strumentali all'espletamento di un servizio pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a condizione che ne venga mantenuta la destinazione al servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma 2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati (es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).
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Per gli enti locali alla scadenza delle concessioni possono di fatto porsi le seguenti tre opzioni:

   a)
l’ente non riscatta l’impianto ma affida al nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR al gestore uscente e la RAB ai successivi;
   b)
l’ente riscatta, se non può beneficiare della devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la titolarità degli impianti di rete per la cui messa a disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento (autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento rispetto al VIR;
   c)
l’ente riscatta l’impianto (sempre se non è prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede la proprietà, con destinazione al servizio di rete, al concessionario vincitore della gara.
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E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è intervenuto il MiSE laddove chiarisce che “
il valore di trasferimento è pari al valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio di distribuzione e misura, relativo agli impianti che vengono alienati, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località (c.d. RAB), come riconosciuto dall’Autorità nella tariffa valida per la gestione d’ambito e come già spettante all’ente locale in quanto titolare della rete. Pertanto, la decisione dell’ente locale di alienare o meno la rete di proprietà pubblica non deve creare nuovi oneri a carico dei clienti finali del servizio in termini di aumento delle tariffe di distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI. Consegue dunque da tale lettura che
in caso della peraltro obbligatoria cessione della proprietà delle reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si vedrà riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato sulla base della RAB.
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Va qui ribadito che sono le norme di contabilità pubblica a disciplinare il valore di iscrizione, nello stato patrimoniale, dei beni del demanio e del patrimonio (allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “
(…) le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili. (…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di produzione, se realizzato in economia (inclusivo di eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio, il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale costo è rettificato nell'ambito delle scritture di assestamento mediante apposita svalutazione. Le rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere accompagnata dal principio di prudenza (allegato 1 relativo ai principi contabili generali e applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118),
secondo cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che ribadirsi come
i criteri di iscrizione nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti locali restino disciplinati dalle norme di contabilità pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di eventi che determinino un decremento effettivo del valore del bene.
Resta fermo, peraltro, che
nell’ambito della predisposizione del bilancio preventivo, la valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di influire sulle effettive possibilità di realizzare i proventi derivanti dalla cessione del bene.
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I Comuni richiedenti riferiscono che, stretti dai vincoli di bilancio e considerata la remunerazione che otterrebbero dal Gestore dell’Ambito Territoriale Minimo (ATEM) negli anni di gestione della rete gas di cui sono comproprietari, stanno valutando l’opzione di cederne la proprietà ed incassare il relativo valore, operazione che, in linea con le indicazioni del Ministero per lo Sviluppo Economico (MiSE), avverrebbe nel contesto della gara d'ATEM.
I Comuni sottolineano come le Autorità di regolazione (MiSE e Autorità per l'Energia Elettrica, il Gas e il Sistema Idrico – AEEGSI) abbiano sostenuto che nell’ipotesi di alienazione a nuovo gestore il valore di trasferimento in favore dell’aggiudicatario non deve essere il cosiddetto valore industriale residuo – VIR – ma la RAB (Regulatory Asset Base) ossia il valore corrispondente al capitale investito riconosciuto ai fini tariffari.
I Comuni rimarcano quindi che a loro avviso:
   a) la valorizzazione tramite il metodo RAB (in luogo del VIR) comporterebbe un danno per gli equilibri di bilancio atteso che il primo è in inferiore al secondo;
   b) l’utilizzazione di distinti criteri di valorizzazione configurerebbe disparità di trattamento tra Gestori privati proprietari di reti e Comuni proprietari di reti, “in contrasto con l'articolo 3 della Costituzione” e spingerebbe gli enti a comportamenti non in linea con “l'articolo 97 della Costituzione che impone all'amministrazione pubblica di valorizzare i propri beni e a ricavarne il massimo importo percepibile”.
Tutto ciò premesso, i Comuni istanti chiedono:
   1) “Può l'Amministrazione Comunale attribuire ad uno stesso cespite un valore diverso in funzione del proprietario, e per quelle di proprietà dell’Ente Locale una valorizzazione inferiore, senza incorrere in un possibile “Danno Erariale” per gli Amministratori che lo hanno deliberato?
   2) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita nella gara d’Ambito, le sue proprietà ad un importo che non corrisponde al reale valore, consapevole che le proprietà del Gestore hanno avuto un trattamento diverso, di molto superiore a quelle di proprietà dell'Ente Locale. Infatti ha dovuto approvare con Delibera Comunale le valorizzazioni dei cespiti di proprietà del Gestore Uscente a VIR, mentre dovrà approvare per le sue proprietà un valore di molto inferire a quello che è stato riconosciuto al Gestore, in quanto dovranno essere valorizzati a RAB?
   3) Deve l'Amministrazione comunale mettere in gara anche i suoi impianti a valore di VIR per non far incorrere i suoi Amministratori in un possibile addebito di Danno Erariale?
   4) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita i suoi Asset a RAB consapevole che la fac del MISE non ha tenuto nella giusta considerazione che la sottovalutazione dei cespiti di proprietà dell'Ente Locale a favore del Gestore subentrante può essere considerata dalla Comunità Europea un Aiuto di stato alla ditta che si aggiudicherà la gara d'Ambito?”.

...
Quanto al secondo aspetto (generalità ed astrattezza), l’effettiva formulazione dei quesiti è da un lato tale da risultare eccessivamente puntuale e concreta fino ad involgere precise scelte gestionali e dall’altro richiede un anticipato parere sulla responsabilità erariale (quesiti 1, 3 e 4) il che interferisce con le funzioni giurisdizionali attribuite alle competenti sezioni della Corte e risulta dunque inammissibile in forza di consolidata giurisprudenza (cfr. da ultimo deliberazione del 06.09.2016, n. 229 della Sezione di controllo Lombardia) ed in base a un costante orientamento (cfr. ex multis deliberazione delle Sezione delle Autonomie del 10.03.2006, n. 5/AUT/2006) secondo cui non possono ritenersi procedibili i quesiti che possano formare oggetto di esame in sede giurisdizionale da parte di altri organi a ciò deputati dalla legge.
In definitiva, è da ritenere che i quesiti 1), 3) e 4) non possano essere considerati ammissibili mentre il 2) è scrutinabile ma solo nel senso che questa Sezione può qui riportare taluni principi generali relativi al regime proprietario dei beni in questione, il tutto nell'ambito dell’articolata disciplina, legislativa e regolamentare, della gestione e titolarità delle reti di gas.
...
MERITO
Va in primo luogo rimarcato che
la cessione delle reti e degli impianti si inquadra, in termini generali, nella disciplina di diritto comune concernente il patrimonio indisponibile (articolo 826 c.c.), tali dovendo considerarsi i beni in questione, ove di proprietà di enti pubblici e strumentali all'espletamento di un servizio pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a condizione che ne venga mantenuta la destinazione al servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma 2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati (es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).

Con riguardo agli aspetti più specifici, dal punto di vista microeconomico
il servizio di distribuzione del gas configura un “monopolio naturale”, forma di mercato che se non adeguatamente regolata è portatrice di svantaggi per i clienti finali in termini di rapporto tra qualità e prezzo del servizio erogato. La normativa di riferimento, proprio al fine di creare le migliori condizioni per la clientela, si è nel tempo evoluta nel senso dell’abolizione del regime di monopolio (articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 23.05.2000, n. 164 –cd Decreto Letta– “Attuazione della direttiva n. 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell'articolo 41 della legge 17.05.1999, n. 144”).
Le norme hanno dunque disposto la tendenziale liberalizzazione delle “attività di importazione, esportazione, trasporto e dispacciamento, distribuzione e vendita di gas naturale, in qualunque sua forma e comunque utilizzato” e con specifico riguardo all’attività di distribuzione, la liberalizzazione si è concretizzata da un lato nella separazione funzionale tra proprietà degli impianti e gestione degli stessi e dall’altro nell’affidamento del servizio in via esclusiva ma ben limitata nel tempo (massimo 12 anni), il tutto in un quadro che ha avuto ed ha tuttora ad obiettivo anche la riduzione del numero delle reti presenti in ogni ambito territoriale.
L’articolo 14, comma 4 del citato Decreto Letta, dispone che: "Alla scadenza del periodo di affidamento del servizio, le reti, nonché gli impianti e dotazioni dichiarati reversibili, rientrano nella piena disponibilità dell'ente locale. Gli stessi beni, se realizzati durante il periodo di affidamento, sono trasferiti all'ente locale alle condizioni stabilite nel bando di gara e nel contratto di servizio".
La norma in parola distingue i beni preesistenti all'affidamento del servizio, i quali, al termine del medesimo, dovranno rientrare nella disponibilità dell'ente locale, da quelli realizzati nel corso dell'affidamento (di proprietà di privati, dunque) che, secondo quanto previsto dal comma 8, sono trasferiti da un gestore all'altro per effetto del succedersi della gare d'ambito, circolando unitamente alla gestione del servizio di distribuzione.
Nella fase del processo di liberalizzazione la disciplina primaria sopra menzionata è stata ulteriormente integrata (articolo 46-bis del decreto legge 01.10.2007, n. 159, convertito dalla legge 29.11.2007, n. 222) prevedendo la emanazione di un decreto interministeriale finalizzato a disciplinare, in concreto, i criteri per l’affidamento del servizio “tenendo conto in maniera adeguata, oltre che delle condizioni economiche offerte, e in particolare di quelle a vantaggio dei consumatori, degli standard qualitativi e di sicurezza del servizio, dei piani di investimento e di sviluppo delle reti e degli impianti”.
Il risultante DM 12.11.2011, n. 226, definisce, tra l’altro,
le condizioni economiche dei trasferimenti, secondo i seguenti criteri:
   a)
il valore di rimborso degli impianti nella fase transitoria è definito dalle parti convenzionalmente o, in mancanza di accordo, in base al valore industriale della parte di impianto di proprietà del gestore uscente secondo il costo di costruzione a nuovo (VIR);
   b)
il valore di rimborso degli impianti nella fase “a regime”, ai sensi dell’articolo 14, comma 8, del D.Lgs. n. 164/2000, riformulato dall’articolo 24, comma 1, del decreto legislativo 01.06.2011, n. 93, è pari “al valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio di distribuzione e misura, relativo agli impianti la cui proprietà viene trasferita dal distributore uscente al nuovo gestore, incluse le immobilizzazioni in corso di realizzazione, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località, calcolato secondo la metodologia della regolazione tariffaria vigente e sulla base della consistenza degli impianti al momento del trasferimento della proprietà” (RAB).
All’articolo 8, comma 3, lo stesso DM specifica l’obbligo, da parte del nuovo gestore, di corrispondere “annualmente agli Enti locali e alle società patrimoniali delle reti che risultino proprietarie di una parte degli impianti dell’ambito” la remunerazione della RAB.
Come osservato a proposito di questione analoga a quella in trattazione dalla Sezione di controllo della Lombardia (n. 277/2016/PAR),
la differenza tra i due criteri trova la sua ragion d’essere nel fatto che nel periodo transitorio il costruttore e proprietario dell’impianto (in precedenza gestore del servizio) subisce, in seguito alla cessazione ope legis della concessione, una sostanziale ablazione del proprio diritto dominicale e deve essere ristorato della stessa utilità perduta mentre “a regime” l’attribuzione delle proprietà (o della mera disponibilità) degli impianti a rete è definita dall’ente contestualmente all’affidamento del servizio e sorge la più limitata esigenza di remunerare il gestore precedente esclusivamente delle somme investite nell’impianto.
In via eccezionale, tuttavia, il legislatore (sempre nel decreto legislativo n. 93/2011) ha consentito ai primi concessionari del periodo a regime l'ammortamento della differenza tra il valore di rimborso e il valore delle immobilizzazioni nette, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località. Tale adeguamento è operato tramite il riconoscimento nella tariffa da parte della AEEGSI, nel caso lo scostamento tra i due criteri sia superiore al venticinque per cento (deliberazione AEEGSI del 26.06.2014, n. 310).
In definitiva,
per gli enti locali alla scadenza delle concessioni possono di fatto porsi le seguenti tre opzioni:
   a)
l’ente non riscatta l’impianto ma affida al nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR al gestore uscente e la RAB ai successivi;
   b)
l’ente riscatta, se non può beneficiare della devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la titolarità degli impianti di rete per la cui messa a disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento (autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento rispetto al VIR;
   c)
l’ente riscatta l’impianto (sempre se non è prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede la proprietà, con destinazione al servizio di rete, al concessionario vincitore della gara.
E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è intervenuto il MiSE con un “Chiarimento circa la possibilità per gli Enti locali di alienare il proprio asset, costituito dalla rete e dagli impianti di distribuzione del gas naturale” nel quale dopo aver premesso che “non spetta a questo Ministero fornire l’interpretazione di normative primarie riguardanti il regime di gestione dei servizi pubblici locali, nonché il regime di circolazione dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato (…)” chiarisce che “
il valore di trasferimento è pari al valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio di distribuzione e misura, relativo agli impianti che vengono alienati, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località (c.d. RAB), come riconosciuto dall’Autorità nella tariffa valida per la gestione d’ambito e come già spettante all’ente locale in quanto titolare della rete. Pertanto, la decisione dell’ente locale di alienare o meno la rete di proprietà pubblica non deve creare nuovi oneri a carico dei clienti finali del servizio in termini di aumento delle tariffe di distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI. Consegue dunque da tale lettura che
in caso della peraltro obbligatoria cessione della proprietà delle reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si vedrà riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato sulla base della RAB.
In punto di economia e regolamentazione vanno in definitiva rimarcati due elementi:
  
da un lato come, in termini generali, possano ben sussistere contesti caratterizzati da regolazione non simmetrica e ciò proprio al fine di stimolare l’entrata di più competitori sul mercato e quindi maggiore utilità per i consumatori/contribuenti finali;
  
dall’altro come sussistendo una chiara e definita relazione diretta tra valore riconosciuto al (peculiare) bene-rete in sede di cessione e livello delle tariffe che i consumatori pagheranno a fronte dei servizi erogati (più alto il primo, più alte le seconde), ciò che viene a determinarsi, nel caso del riconoscimento della RAB in luogo del VIR, è il trasferimento di un valore a beneficio dell’ente che è si inferiore nel momento in cui si realizza la cessione, ma non se valutato lungo l’intera durata della concessione, dal momento che il più basso valore è a fronte di benefici futuri per i consumatori in termini di più contenuti livelli delle tariffe.
Comunque, al di là delle potenziali disarmonie nel regime transitorio sulle quali questa Sezione non può esprimersi e al di là dell’eventuale incongruenza delle norme esistenti e della presunta disparità di trattamento delle quali i Comuni possono eventualmente lamentarsi nelle sedi appropriate, presso le quali far valore eventuali presunti diritti,
va qui ribadito che sono le norme di contabilità pubblica a disciplinare il valore di iscrizione, nello stato patrimoniale, dei beni del demanio e del patrimonio (allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “
(…) le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili. (…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di produzione, se realizzato in economia (inclusivo di eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio, il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale costo è rettificato nell'ambito delle scritture di assestamento mediante apposita svalutazione. Le rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere accompagnata dal principio di prudenza (allegato 1 relativo ai principi contabili generali e applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118), secondo cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che ribadirsi come
i criteri di iscrizione nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti locali restino disciplinati dalle norme di contabilità pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di eventi che determinino un decremento effettivo del valore del bene.
Resta fermo, peraltro, che
nell’ambito della predisposizione del bilancio preventivo, la valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di influire sulle effettive possibilità di realizzare i proventi derivanti dalla cessione del bene (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 01.12.2016 n. 234).

novembre 2016

PATRIMONIO: Immobile comunale del patrimonio disponibile destinato a farmacia.
Per quanto concerne l'assegnazione in uso a terzi di immobili comunali, la giurisprudenza è costante nel ritenere che la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione amministrativa, mentre l'appartenenza del bene al patrimonio disponibile implica l'utilizzo di negozi contrattuali di diritto privato.
Alla luce del quadro normativo vigente (art. 9, c. 3, L. n. 537/1993; art. 32, c. 8, L. n. 724/1994), che impone la determinazione dei canoni di concessione di immobili ai privati sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato, la gestione dei beni pubblici è improntata al principio di fruttuosità.
Secondo l'orientamento della Corte dei conti, come evoluto negli ultimi anni, le eccezioni alla regola della redditività, sia nel senso di mitigarla che in quello di escluderla, postulano l'assenza dello scopo di lucro in capo ai soggetti privati beneficiari. Va data, ovviamente, in questo caso, esaustiva motivazione della finalità istituzionale perseguita e deve essere compiuta un'attenta valutazione comparativa degli interessi pubblici in gioco.
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, ai fini dell'assegnazione di immobile comunale destinato a farmacia a farmacista libero professionista, sembra venire in considerazione, stante la natura di imprenditore commerciale del farmacista, l'istituto della locazione, nel rispetto della normativa vigente (per un canone corrispondente a quello del valore di mercato).

Il Comune è proprietario di un immobile destinato a farmacia ed appartenente al patrimonio disponibile, a suo tempo concesso in uso gratuito al precedente titolare della farmacia.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di procedere ora, allo stesso modo, all'assegnazione gratuita dell'immobile al nuovo farmacista, libero professionista, considerata l'importanza di avere il servizio di farmacia nel proprio territorio montano -distante dai paesi di fondovalle e la cui scarsa popolazione è composta per lo più da anziani- e comunque di sapere attraverso quale strumento giuridico sia legittimo agire (locazione, comodato, concessione). Il Comune rappresenta, inoltre, l'utilità di assicurare ai residenti ulteriori servizi -consegna farmaci a domicilio, misurazione pressione, uso defibrillatore- per i quali valuterebbe di dare un corrispettivo al farmacista.
In via preliminare, si precisa che l'attività di questo Servizio consiste nel fornire agli enti locali un supporto giuridico generale sulle questioni poste, da cui poter trarre elementi utili per l'individuazione in autonomia della soluzione dei casi concreti, in relazione alle specificità che li connotano. Pertanto, in via collaborativa, si esprimono sul tema in oggetto le seguenti considerazioni.
Il tipo di negozio giuridico da utilizzare per l'affidamento di immobili comunali dipende dalla natura di questi, demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale disponibile.
In particolare, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile dell'immobile determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione amministrativa, mentre per i beni del patrimonio disponibile l'attribuzione in godimento a soggetti terzi deve essere effettuata secondo gli schemi di diritto privato
[1]. La giurisprudenza della Cassazione civile è costante nell'affermare che, a prescindere dalla qualificazione giuridica attribuita dalle parti o dalla pubblica amministrazione al rapporto posto in essere, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile dell'immobile implica l'esistenza di una concessione amministrativa, mentre il rapporto avente ad oggetto il godimento di un bene immobile compreso nel patrimonio disponibile si configura quale locazione [2].
Queste considerazioni portano a ritenere che la concessione in uso dell'immobile comunale, appartenente al patrimonio disponibile dell'Ente (per sua espressa indicazione), vada effettuata a mezzo di negozi contrattuali di diritto privato.
In ordine a quale contratto possa essere utilizzato, in particolare se anche il comodato, la Corte dei conti, nel rimarcare che le concrete scelte gestionali in questo ambito rientrano nell'esclusiva discrezionalità degli enti
[3], ha espresso principi generali, continuando a specificarne i contenuti e le deroghe nel susseguirsi dei suoi pronunciamenti sino ad oggi.
La Corte dei conti ha innanzitutto tratto dal quadro normativo vigente il principio di fruttuosità dei beni pubblici, muovendo dalla lettura combinata delle disposizioni di cui agli artt. 9, comma 3, L. n. 537/1993
[4], e 32, c. 8, L. 724/1994 [5], che impongono la determinazione e l'aggiornamento dei canoni dei beni dati in concessione a privati, sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato, e da cui deriva il principio di gestione del patrimonio pubblico in modo da incrementare le entrate patrimoniali dell'amministrazione [6].
Per la Corte dei conti, infatti, queste norme sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti -come nella specie- di immobili del patrimonio disponibile destinati ad uso commerciale, relativamente ai quali -già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici
[7].
Peraltro, con particolare riferimento al patrimonio disponibile, di interesse nel caso di specie, la Corte dei conti ha formulato ulteriori riflessioni.
Il Giudice contabile osserva in primis che la concessione in uso gratuito di bene immobile del patrimonio disponibile va qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio economico' in favore di soggetto di diritto privato, per cui detto provvedimento deve essere adottato nel rispetto dei principi generali dettati dalla L. n. 241/1990 (art. 12), nonché delle norme regolamentari dell'ente locale. La Corte dei conti osserva, dunque, che non esiste uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di detti beni che appartengono all'ente pubblico iure privatorum.
Tuttavia, l'ente locale nell'esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo.
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo. D'altra parte, la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale
[8].
Successivamente, la Corte dei conti ha assunto una posizione di maggior rigore rispetto alla possibilità di derogare al principio della redditività del patrimonio pubblico.
La Corte dei conti Veneto, deliberazione n. 716/2012, ha osservato che il legislatore stesso ha tracciato i confini delle possibili eccezioni ai principi generali della gestione economica del patrimonio pubblico. In particolare, l'art. 32, comma 8, L. 724/1994, prevede una deroga in considerazione degli 'scopi sociali', mentre l'art. 32, L. n. 383/2000, consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
In questi casi, la mancata redditività del bene è considerata, comunque, compensata dalla valorizzazione di un altro bene ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento nell'art. 2 della Costituzione.
Le predette eccezioni si riferiscono a categorie ben individuate di beneficiari, in relazione alle quali la Corte dei conti fa delle precisazioni. E così, l'art. 32, L. n. 383/2000, consente il comodato a favore delle organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale, secondo la definizione contenuta nell'art. 2 della L. 383/2000, che comprende soggetti costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati.
D'altra parte anche il beneficio previsto dall'art. 32, comma 8, L. 724/1994, va letto -secondo la Corte- in riferimento a quanto previsto dal comma 3 del medesimo articolo, che esclude dall'incremento dei canoni annui dei beni patrimoniali, in questo caso dello Stato, una serie di categorie di soggetti, tra le quali sono comprese anche le associazioni e fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti
[9].
Dalla lettura delle norme in questione -afferma la Corte dei conti Veneto n. 716/2012- 'risulta pertanto evidente che la deroga alla regola della determinazione di canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato [...] appare giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni'.
E sulla base di queste premesse, la Corte dei conti Veneto, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare un canone ridotto rispetto a quello di mercato ad associazioni senza scopo di lucro di interesse collettivo, nel ribadire che l'indirizzo politico e legislativo che si è venuto affermando negli ultimi anni è stato improntato alla valorizzazione del patrimonio pubblico secondo criteri di redditività, formula, tuttavia, nel caso specifico, conclusioni di apertura. E lo fa attesa la natura dell'ente locale di ente a fini generali, e richiamandolo di conseguenza ad assumere le proprie scelte gestionali in considerazione delle proprie finalità istituzionali, attraverso un'attenta valutazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi negli anni precedenti dalla magistratura contabile.
In linea di continuità con la Corte dei conti Veneto n. 716/2012, la Corte dei conti Molise afferma che il comodato di beni del patrimonio disponibile pubblico è da ritenersi ammissibile nei casi in cui sia perseguito un effettivo interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello meramente economico ovvero nei casi in cui non sia rinvenibile alcuno scopo di lucro nell'attività concretamente svolta dal soggetto utilizzatore di tali beni. Su queste premesse, nel caso specifico relativo alla possibilità di stipulare un comodato in favore di una cooperativa sociale ONLUS, la Sezione molisana rimette la scelta gestionale all'ente, previa esaustiva motivazione della finalità di interesse pubblico
[10].
Si osserva, successivamente alla deliberazione della Sezione veneta n. 716/2012, un uniformarsi della giurisprudenza contabile alle osservazioni ivi svolte circa l'assenza dello scopo di lucro in capo ai soggetti per i quali il legislatore ha previsto la possibilità di derogare alla regola della redditività del patrimonio pubblico. Assenza di fine di lucro necessaria, ad avviso della Corte dei conti, tanto per mitigare quanto per escludere detta redditività.
In applicazione di questi principi, nelle fattispecie specifiche sottoposte al suo vaglio, ove i soggetti possibili affidatari dei beni del patrimonio locale sono pp.aa. o soggetti privati connotati dall'assenza di scopo di lucro, la magistratura contabile rimette alla scelta autonoma degli enti la possibilità di determinare il canone di locazione in misura ridotta o di disporre la gratuità dell'utilizzo dell'immobile, ovviamente dando esaustiva motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguite e sulla base di una valutazione ponderata comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi in passato
[11].
L'accertamento della sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto di impresa, è rimesso al prudente apprezzamento dell'ente interessato, in relazione allo scopo e alle finalità perseguite dall'operatore e alle modalità concrete con le quali viene svolta l'attività che coinvolge l'utilizzo del bene pubblico
[12].
Venendo al caso di specie, in via collaborativa, si osserva che la giurisprudenza ha affermato lo status di imprenditore commerciale del farmacista, in considerazione della sua attività di smercio di medicinali e prodotti parafarmaceutici
[13], che rientra nella definizione dell'art. 1470 c.c. e nelle regole tutte della compravendita [14]. Pertanto, alla luce della natura di imprenditore commerciale del farmacista e dell'orientamento giurisprudenziale sulla gestione dei beni pubblici come evoluto negli ultimi anni, sembrerebbe venire in considerazione, per l'affidamento dell'immobile di cui si tratta al nuovo farmacista, il contratto di locazione, nel rispetto della normativa vigente (per un canone corrispondente a quello del valore di mercato).
Per quanto concerne, infine, l'espletamento da parte del farmacista di servizi ulteriori in favore dei residenti, si osserva che la L. n. 69/2009 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi finalizzati all'individuazione di nuovi servizi a forte valenza socio-sanitaria erogati dalle farmacie pubbliche e private nell'ambito del Servizio sanitario nazionale (art. 11).
In attuazione della legge delega, è stato emanato il D.Lgs. n. 153/2009 che ha individuato i nuovi servizi assicurati dalle farmacie previa adesione del titolare della farmacia, tra cui, ad es. la consegna domiciliare dei farmaci (art. 1, comma 2, lett. a, n. 1) e l'utilizzo presso le farmacie di dispositivi semiautomatici per la defibrillazione (art. 1, comma 2, lett. d)
[15].
In considerazione della valenza socio sanitaria dei nuovi servizi, espressamente indicata dal legislatore, si ritiene che gli stessi non possano essere imputati al Comune, deputato allo svolgimento delle funzioni che riguardano i servizi alla persona (art. 13, c. 1, D.Lgs. n. 267/2000
[16]; art. 16, c. 1, L.R. n. 1/2006 [17]), i quali attengono alla sfera sociale e socio-assistenziale [18] e non a quella sanitaria e socio-sanitaria, di competenza del Servizio sanitario.
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[1] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4. La magistratura contabile richiama, in questo senso, la giurisprudenza uniforme di legittimità (tra le altre, Cass. civ., sez. III, 22.06.2004, n. 11608) e amministrativa (tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. V, 06.12.2007, n. 6265, secondo cui, in caso di presenza di un bene del patrimonio disponibile, l'utilizzo della concessione amministrativa non trova alcun fondamento normativo né alcuna giustificazione, ma si risolve solo ed esclusivamente nell'elusione di norme inderogabili poste dal diritto privato).
[2] Cass. civ., sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Cass. civ., sez. III, 19.12.2005, n. 27931.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 09.06.2011, n. 349.
[4] Ai sensi del comma 3 in argomento, 'A decorrere dal 01.01.1994, il canone degli alloggi concessi in uso personale a propri dipendenti dall'amministrazione dello Stato, dalle regioni e dagli enti locali, nonché quello corrisposto dagli utenti privati relativo ad immobili del demanio, compresi quelli appartenenti al demanio militare, nonché ad immobili del patrimonio dello Stato, delle regioni e degli enti locali, è aggiornato, eventualmente su base nazionale, annualmente, con decreto dei Ministri competenti, d'intesa con il Ministro del tesoro, o degli organi corrispondenti, sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato per gli immobili aventi analoghe caratteristiche e, comunque, in misura non inferiore all'equo canone. A decorrere dal 01.01.1995 gli stessi canoni sono aggiornati in misura pari al 75 per cento della variazione accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) dell'ammontare dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e impiegati, verificatesi nell'anno precedente'.
[5] Il comma 8 in argomento prevede che 'A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali'.
[6] Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Lazio 03.05.2004, n. 1737/2004 e 02.03.2009, n. 262/2009.
[7] Corte Conti, sez. II giurisdizionale centrale d'appello, 22/04/2010, n. 149. Nello stesso senso, Corte dei conti, sez. reg. contr. Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170, secondo cui l'obbligo della gestione economica del bene pubblico, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.), del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario.
[8] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 17.06.2010, n. 672 e deliberazione 09.06.2011, n. 349. Nello stesso senso, Corte dei conti Veneto 22.04.2009, n. 33.
[9] Corte dei conti Veneto n. 716/2012. Conforme sull'interpretazione delle norme in argomento, Corte dei conti Puglia n. 170/2013 cit.. La posizione della Corte dei conti Veneto sull'assenza dello scopo di lucro è altresì richiamata dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione 12.12.2014, n. 216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n, 172; Molise deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[10] Corte dei conti Molise n. 1/2015 cit..
[11] Corte dei conti Puglia n. 170/2013 cit. -nel riaffermare dopo la Sezione veneta n. 716/2012 le eccezioni ai principi generali della gestione economica quali quelle espressamente indicate dal legislatore (art. 32, comma 8, L. 724/1994, interpretato alla luce del comma 3 dell'art. 32 medesimo; art. 32, L. n. 383/2000)- nel caso specifico, rimette alla valutazione dell'ente la possibilità di stipulare il comodato in favore di società consortile senza fini di lucro, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici secondo i principi già espressi dalla giurisprudenza contabile in ordine alla gestione dei beni pubblici (in particolare, Corte dei conti Lombardia n. 349/2011, cit.);
Corte dei conti Lombardia n. 172/2014 cit. - nel premettere che la Corte dei conti Veneto n. 716/2012 ha chiaramente evidenziato che la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata solo dall'assenza dello scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni - nel caso specifico, rimette all'ente la scelta gestionale di prevedere tariffe agevolate o la gratuità per l'utilizzo dei beni pubblici in favore di associazioni no profit;
Corte dei conti Puglia n. 216/2014 cit. - richiamata la numerosa giurisprudenza sull'assenza di lucro a giustificazione della deroga al principio generale di redditività del bene pubblico - nel caso specifico, si esprime in senso favorevole alla concessione in comodato alla Guardia di Finanza di un immobile comunale per l'allocazione della relativa caserma;
Corte dei conti Molise n. 1/2015, cit.. Sul principio del riconoscimento di una riduzione del canone concessorio per l'utilizzo di beni pubblici (nel caso demaniali) da parte del privato, a fini di pubblico interesse, da cui il concessionario non tragga alcun lucro, v. anche Consiglio di Stato 03.06.2014, n. 2839, con specifico riferimento alla normativa recata dal Codice della navigazione.
[12] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit.. Conformi: Corte dei conti Lombardia, n. 172/2014, cit.; Corte dei conti Molise n. 1/2015, cit..
[13] Cass. civ., sez. lav., 24.02.1986, n. 1149. Nello stesso senso, Cass. civ., sez. trib., 03.08.2007, n. 17116. Sull'indubbia natura commerciale dell'attività del farmacista, v. anche Consiglio di Stato, sez. III, 25.01.2012, n. 324, e TAR Cagliari, sez. I, 24.02.2010, n. 223.
Inoltre, in generale, in ordine al concetto di impresa, la Cassazione civile, sez. trib., 16.07.2010, n. 16722, richiama la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, nell'ambito del diritto alla concorrenza, secondo cui la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un'attività economica (Corte di giustizia UE, sez. VI, 23.04.1991, n. 41 e 11.12.1997, n. 55), e costituisce un'attività economica qualsiasi attività consistente nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato (Corte di giustizia UE, sez. V, 18.06.1998, n. 35).
[14] Ai sensi dell'art. 122, R.D. 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del Testo unico delle leggi sanitarie) oggetto prevalente dell'attività del farmacista è la vendita di medicinali «messi in commercio già preparati e confezionati».
[15] D.Lgs. 03.10.2009, n. 153, in attuazione del quale sono stati emanati i DM 16.12.2010, il DM 08.07.2011 e il DM 11.12.2012.
[16] 'Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito al altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le relative competenze'.
[17] 'Il comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali'.
[18] V. art. 6, L. n. 328/2000, secondo cui i comuni sono titolari delle funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale e v. altresì art. 10, L.R. n. 6/2006, secondo cui i comuni sono titolari delle funzioni amministrative concernenti la realizzazione del sistema locale di interventi e servizi sociali
(21.11.2016 -
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ottobre 2016

PATRIMONIO: Applicabilità dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 sulle operazioni di acquisto di immobili da parte dei Comuni al contratto di transazione.
1) L'art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, sulle operazioni di acquisto di beni immobili, pare non potere trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione.
Tuttavia, nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l'intervento legislativo in discorso, appare necessario che l'ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall'indicata normativa.
2) Quanto all'individuazione dell'organo comunale competente all'approvazione dell'atto di transazione, comportante il trasferimento della proprietà di beni immobili, si ritiene che lo stesso debba individuarsi nel consiglio comunale.

Il Comune chiede un parere in merito all'applicabilità dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, sulle operazioni di acquisto di immobili da parte dei Comuni, a contratti di transazione che lo stesso dovrebbe stipulare con dei privati, tra le cui reciproche concessioni vi sarebbe anche il trasferimento della proprietà di beni immobili in capo all'Ente locale.
Desidera, altresì, sapere a quale organo competa l'approvazione dell'atto di transazione avente tale natura traslativa.
L'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011, n. 98 convertito con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 15.07.2011, n. 111 recita: 'A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente'.
In via preliminare, si osserva che il contratto di transazione, ai sensi dell'articolo 1965 c.c. è quello 'col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro'.
Si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive che assume natura traslativa tutte le volte in cui l'oggetto delle reciproche concessioni consiste nel trasferimento della proprietà o di altro diritto reale.
La transazione può avere i contenuti più vari. Nel caso di specie da essa scaturirebbe anche il trasferimento della proprietà di beni immobili che verrebbero acquistati dalla pubblica amministrazione.
Con specifico riferimento all'applicabilità, ad un contratto di transazione avente effetti traslativi di diritti reali, della norma di cui all'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 si è espressa la Corte dei Conti Lombardia, con la delibera 24.09.2015, n. 310, ove, a seguito di un articolato iter argomentativo, cui si rimanda, si afferma che: «[...] la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all'acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, posta dall'art. 12, comma 1-ter, del D.L. n. 98 del 2011, convertito dalla L. n. 111 del 2011, introdotto dall'art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione. Naturalmente, nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l'intervento legislativo in discorso, appare necessario che l'ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall'esposta normativa. In particolare, sotto il profilo della "indispensabilità e indilazionabilità" dell'acquisizione di un immobile, risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione alla stipula della transazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta necessario porre fine ad una controversia mediante la necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal protrarsi del contenzioso. Per quanto riguarda, inoltre, l'apposita attestazione di congruità, anche se non appare necessario, alla luce della differente conformazione della fattispecie transattiva (in cui è assente un "prezzo" di acquisto, di cui occorre valutare la "congruità"), l'intervento di apposita stima da parte dell'Agenzia del Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia certificata dagli appositi uffici tecnici interni, costituendo elemento della complessiva stima di convenienza economica dell'accordo transattivo (sul quale, in generale, va naturalmente assunto specifico parere dell'avvocatura interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di legge o regolamentari). Infine, si ritiene necessario, non risultando incompatibile con la struttura dell'operazione transattiva, l'apposita pubblicazione, con indicazione del soggetto alienante, dell'immobile acquisito e degli altri elementi essenziali dell'accordo transattivo, nel sito istituzionale dell'ente».
In altri termini la Corte, nel far notare come la disposizione in commento, a differenza di quanto disposto per il 2013, non limita le operazioni di acquisto di beni immobili ma le subordina ad una serie di condizioni e modalità specificamente indicate in legge, afferma come, nel caso del contratto di transazione, che comporti il trasferimento della titolarità di beni immobili, non sia, per certi versi, possibile il rispetto formale e pedissequo dei presupposti indicati nel summenzionato articolo 12, comma 1-ter del D.L. 98/2011. Pur tuttavia, da quanto emerge nell'indicata delibera l'Ente dovrà cercare nei limiti del possibile di rispettare le condizioni tutte indicate nella norma.
[1]
In generale, in favore del rispetto delle condizioni indicate nell'articolo in commento, si rileva come la Corte dei Conti, Regione Piemonte,
[2] in una recente delibera, abbia affermato, benché con riferimento ad una differente fattispecie, [3] che: 'L'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, si applica a tutti gli acquisti di immobili posti in essere dopo l'01/01/2014, indipendentemente dalla natura dell'operazione d'acquisto (e, quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal momento in cui quest'ultima sia stata eventualmente deliberata dal competente organo (il Consiglio, ex art. 42 TUEL), purché il momento perfezionativo dell'acquisto si determini successivamente all'01.01.2014'. [4]
Si fa presente, anche alla luce di quanto sopra esposto, che non è dato conoscere l'orientamento della Corte dei Conti del Friuli Venezia Giulia sull'argomento, di talché si suggerisce all'Ente di assumere un atteggiamento particolarmente prudenziale che si concreterebbe nel rispettare, nei limiti del possibile, in coerenza alle considerazioni sopra espresse, la norma di legge in commento.
Passando a trattare della seconda questione posta, consistente nell'individuazione dell'organo comunale competente all'approvazione dell'atto di transazione in riferimento, si ritiene che lo stesso debba individuarsi nel consiglio comunale. Infatti, l'articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nell'individuare gli atti di competenza consiliare, alla lett. l), ricomprende gli acquisti e le alienazioni immobiliari.
Si può, pertanto, ritenere che sia necessaria una deliberazione consiliare che si esprima in merito alla transazione di cui trattasi, atteso l'oggetto della stessa consistente nell'acquisto di beni immobili.
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[1] Si veda, anche, il parere dell'Anci del 19.02.2014, ove, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, l'Associazione suggerisce di procedere con estrema cautela, anche in considerazione del fatto che la Corte dei conti molto probabilmente sarà chiamata a verificare come e in che misura le disposizioni citate verranno applicate al caso in concreto.
In tale parere, e in un'ottica più prudenziale rispetto a quella fatta propria dalla Corte dei Conti Lombardia, con la delibera 310/2015, si afferma che: «Chi scrive ritiene prudente ed opportuno [...] acquisire 'la congruità del prezzo attestata dalla agenzia del Demanio'. Poi, nel caso di differenze rispetto ai valori inseriti nella transazione, l'ente dovrà cercare di motivarne la ragione e la convenienza da parte dell'amministrazione».
[2] Corte dei Conti Piemonte, sez. contr., delibera del 19.02.2016, n. 18.
[3] Si trattava di un caso di contratto di permuta senza conguagli (c.d. permuta 'pura').
[4] Si ritiene di interesse rilevare che la questione della applicabilità al contratto di permuta 'pura' dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 non è univocamente risolta dalle delibere di Corte dei Conti che si sono espresse sull'argomento.
Così la stessa Corte dei Conti Piemonte si era espressa nel senso dell'esclusione della permuta pura dall'ambito di applicazione dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 nella delibera del 28.10.2014, n. 203. Anche la delibera della Corte dei Conti Veneto, del 04.05.2016, n. 264, che richiama una precedente delibera di altra Corte dei Conti, ha affermato che: «L'ambito oggettivo d'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, non comprende la permuta "pura", cioè quella in cui non vi sono conguagli in denaro, giacché la norma si applica a quei contratti che determinano una spesa a carico dell'ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, la Sezione Emilia Romagna, con Delib. n. 80 del 2015, ha però precisato che "l'applicabilità della previsione di cui al ripetuto art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011 si deve considerare sussistente ogni qualvolta, a seguito dell'acquisizione, l'amministrazione pubblica sia chiamata ad un esborso finanziario, ancorché lo stesso discenda unicamente dalle obbligazioni tributarie che l'atto traslativo comporta"».
La delibera della Corte dei Conti Lombardia 310/2015, nell'affrontare la questione dell'applicabilità della norma in riferimento al contratto di transazione, riporta, tra gli altri, quale esempio di esclusione dall'ambito applicativo dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, proprio il contratto di permuta 'pura', cioè senza conguaglio
(11.10.2016 -
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agosto 2016

PATRIMONIO: La locazione dell'immobile comunale.
DOMANDA:
L’ente intende concedere in locazione una porzione immobile per uso socio-sanitario all'interno di una RSA - casa di riposo.
Si chiede che tipo di gara espletare anche in termini di pubblicità, tenuto conto che la locazione immobile è appalto escluso codice art. 17, ma l’affidamento verrà aggiudicato con l’offerta economicamente più vantaggiosa che terrà conto del canone e che premi anche l’idea di gestione (es. centro per malati terminali o per dialisi ecc.) e che pertanto la gestione successiva potrebbe avere un valore economico importante per il privato attualmente non definibile di rilevanza pubblica anche se la gestione rimarrà privata.
RISPOSTA:
Come noto, i contratti di compravendita o locazione di immobili stipulati dalle pubbliche amministrazioni sono sottratti all’applicazione delle norme codicistiche. In tal caso, infatti, non avendo il contratto ad oggetto lavori, servizi o forniture, l’amministrazione procedente agisce iure privatorum, al di fuori dell’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici. Inoltre, diversamente dagli appalti, il contratto di affitto è riconducibile nel novero dei contratti attivi, secondo la tradizionale distinzione operata dalla legge di contabilità generale dello Stato.
Per completezza si rileva che l’ipotesi non ricade neppure nella definizione di cui alla lett. a) dell’art. 17 del (nuovo) codice degli appalti (d.lgs. 50/2016) concernente gli appalti e le concessioni di servizi esclusi, giacché la stessa si riferisce solo alle fattispecie nelle quali la stazione appaltante stipula un contratto di locazione nella veste di conduttore. Inoltre, anche a voler inquadrare la fattispecie de quo come concessione, in quanto gestione di un servizio di rilevanza pubblica (centro per malati terminali o per dialisi ecc) con un ritorno economico importante, si ricorda che le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni aventi ad oggetto attività non contemplate nell’all. II, tra cui i servizi sociali, culturali e sportivi.
L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica (art. 4). Le modalità per procedere ad una locazione attiva dovrebbero pertanto essere stabilite dal regolamento dei contratti o da altro eventuale atto regolamentare che si è dato l’ente; e la scelta del contraente deve comunque avvenire nel rispetto del principio della concorrenza.
Pertanto, in ogni caso, il responsabile del provvedimento, deve dare informazione sul sito dell’amministrazione attraverso la pubblicazione di un bando, nel quale si precisano le condizioni (soggetti che possono accedere all’affitto, eventuali priorità, durata del contratto di affitto, criteri per l’affidamento del contratto, ecc) ed i tempi entro i quali fare pervenire le offerte (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti pubblici) - Circolare in diramazione (MIBACT, Segretariato Generale, circolare 10.08.2016 n. 38).

PATRIMONIO: Iniziative di partenariato pubblico-privato nei processi di valorizzazione dei beni culturali (Corte dei Conti, Sez. centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, deliberazione 04.08.2016 n. 8).
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Si legga di interesse:
IL QUADRO NORMATIVO
Sommario: 1. La sponsorizzazione: definizione e tipologie. - 2. Il contratto di sponsorizzazione nel d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici). - 3. Il contratto di sponsorizzazione nel d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio). - 3.1. La disciplina speciale dei contratti di sponsorizzazione di lavori, servizi e forniture aventi ad oggetto beni culturali. - 4. Le linee guida ministeriali (d.m. 19.12.2012). - 5. La circolare n. 28 del 17.06.2016. - 6. Il trattamento fiscale. - 7. Gli aspetti finanziari. - 8. La finanza di progetto (project financing). - 9. Osservazioni.

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti pubblici) (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 03.08.2016 n. 23305 di prot.).

PATRIMONIO: Riduzione del canone di locazione passiva. Immobili ad uso istituzionale.
Trattando delle previsioni di riduzione del canone di locazione passiva, di cui all'art. 3 del D.L. 95/2012 conv. in L. 135/2012, la Corte dei conti, chiamata a stabilire che cosa debba intendersi per 'immobili istituzionali', dopo aver premesso di poter fornire solo «indicazioni di carattere generale che andranno poi calate nella realtà comunale», ha affermato che «Gli immobili destinati ad uso istituzionale sono tutti quelli adibiti allo svolgimento di funzioni, servizi o attività gestite dall'amministrazione per far fronte alle proprie finalità, quali determinate dalla legge e dallo statuto», precisando che «In generale, quindi, occorre valutare se l'immobile sia destinato all'esercizio delle funzioni istituzionali dell'ente e sarà cura del Comune individuare specificamente a quali immobili riferire la disposizione in oggetto».
Il Comune, che intende rinnovare un contratto di locazione passiva concernente un edificio concesso in uso ad alcune associazioni presenti sul territorio e adibito a sedi sociali, ritiene che al contratto medesimo debba trovare applicazione la riduzione del canone prevista, per gli immobili 'a uso istituzionale', dall'articolo 3, comma 4
[1], del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, sul presupposto che 'l'utilizzo dei locali a favore delle associazioni è espressione della più ampia funzione amministrativa relativa all'associazionismo, di cui l'ente locale è titolare'.
Poiché il locatore eccepisce che l'utilizzo dell'immobile non sarebbe finalizzato all'espletamento di funzioni istituzionali, il Comune chiede di conoscere se la propria diversa interpretazione sia condivisibile.
Sulla questione volta a stabilire che cosa debba intendersi per 'immobili istituzionali' si segnala l'intervento della Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Toscana
[2] la quale, dopo aver premesso che «sul punto non possono che essere fornite indicazioni di carattere generale che andranno poi calate nella realtà comunale», ha affermato che «Gli immobili destinati ad uso istituzionale sono tutti quelli adibiti allo svolgimento di funzioni, servizi o attività gestite dall'amministrazione per far fronte alle proprie finalità, quali determinate dalla legge e dallo statuto; tali, a titolo esemplificativo, quelli dove si trovano la sede degli uffici, delle aziende o delle scuole comunali».
La Corte ha, inoltre, chiarito che «In generale, quindi, occorre valutare se l'immobile sia destinato all'esercizio delle funzioni istituzionali dell'ente e sarà cura del Comune individuare specificamente a quali immobili riferire la disposizione in oggetto».
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[1] Si riporta, di seguito, il testo del comma 4, come modificato, da ultimo, dall'articolo 24, comma 4, lett. a), del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89:
«Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data dell'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle seguenti condizioni:
a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d'uso, per il periodo di durata del contratto di locazione;
b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui dell'articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti, nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti.».
Si rammenta che il comma 7 del medesimo articolo, nel testo sostituito dall'articolo 24, comma 4, lett. b), del D.L. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 89/2014, ha disposto l'estensione delle previsioni contenute nei commi da 4 a 6 a tutte le altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto compatibili.
[2] V. deliberazione n. 265/2014/PAR del 17.12.2014
(01.08.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

luglio 2016

PATRIMONIO: Acquisizione immobile.
La disposizione di cui all'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche amministrazioni un regime di limitazione per gli acquisti di immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ha di recente affermato la sottrazione delle acquisizioni di immobili mediante procedura espropriativa per pubblica utilità dal campo di applicazione del comma 1-ter, argomentando, tra l'altro dall'art. 10-bis, DL n. 35/2013, che ha escluso le procedure espropriative dal divieto di acquisto di immobili previsto dal comma 1-quater del suddetto art. 12, per l'anno 2013, e dall'essere i presupposti dell'indispensabilità e indilazionabilità, richiesti dal comma 1-ter per la legittimazione degli acquisti, insiti all'interno della disciplina delle espropriazioni.
Altro orientamento della Corte dei conti ha invece osservato come dall'art. 10-bis richiamato non risultino individuate eccezioni alle previsioni del comma 1-ter, affermando peraltro la sottrazione al divieto di acquisto di immobili ivi previsto delle procedure espropriative già in corso.

Il Comune, interessato ad acquistare un immobile vincolato ai sensi della D.Lgs. n. 42/2004
[1] e attualmente posto all'asta dal curatore fallimentare, chiede se può procedere, tenuto conto dei limiti in materia posti dalla normativa statale vigente [2], ipotizzando in particolare la possibilità di ricorrere alla procedura espropriativa (D.P.R. n. 327/2001 [3]) o all'acquisto in via di prelazione, da attuarsi ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 [4].
L'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011
[5], prevede che, a decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli già previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità [6] attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio [7].
A fronte del quadro normativo richiamato, l'Ente ipotizza l'acquisizione dell'immobile mediante procedura espropriativa, ai sensi del D.P.R. n. 327/2001, o esercitando il diritto di prelazione, ai sensi dell'art. 60, D.Lgs. n. 42/2004.
La procedura espropriativa, come modalità di acquisizione di immobili da parte delle p.a., è stata posta dal legislatore come fattispecie derogatoria alla previgente norma di divieto di acquisto di immobili di cui al comma 1-quater dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011.
Con l'art. 10-bis, del D.L. n. 35/2013, inserito dalla legge di conversione 06.06.2013, n. 64, il legislatore ha, infatti, dettato una norma di interpretazione autentica dell'art. 12, comma 1-quater, D.L. n. 98/2011, escludendo dal divieto di acquisto ivi previsto, tra l'altro, le 'procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327'
[8].
Sulla riconducibilità dell'istituto dell'espropriazione per pubblica utilità nell'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente non vi è ad oggi un orientamento univoco in seno alla magistratura contabile.
Al riguardo, si è pronunciata espressamente, di recente, la Corte dei conti Lombardia
[9], nel senso di escludere la procedura espropriativa per pubblica utilità dal campo di applicazione del comma 1-ter, argomentando da una serie di considerazioni.
In particolare: dal tenore letterale della norma, che fa riferimento alle sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto e quindi ai soli acquisti a titolo derivativo in esito a un procedimento contrattuale e non si applica quindi alle procedure espropriative; dal fatto che l'indennizzo riconosciuto al proprietario espropriato e il prezzo di acquisto non sono sovrapponibili; dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, richiamato che attesta la volontà del legislatore di escludere dalla disciplina limitativa dell'acquisto di beni immobili da parte, tra l'altro, degli enti territoriali, le procedure espropriative; dal fatto che l'applicazione del comma 1-ter alle procedure espropriative verrebbe a modificare una disciplina speciale rispetto alla generale disciplina degli acquisti di beni delle p.a. ed a introdurre delle limitazioni a funzioni fondamentali dell'ente, quali quelle della programmazione del territorio e della pianificazione urbanistica; dal fatto che limiti alla potestà espropriativa pubblica avrebbero dovuto essere espressamente individuati dal legislatore, in virtù della riserva di legge in materia di cui all'art. 42 della Costituzione.
Considerazioni, queste, che portano la Corte dei conti Lombardia ad escludere dal campo di applicazione della norma vincolistica di cui al comma 1-ter le procedure di espropriazione per pubblica utilità. Con la precisazione, peraltro, dell'essere i presupposti dell'indispensabilità e indilazionabilità insiti all'interno della disciplina delle espropriazioni
[10].
Peraltro, va segnalato anche l'orientamento della Corte dei conti Piemonte, la quale, successivamente alla norma di interpretazione autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, osserva che per quanto riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere state identificate eccezioni, alle condizioni ivi indicate, in sede d'interpretazione autentica. Ed invero, nel caso sottoposto al suo esame, la Corte dei conti ritiene escluso dall'applicazione del comma 1-ter il procedimento ablativo, per la circostanza specifica di essere questo già in corso e già nello stadio successivo all'approvazione del progetto definitivo e alla dichiarazione di pubblica utilità, in una fase cioè, in cui risulta in re ipsa integrato il requisito di indispensabilità e indilazionabilità richiesto dal comma 1-ter citato
[11].
Venendo all'istituto del diritto di prelazione, in mancanza di una norma o di indicazioni ministeriali che valgano a conciliare il suo esercizio con l'acquisto di immobili vincolato al rispetto delle condizioni previste dal comma 1-ter, ci si rifà ancora alle riflessioni offerte dalla giurisprudenza.
Prima dell'intervento della norma di interpretazione autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis richiamato, la Corte dei conti ha ritenuto che tale comma introducesse una fattispecie di impossibilità giuridica sopravvenuta per factum principis preclusiva all'esercizio dei diritti di prelazione per l'anno 2013 e che, negli esercizi successivi, anche questa tipologia di acquisti immobiliari dovesse soggiacere al requisito dell'indispensabilità e indilazionabilità
[12].
Successivamente all'introduzione dell'art. 10-bis, la Corte dei conti ha affermato che l'esercizio del diritto di prelazione in favore degli enti pubblici territoriali, dettato dall'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004, 'deve ritenersi sottratto dal campo di applicazione della norma introdotta dal comma 138 della legge di stabilità 2013 che vieta l'acquisto di immobili a titolo oneroso poiché espressione di una potestà autoritativa di preminente rilevanza pubblica dell'amministrazione che non si colloca in posizione di parità con i privati'
[13].
Peraltro, la pronuncia di apertura della Corte dei conti sembra essere riferita al solo comma 1-quater, mentre con specifico riferimento al vigente comma 1-ter non si rinvengono deliberazioni specifiche nel senso di ritenere escluso dal suo ambito di applicazione gli acquisti in via di prelazione.
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[1] D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, recante: 'Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137'.
[2] Il Comune precisa di non disporre di contributo regionale per l'acquisto di detto immobile, sicché non può venire in considerazione la normativa regionale di cui all'art. 11, comma 11, L.R. n. 5/2013, secondo cui le disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
[3] D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante: 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. (Testo A)'.
[4] L'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004 disciplina l'acquisto in via di prelazione degli enti territoriali.
[5] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da parte delle pp.aa., contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012 (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia, deliberazione 05.03.2014, n. 97) e su cui era intervenuta una norma di interpretazione autentica (art. 10-bis, c. 1, D.L. n. 35/2013), di cui si dirà nel prosieguo.
[6] Sul piano della casistica, la Corte dei conti ha ritenuto legittimi gli acquisti di immobili, ai sensi del comma 1-ter, ove realizzati a conclusione di procedimenti espropriativi in corso, sul presupposto che la loro instaurazione sia stata giustificata proprio dalla necessità di soddisfare interessi pubblici assolutamente primari (Cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr. Liguria, 25.01.2013, n. 9; Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402).
[7] Con la previsione dell'attestazione del prezzo da parte dell'Agenzia del demanio, il legislatore ha inteso tutelare l'Amministrazione procedente con riferimento alla puntuale determinazione del prezzo d'acquisto, affidando la congruità dell'importo ad un soggetto terzo e altamente qualificato in materia di attività tecnico-estimali (Cfr. Agenzia del demanio, circolare n. 29348 del 09.12.2013).
[8] Si riporta il testo dell'art. 10-bis in commento: 'Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali'.
[9] Corte dei conti Lombardia, 05.03.2014, n. 97, che richiama in tal senso Corte dei conti Veneto deliberazione 12 giugno 2013, n. 148, che già si era espressa nel senso di escludere dal campo di applicazione del comma 1-ter le procedure espropriative.
[10] La Corte dei conti Lombardia osserva, al riguardo, che all'interno del procedimento espropriativo trovano adeguata considerazione le prerogative enunciate dal comma 1-ter dell'indispensabilità e indilazionabilità, quali legittimanti le operazioni di acquisto di beni immobili. Ai sensi dell'art. 42, co. 3, Cost., infatti, l'espropriazione è consentita nei casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale: interesse pubblico che deve essere attuale e 'indispensabile per far fronte a bisogni che, pure se destinati a concretarsi in futuro e a essere soddisfatti soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che valga a far considerare necessario e tempestivo il sacrificio della proprietà privata nell'ora presente' (Corte costituzionale 06.07.1996, n. 90, richiamata dal magistrato contabile lombardo).
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402, la quale osserva che la ratio della deroga, espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative, risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive condizioni di cui al comma 1-ter.
[12] Corte dei conti, sez. reg. contr., Liguria, 25.01.2013, n. 9, richiamata da Corte dei conti, sez. reg. contr., Basilicata 05.03.2013, n. 36.
[13] Corte dei conti, sez. reg. contr., Puglia, deliberazione 19.09.2013, n. 143, la quale ricorda di avere ritenuto escluse dal divieto di acquisto di immobili a titolo oneroso, per l'anno 2013, le procedure espropriative ancor prima che lo esplicitasse il legislatore, proprio sostenendo il riferimento di detta norma ai soli casi in cui le amministrazioni pubbliche agiscono iure privatorum al pari dei soggetti privati (il riferimento è a Corte dei conti, sez. reg. contr., Puglia, 03.05.2013, n. 89)
(06.07.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: L'affidamento del centro sportivo.
DOMANDA:
Questo Ente intende affidare la gestione del Centro Sportivo Comunale con annesso Bar per n. 5 anni, prevedendo una base d'appalto di euro 163.000,00, quindi sotto soglia.
Detto appalto facente parte dell'ex Allegato IIB dlgs. 163/2006, ora abrogato, da pareri online, dovrebbe rientrare tra gli appalti di servizi sociali e di cui all'allegato IX del D.LGS. 50/2016.
Si chiede se: 1) nell'attuale fase transitoria, la procedura corretta è indagine di mercato con pubblicazione sul sito del committente seguita da procedura negoziata con n. 5 operatori minimi da invitare se rinvenibili; 2) Procedura aperta con pubblicazione sul sito dell'Ente e con quali altre forme?
Si chiede se sia obbligatorio che le procedure suddette debbano essere gestite da una centrale di committenza qualificata o, in alternativa, ricorrendo agli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici tipo SINTEL, oppure, vista la tipologia dei presunti concorrenti, con la vecchia procedura cartacea?
RISPOSTA:
Va preliminarmente ricordato che, in via generale, trattandosi di comune non capoluogo di provincia, dovrebbe trovare applicazione il comma 4 dell’art. 37 del nuovo codice degli appalti il quale dispone: ”se la stazione appaltante è un comune non capoluogo di provincia, fermo restando quanto previsto al comma 1 e al primo periodo del comma 2, procede secondo una delle seguenti modalità: - a) ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati; - b) mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall'ordinamento; - c) ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso gli enti di area vasta ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56”.
Va ricordato peraltro che il comma 1 ed il primo periodo del comma 2 sopra cit. prevedono che:
   - “1. Le stazioni appaltanti, fermi restando gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa, possono procedere direttamente e autonomamente all'acquisizione di forniture e servizi di importo inferiore a 40.000 euro e di lavori di importo inferiore a 150.000 euro, nonché attraverso l'effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto messi a disposizione dalle centrali di committenza. Per effettuare procedure di importo superiore alle soglie indicate al periodo precedente, le stazioni appaltanti devono essere in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell'articolo 38”.
   - “2. Salvo quanto previsto al comma 1, per gli acquisti di forniture e servizi di importo superiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, nonché per gli acquisti di lavori di manutenzione ordinaria d'importo superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro, le stazioni appaltanti in possesso della necessaria qualificazione di cui all'articolo 38 procedono mediante utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate secondo la normativa vigente”.
L’ANAC ha peraltro recentemente chiarito, con un proprio comunicato, che i comuni non capoluogo di provincia possono procedere all’acquisizione di servizi di importo inferiore a 40 mila euro direttamente ed autonomamente ovvero attraverso l’effettuazione di ordini a valere sugli acquisti messi a disposizione dalle centrali di committenza mentre per affidamenti di importi superiori deve essere in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell’art. 38, ricordando però che, nel periodo transitorio, questa si intende sostituita dall’iscrizione all’AUSA (Anagrafe Unica Stazioni Appaltanti) di cui all’art. 33-ter, DL 18.12.2012 n. 179).
Ciò rilevato in via preliminare, si osserva che se si tratti, come riferito nel quesito, di un affidamento di un appalto di un servizio rientrante nell’ambito di cui all’allegato IX del codice (servizi sociali), questo risulta ora escluso dall’applicazione del codice se di importo superiore alla soglia di 750 mila euro di cui al comma 1, lett. d), del cit. art. 35, come chiarito sempre dall’ANAC nel comunicato suindicato.
Pertanto si dovrebbe concludere che nella fattispecie, se riguardante un affidamento di un servizio di natura sociale di importo inferiore a tale soglia, non dovrebbero trovar luogo nemmeno, in particolare, gli obblighi aggregativi di cui all’art. 37, comma 4, previsti in generale per l’affidamento degli altri servizi ordinari.
Trovano invece luogo i principi generali di cui all’art. 30, comma 1, richiamato dall’art. 36 e le procedure ivi previste, tra cui quella di cui alla lett. b) del comma 2 secondo cui si procede “per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti. I lavori possono essere eseguiti anche in amministrazione diretta, fatto salvo l'acquisto e il noleggio di mezzi, per i quali si applica comunque la procedura negoziata previa consultazione di cui al periodo precedente. L'avviso sui risultati della procedura di affidamento, contiene l'indicazione anche dei soggetti invitati”.
Trovano applicazione inoltre per tale tipo di appalti le disposizioni di cui agli artt. 142 e 143 del codice (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: L'iva per l'utilizzo di immobili comunali.
DOMANDA:
Premesso che questa amministrazione è proprietaria di un immobile di due piani, dove il primo piano è adibito ad poliambulatorio ed affittato a medici privati e pertanto assoggettato ad attività commerciale a regime di esenzione.
Tenuto conto che il secondo piano verrà assegnato ad uso condiviso ad associazioni locali, senza alcun canone di affitto ma con il solo rimborso forfettario di parte delle spese per le utenze di energia elettrica e riscaldamento, si chiede di conoscere se l'attività di assegnazione dei locali assume la caratteristica di attività commerciale pur in assenza di un canone di affitto determinato.
RISPOSTA:
Si osserva preliminarmente che la mancanza di un contratto di locazione, concessione in uso e simili, a titolo oneroso, esclude la sussistenza dell’esercizio di attività economica, cioè finalizzata allo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità (art. 9, parag. 2, della direttiva IVA comunitaria 2006/112/Ce).
Nel caso di specie il Comune procede al mero riaddebito, peraltro parziale, delle spese accessorie alla conduzione (gratuita) dell’immobile. In tal caso, quindi, enunciando il principio IVA comunitario contenuto nella norma sopra richiamata, non sussiste quel minimo di organizzazione di mezzi preordinata alla percezione di corrispettivi con carattere di continuità che caratterizza un’attività economica. Conseguentemente, i riaddebiti non devono essere fatturati.
Qualora il Comune procedesse non soltanto al riaddebito delle utenze ma anche all’addebito di un complesso di ulteriori servizi organizzati specificamente dal Comune (p.e. pulizie, sorveglianza, custodia, etc.), si rientrerebbe invece nel campo di applicazione dell’IVA sussistendo quel minimo di attività organizzata sopra citata. Si aggiunge che è necessario verificare preliminarmente se l’acquisto dell’immobile è stato immesso tra le attività commerciali rilevanti IVA del Comune tramite l’esercizio della detrazione dell’IVA.
In caso positivo la destinazione permanente ad assegnazione gratuita alle associazioni comporterebbe l’obbligo per il Comune di operare la rettifica della detrazione ai sensi dell’art. 19-bis2, c. 3, del DPR 633/1972, vale a dire la restituzione dell’IVA detratta su acquisti di beni destinati a finalità estranee all’esercizio di attività commerciali successivamente all’acquisto (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

giugno 2016

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Sponsorizzazione di beni culturali — articolo 120 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 — articoli 19 e 151 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 - nota circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 09.06.2016 n. 17461 di prot.).
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Sommario: 1. Premessa - 2. Rinvio per le nozioni generali alle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G.U. 12.03.2013, n. 60 - 3. La semplificazione (in sintesi) - 4. Proposta di sponsorizzazione; vaglio preliminare e favor per l'accoglimento - 5. La pubblicazione dell'avviso sul sito istituzionale - 6. La ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale - 7. Scelta dello sponsor - 8. Stipula del contratto di sponsorizzazione - 9. La disciplina di cui all'art. 151 - 10. Modalità contabili e regime fiscale (cenni) - 11. Le forme speciali di partenariato pubblico-privato nel campo dei beni culturali.

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Il nuovo codice dei contratti pubblici, nell'ottica di favorire il sostegno all'azione pubblica in campo culturale e la realizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale, semplifica notevolmente le procedure relative all'acquisizione di sponsor per interventi di tutela e valorizzazione dei beni culturali, in attuazione di uno specifico criterio direttivo contenuto nella legge delega.
In considerazione delle novità apportate dal nuovo codice rispetto alla precedente disciplina, esplicitata nelle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G. U. 12.03.2013, n. 60, si ritiene opportuno fornire, con la nota circolare allegata, i primi indirizzi applicativi utili per facilitare e incoraggiare il ricorso a tale istituto da parte degli uffici ministeriali.
In particolare, si prendono in considerazione i profili concernenti la semplificazione delle procedure, la valutazione preliminare della proposta di sponsorizzazione e il favor per l'accoglimento, la pubblicazione dell'avviso sul sito istituzionale (del quale viene fornito un modello), la ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale, la scelta dello sponsor, la stipula del contratto di sponsorizzazione, la disciplina di cui all'articolo 151 in tema di sponsorizzazione di beni culturali e di partenariato pubblico-privato nel campo dei beni culturali, fornendo alcuni cenni riguardo al regime contabile. Vengono inoltre evidenziate quali parti (consistenti in sostanza nelle nozioni di carattere generale) delle citate Linee guida conservano validità ed efficacia anche a seguito dell'introduzione della nuova procedura semplificata.
La successiva diramazione della circolare, a cura di codesto Segretariato, ai competenti uffici centrali, unitamente alla diffusione, da parte dei medesimi uffici, di ulteriori e specifici indirizzi operativi agli uffici periferici, assicurerà la pronta e corretta applicazione delle nuove procedure, al fine dell'auspicabile potenziamento dell'istituto della sponsorizzazione. (...continua).

maggio 2016

PATRIMONIO: Affrancazione di terreni comunali gravati da livello.
L'affrancazione consiste nell'acquisto della proprietà da parte dell'enfiteuta e si opera mediante il pagamento di una somma risultante dalla capitalizzazione del canone annuo sulla base dell'interesse legale.
La disciplina relativa al calcolo dei canoni è stabilita da due leggi speciali le quali indicano quali parametri di riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le enfiteusi anteriori al 28.10.1941 e la quindicesima parte dell'indennità di esproprio prevista dalle leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte successivamente. In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco sia determinato in misura pari a quindici volte il canone.
A seguito di una serie di pronunce della Corte Costituzionale, la determinazione del canone deve essere aggiornata, rispetto alle modalità indicate nelle leggi speciali, mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica.

Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede di sapere quale sia la procedura da seguire per consentire l'affrancazione di terreni comunali gravati da livello, considerando che in ordine agli stessi l'amministrazione comunale non percepisce, da tempo immemore, alcun canone.
In via preliminare, si osserva che il livello è un contratto agrario in uso nel Medioevo, che consiste nella concessione di una terra dietro il pagamento di un fitto. L'istituto del livello non è disciplinato dal codice civile e la giurisprudenza di legittimità
[1] in più occasioni lo ha equiparato ad un diritto di enfiteusi.
L'affrancazione consiste nell'acquisto della proprietà da parte dell'enfiteuta e 'si opera mediante il pagamento di una somma risultante dalla capitalizzazione del canone annuo sulla base dell'interesse legale. Le modalità sono stabilite da leggi speciali' (articolo 971, sesto comma, codice civile).
In particolare, la disciplina relativa al calcolo ed all'aggiornamento dei canoni è contenuta in due leggi speciali, la legge 22.07.1966, n. 607
[2] e la legge 18.12.1970 [3], n. 1138, le quali prescrivono criteri di determinazione dei canoni enfiteutici, indicando come parametri di riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le enfiteusi anteriori al 28.10.1941, [4] e la quindicesima parte dell'indennità di esproprio prevista dalle leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte successivamente [5]. In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco sia determinato in misura pari a quindici volte il canone. [6]
Dopo la loro emanazione, sulle due leggi citate si è pronunciata a più riprese la Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l'illegittimità della normativa sotto diversi profili, modificandone profondamente la portata.
[7]
Sia per la legge n. 607/1966 che per quella n. 1138/1970 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dei criteri di calcolo ivi prescritti dettando, quale principio generale della materia, la regola per cui i canoni devono essere periodicamente aggiornati mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei 'a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica'.
[8]
In base a quali criteri debba essere garantita tale corrispondenza, tuttavia, la Corte nulla ha detto, né avrebbe potuto farlo, essendo prerogativa del legislatore dettare una regolamentazione della materia.
In mancanza di parametri di riferimento certi per la determinazione e/o l'aggiornamento dei canoni enfiteutici, considerato che non vi sono stati interventi normativi volti a dettare una nuova regolamentazione della materia, nel corso degli anni sono state adottate o suggerite soluzioni di varia natura e portata.
Tra queste si segnalano una circolare del Ministero dell'Interno
[9] che, nel fare proprie le conclusioni espresse da un'Avvocatura Distrettuale, [10] ha ritenuto coerente quale modalità di calcolo del capitale di affranco, sia per le enfiteusi antecedenti che successive al 1941, il criterio dettato per il computo dell'indennità di esproprio ordinaria, che per i terreni agricoli è calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell'area da espropriare, [11] stabilito annualmente da rilevazioni operate da un'apposita commissione provinciale. [12]
Sulla stessa linea si pone una circolare dell'Agenzia del Territorio
[13] la quale richiama una precedente nota del Ministero delle Finanze la quale statuiva che, per le enfiteusi antecedenti al 1941, il canone dovesse essere equiparato al reddito dominicale opportunamente attualizzato tramite idonei criteri di aggiornamento. L'Agenzia del Territorio, constatato che 'l'ultimo coefficiente di rivalutazione dei redditi dominicali -non soggetti a revisione dal lontano 1979- pare, allo stato, ancora quello dell'80%', [14] ha ritenuto che il criterio indicato nella precedente nota ministeriale portasse 'alla determinazione di somme non adeguatamente corrispondenti alla realtà economica.
Alla luce di un tanto la circolare 29104/2011 conclude ritenendo «più opportuno utilizzare, anche con riferimento alle enfiteusi antecedenti al 1941, il criterio dell'indennità di esproprio dei fondi rustici, sostanzialmente in linea con quanto statuito dalla Corte Costituzionale (Sent. 406/1988) in merito alla necessità di rapportare i canoni ed il capitale di affrancazione 'alla effettiva realtà economica' (si veda anche, in proposito, il parere dell'Avvocatura Distrettuale dell'Aquila CS 260/1999, recepito in una circolare del Ministero n. 118 del 09/09/1999)». Conclude l'indicata circolare nel senso che «per tutte le enfiteusi su fondo agricolo il capitale di affrancazione ed i canoni andranno determinati facendo ricorso al criterio dell'indennità di esproprio e non piuttosto a quello del reddito dominicale rivalutato non più rispondente all'effettiva realtà economica».
[15]
Per completezza espositiva, è necessario, tuttavia, considerare la normativa in tema di determinazione dei coefficienti di rivalutazione dei redditi dominicali, intervenuta successivamente all'emanazione delle suindicate circolari. Ci si riferisce, in particolare, alla legge 24.12.2012, n. 228 e successive modificazioni, di cui l'ultima ad opera della legge 28.12.2015, n. 208, la quale, all'articolo 1, comma 512, stabilisce che: 'Ai soli fini della determinazione delle imposte sui redditi, per i periodi d'imposta 2013, 2014 e 2015, nonché a decorrere dal periodo di imposta 2016, i redditi dominicale e agrario sono rivalutati rispettivamente del 15 per cento per i periodi di imposta 2013 e 2014 e del 30 per cento per il periodo di imposta 2015, nonché del 30 per cento a decorrere dal periodo di imposta 2016. Per i terreni agricoli, nonché per quelli non coltivati, posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola, la rivalutazione è pari al 5 per cento per i periodi di imposta 2013 e 2014 e al 10 per cento per il periodo di imposta 2015. L'incremento si applica sull'importo risultante dalla rivalutazione operata ai sensi dell'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662. [...]'.
Segue che sarà opportuno valutare se, a seguito delle operazioni di calcolo, il capitale di affrancazione dei fondi risulti essere adeguatamente corrispondente alla realtà economica.
Se così fosse, sarebbe possibile utilizzare, per determinare il prezzo dell'affrancazione delle enfiteusi sorte antecedentemente al 28.10.1941, il criterio che risulta dall'applicazione, al reddito catastale dei terreni, dei coefficienti utilizzati per calcolare le imposte sui redditi disposti dal legislatore negli specifici provvedimenti normativi sopra richiamati.
In caso contrario, si potrebbe utilizzare il criterio proposto nelle circolari sopra citate, che rimanda al calcolo dell'indennità che sarebbe corrisposta in caso di espropriazione per pubblica utilità.
Da ultimo, si osserva come non sarebbe possibile per l'Ente consentire l'affrancazione gratuita dei propri fondi. Si rileva come non sia applicabile agli enti locali il disposto di cui alla legge 29.01.1974, n. 16, recante 'Rinuncia ai diritti di credito inferiori a lire mille' il cui articolo 1 così recita: 'Sono estinti i rapporti perpetui reali e personali, costituiti anteriormente, alla data del 28.10.1941, in forza dei quali le amministrazioni e le aziende autonome dello Stato, comprese l'Amministrazione del fondo per il culto, l'Amministrazione del fondo di beneficenza e di religione nella città di Roma e l'Amministrazione dei patrimoni riuniti ex economali hanno il diritto di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate, in misura inferiore a lire 1.000 annue'.
[16]
Tale legge, oltretutto, è stata abrogata dall'articolo 24 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 06.08.2008, n. 133 a far data dal centottantesimo giorno successivo alla data della sua entrata in vigore.
Si riportano, altresì, le affermazioni del Supremo giudice civile
[17] il quale, nel ribadire la necessità che il computo per la determinazione del capitale per l'affrancazione venga periodicamente aggiornato, applicando coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con ragionevole approssimazione, la corrispondenza del capitale di affrancazione con l'effettiva realtà economica, precisa, altresì, che, una tale operazione è, altresì, diretta 'ad impedire che l'affrancazione si trasformi in una sostanziale ablazione gratuita del diritto del concedente'.
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[1] Così, Cassazione civile, sez. VI, ordinanza del 06.06.2012, n. 9135 che afferma: 'Il regime giuridico del cosiddetto "livello" va assimilato a quello dell'enfiteusi, in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti, finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi, dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari della seconda, tra i diritti reali di godimento'. Nello stesso senso si veda, anche, Cassazione civile, sez. III, sentenza dell'08.01.1997, n. 64 e più datate nel tempo, Cassazione n. 1366/1961 e Cassazione n. 1682/1963.
[2] Recante 'Norme in materia di enfiteusi e prestazioni fondiarie perpetue'.
[3] Recante 'Nuove norme in materia di enfiteusi'.
[4] Articolo 1, primo comma, della legge 607/1966 unitamente ad articolo 1 della legge 1138/1970.
[5] Articolo 2, terzo comma, della legge 1138/1970.
[6] Articolo 1, quarto comma, della legge 607/1966 e articolo 9 della legge 1138/1970.
[7] Corte costituzionale, sentenze del 19-23.05.1997, n. 143; del 24.03-07.04.1988, n. 406; del 07-20.05.2008, n. 160.
[8] Corte costituzionale, sentenza del 07.04.1988, n. 406 e del 23.05.1997, n. 143.
[9] Ministero dell'Interno, circolare del 09.09.1999, n. 118.
[10] Avvocatura Distrettuale dell'Aquila, parere 260/1999.
[11] Il D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità', all'articolo 40, comma 1, recita: 'Nel caso di esproprio di un'area non edificabile, l'indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola, senza valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da quella agricola'.
[12] L'articolo 41 del D.P.R. 327/2001, al comma 1, prevede che: 'In ogni provincia, la Regione istituisce una commissione composta:
a) dal presidente della Provincia, o da un suo delegato, che la presiede;
b) dall'ingegnere capo dell'ufficio tecnico erariale, o da un suo delegato;
c) dall'ingegnere capo del genio civile, o da un suo delegato;
d) dal presidente dell'Istituto autonomo delle case popolari della Provincia, o da un suo delegato;
e) da due esperti in materia urbanistica ed edilizia, nominati dalla Regione;
f) da tre esperti in materia di agricoltura e di foreste, nominati dalla Regione su terne proposte dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative'.
[13] Agenzia del Territorio, circolare dell'11.05.2011, n. 29104.
[14] L'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662 recita: 'Fino alla data di entrata in vigore delle nuove tariffe d'estimo, ai soli fini delle imposte sui redditi, i redditi dominicali e agrari sono rivalutati, rispettivamente, dell'80 per cento e del 70 per cento. L'incremento si applica sull'importo posto a base della rivalutazione operata ai sensi dell'articolo 31, comma 1, della legge 23.12.1994, n. 724'.
[15] Anche l'ANCI, con parere dell'08.01.2013, nell'affrontare la questione della determinazione del capitale di affrancazione ha ritenuto 'condivisibile la tesi sostenuta dall'Agenzia del Territorio, [...], in quanto aderisce al principio della corrispondenza all'effettiva realtà economica'.
[16] La giurisprudenza, con riferimento al tempo in cui la norma risultava vigente, ha affermato la sua inapplicabilità agli enti locali. Così Cassazione civile, sez. II, sentenza del 21.02.2014, n. 4201 e Corte dei Conti, sez. regionale di controllo, Campania, parere del 20.07.2006, n. 18.
[17] Cassazione civile, sez. II, sentenza del 12.10.2000, n. 13595
(24.05.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: L'impianto sportivo.
DOMANDA:
Questo Comune lo scorso anno ha affidato per 15 anni ad una società sportiva dilettantistica la gestione di un bene pubblico (impianto sportivo di calcio) per le finalità proprie dello stesso. L’affidamento è stato fatto a seguito di pubblico avviso nel rispetto dei principi di trasparenza ecc.
La precedente gestione era stata affidata ad una società sportiva dilettantistica che non aveva più interesse ne mezzi sufficienti a condurre una gestione in pareggio. Il comune annualmente versava a favore di detta società sportiva dilettantistica un contributo variabile (tra 25000 e 30000 euro) per supportare le spese di gestione. Detto contributo viene adesso versato anche al nuovo gestore vista la scarsa rilevanza economica dell’impianto, peraltro assai vetusto.
Il nuovo gestore (la nuova associazione sportiva dilettantistica) propone oggi al comune di eseguire importanti lavori di miglioramento della struttura e dei vari impianti e locali accessori (campo in erba da trasformare in sintetico, irrigazione, illuminazione, spogliatoi ecc. ecc.) per un importo complessivo stimabile in circa 4500000 euro. Il vantaggio di questi interventi di miglioria sarebbe immediatamente quello di rendere meno onerosa la gestione con risparmi evidenti sulle utenze ed una maggiore fruibilità degli impianti anche da parte di utenze di comuni vicini, con evidente vantaggio per riequilibrare le spese di gestione attuali.
Il nuovo gestore avrebbe la possibilità di realizzare circa il 50% dei vari lavori di miglioria tramite sponsor che avrebbero tutto l’interesse a finanziare i lavori anche eseguendoli direttamente trattandosi di imprese locali (debitamente qualificate) ed interessate a pubblicizzare la loro attività.
Il comune dovrebbe versare al gestore (sulla base di un progetto dallo stesso presentato) un contributo pari alla differenza dei lavori che lo lo stesso gestore realizzerebbe tramite sponsor e ditte specializzate ed in possesso dei regolari requisiti di legge e relative qualifiche (SOA ecc.).
L’offerta del gestore per il comune è sicuramente interessante ed il contributo verrebbe versato solo in base ai lavori man mano eseguiti e certificati. Si chiede di sapere se il comune può procedere nel modo suddetto e con quali modalità.
RISPOSTA:
Le esigenze descritte nel quesito di avvalersi di un affidatario gestore dell’impianto sportivo di calcio anche per eseguire i lavori descritti nel quesito versando al medesimo un contributo pari alla differenza di importo necessario rispetto a quello ottenuto dallo stesso gestore tramite suoi sponsor, delinea sicuramente una sistematica che può essere ricondotta all’istituto della concessione disciplinata dall’art. 142 ss. del vecchio codice ed ora dall’art. 164 ss. del nuovo codice dei contratti pubblici.
Si consiglia pertanto di valutare attentamente la problematica in relazione alle nuove disposizione verificando in particolare i nuovi limiti e modalità di affidamento e le nuove limitazioni in ordine alla possibilità della PA di concedere un contributo economico in aggiunta alla gestione in chiave produttiva del bene (v. in particolare art. 165, comma 2, in ordine al limite del 30% dell’investimento)
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: Spending review: la riduzione del 15% dei canoni per le locazioni passive anche alle ipotesi in cui proprietario dell’immobile sia una p.a. (parere 09.05.2016-226080, AL 37970/2012 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).

EDILIZIA PRIVATA: Per l'installazione di un chiosco è necessario munirsi di permesso di costruire; si deve, infatti, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di “costruzione”, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale.
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.

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Devono, infatti, ritenersi infondati i tre motivi di ricorso, che si ritiene di poter valutare congiuntamente.
Al riguardo il Collegio, condividendo la giurisprudenza amministrativa prevalente, dalla quale non ha motivo di discostarsi, ritiene che per l'installazione di un chiosco è necessario munirsi di permesso di costruire; si deve, infatti, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di “costruzione”, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 05.03.2015, n. 478).
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame, l’ordinanza di demolizione impugnata è stata adottata ai sensi dell’articolo 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, in riferimento alla scia presentata in data 27.01.2012 per l’istallazione di un chiosco per la somministrazione di alimenti e bevande, da installare in un area di pertinenza del Comando Provinciale Vigili del Fuoco, antistante l’ingresso principale, alla via G. Falcone, a seguito di quanto emerso dalla comunicazione prot. n. 12637 del 17.02.2012, relativa all’esito del sopralluogo effettuato dalla Polizia Municipale il 15.02.2012, sulla base della seguente motivazione: “in quanto trattasi di opere eseguite in assenza di Permesso di Costruire”.
Alla luce della richiamata giurisprudenza, la suddetta ordinanza di demolizione deve ritenersi legittimamente adottata nei confronti del ricorrente per la risolutiva circostanza della necessarietà del permesso di costruire, posta a fondamento dell’ordinanza di demolizione stessa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.05.2016 n. 2282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non contemplata dal divieto di cui all’art. 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011 n. 98, convertito in legge dall’art. 1, comma 1, della L. 15.07.2011 n. 111, secondo cui: “A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio Sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
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Con nota del 24.03.2016, pervenuta ed acquisita a protocollo di questa Sezione n. 3860 in data 29.03.2016, il Sindaco del Comune di Concordia Sagittaria (VE) ha richiesto un parere in merito alla applicazione dell’art. 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011 n. 98, convertito in legge dall’art. 1, comma 1, della L. 15.07.2011 n. 111, che prevede: “A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio Sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
In particolare, viene chiesto se la permuta “pura” sia esclusa dal campo di applicazione della norma.
...
L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 sopra riportato è stato oggetto di esame da parte delle Sezioni Regionali di controllo della Corte Conti,
il cui indirizzo costante è orientato in ordine all’esclusione da detto ambito della permuta c.d. “pura”, quella, cioè, in cui non vi sono conguagli in denaro.
La non riconducibilità della citata fattispecie alla norma de qua è stata affermata dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la pronuncia n. 164 del 2013, nella quale “pur consapevole che la permuta, anche ove non preveda movimenti finanziari, è un contratto commutativo e quindi a titolo oneroso”, la Sezione lombarda, da un lato considerando che “dal punto di vista teleologico, innanzitutto, occorre considerare che la disposizione in commento novella un decreto legge recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 ”contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari”" e dall’altro che “
risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali dell’ente afferenti a beni immobili, il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non contemplata dal richiamato divieto”, perviene alla conclusione, anche sulla base di elementi interpretativi letterali (il “soggetto alienante” e “il prezzo pattuito”) che la disposizione non si applichi ai casi di permuta “pura” (orientamento ribadito con le successive deliberazioni n. 97/2014, 299/2014 e 21/2015).
In senso conforme si è pronunciata anche questa Sezione con la delibera n. 280/2013, oltre ad altre Sezioni regionali di controllo (Piemonte, n. 191/2014; Toscana n. 3/2015 tra le altre),
tutte concordi nel ritenere, alla luce della ratio esplicitata nello stesso testo, che la norma si applichi a quei contratti che determinano un onere di spesa a carico dell’ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, con deliberazione n. 80/2015, aderendo all’orientamento consolidato succitato, ha però precisato, coerentemente all’individuata ratio normativa, che “
l’applicabilità della previsione di cui al ripetuto art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 si deve considerare sussistente ogni qualvolta, a seguito dell’acquisizione, l’amministrazione pubblica sia chiamata ad un esborso finanziario, ancorché lo stesso discenda unicamente dalle obbligazioni tributarie che l’atto traslativo comporta” (Corte di Conti, Sez. controllo Veneto, parere 04.05.2016 n. 264).

PATRIMONIO: Possibilità acquisizioni immobili, ai sensi dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011.
La disposizione di cui all'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche amministrazione un regime di limitazione per gli acquisti di immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ritiene l'inapplicabilità di questa disciplina vincolistica ai casi di permuta pura, ovvero senza conguaglio di prezzo a carico dell'ente territoriale.
Specificamente, la fattispecie della permuta di cosa presente con cosa futura postula la manifestazione della volontà delle parti nel senso di trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555 e 1472 c.c.).

Il Comune, proprietario di un terreno edificabile, sul quale insiste un edificio che necessiterebbe di importanti lavori di ristrutturazione, ha ricevuto proposta, da parte del proprietario di un terreno adiacente, di un accordo avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del terreno e dell'edificio comunali in cambio dell'acquisto del diritto di proprietà su immobili che verranno realizzati su una superficie inclusiva del terreno comunale di cui trattasi, nell'ambito di un piano di riqualificazione urbana dell'area.
Il Comune precisa che l'operazione avverrebbe senza ulteriori spese, e chiede se la stessa sia possibile ai sensi della normativa vigente, in particolare avuto riguardo ai vincoli posti dall'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011
[1].
L'art. 12, comma 1-ter, richiamato dall'Ente prevede che, a decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
[2].
Nel quadro di questo regime vincolistico di acquisti immobiliari, il Comune prospetta un'operazione di acquisizione di immobili dietro trasferimento di sue proprietà immobiliari: detta operazione sembrerebbe presentare i caratteri della permuta, per cui si espongono alcune considerazioni, in generale, sulle condizioni che rendono legittima detta modalità di acquisizione di immobili, stante le previsioni di cui all'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, ed in particolare sulle condizioni che integrano la permuta di cosa presente con cosa futura, visto che i locali che acquisirà il comune non sono ancora esistenti
[3].
In ordine alla possibilità di effettuare operazioni di permuta immobiliare, da parte degli enti locali, nel quadro della disciplina vincolistica richiamata, la Corte dei conti ha distinto la fattispecie della permuta pura da quella della permuta con conguaglio di prezzo a carico dell'ente territoriale. La permuta pura costituisce un'operazione finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell'ambito di applicazione del comma 1-ter dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, nel presupposto dell'effettiva coincidenza di valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di permuta. Per contro, nell'ipotesi in cui l'operazione comprenda il versamento, da parte dell'ente territoriale, della differenza di valore fra i beni oggetto della permuta, con conseguente qualificazione dell'operazione non in termini di neutralità finanziaria, si ricade nell'alveo di applicazione del comma 1-ter in argomento
[4].
La distinzione tra permuta pura e permuta non a parità di prezzo, ovvero con erogazione in denaro a conguaglio da parte dell'amministrazione -osserva il magistrato contabile- è operata oltre che dalla giurisprudenza contabile anche dallo stesso legislatore, che ha espressamente disposto la non applicabilità del previgente art. 12, comma 1-quater, DL n. 98/2011, tra l'altro, alle permute a parità di prezzo (art. 10-bis, c. 1, DL n. 35/2013, richiamato)
[5]. Per cui, si impone all'ente locale una puntuale quantificazione del valore di quanto sarà oggetto della permuta al fine di garantire l'effettiva parità di prezzo richiesta dalla norma [6].
Nel caso in esame, viene in considerazione il trasferimento di un terreno edificabile, con l'edificio che vi insiste, di proprietà del Comune, in cambio dell'acquisizione di locali ancora da realizzarsi, e dunque potrebbe configurarsi, al ricorrere di determinate circostanze che si vanno ad esporre, la fattispecie della permuta di cose future.
La Corte dei conti Marche ha preso in esame la possibilità della permuta di cose future, nell'anno 2013, ai sensi del previgente art. 12, comma 1-quater, DL n. 98/2011, prima che intervenisse l'interpretazione autentica operata dal D.L. n. 35/2013, ed ha concluso, in quella sede, per l'inclusione della fattispecie della permuta nella norma di divieto di acquisto
[7].
Posto che, a seguito dell'interpretazione autentica suddetta, è stato risolto (in senso positivo), sul piano legislativo e giurisprudenziale, il dubbio sull'esclusione delle operazioni di permuta pura dalla normativa limitativa di cui al previgente comma 1-quater dell'art. 12, DL n. 98/2011
[8], e dunque da quella, meno incisiva, di cui al vigente comma 1-ter, appaiono utili le considerazioni della Corte dei conti Marche sulla configurabilità della permuta di cosa futura, al fine di escluderla dal campo di applicazione del divieto di acquisto di cui al comma 1-ter in argomento.
Al riguardo, la Corte dei conti Marche richiama le riflessioni della Corte di cassazione, secondo cui la fattispecie della permuta di cosa presente con cosa futura si può constatare soltanto dopo un'attenta interpretazione della reale volontà delle parti nel caso concreto.
E così, la Suprema Corte, muovendo dalla effettiva volontà delle parti nella fattispecie dedotta in giudizio, ha sostenuto che il contratto con cui una parte cede all'altra la proprietà di un'area edificabile, in cambio di un appartamento sito nel fabbricato che sarà realizzato sulla stessa area a cura e con mezzi del cessionario, integra gli estremi del contratto di permuta tra un bene esistente ed un bene futuro, qualora il sinallagma negoziale consista nel trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura.
È il caso di osservare che nella stessa sentenza la Corte di cassazione ha utilizzato il principio espresso per escludere l'applicabilità della permuta nella fattispecie dedotta in giudizio, in quanto il sinallagma contrattuale non consisteva nel trasferimento immediato e reciproco del diritto di proprietà attuale del terreno e di quello futuro sul fabbricato, ma si articolava in due distinti contratti, vendita con effetti reali immediati del terreno e promessa di vendita, con effetti obbligatori, con la quale le parti si impegnavano a stipulare un successivo contratto per l'alienazione di una parte del fabbricato da costruire
[9].
Ed ancora, in altra sede, la Corte di cassazione ha affermato che la cessione di un'area edificabile in cambio di un appartamento sito nel fabbricato realizzato a cura e con i mezzi del cessionario può integrare tanto gli estremi della permuta tra un bene esistente ed un bene futuro quanto quelli del negozio misto caratterizzato da elementi propri della vendita e dell'appalto, ricorrendo la prima ipotesi qualora il sinallagma contrattuale consista nel trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura (l'obbligo di erigere il manufatto collocandosi, conseguentemente, su di un piano accessorio e strumentale), verificandosi la seconda ove, al contrario, la costruzione del fabbricato assuma rilievo centrale all'interno della convenzione negoziale, e l'alienazione dell'area costituisca solo il mezzo per pervenire a tale obiettivo primario delle parti
[10].
Alla luce delle considerazioni esposte, l'operazione prospettata dal Comune può assumere i caratteri della permuta di cosa presente con cosa futura se la volontà espressa dalle parti sia nel senso di trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555 e 1472 c.c.), ed appare consentita, ai sensi del comma 1-ter, dell'art. 12, DL n. 98/2011, soltanto qualora vi sia la corrispondenza di valore tra gli immobili comunali ceduti (terreno ed edificio) e gli immobili futuri che acquisirà il Comune, senza conguaglio di prezzo a suo carico (permuta pura).
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[1] Sull'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, in argomento, ali enti locali del Friuli Venezia Giulia, v. parere di questo Servizio n. 676/2015, consultabile all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[2] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da parte delle pubbliche amministrazioni, contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012. Detto comma 1-quater era stato oggetto di una norma di interpretazione autentica (art. 10-bis, c. 1, D.L. n. 35/2013), al fine di escludere espressamente dall'ambito di applicabilità del divieto ivi contenuto, tra l'altro, le permute 'a parità di prezzo' (cfr. Corte dei conti. sez. contr. Lombardia, deliberazione 05.03.2014, n. 97).
[3] Ai sensi dell'art. 1552 c.c., 'La permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro'.
Per quanto concerne, in particolare, la permuta di cosa presente con cosa futura, la stessa è possibile in forza del rinvio alla disciplina della vendita operato per la permuta dall'art. 1555 c.c., con conseguente applicazione dell'art. 1472 c.c., disciplinante la vendita di cose future, la cui proprietà si acquista non appena vengano ad esistenza. Infatti, la vendita di cosa futura si configura quale vendita con effetti reali differiti, in quanto il trasferimento del bene futuro avverrà solo con la sua venuta ad esistenza.
[4] Cfr. Corte dei conti Lombardia, n. 97/2014, cit.. Nello stesso senso, C. conti Lombardia, deliberazione 23.04.2013, n. 162, secondo cui il tenore letterale del comma 1-ter dell'art. 12, DL n. 98/2011, rivela l'inapplicabilità delle prescrizioni ivi contenute ai casi di permuta pura, o al massimo laddove sia previsto un conguaglio, da erogarsi però a carico del privato; diversamente, si rientrerebbe all'interno della norma interdittiva. Conformi, C. conti Lombardia, deliberazione 23.04.2013, n. 164, e C. conti Lombardia, deliberazione 07.05.2013, n. 193, richiamate da C. conti Lombardia 24.09.2015, n. 310.
[5] C. conti, sez. contr. Piemonte, 30.10.2014, n. 203.
[6] C. conti, sez. contr. Piemonte, 18.06.2013, n. 236.
[7] Corte dei conti, sez. contr. Marche, 12.02.2013, n. 7.
[8] Corte dei conti Piemonte n. 236/2013 e n. 203/2014, citt..
[9] Cass. civ., sez. I, 22.12.2005, n. 28479.
[10] Cass. civ., sez. I, 21.11.1997, n. 11643, secondo cui l'indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella convenzione negoziale spetta al Giudice di merito
(04.05.2016 -
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aprile 2016

PATRIMONIOI contratti di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni pubbliche vanno comunque soggetti a riduzione del 15% del canone, tenendo presente che per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate.
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Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso con cui, dopo aver rappresentato le circostanze di fatto e di diritto relative alla modalità di concessione in locazione di un proprio immobile adibito a locale caserma dei Carabinieri, ha esposto di aver ribassato il canone di locazione del 15% in ottemperanza al nuovo testo dell’art. 4, co. 4, D.L. n. 95/2012 (come modificato a opera dell’art. 24, co. 4, del D.L. n. 66/2014 convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89).
Alla luce di tali premesse, visti anche i pronunciamenti di altre Sezioni regionali di controllo, il Comune chiede di avere un motivato avviso sull’applicazione della riduzione in parola al caso in cui i contraenti del contratto di locazione siano entrambi parti pubbliche.
...
   I. La problematica oggetto del quesito riguarda la possibilità, per un Comune, di poter riportare all’importo originariamente pattuito un canone di locazione relativo ad un immobile comunale adibito a locale caserma dei Carabinieri.
In particolare, il Comune ha rappresentato di aver unilateralmente ribassato del 15% il canone di locazione, ritenendosi obbligato all’applicazione del nuovo testo dell’art. 3, co. 4, D.L. 95/2012 (come modificato a seguito da parte dell’art. 24, co. 4, del D.L. 66/2014).
Per ben comprendere la problematica in esame, appare opportuno procedere ad un preliminare esame della disciplina applicabile e dei precedenti delle altre Sezioni regionali di controllo.
   II. La questione prospettata dal Comune di Codroipo richiede di affrontare brevemente la recente normativa in tema di locazioni passive da parte delle pubbliche Amministrazioni centrali.
La normativa di riferimento è essenzialmente rappresentata dall’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato dall'art. 24, comma 4, del D.L. 24.04.2014, n. 66 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89), secondo cui: “ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 codice civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle seguenti condizioni:
   a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d’uso, per il periodo di durata del contratto di locazione;
   b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui ai sensi all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ai piani di razionalizzazione ove già definiti, nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti
”.
La normativa di cui sopra, quindi, ha chiaramente operato una scelta di riduzione (in misura pari al 15%) dei canoni di locazione passiva che gravano sulle pubbliche Amministrazioni centrali.
Analoga misura, secondo il disposto dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012 (come modificato da parte del D.L 24.04.2014, n. 66), è da intendersi estesa, in quanto compatibile, anche nei confronti delle altre Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Può essere dunque utile procedere ad un esame dei precedenti resi dalle altre Sezioni regionali di controllo su questioni analoghe che vengono comunque ad intrecciarsi con la specifica tematica in esame.
   III. Questa Sezione si è pronunciata sulla possibilità per l’Ente locale di contribuire ai costi di affitto con la pronuncia n. 25/VIIIC./2004 in cui si è affermato che un Comune, per favorire la presenza sul territorio comunale della caserma dei Carabinieri, può rinunciare a parte del canone locatizio, anche innovando il contratto di locazione, qualora lo stesso fosse già perfezionato.
Significativa è altresì la deliberazione della Sezione regionale di controllo per la Sardegna n. 3/2010/PAR secondo cui “le esigenze di tutela dell’ordine pubblico rappresentate dal Comune vanno ad inserirsi - necessariamente- nel quadro dei rapporti e delle valutazioni da assumersi in sede interistituzionale, secondo l’assetto e con le procedure sopra riferiti. Esclusivamente in tale contesto concertativo allargato potranno assumersi le deliberazioni degli Enti interessati (Stato ed Enti territoriali), incidenti sulle rispettive dotazioni finanziarie o patrimoniali in relazione alle eventuali forme di contribuzione alla spesa necessarie per le esigenze di salvaguardia della sicurezza pubblica. Sul punto si sottolinea che la normativa specificamente intervenuta –introducendo una deroga ai principi generali di cui al paragrafo n. 4- circoscrive l’impegno economico-finanziario in capo agli Enti territoriali, quanto a modi e tempi, senza prevederne in alcun caso un totale accollo a carico degli stessi”.
A seguito di un contrasto tra le citate delibere e quelle di altre Sezioni che invece propendevano per l’inammissibilità, è stata investita della questione la Sezione delle Autonomie che, con la deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG ha reso una sua pronuncia di orientamento con la quale si è affermato che: “
la Costituzione, pur attribuendo allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce, nella nuova formulazione dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con legge statale, forme di coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del potenziamento della sicurezza a livello locale. Al riguardo, deve osservarsi che una specifica base normativa e soprattutto finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, che autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti locali per realizzare programmi straordinari, tesi ad un potenziamento dei presidi di sicurezza sul territorio, accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie messe a disposizione dagli enti che aderiscono. (…) La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a valutare le necessità della collettività amministrata in termini di priorità e di compatibilità finanziarie e gestionali e, sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare le eventuali concertazioni interistituzionali, volte all’adozione di specifici protocolli d’intesa che individuino obiettivi e risorse. Peraltro, ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del canone di locazione. Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente ben oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale”.
Tale pronuncia di orientamento è stata recepita dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna
, parere 07.07.2014 n. 173.
Da notare, peraltro, che tale specifica problematica è stata di recente risolta a livello normativo, ed infatti
tra le disposizioni relative alla locazione di beni immobili da adibire a caserma dei Carabinieri, la legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) ha disposto, con l'art. 1, comma 500, l'introduzione del nuovo comma 4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95 secondo cui: “per le caserme delle Forze dell'ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate”.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi,
le Amministrazioni comunali possono ora fornire un contributo diretto ai canoni di locazione da corrispondere ai soggetti privati per l’affitto di immobili da adibire a caserme di Forze dell’ordine o dei Vigili del fuoco.
Tale assunto, sul quale si tornerà in seguito, rileva seppur indirettamente, anche in ordine al più specifico quesito posto dal Comune richiedente.
Sullo specifico punto, si richiama un precedente della stessa Sezione regionale Emilia-Romagna che, con il parere 15.12.2015 n. 157, ha affermato che “
la disposizione del novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012 non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva, in tal senso, l’interpretazione finalistica e financo letterale della normativa richiamata avente, peraltro, natura di norma eccezionale e, come tale insuscettibile di applicazione “oltre i casi e i tempi” in essa considerati (cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale). Si osserva, infatti che la statuizione oggetto di disamina è applicabile, prima di ogni ulteriore considerazione, quando realizzi la finalità richiamata nel testo di legge di “contenimento della spesa pubblica”. All’evidenza, tale finalità non si realizza qualora il rapporto concessorio, cui sarebbe eventualmente da applicare la riduzione automatica del canone nella misura del 15 per cento, intervenga tra due pubbliche amministrazioni. Infatti l’effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, essendo di assoluta evidenza che l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. di una tale clausola nel rapporto intercorrente tra due pubbliche amministrazioni, pur comportando per l’una un risparmio nella misura del 15 per cento di quanto corrisposto in precedenza, per l’altra comporterebbe, in egual misura, un minor introito”.
Si tratta della pronuncia richiamata anche dal Comune istante, peraltro, senza tenere in adeguato conto, come di seguito si preciserà, il più articolato quadro normativo e giurisprudenziale.
Ed invero, tra i precedenti rinvenibili, merita in particolare di essere segnalata anche la deliberazione della Sezione regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR secondo cui “n
on sembra potersi ritenere che vi siano lacune normative in relazione ad ipotesi di contratti di locazione posti in essere da un comune antecedentemente all’applicazione della disposizione normativa che ha esteso agli enti locali la disciplina del d.l. 95/2012 e che, quindi, erano in corso al momento dell’entrata in vigore della medesima. Il comma 4 dell’art. 3 del D.L. 95/2012 sopra richiamato prevede, infatti, l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. della clausola di riduzione del canone di locazione -anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dalle parti- fermo restando il diritto, in capo al locatore, di optare per il recesso dal contratto”.
Tale pronuncia ha ribadito dunque, con riferimento alla normativa introdotta sulla riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva, l’applicabilità a favore delle Amministrazioni pubbliche considerate dalla norma che prevede l’inserzione automatica di clausole ex art. 1339 cod. civ. a favore degli Enti individuati come beneficiari dalla legge.
   IV. Il Collegio condivide tale lettura ed invero si osserva che l’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato dall'art. 24, comma 4, legge n. 89 del 2014, dettando previsioni per i contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), ha previsto l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. della clausola di riduzione del canone di locazione, anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dalle parti, fermo restando il diritto, in capo al locatore, di optare per il recesso dal contratto.
La stessa disciplina è applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012, alle Amministrazioni locali (in tal senso, si veda anche la citata deliberazione della Sezione regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR).
Alla luce della normativa introdotta e delle richiamate pronunce emanate dalle Sezioni regionali sul tema, il Collegio ritiene di dover approfondire le problematiche sollevate dal parere prospettato dal Comune di Codroipo.
Invero, il Comune richiedente si limita a richiamare una deliberazione dell’Emilia Romagna, parere 15.12.2015 n. 157, senza procedere ai necessari raccordi con la normativa introdotta sul tema, anche successivamente a detta pronuncia.
Va però considerato che, in una lettura sistematica, la deliberazione in questione pare porsi come una, seppur indiretta, applicazione del principio di coordinamento affermato dalla deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG della Sezione delle Autonomie secondo cui, nell’ambito degli strumenti di concertazione interistituzionale e degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire tramite gli appositi programmi, non sarebbe possibile prevedere da parte dei Comuni forme di contribuzione volte al pagamento del canone di locazione per le caserme delle Forze dell’ordine.
Come sopra anticipato,
tale impostazione è ormai superata e non più attuale alla luce del disposto normativo recato dal nuovo comma 4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95, introdotto dall'art. 1, comma 500, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) che ha riconosciuto possibilità per i Comuni di contribuire alle spese per la locazione di immobili privati adibiti a caserme di Forze dell’ordine nei limiti del “canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate”.
Non può invero ignorarsi una connessione tra le due fattispecie normativamente previste.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi, appare chiaro che il contributo diretto da parte dei Comuni ai canoni di locazione per caserme ospitate in immobili privati, rappresenterebbe una forma di aiuto economico assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine, trattandosi in ambedue i casi di forme di sostegno consentite dall’Ordinamento, con la conseguenza che:
   a) opera ex lege la riduzione del canone per tutte le locazioni passive cui sono tenute le pubbliche Amministrazioni per il godimento di immobili adibiti ad uso istituzionale, senza distinzione tra immobili di proprietà pubblica o privata;
   b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate.
Tale impostazione giuridica, relativa al diritto applicabile, appare già di per sé risolutiva del quesito prospettato, ancorché dalla normativa citata non si evinca una espressa indicazione circa l’applicabilità della predetta riduzione ai canoni di locazione relativi ad immobili di proprietà pubblica affittati ad altra pubblica Amministrazione.
Ritiene comunque il Collegio di fare cenno ai possibili effetti, invero non chiaramente affrontati nel quesito pervenuto, ma solo indirettamente enucleabili dalla lettura della più volte citata pronuncia dell’Emilia Romagna, relativi alla considerazione della diversa natura dei saldi di bilancio relativi, nel caso di specie, a una pubblica Amministrazione centrale e a una pubblica Amministrazione locale.
Invero la riduzione dei canoni, inserita ex lege in base al disposto dell’art. 1339 cod. civ., ha il precipuo scopo di ridurre la spesa per canoni di locazione passiva gravanti sulle Amministrazioni locatarie, ragion per cui va assunto a riferimento il saldo di bilancio dei singoli comparti, piuttosto che il conto economico consolidato delle pubbliche Amministrazioni.
La stessa disciplina, infatti, come si è detto, è applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012, alle Amministrazioni locali.
Il tutto, val la pena di evidenziare, anche alla luce dell’attuale previsione dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012 secondo cui le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano possono adottare misure alternative di contenimento della spesa corrente al fine di conseguire risparmi non inferiori a quelli derivanti dall'applicazione della citata disposizione.
Da notare che tale ultima previsione ha recentemente interessato la Consulta in un giudizio di costituzionalità, sollevato dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 18.08.2014 e depositato il successivo 22 agosto (reg. ric. n. 63 del 2014, che è stato deciso lo stesso giorno della presente camera di consiglio).
In tale giudizio, di particolare rilievo, merita di essere richiamata la problematica della finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli Enti locali come parte della finanza pubblica allargata e della possibilità per il legislatore statale di imporre alle Regioni e agli Enti locali vincoli alle politiche di bilancio, con una legislazione di principio, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari.
Aspetti questi ultimi che assumono valenza ancor più significativa nell’assetto ordinamentale della Regione Friuli Venezia Giulia, per le specifiche competenza statutarie in materia di ordinamento e finanza degli Enti locali.
Tale assunto da ultimo richiamato conferma la maggiore complessità ed articolazione del quadro normativo rispetto alle prospettazioni del quesito, quadro riassumibile, come si è detto, nei suesposti princìpi secondo cui
i contratti di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni pubbliche vadano comunque soggetti a riduzione del 15% del canone, tenendo presente che per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 27.04.2016 n. 40).

PATRIMONIOUn ente locale che si determina per l’acquisto di un bene immobile in ragione di una convenzione urbanistica, ma non ha ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a scadenza su più annualità?
La Sezione osserva che, poiché il verificarsi dei presupposti indicati nella convenzione urbanistica costituisce idoneo titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa del prezzo da corrispondere per l’acquisizione del bene immobile previsto nella convenzione medesima, l’ente locale, quando il pagamento è rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi dell’istituto del fondo pluriennale vincolato.

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Il Sindaco del Comune di Clusone (BG), con la nota indicata in epigrafe, espone nelle premesse che il Consiglio Comunale aveva approvato, con deliberazione n. 78 del 30.12.2002, convenzione urbanistica, sottoscritta il 07.05.2003, relativa al Piano Integrato di Intervento denominato "Angelo Maj", obbligandosi all'acquisto dell'immobile costituente l'ex Convitto Angelo Maj, al prezzo di € 981.268,00, entro 60 giorni dal collaudo delle opere pubbliche previste dal PII medesimo, eseguito il 26.03.2010 con conseguente perfezionamento dell'obbligo dell'acquisto in data 25.05.2010.
Chiarisce che il 24.05.2010 perveniva al Comune lettera raccomandata da parte della proprietaria dell'immobile in questione con la quale veniva fissata la data del rogito notarile per il giorno 26.07.2010.
Stanti i pesanti riflessi che il pagamento di un importo così elevato avrebbe avuto sui saldi del Patto di Stabilità interno l’amministrazione civica avviava una trattativa con la controparte per addivenire ad un pagamento rateizzato e ad una diversa determinazione del prezzo.
Tenuto conto che l’accordo si è concluso solamente nell'anno 2015, il Consiglio Comunale -con deliberazione n. 24 del 24.03.2015, prendendo atto del medesimo- ha disposto di applicare l'avanzo di amministrazione 2014, nella quota destinata ad investimenti e nella quota libera per il nuovo importo concordato di € 750.000.00.
Oltre il prezzo più contenuto, il comune istante otteneva a proprio vantaggio la rateizzazione del prezzo in sei annualità, nella misura di € 150.000,00 per i primi tre anni e € 100.000,00 per quelli a seguire.
Tuttavia il trasferimento di proprietà dell'immobile non è ancora materialmente avvenuto e nel bilancio di previsione 2015 è stato applicato importo dell'avanzo di amministrazione per € 750.000,00 destinato al pagamento della prima rata ed all'alimentazione della quota di Fondo Pluriennale Vincolato di parte capitale per le rate scadenti negli esercizi successivi per € 600.000,00.
Alla luce di quanto premesso, al fine di verificare la corretta applicazione del principio contabile della competenza finanziaria potenziata ex D.Lgs. 118/2011, l’organo rappresentativo dell’Ente chiede a questa Sezione di esprimere un parere sul seguente quesito: “se sia correttamente costituito il Fondo Pluriennale 'Vincolato di parte capitale per la quota relativa all'acquisto dell'immobile in parola, potendosi ritenere giuridicamente perfezionata l'obbligazione all'acquisto dello stesso, essendosi concretizzate le condizioni previste dalla convenzione urbanistica, anche in assenza del formale passaggio di proprietà del bene con atto notarile.
...
2. Venendo al merito della richiesta, occorre preliminarmente osservare che la Sezione, nell’ambito dell’attività consultiva, non può sindacare le pregresse scelte dell’ente che si riverberano sulle modalità, anche temporali, con le quali l’ente locale è pervenuto alla decisione di acquisire il bene immobile a cui si fa riferimento nella richiesta di parere, trattandosi di opzione gestionale rimessa alla potestà amministrativa riservata dalla legge alla pubblica amministrazione. Dunque, questa Sezione prenderà in esame il quesito formulato dall’ente astraendolo da ogni riferimento alla fattispecie concreta sottostante.
Il quesito può essere riformulato nei termini che seguono:
un ente locale che si determina per l’acquisto di un bene immobile in ragione di una convenzione urbanistica ma non ha ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a scadenza su più annualità?
Per risolvere il quesito formulato, occorre preliminarmente richiamare le regola che disciplinano il fondo pluriennale vincolato.
Il principio applicato 4.2 allegato al d.lgs. n. 118/2011, definisce nello specifico le modalità di costituzione, l’iscrizione in bilancio e la gestione del c.d. fondo pluriennale vincolato che, di fatto, opera come un saldo finanziario, costituito da risorse già accertate (nel caso di specie, l’avanzo di amministrazione risultante dagli esercizi precedenti e accertato nel rispetto degli artt. 186 e 187 Tuel), destinate al finanziamento di obbligazioni passive dell’ente già impegnate, ma esigibili in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata (nel caso in esame le rate per il pagamento del prezzo di acquisto dell’immobile).
La finalità del fondo in discorso è sancita al punto 5.4 del richiamato principio contabile applicato: “nasce dall'esigenza di applicare il principio della competenza finanziaria di cui all'allegato 1, e rendere evidente la distanza temporale intercorrente tra l'acquisizione dei finanziamenti e l'effettivo impiego di tali risorse”.
In ordine alla costituzione del fondo il legislatore precisa che questo “è formato solo da entrate correnti vincolate e da entrate destinate al finanziamento di investimenti, accertate e imputate agli esercizi precedenti a quelli di imputazione delle relative spese”, ma “prescinde dalla natura vincolata o destinata delle entrate che lo alimentano”.
Inoltre, “il fondo riguarda prevalentemente le spese in conto capitale ma può essere destinato a garantire la copertura di spese correnti, ad esempio per quelle impegnate a fronte di entrate derivanti da trasferimenti correnti vincolati, esigibili in esercizi precedenti a quelli in cui è esigibile la corrispondente spesa”.
Questo istituto salvaguarda gli equilibri di bilancio perché “sugli stanziamenti di spesa intestati ai singoli fondi pluriennali vincolati non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti. Il fondo pluriennale risulta immediatamente utilizzabile, a seguito dell'accertamento delle entrate che lo finanziano, ed è possibile procedere all'impegno delle spese esigibili nell'esercizio in corso (la cui copertura è costituita dalle entrate accertate nel medesimo esercizio finanziario), e all'impegno delle spese esigibili negli esercizi successivi (la cui copertura è effettuata dal fondo). In altre parole, il principio della competenza potenziata prevede che il "fondo pluriennale vincolato" sia uno strumento di rappresentazione della programmazione e previsione delle spese pubbliche territoriali, sia correnti sia di investimento, che evidenzi con trasparenza e attendibilità il procedimento di impiego delle risorse acquisite dall'ente che richiedono un periodo di tempo ultrannuale per il loro effettivo impiego ed utilizzo per le finalità programmate e previste”.
Chiarito il funzionamento del fondo pluriennale vincolato e che in entrata può essere alimentato dal risultato di amministrazione vincolato già accertato e accantonato per gli esercizi successivi (principio contabile applicato concernente la competenza finanziaria, allegato 4/2 punto 9.2 capoversi 6 e 7), ai fini della soluzione del quesito in esame, occorre altresì evidenziare che detto fondo può essere costituito solo quando sussiste il titolo giuridico per impegnare la spesa la cui scadenza è ripartita su più esercizi finanziari. Infatti, mentre le entrate vincolate destinate alla copertura di spese impegnate e imputate agli esercizi successivi sono rappresentate nel fondo pluriennale vincolato, diversamente le entrate vincolate destinate alla copertura di spese non ancora impegnate (in assenza di obbligazioni giuridicamente perfezionate) sono rappresentate contabilmente nella quota vincolata del risultato di amministrazione.
Dunque, bisogna affrontare la questione se la sottoscrizione di una convenzione urbanistica che prevede l’obbligo a carico dell’ente di acquisire un determinato bene immobile -anche se il trasferimento non è stato ancora formalizzato con atto notarile- costituisca idoneo titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa.
Nel caso di specie,
poiché come riferisce l’ente si sono verificati i presupposti previsti dalla convenzione per far sorgere l’obbligo di acquisto del bene immobile in discorso, a prescindere dalla formalizzazione dell’acquisto mediante atto notarile, si deve ritenere che il titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa sussista e, in ragione della scadenza delle singole rate del pagamento del prezzo, l’ente debba procedere ad impegnare la spesa nell’esercizio di competenza.
Detta affermazione è in linea con il principio contenuto nell’allegato sulla competenza finanziaria potenziata (all. 4.2), laddove al punto 5.3. si afferma che “
anche per le spese di investimento che non richiedono la definizione di un cronoprogramma, l'imputazione agli esercizi della spesa riguardante la realizzazione dell'investimento è effettuata nel rispetto del principio generale della competenza finanziaria potenziato, ossia in considerazione dell'esigibilità della spesa. Pertanto, anche per le spese che non sono soggette a gara, è necessario impegnare sulla base di una obbligazione giuridicamente perfezionata, in considerazione della scadenza dell'obbligazione stessa. A tal fine, l'amministrazione, nella fase della contrattazione, richiede, ove possibile, che nel contratto siano indicate le scadenze dei singoli pagamenti. E' in ogni caso auspicabile che l'ente richieda sempre un cronoprogramma della spesa di investimento da realizzare”.
In conclusione,
poiché il verificarsi dei presupposti indicati nella convenzione urbanistica, costituisce idoneo titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa del prezzo da corrispondere per l’acquisizione del bene immobile previsto in convenzione, l’ente locale, quando il pagamento è rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi dell’istituto del fondo pluriennale vincolato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.04.2016 n. 108).

PATRIMONIO: Oneri per la gestione e le riparazioni di orologi posizionati sui campanili delle chiese.
Non rinvenendosi alcuna disposizione che ponga a carico del bilancio dell'ente locale le spese per la gestione e le riparazioni di orologi posizionati sui campanili delle chiese di proprietà della curia o delle parrocchie, si ritiene che detti oneri gravino sul soggetto proprietario del bene.
Il Comune chiede di conoscere se la gestione e le riparazioni degli orologi posizionati sui campanili delle chiese di proprietà della curia o delle parrocchie sia di competenza comunale ed, in caso affermativo, in base a quale disposizione normativa.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
Poiché non si è rinvenuta alcuna norma che ponga a carico del bilancio dell'ente locale le spese per gli interventi oggetto di quesito, la questione va risolta considerando che gli oneri di gestione e di manutenzione gravano, di regola, sul soggetto proprietario del bene
[1], così come accade nell'ipotesi in cui orologi posizionati all'interno dei campanili (in quanto 'torri civiche') siano di proprietà comunale.
Ciò posto si segnala, per completezza, che la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Lombardia
[2], esprimendosi in merito all'ammissibilità, o meno, per il Comune di procedere ad attribuzioni patrimoniali [3] a terzi soggetti, presenti sul territorio comunale, «in una fattispecie che esula dalla specifica previsione di legge», premesso che si tratta di valutazione di esclusiva competenza dell'amministrazione locale, richiama l'ente «all'osservanza del principio generale per cui l'attribuzione patrimoniale è da considerarsi lecita solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata sul territorio sul quale insiste il Comune, anche, in via meramente esemplificativa, di carattere artistico, culturale o economico», precisando che «In ogni caso, l'eventuale attribuzione dovrà essere conforme al principio di congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell'ente locale» e che «In caso contrario, l'attribuzione non troverebbe alcuna giustificazione».
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[1] Un'indiretta conferma si rinviene nelle previsioni contenute nell'art. 2 del decreto del Presidente della Regione 19.08.2015, n. 0165/Pres. («Regolamento recante criteri e modalità per la concessione dei contributi per complessi seminariali diocesani, istituti di istruzione religiosa, opere di culto e di ministero religioso previsti dall'articolo 7-ter della legge regionale 07.03.1983, n. 20») -interventi nell'ambito dei quali risultano finanziati lavori di restauro, manutenzione e completamento di campanili- il quale dispone che «Possono beneficiare dei contributi di cui al presente regolamento le parrocchie e altri enti ecclesiastici cattolici o di altre confessioni religiose riconosciute dallo Stato italiano, con le quali sono state stipulate intese approvate con legge, nonché enti pubblici e privati proprietari o titolari di altro diritto che costituisca titolo ad eseguire gli interventi sugli edifici di cui all'articolo 1.».
[2] V. pareri 31.05.2012, n. 262 e 11.09.2015, n. 279.
[3] Attinenti, in entrambi i casi esaminati, al patrimonio immobiliare
(12.04.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

marzo 2016

PATRIMONIO: Le piogge eccezionali non giustificano l’incuria. Se il pluviale è difettoso resta comunque la responsabilità. Danni da eventi atmosferici. La Cassazione interviene sulle colpe del condominio.
Caso fortuito o forza maggiore devono essere tali da interrompere davvero qualsiasi nesso tra cosa ed evento. E quindi anche il condominio può essere chiamato in causa per il risarcimento dei danni dovuti sì a eventi atmosferici straordinari ma i cui effetti sono stati facilitati dall’incuria. Insomma, tempi duri per gli amministratori di condominio disattenti alla manutenzione.
Questo il senso della sentenza 24.03.2016 n. 5877 della Corte di Cassazione, Sez. III civile.
L’articolo 2051 del Codice civile, infatti, che ammette la possibilità di andare esenti da responsabilità, qualora il «custode» provi il caso fortuito ovvero la forza maggiore, per risultare operativa necessita di un fattore causale esterno di una tale intensità da risultare idoneo a impedire qualsivoglia «nesso eziologico» tra la cosa e l’evento lesivo.
Quindi, quando l’apporto esterno sia tale da integrare, in astratto, gli elementi tipici del caso fortuito o della forza maggiore, ma, tuttavia, vengano in rilievo condotte colpose del custode (in questo caso il condominio) potenzialmente idonee a interrompere o aggravare la componente causale estranea, queste possono fondare delle ipotesi di responsabilità esclusiva o concorrente.
Peraltro, lo stato di profondo dissesto idrogeologico in cui versa l’intero Paese, impone un doveroso rigore negli accertamenti giudiziali, in considerazione del fatto che stante la frequenza di eventi alluvionali a carattere calamitoso, a oggi, gli stessi risultano tutt’altro che imprevedibili.
Il ragionamento della Cassazione probabilmente imporrà una più cauta riflessione per tutti quei danni conseguenza dei rilevanti fenomeni atmosferici. La Corte ha quindi ribaltato la sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva negato il risarcimento del danno subito da un privato. Che conveniva in giudizio il condominio nel quale deteneva in locazione due locali (nonché il Comune), chiedendo che venissero condannati al risarcimento del danno subito in conseguenza dell’allagamento degli ambienti dopo un violento temporale, per cui vi erano state delle infiltrazioni dovute sia all’esondazione di un vicino sottopasso –causata dal mancato funzionamento delle elettropompe all’uopo installate– che alla fuoriuscita di acqua da un tubo pluviale del condominio.
Il Tribunale di Milano, e successivamente, la Corte d’appello rigettavano la domanda. Per la Cassazione il giudice d’appello avrebbe ritenuto, sbagliando, ininfluente la verifica in merito al corretto funzionamento degli impianti, data la loro acclarata inadeguatezza.
La Corte ha quindi chiarito che «La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento», pertanto, vista la responsabilità del condominio (e del Comune), tenuti alla manutenzione, il giudice di merito «avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della fattispecie, allo scopo di valutare se, come e in quale percentuale l’esecuzione dei lavori a regola d’arte e il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre l’entità dei danni», specie in rapporto allo stato attuale del territorio che impone: «criteri di accertamento improntati a un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti».
Gli amministratori di condominio dovranno quindi, anche in casi analoghi, dimostrare rigorosamente la corretta manutenzione delle cose in custodia
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2016).

PATRIMONIO: Danni da alluvione: danni da alluvione a carico del Comune non che non fa manutenzione delle fogne.
La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità del soggetto che invoca l'esimente in questione.
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Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi e mantenga un'opera pubblica trova un limite nell'obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che dall'inosservanza di queste disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità della responsabilità della stessa pubblica amministrazione per i danni arrecati a terzi.

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La s.r.l. "La Ch. di Is." convenne dinanzi al Tribunale di Milano il condominio "Gi. di Lissone", il comune di Lissone e le compagnie assicuratrici Helvetia e Sasa, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in seguito all'allagamento (verificatosi in occasione di un forte temporale, sia per esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni da un tubo pluviale del condominio) di due locali condotti in locazione da essa attrice.
Espose, in particolare, la società che, tra le cause dell'allagamento, un particolare rilievo aveva assunto il mancato funzionamento delle elettropompe che il comune aveva installato proprio al fine di prevenire l'evento poi verificatosi.
Il giudice di primo grado respinse sia la domanda della società, sia quella proposta in corso di giudizio dal condominio nei confronti del comune per omessa o carente manutenzione della fognatura.
...
Quanto alla responsabilità del comune di Lissone risulta in fatto accertato -come si legge nella motivazione della pronuncia oggi impugnata:
- che i locali di proprietà dell'odierna ricorrente rimasero seriamente danneggiati a seguito dell'allagamento causato da un forte temporale, di carattere eccezionale;
- che la capacità di smaltimento delle elettropompe era da ritenersi comunque insufficiente rispetto all'intensità della precipitazione;
- che, conseguentemente, l'accertamento circa il mancato funzionamento delle pompe stesse (circostanza allegata dall'attrice in prime cure) doveva ritenersi ininfluente ai fini del decidere, proprio in conseguenza della loro insufficienza allo smaltimento della eccezionale precipitazione.
Di qui, la riconduzione dell'evento di danno al caso fortuito.
La questione giuridica sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste, pertanto, nello
stabilire se un fenomeno di pioggia intensa e persistente, tale da assumere i connotati di una pioggia definita dalla Corte d'appello come di eccezionale intensità, alla luce degli acquisiti dati pluviometrici, possa costituire o meno un evento riconducibile alla fattispecie del fortuito, idoneo di per sé ad interrompere il nesso di causalità, in considerazione del suo carattere di straordinarietà ed imprevedibilità - quesito al quale la Corte d'appello ha dato risposta affermativa.
La questione non è nuova nella giurisprudenza di questa Corte.
La sentenza 11.05.1991, n. 5267, relativa alla diversa fattispecie di un contratto di deposito nei magazzini generali, ebbe già ad affrontare il problema della possibilità di riconoscere la natura di caso fortuito in riferimento ad un allagamento provocato da intense precipitazioni atmosferiche; e, sia pure con le diversità evidenti rispetto alla fattispecie per la quale è ancor oggi processo, questa Corte osservò che "
per caso fortuito deve intendersi un avvenimento imprevedibile, un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente nella serie causale come fattore determinante in modo autonomo dell'evento. Il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza".
La successiva sentenza 22.05.1998, n. 5133, emessa in un giudizio avente ad oggetto un risarcimento danni per allagamento di un negozio conseguente all'invasione delle acque a seguito di abbondanti piogge, affermò che "
possono integrare il caso fortuito precipitazioni imprevedibili o di eccezionale entità", rilevando che l'evento imprevedibile costituisce caso fortuito e non determina responsabilità.
In tempi più recenti, la sentenza 09.03.2010, n. 5658 -emessa in un giudizio di risarcimento danni nei confronti dell'ANAS per allagamenti conseguenti alla tracimazione delle acque ed alla cattiva manutenzione dei sistemi di smaltimento delle acque piovane- ha affermato che
è certamente vero "che una pioggia di eccezionale intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad eventi di danno come quello in questione; ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso fortuito".
Con quest'ultima pronuncia, in particolare, è stato precisato che,
per potersi condividere la decisione del giudice di merito che in quell'occasione aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni, l'ANAS "avrebbe dovuto dimostrare che le piogge in questione erano state da sole causa sufficiente dei danni nonostante la più scrupolosa manutenzione e pulizia da parte sua delle opere di smaltimento delle acque piovane; il che equivale in sostanza a dimostrare che le piogge in questione erano state così intense (e quindi così eccezionali) che gli allagamenti si sarebbero verificati nella stessa misura pure essendovi stata detta scrupolosa manutenzione e pulizia".
La sentenza in esame ha poi aggiunto che,
ove fosse stato provato che la manutenzione e la pulizia sarebbero state idonee almeno a ridurre l'entità degli allagamenti, si sarebbe dovuto fare applicazione della previsione di cui all'art. 1227, coma 1, c.c..
Ritiene questo Collegio che
vada confermato tale, più recente orientamento, con le necessarie precisazioni richieste dalla specificità del caso in esame.
La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità del soggetto che invoca l'esimente in questione.

Applicando tale principio al caso di specie, è evidente l'errore in cui è caduta la sentenza impugnata la quale, trascurando del tutto ogni accertamento in ordine al funzionamento delle pompe di smaltimento (che si assume da parte ricorrente non funzionanti) sulla scorta dell'erronea considerazione della loro insufficienza a smaltire l'intero flusso delle acque (senza interrogarsi né sulla possibilità e sulla efficacia causale di uno smaltimento anche solo parziale, né su eventuali responsabilità amministrative circa le caratteristiche stesse delle pompe di filtraggio), ha tuttavia attribuito, sic et simpliciter, il carattere del fortuito determinante alla pioggia torrenziale che si era abbattuta sul territorio, omettendo altresì di considerare le rilevanti perplessità espresse dal ctu circa il reale stato di manutenzione della fognatura (ff. 11-12 della relazione, riportata in ricorso al foglio 26).
La Corte d'appello, di converso, ha ritenuto -sulla base di un sillogismo evidentemente privo delle necessarie premesse- che anche un sistema di deflusso che fosse stato realizzato e avesse funzionato nel pieno rispetto di tutte le norme tecniche e di ordinaria diligenza non sarebbe stato idoneo a contenere la furia delle acque e ad evitare il danno.
E' tale affermazione ad apparire, nella sostanza, sfornita di motivazione, mentre è evidente che l'accertamento di una sicura responsabilità in capo all'ente tenuto alla manutenzione avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della fattispecie, allo scopo di valutare se, come ed in quale percentuale l'esecuzione dei lavori a regola d'arte e il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre l'entità dei danni.
Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi e mantenga un'opera pubblica trova un limite nell'obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che dall'inosservanza di queste disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità della responsabilità della stessa pubblica amministrazione per i danni arrecati a terzi (tra le altre, Cass. 09.10.2003, n. 15061 e 11.11.2011, n. 23562).
E' appena il caso di aggiungere, infine, che ogni riflessione, declinata in termini di attualità, sulla prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere alluvionale, certamente impone, oggi, in considerazione dei noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti e, ormai, tutt'altro che imprevedibili
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 24.03.2016 n. 5877).

PATRIMONIO: Vie provinciali, palla al comune. Ok la manutenzione. Per la sicurezza.
Un comune può avviare interventi di manutenzione straordinaria su beni di proprietà di altro soggetto, se questo intenda tutelare le esigenze e la sicurezza della collettività locale.

Così la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Regione Piemonte, nel testo del parere 24.03.2016 n. 29, nel fare chiarezza sulla possibilità, per un'amministrazione comunale, di intervenire economicamente al ripristino di un una strada di proprietà dell'ente provinciale del territorio.
Il comune di Zubiena (Biella) chiedeva alla Corte se fosse possibile intervenire con le risorse del proprio bilancio, per far fronte ad interventi su strade provinciali che insistono sul proprio territorio, stante la momentanea disponibilità da parte dell'ente proprietario della strada.
In primo luogo, il comune è tenuto a realizzare gli interessi della collettività locale, così come prevede l'art. 13 Tuel. È pacifico, pertanto, che l'amministrazione comunale sia interessata al fatto che la rete viaria esistente sul proprio territorio sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti proprietari, anche ai fini della tutela e la sicurezza della collettività locale.
Ne consegue che, in situazioni peculiari e qualora sia accertata l'impossibilità temporanea ad intervenire da parte dell'ente proprietario, il comune ha tutto l'interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada provinciale, poiché questo tutela la sicurezza dei cittadini amministrati.
Quanto all'intervento economico destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro soggetto, la Corte ha sottolineato che l'uscita delle risorse dal bilancio comunale trova «puntuale giustificazione» nella dimostrazione del perseguimento di un «indifferibile» interesse della comunità locale.
Il materiale «spostamento» di risorse tra gli enti interessati, poi, potrebbe successivamente regolarsi mediante lo strumento della convenzione ex articolo 30 Tuel, grazie al quale verrebbero regolati i rapporti finanziari e le previsioni di restituzione, all'interno del principio costituzionale della «leale collaborazione tra amministrazioni pubbliche» (articolo ItaliaOggi del 12.04.2016).

PATRIMONIO: Sulla possibilità -o meno- di destinare fondi comunali ad interventi su beni di proprietà provinciale.
E' evidente che l’amministrazione comunale sia interessata al fatto che la rete viaria esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela delle esigenze e della sicurezza della collettività locale, sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti proprietari.
In situazione peculiari,
qualora sia accertata l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe comunque trovare puntuale giustificazione nella dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse della comunità locale.

D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie, ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni pubbliche.

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Con la nota pervenuta in data 05.02.2016 il Sindaco del Comune di Zubiena (BI) ha rivolto alla Sezione una richiesta di parere in ordine alla questione inerente la possibilità di effettuare interventi destinati a strade provinciali.
In particolare l’istante formula un quesito circa la possibilità per il Comune di intervenire con proprie risorse di bilancio per far fronte ad interventi su strade provinciali.
Precisa di aver ricevuto sollecitazione a tale tipo di intervento dalla locale amministrazione provinciale e da rappresentanti della minoranza consiliare, ma di non avere ancora posto in essere alcuna iniziativa.
...
Il quesito formulato attiene sotto un aspetto generale alla tematica della possibile destinazione di fondi comunali ad interventi su beni di proprietà di un soggetto giuridico diverso, trattandosi nella fattispecie delineata dall’istante di strade appartenenti all’ente Provincia.
Va al proposito evidenziato che
qualunque genere di intervento economico dell’amministrazione comunale, per potersi eventualmente qualificare in termini di legittimità della sottostante azione, deve necessariamente sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il Comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, co. 2, d.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità.
Al riguardo va osservato che la giurisprudenza contabile, nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha avuto modo di elaborare da tempo il principio generale per cui
se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (come tali generalmente ammissibili) l’erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Corte conti, sez. contr. Lombardia, 29.06.2006, n. 9, sez. controllo Lombardia 13.12.2007 n. 59, sez. controllo Lombardia 05.06.2008 n. 39).
Inoltre anche in ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale o comunque del beneficiario dell’intervento del Comune, la medesima giurisprudenza ha precisato che
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge di disciplina del procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico (Corte conti, sez. contr. Lombardia, 13.01.2010 n. 1; id. 31.05.2012 n. 262; Corte conti, sez. contr. Piemonte, 19.02.2014 n. 36).
E’ stato altresì precisato che
ogniqualvolta l’amministrazione ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale ovviamente le cautele debbono essere maggiori –rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici- anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte conti, sez. contr. Lombardia, 11.09.2015 n. 279).
Dunque
sotto tale profilo il baricentro dell’attenzione circa il corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai attestato in correlazione con l’effettiva realizzazione di un interesse pubblico (riferibile all’ente interessato) a prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale.
Occorre al riguardo evidenziare che
il Comune è tenuto in via generale a realizzare gli interessi della collettività locale e secondo l’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000 esercita tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico.
Sotto un profilo specifico inerente la gestione della rete stradale inoltre, ai sensi dell’art. 14 del Codice della strada, va rammentato che il comune è chiamato, quale ente proprietario delle strade a provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione.
La suddetta regola del resto è altresì contenuta nell’art. 39 della legge 20.03.1865 n. 2248 –allegato F- legge sui lavori pubblici che pone infatti a carico dei comuni gli oneri di “costruzione, sistemazione e mantenimento” delle strade comunali così come specularmente l’art. 37 pone a carico delle province i medesimi oneri relativi alle strade provinciali.
Al riguardo non può non rilevarsi che
l’ordine delle competenze di ciascun ente pubblico è fissato in via tassativa della legge, sicché non è arbitrariamente alterabile dal singolo ente pena l’indebita invasione di competenze altrui.
Va tuttavia osservato che nell’ambito del territorio comunale di norma esistono una pluralità di strade appartenenti anche ad altri enti pubblici ovvero lo Stato, la Regione o la provincia secondo le previsioni del codice stradale.
In siffatto contesto
è evidente che l’amministrazione comunale sia interessata al fatto che la rete viaria esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela delle esigenze e della sicurezza della collettività locale, sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti proprietari.
In situazione peculiari,
qualora sia accertata l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe comunque trovare puntuale giustificazione nella dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse della comunità locale.

D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie, ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni pubbliche.
Entro il sopra delineato quadro complessivo l’amministrazione comunale dovrà pertanto procedere ad effettuare le valutazioni discrezionali di propria spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 24.03.2016 n. 29).

PATRIMONIO - SICUREZZA LAVOROIncolumità, palla ai professori. I responsabili e i dirigenti garantiscono la sicurezza. SCUOLA/ La Cassazione sulle iniziative da assumere se gli edifici sono pericolanti.
È responsabilità penale specifica dei docenti delle scuole incaricati come responsabili del servizio prevenzione e protezione, nonché dei dirigenti degli enti locali addetti all'edilizia scolastica, garantire l'incolumità degli edifici scolastici.

Per queste ragioni, la Corte di Cassazione, IV Sez. penale, con la sentenza 22.03.2016 n. 12223, ha confermato la sentenza di condanna in appello di funzionari e dirigenti della Provincia di Torino e dei docenti responsabili della prevenzione della protezione del Liceo Darwin di Rivoli, ove avvenne il 22.11.2008 il crollo nel quale perse la vita Vi.Sc., col ferimento di 16 altri studenti.
La sentenza fa chiarezza su punti da sempre controversi della disciplina della sicurezza negli edifici e luoghi di lavoro. La Cassazione considera assodato che spetti alla Provincia, quale ente proprietario degli immobili scolastici, assumere direttamente le iniziative necessarie per svolgere attività di controllo, manutenzione preventiva e riparazione, senza dovere allo scopo aspettare segnalazioni della scuola.
Tuttavia, rileva la sentenza, la scuola, nonostante sia priva di poteri decisionali e di spesa in merito agli interventi di manutenzione edilizia, di per sé non può restare esente da responsabilità e, con sé, gli incaricati della prevenzione e della sicurezza. I quali hanno in ogni caso l'obbligo di adottare ogni misura per l'incolumità, come del resto indicato nel decreto ministeriale 382/1998 e nella circolare 119/1999.
Nella sostanza, tanto i dirigenti e funzionari della provincia quanto i docenti del Liceo Darwin hanno violato la diligenza specifica richiesta hanno violato i doveri posti in capo a quello che la Cassazione definisce «l'agente modello», cioè il soggetto «ideale», in grado di svolgere pienamente e al meglio il compito affidatogli. Nelle difese, i funzionari e dirigenti, nonché i docenti della scuola, secondo la Cassazione non hanno operato così da rendere il danno che poi si è verificato come «prevedibile» ed «evitabile», nonostante vi fossero chiari indizi tecnici.
Né, a discolpa, potevano appellarsi all'assenza di una preparazione scientifica adeguata al caso specifico. Infatti, spiega la IV Sezione, l'agente modello adegua la propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità scientifica e se non dispone di tali conoscenze ha l'obbligo di acquisirle, oppure di utilizzare le conoscenze di professionisti terzi o, ancora, di «segnalare al datore di lavoro la propria incapacità a svolgere adeguatamente la funzione alla quale è incaricato».
Responsabilità particolare dei dirigenti degli uffici tecnici di edilizia scolastica provinciali succedutisi negli anni, poi, non è tanto non aver effettuato personalmente sopralluoghi e rilievi, del resto impossibili da chiedere dato l'elevato numero degli edifici, ma non aver provveduto a un'adeguata mappatura degli edifici, per valutarne i rischi connessi.
La sentenza oltre a mettere in rilievo le rilevanti responsabilità dei dirigenti provinciali e dei docenti incaricati della prevenzione, indirettamente mette il dito sulla piaga sempre aperta dello stato degli edifici scolastici in Italia, molti dei quali in condizioni di pericolosità. Sul punto, molte sono le contraddizioni dell'ordinamento. Infatti, per esempio, la Cassazione esorta i responsabili ad avvalersi delle competenze altrui, se privi delle conoscenze scientifiche: ma nella pubblica amministrazione incarichi di consulenza sono sostanzialmente tutti fonte di danno erariale.
Ma, cosa ancora più rilevante, le province sono rimaste titolari delle competenze sull'edilizia scolastica, pur essendo stati falcidiati i loro bilanci con tagli che le destinano al dissesto e nel personale. Essere nei panni di dirigenti dell'edilizia scolastica, date queste premesse, non è impresa facile (articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).
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MASSIMA
9. Con motivo comune le difese degli imputati Ma., Pi. e Tu., richiamando il contenuto dell'art. 18, comma 3, del decreto legislativo n. 81 del 2008 sostengono che avrebbero dovuto essere mandati esenti da ogni responsabilità per gli eventi di cui è causa. Significativamente la questione è posta sia da imputati ritenuti responsabili in quanto funzionari della Provincia che da altri che rivestivano, invece, il ruolo di RSPP.
Tale norma che ha trasfuso l'art, 4 comma 12, del decreto legislativo n. 626 del 1994 prevede che gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente Decreto Legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione.
In tale caso gli obblighi previsti dal presente Decreto Legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta de/loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.
Va osservato a riguardo che
nella specie è pacifico che il liceo Darwin dipendesse per gli interventi strutturali e di manutenzione dalla Provincia, mentre "datore di lavoro" era da intendersi l'istituzione scolastica, soggetto che non possiede poteri decisionali e di spesa. Non può pertanto dubitarsi della posizione di garanzia dei funzionari della Provincia cui gravava l'obbligo degli interventi di manutenzione straordinaria dell'edificio.
Ciò tuttavia non comporta che la scuola resti esente da responsabilità anche nel caso in cui abbia richiesto all'Ente locale idonei interventi strutturali e di manutenzione poi non attuati, incombendo comunque al datore di lavoro (e per lui come si vedrà al RSPP da questi nominato) l'adozione di tutte le misure rientranti nelle proprie possibilità, quali in primis la previa individuazione dei rischi esistenti e ove non sia possibile garantire un adeguato livello di sicurezza, con l'interruzione dell'attività.

Ulteriore conferma si rinviene nel decreto ministeriale n. 382 del 1998 e nella circolare ministeriale n. 119 del 1999 che
prevede l'obbligo per l'istituzione scolastica di adottare ogni misura idonea in caso di pregiudizio per l'incolumità dell'utenza. Si configura insomma una pregnante posizione di garanzia in tema di incolumità delle persone. Tale obbligo è stato palesemente violato a causa della mancata valutazione della inadeguatezza dell'edificio sotto il profilo della sicurezza a causa della presenza del vano tecnico sovrastante il controsoffitto.
10.
Quanto, in particolare, al ruolo ed ai connessi profili di responsabilità della figura del RSPP, va osservato che (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 254094) svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è priva di autonomia decisionale: esse, tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze.
Tale figura non è destinataria in prima persona di obblighi sanzionati penalmente; e svolge un ruolo non operativo, ma di mera consulenza. L'argomento non è tuttavia di per sé decisivo ai fini dell'esonero dalla responsabilità penale. In realtà, l'assenza di obblighi penalmente sanzionati si spiega agevolmente proprio per il fatto che il servizio è privo di un ruolo gestionale, decisionale. Tuttavia quel che importa è che il RSPP sia destinatario di obblighi giuridici; e non può esservi dubbio che, con l'assunzione dell'incarico, egli assuma l'obbligo giuridico di svolgere diligentemente le funzioni che si sono viste.
D'altra parte, il ruolo svolto dal RSPP è parte inscindibile di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro e la sua attività può ben rilevare ai fini della spiegazione causale dell'evento illecito.

Gli imputati, nella veste di RSPP, erano astretti, come si è sopra esposto, all'obbligo giuridico di fornire attenta collaborazione al datore di lavoro individuando i rischi lavorativi e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli. Le singole posizioni dei tre imputati sono state a riguardo debitamente evidenziate (cfr. pag. 68 dell'impugnata sentenza).
Né può censurarsi la gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto che gli imputati in questione avessero posseduto le competenze adeguate alla natura dei rischi presenti per poter adempiere in primis al loro obbligo di preliminare adeguata valutazione dei rischi, trattandosi comunque di professionisti qualificati, dotati di ampia esperienza nel campo.
Né può farsi genericamente valere la presenza di altri titolari della posizione di garanzia perché la compresenza di più titolari della posizione di garanzia non è evenienza che esclude, per ciascuno, il contributo causale nella condotta incriminata (cfr. Sez. 4 n. 1194 del 15/11/2013 Rv. 258232).
11. Con riferimento alle ulteriori problematiche sottese all'odierna vicenda,
vanno richiamati i principi individuati da questa Corte di legittimità (cfr. ex plurimis Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Rv. 247015) ed i criteri utilizzati per verificare la prevedibilità dell'evento e anche quelli riguardanti l'evitabilità del medesimo; nel senso che anche per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per evitarlo è necessario individuare criteri di misura oggettivi.
La giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l'ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un'attività di natura eminentemente tecnica) o dall'uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall'uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del c.d. "agente modello" (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all'esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili.
Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un'attività, tanto più se di carattere tecnico, ha l'obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività pericolose consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura "oggettiva" della colpa diversa dal concetto di misura "soggettiva" della colpa che non rileva nel presente giudizio.
È stato sottolineato che la necessità di individuare un modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei casi (per es. l'attività medico chirurgica) nei quali difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici.
L'agente modello, si è detto, va di volta in volta individuato in relazione alle singole attività svolte e "lo standard della diligenza, della perizia e della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che "svolga" la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell'agente reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera quest'ultimo".
Il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d'avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto. Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d'altro canto, neppure possono essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l'esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte.
Utilizzando quindi tale criterio dell'agente modello quale -lo si ribadisce- agente ideale in grado di svolgere al meglio il compito affidatogli; in questo giudizio si deve tener conto non solo di quanto l'agente concreto ha percepito ma altresì di quanto l'agente modello avrebbe dovuto percepire valutando anche le possibilità di aggravamento di un evento dannoso in atto che non possano essere ragionevolmente escluse.
L'addebito soggettivo dell'evento richiede comunque non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine, non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato. A questi criteri si è attenuta la Corte di merito che si è posta il problema dell'osservanza delle regole cautelari in relazione alla situazione percepibile con l'osservanza delle regole di cautela esigibili nella fattispecie dall'agente modello e non in relazione -come sostanzialmente sostenuto da parte di alcuni ricorrenti- alla preparazione professionale degli agenti concreti negando l'esistenza della colpa perché i medesimi non avevano la preparazione scientifica necessaria.
Detta tesi è da ritenere erronea perché
agente modello è colui che adegua la propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità scientifica e che, se non dispone di queste conoscenze, adempie all'obbligo -se intende svolgere un'attività che comporta il rischio di eventi dannosi- di acquisirle o di utilizzare le conoscenze di chi ne dispone o, al limite, di segnalare al datore di lavoro la propria incapacità di svolgere adeguatamente la propria funzione.
Insomma
se un soggetto riveste una posizione di garanzia per una funzione di protezione del garantito deve operare per assicurare la protezione richiesta dalla legge al fine di evitare eventi dannosi e non può addurre la propria ignoranza per escludere la responsabilità dell'evento dannoso. Ove si accedesse ad una diversa impostazione, chiunque, anche se inesperto e incapace, potrebbe svolgere un'attività che comporta rischi di eventi dannosi e che richiede, per il suo svolgimento, conoscenze tecniche o scientifiche adducendo la sua ignoranza nel caso in cui questi eventi dannosi in concreto si verifichino.
I ricorsi degli imputati nel resto sono a riguardo peraltro articolati con numerosi riferimenti a dati fattuali e, sostanzialmente, propongono una lettura alternativa del compendio probatorio effettuata, nella maggior parte dei casi, attraverso il confronto tra i contenuti della sentenza di primo grado e quella impugnata.
Va in proposito ricordata la consolidata giurisprudenza di questa Corte orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell'apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all'art. 606 cod. proc. pen. dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 3 n. 12110, 19.03.2009; Sez. 6 n. 23528, 06.07.2006; Sez. 6 n. 14054, 20.04.2006; Sez. 6 n. 10951, 29.03.2006).
Si è altresì precisato che il vizio di motivazione ricorre nel caso in cui la stessa risulti inadeguata perché non consente di riscontrare agevolmente le scansioni e gli sviluppi critici che connotano la decisione riguardo a ciò che è stato oggetto di prova ovvero impedisce, per la sua intrinseca oscurità od incongruenza, il controllo sull'affidabilità dell'esito decisorio, sempre avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle prospettazioni formulate dalle parti (Sez. 6 n.7651, 25.02.2010).
Ancor più efficacemente si è specificato come il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo della decisione impugnata sia circoscritto alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente, che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 n. 15801, 19.04.2010, Sez. 6 n. 38698, 22.11.2006).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha sviluppato un percorso argomentativo del tutto coerente e logico, confrontandosi adeguatamente -come già sopra sottolineato con la sentenza assolutoria di primo grado.
Con riferimento alla prevedibilità dell'evento (unica questione su cui sostanzialmente le due sentenze di merito divergono, avendo il primo giudice ritenuto che non si era in presenza di segni di dissesto agevolmente riconoscibili) la Corte territoriale ha in primo luogo posto in evidenza -come già ricordato- come quello che la sentenza di primo grado definiva un semplice "controsoffitto", aveva invece la funzione di costituire il solaio di un cosiddetto vano tecnico della estensione di circa 1000 mq., e del peso di circa otto tonnellate, che, come tale doveva sostenere oltre il peso proprio, di per sé molto rilevante, anche il sovraccarico dei servizi presenti, del materiale che nel tempo si era ivi accumulato, nonché l'eventuale peso del personale della manutenzione, che sicuramente vi aveva fatto accesso, quanto meno per la sostituzione dei tubi di scarico del piano superiore.
Agli imputati è stato quindi dì fatto addebitato di aver ignorato l'esistenza dei detto vano che presentava numerose varie criticità e difetti, nonostante l'accertata presenza di una botola che ne consentiva agevolmente l'accesso.
In particolare la sentenza impugnata ha sottolineato come il detto accesso, previa apertura della botola non costituiva un eccesso di scrupolo, ma una doverosa necessità per tutti gli imputati, onde adempiere agli obblighi giuridici connessi alle rispettive funzioni. L'apertura della botola avrebbe consentito di verificare lo stato del vano tecnico ed di evidenziarne le già ricordate problematiche (cfr. pagg. 34 e ss. della impugnata sentenza).
...
13. Vanno da ultimo esaminate alcune questioni specifiche poste in particolare dal ricorrente Mo., anche se riecheggiate anche in altri ricorsi.
Sostiene in particolare il Mo. che nulla gli potrebbe essere addebitato per aver emesso un'apposita direttiva volta ad effettuare dei sopralluoghi finalizzati ad accertare la necessità di eventuali interventi. Sul punto la gravata sentenza ha ritenuto l'assoluta genericità di detta direttiva.
Detta affermazione -confutata dal ricorrente- va tuttavia calata nell'ambito dell'intero compendio motivazionale della gravata sentenza che ha sottolineato che pur essendo evidente che i funzionari e dirigenti della Provincia di Torino non avrebbero potuto svolgere personalmente tutti i controlli, agli stessi doveva comunque essere addebitata la mancata adeguata mappatura degli edifici al fine della valutazione di tutti i "rischi" verificabili, incombente questo rientrante nei precipui obblighi di controllo e di interevento su tutte le fonti di insicurezza.
E che tale fosse la presenza del "controsoffitto" di cui si discute è di palmare evidenza alla luce delle caratteristiche dello stesso quali in precedenza rammentate, della sua risalenza nel tempo, elementi questi che, come icasticamente affermato dalla difesa della parte civile nel corso del giudizio di appello e riportato nella sentenza impugnata (cfr. pag. 15) lo rendevano una vera e propria "bomba ad orologeria", innescata e sovrastante l'aula $ G del liceo Darwin, a fronte della quale per quasi mezzo secolo, nessun intervento era stato operato.
Altra questione posta è quella relativa alla individuazione quale "luogo di lavoro" del vano tecnico. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che
nella nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui viene svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro, indipendentemente dalle finalità -sportive, ludiche, artistiche, di addestramento o altro- della struttura in cui essa si svolge e dell'accesso ad essa da parte di terzi estranei all'attività lavorativa (cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, Rv. 258435).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dalla circostanza che il vano tecnico in questione era accessibile e che allo stesso si era concretamente fatto in passato accesso da parte degli operai per la sostituzione dei tubi, non può tralasciarsi che esso costituiva anche il controsoffitto dell'aula sottostante (nonché di numerosi altri locali) , aula in cui si svolgeva costantemente attività lavorativa anche in senso stretto.
E' stata posta altresì questione in ordine alle effettive cause di morte dello studente Vi.Sc., individuate dai giudici di merito nel colpo da questi subito alla testa ove era stato attinto da uno dei tubi di ghisa abbandonati nel vano tecnico. Anche detto accertamento è stato compiuto dai giudici di merito sulla base delle risultanze peritali per cui si rimanda alle osservazioni svolte in precedenza.
La questione tuttavia non ha la rilevanza che gli viene attribuita atteso che non modifica sostanzialmente il decorso causale dell'evento, in ogni caso immediata conseguenza del crollo del solaio, cui ha sicuramente contribuito quale concausa il sovraccarico del materiale ivi lasciato. La presenza di detto materiale, icto oculi accertabile rafforza per altro verso le argomentazioni in ordine alla prevedibilità e prevedibilità dell'evento come sopra formulate.

PATRIMONIO: Alienazione di terreni comunali tramite trattativa privata. Pubblicità.
Poiché la normativa di settore in materia di alienazioni del patrimonio pubblico nulla dispone in merito alle forme di pubblicità da osservarsi per la trattativa privata esperibile a seguito di asta pubblica andata deserta, il Comune, in ossequio ai generali principi di trasparenza, pubblicità e buon andamento dell'azione amministrativa, può dare notizia dell'indizione della procedura con modalità che esso stesso può individuare discrezionalmente.
Il Comune, che non si è ancora dotato di un regolamento in materia di alienazione del proprio patrimonio immobiliare, di cui all'art. 12, comma 2
[1], della legge 15.05.1997, n. 127, avendo esperito un'asta pubblica, andata deserta, intende ora indire una trattativa privata, ai sensi dell'art. 55 [2] del regio decreto 17.06.1909, n. 454 [3], al fine di alienare beni immobili del valore stimato di euro 390.000,00.
L'Ente chiede di conoscere se la pubblicazione dell'avviso di indizione della procedura all'albo comunale e sul sito Internet sia sufficiente a ritenere rispettato il requisito dell'adeguata pubblicità.
Anzitutto, occorre rilevare che l'art. 3, primo comma, della legge 24.12.1908, n. 783
[4], dispone che «La vendita dei beni si fa mediante pubblici incanti sulla base del valore di stima, previe le pubblicazioni, affissioni ed inserzioni da ordinarsi dall'amministrazione demaniale in conformità del regolamento per la esecuzione della presente legge» e che il R.D. 454/1909 nulla dispone in merito alle forme di pubblicità da osservarsi ove si ricorra alla trattativa privata [5].
Occorre, poi, chiarire che la previsione di 'adeguata pubblicità' è contenuta nel già richiamato art. 12, comma 2, della L. 127/1997, il quale consente ai comuni e alle province di alienare il proprio patrimonio immobiliare derogando alla specifica disciplina di settore ed a quella concernente la contabilità generale degli enti locali, ma osservando, comunque, i princìpi generali dell'ordinamento giuridico-contabile, a condizione che essi si dotino di un apposito regolamento, che assicuri criteri di trasparenza e «adeguate forme di pubblicità» per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto.
In tale contesto, quindi, la valutazione dell'adeguatezza spetta unicamente all'ente locale, al quale il legislatore rimette la scelta, di natura discrezionale, di individuare le forme di pubblicità da garantire.
La medesima considerazione vale anche con riferimento al caso di specie nel quale, in assenza di previsioni fornite dalla normativa di settore, il Comune, in ossequio ai generali principi di trasparenza, pubblicità e buon andamento dell'azione amministrativa, intende diffondere, con modalità che esso stesso può individuare discrezionalmente, l'avviso di indizione della trattativa privata.
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[1] «I comuni e le province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i princìpi generali dell'ordinamento giuridico-contabile. A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.».
[2] Il cui primo comma prevede (analogamente a quanto dispone l'art. 9, primo comma, della legge 24.12.1908, n. 783) che «È data facoltà all'Amministrazione di vendere a partiti privati, quando lo ritenga conveniente, gli immobili o lotti pei quali siansi verificate una o più diserzioni di incanti, purché il prezzo e le condizioni dell'asta o dell'ultima asta andata deserta non siano variati se non a tutto vantaggio dell'Amministrazione stessa.».
[3] «Regolamento per l'esecuzione della legge 24.12.1908, n. 783, sulla unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[4] «Unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[5] Prescrivendo, invece, rigorose forme di pubblicazione degli avvisi di indizione degli incanti
(21.03.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 9 del 04.03.2016, "Regolamento per il funzionamento della Banca della Terra Lombarda" (regolamento regionale 01.03.2016 n. 4).

febbraio 2016

PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Se il Funzionario ritarda il rinnovo dei contratti di locazione stipulati ai sensi della L. 431/1998 la condotta rientra nei casi di corruzione e di illegalità disciplinati dalla L. 190/2012?
IL CASO: i funzionari e il Responsabile dell'Ufficio tecnico, hanno avviato e concluso in ritardo il procedimento volto al rinnovo contrattuale delle locazioni ex L. 431/1998, di alcune unità immobiliari del Comune cosicché i contratti di locazione sono giunti a scadenza, e gli inquilini si sono visti recapitare a casa solo i bollettini recanti il vecchio importo del canone, richiesto però a titolo di indennità di occupazione illegittima.
Inoltre, in alcuni casi il canone è stato quantificato con riferimento alla misura minima, e in altri casi con riferimento a quella massima con disparità di trattamento tra le diverse unità.

(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il caso prospettato è un chiaro esempio di cattiva gestione del potere amministrativo e di situazione illecita, costituita da una anomala gestione del patrimonio immobiliare del comune, idonea ad arrecare un pregiudizio patrimoniale che può essere anche di ingente entità, a seconda del numero degli immobili coinvolti nella vicenda del mancato rinnovo.
Si tratta di una oggettiva condotta omissiva suscettibile di determinare, in danno del comune, il mancato introito di somme a titolo di maggiori canoni e di aumenti ISTAT che sarebbero stati incassati a seguito di un tempestivo rinnovo contrattuale.
In concreto, il danno arrecabile da tale condotta può individuarsi nella differenza tra indennità di occupazione, pari al canone corrisposto dai conduttori sulla base del contratto ormai scaduto, e il diverso e maggiore canone che concretamente il comune avrebbe dovuto riscuotere sulla base del rinnovo. Ponendo in essere tale condotta, i funzionari hanno omesso di conformarsi agli obblighi originanti non solo dalla normativa di settore ma anche ai doveri del codice di comportamento.
In particolare, la non omogeneità dei canoni relativi ad alloggi con analoghe caratteristiche, superficie e località, calcolati con parametri diversificati è indice sintomatico di possibili fattispecie di illegalità e di corruzione. Sul punto, va ricordato che la gestione del patrimonio, come ribadito anche dalla deliberazione ANAC n. 12/2015, è riconducibile alle aree con alto livello di probabilità di eventi rischiosi.
Nel caso di specie, l'evento rischioso è costituito dal danno erariale ascrivibile al ritardo/omesso rinnovo mentre la configurazione, in concreto, di una fattispecie corruttiva, rilevabile anche sensi della legge 190/2012, impone che il comportamento contra legem sia stato posto in essere per un interesse personale contrario all'interesse pubblico. Circostanza che va valutata caso per caso, senza possibilità di astratte generalizzazioni.
La valutazione deve tenere conto del contesto, interno ed esterno, nel quale risulta collocata la condotta dei funzionari, nonché delle misure di prevenzione della corruzione e dell'illegalità contenute nel PTPC del Comune, della loro effettiva attuazione da parte dei funzionari medesimi, della presenza o assenza di direttive, buone prassi e, infine, della presenza o assenza controlli e monitoraggi, nonché dell'eventuale occultamento dei fatti.
Solo dopo la valutazione di tutti questi elementi, è possibile accertare, con riferimento al singolo caso, se la fattispecie integri o meno i presupposti della corruzione disciplinata dalla legge 190/2012, con l'applicazione, in caso di accertamento positivo, di tutte le conseguenze dalla stessa derivanti in ordine di responsabilità dirigenziale, disciplinare, amministrativa-erariale, e relativa alla valutazione della performance organizzativa e individuale (tratto dalla newsletter 09.02.2016 n. 136 di http://asmecomm.it).

PATRIMONIO: La vendita all'asta dell'escavatore.
DOMANDA:
Mediante asta pubblica è stato venduto ad un privato un escavatore per un valore di € 1.500,00. La fattura di acquisto di tale bene non è mai stata registrata nei registri di acquisto in quanto non rilevante ai fini IVA perché attività istituzionale (manutenzione delle strade).
Si chiede pertanto: L’ente ha l’obbligo dell’emissione della fattura? In caso affermativo come dovrà essere fatta la fattura (esente ai sensi dell’art. 10, comma 27-quinquies, L. 633/1972)? Se ad acquistare il bene fosse una ditta che richiede la fattura, l’ente, come dovrà comportarsi, visto che agisce come un privato?
RISPOSTA:
La cessione del bene in oggetto è fuori campo IVA in quanto non effettuata nell’esercizio di attività commerciale ex art. 4 del DPR 633/1972. Pertanto non deve essere emessa fattura invocando l’esenzione di cui all’art. 10, c. 1, n. 27-quinquies), del citato decreto, trattandosi di regime riservato ad operazioni effettuate nell’esercizio d’impresa, riferite a beni per i quali, all’atto dell’acquisto, non è stata operata la detrazione per carenza di requisiti oggettivi.
Il Comune, pertanto, nel caso di specie può (l’emissione di documento non è obbligatoria) emettere un documento/ricevuta privo dei requisiti di cui all’art. 21 del DPR 633 (fattura), assoggettato ad imposta di bollo, dichiarando che il corrispettivo è fuori campo IVA in quanto la cessione è effettuata al di fuori dell’esercizio di attività commerciale per carenza del presupposto soggettivo ex art. 4, c. 1, del DPR 633/1972 (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: Tar Brescia. Strade strette, no ai camion.
Il comune può vietare la circolazione ai camion nelle strade troppo strette. E se aumenta il traffico e il disagio nella viabilità alternativa pazienza. Almeno fino alla realizzazione di nuove infrastrutture.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con l'ordinanza 02.02.2016 n. 111.
Un comune lombardo ha interdetto il traffico ai mezzi pesanti su una strada troppo stretta, incrementando la circolazione dei camion sulle strade vicine.
Contro questa decisione gli abitanti interessati dall'aumento dello smog hanno proposto ricorso al Tar evidenziando una serie di carenze tecniche delle loro strade.
Ma senza successo. Il collegio ha infatti incaricato la provincia di verificare le scelte comunali e i tecnici hanno confermato la logicità delle scelte. Anche se la decisione di indirizzare il traffico pesante su strade non completamente adeguate sembra censurabile, spiegano i giudici, è certamente una scelta opportuna vietare completamente il traffico pesante in una via dove due camion non potrebbero transitare per ragioni dimensionali (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).
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MASSIMA
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bagnolo Mella con ordinanza del comandante della Polizia Locale n. 73 del 29.09.2014, che segue analoghi provvedimenti, ha modificato in via sperimentale e provvisoria la viabilità di via Urne di Sopra e via Porzano, prevedendo in particolare il transito su tali strade dei mezzi pesanti fino alla realizzazione della bretella viaria tra la SP45-bis e la SP7.
2. I ricorrenti, che abitano nella zona interessata dalle nuove disposizioni, contestano la decisione del Comune, evidenziando che:
   (a) la condizione delle strade sopra indicate non sarebbe idonea a consentire il traffico dei mezzi pesanti, non essendo stati realizzati gli interventi suggeriti in uno studio della Provincia del dicembre 2013;
   (b) in realtà, la nuova soluzione viabilistica è destinata a rimanere in vigore per un lungo periodo, e dunque la rappresentazione dei fatti sarebbe fuorviante;
   (c) non sarebbero rispettate le indicazioni del PGT sulla viabilità nelle aree residenziali, né le norme tecniche sulla costruzione delle strade.
3. Un nuovo intervento sulla viabilità è stato poi disposto dal sindaco mediante ordinanza n. 45 del 25.05.2015. Le disposizioni di questo provvedimento assorbono anche quelle dell’ordinanza n. 73/2014, e confermano, in via definitiva, l’interdizione di via Gramsci ai mezzi pesanti e la deviazione di questi ultimi verso le strade di interesse dei ricorrenti.
4. Questo TAR con ordinanza n. 502 del 10.04.2015 ha disposto una verificazione a carico del responsabile dell’Area Tecnica della Provincia di Brescia, con facoltà di delega, per chiarire la compatibilità delle soluzioni viabilistiche descritte nell’ordinanza n. 73/2014 con le indicazioni contenute nello studio provinciale del dicembre 2013.
5. Successivamente, con ordinanza n. 1822 del 05.10.2015, questo TAR ha reiterato l’istruttoria, chiedendo di specificare:
   (a) se mezzi pesanti possano attualmente transitare in condizioni di sicurezza sulle strade indicate negli atti impugnati;
   (b) quali interventi di adeguamento siano necessari per migliorare il livello di sicurezza, anche con riferimento alle indicazioni contenute nello studio del dicembre 2013;
   (c) se vi siano soluzioni alternative praticabili con minori rischi e disagi;
   (d) se il ritorno dei mezzi pesanti su via Gramsci comporti un peggioramento delle condizioni di sicurezza.
6.
Dalla relazione, sottoscritta dall’arch. Lu.Za. e dal geom. Gi.Ba.Fr., funzionari tecnici della Provincia, e depositata il 24.12.2015, emergono in particolare le seguenti valutazioni e indicazioni:
   (a) il transito con mezzi pesanti sulle strade indicate negli atti impugnati può svolgersi in sicurezza, ma a condizione che siano risolte alcune criticità, puntualmente descritte nella relazione;
   (b) un paragrafo della relazione è dedicato ai suggerimenti per migliorare il livello di sicurezza sulle predette strade;
   (c) non è stato possibile valutare con precisione la praticabilità di percorsi alternativi, con deviazione del traffico verso direttrici esterne all’abitato, in particolare per quanto riguarda la misura dei rischi e dei disagi;
   (d) la carreggiata di via Gramsci presenta un restringimento, con annullamento delle banchine. Nel caso di transito contemporaneo di due mezzi pesanti in direzioni opposte si determina un rallentamento del traffico, che penalizza la funzionalità della strada ma non la sicurezza. Vi è però il rischio che i mezzi pesanti, anziché rallentare, preferiscano sormontare il marciapiede, creando una situazione di pericolosità grave.

7. Sulla base di questi elementi,
la decisione del Comune di indirizzare il traffico pesante su via Urne di Sopra e via Porzano, fino alla realizzazione della bretella viaria tra la SP45-bis e la SP7, non appare censurabile, in quanto la presenza di questo tipo di traffico in via Gramsci potrebbe esporre gli utenti della strada a rischi maggiori.
8. È peraltro evidente che la nuova organizzazione della viabilità richiede tempestivi interventi di sistemazione dei percorsi su cui è stato deviato il traffico pesante. L’aspettativa dei ricorrenti alla sicurezza della viabilità nei pressi delle rispettive abitazioni, se non può essere tutelata con la sospensione dei provvedimenti impugnati, è invece fondata e meritevole di attenzione per quanto riguarda gli interventi di sistemazione e messa in sicurezza suggeriti nella relazione della Provincia.

gennaio 2016

PATRIMONIO: Insidie: non c'è colpa del Comune se si cade su un gradino scivoloso. Occorre tenere un comportamento prudente.
Secondo la Cassazione il danneggiato avrebbe dovuto tenere conto dello stato dei luoghi.
Brutta disavventura per un turista che si accingeva a raggiungere la spiaggia: fatale l'ultimo scalino della scaletta di ferro che dalla strada porta al mare e la scivolata che provoca all'uomo una rovinosa caduta e danni alla schiena.
Ciononostante non è colpa del Comune: l'avventore avrebbe dovuto, infatti, tenere un comportamento più prudente, adeguato allo stato dei luoghi e per tutelare la propria incolumità.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI Civile, con ordinanza 07.01.2016 n. 56.
Sia in primo che in secondo grado il turista vede rigettarsi la richiesta di risarcimento dei danni cagionati da cosa in custodia, contro il Comune di Catania, per essere scivolato mentre si stava recando a mare.
Secondo la difesa la caduta dal ventiseiesimo scalino di una scaletta in ferro che dal solarium, a livello stradale, consentiva la discesa a mare è provocata dalla mancanza di un prodotto antisdrucciolevole. In più, viene evidenziato che lo scalino "incriminato" si trovava nella parte terminale della scala, immerso nell'acqua.
Anche gli Ermellini, tuttavia, concordano con i giudici di merito nel ritenere non sussistente la responsabilità per custodia del Comune ex art. 2051 c.c., mancando la prova circa il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno.
Il fatto che sugli ultimi gradini della scala non fossero applicate strisce antiscivolo non è una circostanza incompatibile con una struttura dei gradini di per sé predisposta per evitare di scivolare.
Inoltre, come evidenziato dai giudici di merito, il particolare contesto in cui era avvenuto l'infortunio (una lunga discesa in mare attraverso una scala) richiedeva da parte dei fruitori una particolare attenzione ad esso adeguata.
La Corte territoriale ha correttamente applicato i principi di diritto formulati dalla Cassazione secondo cui "La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall'art. 2051 cod. civ., ha carattere oggettivo, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del verificarsi dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia".
Inoltre, laddove il danno non sia l'effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento, "ma richieda che l'agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno".
A ciò deve aggiungersi che "l'allocazione della responsabilità oggettiva per custodia in capo al proprietario del bene demaniale per i danni che esso può provocare agli utenti non esime gli utenti stessi dal dover far uso di una ragionevole prudenza, adeguata allo stato dei luoghi, a salvaguardia della propria incolumità".
Il ricorso va pertanto rigettato (commento tratto da www.studiocataldi.it).

dicembre 2015

PATRIMONIO: Spese per acquisto arredi per la Protezione civile. Applicazione art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, negli enti locali.
L'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, contiene disposizioni in materia di riduzione della spesa delle pubbliche amministrazioni, ivi compresi gli enti locali, specificamente per l'acquisto di mobili e arredi. Il comma 144 del medesimo articolo prevede delle fattispecie di salvezza, tra cui gli acquisti effettuati per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica: in detta eccezione non sembrano rientrare gli acquisti di mobili e arredi per la Protezione civile.
La Corte costituzionale ha affermato che i vincoli posti dal legislatore statale per ragioni di coordinamento della finanza pubblica possono considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra le varie voci di spesa incise dal legislatore.
Sulla scia di questi principi espressi dalla Consulta, la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 1, comma 141, suddetto, obbliga gli enti locali al rispetto complessivo del tetto di spesa risultante dall'applicazione dell'insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi previsti da norme in materia di coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spesa soggette a limitazione avvenga in base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali dell'ente.

Il Comune pone dei quesiti in ordine alle limitazioni di spesa vigenti per acquisti di mobili e arredi, in particolare, se sia possibile acquistare scaffali ed arredi per la nuova sede della protezione civile, e se, per la base di calcolo in percentuale della spesa ammissibile per detti beni mobili, si debba o meno tener conto di quanto speso nel 2010 per gli arredi scolastici.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
Le questioni poste dall'Ente concernono una norma statale, per cui è d'obbligo precisare che competenti ad esprimersi sulla sua corretta applicazione sono gli uffici statali. Le riflessioni che seguono vengono, pertanto, formulate in via meramente collaborativa.
L'articolo 1, comma 141, della legge 228/2012 dispone che negli anni 2013, 2014 e 2015 gli enti locali non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia
[1], salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili.
Ai sensi dell'art. 1, comma 144, L. n. 228/2012, sono esclusi espressamente dal campo di applicazione del comma 141 gli acquisti effettuati per le esigenze del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, per i servizi sociali e sanitari svolti per garantire i livelli essenziali di assistenza.
In generale, la Corte dei conti ha affermato che la disposizione di cui al comma 141 mira a contenere la spesa pubblica complessiva per l'acquisto di mobili e arredi ed ha portata generale tale da ricomprendere anche gli arredi necessari ad allestire opere di nuova realizzazione, collegati quindi ad opere di nuova costruzione o ristrutturazione comportanti un ampliamento. Dette spese sono dunque da ricomprendere nel limite stabilito dalla norma, che non può essere di ammontare superiore al 20% della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili
[2].
Per quanto concerne le fattispecie di salvezza di cui al comma 144, ed in particolare quella relativa alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, questo Servizio si è già espresso nel senso di non potervi ricondurre gli acquisti delle autovetture riferite alla protezione civile
[3].
In particolare, si è segnalato quanto chiarito dal Governo, con riferimento al DPCM 03.08.2011 (oggi abrogato e trasfuso nel DPCM 25.09.2014) che prevede l'esclusione dal proprio ambito applicativo delle autovetture, tra le altre, 'adibite ai servizi operativi di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica'
[4]. In particolare, il Governo [5] ha ritenuto che non rientrino nell'esclusione stessa, tra le altre, per quanto qui di interesse, le auto utilizzate per servizi di protezione civile.
Si ritiene che simili considerazioni possano valere anche per l'acquisto dei beni mobili (scaffali ed arredi) di cui si discute nel caso in esame per la nuova sede della protezione civile, con la conseguenza di non potersi ricondurre gli stessi all'eccezione di cui al comma 144 riferita agli acquisti (tra l'altro) per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica.
Peraltro, il rispetto delle norme di contenimento della spesa pubblica -quale è l'art. 1, comma 141, in commento- va valutato anche tenuto conto delle modalità di applicazione di queste nelle autonomie locali, alla luce di quanto espresso al riguardo dalla Corte costituzionale.
La Consulta ha affermato che il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio. Questi vincoli possono considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra le varie voci di spesa incise dal legislatore
[6].
Nel quadro di questi principi espressi dalla Corte costituzionale, il Giudice contabile ha mostrato un orientamento non univoco in ordine all'applicazione negli enti locali delle norme di contenimento della spesa pubblica dettate dal legislatore statale.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti per la regione siciliana, con parere n. 94 del 30.11.2012, hanno affermato che il limite di spesa posto per le autovetture dall'art. 5, comma 2, DL n. 95/2012, deve essere interpretato alla stregua di quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 139/2012, con possibilità di compensazioni nell'ambito delle singole voci di spesa (in quel caso la richiesta di parere faceva riferimento alle tipologie di spesa di cui all'art. 6, DL n. 78/2010)
[7].
Di diverso tenore è, invece, l'orientamento espresso dalla Corte dei conti Lombardia, la quale sempre con riferimento al limite di spesa posto dall'art. 5, DL n. 95/2012, in tema di autovetture, ha affermato che non ne risulta possibile la deroga compensando lo sforamento con una maggiore riduzione delle altre voci di spesa oggetto di contenimento in base ad altre disposizioni di legge
[8].
A fronte delle diverse posizioni espresse dalle sezioni regionali di controllo in ordine all'applicazione negli enti locali delle norme di contenimento delle spese per il funzionamento degli apparati amministrativi, la Corte dei conti sezione Lombardia
[9], chiamata questa volta ad esprimersi proprio sull'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, oggetto d'esame, ha deferito alla Sezione delle Autonomie la questione concernente la sua corretta interpretazione, in particolare in ordine alla possibilità di conseguire l'obiettivo di riduzione delle spese per mobili e arredi (e in generale per i consumi intermedi) in maniera complessiva, avuto riguardo alle distinte previsioni di legge di contenimento della spesa [10], e dunque al risparmio complessivo di spesa derivante da queste.
Ebbene, la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie
[11], ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 1, comma 141, impone la ricerca di una soluzione interpretativa che salvaguardi le scelte decisionali degli enti locali in tema di allocazione delle risorse, ed ha espresso il seguente principio di diritto, al quale si devono conformare tutte le sezioni regionali di controllo: 'L'art. 1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel disporre limiti puntuali alle spese per l'acquisto di mobili e arredi, obbliga gli enti locali al rispetto complessivo del tetto di spesa risultante dall'applicazione dell'insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi previsti da norme in materia di coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spesa soggette a limitazione avvenga in base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali dell'ente'.
In particolare, e venendo al quesito dell'Ente circa la quantificazione della spesa ammissibile per mobili e arredi, questa, in mancanza di precise indicazioni sul punto dei competenti organi statali, sembrerebbe ricavarsi applicando il relativo coefficiente di riduzione alla totalità della spesa sostenuta negli anni 2010 e 2011 per i mobili e arredi, ivi compresi quelli scolastici.
Si ritiene, infatti, che l'esclusione
[12] degli acquisti di mobili ed arredi destinati all'uso scolastico ed ai servizi dell'infanzia dall'applicazione delle norme di contenimento della spesa non possa comportare la sottrazione dalla base di calcolo percentuale, riferita alla spesa media degli anni 2010-2011, della spesa sostenuta per le suddette specifiche categorie di mobili e arredi, atteso che tale operazione si tradurrebbe in una limitazione del quantum disponibile per tutte le tipologie di mobili e arredi, non espressamente prevista dal legislatore.
Resta inteso che su queste considerazioni, rese in via meramente collaborativa, prevarranno gli eventuali chiarimenti di diverso avviso che dovessero pervenire dai competenti uffici statali.
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[1] Eccezione introdotta a seguito della novella recata dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l. 21.06.2013 n. 69, introdotto dalla legge di conversione 09.08.2013 n. 98.
[2] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, deliberazione n. 244 del 25.06.2013.
[3] Cfr. note n. 8908 del 20.03.2013, n. 33498 del 18.11.2013 e n. 4319 del 10.02.2014.
[4] DPCM 25.09.2014 recante: 'Determinazione del numero massimo e delle modalità di utilizzo delle autovetture di servizio con autista adibite al trasporto di persone'. Vedi in particolare l'art. 1, c. 2, del DPCM 25.09.2014 (in cui è stato trasfuso l'art. 1, c. 3, del DPCM 03.08.2011).
[5] Governo italiano, Ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Censimento permanente delle auto di servizio della pubblica amministrazione, Decreto Presidenza del Consiglio 03.08.2011, Formez PA, FAQ n. 9.
[6] Corte costituzionale, 04.06.2012, n. 139. In quella sede, la Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di alcune disposizioni dell'art. 6, DL n. 78/2010, ha affermato che tale norma prevede puntuali misure di riduzione di singole voci di spesa, ma ciò non esclude che da esse possa desumersi un limite complessivo nell'ambito del quale le Regioni (e gli enti locali, n.d.r.) restano libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa.
[7] Le Sezioni riunite per la regione siciliana, specificano, peraltro, che per le autovetture il limite complessivo di spesa è quello previsto dall'art. 6, c. 14, DL n. 78/2010 (80% della spesa sostenuta nel 2011), che coesiste col limite previsto dal sopravvenuto art. 5, DL n. 95/2012 (30% della spesa sostenuta nel 2011 a seguito della novella recata dall'art. 15, c. 1, D.L. n. 66/2014).
[8] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Lombardia, deliberazione n. 114 del 26.03.2013, secondo cui non si può ritenere possibile estendere il principio di compensazione a una serie eterogenea e di fonte non comune di obblighi di riduzione di spese del tutto differenziate (in quella fattispecie il comune richiedente citava l'art. 6, DL n. 78/2010, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012, etc.).
[9] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Lombardia, deliberazione n. 296/2013.
[10] Nella specie, l'ente che aveva formulato la richiesta di parere indicava l'art. 6, DL n. 78/2010, l'art. 5, c. 2, DL n. 95/2012, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012.
[11] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, 30.12.2013, n. 26, la quale osserva come l'inciso posto all'inizio del comma 141 'Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni', tende a considerare le norme finalizzate alla riduzione delle spese per consumi intermedi in un'ottica complessiva, con possibilità di compensazione tra le singole voci di spesa nel rispetto di un tetto massimo di spesa stanziabile a bilancio.
[12] Prevista dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l. 21.06.2013 n. 69, introdotto dalla legge di conversione 09.08.2013 n. 98, di novella dell'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012
(29.12.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Riduzione delle locazioni inapplicabile tra le p.a..
La riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva stipulati dalle p.a., prevista dal dl n. 95/2012, non è applicabile nell'ipotesi in cui entrambe le parti in causa siano ricomprese nell'alveo delle pubbliche amministrazioni. In questo caso, infatti, non si realizza la finalità della norma, vale a dire quella di contenere la spesa pubblica, in quanto gli effetti monetari sarebbero del tutto neutri.

È quanto ha precisato la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l'Emilia-Romagna, nel testo del parere 15.12.2015 n. 157, con cui viene fatta chiarezza sulla portata della norma contenuta all'articolo 3, comma 4 del dl n. 95/2012, come modificato dall'articolo 24, comma 4 del dl n. 66/2014.
In detta disposizione, lo si ricorderà, viene precisato che per esigenze di riduzione della spesa pubblica, a partire dall'01/07/2014 i canoni dei contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili istituzionali stipulati dalle amministrazioni pubbliche, devono essere ridotti del 15%, salvo diritto di recesso esercitabile dal locatore. Sulla scorta di ciò, il sindaco del Comune di Reggio Emilia, ha chiesto alla Corte se detta norma fosse applicabile al caso in cui le parti in causa in un contratto di locazione passiva appartengano entrambe all'alveo della Pubblica amministrazione.
Per il collegio della magistratura contabile emiliana, la disposizione in oggetto non pare applicabile nell'ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni. In tal senso, infatti, è preclusiva l'interpretazione della normativa che, lo si ribadisce, intende realizzare «il contenimento della spesa pubblica».
Ed è evidente, si legge nel parere, che la ratio della norma non si realizza quando il rapporto, sui cui canoni dovrebbe essere applicata la riduzione automatica del 15%, intervenga tra esse. Infatti, l'effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto all'obiettivo di contenimento della spesa pubblica, essendo di tutta evidenza che l'inserimento della clausola di riduzione, pur comportando per una p.a. un risparmio del 15%, per l'altra comporterebbe, in egual misura, un minor introito (articolo ItaliaOggi del 07.01.2016).

PATRIMONIO: A decorrere dall’01.07.2014, la riduzione nella misura del 15 per cento dei canoni di locazione corrisposti per i contratti di locazione passiva stipulati dalle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, è insuscettibile di applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie analoghe (dato il carattere eccezionale della norma), sicché -inevitabilmente- è preclusa che una previsione normativa formulata per un contratto di locazione trovi applicazione per la fattispecie -non sovrapponibile- di un rapporto di concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili, attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di interessi pubblici.
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Il Sindaco del Comune di Reggio nell’Emilia ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere con la quale intende conoscere se l’art. 3, comma 4 (richiamato dal successivo comma 7) del d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. n. 135/2012 e s.m.i., che prevede, a decorrere dall’01.07.2014, la riduzione nella misura del 15 per cento dei canoni di locazione corrisposti per i contratti di locazione passiva stipulati dalle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, trovi applicazione anche nell’ipotesi in cui il comune abbia dato in concessione e non in locazione un determinato immobile ad altro ente pubblico.
...
In via preliminare, occorre operare una breve ricognizione del quadro normativo di riferimento.
Il richiamato art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n.135, come successivamente modificato dall’art. 24, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, statuisce che “Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali … i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. … La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. …”.
Il successivo comma 7 del medesimo articolo puntualizza, altresì, che “Fermo restando quanto previsto dal comma 10, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 si applicano altresì alle altre amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto compatibili. …”.
Il problema esegetico che si pone, alla luce del richiamato contesto fattuale e normativo, è duplice.
In primo luogo, sotto il profilo soggettivo, afferisce l’applicabilità della summenzionata previsione normativa quando le parti del rapporto di concessione siano due pubbliche amministrazioni. In secondo luogo, sotto il profilo oggettivo, riguarda l’applicabilità in sé della prescrizione, prevista nell’ambito dei rapporti di locazioni, anche ai rapporti di concessione di beni pubblici.
Sotto il primo profilo, in sé assorbente rispetto al quesito posto,
la disposizione del novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012 non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva, in tal senso, l’interpretazione finalistica e financo letterale della normativa richiamata avente, peraltro, natura di norma eccezionale e, come tale insuscettibile di applicazione “oltre i casi e i tempi” in essa considerati (cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale). Si osserva, infatti che la statuizione oggetto di disamina è applicabile, prima di ogni ulteriore considerazione, quando realizzi la finalità richiamata nel testo di legge di “contenimento della spesa pubblica”.
All’evidenza,
tale finalità non si realizza qualora il rapporto concessorio, cui sarebbe eventualmente da applicare la riduzione automatica del canone nella misura del 15 per cento, intervenga tra due pubbliche amministrazioni. Infatti l’effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, essendo di assoluta evidenza che l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. di una tale clausola nel rapporto intercorrente tra due pubbliche amministrazioni, pur comportando per l’una un risparmio nella misura del 15 per cento di quanto corrisposto in precedenza, per l’altra comporterebbe, in egual misura, un minor introito.
Sotto il secondo profilo dell’ambito oggettivo, poi,
presenta non pochi profili di criticità l’applicazione di una norma di carattere eccezionale, prevista per l’ipotesi di contratti di locazione, a una concessioni di beni.
Preliminarmente, non è revocabile in dubbio e si ribadisce il carattere di norma eccezionale della previsione citata, appunto di eccezione alla regola generale, principio cardine dell’ordinamento, per cui le parti del rapporto negoziale (nella fattispecie locativo) sono vincolate nei termini contrattualmente previsti.
Ne consegue, pertanto, che
l’insuscettibilità dell’applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie analoghe, della norma di carattere eccezionale, inevitabilmente preclude che una previsione normativa formulata per un contratto di locazione trovi applicazione per la fattispecie non sovrapponibile di un rapporto di concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili, attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di interessi pubblici (cfr. C.S.U. del 26.06.2003, n. 10157) (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.12.2015 n. 157).

novembre 2015

PATRIMONIO: Contratti di locazione passiva di nuova stipulazione.
Ai sensi dell'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012, per i contratti di locazione passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle amministrazioni pubbliche (ivi compresi gli enti locali, ai sensi del comma 7 dell'art. 3 in argomento, come novellato dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014), si applica la riduzione del 15 per cento sul canone congruito dall'Agenzia del demanio.
Quest'ultima ha precisato che è facoltativo per gli enti locali chiedere la verifica di congruità del canone; una scelta in tal senso -evidenzia la Corte dei conti- è comunque prudenziale, anche al fine di non incorrere in responsabilità per danno erariale.
In ogni caso, per il magistrato contabile, sul canone congruito (a seguito della relativa attestazione dell'Agenzia del demanio, cui le amministrazioni comunali abbiano ritenuto di rivolgersi) dei contratti di nuova stipulazione, si applica la riduzione del 15%, a norma dell'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012.

Il Comune necessita di un immobile da adibire a magazzino comunale ed, essendo scaduto il contratto di locazione che aveva a tal fine stipulato, ha individuato, attraverso selezione pubblica, un nuovo immobile di superficie maggiore rispetto alla precedente. L'Ente chiede dunque se possa stipulare il nuovo contratto, atteso che il proprietario richiede un canone di locazione leggermente superiore a quello precedente.
Si evidenzia al riguardo che l'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012, stabilisce che 'Per i contratti di locazione passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle Amministrazioni di cui al comma 4
[1], si applica la riduzione del 15 per cento sul canone congruito dall'Agenzia del Demanio [...]' [2].
Ai sensi del comma 7 dell'art. 3 in argomento, a seguito della novella recata dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 dell'art. 3 medesimo, si applicano altresì alle altre amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, ivi compresi gli enti locali.
Come chiarito dalla Corte dei conti, l'espressione 'canone congruito dall'Agenzia del Demanio' si riferisce alla valutazione, demandata all'Agenzia, nell'ambito della sua attività di monitoraggio, di congruità del prezzo rispetto ai prezzi medi di mercato, per il rinnovo dei contratti di locazione, ai sensi dell'articolo 1, comma 388, della L. n. 147/2013
[3].
Per quanto concerne, specificamente, le locazioni di nuova stipulazione, la Corte dei conti chiarisce che gli enti locali potranno rivolgersi all'Agenzia del Demanio per la valutazione di congruità del prezzo: come precisato dalla medesima Agenzia (circolare n. 16155/2014 dell'11.06.2014) si tratta di una scelta facoltativa (ma prudenziale, anche al fine di non incorrere in responsabilità per danno erariale), in quanto le disposizioni in materia di locazioni, commi da 4 a 6 del D.L. n. 95/2012, si applicano alle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, in quanto compatibili.
In ogni caso -sottolinea la Corte dei conti
[4]- sul canone congruito [5] dei contratti di nuova stipulazione, si applica la riduzione del 15%, a norma del comma 6 dell'art. 3 del D.L. n. 95/2012.
Ed invero, per la Corte dei conti
[6], l'unica eccezione all'applicazione della riduzione obbligatoria del canone viene ravvisata con riferimento ai contratti di locazione in corso, nella sola ipotesi in cui il canone corrisposto al privato sia già inferiore all'importo ritenuto congruo dall'Agenzia del demanio, ridotto del 15%. E questo per evitare che l'ulteriore automatica riduzione, operata ai sensi del comma 4 dell'art. 3, D.L. n. 95/2012 [7], induca il privato ad esercitare il diritto di recesso. In questa evenienza, infatti, l'amministrazione si troverebbe nella necessità di stipulare un nuovo contratto ad un canone necessariamente più alto di quello originariamente corrisposto, anche in applicazione del comma 6 dell'art. 3 del D.L. n. 95/2012 (canone 'congruito' ridotto del 15%), vanificando proprio la finalità di vantaggio per l'Erario perseguita dalla norma.
A ben vedere, la Corte dei conti prende in esame il problema della stipula di un nuovo contratto di locazione ad un canone più alto di quello già pagato, per evitare che questo sia la conseguenza del recesso da parte del locatore, a seguito della decurtazione del canone, ai sensi dell'art. 3, comma 4, D.L. n. 95/21012. E a scongiurare tale rischio (di un effetto opposto a quello voluto dalla norma), la Corte dei conti fornisce la soluzione di ritenere plausibile un'interpretazione integrativa dell'art. 3, comma 4, D.L. n. 95/2012, che, in luogo di applicare il 15% di riduzione ad un canone di importo già modesto -provocando, in caso di recesso da parte del privato, la successiva stipula di un contratto meno vantaggioso per l'amministrazione- consenta di mantenere in essere il contratto in corso al canone attuale, fino alla naturale scadenza, ed eventualmente anche di procedere al rinnovo alle medesime condizioni
[8].
All'infuori di questa precisa circostanza, la Corte dei conti ribadisce per i contratti di locazione l'obbligatorietà della specifica disciplina di contenimento della spesa pubblica ed in particolare, per le locazioni di nuova stipulazione, l'applicazione in ogni caso della riduzione del 15% sul canone ritenuto congruo dall'Agenzia del demanio, a cui le amministrazioni abbiano valutato di rivolgersi per la valutazione di congruità del prezzo
[9].
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[1] Il comma 4 si riferisce alle Amministrazioni centrali.
[2] In tema di locazioni passive, non è più vigente la norma imperativa (contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12 del d.l. n. 98/2011, così come introdotto dall'art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012) che vietava, nell'anno 2013, oltre l'acquisto di beni immobili anche la stipula di contratti di locazione passiva. (Cfr. Corte dei conti, sez. reg. controllo per il Piemonte, 15.01.2015, n. 3).
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. per la Puglia, 23.07.2015, n. 154. Secondo l'art. 1, comma 388, L. n. 147/2013, richiamato dalla Corte dei conti, 'Anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di contenimento della spesa, i contratti di locazione di immobili stipulati dalle amministrazioni individuate ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono essere rinnovati, qualora l'Agenzia del demanio, nell'ambito delle proprie competenze, non abbia espresso nulla osta sessanta giorni prima della data entro la quale l'amministrazione locataria può avvalersi della facoltà di comunicare il recesso dal contratto. Nell'ambito della propria competenza di monitoraggio, l'Agenzia del demanio autorizza il rinnovo dei contratti di locazione, nel rispetto dell'applicazione di prezzi medi di mercato, soltanto a condizione che non sussistano immobili demaniali disponibili. I contratti stipulati in violazione delle disposizioni del presente comma sono nulli'.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit..
[5] A seguito della relativa attestazione dell'Agenzia del demanio, cui le amministrazioni abbiano ritenuto di rivolgersi.
[6] Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Toscana, 15.01.2015, n. 8, richiamata dalla Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit..
[7] L'art. 3, comma 4, DL n. 95/2012, come novellato dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014, ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali, prevede la riduzione automatica del 15% dei canoni di locazione, a decorrere dall'01.07.2014 (la decorrenza della misura finanziaria, originariamente fissata all'01.01.2015, è stata anticipa all'01.07.2014 dalla novella di cui al D.L. n. 66/2014).
[8] Nell'ambito di questi principi, la Corte dei conti rimette alla discrezionalità dell'ente la valutazione complessiva dell'economicità dell'operazione, in coerenza con la disciplina di contenimento della spesa in materia di locazioni (Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit.).
[9] Al riguardo, l'Anci, nella nota dell'08.07.2014, ha espresso l'avviso per cui, anche nel caso di contratti di nuova locazione, per un principio di prudenza e di garanzia del rispetto della economicità, è opportuno che, in ogni caso, l'ente locale chieda la verifica della congruità del canone all'Agenzia del demanio.
L'Agenzia del demanio, nella circolare n. 16155/2014 richiamata, fornisce chiarimenti in ordine all'istanza di congruità del canone che dovesse esserle rivolta dalle p.a. per i contratti di nuova stipulazione.
In particolare, detta istanza dovrà essere corredata dal canone proposto dal proprietario dell'immobile interessato ed inviata unitamente ad una perizia del bene.
Per la perizia, l'Agenzia del demanio mette a disposizione un apposito modello estimale (Allegato 3 della circolare, riferito specificamente alle nuove locazioni), che richiede l'indicazione del canone proposto dal proprietario e del canone di mercato. Per la valutazione dell'immobile (ai fini del valore/canone), il modello indica dei criteri valutativi, tra cui, il criterio valutativo principe del 'Canone di mercato per comparazione diretta', basato sulla comparazione diretta del bene oggetto di stima con quei beni ad esso similari, locati nel recente passato, nella stessa zona ed in regime di libero mercato.
Qualora il canone di locazione, determinato a seguito della perizia trasmessa ai fini della congruità, risulti inferiore a quello richiesto dalla Proprietà, le Amministrazioni dovranno acquisire da parte di quest'ultima l'accettazione di detto importo, specificando che lo stesso non ha carattere definitivo, ma dovrà essere sottoposto alla congruità da parte dell'Agenzia del demanio.
Inoltre, l'Agenzia evidenzia che, se interessata ai fini dell'espletamento dell'attività di congruità, comunicherà, ad ogni buon fine, oltre l'esito della verifica sul canone, anche l'eventuale disponibilità di immobili, potenzialmente idonei alle esigenze dell'Amministrazione interessata, di proprietà statale ovvero, in subordine, di proprietà pubblica - comunicati dalle P.A. all'Agenzia del demanio mediante apposito applicativo informatico
(27.11.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: E' illegittima la permuta di un terreno comunale a trattativa privata.
In base al principio posto dall’art. 41 del RD 827/1924 la trattativa privata costituisce modalità di alienazione ammissibile solo nei casi ivi espressamente previsti, casi tutti cui certamente non può ascriversi quello in esame nel quale si è alienato un terreno di proprietà comunale.
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un procedimento di evidenza pubblica tanto più che, come riferisce lo stesso Comune, alla stessa amministrazione comunale erano pervenute relativamente al terreno di cui trattasi altre istanze di acquisto da parte di diverso soggetto, istanze che avrebbero richiesto un confronto concorrenziale.
Lo stesso Regolamento comunale del resto conferma la necessità dell’asta pubblica mentre l’art. 192 D.lgs. 267/2000 prescrive che la determina a contrarre sia preceduta dall’indicazione delle modalità di scelta del contraente ammesse dalle disposizioni vigenti in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2, della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di alienazione non appare in linea con i principi richiamati, stabiliti sia dalla legislazione nazionale che dalla regolamentazione locale, in quanto non risulta essere stata avviata alcuna procedura di evidenza pubblica con adeguata pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di garantire la massima trasparenza e imparzialità nella cessione del bene comunale.

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... per l'annullamento:
- della nota prot. 9497 del 22.11.10, recante comunicazione di indisponibilità alla stipula dell'atto di permuta di suoli di cui alla delibera consiliare n. 5/2007;
- della nota n. 10011 del 14.12.2010, recante comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’annullamento della prefata delibera consiliare.
...
1.- Con delibera consiliare n. 5 del 13.03.2007 il Comune di Pimonte ha deciso di procedere, tra l’altro, alla permuta di alcune aree di proprietà comunale, nella specie un’area di mq. 103 con altra di mq 80 di proprietà del sig. Ca.Ch., previa corresponsione di un conguaglio di 1.186,50 euro da parte del medesimo.
2.- A fronte della successiva richiesta del sig. Ch. di dare seguito a tale delibera, il Comune -con nota del 22.11.2010 prot. del responsabile dell’ufficio Patrimonio- comunicava l’indisponibilità alla permuta rilevando sia profili di illegittimità della citata delibera n. 5/2007 che di inalienabilità del bene attesa la sua vicinanza al depuratore pubblico.
3.- Avverso la nota il sig. Ch. ha svolto con il ricorso in epigrafe le seguenti doglianze: ...
...
9.- Il ricorso non merita accoglimento.
Dalla richiamata delibera consiliare 5/2011, che ha sospeso la delibera con cui era stata decisa la cessione dell’area comunale, risultano –non essendo oggetto di specifica contestazione da parte del ricorrente– le seguenti circostanze:
- il regolamento comunale sui contratti (art. 54) prevede che l’alienazione dei beni comunali avvenga con il sistema dell’asta pubblica;
- antecedentemente alla citata delibera 5/2007, è stata presentata per la stessa particella una proposta di acquisto da parte di altro soggetto “ad un prezzo uguale o maggiore”.
Fatte queste premesse, il Collegio rileva che in base al principio posto dall’art. 41 del RD 827/1924 la trattativa privata costituisce modalità di alienazione ammissibile solo nei casi ivi espressamente previsti, casi tutti cui certamente non può ascriversi quello in esame nel quale si è alienato un terreno di proprietà comunale (cfr. Tar Liguria n. 380/2008).
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un procedimento di evidenza pubblica tanto più che, come riferisce lo stesso Comune, alla stessa amministrazione comunale erano pervenute relativamente al terreno di cui trattasi altre istanze di acquisto da parte di diverso soggetto, istanze che avrebbero richiesto un confronto concorrenziale (cfr. per analogo indirizzo cfr. ex multis Cons. Stato 338/2012).
Lo stesso Regolamento comunale (art. 58 su richiamato) del resto conferma la necessità dell’asta pubblica mentre l’art. 192 D.lgs. 267/2000 prescrive che la determina a contrarre sia preceduta dall’indicazione delle modalità di scelta del contraente ammesse dalle disposizioni vigenti in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2, della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di alienazione non appare in linea con i principi richiamati, stabiliti sia dalla legislazione nazionale che dalla regolamentazione locale, in quanto non risulta essere stata avviata alcuna procedura di evidenza pubblica con adeguata pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di garantire la massima trasparenza e imparzialità nella cessione del bene comunale.
Ne consegue che il diniego espresso dall’ufficio Patrimonio risulta giustificato dall’applicazione della normativa sopra richiamata.
Nel caso di specie, in presenza di atto plurimotivato, la fondatezza di una delle motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure volte a contestare gli ulteriori profili della motivazione in quanto il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici.
In conclusione il ricorso viene respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 24.11.2015 n. 5456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2015

PATRIMONIO: Acquisizione da parte del comune di immobili pericolanti.
Lo strumento utilizzabile dal Comune per l'acquisizione della proprietà di immobili pericolanti è l'espropriazione, qualora ne sussistano i presupposti.
Si tratta di un istituto finalizzato esclusivamente all'esecuzione di opere pubbliche o, comunque, di pubblica utilità che, in ossequio al principio di legalità dell'azione amministrativa, può essere disposto nei soli casi previsti dalla legge. 

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di acquisire la proprietà di due immobili potenzialmente pericolosi per la pubblica incolumità. In particolare, la questione afferisce due differenti situazioni:
- la prima riguarda un edificio pericolante prospiciente la pubblica via, in relazione al quale l'amministrazione comunale è dovuta intervenire urgentemente per garantire la pubblica incolumità e per il quale sono richiesti ulteriori interventi di messa in sicurezza. Tale immobile risulta di proprietà di persone ora defunte e gli eredi sono irreperibili. Di qui la richiesta di sapere se il Comune possa acquisire la proprietà di tale fabbricato;
- la seconda afferisce un fabbricato di proprietà di una società cooperativa latteria sociale, sciolta 'per atto dell'autorità' regionale.
[1] Gli ex soci sono irreperibili o defunti. Di qui la richiesta dell'Ente circa la possibilità di acquisire la proprietà di tale immobile ed, eventualmente, con quale procedura.
Con riferimento ad entrambe le fattispecie prospettate si ritiene che lo strumento potenzialmente utilizzabile, che consentirebbe l'acquisto della proprietà immobiliare in capo al Comune, sia l'espropriazione, qualora ne sussistano i presupposti. A tal fine si rammenta che tale istituto è finalizzato esclusivamente all'esecuzione di opere pubbliche o all'esecuzione di opere, comunque di pubblica utilità e che, in ossequio al principio di legalità dell'azione amministrativa, l'espropriazione dei beni immobili può essere disposta nei soli casi previsti dalla legge.
[2]
In particolare, per quel che potrebbe rilevare in questa sede, si osserva che l'istituto dell'espropriazione potrebbe essere utilizzato, valutando la ricorrenza di tutte le condizioni indicate dalla legge, anche ricorrendo ai Piani di recupero di cui alla legge regionale 29.04.1986, n. 18
[3] recante 'Norme regionali per agevolare gli interventi di recupero urbanistico ed edilizio. Modificazioni ed integrazioni alla legge regionale 01.09.1982, n. 75'. [4]
Mette conto, al riguardo, richiamare la sentenza del giudice amministrativo
[5] con la quale viene identificato come finalità del piano di recupero di iniziativa pubblica ex articoli 27 e 28 della legge 457/1978, il recupero del patrimonio edilizio degradato, mediante interventi volti a conservare, risanare, ricostruire e utilizzare il patrimonio stesso, con la conseguenza che a detto piano non può essere assoggettata in modo generico ed indiscriminato una vasta area del territorio comunale, ma soltanto immobili, complessi edilizi isolati ed aree bene individuate per le caratteristiche di degrado da recuperare. [6]
In particolare, si segnala l'articolo 9 della legge regionale 18/1986, rubricato 'Attuazione dei piani di recupero', il quale indica la procedura che i Comuni devono adottare nel caso in cui intendano procedere all'attuazione diretta di tali piani.
Quanto, poi, alla prima fattispecie prospettata in ordine alla quale il Comune riferisce di avere già sostenuto delle spese per la provvisoria messa in sicurezza dell'immobile si rappresenta che, qualora, come nel caso in esame, l'Ente non sia stato rimborsato dell'importo sostenuto a tal fine potrebbe attivare la procedura esecutiva volta al recupero della somma anticipata.
A tale proposito, si rammenta che l'articolo 505 del codice di procedura civile prevede che, nei limiti e secondo le regole contenute nel codice stesso, il creditore pignorante possa chiedere l'assegnazione dei beni pignorati. L'assegnazione dei beni pignorati costituisce uno dei possibili momenti conclusivi del processo di esecuzione e consiste nell'attribuzione diretta del bene pignorato al creditore procedente al fine di soddisfare le proprie ragioni creditorie. Più in particolare, necessita distinguere tra assegnazione satisfattiva (che comporta il trasferimento a tacitazione del credito) e assegnazione mista (cioè accoppiata al pagamento di un conguaglio versato dall'assegnatario).
Si può avere assegnazione satisfattiva se il bene assegnato ha un valore pari al credito del procedente ed alle spese sostenute, e non vi sono altri creditori da soddisfare; si avrà, invece, assegnazione con conguaglio quando il valore del bene è superiore al credito ed alle spese, ovvero agli altri crediti fatti valere nell'espropriazione: qui il creditore deve pagare una somma almeno pari alle spese ed al valore dei crediti precedenti quello dell'assegnatario. In tal caso si parla di 'assegnazione vendita'.
Da ultimo, e sempre con riferimento alla prima fattispecie rappresentata dal Comune, si osserva che, appartenendo l'immobile in riferimento a persone defunte, bisognerebbe accertarsi se siano o meno scaduti i termini per accettare l'eredità.
[7] Nel caso in cui non siano decorsi dieci anni dalla morte dell'originario proprietario il codice civile prevede la possibilità di nomina di un curatore dell'eredità giacente. [8] Nell'ambito dell'attività di amministrazione del compendio ereditario da parte della curatela, particolare rilevanza riveste l'eventuale alienazione dei beni che ne fanno parte.
A tale riguardo, l'articolo 783, secondo comma, c.p.c. contempla la semplice possibilità che la vendita sia autorizzata dal Tribunale con decreto in Camera di consiglio in tutti i casi in cui essa si palesi necessaria o di evidente utilità. Al riguardo la dottrina
[9] ha annoverato tra dette ipotesi quella relativa 'alla gestione di un fabbricato fatiscente' in relazione alla quale si renderebbe opportuno procedere alla vendita.
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[1] L'articolo 2544 c.c., nella versione in vigore prima della novella al codice civile introdotta dal D.Lgs. 17.01.2003, n. 6, rubricato 'Scioglimento per atto dell'autorità', recitava: 'Le società cooperative, che a giudizio dell'autorità governativa non sono in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono state costituite, o che per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio annuale, o non hanno compiuto atti di gestione, possono essere sciolte con provvedimento dell'autorità governativa, da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e da iscriversi nel registro delle imprese. [...].
Se vi è luogo a liquidazione, con lo stesso provvedimento sono nominati uno o più commissari liquidatori'.
Attualmente, la norma di riferimento, analogamente rubricata 'Scioglimento per atto dell'autorità' è l'articolo 2545-septiesdecies, del codice civile.
[2] Articolo 1, comma 1 e articolo 2, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.
[3] A livello statale la legge recante: 'Norme generali per il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente' è la n. 457 del 05.08.1978.
[4] Si rammenta che, ai sensi dell'articolo 25 della legge regionale 23.02.2007, n. 5 (Riforma dell'urbanistica e disciplina dell'attività edilizia e del paesaggio) il Comune potrebbe adottare, con le modalità indicate dalla legge, un piano attuativo comunale (PAC). In particolare, il comma 3 dell'indicato articolo prevede che: 'Le procedure di adozione e approvazione del PAC sostituiscono quelle degli strumenti urbanistici attuativi delle previsioni di pianificazione comunale e sovracomunale e in particolare: [...] d) i piani di recupero [...]'.
[5] TAR Umbria, Perugia, sentenza del 26.10.1989, n. 726.
[6] Le considerazioni espresse dal giudice amministrativo si trovano riportate nel parere dell'ANCI del 16.02.2011.
[7] Si ricorda che, decorsi i termini per l'accettazione senza che questa sia effettuata da alcuno dei chiamati all'eredità questa è devoluta allo Stato. In tal senso depone l'articolo 586 c.c. che, al primo comma recita: 'In mancanza di altri successibili, l'eredità è devoluta allo stato. L'acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia'.
[8] Si rammenta che secondo un orientamento dottrinale l'instaurarsi del periodo di giacenza si avrebbe oltre che nel caso in cui il chiamato non abbia ancora accettato l'eredità, anche nell'ipotesi in cui non si sappia se la persona del chiamato sia mai esistita.
[9] D. Minussi, 'Vendita di beni ereditari (curatore dell'eredità giacente)', in WikiJus, il Wiki di Diritto Civile, articolo del 23.02.2015
(08.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO - TRIBUTI: Regolamento per la partecipazione della comunità locale in attività per la tutela e valorizzazione del territorio per l'applicazione dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica di favorire la partecipazione della comunità locale nella valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere, prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute.
In caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle associazioni, la riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da contributi monetari qualora questi siano corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli associati partecipanti all'intervento, per il tributo specifico individuato, in relazione alla tipologia delle attività svolte.

L'Amministratore locale chiede un parere in ordine alla legittimità di una norma contenuta nel Regolamento comunale concernente la partecipazione della comunità locale in attività per la tutela e valorizzazione del territorio (cosiddetto servizio di volontariato civico), per l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014. Nello specifico, il quesito posto riguarda la legittimità o meno della previsione nel Regolamento di un contributo economico alle Associazioni di volontariato in una misura percentuale dei tributi comunali pagati dagli associati che partecipano al servizio.
In via preliminare, si precisa che non compete a questo Servizio la valutazione di legittimità dei contenuti degli atti normativi emanati dai Comuni, in base alla loro autonomia costituzionalmente riconosciuta. Il fine della consulenza è di fornire un supporto giuridico agli enti locali sulle questioni prospettate, affinché gli stessi possano assumere le determinazioni più opportune nei casi concreti, in relazione alle peculiarità che presentano.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n. 133/2014
[1], 'i comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere. Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4, della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale.
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento consente ai Comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere, prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute.
Al fine di chiarire le modalità applicative dell'art. 24, si ritiene utile riportare quanto affermato dal Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, secondo cui «l'impressione è che la norma non autorizzi affatto gli enti locali, in modo indiscriminato, a disporre la riduzione o l'esonero. Ma esiga, piuttosto, un preciso rapporto di connessione 'fra attività posta in essere' e tributo interessato»
[2].
Ciò comporta che, in caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle associazioni (come nel caso di specie), la riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da contributi monetari qualora questi siano corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli associati partecipanti all'intervento, per il tributo specifico individuato, in relazione alla tipologia delle attività. In tal modo, infatti, appare realizzata l'agevolazione fiscale prevista dall'art. 24 in commento, come riduzione (o esenzione) di tributi 'inerenti al tipo di attività posta in essere'.
Si ritiene pertanto che il riconoscimento di contributi alle Associazioni in misura percentuale dell'importo di un determinato tributo versato complessivamente dai partecipanti al progetto, richieda, ai sensi dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, una connessione tra detto tributo e la tipologia di attività svolta dall'Associazione
[3].
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[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive', convertito, con modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Cfr. Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, Deliberazione n. 5 del 23.02.2015.
[3] Specificamente, in via esemplificativa, sembra potersi ravvisare una connessione tra la TARI e gli interventi di pulizia e manutenzione di aree ed edifici pubblici
(01.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

settembre 2015

PATRIMONIO: La Sezione ritiene che la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente,
nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l’intervento legislativo in discorso, appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare,
sotto il profilo della “indispensabilità e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile, risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione alla stipula della transazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta necessario porre fine ad una controversia mediante la necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita attestazione di congruità, anche se non appare necessario, alla luce della differente conformazione della fattispecie transattiva (in cui è assente un “prezzo” di acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”), l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia certificata dagli appositi uffici tecnici interni, costituendo elemento della complessiva stima di convenienza economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale, va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di legge o regolamentari).
Infine,
si ritiene necessario, non risultando incompatibile con la struttura dell’operazione transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito istituzionale dell’ente
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Il Sindaco del Comune di Milano, con nota del 16.06.2015, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto l’acquisto di un immobile nel contesto di un contratto di transazione.
Il Comune di Milano formula il quesito in ordine all'ambito oggettivo di applicazione dell'art. 12, comma 1-ter del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito dalla legge 15.07.2011, n. 111. Il predetto comma, nella formulazione vigente, stabilisce che "a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del Demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente".
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se tale norma si applichi anche alle acquisizioni operate dagli enti locali nell'ambito di accordi transattivi stipulati al fine di porre termine o prevenire una lite e, in particolare, a casi in cui, nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra le parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità pubblica.
Al fine di far comprendere la portata del quesito, l’istanza rappresenta che la fattispecie è relativa ad un caso in cui vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la disponibilità ad accettare che un credito, accertato con sentenza passata in giudicato, venga pagato non in denaro, ma con il trasferimento di un bene immobile (oltre alla rinuncia da parte del debitore a crediti vantati nei confronti dell'ente locale, ancora sub iudice, ed alle relative azioni già intraprese).
L'opinione del Comune di Milano è che il suddetto comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011 non si applichi anche alle fattispecie transattive, riguardando solo ipotesi di operazioni di acquisto puro, inquadrabili nello schema del contratto di vendita, e ciò in ragione della lettera e della ratio della norma.
Sotto il profilo della lettera della legge, l’istante osserva che la disposizione in questione subordina le operazioni di acquisto di immobili ad una attestazione dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità del prezzo" ed al successivo obbligo di pubblicazione sul sito internet istituzionale dell'ente "con indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito".
La norma, dunque, utilizzando la terminologia propria dell'istituto della compravendita fa evidentemente riferimento solo ad ipotesi in cui l'acquisto avvenga mediante alienazione; la transazione non prevede la corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, evidenzia che la norma in esame è contenuta nell'ambito di un decreto legge volto a dettare "disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria"; la ratio espressa è quella di "pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno". La norma ha dunque carattere finanziario ed ha l'esclusivo scopo di dettare disposizioni al fine del contenimento della spesa pubblica e, quindi, concerne acquisti di immobili a fronte del pagamento di un prezzo, ossia di uscite di denaro pubblico.
La transazione, nell'ambito della quale l'ente locale acquisisce un bene immobile, è un'operazione più complessa, basata su valutazioni di convenienza economica ed amministrativa che vanno oltre il mero valore economico del bene immobile che verrà acquisito dall'ente locale, e che coinvolgono anche le probabilità di vittoria del contenzioso in essere nonché considerazioni sulla portata e sulla rilevanza degli interessi pubblici.
La transazione non si presta, per sua natura, ad essere assoggettata alle limitazioni e ai vincoli contenuti nel comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011. L'acquisto di un bene immobile, infatti, potrebbe essere non strettamente indispensabile ed indilazionabile e, tuttavia, altamente conveniente nel quadro transattivo complessivo.
Sotto altro profilo anche l'attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio non si presta a trovare applicazione alla fattispecie transattiva, posto che, oltre all'ammontare del credito ed al valore del bene immobile da trasferire, vi possono essere ulteriori reciproche concessioni che definiscono i contenuti dell'accordo transattivo, tra cui la rinuncia della controparte ad altri crediti oggetto di contenzioso. Tali elementi nel loro complesso concorrono congiuntamente a comporre il quadro di convenienza economica della transazione stessa e dunque, in ultima analisi, il giudizio circa la presenza di risparmi di spesa, non riducibile ad una stima meramente economica.
L’istanza precisa che, comunque, la stima del valore del bene oggetto di trasferimento viene effettuata, nell'ambito del procedimento che conduce alla stipula dell'accorcio transattivo, dalla Direzione Centrale Sviluppo del Territorio del Comune.
Assoggettare gli accordi transattivi, nell’ambito dei quali vi siano trasferimenti di beni immobili a favore della pubblica amministrazione, all'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, del decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai relativi limiti e vincoli, appare contrario al raggiungimento degli stessi obiettivi di conseguimento di effetti finanziari positivi che la norma in questione vuole perseguire. L'applicazione della suddetta norma potrebbe, infatti, impedire il raggiungimento di accordi economicamente convenienti, costringendo l'Amministrazione a non acquisire beni immobili che rivestono pubblica utilità od esponendola al rischio dell'accoglimento di domande risarcitorie già formulate in giudizio dalla controparte.
Si evidenzia, infine, che l'art. 12 comma 1-ter del decreto-legge n. 98 del 2011 è norma eccezionale, in quanto limitativa della generale capacità giuridica degli enti locali, e, in quanto tale, va interpretata restrittivamente.
Tanto premesso, il Comune di Milano chiede parere in merito all’applicabilità della norma sopra indicata agli accordi transattivi stipulati dagli enti locali, nell'ambito dei quali sia prevista l'acquisizione di beni immobili, di potenziale utilità pubblica, da parte dell'ente locale stesso.
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione circa l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità dell’amministrazione. Quest’ultimo, tuttavia, potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel presente parere.
Il Comune di Milano chiede lumi sulla portata applicativa dell’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, nella parte in cui prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate l'indispensabilità e l’indilazionabilità, attestate dal responsabile del procedimento.
Il quesito involge la corretta interpretazione della disciplina introdotta dall’art. 12 del decreto legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, come novellato dal citato art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012. La disposizione in commento è stata varie volte scrutinata dalla Sezione, da ultimo nelle deliberazioni, n. 97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste occasioni è stato chiarito come, a decorrere dal 1° gennaio 2014, a differenza di quanto disposto per il 2013, gli enti locali possano effettuare operazioni di acquisto di beni immobili, sia pure nei limiti e con le modalità previste dal comma 1-ter del citato art. 12 del decreto legge n. 98 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012. Attualmente, quindi, non è più vigente la precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni immobili (contenuta nel comma 1-quater dell’indicato art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011).
La vigente formulazione del comma 1-ter dell’art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011 dispone, infatti, che, “
a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
Pertanto, dal 2014, al regime di divieto (salvo specifiche eccezioni) è stata sostituita una disciplina che consente le operazioni di acquisto di beni immobili, ma solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità, presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella motivazione del provvedimento dall’amministrazione.
Il Sindaco chiede se devono ritenersi rientranti nella disciplina legislativa limitativa ora esposta, l’acquisizione di un bene immobile quale effetto di un contratto di transazione.
Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della disposizione, la Sezione, già nella vigenza del regime più restrittivo del divieto, imposto nell’esercizio 2013, ha chiarito, per esempio nella deliberazione n. 164/2013/PAR, che
elemento discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina è dato dalla presenza di un contratto in cui “l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico”.
In aderenza, la Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” (in tal senso si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR). Allo stesso modo la Sezione regionale per le Marche, nella deliberazione n. 7/2013/PAR, ha sottolineato come, dal punto di vista civilistico, l’acquisto di un immobile a titolo oneroso si richiama senz’altro allo schema tipico della compravendita, la quale risulta esplicitamente coinvolta nel divieto.
Peraltro, l’effetto traslativo del diritto di proprietà su beni immobili si realizza anche attraverso altri contratti, come, a titolo esemplificativo, il conferimento in società, la donazione, la transazione, i contratti ad effetti reali, anche atipici. Indirettamente si può procedere al trasferimento della titolarità di beni immobili anche attraverso la cessione di quote o di azioni di società che posseggano immobili (argomentazioni simili si ritrovano nella deliberazione della Sezione Toscana n. 125/2013/PAR).
L’interpretazione condotta circa i presupposti oggettivi di applicazione della disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili da parte di enti locali, tesi a valorizzare la natura eccezionale della norma posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012, come tale non suscettibile di estensione oltre i casi da essa considerati (art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile), trova maggiore supporto in presenza di una rinnovata disciplina che, dal 2014, non vieta più l’acquisto di immobili, ma lo sottopone soltanto a limitazione. In questa direzione può farsi rinvio alle deliberazioni della Sezione n. 97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste occasioni, riprendendo le coordinate interpretative affermate in precedenti pronunce, la Sezione ha avuto modo di escludere la soggezione alla disciplina limitativa nel caso di acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo, posto che, in queste ipotesi, l’acquisizione avviene a seguito di un contratto assimilato all’appalto di lavori pubblici, non ad una compravendita (cfr. deliberazione n. 21/2015/PAR e, nella vigenza del precedente divieto, la deliberazione n. 220/2013/PAR).
In queste occasioni è stato sottolineato, fra l’altro, come la disciplina limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet dell’ente) appare riferita alla fattispecie civilistica della compravendita.
Nella deliberazione n. 97/2014/PAR, la Sezione è giunta a conclusioni simili per quanto riguarda l’acquisto di immobili effetto di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità. Nell’occasione, è stato richiamato anche il parere della Sezione Veneto che, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, i soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle procedure espropriative (in tal senso si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR).
Anche in questo caso, inoltre, è stato sottolineato come
la richiesta attestazione di conformità da parte dell’Agenzia del Demanio in ordine al prezzo di acquisto dell’immobile trova difficoltosa applicazione nell’ambito di una procedura espropriativa (nella quale la determinazione dell'indennità è soggetta agli specifici criteri previsti dalla legge).
Infine, i canoni ermeneutici generali sono stati applicati dalla Sezione per escludere la riconducibilità alla disciplina limitativa del contratto di permuta. Sempre nella deliberazione n. 97/2014/PAR, infatti, è stato precisato come il comma 1-ter dell’art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012, contiene un’espressa indicazione della propria finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno”) ed è inserito nell’ambito della legge di stabilità, la quale, come previsto dall’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, contiene norme tese a realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, invece, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili, costituisce un’operazione finanziariamente neutra (in termini, le precedenti deliberazioni della Sezione n. 162/2013/PAR, n. 164/2013/PAR e n. 193/2013/PAR) e, di conseguenza, non rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter in esame. Anche in questa occasione è stato evidenziato, altresì, come la norma indicata preveda, espressamente, una serie di obblighi concernenti il “soggetto alienante” ed il “prezzo pattuito”, mentre nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di acquirente sono reciproche, e riferibili a entrambi i contraenti.
La Sezione ritiene che le argomentazioni esposte, sia in linea generale, che in riferimento a specifiche modalità di acquisizione di beni immobili al patrimonio comunale, tese a ricondurre l’applicazione oggettiva della disciplina limitativa alle sole acquisizione di beni immobili discendenti direttamente da contratti ad effetti traslativi (quali la compravendita) debbano valere anche per il contratto di transazione (anche in aderenza ai canoni interpretativi posti dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile).
Quest’ultimo, come noto, ai sensi dell’art. 1965 del codice civile, è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti. Appare opportuno sottolineare, anche ai fini dell’interferenza interpretativa con la disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, come elemento essenziale della transazione sia, fra gli altri, l’esistenza di reciproche concessioni (in difetto, sussiste rinuncia unilaterale).
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se la disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili si applichi anche alle acquisizioni operate dagli enti locali nell'ambito di accordi transattivi stipulati al fine di porre termine o prevenire una lite e, in particolare, ai casi in cui, nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra le parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità pubblica (nello specifico, la fattispecie è relativa ad un caso in cui vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la disponibilità ad accettare che un credito, accertato con sentenza passata in giudicato, venga pagato a mezzo del trasferimento di un bene immobile, cui accederebbe la rinuncia, da parte del debitore, a differenti crediti vantati nei confronti dell'ente locale ed alle relative azioni già intraprese).
Sotto il profilo letterale, la disposizione in questione subordina, in effetti, le operazioni di acquisto di immobili all’attestazione dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità del prezzo", nonché al successivo obbligo di pubblicazione sul sito internet istituzionale dell'ente "con indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito". La norma, utilizzando la terminologia propria del contratto di compravendita, sembra far riferimento, come sottolineato in precedenza, a questa fattispecie, mentre il contratto di transazione non prevede la corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, inoltre, pare opportuno ricordare nuovamente come
la norma in esame sia contenuta nell'ambito di un decreto legge volto a dettare "disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria" ("pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno"). Avendo carattere finanziario, e quindi lo scopo di dettare disposizioni al fine del contenimento della spesa pubblica, dovrebbe concernere i soli acquisti di immobili a fronte del pagamento di un prezzo (o della mancata acquisizione di un credito liquido ed esigibile).
La transazione, invece, anche nell'ipotesi in cui conduca, come effetto, all’acquisto di un bene immobile, è un'operazione più complessa, basata su valutazioni di convenienza economica ed amministrativa che vanno oltre il mero valore economico del bene che verrà acquisito, quale prestazione della controparte, dall'ente locale. Valutazioni che coinvolgono anche le probabilità di vittoria del contenzioso in essere, nonché considerazioni sulla portata e sulla rilevanza degli interessi pubblici tendenti alla definizione transattiva di una controversia.
Sotto quest’ultimo profilo, il contratto di transazione fa fatica, per sua natura, ad essere assoggettato ai vincoli contenuti nel comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011. L'acquisto di un bene immobile, infatti, potrebbe essere non strettamente indispensabile ed indilazionabile, ma altamente conveniente nel quadro transattivo complessivo.

Sotto altro aspetto,
anche la richiesta attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio non riesce a trovare piana applicazione alla fattispecie transattiva, posto che, in questo caso, oltre all'ammontare del credito ed al valore del bene immobile da trasferire, vanno valutate le ulteriori reciproche concessioni che definiscono i contenuti dell'accordo transattivo. Tutti elementi che, nel loro complesso, concorrono a definire il quadro di convenienza economica della transazione e, in conclusione, il giudizio circa la presenza di effettivi risparmi di spesa per l’amministrazione stipulante.
La Sezione osserva, altresì, come, assoggettare gli accordi transattivi, nell’ambito dei quali vi siano trasferimenti di beni immobili a favore della pubblica amministrazione, all'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, del decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai relativi limiti e vincoli, possa produrre effetti contrari al raggiungimento degli stessi obiettivi di contenimento finanziario che la norma in questione vuole perseguire. L'applicazione ai contratti di transazione, infatti, potrebbe impedire il raggiungimento di accordi economicamente convenienti, esponendo l’amministrazione al rischio dell'accoglimento giudiziale delle pretese di controparte.
Sulla base delle motivazioni sopra esposte,
la Sezione ritiene che la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente,
nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l’intervento legislativo in discorso, appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare,
sotto il profilo della “indispensabilità e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile, risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione alla stipula della transazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta necessario porre fine ad una controversia mediante la necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita attestazione di congruità, anche se non appare necessario, alla luce della differente conformazione della fattispecie transattiva (in cui è assente un “prezzo” di acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”), l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia certificata dagli appositi uffici tecnici interni, costituendo elemento della complessiva stima di convenienza economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale, va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di legge o regolamentari).
Infine,
si ritiene necessario, non risultando incompatibile con la struttura dell’operazione transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito istituzionale dell’ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.09.2015 n. 310).

PATRIMONIO: Risponde penalmente il dirigente comunale per le gravi negligenze in merito al (mancato) controllo delle condizioni di sicurezza della strada.
Sussiste la condotta colposa del dirigente comunale (in virtù della sua qualifica, preposto alla manutenzione del patrimonio comunale) laddove nell'omettere di manutenere un tombino di raccolta delle acque piovane posizionato su un marciapiede nello stesso, a causa di una rottura della copertura, un passante affonda con il piede destro, cadendo quindi al suolo.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Messina ha confermato la pronuncia emessa dal Giudice di Pace di Messina con la quale Am.An. é stato giudicato colpevole di aver cagionato a Sa.Ti.Tr. lesioni personali lievi, con
condotta colposa consistita nell'omettere -in qualità di dirigente comunale preposto al competente servizio- di manutenere un tombino di raccolta delle acque piovane posizionato su un marciapiede di via Cesare Battisti, in Messina, nel quale, a causa di una rottura della copertura, il Tr. affondava con il piede destro, cadendo quindi al suolo.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l'imputato a mezzo del difensore di fiducia, avv. Gi.Sa..
2.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 187, co. 1 e 192, co. 1 e 2 cod. proc. pen. e vizio motivazionale.
Rileva il ricorrente che il Tribunale non ha tenuto conto del comportamento negligente della persona offesa e non ha accertato l'esistenza di una oggettiva insidia non potendosi spingere la difesa degli interessi degli utenti della strada sino al punto di escludere il principio di auto-responsabilità della vittima.
Inoltre, il Tribunale ha ritenuto l'attendibilità della persona offesa senza rilevare che la medesima si é costituita parte civile e che quindi le sue dichiarazioni necessitavano di riscontri; riscontri che non possono essere colti né nel verbale di accertamento dei vigili urbani né nella affermata compatibilità delle lesioni riportate dal Tr..
2.2. Con un secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 40, co. 2, 45 cod. pen. in relazione all'art. 169 d.lgs. n. 67 del 18.8.2000 nonché mancanza di motivazione.
Il Tribunale é pervenuto alla decisione senza verificare la possibilità giuridica dell'imputato di provvedere all'adozione delle opportune cautele, in relazione alla titolarità delle necessarie risorse economiche per lo svolgimento delle funzioni assegnategli.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. L'intero sviluppo delle argomentazioni del ricorrente appare attraversato da un limite intrinseco, quello dell'astrattezza, nel senso della posizione di asserzioni che, pur valevoli in linea di principio, appaiono prescindere dal concreto contenuto della sentenza impugnata e dalle circostanze in essa affermate.
Sembra opportuno prendere le mosse dalla censura che si indirizza al giudizio di attendibilità della persona offesa.
E' certamente vero che quando questa si costituisce parte civile mostra di avere specifico interesse all'affermazione di responsabilità dell'imputato e che tanto si riflette in un onere rafforzato di prudente valutazione da parte del giudice.
Ma nel caso di specie tale accorta ponderazione é stata compiuta dal Tribunale, il quale ha evidenziato che non risultano elementi che mettano in discussione l'attendibilità del Tr.; che la querela esponeva i fatti con linearità e precisione; che dal verbale della Polizia Municipale si evinceva la presenza sul marciapiede del tombino con una parte di piastrelle mancante lì dove lo aveva segnalato il Tr.; che anche le lesioni patite risultavano, siccome compatibili con la dinamica narrata, elemento di conforto alla versione dell'accusa.
Il Tribunale, quindi, ha operato la prescritta analisi dei materiali e, con motivazione né mancante né manifestamente illogica, ha spiegato le ragioni per le quali la persona offesa potesse essere assunta come primaria fonte di conoscenza dei fatti.
3.2. A fronte di ciò l'esponente, in definitiva, lascia intendere che il Tr. possa essersi inventato di sana pianta l'accadimento, al fine di lucrare un indebito risarcimento (e perciò, si intuisce, si ritiene non valevole quale riscontro il verbale dei VV.UU.). Ma tale sospetto può valere quale motore di una acuminata difesa, che porti in emersione specifiche circostanze in grado di sostanziare il sospetto sino a dargli la corporeità di una evidenza probatoria. Nulla di ciò si riscontra nel caso di specie; di qui quel connotato di astrattezza che si é sopra menzionato.
Certo non é dirimente il rilievo che indica una diversità nella descrizione dell'accaduto nel trascorrere dalla querela al verbale della P.M. perché
il rovinare al suolo non nega lo sprofondare con un piede nel tombino, potendo quest'ultimo essere antecedente causale del primo.
3.3. Quanto alla necessità, ai fini dell'addebito per colpa, che si dia l'esistenza di una insidia, si tratta di un assunto fondato.
Il ricorrente richiama, attraverso la massima redatta dal CED, la giurisprudenza di questa Corte per la quale,
in tema di omicidio colposo a seguito di incidente stradale, affinché le condizioni della strada assumano un'esclusiva efficienza causale dell'evento, è necessario che le sue anomalie assumano i caratteri dell'insidia e del trabocchetto, di guisa che per la loro oggettiva invisibilità e la conseguente imprevedibilità, integrino una situazione di pericolo occulto inevitabile con l'uso della normale diligenza; qualora, invece, adottando la normale diligenza che si richiede a colui che usi una strada pubblica, la situazione di pericolo sia conoscibile e superabile, la causazione dell'infortunio non può che fare capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato la diligenza imposta (Sez. 4, n. 34154 del 13/06/2012 - dep. 06/09/2012, Di Carro, Rv. 253520). 
Si tratta, tuttavia, di un principio che non si attaglia al caso di specie.
Nella vicenda oggetto della sentenza in causa Di Ca. si discuteva della incidenza causale di un dislivello del piano stradale che aveva determinato una sterzata del conducente del veicolo che, impattando altro veicolo, aveva procurato la morte del conducente di questo secondo veicolo. Si trattava, quindi, di verificare se il dislivello avesse avuto esclusiva efficienza causale.
La Corte lo ha negato, evidenziando che si sarebbe dovuto ritenere diversamente se avesse costituito una insidia o un trabocchetto, come tale non percepibile con l'ordinaria diligenza dall'utente della strada; mentre nel caso all'esame il dislivello sarebbe stato percepibile all'imputato se avesse usato l'ordinaria diligenza.
In tale contesto si é quindi concluso che la causazione dell'infortunio non può che fare capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato la diligenza imposta.
Nella vicenda oggetto del presente processo, per contro, viene in considerazione il comportamento della persona offesa dal reato; la cui eventuale negligenza nulla toglie alla rilevanza causale della condotta ascritta all'imputato, eventualmente concorrendo con questa (aspetto non attinto dalle censure del ricorrente).
3.4. Infine, a riguardo della pretesa mancata verifica della sussistenza della posizione di garanzia in capo all'Am. alla data del fatto e della effettiva titolarità delle necessarie risorse economiche, evidenziato che
non é in alcun modo contestato che l'Am. rivestisse il ruolo dirigenziale che gli é stato attribuito dai giudici di merito, va registrato come -diversamente da quanto opinato dal ricorrente- la Corte di Appello abbia preso in esame il profilo della impossibilità di adempiere all'obbligo gravante sull'Am., da un canto evidenziando come tale impossibilità non fosse in alcun modo emersa e dall'altro puntualizzando che essa avrebbe dovuto verificarsi non già in relazione ad interventi manutentivi ma solo rispetto al controllo delle condizioni di sicurezza per gli utenti, con l'apposizione di segnali di pericolo per il caso che quel controllo avesse fatto emergere fonti di pericolo.
Rispetto a tali corrette osservazioni il ricorrente non formula alcuna specifica censura.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 08.09.2015 n. 36242).

PATRIMONIONon può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al transito dei pedoni), dei quali deve garantire la destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che, agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania, quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella competenza del Comune proprietario della strada, con specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del codice della strada e all’art. 180 del regolamento di esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa ordinanza dell'ente proprietario della strada.

Con ricorso notificato il 28.04.2015 e depositato il 7 maggio successivo, i nominati in epigrafe, residenti in Sant’Antimo alla via Catania n. 16 impugnano il silenzio–rifiuto serbato dall’intimato ente locale in ordine all’istanza acquisita al protocollo il 19.02.2015.
Con tale richiesta, i ricorrenti invitavano l’amministrazione comunale ad installare paletti dissuasori alla sosta ovvero apposita segnaletica orizzontale con divieto di sosta nel tratto di via Catania antistante il portone del proprio fabbricato al fine di impedire la sosta indiscriminata, diurna e notturna, di autoveicoli privati la cui presenza, considerate le ridotte dimensioni della carreggiata, ostacola le manovre carrabili di accesso ed uscita dall’edificio, ivi compresi i mezzi di soccorso ed emergenza.
Gli esponenti lamentano il pregiudizio derivante dall’ostruzione dell’area di manovra specificando che, in un’occasione, è stato impedito al Sig. C.V. di recarsi presso il pronto soccorso dell’Ospedale di Frattamaggiore -benché afflitto da colica renale come da documentazione sanitaria in atti- proprio a causa della sosta ostruttiva di veicoli privati: all’esito di specifico sopralluogo conseguente ad un esposto degli istanti, il Comando di Polizia Municipale di Sant’Antimo ha constatato il disagio per i residenti ed ha richiesto al Comune la messa in opera di palettatura lungo la corsia di sinistra o, in alternativa, l’apposizione di segnaletica verticale di divieto di sosta.
Tanto premesso, gli esponenti propongono ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a. e chiedono la condanna dell’amministrazione comunale alla conclusione del procedimento di cui all’epigrafata istanza, con richiesta di nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inerzia.
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Deve essere dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune in ordine alla istanza di cui in premessa dal momento che, benché diffidato dalla parte ricorrente, l’ente non ha adottato alcuna determinazione conclusiva.
Non può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al transito dei pedoni), dei quali deve garantire la destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che, agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania, quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella competenza del Comune proprietario della strada, con specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del codice della strada e all’art. 180 del regolamento di esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa ordinanza dell'ente proprietario della strada.
Le considerazioni svolte conducono, in definitiva, all’accoglimento del ricorso con conseguente condanna del Comune a pronunciarsi espressamente sull’istanza dei privati con un provvedimento motivato entro e non oltre giorni 30 dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente sentenza.
In caso di perdurante inerzia si nomina sin d’ora commissario ad acta il Sig. Prefetto di Napoli –con facoltà di delega ad un funzionario del proprio ufficio– il quale provvederà, previa presentazione di apposita istanza di parte ricorrente (da notificare al Comune), entro i successivi 30 giorni.
Il compenso del commissario ad acta sarà liquidato con separato provvedimento ad avvenuto espletamento dell’incarico (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 02.09.2015 n. 4280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2015

PATRIMONIO: La concessione in uso degli immobili.
DOMANDA:
Nel Comune scrivente sono ubicati degli immobili comunali adibiti a finalità sociale. gli immobili suddetti sono concessi a tempo determinato a famiglie in situazione di disagio, in attesa che si liberi un alloggio ERP o che possano avere un'assegnazione a tempo indeterminato in base ai bandi di assegnazione.
In passato il Comune scrivente ha stipulato dei contratti a tempo determinato per un periodo di due anni. Più volte sono state concesse proroghe o rinnovi.
Chiediamo se è regolare da un punto di vista amministrativo stabilire un periodo di validità di due anni o se è necessario (anche per i contratti di alloggi comunali concessi a tempo determinato) stabilire un altro termine per non inficiare la validità dell'atto.
RISPOSTA:
Al fine di dare una risposta esaustiva al quesito formulato dalla scrivente amministrazione, è utile richiamare la vigente normativa in materia di beni immobili comunali.
I beni immobili sono classificati in:
- beni del demanio comunale, destinati, per loro natura o per le caratteristiche loro conferite dalle leggi, a soddisfare prevalenti interessi della collettività.
- beni del patrimonio indisponibile, destinati ai fini istituzionali del Comune e al soddisfacimento di interessi pubblici, non compresi nella categoria dei beni demaniali di cui agli artt. 822 e 823 del Codice Civile.
- beni del patrimonio disponibile, non destinati ai fini istituzionali del Comune e pertanto posseduti dallo stesso in ragione di diritto privato.
I beni disponibili si distinguono in immobili ad uso abitativo ed in immobili ad uso non abitativo. I beni soggetti a regime di demanio e del patrimonio indisponibile possono essere oggetto di utilizzo esclusivo da parte di terzi allorché l’attività da svolgere sia conforme alle finalità di interesse pubblico, dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso temporaneo a terzi di beni demaniali e patrimoniali indisponibili avviene mediante atti di diritto pubblico e, in particolare, con concessione amministrativa, su conforme atto deliberativo della Giunta Comunale. La durata massima della concessione deve essere fissata nel Regolamento comunale e può essere sempre revocata per sopravvenienti interessi dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso di beni patrimoniali disponibili è, di norma, effettuata nella forma e con i contenuti dei negozi contrattuali tipici previsti dal titolo III del libro IV del Codice Civile, ovverosia:
a) Contratto di locazione (artt. 1571 e ss. C.C.)
b) Contratto di affitto (artt. 1615 e ss. C.C.) c) Contratto di comodato (artt. 1803 e ss. C.C.)
L’assegnazione e la gestione contrattuale dei beni ad uso abitativo sono disciplinati dalle norme vigenti ed in particolare dalla Legge n. 431/1998.
In casi eccezionali da motivare adeguatamente, i beni immobili di proprietà dell'Amministrazione Comunale possono essere affidati in comodato o concessi in uso gratuitamente, con delibera della Giunta. Va comunque evidenziato che la gestione degli immobili di proprietà degli enti locali, anche da mettere in relazione all’entità delle misure di economia e finanza previste dall’ordinamento pubblico, richiede l’assunzione da parte degli enti stessi di particolare disciplina regolamentare.
In base alle considerazioni che precedono si rileva che:
- se gli immobili comunali adibiti a finalità sociale sono facenti parte del patrimonio indisponibile, essi sono assegnati a tempo determinato a famiglie in situazione di disagio mediante concessione, la cui durata (nonché la possibilità di rinnovo o proroga) devono essere disciplinati nel regolamento comunale.
- se invece i suddetti beni appartengono al patrimonio disponibile, nella loro assegnazione, il Comune agisce iure privatorum.
Per la durata del contratto di locazione, valgono le prescrizioni di cui all’art. 5 della Legge n. 431/1998, a norma del quale, il decreto del Ministro dei lavori pubblici 30.12.2002 definisce le condizioni e le modalità per la stipula di contratti di locazione di natura transitoria anche di durata inferiore ai limiti previsti dalla legge per soddisfare particolari esigenze delle parti.
L'art. 1, comma 2 del D.M. prevede che "I contratti di locazione di natura transitoria di cui all'articolo 5, comma 1, della legge 09.12.1998, n. 431, hanno durata non inferiore ad un mese e non superiore a diciotto mesi. Tali contratti sono stipulati per soddisfare particolari esigenze dei proprietari e/o dei conduttori per fattispecie da individuarsi nella contrattazione territoriale tra le organizzazioni sindacali della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative".
Sembrerebbe però, dalla lettura del quesito, che i beni siano stati assegnati a titolo gratuito per cui -anche nell'ipotesi in cui non fossero stati conferiti con atto di diritto pubblico (concessorio)- ma l'amministrazione avesse utilizzato uno strumento privatistico, questo non potrebbe che essere quello del comodato, relativamente alla cui durata la legge non prescrive un termine preciso (l'art. 1809 c.c. si limita a prevedere che il comodatario è tenuto a restituire la cosa: tale prestazione diviene esigibile alla scadenza del termine espressamente convenuto).
Si ritiene pertanto che, se i beni immobili ad uso abitativo sono stati assegnati in concessione o in comodato, sia conforme alle norme vigenti stabilire per i relativi contratti una durata di due anni
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: Nei contratti di locazione non abitativa la P.A. può esercitare il diritto di recesso per gravi motivi.
La disposizione dell'art. 27 l. n. 392/1978, che consente al conduttore di recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione contemplati dall'art. 42 della stessa legge e, tra questi, a quelli conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico territoriale.
I gravi motivi devono consistere in un'esigenza oggettiva, imposta dal dover esercitare la funzione e soddisfare l'interesse pubblico che ne è oggetto in modo più idoneo rispetto a quanto assicuri l'esercizio della funzione stessa in atto mediante l'utilizzo del bene condotto in locazione.

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3. Relativamente al primo motivo si osserva che costituisce principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui,
in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, l'onere per il conduttore, di specificare i gravi motivi contestualmente alla dichiarazione di recesso ai sensi dell'art. 27 della legge n. 392 del 1978, ancorché non espressamente previsto da detta norma, deve ritenersi conseguente alla logica dell'istituto, atteso che al conduttore é consentito di sciogliersi dal contratto solo se ricorrano gravi motivi e il locatore deve poter conoscere tali motivi già al momento in cui il recesso é esercitato, dovendo egli assumere le proprie determinazioni sulla base di un chiaro comportamento dell'altra parte del contratto, anche al fine di organizzare una precisa e tempestiva contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della loro idoneità a legittimare il recesso stesso (cfr. Cass. ord. 27.10.2011, n. 22392; Cass. 06.06.2008, n. 15058; Cass. 29.03.2006, n. 7241; Cass. 26.11.2002, n. 16676).
E' stato in particolare precisato che
-pur non avendo il conduttore l'onere di spiegare le ragioni di fatto, di diritto o economiche su cui tale motivo è fondato, né di darne la prova perché queste attività devono essere svolte in caso di contestazione da parte del locatore- si tratta pur sempre di recesso "titolato", per cui la comunicazione del conduttore non può prescindere dalla specificazione dei motivi, con la conseguenza che tale requisito inerisce al perfezionamento della stessa dichiarazione di recesso e, al contempo, risponde alla finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della loro idoneità a legittimare il recesso medesimo (cfr Cass. 17.01.2012, n. 549).
3.1. Ciò posto, il motivo risulta infondato sotto il profilo della violazione di legge, inammissibile sotto quello motivazionale.
Invero la decisione impugnata è conforme ai principi sopra esposti, avendo correttamente escluso che i motivi addotti con la lettera di recesso potessero essere integrati con quello postulato solo in sede giudiziale del "risparmio di spesa"; mentre la censura motivazionale si sostanzia in un'opinabile equiparazione tra "risparmio di spesa" e "maggiore efficienza operativa", suggerendo un'interpretazione così ampia dei contenuti lettera di recesso, che -prima ancora che risultare meramente alternativa a quella assunta nella decisione impugnata e, come tale, inammissibile anche nella formulazione ante D.L. n. 83/2012 conv. in L. n. 134/2012 del n. 5 cod. proc. civ. dell'art. 360 cod. proc. civ. (qui applicabile ratione temporis)- finirebbe per vanificare le stesse esigenze che il recesso "titolato" deve assolvere.
Il motivo va, dunque, rigettato.
4. Relativamente agli altri motivi di ricorso, suscettibili per la stretta connessione delle censure, di esame unitario, va innanzitutto osservato che
costituisce ius receptum che la disposizione dell'art. 27, comma ultimo, L. n. 392 del 1978, che consente al conduttore di recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione contemplati dall'art. 42 stessa legge, ivi inclusi quelli conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico territoriale (cfr. Cass. 22.11.2000, n. 15082).
Inoltre come correttamente evidenziato nella decisione impugnata,
una volta che l'amministrazione pubblica agisca iure privatorum stipulando un contratto di locazione come conduttore non si sottrae ai principi costantemente predicati in materia da questa Corte, secondo cui la situazione assunta come giustificativa del recesso anticipato ex art. 27, comma 8 cit. non può attenere alla soggettiva e unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all'opportunità o meno di continuare ad occupare l'immobile locato, ma deve avere carattere oggettivo, sostanziandosi in fatti involontari, imprevedibili, sopravvenuti alla costituzione del rapporto e tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore medesimo la prosecuzione del rapporto locativo.
Valga, altresì, considerare che -seppure è indubbio che la scelta di recedere non può prescindere dall'apprezzamento dell'attività esercitata dal conduttore, quale indicata dall'art. 27, oppure contemplata direttamente o indirettamente nell'art. 42 citato, con la conseguenza che, ove la scelta di recedere sia operata da un ente pubblico, non può prescindersi dal profilo delle attività e dei compiti ad esso affidati-
è altrettanto certo che la qualificazione pubblicistica del conduttore, una volta che lo stesso si sia avvalso dello strumento privatistico, non consente di ritenere che la legittimità del recesso sia apprezzata, dando rilievo esclusivamente alle determinazioni perseguite dal soggetto pubblico, seppure nell'adempimento delle sue funzioni (cfr. Cass. 19.12.2014, n. 26892, che -in una fattispecie non dissimile a quella di cui al presente ricorso- ha ritenuto che la decisione di un Comune di far costruire un proprio immobile per ospitarvi detta scuola non costituisse, di per sé, motivo idoneo di recesso anticipato dal contratto in corso, benché il completamento dell'edificio fosse avvenuto prima della scadenza convenzionale dello stesso e l'operazione fosse economicamente conveniente, essendo necessario che tale scelta fosse stata determinata da un'esigenza  oggettiva, finalizzata a soddisfare l'interesse pubblico in questione in modo più idoneo rispetto a quanto già non avvenisse tramite l'utilizzo del bene condotto in locazione).
4.1. Orbene la decisione impugnata si colloca perfettamente nell'alveo dei principi sopra indicati, giacché -muovendo dal ragionevole presupposto che la ASL avesse assunto in locazione un immobile idoneo all'espletamento dei servizi sanitari localizzati (e, perciò, escludendo che la stessa Azienda, avente in materia specifici compiti di vigilanza, avesse adibito a strutture sanitarie locali in violazione della normativa di settore)- ha evidenziato, come la scelta di acquisire o liberare nuovi locali, in mancanza di dimostrazione di situazioni in qualche modo cogenti, costituiva espressione di una libera volontà e determinazione del soggetto conduttore e, soprattutto, discendeva da circostanze che avrebbero potuto e dovuto essere prevedute, con l'ordinaria diligenza, già al momento del rinnovo della locazione; così che essa non poteva pregiudicare l'aspettativa del locatore alla prosecuzione del rapporto sino alla sua scadenza.
Ciò posto e precisato, altresì, che la verifica della sussistenza o meno degli elementi che rendono particolarmente gravosa la prosecuzione del rapporto locativo, quale uno dei presupposti necessari perché siano ravvisabili "i gravi motivi" legittimanti il recesso del conduttore ex art. 27 cit., è rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, risultando insindacabile in sede di legittimità se sorretta da congrua e coerente motivazione, rileva il Collegio che la decisione impugnata non presenta alcuna incongruenza logico-argomentativa, dando conto in maniera più che esauriente della valutazioni espresse.
In particolare, contrariamente a quanto opinato da parte ricorrente, l'affermazione, secondo cui l'esistenza di barriere architettoniche risultava non credibile, non è affatto apodittica, trovando giustificazione nella premessa di principio circa l'esistenza di una presunzione di legittimità delle determinazioni assunte dalla ASL al momento della stipula del contratto di locazione.
Né vi è alcuna insanabile contraddizione tra l'avere ritenuto che, nella valutazione dei "gravi motivi" occorresse avere riguardo all'attività svolta dalla ASL e l'avere, nel contempo, escluso che rilevasse l'eventuale mancanza di dette barriere; e ciò in quanto l'affermazione si giustifica con il rilievo che non era stata convenuta altra destinazione d'uso che quella generica "non abitativa".
In disparte si osserva che le deduzioni svolte al riguardo da parte ricorrente si rivelano prive di decisività anche sotto altro profilo; e cioè perché non evidenziano una situazione sopravvenuta nel corso del rapporto, dal momento che la presenza o meno di barriere architettoniche avrebbe dovuto essere verificata e valutata al momento della stipula del contratto (o almeno del suo rinnovo).
In conclusione l'esame complessivo dei motivi conduce al rigetto del ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 27.08.2015 n. 17215).

maggio 2015

PATRIMONIO: Possibilità di assegnare gratuitamente o a canone ridotto un bene del patrimonio disponibile comunale. Modalità dell'affidamento.
1) Sebbene il comodato costituisca una forma di utilizzo infruttifera e, quindi, non coerente con il principio di redditività dei beni immobili delle PP.AA., il più recente indirizzo della Corte dei conti afferma che non risulta precluso a priori, per l'ente locale, il ricorso a tale contratto, quale forma di sostegno/contribuzione nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) La concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un Ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio economico' a favore di un soggetto di diritto privato (art. 12 l. 241/1990). Segue che, ai fini dell'individuazione del soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di locazione a prezzo ridotto, l'Ente dovrà, previamente, indicare una serie di criteri e modalità cui successivamente attenersi.

Il Comune, atteso il principio di fruttuosità dei beni pubblici immobiliari, chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di assegnare gratuitamente o a canone ridotto, ad un imprenditore, un bene facente parte del patrimonio disponibile e, in caso di risposta positiva, desidera sapere se l'assegnazione debba essere o meno effettuata mediante procedura ad evidenza pubblica.
Precisa, altresì, che l'assegnazione avrebbe ad oggetto un immobile destinato ad asilo nido
[1] e che l'amministrazione comunale non offre alcun servizio analogo.
Il principio di fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato dall'articolo 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni dall'articolo 32, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724,
[2] impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le predette disposizioni «sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali - già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni - il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici».
[3]
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire che esse «devono mirare all'incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale».
[4]
Il Collegio rileva, peraltro, che «il Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata
[5]». [6]
La Corte dei conti,
[7] dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione 'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)», precisa che «è il legislatore stesso che traccia i confini delle possibili eccezioni ai principi generali appena richiamati». [8]
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...] qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il che concerne, anche e primariamente, la scelta del contraente cui concedere il bene in godimento)».
[9]
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato- la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio della redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta «nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali».
[10]
Viene, altresì, rilevato che «il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni».
[11]
Il Collegio contabile osserva, poi, che all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente locale
[12] giacché, stante la loro natura, essi vengono assoggettati, in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo».
[13]
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo».
[14]
La Corte dei conti chiarisce, poi, che «l'attribuzione del 'vantaggio economico'
[15] al destinatario del comodato si giustifica solo ed esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune» [16], a nulla rilevando la natura di tale destinatario, giacché «la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale» [17]. [18]
Stante quanto rappresentato, si osserva che la concessione in comodato dei beni immobili della P.A. risulta subordinata alla rigorosa osservanza delle condizioni previste dalla Corte dei conti.
Passando a trattare della seconda questione posta inerente le modalità di individuazione del soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di locazione a canone ridotto al disotto dei normali prezzi di mercato, si rileva che, in generale, «la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un Ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio economico' a favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del contratto di comodato [...] pone a carico del comodatario le spese per l'utilizzo del bene, con la diretta conseguenza che la concessione risulta soggetta alle procedure amministrative prescritte dall'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, in materia di provvedimenti attributivi di vantaggi economici».
[19] Tale articolo così recita: '1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1
'.
Segue che, ai fini dell'individuazione del soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di locazione a prezzo ridotto, l'Ente dovrà, previamente, indicare una serie di criteri e modalità cui successivamente attenersi.
[20]
Si osserva che, con riferimento alla richiesta dell'Ente circa la necessità di porre in essere una procedura ad evidenza pubblica per individuare il contraente, la giurisprudenza ha affermato, in generale, per tutti i contratti pubblici l'osservanza dei principi dell'evidenza pubblica di derivazione comunitaria per l'individuazione di tale soggetto.
[21]
Concludendo, in riferimento al caso in esame, preme evidenziare, altresì, che, essendo già in essere un contratto di locazione tra Comune e soggetto privato, qualora l'Ente intenda modificare la tipologia contrattuale in essere (non più locazione ma comodato o locazione a prezzo ridotto) dovrà attendere la scadenza della stessa, o, comunque, pervenire ad uno scioglimento per mutuo consenso o per recesso
[22] per procedere, successivamente, ad una nuova attribuzione dell'immobile nel rispetto delle condizioni sopra riportate.
In particolare, l'Ente, nell'esporre le ragioni sulla cui base vorrebbe stipulare non più un ordinario contratto di locazione ma uno a canone ridotto o, addirittura, un contratto di comodato, dovrebbe adeguatamente indicare i motivi di pubblico interesse sottesi a tale scelta, idonei a giustificare la deroga al principio della fruttuosità dei beni pubblici.
[23]
---------------
[1] Va precisato che l'immobile in riferimento è, attualmente, 'regolarmente locato' ad una società in accomandita semplice che vi svolge l'attività di asilo nido.
[2] Il comma 8 dell'articolo 32 della legge 724/1994 così recita: 'A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali'.
[3] Corte dei Conti, sezione II giurisdizionale centrale d'appello, sentenza del 22.04.2010, n. 149.
[4] Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, parere del 05.10.2012, n. 716.
[5] Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 («Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.») e dell'art. 16, comma 1, della legge regionale 09.01.2006, n. 1 («Il Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali.»).
[6] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[7] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
[8] Al riguardo, la Corte dei conti richiama il già citato art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di mercato, «fatti salvi gli scopi sociali», e l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
[9] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013 e, in termini, Sez. reg.le contr. Lombardia, parere n. 172/2014, che rileva come da un tanto consegua che «risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell'ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[10] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33. In tale sede, il Collegio chiarisce che «Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[11] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[12] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672 e 13.06.2011, n. 349.
[13] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011.
[14] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013, n. 237.
[15] Si veda, al riguardo, la previsione di cui all'articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241.
[16] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[17] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[18] Per completezza espositiva, si rinvia, anche, alla legge regionale 18.08.2000, n. 20, recante 'Sistema educativo integrato dei servizi per la prima infanzia', la quale, all'articolo 10, declina una serie di attività spettanti ai Comuni, volte al perseguimento delle finalità poste dalla legge in riferimento, e consistenti nel voler garantire il pieno esercizio dei diritti riconosciuti alle bambine e ai bambini di età compresa tra i tre mesi e i tre anni.
[19] Così, ANCI parere del 03.09.2014.
[20] Tra questi l'amministrazione potrebbe valutare l'inserimento della previsione dell'accollo, da parte del comodatario, di tutti gli oneri di manutenzione dell'immobile dato in comodato. Ciò in quanto la Corte dei Conti, in una propria pronuncia (Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, cit.), relativa all'ipotesi in cui il comodante era un ente locale, dopo aver richiamato il principio di redditività dei beni pubblici, ne ha ricavato la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque onere di manutenzione, nessuno escluso». Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni immobili dello Stato, si vedano, altresì, gli artt. 10, comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in locazione a canone agevolato per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei princìpi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti [...]».
[21] Specificamente per la locazione, il Giudice amministrativo (TAR Pescara, Sez. I, sentenza del 05.11.2008, n. 878) ha affermato che, anche in assenza di specifica disposizione normativa che imponga l'adozione di procedure concorrenziali per la selezione del contraente privato, l'amministrazione deve osservare i fondamentali canoni della trasparenza, dell'imparzialità e della par condicio (sul tema si veda, anche, TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, sentenza del 21.05.2008, n. 1978). Vero è che, con riferimento al contratto di comodato, pare che il rispetto di tali principi possa attuarsi osservando ed applicando quei criteri predisposti in sede regolamentare, l'applicazione dei quali dovrebbe consentire di attribuire il bene, in presenza di una pluralità di richiedenti, a colui che meglio pare soddisfare le esigenze della Pubblica Amministrazione.
[22] Si osserva che l'articolo 27, commi settimo e ottavo, della legge 27.07.1978, n. 392, prevede la possibilità, per il conduttore, di recedere dal contratto nel caso in cui una tale possibilità sia prevista contrattualmente o, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, qualora ricorrano gravi motivi.
[23] Al riguardo, spetta all'Ente, in relazione alla situazione concreta, esplicitare le ragioni che giustificherebbero la stipulazione di un contratto non comportante più un introito economico per lo stesso (o, comunque, di entità ridotta rispetto ai valori di mercato). Ad esempio, la determinazione di un canone di locazione ridotto al di sotto dei normali prezzi di mercato potrebbe risultare giustificata a fronte della previsione, nella convenzione intercorrente tra il Comune ed il soggetto gestore dell'asilo nido, di vantaggi ulteriori per la collettività comunale, anche sotto il profilo delle tariffe a carico dell'utenza. Ancora, si potrebbe presentare il caso in cui, a fronte di una mutata situazione di fatto (minori iscrizioni al nido; maggiori costi di gestione) non vi siano più le condizioni per il mantenimento in vita del servizio di asilo. In tale ultimo caso, spetta al Comune valutare se la situazione prospettata sia oggettivamente tale da giustificare e ritenere fondato il cambiamento di tipologia contrattuale
(20.05.2015 - link a www.regione.fvg.it).

aprile 2015

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 28.04.2015, "Modalità di aggiornamento dei dati relativi a reti e infrastrutture sotterranee, ai sensi dell’art. 42, comma 3, della l.r. 7/2012 così come modificato dall’art. 19, comma 1, della l.r. 19/2014 e disapplicazione della d.g.r. 21.11.2007, n. 5900 «Determinazioni in merito alle specifiche tecniche per il rilievo e la mappatura georeferenziata delle reti tecnologiche»" (deliberazione G.R. 24.04.2015 n. 3461).

PATRIMONIOOpere protettive in corrispondenza dei cavalcavia autostradali: spettanza degli oneri manutentivi (parere 09.04.2015 n. 172688/89 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).

PATRIMONIO: Concessione in comodato d'uso di porzione d'immobile comunale ad altra pubblica amministrazione.
1) Sebbene il comodato costituisca una forma di utilizzo infruttifera e, quindi, non coerente con il principio di redditività dei beni immobili delle PP.AA., il più recente indirizzo della Corte dei conti afferma che non risulta precluso a priori, per l'ente locale, il ricorso a tale contratto, quale forma di sostegno/contribuzione nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) Dalla disciplina civilistica del comodato si evince, in via generale, che le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) gravano sul comodatario, mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettano al comodante.
Va, tuttavia, rappresentato che una Sezione regionale della Corte dei conti, richiamando il principio di redditività dei beni pubblici, afferma la necessità che l'ente locale comodante sia perlomeno esentato dall'assunzione di qualunque onere di manutenzione, 'nessuno escluso'.

Il Comune chiede di conoscere se, atteso il principio della fruttuosità dei beni pubblici immobiliari, possa concedere in comodato d'uso (fatto, comunque, salvo l'addebito dei costi di funzionamento) una porzione d'immobile di sua proprietà all'Azienda per l'assistenza sanitaria, con vincolo di destinazione d'uso specifico di poliambulatorio per l'assistenza primaria, destinato, pertanto, all'erogazione diretta di un servizio a favore della comunità amministrata.
Occorre, anzitutto, evidenziare che -come afferma costante giurisprudenza
[1]- ai fini dell'individuazione dello strumento giuridico idoneo ad attribuire in godimento un bene pubblico a soggetti terzi, assume decisiva rilevanza la corretta qualificazione giuridica del bene stesso. Infatti, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la natura disponibile [2] del bene implica il ricorso a contratti di stampo privatistico (locazione, affitto di azienda, comodato) [3].
Ciò posto, appare opportuno ricordare che il principio della fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato dall'art. 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni dall'art. 32, comma 8
[4], della legge 23.12.1994, n. 724, impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le predette disposizioni «sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali -già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici»
[5].
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire che esse «devono mirare all'incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale»
[6].
Il Collegio rileva, peraltro, che «il Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata
[7]» [8].
La Corte dei conti, dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione 'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)», precisa che «è il legislatore stesso che traccia i confini delle possibili eccezioni ai principi generali appena richiamati»
[9].
Al riguardo, la Corte dei conti richiama il già citato art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di mercato, «fatti salvi gli scopi sociali»
[10], e l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...] qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il che concerne, anche e primariamente, la scelta del contraente cui concedere il bene in godimento)»
[11].
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato- la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio della redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta «nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali»
[12].
Viene, altresì, rilevato che «il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni»
[13].
Il Collegio contabile osserva, poi, che all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente locale
[14] giacché, stante la loro natura, essi vengono assoggettati, in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo»
[15].
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo»
[16].
La Corte dei conti chiarisce, poi, che «l'attribuzione del 'vantaggio economico'
[17] al destinatario del comodato si giustifica solo ed esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune» [18], a nulla rilevando la natura di tale destinatario, giacché «la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale» [19].
Quanto al comodato a favore di altre pubbliche amministrazioni, una Sezione della Corte dei conti, esprimendosi sull'ammissibilità di concedere in uso beni comunali alla regione, al fine di garantire la permanenza in loco di alcuni uffici, osserva che la scelta non può considerarsi pregiudizievole per le finanze del comodante, considerato che la proprietà degli immobili rimane al comune, che la gestione dei beni viene temporaneamente trasferita da un'amministrazione locale all'altra e che l'operazione nel suo complesso sottende la tutela dell'interesse pubblico della comunità locale, avvantaggiata, nella fruizione del servizio erogato dagli uffici regionali, dal mantenimento di essi sul territorio
[20].
In altra e più recente occasione, la medesima Sezione regionale afferma la legittimità della stipulazione di un contratto di comodato per l'allocazione di una caserma (della Guardia di finanza), stante l'assenza di oneri a carico del comune, che rimane proprietario dell'immobile e il ricorrere dell'interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul territorio di detto presidio
[21].
Per quanto attiene, più specificatamente, al caso di specie, occorre inoltre segnalare al Comune la necessità di verificare, con l'Azienda per l'assistenza sanitaria, che il poliambulatorio per l'assistenza primaria che verrebbe collocato nella porzione di immobile oggetto di comodato sia adibito esclusivamente a presidio pubblico, vale a dire che sia precluso, nei suoi locali, l'esercizio di attività libero-professionale, nella considerazione che detta attività si caratterizza per lo scopo di lucro
[22].
Stante quanto rappresentato, si osserva che la concessione in comodato dei beni immobili della P.A. risulta subordinata alla rigorosa osservanza delle condizioni previste dalla Corte dei conti.
Relativamente, poi, alla questione concernente gli oneri da porre a carico del comodatario -che l'Ente intenderebbe limitare ai 'costi di funzionamento'- occorre segnalare quanto segue.
L'art. 1803 del codice civile sancisce che il comodato «è essenzialmente gratuito» (secondo comma) ed il successivo art. 1804 dispone che «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia» (primo comma, primo periodo).
L'art. 1808 del medesimo codice chiarisce, quindi, che «Il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa» (primo comma) e che «Egli però ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti» (secondo comma).
Sulla scorta di tali previsioni si può, dunque, ritenere che, normalmente, le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) gravino sul comodatario
[23], mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettino, invece, al comodante [24].
La Corte di cassazione precisa, infatti, che l'art. 1808 del codice civile distingue fra spese sostenute per il godimento della cosa e spese straordinarie, necessarie ed urgenti, affrontate per conservarla, osservando che «al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né sotto il profilo dell'art. 1150 c.c. perché egli non è possessore, né sotto quello dell'art. 936 c.c. perché non è terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né infine sotto quello dell'art. 1595 c.c. in via di richiamo analogico, perché un'indennità per i miglioramenti è negata anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella comodatario»
[25].
Ferme restando, in termini generali, la norma civilistica e l'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, si ritiene opportuno segnalare, comunque, una pronuncia della Corte dei conti che, trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente locale e richiamando, perciò, il già citato principio di redditività dei beni pubblici, ne ricava la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque onere di manutenzione, nessuno escluso»
[26].
---------------
[1] Cfr. Corte di cassazione - Sez. III, sentenze 19.05.2000, n. 6482, 22.06.2004, n. 11608, 19.12.2005, n. 27931 e Sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Consiglio di Stato - Sez. V, sentenze 16.05.2003, n. 1991 e 06.12.2007, n. 6265; Corte dei conti - Sez. reg.le contr. Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4.
[2] I beni patrimoniali disponibili sono beni che appartengono all'ente pubblico uti privatorum: ciò significa che essi non hanno una destinazione o, comunque, un'utilità pubblica e, quindi, sono assoggettati, in linea di massima, alla disciplina privatistica.
[3] Si segnala, al riguardo, che la Corte dei conti, Sez. reg.le contr. Sardegna, parere n. 4/2008, ritiene che «l'Ente locale non goda di discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti di attribuzione in godimento a soggetti terzi (concessione amministrativa e locazione) del bene e che debba avere quale parametro di riferimento esclusivo la natura (demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale disponibile) del bene ed il regime giuridico cui conseguentemente è sottoposto».
[4] «A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali».
[5] Corte dei conti - Sez. II giurisd. centrale d'appello, sentenza 22.04.2010, n. 149.
[6] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 05.10.2012, n. 716.
[7] Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 («Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.») e dell'art. 16, comma 1, della legge regionale 09.01.2006, n. 1 («Il Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali.»).
[8] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[9] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
[10] Tanto la Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, quanto la Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, chiariscono che la norma va letta in riferimento a quanto previsto dal comma 3 dello stesso articolo che, disciplinando i beni patrimoniali dello Stato, esclude dall'incremento dei canoni annui una serie di categorie di soggetti, tra cui le associazioni e le fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti.
La Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, la Sez. reg.le contr. Lombardia, parere 06.05.2014, n. 172 e la Sez. reg.le contr. Puglia, parere 15.12.2014, n. 216, affermano, poi, che la deroga alla regola della determinazione di canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato, prevista dalla disposizione in esame, «appare giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni».
[11] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013 e, in termini, Sez. reg.le contr. Lombardia, parere n. 172/2014, che rileva come da un tanto consegua che «risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell'ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[12] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33. In tale sede, il Collegio chiarisce che «Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[13] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[14] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672 e 13.06.2011, n. 349.
[15] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011.
[16] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013, n. 237.
[17] Si ricorda che l'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, dispone che: «1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.».
[18] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[19] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[20] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 25.07.2008, n. 23.
[21] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 216/2014.
[22] Come si è già segnalato nella seconda parte della nota n. 10, alcune Sezioni regionali della Corte dei conti sostengono che la deroga alla regola della determinazione dei canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato, prevista dall'art. 32, comma 8, della L. 724/1994, laddove fa salvi gli scopi sociali, «appare giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni».
Occorre, infatti, ricordare che l'art. 36, comma 1, dell'Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi dell'art. 8 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 502, prevede che lo studio del medico di assistenza primaria «è considerato presidio del Servizio Sanitario Nazionale e concorre, quale bene strumentale e professionale del medico, al perseguimento degli obiettivi di salute del Servizio medesimo nei confronti del cittadino, mediante attività assistenziali convenzionate e non convenzionate retribuite», ma dispone, altresì, che «Lo studio del medico di medicina generale, ancorché destinato allo svolgimento di un pubblico servizio, è uno studio professionale privato.».
[23] Secondo una parte della dottrina (Fragali, Del comodato, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1754-1812, Bologna-Roma, 1966, 309; Luminoso, Comodato, in EG, VII, Roma, 1988, 4), il comodatario non ha mai diritto al rimborso, neanche a titolo di arricchimento, nel caso di spese sostenute per la manutenzione ordinaria, la custodia e la conservazione.
[24] Tant'è che il comodatario ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie, necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa, sostenute in luogo del comodante.
[25] Sez. II civile, sentenza 27.01.2012, n. 1216.
Per quanto appaia una posizione isolata, si segnala che una giurisprudenza di merito (Tribunale Bergamo, sentenza 20.11.2001) afferma che «ai sensi dell'articolo 1808, comma 1, del Codice civile, il comodante non ha l'obbligo di consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all'uso convenuto con il comodatario, spettando a quest'ultimo sostenere tutte le spese necessarie per consentire detto uso, derivino esse da opere di manutenzione ordinaria o straordinaria. Pertanto, in un contratto di comodato che conceda il godimento gratuito del bene, la clausola per cui il comodatario assume l'obbligo di sostenere le opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, limitandosi a rispettare il tipo legale, non può mai essere considerata come pattuizione volta ad introdurre un corrispettivo del godimento, ai fini della qualificazione del negozio come locazione anziché come comodato. In presenza di una tale clausola, rimane peraltro salvo, ai sensi del secondo comma, il diritto del comodatario al rimborso delle spese per opere di manutenzione straordinaria e urgenti, ove siano volte a conservare la cosa».
[26] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, in cui si afferma che «risulterà, dunque, davvero difficile ravvisare detta condizione nel caso in cui l'accollo degli oneri gestionali da parte del soggetto destinatario del bene riguardi esclusivamente la manutenzione ordinaria, con esclusione di quella straordinaria».
Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni immobili dello Stato, si vedano gli artt. 10, comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti: [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in locazione a canone agevolato per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei princìpi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti: [...]»
(08.04.2015 - link a www.regione.fvg.it).

marzo 2015

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Condannato il dirigente dell'UTC per l'affidamento diretto e per i lavori di manutenzione straordinaria effettuati in qualità di locatario.
Tra l'altro, lavori di "somma urgenza" sono stati affidati direttamente in violazione ai principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento, così come disciplinati dal comma 8 dell'art. 125 del Codice dei Contratti, tanto più che detti lavori di manutenzione straordinaria dell'immobile avrebbero dovuto essere posti a carico del proprietario e non dell'amministrazione locataria.  
Vieppiù, non appare correttamente seguita la procedura prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune per le Spese in Economia, in quanto non risulta in atti che sia stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa attendere la redazione di un vero e proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia stato "allegato alla determina di affidamento della prestazione".
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L'AVCP
ha rilevato la non corretta applicazione da parte del comune "delle norme del Codice dei Contratti ed in particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli appalti, in difformità del rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia
ciò che realmente indica l'illiceità della spesa sopportata dal Comune è il fatto che si è trattato in netta prevalenza (ad eccezione della realizzazione di un servizio igienico per disabili e della costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso, sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili opere necessarie per conservare all'immobile la sua destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione, che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione straordinaria.
La L. 392/14978 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) prevede più specificamente che sono interamente a carico del conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione dell’immobile prevede all’art. 5 che "
l’ordinaria manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli interventi di carattere straordinario restano a carico del locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono principalmente consistiti nella realizzazione di lavori necessari per ricondurre la struttura in buono stato locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti, sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro).
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Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune per le Spese in Economia, in quanto non risulta in atti che sia stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa attendere la redazione di un vero e proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia stato "allegato alla determina di affidamento della prestazione".
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C.
Sgombrato il campo dalle questioni pregiudiziali e preliminari proposte dalle difese dei convenuti, il Collegio può esaminare in punto di merito la vicenda descritta nella premessa in fatto. Deve quindi procedersi alla verifica della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi tipici della responsabilità amministrativa che, com’è noto, si sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso, nonché nella sussistenza di un rapporto di servizio fra coloro che lo hanno determinato e l'ente che lo ha subito.
D. Con riferimento, in primo luogo, all’elemento oggettivo del danno pubblico, la valutazione della relativa sussistenza nel caso di specie impone l'attenta valutazione degli atti di causa, dai quali risulta quanto segue.
Con relazione informativa n. 108/09 del 06.04.2009
l'ASL NA 2 Nord - Dipartimento di Prevenzione - Servizio Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro - Servizio Igiene e Medicina del Lavoro dava comunicazione di quanto emerso nel corso degli accertamenti effettuati durante l'ispezione svolta il 23.03.2009 presso l'Ufficio Anagrafe del Comune di Afragola situato in via SS. Cuori, ovvero della rilevata inosservanza di talune disposizioni dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro (D.Lgs. n. 81/2008), impartendo, di conseguenza, una serie di prescrizioni, cui il datore di lavoro (individuato su delega del Sindaco del Comune di Afragola nell'Ing. M.D., Responsabile del Settore Recupero Urbano e Servizi Collettivi al Cittadino del medesimo Comune) avrebbe dovuto curare la puntuale ottemperanza entro novanta giorni dalla data del verbale de quo; contestualmente, l'ASL decretava, considerata la situazione di pericolo derivante dall'inosservanza delle prescrizioni indicate, il divieto d'uso dei locali adibiti ad Ufficio Anagrafe del Comune di Afragola.
L'immobile de quo era condotto in locazione dall'Ente in forza di contratto n. 1713 del 22.07.1998, stipulato con il proprietario Istituto SS. Cuori, nel quale era stato pattuito un canone mensile di £. 3.535.323, per complessive £. 42.423.876 annue (da aggiornare con indici ISTAT).
Con determinazione dirigenziale n. 92/C del 12.06.2009 del Responsabile del Settore Lavori Pubblici e Assetto del Territorio ing. N.B. si stabiliva, facendo riferimento alla Relazione Informativa ASL NA 2 Nord n. 108/09 dianzi citata e dando atto dell'urgenza ed indifferibilità ex art. 9 Regolamento Comunale delle Spese in Economia approvato con deliberazione C.S. n. 119 del 07.04.2007 dei lavori di risistemazione e adeguamento dello stabile da eseguire in ottemperanza alle prescrizioni impartite dall'Azienda Sanitaria Locale, di affidare i lavori de quibus all’impresa RDR di M. V. e R. s.n.c. in forza di un precedente contratto d’appalto, n. 3181 del 24.09.2008, avente ad oggetto la manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili comunali, ed utilizzando lo stesso ribasso d’asta (34,105%), in ragione della dichiarazione di disponibilità dell'impresa all'esecuzione immediata dei lavori agli stessi patti e condizioni del contratto n. 3181/2008 già in essere.
Il contratto da stipulare in esecuzione della determinazione dirigenziale n. 92/C del 12.06.2009 è stato poi sottoscritto in data 16.07.2009, per un importo netto contrattuale di € 50.136,51 comprensivo di oneri di sicurezza. Infine, con determina dirigenziale n. 161/C del 24-09-2009 è stato approvato il primo ed unico SAL per un importo di € 48.780,52 oltre I.V.A..
Con successiva determinazione dirigenziale n. 178 del 17.02.2010 del Responsabile del Settore Lavori Pubblici e Assetto del Territorio ing. N.B., è stato approvato un ulteriore progetto dell’importo di €. 83.860,00, di cui €. 68.737,72 per lavori, contenente opere rese necessarie sempre dalle prescrizioni dell’Azienda Sanitaria, di cui al verbale n. 108/09 dell’Azienda sanitaria Locale Napoli 2 Nord; i predetti lavori sono stati affidati all’impresa Coop. S., in forza di un precedente contratto, stipulato in relazione ai lavori di manutenzione straordinaria ed ordinaria annualità 2009/2010 dei plessi scolastici di competenza dell’Ente Comunale della città di Afragola per un importo contrattuale di € 136.869,78 -a seguito di gara e con un ribasso d’asta del 34,463%- applicando lo stesso ribasso d’asta (del 34,463%, appunto) per un importo di € 46.707,52, comprensivo di € 4.906,97 per oneri di sicurezza;
anche in questo caso l'affidamento è avvenuto ai sensi dell’art. 9 del Regolamento delle Spese in Economia dell’Ente, già richiamato per statuire l'urgenza e l'indifferibilità dei lavori nella determinazione n. 92/C/2009 di cui si è detto in precedenza. La copertura finanziaria è stata assicurata dall’economia risultante dal ribasso d’asta dell’appalto originario.
Nella premessa della determinazione dirigenziale n. 178/2010 vengono, altresì richiamati due verbali di riunione, tenutesi rispettivamente il 07.01.2010 ed il 22.01.2010 tra il Vice-Sindaco ed i dirigenti dei vari Settori del Comune di Afragola -la prima riunione, anche con la partecipazione del segretario comunale- in cui era stata ribadita "la necessità della sistemazione dei locali posti al primo piano dell'Ufficio Anagrafe in via SS. Cuori", con particolare riferimento alla scala delle stanze situate al primo piano dello stabile, all'impianto elettrico, alle toilettes, a bussole e finestre ed alla realizzazione di tompagnatura in alcuni ambienti.
Dalla lettura della prot. n. 19922 del 02.08.2010 del Dirigente del Settore A.T./LL.PP. comunale ing. N.B., emerge che i lavori affidati alla prima impresa RDR di M. V. e R. s.n.c. hanno interessato il piano terra dello stabile e solo marginalmente il primo piano, quest'ultimo con lavori di piccola entità, e che con i lavori aggiuntivi affidati alla Coop S. in forza della determina n. 178 del 17.02.2010, sono stati completati i lavori di sistemazione del primo piano, previo trasferimento degli uffici al piano terra.
Più in dettaglio -come illustrato nella medesima nota dianzi indicata, trasmessa a riscontro di richiesta di chiarimenti e informazioni dell'AVCP- i primi lavori sono consistiti in:
   A) ristrutturazione dell’intero piano terra dello stabile in via SS. Cuori, previo sgombero dell’intero archivio e trasporto di materiale al macero, rifacimento della partizione interna, realizzazione degli impianti elettrico, idrico, di riscaldamento e climatizzazione, realizzazione di nuovi servizi igienici di cui uno per disabili, sistemazione dell’ingresso principale con la costruzione di una rampa di accesso per disabili, realizzazione di controsoffittatura, nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e tinteggiatura dell’intero edificio, sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro;
   B) lavori di piccola entità al primo piano del medesimo stabile nei locali adibiti ai servizi igienici, quali sostituzione di n. 4 vasi igienici nei wc, sostituzione e ripristino di piccole parti di pavimentazione (in totale mq. 4 di pavimentazione), sostituzione dei serramenti nei locali wc e ripristino intonaco nel corridoio principale.
Per i lavori del secondo affidamento (impresa Coop. S.), invece, gli interventi da eseguire sono dettagliatamente indicati nel verbale di riunione del 22.01.2010:
1. spostamento dell’archivio storico dalla precedente sede alla stanza n. 3 indicata nell’allegato grafico;
2. chiusura, con realizzazione di muri, dei due ingressi al corridoio di destra e di sinistra;
3. sistemazione delle tre stanze identificate ai nn. 1, 2 e 3, con ripristino delle parti ammalorate di intonaco, ritinteggiatura complessiva, sostituzione degli infissi e delle porte interne, dei vetri ove non a norma, rifacimento dell’impianto elettrico, nonché realizzazione dell’impianto di rilevazione incendi e verifica del solaio di calpestio destinato all’archivio storico;
4. sostituzione degli infissi esistenti e della porta di accesso ai locali adibiti a servizi igienici al primo piano;
5. rifacimento dell’impermeabilizzazione al solaio di copertura del torrino scala;
6. rifacimento dell’intonaco al soffitto del vano scala, ritinteggiatura complessiva e sistemazione dell’impianto elettrico.

La realizzazione dei lavori de quibus è stata oggetto di alcune note (n. 46270 del 14.07.2010, n. 70175 del 11.10.2010 e n. 30609 del 18.03.2011, quest'ultima già citata in precedenza per aver costituito lo spunto per l'apertura delle indagini eseguite dal requirente contabile), due istruttorie ed una di definizione dell'istruttoria medesima, dell'A.V.C.P. (Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture),
la quale ha rilevato la non corretta applicazione da parte della stazione appaltante (il Comune di Afragola) "delle norme del Codice dei Contratti ed in particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli appalti, in difformità del rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia -come puntualmente e condivisibilmente evidenziato dal PM di udienza-
ciò che realmente indica l'illiceità della spesa sopportata dal Comune di Afragola a fronte dei lavori precedentemente descritti, è il fatto che si è trattato in netta prevalenza (ad eccezione della realizzazione di un servizio igienico per disabili e della costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso, sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili opere necessarie per conservare all'immobile la sua destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione, che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione straordinaria.
La L. 392/14978 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) prevede più specificamente che sono interamente a carico del conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione dell’immobile prevede all’art. 5 che "
l’ordinaria manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli interventi di carattere straordinario restano a carico del locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono -come giustamente osservato nell'atto introduttivo del giudizio- di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono principalmente consistiti nella realizzazione di lavori necessari per ricondurre la struttura in buono stato locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti, sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro).
Non a caso, infatti, era lo stesso Ente locale a riferire alla competente Procura della Repubblica di Napoli -nella nota n. 2183 del 26/01/2011 del Responsabile del Settore A.T. e LL.PP. ing. N.B., odierno convenuto- che “
... la proprietà dei locali occupati dal personale di Stato Civile dell’Amministrazione Comunale di Afragola non rientra tra quelle disponibili dell’Ente e pertanto, è palese la impossibilità giuridica di questo Ente di effettuare interventi di manutenzione straordinaria quali sono quelli finalizzati all’adeguamento ai sensi del T.U. 81/2008 (sicurezza sui luoghi di lavoro)”.
Erano proprio le prescrizioni dell’ASL NA 2 Nord indicate nella Relazione Informativa n. 108/09 sopra citata, inoltre,
ad attestare uno stato di particolare degrado dell’immobile locato, per il quale, dunque, deve dedursi che non siano stati svolti e pretesi nel tempo -ovvero, per tutta la ventennale durata del rapporto locativo- gli interventi manutentivi necessari.
Poiché, dunque, i lavori realizzati in esecuzione delle determinazioni n. 92/C/2009 e n. 178/2010 del Dirigente del Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio, sono di straordinaria manutenzione, i relativi oneri non avrebbero dovuto essere sopportati dal Comune di Afragola, in sostituzione e con diretto vantaggio patrimoniale del soggetto proprietario, bensì avrebbero dovuto essere sì effettuati in tempi rapidi, ma poi posti a carico -detratti i costi sostenuti per realizzare i prescritti adeguamenti strutturali per disabili- del proprietario dello stabile.
Poiché ciò non è avvenuto -ed anzi l'ing. N.B. ha escluso nella nota interna n. 3327/AT dell’11.09.2012 che potesse avvenire, in aperto contrasto con quanto in un primo momento da lui stesso osservato nella nota n. 2183 del 26.01.2011 sopra citata-
il Collegio ritiene che il Comune di Afragola abbia senz'altro subito, in relazione alla vicenda dianzi descritta, un pregiudizio economico.
Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune di Afragola per le Spese in Economia, approvato con delibera C.S. n. 119 del 07.04.2007 (integrata da successiva delibera n C.S. n. 133 del 12.07.2007) -cui pure fa riferimento la difesa del convenuto- in quanto non risulta in atti che sia stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa attendere la redazione di un vero e proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia stato "allegato alla determina di affidamento della prestazione".
In merito alla quantificazione del danno sopra descritto e ritenuto sussistente nella fattispecie, il Collegio osserva, preliminarmente, che con nota segretariale n. 440/Seg del 05.11.2012 del Comune di Afragola è stata trasmessa la nota interna n. 3981/AT del 31.10.2012, in cui vengono indicate in € 60.631,39 e in € 57.418,03 le spese sostenute per effetto delle determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178 del 17.02.2010, che secondo la prospettazione attorea costituiscono danno erariale per l'intero importo (€ 118.049,42 = € 60.631,39 + € 57.418,03).
Tuttavia, il Collegio ritiene di dover rivedere la proposta quantificazione tenendo conto, come rilevato anche dal PM di udienza, della spesa che il Comune di Afragola avrebbe comunque dovuto sostenere in proprio -senza cioè poterla porre a carico del proprietario dello stabile adibito ad Ufficio Anagrafe comunale- per la realizzazione di una rampa d’accesso e di un servizio igienico per disabili, complessivamente quantificabile in € 15.000,00, tenendo conto dei costi medi di mercato di siffatte dotazioni strutturali.
Poiché tali dotazioni strutturali sono state realizzate con il primo affidamento (disposto con la determinazione n. 92/C del 12.06.2009), è l'importo erogato in relazione ad esso (€ 60.631,39) che va ridotto nella predetta misura (€ 15.000,00) ai fini della presente sentenza, risultando quindi pari a 45.631,39, cui va comunque aggiunto l'importo di € 57.418,03 erogato a seguito della determinazione n. 178 del 17.02.2010, con la conseguenza che il pregiudizio economico complessivamente subito dal Comune di Afragola in relazione all'esaminata vicenda risulta pari ad € 103.049,42 (= € 45.631,39 + € 57.418,03).
E. Ciò posto, e rilevata sotto il profilo del rapporto di servizio la sussistenza della relazione d'immedesimazione organica tra l'odierno convenuto -all'epoca dei fatti Dirigente del Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio del Comune di Afragola- ed il medesimo Ente locale, va poi osservato, per quel che concerne il nesso di causalità rilevabile tra il danno descritto e quantificato in precedenza e la condotta tenuta dal convenuto medesimo, che la prospettazione attorea, secondo cui il nocumento patrimoniale subito dal predetto Ente per effetto dell'esaminata vicenda sarebbe a lui addebitabile in toto in relazione alla determina dirigenziale n. 92/C/2009 e nella misura del 50% in riferimento alla successiva determina n. 178/2010, è ad avviso del Collegio, condivisibile, per aver egli adottato le determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178 del 17.02.2010, più volte citate in precedenza, mediante le quali si è stabilito l'affidamento dei lavori da eseguirsi sul bene privato senza porne contestualmente a carico del proprietario il relativo onere economico e senza, comunque, adottare alcuna statuizione in tale direzione.
Nel contempo,
è del pari condivisibile l'indicazione fornita dal requirente nell'atto introduttivo del giudizio, secondo cui la spesa erogata a seguito dell'effettuazione dei lavori affidato con la determina n. 178/2010 (€ 57.418,03) va posta al carico dell'ing. N.B. soltanto nella percentuale del 50%, dovendo essere il restante 50% addebitato al comportamento tenuto dai partecipanti (vice-sindaco, segretario comunale, vari dirigenti, amministratori e funzionari del Comune di Afragola) alle conferenze di servizi e riunioni che hanno preceduto l'adozione della predetta determina, in quanto nel corso di essa era stata discussa la problematica dei lavori da effettuare nello stabile di via SS. Cuori destinato ad Ufficio Anagrafe comunale, con un pronunciamento favorevole agli stessi (avvenuto nel verbale del 07.01.2010 e confermato con modifiche nei lavori in data 22.01.2010), "influenzato sia dall’esigenza di completare l’ottemperanza alle prescrizioni dell’ASL che dalla necessità dell’Ufficio anagrafe di ricevere in consegna delle apparecchiature ordinate (elettroarchivi rotanti), fornitura per la quale la ditta interessata denunciava danni di natura economica per il protrarsi dell’impossibilità alla consegna e al collaudo imputabile all’Ente" (cfr. atto di citazione, pagg. 12-13).
F. Riguardo, infine, all'elemento soggettivo dell'illecito amministrativo-contabile in controversia, che la Procura ha indicato come colpa grave, questo deve, del pari essere ritenuto sussistente per il convenuto N.B., per aver egli adottato le suindicate determine senza poi porre in essere alcuna attività finalizzata a porre a carico del proprietario dell'immobile l'onere economico sostenuto per far eseguire i lavori necessari per provvedere alla straordinaria manutenzione di esso.
Il disinteresse dimostrato dal B. in ordine alle conseguenze economicamente pregiudizievoli per l'Ente determinate dal suo operato, emerge, altresì, dal fatto che, come da egli stesso rappresentato nella nota interna n. 3327/AT dell’11.09.2012 (costituente riscontro a foglio istruttorio richiedente [anche] la corrispondenza intercorsa con il locatore per l’esecuzione dei lavori [autorizzazioni]), i rapporti con il proprietario dell'immobile erano avvenuti in modo verbale, ossia del tutto irritualmente.
Né assumono efficacia scriminante le circostanze indicate dallo stesso B. nella relazione illustrativa redatta il 09.06.2009 (ed allegata alla determina n. 92/C del 12.06.2009), in cui egli evidenzia che il Datore di Lavoro, indicato dall'ASL nel Dirigente del Settore Recupero Urbano e Servizi Collettivi al Cittadino del Comune di Afragola ing. M.D., non aveva assunto sino a quella data alcuna iniziativa intesa ad ottemperare alle prescrizioni impartite dall'ASL nella Relazione Informativa n. 108/09 e che, per contro, il medesimo ing. B. -"che lavora al meglio per il funzionamento della macchina comunale"- si sia in tale relazione illustrativa dichiarato disponibile anche a risolvere la problematica dell'Ufficio Anagrafe, potendo, tutt'al più, tali circostanze rappresentare motivo di esercizio del potere riduttivo dell'addebito.
Nel contempo, il Collegio ritiene di condividere la prospettazione esposta nell'atto introduttivo del giudizio, anche laddove non si ravvisa a carico dei partecipanti alle conferenze di servizi e riunioni che hanno preceduto la determina n. 178 del 17.02.2010 -di cui sopra si è detto- la sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa grave, essendosi tali soggetti pronunciati unicamente a favore dell'effettuazione in via d'urgenza dei lavori necessari per adeguare l'immobile ospitante l'Ufficio Anagrafe comunale alle prescrizioni della locale Azienda Sanitaria, ma non certamente per tenere indenne il locatore, con pregiudizio economico per l'Ente, dagli oneri derivanti dai lavori de quibus.
G. Conclusivamente, questo Collegio ritiene che l'effettuazione a carico del Comune di Afragola dei lavori di straordinaria manutenzione dell'immobile privato condotto in locazione quale sede dell'Ufficio Anagrafe comunale, affidati con le determine n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178 del 17.02.2010, sia stato il frutto -almeno in via prevalente, nelle misure suindicate- della condotta gravemente colposa attribuibile all'odierno convenuto e che la conseguente erogazione della somma di € 103.049,42, nel configurarsi come un danno ingiusto all’Ente vada a questi addebitata nell'importo di € 45.631,39 + € 28.709,01 (50% di € 57.418,03) = € 74.340,40, da sottoporre ad ulteriore riduzione, nella misura ritenuta equa del 20%, nell'esercizio del potere attribuito al Giudice Contabile dall'art. 52 TUCL n. 1214 del 1934, risultando dunque quantificato, infine, in € 59.472,32 (= 80% di € 74.340,40).
Su dette somme dovranno essere applicati, innanzitutto, la rivalutazione monetaria, da calcolarsi secondo gli indici ISTAT, dall’esborso e fino al giorno della pubblicazione della presente sentenza, nonché gli interessi legali sulla somma così rivalutata dalla predetta pubblicazione al soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania, sentenza 09.03.2015 n. 253).

febbraio 2015

PATRIMONIOSulla gestione del demanio marittimo (parere 27.02.2015 n. 100167/196 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).

PATRIMONIO: Acquisizione di beni e servizi da parte dei Comuni non capoluogo del Friuli Venezia Giulia. Acquisizione del codice identificativo gara (CIG/SmartCig).
Come stabilito dal novellato art. 53, comma 2, della legge regionale 26/2014, fino al 30.06.2015 i Comuni non capoluogo possono procedere autonomamente (ossia in forma non aggregata) all'acquisizione di beni e servizi. Resta fermo l'obbligo, ai sensi dell'art. 1, comma 450, della legge 296/2006, di fare ricorso al mercato elettronico della PA (MePA) per l'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario (207.000 euro), permanendo tuttavia, ai sensi del comma 449, ivi richiamato, la facoltà di ricorrere alle convenzioni CONSIP, ovvero di rivolgersi al libero mercato, ma in tal caso nel rispetto dei parametri di prezzo-qualità fissati dalle convenzioni CONSIP, che costituiscono limite massimo per la stipula dei contratti.
L'Ente, che è un Comune non capoluogo di provincia e con una popolazione inferiore a 10.000 abitanti, chiede come debbano procedere i Comuni della Regione Friuli Venezia Giulia per ottenere uno SmartCig
[1] ai fini dell'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore a 40.000 euro; in particolare, è interessato alle procedure al di fuori di Consip e del mercato elettronico.
Sentito il Servizio Centrale unica di committenza, di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Sul piano dell'ordinamento statale, le novelle apportate dall'art. 9, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n. 66
[2], all'art. 33, comma 3-bis del Codice dei contratti pubblici hanno introdotto l'obbligo, per i Comuni non capoluogo di provincia, di acquisire lavori, servizi e forniture attraverso determinate modalità di aggregazione. In alternativa alle acquisizioni in forma aggregata, tali Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore. L'ANAC non rilascia CIG (e SmartCig) ai Comuni che procedano all'acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione degli adempimenti previsti dalla normativa richiamata. La decorrenza di tali obblighi è fissata all'01.01.2015 per quanto concerne l'acquisizione di beni e servizi, secondo quanto disposto dall'art. 23-ter, comma 1, del decreto legge 24.06.2014, n. 90 [3].
Inoltre, ai sensi del successivo comma 3 del medesimo art. 23-ter, i Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti possono procedere autonomamente (ossia in forma non aggregata) per acquisiti di importo inferiore a 40.000 euro.
In ambito regionale, il legislatore è intervenuto in materia di centralizzazione della committenza con la legge regionale 12.12.2014, n. 26
[4], entrata in vigore l'01.01.2015, la quale ha disposto l'istituzione della Centrale unica di committenza regionale, che costituisce una delle forme di attuazione delle disposizioni statali sulla razionalizzazione della spesa e sugli obblighi di aggregazione degli acquisti (art. 43).
Il comma 2 dell'art. 53 della LR 26/2014, ha stabilito che 'Ferma restando l'attività programmatoria da espletarsi nel corso del 2015, la Centrale unica di committenza regionale opera a favore degli enti locali a decorrere dall'01.01.2016;' (primo periodo), 'trova frattanto applicazione la disciplina statale in materia di centralizzazione della committenza, con facoltà per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia di avvalersi delle forme associative previste dalla normativa regionale' (secondo periodo).
Il secondo periodo del comma 53 è stato successivamente novellato dall'art. 34 della legge regionale 13.02.2015, n. 1, che lo ha così sostituito: 'nelle more della sua attivazione e della istituzione delle Unioni territoriali intercomunali, gli enti locali, fino al 30.06.2015, continuano a svolgere singolarmente le attività contrattuali con facoltà di avvalersi delle forme associative previste dalla normativa regionale vigente'.
Ne consegue che fino al 30.06.2015 tutti gli enti locali della Regione, a prescindere dalla dimensione demografica e dalla soglia di importo, possono acquistare beni e servizi in forma autonoma, cioè senza obbligo di aggregazione.
Le acquisizioni devono essere effettuate nel rispetto, ovviamente, delle leggi vigenti: per importi inferiori alla soglia di rilievo comunitario rimane fermo, dunque, l'obbligo di acquisto di beni e servizi in via telematica, previsto dall'art. 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, che così recita: 'Dal 01.07.2007, le amministrazioni statali centrali e periferiche (...), per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449
[5] del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità indipendenti, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 [6] (...).'
Il comma 450 fa dunque salve le ulteriori possibilità previste dal comma 449, che consistono nel ricorso alle convenzioni-quadro o all'utilizzo dei rispettivi parametri di prezzo-qualità come limiti massimi
[7].
In conclusione, fino al 30.06.2015, i Comuni non capoluogo possono procedere autonomamente (ossia in forma non aggregata) all'acquisizione di beni e servizi, fermo l'obbligo, ai sensi dell'art. 1, comma 450, della legge 296/2006, di fare ricorso al MEPA o alle convenzioni CONSIP per l'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario (207.000 euro), con la possibilità di rivolgersi al libero mercato, nel rispetto dei parametri di prezzo-qualità fissati dalle convenzioni Consip come limiti massimi per la stipula dei contratti.
Per quanto riguarda la scelta tra le opzioni offerte dall'ANAC in sede di acquisizione di CIG/SmartCig
[8], si ritiene che fino alla predetta data i Comuni non capoluogo possano dichiarare di trovarsi nella situazione di non recepimento della normativa statale da parte della Regione a statuto speciale [9].
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[1] Lo SmartCig consiste in un CIG in modalità semplificata o in un carnet di CIG. Il CIG ottenuto in questa modalità può essere utilizzato per micro-contrattualistica (contratti di lavori di importo inferiore a 40.000, ovvero contratti di servizi e forniture di importo inferiore a 40.000, affidati ai sensi dell'art. 125 del Codice o mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando) e contratti esclusi in tutto o in parte dell'applicazione del Codice.
[2] 'Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale', decreto convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 23.06.2014, n. 89.
[3] 'Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari', decreto convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 11.08.2014, n. 114.
[4] Recante 'Riordino del sistema Regione-Autonomie locali nel Friuli Venezia Giulia. Ordinamento delle Unioni territoriali intercomunali e riallocazione di funzioni amministrative'.
[5] ' Nel rispetto del sistema delle convenzioni di cui agli articoli 26 della legge 23.12.1999, n. 488, e successive modificazioni, e 58 della legge 23.12.2000, n. 388, tutte le amministrazioni statali centrali e periferiche, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le istituzioni educative e le istituzioni universitarie, sono tenute ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni-quadro. Le restanti amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. (...)'
[6] L'art. 328 dispone che, fatti salvi i casi di ricorso obbligatorio al mercato elettronico previsti dalle norme in vigore, ai sensi dell'art. 85, comma 13, del Codice dei contratti, la stazione appaltante può stabilire di procedere all'acquisto di beni e servizi attraverso il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante (laddove presente) ovvero attraverso il mercato elettronico della pubblica amministrazione realizzato dal Ministero dell'economia e delle finanze sulle proprie infrastrutture tecnologiche avvalendosi di Consip S.p.A. (MePA) ovvero attraverso il mercato elettronico realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all'articolo 33 del Codice.
[7] Cfr. Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 64/2014 del 10/11/2014, secondo cui l'interpretazione congiunta dei commi 449 e 450, nel senso che l'obbligo di ricorso al mercato elettronico tiene conto delle facoltà previste dal comma 449 che ricomprendono la possibilità per gli enti locali di rivolgersi al libero mercato con il limite imperativo dello stesso prezzo-qualità/quantità previsto dal sistema delle convenzioni CONSIP, si coordina con il principio generale di economicità dell'azione amministrativa.
[8] In sede di acquisizione del CIG, l'ANAC chiede alla stazione appaltante di dichiarare se:
   1) intende procedere all'acquisizione secondo le modalità indicate dall'art. 9, comma 4, D.L. n. 66/2014, oppure dall'art. 23-ter del D.L. n. 90/2014;
   2) il suo territorio ricade in una regione a statuto speciale o in una provincia che non ha ancora recepito nel proprio ordinamento le disposizioni di cui all'art. 9, comma 4, D.L. n. 66/2014.
[9] Peraltro, in caso di utilizzo degli strumenti elettronici o di acquisti inferiori ai 40.000 euro da parte dei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, le stazioni appaltanti possono dichiarare di procedere ai sensi dell'art. 9, comma 4, DL 66/2014 o dell'art. 23-ter del DL 90/2014
(opzione ANAC n. 1)
(26.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Concessione, in comodato d'uso, di immobili degli enti consorziati a favore del Consorzio.
1) Secondo un orientamento della Corte dei conti, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio di redditività dei beni immobili delle pubbliche amministrazioni, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) Dalle previsioni contenute negli artt. 1803, 1804 e 1808 cod. civ. e dall'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione si evince, in via generale, che le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) gravano sul comodatario, mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettano al comodante.
Si segnala, peraltro, che una Sezione reg.le della Corte dei conti, trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente locale e richiamando, perciò, il principio di redditività dei beni pubblici, afferma la necessità che l'ente sia quantomeno esentato dall'assunzione di qualunque onere di manutenzione.

Il Consorzio, al quale aderiscono tutti i comuni della provincia di riferimento e la stessa amministrazione provinciale, gestisce i servizi e gli interventi a favore delle persone disabili giovani e adulte
[1], operando in diverse sedi, di cui la minima parte (n. 3) sono di proprietà del Consorzio medesimo, mentre le altre sono di proprietà di alcuni dei comuni consorziati (n. 6) ed una dell'amministrazione provinciale.
Attualmente, l'uso, da parte del Consorzio, dei predetti beni comunali e provinciale, avviene sulla base di contratti di locazione o di concessione a titolo oneroso o gratuito, con una spesa di circa 90.000,00 euro annui, 'con le relative ricadute sul bilancio e sulle quote consortili dovute dagli enti consorziati'.
Al fine di pervenire al contenimento della spesa dei servizi, il Consorzio -che ha natura pubblica, gestisce funzioni degli enti consorziati e persegue finalità sociali e non lucrative- chiede di conoscere se, in deroga al principio della fruttuosità dei beni immobili della pubblica amministrazione:
1) risulti ammissibile che, previa regolamentazione dei soggetti proprietari, gli immobili comunali e provinciale possano essere concessi in comodato d'uso al Consorzio;
2) se il Consorzio possa fruire di tale agevolazione, provvedendo a farsi carico delle sole manutenzioni ordinarie.
In via preliminare, occorre segnalare che -come afferma costantemente la giurisprudenza
[2]- ai fini dell'individuazione dello strumento giuridico idoneo ad attribuire in godimento un bene pubblico a soggetti terzi, assume decisiva rilevanza la corretta qualificazione giuridica del bene stesso. Infatti, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la natura disponibile [3] del bene implica il ricorso a contratti di stampo privatistico (locazione, affitto di azienda, comodato) [4].
Ciò posto, appare opportuno ricordare che il principio della fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato dall'art. 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni dall'art. 32, comma 8
[5], della legge 23.12.1994, n. 724, impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le predette disposizioni «sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali -già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici»
[6].
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire che esse «devono mirare all'incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale»
[7].
Più recentemente, la Corte dei conti, dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione 'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)», precisa che «è il legislatore stesso che traccia i confini delle possibili eccezioni ai principi generali appena richiamati»
[8].
Al riguardo, la Corte dei conti rammenta il già citato art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di mercato, «fatti salvi gli scopi sociali»
[9], e l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...] qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il che concerne, anche e primariamente, la scelta del contraente cui concedere il bene in godimento)».
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato
[10]- la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio della redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali
[11].
Pertanto, osserva la Corte, «il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni»
[12].
Una Sezione regionale del Collegio contabile rileva che, all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali, non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente locale
[13].
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo»
[14].
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo»
[15].
Per quanto fin qui esposto, si osserva che la concessione in comodato al Consorzio, da parte degli enti proprietari dei beni in oggetto, risulta subordinata alla rigorosa osservanza delle condizioni richieste dalla Corte dei conti.
Si ritiene, comunque, di dover segnalare che la mancata redditività dei beni che verrebbero concessi in comodato parrebbe tradursi, nella sostanza, in una maggiore partecipazione finanziaria alle spese di funzionamento del Consorzio da parte degli enti comodanti, rispetto alle altre amministrazioni aderenti al Consorzio medesimo.
Quanto alla questione concernente la possibilità che il comodatario provveda a farsi carico degli oneri derivanti dalle sole manutenzioni ordinarie, si segnala quanto segue.
Occorre, anzitutto, rammentare che l'art. 1803, secondo comma, del codice civile, dispone che il comodato «è essenzialmente gratuito».
Ciò posto, l'art. 1804, primo comma, primo periodo, del codice civile, dispone che «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia» ed il successivo art. 1808 prevede che «Il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa» (primo comma) e che «Egli però ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti» (secondo comma).
Sulla scorta di tali previsioni si può, dunque, ritenere -in via generale- che le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) debbano gravare sul comodatario
[16], mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettino, invece, al comodante [17].
La Corte di cassazione precisa che l'art. 1808 del codice civile distingue fra spese sostenute per il godimento della cosa e spese straordinarie, necessarie ed urgenti, affrontate per conservarla, osservando che «al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né sotto il profilo dell'art. 1150 c.c. perché egli non è possessore, né sotto quello dell'art. 936 c.c. perché non è terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né infine sotto quello dell'art. 1595 c.c. in via di richiamo analogico, perché un'indennità per i miglioramenti è negata anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella comodatario»
[18].
Ferme restando, in termini generali, la norma civilistica e l'interpretazione che la Corte di cassazione fornisce della stessa, si segnala una pronuncia della Corte dei conti che, trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente locale e richiamando, perciò, il già citato principio di redditività dei beni pubblici, ne ricava la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque onere di manutenzione, nessuno esclus
[19].
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[1] Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. e), f), g), h) ed i) della L.R. 41/1996.
[2] Cfr. Corte di cassazione -Sez. III, sentenze 19.05.2000, n. 6482, 22.06.2004, n. 11608, 19.12.2005, n. 27931 e Sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Consiglio di Stato- Sez. V, sentenze 16.05.2003, n. 1991 e 06.12.2007, n. 6265; Corte dei conti - Sez. reg.le contr. Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4.
[3] I beni patrimoniali disponibili sono beni che appartengono all'ente pubblico uti privatorum: ciò significa che essi non hanno una destinazione o, comunque, un'utilità pubblica e, quindi, sono assoggettati, in linea di massima, alla disciplina privatistica.
[4] Si segnala, al riguardo, che la Corte dei conti, Sez. reg.le contr. Sardegna, parere n. 4/2008, cit., ritiene che «l'Ente locale non goda di discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti di attribuzione in godimento a soggetti terzi (concessione amministrativa e locazione) del bene e che debba avere quale parametro di riferimento esclusivo la natura (demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale disponibile) del bene ed il regime giuridico cui conseguentemente è sottoposto».
[5] «A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali».
[6] Corte dei conti - Sez. II giurisd. centrale d'appello, sentenza 22.04.2010, n. 149.
[7] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 05.10.2012, n. 716.
[8] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170. Sul punto, cfr., in termini, Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, cit..
[9] Entrambi i pareri citati in nota n. 8 chiariscono che la norma va letta in riferimento a quanto previsto dal comma 3 dello stesso articolo che, disciplinando i beni patrimoniali dello Stato, esclude dall'incremento dei canoni annui una serie di categorie di soggetti, tra cui le associazioni e le fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti.
[10] Secondo la Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672 e 13.06.2011, n. 349 «la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale».
[11] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33, il quale chiarisce che «Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
V. anche Sez. reg.le contr. Puglia, parere 25.07.2008, n. 23 che, con riferimento alla concessione in comodato di beni comunali alla Regione, ai fini del mantenimento in loco di alcuni uffici, osserva che la scelta non può considerarsi pregiudizievole per le finanze del comodante, considerato che: a) la proprietà degli immobili permane in capo al Comune; b) la gestione dei beni viene temporaneamente trasferita da un'amministrazione locale (comune) all'altra (regione); c) sottesa all'operazione nel suo complesso permane la tutela dell'interesse pubblico della comunità locale, avvantaggiata, nella fruizione del servizio erogato dagli uffici regionali, dal mantenimento di essi sul territorio.
Si veda anche Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, cit., secondo cui «l'attribuzione del 'vantaggio economico' al destinatario del comodato si giustifica solo ed esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune».
[12] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, cit..
[13] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010, cit. e n. 349/2011, cit..
[14] V. anche Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013, n. 237.
[15] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010, cit. e n. 349/2011, cit..
[16] Secondo una parte della dottrina (Fragali, Del comodato, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1754-1812, Bologna-Roma, 1966, 309; Luminoso, Comodato, in EG, VII, Roma, 1988, 4), il comodatario non ha mai diritto al rimborso, neanche a titolo di arricchimento, nel caso di spese sostenute per la manutenzione ordinaria, la custodia e la conservazione.
[17] Tant'è che il comodatario ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie, necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa, sostenute in luogo del comodante.
[18] Sez. II civile, sentenza 27.01.2012, n. 1216.
Per quanto appaia una posizione isolata, si segnala che una giurisprudenza di merito (Tribunale Bergamo, sentenza 20.11.2001) afferma che «ai sensi dell'articolo 1808, comma 1, del Codice civile, il comodante non ha l'obbligo di consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all'uso convenuto con il comodatario, spettando a quest'ultimo sostenere tutte le spese necessarie per consentire detto uso, derivino esse da opere di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Pertanto, in un contratto di comodato che conceda il godimento gratuito del bene, la clausola per cui il comodatario assume l'obbligo di sostenere le opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, limitandosi a rispettare il tipo legale, non può mai essere considerata come pattuizione volta ad introdurre un corrispettivo del godimento, ai fini della qualificazione del negozio come locazione anziché come comodato. In presenza di una tale clausola, rimane peraltro salvo, ai sensi del secondo comma, il diritto del comodatario al rimborso delle spese per opere di manutenzione straordinaria e urgenti, ove siano volte a conservare la cosa».
[19] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, cit., in cui si afferma che «risulterà, dunque, davvero difficile ravvisare detta condizione nel caso in cui l'accollo degli oneri gestionali da parte del soggetto destinatario del bene riguardi esclusivamente la manutenzione ordinaria, con esclusione di quella straordinaria».
Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni immobili dello Stato, si vedano gli artt. 10, comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in locazione a canone agevolato per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei princìpi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti [...]»
(04.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

gennaio 2015

PATRIMONIO - URBANISTICA: Sula realizzazione, e relativa cessione al Comune, di opere di urbanizzazione secondaria, realizzate a scomputo degli oneri derivanti dal permesso a costruire nell’attuazione di specifica convenzione con soggetti privati.
Se l’immobile, frutto dell’eventuale realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione, possa essere oggetto di concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo gratuito o in diritto di superficie.

Attualmente
non è più vigente la precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni immobili, contenuta nel successivo comma 1-quater dell’indicato art. 12 del d.l. 98/2011, anch’essa introdotta dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.

Pertanto, dal 2014, è stato introdotto un regime che, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, consente operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità, presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella motivazione del provvedimento adottato dall’Amministrazione, non passibile di valutazione, da parte della Sezione regionale di controllo, in sede di esercizio della funzione consultiva.
Elemento discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina limitativa è dato dalla presenza di un contratto in cui “l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico”.
La formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum”.
La specifica questione posta dal comune trova risposta nella deliberazione della Sezione n. 220/2013/PAR, nella quale,
scrutinando l’eventuale soggezione dell’acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo all’esposta disciplina limitativa, è stato precisato che la realizzazione di tali opere (sia primarie che secondarie) avviene a seguito di un contratto assimilato all’appalto di lavori pubblici (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, e art. 122, comma 8, d.lgs. n. 163/2006). Tanto che al privato titolare del permesso di costruire è imposto di seguire le procedure di evidenza pubblica
(cfr. sentenza della Corte di Giustizia europea, 12.07.2001 C399/1998, "Scala 2001", poi recepita dal legislatore nazionale). Ne deriva che la riferita disciplina legislativa all’acquisto di beni immobili non appare conferente nei limiti in cui concerne un contratto di compravendita, e non di appalto.
E’ vero, infatti, che l’ente locale acquisisce al patrimonio un’opera pubblica, e quindi un bene immobile, ma l’art. 12 del d.l. n. 98/2011 vieta(va) l’acquisto di immobili a titolo oneroso, non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differito nel tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
Anche la disciplina limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet dell’ente)
appare riferita alla fattispecie civilistica della compravendita, non a quella dell’appalto.
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E' possibile richiamare i principi generali che devono presidiare eventuali attribuzioni patrimoniali a terzi, in particolare il conseguimento di finalità conformi alle missioni istituzionali di un ente locale
.
Si è avuto modo di precisare che
se un’eventuale attribuzione (in termini finanziari o di concessione di diritti personali di godimento) è motivata dalla soddisfazione di esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dall’Ente, anche se apparentemente a fondo perduto, non equivale ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che percepisce il contributo.
Si è ricordato, sotto questo profilo, come l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Naturalmente,
se un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti terzi per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, deve adottare specifiche cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, parità di trattamento e non discriminazione, che devono caratterizzare l’attività amministrativa.
Sotto questo profilo, è necessario evidenziare i presupposti di fatto ed il percorso logico alla base dell’attribuzione di un contributo o altro beneficio a sostegno dell’attività svolta dal destinatario. Tale attribuzione, in ogni caso, deve risultare conforme al principio di congruità, mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.

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Il Sindaco del comune di Bottanuco, con nota del 13/11/2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto l’eventuale ricorrenza del divieto di acquisto di immobili nel caso di convenzione urbanistica prevedente, a carico del privato, quale opera di urbanizzazione, la realizzazione di un’opera da destinare a uso pubblico.
Il Comune intende addivenire ad una convenzione urbanistica con un soggetto privato, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, e dell’art. 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12. A scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, intende fare eseguire al soggetto attuatore opere di urbanizzazione secondaria, di importo inferiore alla soglia comunitaria, con le modalità previste dal combinato disposto degli artt. 32, comma 1, lett. g), e 122, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006.
L’Amministrazione riferisce di aver individuato, quale opera di urbanizzazione a carico del privato, la realizzazione, su area di proprietà comunale, di una struttura da concedere ad associazioni locali a titolo gratuito a fronte di prestazioni rivolte a conseguire fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile della comunità locale (quali la manutenzione e gestione di un parco in cui si inserisce la struttura stessa).
L’immobile, in relazione alle sue caratteristiche morfologiche, sarebbe classificato quale opera di urbanizzazione secondaria, secondo la definizione dall’art. 4 della legge n. 847/1964, come integrato dall’art. 44 della legge n. 865/1971, dall’art. 17 della legge n. 67/1988, dall’art. 26 della legge n. 38/1990 e dall’art. 58 del d.lgs. n. 22/1997.
Il sindaco precisa che la questione ha notevole incidenza sul bilancio dell’ente e sulla sua corretta formazione, attenendo ai principi ed ai limiti anche temporali imposti per l'obiettivo del contenimento della spesa pubblica. Pone pertanto i seguenti quesiti:
1) con il primo, articolato in tre istanze, chiede lumi sulla portata dell’art. 1, comma 138, della legge 24.12.2012 n. 228, laddove prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l’indilazionabilità, attestate dal responsabile del procedimento. In particolare chiede se:
   a) devono ritenersi rientranti nella disciplina limitativa ora esposta, la realizzazione, e relativa cessione al Comune, di opere di urbanizzazione secondaria, a scomputo degli oneri urbanistici, realizzate nell’attuazione di specifica convenzione con i soggetti privati;
   b) qualora la realizzazione dell’opera in premessa fosse compatibile con i vigenti dettami normativi, se l’immobile possa essere oggetto di concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo gratuito o in diritto di superficie;
2) con il secondo quesito, chiede se il Comune possa affidare al privato la realizzazione, in nome e per conto dell’amministrazione, dei lavori di cui trattasi.
...
Con il primo quesito il comune chiede lumi sulla portata dell’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228/2012, nella parte in cui prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate l'indispensabilità e l’indilazionabilità, attestate dal responsabile del procedimento.
Il quesito involge la corretta interpretazione del disposto di cui all’art. 12 del d.l. n. 98/2011, convertito con legge n. 111/2011, come novellato dall'art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012. La disposizione in commento è stata varie volte scrutinata dalla Sezione, da ultimo nelle deliberazioni n. 299/2014/PAR e n. 97/2014/PAR, ove è stato appunto chiarito come, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti locali possano effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità previste dal comma 1-ter del citato art. 12 del d.l. n. 98/2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Attualmente, quindi, non è più vigente la precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni immobili, contenuta nel successivo comma 1-quater dell’indicato art. 12 del d.l. 98/2011, anch’essa introdotta dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011 dispone infatti che, “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
Pertanto, dal 2014, è stato introdotto un regime che, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, consente operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità, presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella motivazione del provvedimento adottato dall’Amministrazione, non passibile di valutazione, da parte della Sezione regionale di controllo, in sede di esercizio della funzione consultiva.
In particolare, il Sindaco chiede se devono ritenersi rientranti nella disciplina legislativa limitativa ora esposta, la realizzazione, e relativa cessione al Comune, di opere di urbanizzazione secondaria, realizzate a scomputo degli oneri derivanti dal permesso a costruire nell’attuazione di specifica convenzione con soggetti privati.
Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della disposizione, la Sezione, con la deliberazione n. 164/2013/PAR, ha precisato, in linea generale, che
elemento discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina limitativa è dato dalla presenza di un contratto in cui “l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico”.
In aderenza, la Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto che “
la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” (in tal senso si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/PAR/2013).
La specifica questione posta dal comune di Bottanuco trova risposta nella deliberazione della Sezione n. 220/2013/PAR, nella quale,
scrutinando l’eventuale soggezione dell’acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo all’esposta disciplina limitativa, è stato precisato che la realizzazione di tali opere (sia primarie che secondarie) avviene a seguito di un contratto assimilato all’appalto di lavori pubblici (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, e art. 122, comma 8, d.lgs. n. 163/2006). Tanto che al privato titolare del permesso di costruire è imposto di seguire le procedure di evidenza pubblica (cfr. sentenza della Corte di Giustizia europea, 12.07.2001 C399/1998, "Scala 2001", poi recepita dal legislatore nazionale). Ne deriva che la riferita disciplina legislativa all’acquisto di beni immobili non appare conferente nei limiti in cui concerne un contratto di compravendita, e non di appalto.
E’ vero, infatti, che l’ente locale acquisisce al patrimonio un’opera pubblica, e quindi un bene immobile, ma l’art. 12 del d.l. n. 98/2011 vieta(va) l’acquisto di immobili a titolo oneroso, non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differito nel tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
Anche la disciplina limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet dell’ente) appare riferita alla fattispecie civilistica della compravendita, non a quella dell’appalto.
Nell’ultima parte del quesito, il sindaco chiede se l’immobile, frutto dell’eventuale realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione, possa essere oggetto di concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo gratuito o in diritto di superficie.
Sul punto, come ricordato nella deliberazione n. 92/2014/PAR, la Sezione non può esprimere valutazioni preventive in merito ad una fattispecie concreta riguardante la disciplina dei rapporti, finanziari o patrimoniali, fra l’Ente ed altri soggetti, pubblici o privati. Tale verifica viene infatti effettuata nell’esercizio delle funzioni di controllo sulla gestione finanziaria, demandate dall’art. 148-bis del d.lgs. n. 267/2000 e dall’art. 1, commi 166 e 167, della legge n. 266/2005.
Tuttavia, come di recente affermato nella deliberazione n. 262/2014/PAR,
è possibile richiamare i principi generali che devono presidiare eventuali attribuzioni patrimoniali a terzi, in particolare il conseguimento di finalità conformi alle missioni istituzionali di un ente locale. Si rinvia, in generale, alle deliberazioni della Sezione n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012, n. 218/2014/PAR.
In quelle occasioni si è avuto modo di precisare che
se un’eventuale attribuzione (in termini finanziari o di concessione di diritti personali di godimento) è motivata dalla soddisfazione di esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dall’Ente, anche se apparentemente a fondo perduto, non equivale ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che percepisce il contributo.
Si è ricordato, sotto questo profilo, come l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Naturalmente,
se un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti terzi per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, deve adottare specifiche cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, parità di trattamento e non discriminazione, che devono caratterizzare l’attività amministrativa.
Sotto questo profilo, è necessario evidenziare i presupposti di fatto ed il percorso logico alla base dell’attribuzione di un contributo o altro beneficio a sostegno dell’attività svolta dal destinatario. Tale attribuzione, in ogni caso, deve risultare conforme al principio di congruità, mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale
(Corte dei conti, Sez. controllo Lombardia, parere 26.01.2015 n. 21).

PATRIMONIO: Legge 24.12.2012, n. 228, art. 1, comma 141. Limiti di spesa per l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma 141, della legge 24.12.2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013), dispone che le amministrazioni inserite nel conto economico della pubblica amministrazione debbano rispettare determinati vincoli di spesa nel procedere all'acquisto di mobili ed arredi negli anni 2013 e 2014.
Posto che detta disposizione ha individuato espressamente il periodo di applicazione, nulla prevedendo per gli anni successivi, e che la legge 23.12.2014, n. 190 (Legge di stabilità 2015) non prevede analoghe misure per l'anno in corso, si ritiene che al momento tali vincoli di spesa non sussistano.

Il Comune chiede un parere sull'interpretazione dell'art. 1, comma 141, della legge 24.12.2012, n. 228, relativo alle limitazioni di spesa per l'acquisto di mobili e arredi, a carico delle pubbliche amministrazioni.
Precisa l'Ente che, a seguito dello spostamento in un nuovo archivio comunale di numerosi cartolari attualmente depositati in vari uffici comunali non rispondenti alle normative specifiche di settore (nonché inadeguati alla detenzione di materiale di archivio per il pericolo di umidità e allagamenti), si rende necessaria l'acquisizione di apposite scaffalature. L'Amministrazione comunale, prima di procedere all'individuazione e all'acquisto di tali strutture volte al completamento ed alla messa in funzione dell'archivio, si chiede se esse vadano considerate arredi, e pertanto soggette ai limiti di spesa di cui all'art. 1, comma 141, della L. 228/2012, o se possano essere intese come attrezzature.
La richiamata norma dispone che: 'Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 (...) non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi d'infanzia, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione di spese connesse alla conduzione degli immobili. (...)'.
Sentito il Servizio finanza locale, si osserva innanzitutto che la norma, inserita nella legge di stabilità per il 2013, opera un espresso riferimento alle spese che le amministrazioni pubbliche, nel dettaglio individuate, avrebbero effettuato negli anni 2013 e 2014, nulla prevedendo per quelli successivi. Oltre a questo, si deve considerare che la legge 23.12.2014, n. 190 (Legge di stabilità 2015), pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 29 dicembre, non prevede analoghe misure per l'anno in corso.
Di conseguenza, si ritiene superato il quesito posto dall'Ente instante sull'appartenenza delle scaffalature alla categoria merceologica degli arredi o a quella delle attrezzature, essendo venuto meno il limite di spesa previsto dalla norma già richiamata
(16.01.2015 - link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Non sussiste uno specifico divieto normativo per la concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale (in quanto tali assoggettabili alla disciplina privatistica non avendo una specifica destinazione), ma dovrà trovare applicazione la disciplina generale dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della l. 07.08.1990, n. 241 in quanto tale tipo di concessione costituisce atto di per sé idoneo a determinare un’attribuzione di “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, nonostante sia previsto, come nel caso di specie, l’accollo in capo ad esso degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria.
D’altro canto, in linea generale, sono ammissibili deroghe (come sarebbe per l’ipotesi del comodato ad uso gratuito) alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico secondo criteri privatistici di redditività e di convenienza economica, atteso che gli enti locali, in quanto enti a fini generali, devono comunque curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata, ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene raggiunto mediante lo sfruttamento economico dei beni.
Nondimeno la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata “solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni”, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione.
Inoltre, nel caso di specie, la cooperativa sociale ONLUS –quale ente accreditato istituzionale ai sensi dell’art. 17 della l.r. n. 18/2008- potrebbe arrivare a beneficiare (oltre che del comodato d’uso gratuito) di un secondo vantaggio economico, ossia di contributi da parte della Regione per l'erogazione del servizio specifico; contributi probabilmente quantificati anche in ragione degli oneri derivanti dall'uso dell’immobile, i quali, pertanto, troverebbero una idonea e sufficiente “copertura”.

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Il Sindaco del Comune di Casacalenda ha trasmesso una richiesta di parere nella quale si chiede di conoscere “se sia legittimo e conforme alle regole di contabilità pubblica che un Comune affidi in comodato d’uso gratuito ad una Cooperativa sociale ONLUS un immobile appartenente al patrimonio disponibile del Comune per finalità di interesse pubblico, individuabile segnatamente nella necessità di ospitare presso tale immobile una struttura ad alta intensità terapeutico socio-riabilitativa (CRP), gestita dalla medesima cooperativa in regime di accreditamento istituzionale con il servizio sanitario regionale, addossando ad essa tutti gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria.
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Il quesito oggetto della richiesta di parere del Comune di Casacalenda, che verte sulla richiesta di indicazione della concreta scelta gestionale da effettuarsi da parte dell’Ente nel caso specifico prospettato, oltre a non potersi ritenere afferente ad un quesito generale ed astratto, come sopra chiarito, in materia contabile, è al contrario –evidentemente- rivolto ad ottenere da parte della Corte delle indicazioni specifiche destinate a ripercuotersi sull’attività gestionale concreta, non potendo un eventuale parere non avere implicazioni sulle concrete scelte gestionali che l’Ente si troverà ad operare nell’ambito de quo e che, come tali, sono rimesse all’esclusivo prudente apprezzamento dell’Ente stesso: ne consegue la sua inammissibilità sotto il profilo oggettivo.
Il quesito, infatti, non investe una questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimere una valutazione che attiene ad una attività gestionale dell’Ente. In proposito, si richiama il principio per cui le richieste di parere devono avere rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative opportune cautele e valutazioni che la sana gestione richiede.
Ad ogni modo, la Sezione ritiene opportuno delineare in questa sede i principi generali che, in parte già espressi da questa Corte, potranno essere presi in considerazione dall’ente nell’adozione del provvedimento gestionale oggetto della richiesta di parere.
In particolare
si ricorda che la giurisprudenza contabile ha già avuto modo di precisare che, all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali, non sussiste uno specifico divieto normativo per la concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale. E ciò in quanto i beni patrimoniali disponibili, appartenendo all’Ente pubblico uti privatorum, non hanno una specifica destinazione o, comunque, un’utilità pubblica e vengono pertanto assoggettati, in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia, occorre altresì considerare che
la concessione in uso gratuito di un bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un ente locale, costituisce atto di per sé idoneo a determinare un’attribuzione di “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, nonostante sia previsto, come nel caso di specie, l’accollo in capo ad esso degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Dovrà, pertanto, trovare applicazione la disciplina generale dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della l. 07.08.1990, n. 241, che, sotto la rubrica “Provvedimenti attributivi di vantaggi economici”, stabilisce che “la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi” e che “l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1”.
In secondo luogo, occorre altresì considerare che
l’indirizzo politico legislativo degli ultimi anni riconosce alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico una valorizzazione ordinariamente finalizzata all'utilizzo dei beni secondo criteri privatistici di redditività e di convenienza economica, il che finisce per rappresentare una delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.), del quale l’economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, legge n. 241/1990 e ss.ii.mm.).
Tuttavia,
considerando che gli enti locali non devono perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato esclusivamente economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, in quanto enti a fini generali, devono comunque curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata, in linea generale sono ammesse deroghe (come sarebbe per l’ipotesi del comodato ad uso gratuito), ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene raggiunto mediante lo sfruttamento economico dei beni.
L’ente locale pertanto, oltre a dover rispettare le proprie norme regolamentari e i principi generali dettati dalla l. n. 241/1990, è tenuto non solo ad indicare “le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo
(Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 672/2010/PAR).
In particolare, “
la concessione in comodato di beni di proprietà dell’ente locale è da ritenersi ammissibile nei casi in cui sia perseguito un effettivo interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello meramente economico ovvero nei casi in cui non sia rinvenibile alcun scopo di lucro nell’attività concretamente svolta dal soggetto utilizzatore di tali beni” (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 172/2014/PAR).
A tal ultimo riguardo, si evidenzia inoltre che la Sezione regionale di controllo per il Veneto (deliberazione n. 716/2012/PAR, in linea di continuità con quanto già affermato dalla Sezione Lombardia - cfr., in particolare, deliberazione n. 349/2011/PAR e precedenti ivi richiamati) ha precisato che
la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata “solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni. A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione. […] La Sezione precisa, inoltre, che, oltre all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale.
Inoltre, con specifico riferimento al caso de quo, occorre precisare che
la particolare qualità di ente accreditato istituzionale, rivestita dalla cooperativa sociale ONLUS possibile destinataria dell’atto gestionale, deve portare l’ente, ove ricorra al comodato d’uso gratuito, a porre particolare attenzione al fine di evitare l’eventuale concretizzarsi di una indebita duplicazione di vantaggi in favore della beneficiaria stessa. Invero, l'accreditamento istituzionale della cooperativa, ai sensi dell’art. 17 della l.r. n. 18/2008, sull’intero immobile per una struttura ad alta intensità terapeutico socio-riabilitativa, del quale il Comune istante fa espressa menzione nella richiesta di parere, potrebbe comportare in favore di essa l’assegnazione di contributi da parte della Regione per l'erogazione del servizio specifico; contributi probabilmente quantificati anche in ragione degli oneri derivanti dall'uso dell’immobile, i quali, pertanto, troverebbero una idonea e sufficiente “copertura”.
Ebbene,
nell’adozione dell’atto prospettato occorrerà considerare che una tale eventualità potrebbe concretamente determinare il configurarsi di forme di indebito arricchimento in favore della cooperativa, la quale verrebbe a percepire la detta contribuzione e, al contempo, in virtù del comodato d’uso gratuito, disporrebbe già dell’intero immobile in assenza di proprie controprestazioni onerose (non potendo valere a tal fine l’accollo della manutenzione ordinaria e straordinaria).
In conclusione,
la possibilità per l’ente locale di stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito avente ad oggetto un bene immobile facente parte del proprio patrimonio disponibile rappresenta una scelta che, non essendo sindacabile dalla Sezione che non può ingerirsi nelle concrete scelte amministrative dell’Amministrazione, risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente. Ad ogni modo, il Comune, oltre a dover considerare le possibili conseguenze di un tale atto gestionale, nei provvedimenti in concreto adottati dovrà dare conto, con una chiara ed esaustiva motivazione, delle finalità di interesse pubblico, unitamente alla compatibilità finanziaria dell’intera operazione posta in essere (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise, parere 15.01.2015 n. 1).

PATRIMONIO: Comuni, affitti meno pesanti. Retroattivo il taglio del 15% dei canoni di locazione. La Corte dei conti dell'Emilia-Romagna ha risposto a un quesito di un ente locale.
La riduzione ex lege nella misura del 15% dei canoni di locazione corrisposti dagli enti locali per gli immobili ad uso istituzionale si applica anche ai vecchi contratti stipulati prima dell'entrata in vigore dell'obbligo.

Lo ha chiarito la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l'Emilia-Romagna, con il parere 14.01.2015 n. 1.
Dal 01.07.2014, anche gli enti locali (come le altre p.a.) sono soggetti all'obbligo di ridurre del 15% i canoni di locazione passiva dovuti in base a contratti in essere.
L'art. 24, al comma 4, del dl 66/2014 infatti, ha modificato l'art. 3 del dl 95/2012, il quale, a sua volta, al comma 3 dispone, appunto, ai fini del contenimento della spesa pubblica, la riduzione automatica del 15% rispetto alla misura attualmente corrisposta dei canoni relativi ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale.
Prima dell'entrata in vigore del dl 66, tale misura era prevista con decorrenza dal 01.01.2015. Essa, inoltre, si applicava alle sole amministrazioni centrali. La novella, però, ha anticipato la scadenza al 01.07.2014 e soprattutto ha esteso l'obbligo a tutte le amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001, includendo, quindi, anche gli enti locali.
La norma sancisce che la riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'art. 1339 codice civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti. Pertanto, si tratta di un automatismo, a differenza di quanto accade per la riduzione del 5% di fornitura, che rappresenta una mera facoltà per gli enti.
Tale automaticità, secondo i giudici contabili, implica anche la retroattività degli effetti, che si riverberano anche sui vecchi contratti. È comunque fatto salvo il diritto di recesso del locatore.
La misura ridotta del canone, ovviamente, va prevista anche nei contatti di nuova stipulazione o oggetto di rinnovo (articolo ItaliaOggi del 17.01.2015).

dicembre 2014

PATRIMONIO: L’obbligo gravante sulle amministrazioni statali di avvalersi, per le proprie esigenze istituzionali, prioritariamente, di immobili di proprietà pubblica; l’assenza di oneri a carico del Comune (che rimane proprietario dell’immobile) e la presenza di un interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul territorio di una caserma della Guardia di Finanza, induce la Sezione a ritenere legittima la stipulazione di un contratto di comodato gratuito (articoli 1803 e seguenti del Codice civile), a tempo determinato, per l’allocazione di una caserma della Guardia di Finanza in un immobile appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al quale competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di ordine pubblico e sicurezza.

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Con la nota indicata, il Sindaco del Comune di Bitonto chiede di conoscere il parere di questa Sezione sulla possibilità di concedere a titolo gratuito alla Guardia di Finanza, con contratto di comodato e per un periodo di tempo determinato, una porzione di immobile appartenente al patrimonio del Comune per l’allocazione della relativa caserma.
L’ente ha specificato che tale porzione di immobile (il resto dell’immobile è adibito a sede del Corpo di Polizia municipale e ad Archivio comunale) è attualmente utilizzata dalla Guardia di Finanza in virtù di un contratto di locazione, stipulato nel 2003 per anni 6, tacitamente rinnovato ai sensi dell’art. 28 della legge n. 392/1978 (la scadenza è quindi prevista nel 2015), con canone annuo pari ad euro 13.999,92.
Il Comune ha evidenziato nella richiesta di parere che l’Amministrazione finanziaria ha posto come condizione per il mantenimento del suddetto presidio la stipulazione di un contratto di comodato, con eliminazione di ogni costo a titolo di canone locativo e che il mantenimento della caserma nel territorio comunale è di fondamentale importanza in relazione ai fenomeni di criminalità esistenti nel territorio stesso.
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La questione posta dal Comune di Bitonto, in estrema sintesi, riguarda la possibilità di concedere gratuitamente alla Guardia di Finanza, a tempo determinato, previa stipulazione di un contratto di comodato gratuito, una parte di un immobile appartenente al patrimonio dell’ente per la allocazione della relativa caserma. Come già indicato in occasione della verifica della ammissibilità oggettiva del quesito proposto, considerato che la Corte dei conti non può esprimersi, neanche in via preventiva, su specifiche fattispecie, la questione sottoposta sarà affrontata solo in termini generali.
Questa Sezione esprimerà, quindi, il proprio avviso in merito al quesito proposto limitatamente ai principi e alle regole che l’ente potrà considerare, nell’esercizio della propria discrezionalità, per assumere le determinazioni di competenza.
Ciò premesso, occorre delineare, almeno brevemente, la disciplina vigente in materia di gestione del patrimonio immobiliare del Comune, con particolare riferimento alle modalità di utilizzazione del patrimonio e alla possibilità e alle modalità di utilizzazione dello stesso patrimonio per l’allocazione di presidi territoriali delle forze dell’ordine (es. Guardia di Finanza, Carabinieri, ecc.).
La gestione del patrimonio immobiliare pubblico è stata oggetto negli ultimi anni di numerosi interventi legislativi. Tali interventi sono stati tutti finalizzati a promuovere procedimenti di dismissione o valorizzazione. Analoga attenzione è stata riservata dal legislatore, sempre negli ultimi anni, al diverso tema della riduzione dei contratti di locazione passiva o almeno dei relativi canoni a carico di amministrazioni pubbliche.
In proposito, si evidenzia che, recentemente (Sez. contr. Lombardia parere 12.11.2014 n. 285),
è stato chiarito che la riduzione dei canoni, corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili ad uso istituzionale, imposta dall’art. 3, co. 4, del D.L. n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali (es. Comuni) proprietari.
Sul tema della gestione del patrimonio immobiliare e dei contratti di locazione attiva e passiva stipulati da amministrazioni pubbliche, la Corte dei conti, in numerose occasioni, tra l’altro, ha specificato che
la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata dalla assenza di scopo di lucro della attività svolta dal soggetto destinatario di tali beni (Sez. contr. Veneto
parere 05.10.2012 n. 716; Sez. contr. Lombardia parere 13.06.2011 n. 349 e parere 06.05.2014 n. 172).
Questa Sezione in passato (parere 25.07.2008 n. 23), proprio al Comune odierno richiedente, ha avuto modo di specificare che
la concessione in comodato di beni appartenenti al patrimonio disponibile del Comune ad altra amministrazione pubblica, per l’allocazione di uffici destinati alla erogazione diretta di servizi a favore della comunità insediata nel territorio, non è pregiudizievole per le finanze dell’ente, sia perché la proprietà del bene rimane all’ente, sia perché l’operazione è finalizzata alla tutela dell’interesse pubblico della comunità locale alla fruizione di un servizio, avvantaggiata dal mantenimento sul territorio degli uffici relativi.
Ancora prima,
in relazione alla questione della legittimità di costituire, a titolo gratuito, un diritto di superficie su un terreno comunale per la realizzazione di una caserma della Guardia di Finanza, questa Sezione (parere 11.10.2006 n. 3) aveva espresso un orientamento favorevole, sia per l’assenza di depauperamento del patrimonio comunale (anche dopo la costituzione di un diritto di superficie, il suolo rimane di proprietà comunale), sia per il preminente interesse pubblico ravvisabile nella sicurezza dei cittadini.
Non costituisce ostacolo ad analoga conclusione nel caso di specie l’orientamento espresso, ai sensi dell’art. 6, co. 4, del D.L. 174/2012, dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 09.06.2014 n. 16.
La Sezione delle Autonomie, con tale deliberazione, con riferimento alla diversa ipotesi di un contributo, a carico del bilancio comunale, per il pagamento ad un privato del canone di locazione della sede della stazione dell’Arma dei Carabinieri, pur considerando quanto disposto dall’art. 39 della legge n. 3/2003 e dall’art. 1, co. 439, della legge n. 296/2006, ha espresso l’avviso che
tale pagamento non è legittimo in quanto la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza risulta intestata (art. 117, co. 2, lett. h), Cost.), in via esclusiva, allo Stato al quale spettano i relativi oneri finanziari.
Tra le motivazioni che hanno indotto la Sezione delle Autonomie a pervenire a tale conclusione
vi è l’obbligo per le amministrazioni statali, in base al combinato disposto di cui all’art. 2, co. 222, della legge 296/2006 e ai decreti legge n. 98/2011 e n. 201/2011, prima di reperire sul mercato immobili di proprietà privata, di accertare mediante l’Agenzia del Demanio l’esistenza di immobili di proprietà dello Stato (ma anche degli enti locali), idonei all’utilizzo richiesto.
Tutto ciò premesso,
l’obbligo gravante sulle amministrazioni statali di avvalersi, per le proprie esigenze istituzionali, prioritariamente, di immobili di proprietà pubblica; l’assenza di oneri a carico del Comune (che rimane proprietario dell’immobile) e la presenza di un interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul territorio di una caserma della Guardia di Finanza, induce la Sezione a ritenere legittima la stipulazione di un contratto di comodato gratuito (articoli 1803 e seguenti del Codice civile), a tempo determinato, per l’allocazione di una caserma della Guardia di Finanza in un immobile appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al quale, come evidenziato dalla Sezione delle Autonomie nella citata
deliberazione 09.06.2014 n. 16, competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di ordine pubblico e sicurezza (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 15.12.2014 n. 216).

PATRIMONIO: Impianti sportivi - Affidamento in gestione ad associazioni e società sportive dilettantistiche - Possibilità di elargizione di contributi pubblici - Condizioni e vincoli - Necessità di concessione dei beni pubblici ad adeguate condizioni di remuneratività - Sussiste - Enti locali - Divieto di sponsorizzazioni - Concessione del patrocinio con partecipazione alle spese in favore di associazione sportiva - Potrebbe configurare fattispecie di sponsorizzazione.
Il divieto di erogazione di contributi ricomprende l'attività prestata dai soggetti di diritto privato menzionati dalla norma in favore dell'Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece, esclusa dal divieto di legge l'attività svolta in favore dei cittadini, id est della "comunità amministrata", seppur quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali dell'ente locale e dunque nell'interesse di quest'ultimo.
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La disposizione utilizza il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico, risultando chiaro dal contesto normativo che è vietata qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il nome o caratteristica del comune ovvero eventi di interesse per la collettività locale.
Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio. Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno assumere deve risultare nell’impianto motivazionale il fine pubblico perseguito e la rispondenza delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale.
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Ad essere vietati sarebbero in generale gli accordi di patrocinio comportanti spese; ciò che la norma tende ad evitare sarebbe dunque proprio la concessione del patrocinio -che preveda oneri, da parte delle amministrazioni pubbliche- ad iniziative organizzate da soggetti terzi, ad esempio la sponsorizzazione di una squadra di calcio.
Resterebbero invece consentite, salvi naturalmente ulteriori specifici divieti di legge, le iniziative organizzate dalle amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia indirettamente, purché per il tramite di soggetti istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di valorizzazione del territorio.
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Qualora sussistano specifiche caratteristiche, la concessione di un contributo elargito ad una associazione sportiva potrebbe rientrare nel concetto di sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non adeguatamente remunerative.

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Il Comune di Grottammare, con nota a firma del suo Sindaco, ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una richiesta di parere in ordine alla possibilità di erogare contributi annui, per gli oneri di gestione, a sostegno dell'attività sportiva giovanile, a società sportive dilettantistiche, affidatarie della gestione di impianti sportivi di proprietà comunale, ai sensi dell'articolo 90, comma 25, della legge 27.12.2002, n. 289, a seguito di stipula di convenzione che garantisce l'utilizzo della struttura in funzione delle esigenze della collettività locale, per tutta la durata della convenzione stessa, precisando che l'attività svolta ha come destinataria immediata la collettività locale e non l'Amministrazione.
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La richiesta di parere investe la corretta interpretazione dell'articolo 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135, e alla stessa deve intendersi limitato.
L'art. 4, comma 6, del DL 95/2012 prevede che: "… Gli enti di diritto privato …, che forniscono servizi a favore dell'amministrazione stessa, anche a titolo gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche”, escludendo tuttavia dal divieto, tra le altre, “… le associazioni sportive dilettantistiche di cui all'articolo 90 della legge 27.12.2002, n. 289".
L’art. 90, comma 25, d.l. 95/2012, prevede che “nei casi in cui l'ente pubblico territoriale non intenda gestire direttamente gli impianti sportivi, la gestione è affidata in via preferenziale a società e associazioni sportive dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline sportive associate e Federazioni sportive nazionali, sulla base di convenzioni che ne stabiliscono i criteri d'uso e previa determinazione di criteri generali e obiettivi per l'individuazione dei soggetti affidatari. Le regioni disciplinano, con propria legge, le modalità di affidamento.”
La Regione Marche ha peraltro disciplinato la materia con L.R. 5/2012, regolamentando negli artt. 18 e ss. le modalità di affidamento.
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia con parere n. 89/2013/PAR in merito all'interpretazione della norma oggetto di interpretazione ha osservato che “
il predetto divieto di erogazione di contributi ricomprende l'attività prestata dai soggetti di diritto privato menzionati dalla norma in favore dell'Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece, esclusa dal divieto di legge l'attività svolta in favore dei cittadini, id est della "comunità amministrata", seppur quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali dell'ente locale e dunque nell'interesse di quest'ultimo".
Questa Sezione ritiene di condividere l’orientamento della Sezione Lombardia non sussistendo valide ragioni, del resto non evidenziate neanche dallo stesse Ente, per discostarsene.
Dal tenore letterale non si rinvengono quindi, in astratto, preclusioni della disposizione in esame all’erogazione di contributi pubblici; ciò non esclude, evidentemente, la necessità del rispetto di ulteriori vincoli derivanti dalla Legislazione vigente, anche regionale, e dei regolamenti comunali.
A titolo meramente esemplificativo, con riferimento all’art. 6, comma 9, del decreto legge n. 78/2010 ed al relativo divieto di spese di sponsorizzazione la Corte dei Conti, Sez. reg. controllo, Lombardia, con
parere 10.01.2011 n. 6, ha statuito che “La disposizione citata utilizza il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico, risultando chiaro dal contesto normativo che è vietata qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il nome o caratteristica del comune ovvero eventi di interesse per la collettività locale. Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio. Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno assumere deve risultare nell’impianto motivazionale il fine pubblico perseguito e la rispondenza delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale (cfr. in ogni caso parere 23.12.2010 n. 1075)”.
Sulla stessa linea interpretativa si pone Corte dei Conti sez. reg. controllo, Puglia, deliberazione n. 163/2010, la quale ha affermato che: “
Ad essere vietati sarebbero in generale gli accordi di patrocinio comportanti spese; ciò che la norma tende ad evitare sarebbe dunque proprio la concessione del patrocinio -che preveda oneri, da parte delle amministrazioni pubbliche- ad iniziative organizzate da soggetti terzi, ad esempio la sponsorizzazione di una squadra di calcio; resterebbero invece consentite, salvi naturalmente ulteriori specifici divieti di legge, le iniziative organizzate dalle amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia indirettamente, purché per il tramite di soggetti istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di valorizzazione del territorio”.
Pertanto,
qualora sussistano specifiche caratteristiche, la concessione di un contributo elargito ad una associazione sportiva potrebbe rientrare nel concetto di sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non adeguatamente remunerative
(tra le altre, cfr. Sez. giur. Toscana, 96/2014) (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 04.12.2014 n. 133).

PATRIMONIO: Passaggio di consegne, danni condivisi.
In tema di rendicontazione dei beni mobili della p.a., qualora si accerti un passaggio di funzioni tra un soggetto consegnatario uscente e uno entrante, l'eventuale responsabilità amministrativo-contabile dovuta a perdite o a danneggiamenti dei predetti beni si intende ascrivibile a entrambi se vi sia incertezza nel periodo in cui il danno sia prodotto e, quindi, non sia possibile stabilire a quale gestione contabile risalga il danno. Incertezze che, tuttavia, possono essere superate attraverso la presentazione in giudizio di idonei mezzi di prova che sollevino il contabile dall'aver attuato una condotta dolosa o negligente.

La II Sez. d'appello della Corte dei Conti, con la sentenza 01.12.2014 n. 710, chiarisce i limiti entro cui può esercitarsi la responsabilità contabile verso i soggetti che svolgono la funzione di consegnatari di beni mobili all'interno della p.a.
Il caso ha riguardato l'ammanco e il deterioramento di beni conseguente al passaggio di consegne tra due presidi di un istituto scolastico (si veda ItaliaOggi del 13/5/2008). Entrambi condannati in primo grado perché, secondo il collegio, non era stato possibile risalire a quando il danno si fosse concretizzato, ovvero a chi dei due fosse ascrivibile la negligenza per aver permesso l'ammanco e il deterioramento dei beni scolastici.
Nella sentenza d'appello, pertanto, viene riaffermato questo punto fondamentale. Ovvero, che se mancano fonti di prova, la responsabilità viene ascritta a entrambi i consegnatari. Pertanto, come è poi avvenuto nel giudizio di appello, se uno dei soggetti già condannati (nel caso, il consegnatario subentrante) produce documenti che attestino la sua immediata conoscenza degli ammanchi e del deterioramento dei beni, allo stesso non può essere addebitata alcuna colpa sulla vicenda.
Il collegio, pertanto, nel riaffermare la colpa del consegnatario uscente per la perdita dei beni, ha comunque esercitato il potere riduttivo dell'addebito nei suoi confronti, avendo rilevato che la sua condotta non è stata dolosa ma si è concretizzata in una omissione di vigilanza (articolo ItaliaOggi del 21.01.2015).

novembre 2014

PATRIMONIOAllo stato attuale, la riduzione dei canoni corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili a uso istituzionale, imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di una contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso.
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Con la note sopra citate, il sindaco del comune di Broni (PV), richiede un parere sulla corretta interpretazione dell’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2005, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2005, n. 35 concernente la riduzione del canone dei contratti di locazione di immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali.
Si premette, a tal fine, che la Prefettura di Pavia, con distinte comunicazioni del 6 e del 27.08.2014 ha informato il comune di Broni che i canoni dei contratti di locazione delle caserme dei Vigili e del fuoco e dei Carabinieri, immobili di proprietà comunale, devono essere ridotti nella misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto in applicazione della disposizione di legge sopra richiamata.
Si riferisce al riguardo che la riduzione del canone di locazione comporterebbe una conseguente diminuzione delle entrate previste dal bilancio comunale, contraddicendo la ratio della cosiddetta spending review, che non sembrerebbe contemplare la riduzione della spesa pubblica a danno di un'altra articolazione della pubblica amministrazione.
Cita, in tal senso, il Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri del 05.07.2012, ad oggetto: "Disposizioni urgenti per la riduzione della spesa pubblica", che, al punto D, in materia di razionalizzazione del patrimonio pubblico e riduzione dei costi per le locazioni passive, opera una netta distinzione fra gli immobili di proprietà di enti locali (per i quali, peraltro, deve esistere una condizione di reciprocità) e gli immobili, invece di proprietà di terzi, per i quali, e solo in quest'ultima ipotesi, sembrerebbe trovare applicazione la riduzione del canone in misura pari al 15 per cento.
...
L’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 35 dispone che “
ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto”.
La decorrenza del termine per la riduzione della misura del canone, originariamente fissata al 01.01.2015, è stata anticipata al 01.07.2014 per effetto delle modifica apportata dall’art. 24 del decreto legge 26.04.2014, n. 66, convertito dalla legge 23.06.2014, n. 89.
Lo stesso art. 3, comma 4, stabilisce quindi che “
la riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore”.
Ne risulta sancita una riduzione ex lege degli importi dovuti dalle amministrazioni pubbliche centrali per canoni di locazione di immobili adibiti ad uso istituzionale, che si inserisce nel più ampio contesto di una serie di misure dirette al contenimento dei costi per locazioni passive a carico dei bilanci pubblici, previste dall’art. 3 del decreto legge n. 95/2012 ai successivi commi 5 e 6.
Il comma 7, nel testo riscritto dal citato decreto legge n. 66/2014, stabilisce poi che “
le previsioni cui ai commi da 4 a 6 si applicano altresì alle altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto compatibili” con una conseguente estensione dell’ambito di applicazione soggettiva delle predette misure.
L’interpretazione letterale della disposizione sopra richiamata che impone la riduzione dei canoni, riferendosi genericamente ai contratti di locazione passiva stipulati dalle amministrazioni centrali, senza fornire ulteriori precisazioni, porta ad affermare che la riduzione in parola debba essere disposta anche nell’ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato.
Si deve ritenere, infatti, che se la legge avesse voluto escludere queste ultime dall’applicazione della disposizione in esame lo avrebbe fatto in modo espresso, non diversamente da quanto stabilito dall’art. 1, comma 478, della legge 23.12.2005, n. 266 che, dettato dalle medesime esigenze di contenimento della spesa pubblica per locazioni passive, circoscriveva la riduzione del canone ai soli “contratti di locazione stipulati dalle amministrazioni dello Stato per proprie esigenze allocative con proprietari privati” .
Né tale supposta esclusione a favore del locatore pubblico risulta ricavabile in via interpretativa dai principi generali che regolano l’attività delle amministrazioni pubbliche.
Com’è noto le amministrazione pubbliche possono agire anche nelle forme del diritto privato e concludere contratti che, per quanto non diversamente disposto dalla legge, sono soggetti alla disciplina dettata dal codice civile e della legislazione privatistica.
La legge statale, come si è fatto cenno, è più volte intervenuta a regolare la materia delle locazioni della P.A., introducendo a favore del conduttore pubblico, come nel caso in esame, una serie di eccezioni alla disciplina codicistica, giustificate essenzialmente dall’esigenza di contenimento della spesa pubblica.
Analoghe eccezioni non sono viceversa ravvisabili a favore del locatore pubblico, per il quale, in particolare, non è dato rintracciare, nel vigente quadro normativo, una disposizione che lo escluda dalla riduzione richiesta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012.
Ne consegue, pertanto, che quest’ultimo disposto, a prescindere da ogni giudizio di legittimità costituzionale che non compete a questa Sezione in sede consultiva, debba trovare applicazione generalizzata nei confronti di tutti i locatori, quale che sia la natura pubblica o privata di questi.
Per la medesima ragione,
il locatore pubblico, che subisce la riduzione del canone, può esercitare il diritto di recesso dal contratto come espressamente consentito dalla stessa disposizione di legge.
Alla luce delle predette considerazioni si deve quindi concludere che,
allo stato attuale, la riduzione dei canoni corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili a uso istituzionale, imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di una contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.11.2014 n. 285).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 11.11.2014 n. 262, suppl. ord. n. 85/L, "Testo del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, coordinato con la legge di conversione 11.11.2014, n. 164, recante: «Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive»".
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 2 (Semplificazioni procedurali per le infrastrutture strategiche affidate in concessione)
Art. 4 (Misure di semplificazione per le opere incompiute segnalate dagli Enti locali e misure finanziarie a favore degli Enti territoriali)
Art. 6 (Agevolazioni per la realizzazione di reti di comunicazione elettronica a banda ultralarga e norme di semplificazione per le procedure di scavo e di posa aerea dei cavi, nonché per la realizzazione delle reti di comunicazioni elettroniche)
Art. 6-ter (Disposizioni per l’infrastrutturazione degli edifici con impianti di comunicazione elettronica)
Art. 7 (Norme in materia di gestione di risorse idriche. Modifiche urgenti al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, per il superamento delle procedure di infrazione 2014/2059, 2004/2034 e 2009/2034, sentenze C-565-0 del 19.07.2012 e C-85-13 del 10.04.2014; norme di accelerazione degli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico e per l’adeguamento dei sistemi di collettamento, fognatura e depurazione degli agglomerati urbani; finanziamento di opere urgenti di sistemazione idraulica dei corsi d’acqua nelle aree metropolitane interessate da fenomeni di esondazione e alluvione)
Art. 8 (Disciplina semplificata del deposito preliminare alla raccolta e della cessazione della qualifica di rifiuto delle terre e rocce da scavo che non soddisfano i requisiti per la qualifica di sottoprodotto. Disciplina della gestione delle terre e rocce da scavo con presenza di materiali di riporto e delle procedure di bonifica di aree con presenza di materiali di riporto)
Art. 9 (Interventi di estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa in sicurezza degli edifici scolastici e dell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica - AFAM)
Art. 13 (Misure a favore dei project bond)
Art. 14 (Disposizioni in materia di standard tecnici)
Art. 16-bis (Disciplina degli accessi su strade affidate alla gestione della società ANAS Spa)
Art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia)
Art. 17-bis (Regolamento unico edilizio)
Art. 21 (Misure per l’incentivazione degli investimenti in abitazioni in locazione)
Art. 22 (Conto termico)
Art. 22-bis (Interventi sulle tariffe incentivanti dell’elettricità prodotta da impianti fotovoltaici)
Art. 24 (Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio)
Art. 25 (Misure urgenti di semplificazione amministrativa e di accelerazione delle procedure in materia di patrimonio culturale)
Art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli immobili demaniali inutilizzati)
Art. 31 (Misure per la riqualificazione degli esercizi alberghieri)
Art. 34 (Modifiche al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, per la semplificazione delle procedure in materia di bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati. Misure urgenti per la realizzazione di opere lineari realizzate nel corso di attività di messa in sicurezza e di bonifica)
Art. 35 (Misure urgenti per la realizzazione su scala nazionale di un sistema adeguato e integrato di gestione dei rifiuti urbani e per conseguire gli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio. Misure urgenti per la gestione e per la tracciabilità dei rifiuti nonché per il recupero dei beni in polietilene)
Art. 38 (Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali)
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Per una migliore comprensione della ratio sottesa ai vari articoli si leggano anche:
● Camera dei Deputati, dossier 27.10.2014
● Senato della Repubblica, dossier ottobre 2014
● Senato della Repubblica, dossier novembre 2014

ENTI LOCALI - PATRIMONIO: Utilizzo veicoli comunali a guida di amministratori o privati cittadini per attività istituzionali dell'amministrazione. Copertura assicurativa.
Gli amministratori comunali possono essere autorizzati alla guida di autoveicoli di proprietà dell'Ente in occasione di attività istituzionali.
La modalità legittima attraverso cui privati cittadini possono essere posti alla guida di veicoli comunali, per le suddette finalità, passa attraverso l'adesione di detti cittadini alle organizzazioni di volontariato.
In entrambe le ipotesi, presupposto necessario è che i veicoli comunali siano coperti da assicurazione RCA non limitata a determinate categorie di conducenti.

Il Comune pone la questione della guida di veicoli di proprietà comunale, in occasione di attività istituzionali dell'Ente, da parte di amministratori comunali o singoli cittadini volontari. In particolare, il Comune chiede se sia sufficiente una copertura assicurativa RCA (polizza guida libera) o se debba stipulare apposita convenzione con le organizzazioni di volontariato, che preveda la copertura assicurativa dei soggetti che prestano attività di volontariato, o se, in alternativa, possa stipulare in proprio la copertura assicurativa dei soggetti che prestano attività di volontariato contro gli infortuni e le malattie connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.
In via preliminare, si ritiene di evidenziare l'opportunità che l'Ente si doti di un regolamento per l'uso degli automezzi comunali, in cui disciplini la gestione e l'uso dei veicoli di sua proprietà, compreso l'aspetto relativo ai soggetti che -previa, ovviamente, autorizzazione dell'Ente- possono guidare i mezzi e quello inerente alla copertura assicurativa.
Ciò premesso, la questione posta dall'Ente, relativa specificamente all'aspetto assicurativo, va esaminata distintamente a seconda che alla guida degli automezzi comunali siano posti amministratori o cittadini privati.
Posto che l'Ente specifica che l'uso dei veicoli comunali avviene per finalità istituzionali, il caso in cui alla guida di detti automezzi, per tali finalità, siano posti amministratori si ritiene possa essere assimilato a quello della guida a mezzo dei dipendenti comunali. In entrambi i casi si tratta, infatti, di attività di guida strumentale all'esercizio delle funzioni proprie dell'Ente. Al riguardo, si ritiene che l'Ente possa stipulare una polizza assicurativa RC auto, anche per il caso di utilizzo dei veicoli da parte degli amministratori.
Per quanto concerne, invece, il caso in cui alla guida degli automezzi comunali vengano posti cittadini privati (non dipendenti dell'Ente), si ritiene che la fattispecie debba essere inquadrata nell'ambito della disciplina relativa all'attività di volontariato.
La normativa vigente non contempla, infatti, la possibilità che il singolo cittadino svolga attività in favore della pubblica amministrazione se non attraverso l'adesione ad organizzazioni di volontariato, con le modalità di cui appresso
[1].
La disciplina del volontariato è contenuta nella L. n. 266/1991
[2], che considera attività di volontariato quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro ed esclusivamente per fini di solidarietà (art. 2).
In ambito regionale, la L.R. n. 23/2012
[3] prevede la possibilità per le organizzazioni di volontariato, in possesso dei requisiti previsti, di stipulare convenzioni con gli enti pubblici, tra cui gli enti locali, per lo svolgimento di attività a vantaggio della collettività, indicando nel dettaglio i criteri di priorità nella scelta delle organizzazioni medesime, nonché il contenuto obbligatorio della convenzione (art. 14).
In particolare, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4 e 7, comma 3, L. n. 266/1991, elemento essenziale della convenzione è la copertura assicurativa dei soggetti che prestano attività di volontariato contro gli infortuni e le malattie connesse con lo svolgimento dell'attività, nonché per la responsabilità civile verso i terzi. Gli oneri relativi a dette coperture sono a carico dell'ente che usufruisce dell'attività.
Del pari in ambito regionale, l'art. 14, L. R. n. 23/2012, richiamato, prevede che le convenzioni regolino le coperture assicurative di cui all'art. 4 della L. n. 266/1991.
Pertanto, in relazione alla circostanza che, in occasione di attività istituzionali dell'Ente (quali incontri, gemellaggi, attività sociali e culturali), mezzi comunali siano guidati da cittadini privati, si ritiene che il Comune debba attivarsi in base alla normativa vigente in materia, che non contempla la possibilità per l'ente locale di stipulare rapporti diretti con il singolo cittadino, ma solo con le organizzazioni di volontariato iscritte nel registro di cui all'art. 5, L.R. n. 23/2012, previa stipula della convenzione di cui al successivo art. 14.
Ciò significa che la modalità legittima attraverso cui cittadini privati possono essere posti alla guida di veicoli comunali, per finalità istituzionali dell'ente, passa attraverso l'adesione di detti cittadini alle organizzazioni di volontariato.
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[1] Si segnala, peraltro, che ciò nonostante alcune amministrazioni comunali della nostra regione hanno previsto, con proprio regolamento, l'istituzione di un proprio albo di volontari e l'organizzazione dell'apporto fornito dagli stessi all'interno dell'ente. Tali enti provvedono, tra l'altro, alle coperture assicurative dei volontari e alla fornitura di tutti i mezzi e le attrezzature necessari allo svolgimento del servizio.
[2] Legge 11.08.1991, n. 266, recante: 'Legge-quadro sul volontariato'.
[3] Legge regionale 09.11.2012, n. 23, recante: 'Disciplina organica sul volontariato e sulle associazioni di promozione sociale'
(03.11.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

ottobre 2014

PATRIMONIOIl taglio dei canoni d'affitto si applica anche agli enti.
La riduzione del 15% sui canoni di locazione degli immobili adibiti ad uffici pubblici, prevista dall'articolo 3, comma 4 del dl n. 95/2012, non opera soltanto nell'ipotesi in cui il proprietario sia un privato, ma anche quando a possedere l'immobile è un ente territoriale. Infatti, allo stato attuale, nelle previsioni normative vigenti non si rinviene alcuna deroga che comporti l'esclusione dei predetti gli enti dall'applicazione della riduzione dei fitti passivi.

Sì è così espressa la sezione regionale di controllo della Corte dei conti Lombardia, nel testo del parere 27.10.2014 n. 273, con cui ha fornito un interessante chiarimento alle disposizioni contenute all'articolo 3 del dl n. 95/2012, come modificate dall'articolo 24 del dl n. 66/2014.
Norma che prevede che dallo scorso 1° luglio, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale, stipulati da amministrazioni centrali, i relativi canoni devono essere ridotti del quindici per cento di quanto sino ad allora corrisposto.
Su questo punto, il sindaco del comune di Broni (Pv) ha richiesto l'intervento consultivo della Corte lombarda per sapere se le disposizioni sopra richiamate avessero efficacia anche nei confronti degli enti territoriali, in veste di soggetti proprietari di detti immobili. Il dubbio del sindaco del comune pavese, infatti, si fonda sul fatto che un'eventuale riduzione del canone di locazione comporterebbe minori entrate in bilancio comunale e questo sarebbe «in contrasto» con la ratio della spending review che «non sembrerebbe contemplare la riduzione della spesa pubblica a danno di un'altra articolazione della pubblica amministrazione».
Secondo la Corte lombarda la norma si applica anche alle altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001. Vi è di più. La Corte aggiunge nel parere che, quando il legislatore ha voluto escludere il comparto degli enti territoriali dall'applicazione di norme sui tagli alle locazioni passive, lo ha espressamente fatto.
Quindi, posto che la norma si riferisce in generale ai contratti di locazione passiva stipulati dalle p.a. centrali «senza fornire ulteriori precisazioni», è pacifico che i tagli devono essere disposti anche nelle ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, proprietarie dell'immobile locato. Queste ultime, subendo la riduzione del canone, possono tuttavia esercitare il diritto di recesso dal contratto
(articolo ItaliaOggi del 15.11.2014).

PATRIMONIO: Insidie stradali: Se il pedone scivola su un 'cubetto instabile' non segnalato il Comune deve risarcire il danno.
Una vera e propria tiratina d’orecchie arriva dalla Cassazione, nei confronti del giudice d’appello, in tema di responsabilità della P.A. ex art. 2051 c.c.
Chiamata a pronunciarsi in una vicenda riguardante un sinistro stradale, occorso ad un pedone, il quale scivolando su un cubetto instabile della pavimentazione della strada, non visibile e non segnalato, riportava lesioni personali alla caviglia sinistra, la Corte di Cassazione - Sez. IV civile (sentenza 23.10.2014 n. 22528) ha colto l’occasione per richiamare la Corte d’Appello di Napoli, per l’errato “ragionamento giuridico compiuto”, sulla base di una “giurisprudenza ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e del trabocchetto” (vedi: la raccolta di articoli e sentenze in tema di insidie stradali).
Accolta in primo grado, infatti, la richiesta di risarcimento danni avanzata dal pedone veniva rigettata in secondo grado, dal giudice territoriale che dava ragione al Comune di Guardia Sanframondi.
Per la Cassazione, invece, rispetto alla fattispecie, il caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui all’art. 2051 c.c.
Pertanto, ricordando la sequenza consolidata di decisioni in materia (tra cui Cass. n. 9546/2010) -basata su una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della P.A. in relazione alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni– la Cassazione ha affermato che “la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell'art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato”.
Presunzione che può essere superata solo dalla prova del caso fortuito che, ha sottolineato la Cassazione, non sussiste nel caso di specie, giacché il danneggiato è caduto “in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”.
Così disponendo, pertanto, la S.C. ha cassato con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione con il vincolo di attenersi ai principi di diritto enunciati (commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
La presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato.
La presunzione in tali circostanze resta superata dalla prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo (nel caso di specie un pedone scivola su un cubetto instabile della pavimentazione stradale non visibile, né segnalato, determinando la caduta lesioni personali alla caviglia sinistra)
(tratta da http://renatodisa.com).

settembre 2014

PATRIMONIONelle norme di contabilità non si rinviene alcuna disposizione che impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost..
L’attribuzione patrimoniale è consentita solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata sul territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito, poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione nonché la finalità che con l’atto medesimo intende soddisfare.

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Il Sindaco del Comune di Giovinazzo chiede alla Sezione un parere in merito alla possibilità per un Comune di cedere in diritto di superficie un immobile, appartenente al patrimonio disponibile, in favore di un altro ente pubblico (ASL), senza corrispettivo in denaro e a tempo determinato, a fronte dell’impegno da parte del cessionario di realizzare, avvalendosi della possibilità di accedere a finanziamenti pubblici a destinazione vincolata, interventi di completamento, ristrutturazione e funzionalizzazione del bene concesso, da destinare a sede di pubblici servizi rivolti alla collettività locale.
Il Sindaco precisa, inoltre, che alla scadenza del termine previsto nell’atto di costituzione del diritto reale (da determinare in base al piano di ammortamento dell’investimento ed al valore del bene concesso), il Comune riacquisterebbe la piena proprietà dell’immobile
...
Passando al merito della richiesta, si tratta di valutare se sia ammissibile un trasferimento -a titolo gratuito e a tempo determinato -della proprietà superficiaria di un immobile, rientrante nel patrimonio disponibile comunale, a favore di altro ente pubblico, a fronte dell’impegno di tale ente di realizzare interventi sull’immobile medesimo che dovrà essere destinato allo svolgimento di pubblici servizi rivolti alla collettività locale.
Sul punto questa Corte si è già pronunciata più volte (cfr. Sezione regionale per il controllo Lombardia, deliberazione n. 262/PAR/2012 e Sezione regionale per il controllo Piemonte, deliberazione n. 36/PAR/2014, quest’ultima avente per oggetto l’attribuzione ad un soggetto terzo di un diritto di superficie, a titolo gratuito o dietro corrispettivo simbolico), rilevando come
nelle norme di contabilità non si rinviene alcuna disposizione che impedisca al Comune di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che, in base all’ordinamento, deve perseguire, tanto più in relazione alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost..
In altre parole,
l’attribuzione patrimoniale, anche a titolo gratuito, è consentita solo se risulta strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, in quanto “se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Sezione regionale Lombardia deliberazione n. 262/PAR/2012).
In tale prospettiva,
rilievo fondamentale assume la relazione da mezzo a fine che deve esistere fra l’attribuzione patrimoniale ed i fini istituzionale dell’ente, mentre è indifferente sia il titolo-gratuito o oneroso- dell’attribuzione medesima sia la natura-pubblica o privata- del ricevente. Ed, infatti, “la natura pubblica o privata del soggetto che riceve attribuzione patrimoniale è indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata (cfr. Sezione regionale Lombardia deliberazione n. 262 cit.).
Siffatti principi sono stati ribaditi anche da questa Sezione con deliberazione n. 113 del 28.05.2014, ove
si è confermata l’ammissibilità di “attribuzione gratuita a terzi (anche soggetti privati) di beni pubblici se tale attribuzione era finalizzata al soddisfacimento di un adeguato interesse per la collettività insediata sul territorio”, precisando, tuttavia, che “negli atti di trasferimento sarà necessario evidenziare adeguatamente le motivazioni e le finalità pubblicistiche perseguite”.
In conclusione, questa Sezione ribadisce il principio generale per cui
l’attribuzione patrimoniale è consentita solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata sul territorio. Nel caso di attribuzione a titolo gratuito, poiché non emerge con immediatezza il collegamento tra l’atto traslativo (o comunque attributivo del diritto) ed i fini istituzionali dell’ente, sarà onere del cedente evidenziare le ragioni sottese all’atto di disposizione nonché la finalità che con l’atto medesimo intende soddisfare (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 25.09.2014 n. 165).

luglio 2014

PATRIMONIO - ENTI LOCALI: Chiarimenti sulla disciplina del riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
Il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento.
Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura
(procedura ex art. 194 TUEL).
La funzione di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
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Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché le passività pregresse si pongono all’interno di una regolare procedura di spesa, esulano dalla fenomenologia del debito fuori bilancio e costituiscono, invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento procedimentale di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
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Quando nell’anno di competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta evidente che il debito in questione, è, per competenza finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme necessarie nella programmazione finanziaria di propria competenza per il periodo interessato.

Resta invece salva la facoltà di un riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di responsabilità connessi a esborsi illegittimi.
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Il sindaco del comune in epigrafe richiede chiarimenti sulla disciplina del riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
In particolare, espone che il comune, con atto consiliare, ha approvato una convenzione per la cessione in proprietà di un suolo da sistemare ad area verde e parcheggi; successivamente la suddetta convenzione è stata sottoscritta dalle parti.
Nella succitata convenzione era previsto l’impegno del comune a versare ai proprietari la somma dell’area la somma di euro 40.000, a seguito del collaudo finale delle opere.
Successivamente, i proprietari hanno eseguito le opere, come da convenzione, e hanno comunicato l’intendimento di cederle al comune previo pagamento del corrispettivo; tuttavia è stato accertato che all’epoca nessuno stanziamento era stato predisposto.
Il comune chiede quindi se possa procedere legittimamente al riconoscimento del debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del T.U. n. 267/2000 e procedere al pagamento di quanto convenuto.
...
La Sezione ha già avuto modo in diverse occasioni di occuparsi della tematica dei debiti fuori bilancio (da ultimo
parere 22.07.2013 n. 339; e parere 05.02.2014 n. 41) con considerazioni da cui non sussiste motivo per discostarsi.
Si deve ricordare che,
il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento. Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura (procedura ex art. 194 TUEL). La funzione di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
Al fine di evitare l’insorgere di situazioni debitorie non assistite dai relativi impegni, il legislatore ha previsto che solo in alcuni casi tassativi tali debiti possano essere riconosciuti, attraverso il procedimento di riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio; ciò è infatti possibile solo qualora tali debiti derivino da: “a) sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l’obbligo di pareggio del bilancio di cui all’articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione; c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali; d) procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza” (art. 194, comma 1, lett. a)-e), Tuel)”.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare impegno (amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi dell’art. 191 TUEL). Proprio perché le passività pregresse si pongono all’interno di una regolare procedura di spesa, esulano dalla fenomenologia del debito fuori bilancio (cfr., in proposito, la recente deliberazione di questa Sezione in merito al caso delle prestazioni professionali, n. 441/2012/PAR) e costituiscono, invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio di loro manifestazione.
In tali casi, lo strumento procedimentale di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
Tanto premesso circa la funzione e l’effetto della procedura di riconoscimento e alla distinzione della fenomenologia delle passività pregresse e dei debiti fuori bilancio, per rispondere al quesito qui posto è opportuno rammentare i criteri attraverso cui, in contabilità finanziaria, i debiti assumono rilevanza e vanno imputati ai bilanci degli enti pubblici.
In base al principio dell’annualità, i documenti di bilancio devono rappresentare, a cadenza annuale, fatti che finanziariamente si riferiscano ad un periodo di gestione coincidente con l’esercizio finanziario, in modo che siano rese evidenti tutte le poste di entrata e di spesa che afferiscono in termini sostanziali al corso dell’anno di riferimento. Solo così il bilancio potrà servire correttamente alla sua funzionalità di controllo, sia in chiave autorizzatoria (bilancio di previsione) che ispettiva (rendiconto).
Si deve rammentare, infatti, che in contabilità finanziaria, un debito rileva nella misura in cui esso è certo, liquido e esigibile. Detto in altri termini, è assai frequente che vi sia un disallineamento tra esistenza giuridica e rilevanza contabile di un debito. Un debito, infatti, assume rilevanza contabile solo se sono venute a maturazione tutte le condizioni per il suo adempimento pecuniario, in particolare se il debito è “certo” (non contestato nell’an e/o nel quantum), liquidato o di pronta liquidazione (cioè è stato determinato nel suo ammontare) ed è esigibile (scadenza del termine). Solo la concorrenza di queste condizioni radica la “competenza finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile attivare dell’ordinaria procedura di spesa (adozione del provvedimento amministrativo; assunzione dell’impegno di spesa; presenza e attestazione della copertura finanziaria; cfr. l’art. 191 T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti autorizzati. Tale procedura di spesa consente non solo di dare rilevanza nel bilancio al debito, ma costituisce il titolo per l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica di una posta passiva, della manifestazione finanziaria (competenza finanziaria) e quello della competenza economica tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa” (cioè l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in quanto liquidabile ed esigibile) ma di “costo” (debito, anche di valore e non solo di valuta, sostenuto per l’acquisto dei fattori produttivi che hanno sostenuto il ciclo annuale di produzione). Detto in altri termini, a livello contabile, un debito può avere una competenza annuale (economica) disallineata rispetto alla sua manifestazione finanziaria (competenza finanziaria), che può essere anteriore o successiva.
Tanto premesso,
quando nell’anno di competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi eccezionali ivi tipicamente indicati.
Nel caso di specie, invece, risulta evidente che il debito in questione, è, per competenza finanziaria, riferibile solo all’anno delle liquidazione degli importi.
Anche in considerazione del dato che detta posta non rientra tra i casi tassativamente elencati di riconoscimento fuori bilancio, quindi, nel caso di specie, non paiono sussistere i requisiti per il ricorso a tale procedura, atteso che il comune ben poteva, e potrà, procedere a stanziare le somme necessarie nella programmazione finanziaria di propria competenza per il periodo interessato.

Resta invece salva la facoltà di un riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dal comune a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di responsabilità connessi a esborsi illegittimi (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.07.2014 n. 212).

PATRIMONIO: Il Comune non può legittimamente contribuire al pagamento del canone di locazione di un immobile, di proprietà privata, destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del canone di locazione.
Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale.
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Il Sindaco del Comune di Russi ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003, una richiesta di parere avente ad oggetto la possibilità di contribuire legittimamente al pagamento del canone di locazione di un immobile, di proprietà privata, destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Il Sindaco di Russi ha spiegato che l’edificio che ospitava la Stazione dei Carabinieri è stato dichiarato parzialmente inagibile e che l’Arma, attualmente, per poter svolgere l’attività di presidio, in attesa di una soluzione adeguata, sta fruendo di un ufficio nella sede municipale, concesso gratuitamente dal Comune con delibera di giunta. Per completezza è stato evidenziato che non vi sono immobili di proprietà del comune adatti allo scopo ed è stato manifestato il timore che l’Arma possa non essere in grado di sostenere l’onere di locazione dell’edificio che sarà in futuro individuato.
Questa Sezione, considerata la natura generale della problematica, che imponeva un’interpretazione e un’applicazione unitaria della stessa, tenuto conto della circostanza che alcune sezioni regionali di controllo si erano già espresse prospettando una soluzione alla quale non riteneva di potersi conformare, rimetteva al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie, ovvero alle Sezioni riunite, la questione di massima in ordine alla possibilità, per gli enti locali, in base al quadro normativo vigente, di contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme. L’alternativa era di ritenere detta spesa legittimamente imputabile al bilancio comunale soltanto in presenza di uno specifico accordo, finalizzato ad incrementare effettivamente la sicurezza pubblica.
La pronuncia di questa Sezione sulla richiesta di parere era conseguentemente sospesa e ne veniva data comunicazione ai Sindaco richiedente. Successivamente, il Presidente della Corte dei conti rimetteva la questione alla Sezione delle autonomie, che si è espressa con deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG, del 27.05.2014.
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La Costituzione italiana, all’articolo 117, comma 2, lett. h), include, tra le materie di legislazione statale esclusiva, “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”. Il successivo articolo 118, al comma 3, aggiunge che “la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117 (…)”. Anche la potestà regolamentare in materia spetta conseguentemente allo Stato, poiché l’art. 117, comma 6, stabilisce che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni”.
In merito alla funzione amministrativa concernente ordine pubblico e sicurezza, occorre ricordare che, a seguito della riforma costituzionale del 2001, è venuto meno il parallelismo tra poteri legislativi e amministrativi; pertanto, il legislatore statale non incontra ostacoli di natura costituzionale nell’attribuire, in materia, funzioni agli enti locali, come ha previsto, per esempio, in favore del sindaco, reso garante della sicurezza urbana, mediante l’art. 6 del d.l. 23.05.2008, n. 92, rubricato “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.07.2008, n. 125.
Nell’ambito di un progressivo coinvolgimento degli enti locali in materia di ordine e sicurezza pubblica, il legislatore statale ha disciplinato la possibilità di stipulare convenzioni tra il Ministero dell’interno e gli enti territoriali, allo scopo di incrementare i servizi di pubblica sicurezza. L’art. 39 della legge 16.01.2003, n. 3 (“Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione”), rubricato “Convenzioni in materia di sicurezza”, ha stabilito che “
Nell’ambito delle direttive impartite dal Ministero dell’interno per il potenziamento dell’attività di prevenzione, il Dipartimento della pubblica sicurezza può stipulare convenzioni con soggetti pubblici e privati dirette a fornire, con la contribuzione degli stessi soggetti, servizi specialistici, finalizzati ad incrementare la sicurezza pubblica. La contribuzione può consistere nella fornitura dei mezzi, attrezzature, locali, nella corresponsione dei costi aggiuntivi sostenuti dal Ministero dell’interno, nella corresponsione al personale impiegato di indennità (…)”.
Similmente, l’art. 1, comma 439, della legge 27.12.2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)”, ha stabilito che “per la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la sicurezza dei cittadini, il Ministro dell’Interno e, per sua delega, i prefetti, possono stipulare convenzioni con regioni e gli enti locali che prevedano la contribuzione logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni e degli enti locali”.
Il fondamento di tali previsioni, ovviamente, non è da rinvenire nell’art. 118, comma 3, della Costituzione, il quale introduce la possibilità di concordare forme di coordinamento tra Stato e Regioni nelle materie de quibus, bensì più semplicemente nella generale possibilità che ha il legislatore di disciplinare la materia.
Pertanto, nell’ordinario gli oneri finanziari per la locazione di locali in favore delle Forze di Polizia statali sono da considerare a carico dello Stato, al quale è intestata in via esclusiva la materia dell’“ordine pubblico e sicurezza”; tuttavia il quadro normativo facoltizza il Ministero dell’interno a stipulare convenzioni con gli enti territoriali dirette a fornire, con la contribuzione di questi ultimi, servizi specialistici finalizzati ad incrementare la sicurezza pubblica.
Il fine di raggiungere un più efficace controllo del territorio rispetto a quello ordinariamente assicurato (la norma fa riferimento, infatti, a “servizi specialistici”), quindi, giustifica il sacrificio straordinario che comuni e province possono decidere di sostenere contribuendo alla funzione in argomento, allo scopo di rafforzarla sul proprio territorio, anche mediante fornitura di locali. In mancanza di un accordo, infatti, avente lo scopo di conseguire una maggiore sicurezza, non può che operare il principio generale in forza del quale le risorse assegnate agli enti territoriali sono destinate a finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
Sulla problematica de qua, si sono espresse diverse sezioni di queste Corte.
La Sezione di controllo della Regione Friuli–Venezia Giulia, con deliberazione 16.12.2004, n. 25, ha ritenuto legittima la riduzione del canone di un contratto di locazione inerente l’uso, come caserma dei Carabinieri, di un immobile di proprietà comunale, contratto già concluso, ma non ancora approvato dal Ministero dell’interno. Alla base della richiesta di riduzione, avanzata dal locale Prefetto, si poneva la circolare emanata dal Ministero dell’interno – Dip. della pubblica sicurezza, 12.05.2004, n. 600, la quale invitava, appunto, i prefetti a proporre agli enti pubblici titolari degli immobili destinati a caserme una riduzione del canone, in ragione dell’interesse delle comunità locali a garantire la funzionalità dei servizi di polizia, nella prospettiva di una sicurezza partecipata, nella quale gli enti locali dovrebbero assumere un ruolo rilevante, anche nell’assicurare la presenza di presidi delle forze dell’ordine sul territorio.
La Sezione di controllo per il Friuli-Venezia Giulia ha giudicato legittima la riduzione del canone, valorizzando il disposto di cui all’art. 39 della legge 3/2003, il quale, secondo quanto affermato dalla citata sezione “sottende l’esistenza di un interesse pubblico alla condivisione delle esigenze di ordine pubblico, intestate non solo all’amministrazione statale (Ministero dell’interno), ma partecipate anche dalle singole amministrazioni locali”. Ha concluso il collegio evidenziando che il comune istante “proprio per favorire la presenza sul territorio comunale della caserma dei carabinieri, può quindi ben rinunciare a parte del canone locatizio”.
La questione in argomento è stata in seguito oggetto di analisi da parte della Sezione di controllo per la Regione Sardegna, la quale si è pronunciata con deliberazione 28.01.2010, n. 3. La richiesta di parere riguardava la possibilità, per il comune istante, di sostenere i costi di locazione di un immobile da reperire sul mercato e da destinare a caserma dell’Arma dei Carabinieri.
La richiamata sezione, nel rispondere, ha innanzitutto evidenziato che l’art. 118, comma 3, della Costituzione prevede forme di coordinamento tra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza; inoltre, ha richiamato le disposizioni mediante le quali, nel tempo, sono state disciplinate modalità di collaborazione tra l’amministrazione statale e quelle territoriali per rafforzare la sicurezza locale. In particolare, sono state ricordate le già menzionate previsioni di cui all’art. 39 della legge 3/2003 e art. 1, comma 439, legge 296/2006, nonché i piani coordinati di controllo del territorio aventi ad oggetto una stretta collaborazione tra Polizia municipale e provinciale e organi della Polizia di stato ed, infine, il “patto per la sicurezza” siglato tra il Ministero dell’interno e l’A.N.C.I. il 20.03.2007.
Sulla base del delineato quadro normativo, la Sezione di controllo per la Sardegna ha concluso che le esigenze di tutela dell’ordine pubblico si inseriscono nel quadro dei rapporti e delle valutazioni da assumersi in sede interistituzionale, secondo le procedure previste dalla legge. In tale contesto concertativo, potrebbero assumersi le deliberazioni dello Stato e degli enti territoriali, incidenti sulle rispettive dotazioni finanziarie, in relazione ad eventuali forme di contribuzione alla spesa necessarie per le esigenze di salvaguardia della sicurezza pubblica.
La Sezione regionale di controllo per la Campania, con deliberazione 13.03.2012, n. 66, esprimendosi in merito alla possibilità per un comune di contribuire al pagamento dell’affitto per i locali in uso alla caserma dei Carabinieri, pur dichiarando l’inammissibilità oggettiva della questione, ha citato, mostrando di condividerla, la soluzione prospettata dalla Sezione di controllo per la Sardegna con la richiamata deliberazione 3/2010.
Diversa la posizione prospettata dalla Sezione regionale di controllo per la Calabria, mediante deliberazione 28.04.2009, n. 289. La richiesta di parere aveva ad oggetto la legittimità della spesa, a carico del bilancio comunale, per la costruzione di un immobile da destinare a caserma dei Carabinieri. Detto collegio, pur dichiarando la questione inammissibile, ha svolto alcune considerazioni. Innanzitutto ha rimarcato come la possibilità di partecipazione alla gestione della pubblica sicurezza, da parte delle regioni e degli enti locali, sia prevista nell’ambito di appositi programmi straordinari di incremento dei servizi specialistici di polizia, alla cui realizzazione i soggetti pubblici in questione possono partecipare contribuendovi, e come detta partecipazione, in ogni caso, debba essere disciplinata attraverso specifiche convenzioni appositamente stipulate tra gli enti locali interessati ed il Ministro dell’interno (o, per sua delega, il Prefetto).
Pertanto, essendo disciplinato un articolato contesto di cooperazione interistituzionale nel campo dei servizi specialistici di polizia, che appariva carente nella concreta vicenda segnalata, si è ritenuto che l’operazione prospettata non fosse realizzabile.
Alla luce di quanto evidenziato, emergeva un contrasto tra l’interpretazione che dell’art. 39, legge 3/2003, dell’art. 1, comma 439, legge 296/2006, e più in generale dell’intero quadro normativo in materia, hanno dato le Sezioni di controllo Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Campania e la lettura, ad avviso di questo collegio preferibile, fornita dalla Sezione di controllo per la Calabria. Il conflitto interpretativo riguardava l’ambito di estensione della facoltà che hanno gli enti territoriali di contribuire al pagamento del canone di locazione di un immobile, destinato ad ospitare una caserma di una Forza di Polizia statale.
Tale possibilità era stata riconosciuta da diverse sezioni regionali di controllo in misura abbastanza ampia, sulla base dell’interesse alla condivisione delle esigenze di ordine e sicurezza pubblica; al contrario, questa Sezione riteneva dovesse essere limitata ai casi in cui si miri, mediante specifica convenzione, a perseguire un incremento della sicurezza pubblica. Solo a seguito della stipulazione di una specifica convenzione, avente lo scopo di incrementare la sicurezza, infatti, sembra potersi giustificare un impegno finanziario degli enti locali, i quali non dovrebbero, al contrario, essere chiamati a contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme, poste ad esclusivo carico dello Stato.
Il contrasto interpretativo induceva questa Sezione a rimettere la questione di massima al Presidente della Corte dei conti allo scopo di stabilire se gli enti locali possano contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme, o se tale possibilità sia loro consentita solo in presenza di uno specifico accordo finalizzato ad incrementare effettivamente la sicurezza pubblica.
La Sezione delle autonomie, con deliberazione 09.06.2014 n. 16 (disponibile sul sito web della Corte al quale si rinvia) ha risolto la questione di massima, rendendo una pronuncia di orientamento che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 174/2012, costituisce esercizio di funzione nomofilattica e, pertanto, vincola le sezioni regionali di controllo. In particolare, mostrando di condividere l’orientamento espresso da questa Sezione, ha evidenziato quanto segue: “(…) la Costituzione, pur attribuendo allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce, nella nuova formulazione dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con legge statale, forme di coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del potenziamento della sicurezza a livello locale.
Al riguardo, deve osservarsi che una specifica base normativa e soprattutto finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, che autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti locali per realizzare programmi straordinari, tesi ad un potenziamento dei presidi di sicurezza sul territorio, accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie messe a disposizione dagli enti che aderiscono.
(…) La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a valutare le necessità della collettività amministrata in termini di priorità e di compatibilità finanziarie e gestionali e, sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare le eventuali concertazioni interistituzionali, volte all’adozione di specifici protocolli d’intesa che individuino obiettivi e risorse.
Peraltro, ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia l
a Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del canone di locazione. Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale” (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 07.07.2014 n. 173).

PATRIMONIO: La sdemanializzazione di un bene pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da altri atti o comportamenti univoci da parte dell’amministrazione proprietaria i quali siano concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare la destinazione del bene stesso all’uso pubblico, oppure da circostanze tali da rendere non configurabile un'ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della funzione pubblica del bene.
Ne consegue che la sdemanializzazione non si può desumere dal mero fatto che il bene non sia più adibito, per un certo tempo a detto uso.

In ogni caso il Collegio ritiene che nel caso in esame debba essere richiamato l’orientamento secondo cui la sdemanializzazione di un bene pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da altri atti o comportamenti univoci da parte dell’amministrazione proprietaria i quali siano concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare la destinazione del bene stesso all’uso pubblico, oppure da circostanze tali da rendere non configurabile un'ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della funzione pubblica del bene. Ne consegue che la sdemanializzazione non si può desumere dal mero fatto che il bene non sia più adibito, per un certo tempo a detto uso (in tal senso: Cons. Stato, IV, 14.12.2002, n. 6923) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.07.2014 n. 3408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2014

PATRIMONIO: Questione di massima concerne la possibilità che il Comune imputi legittimamente a carico del bilancio comunale la contribuzione al pagamento del canone di locazione per un immobile di proprietà privata destinato ad essere adibito a caserma dell’Arma dei Carabinieri.
Ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione volte al pagamento del canone di locazione.
Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve  presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente ben oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale.

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La questione all’esame concerne la possibilità che il comune imputi legittimamente a carico del bilancio comunale la contribuzione al pagamento del canone di locazione per un immobile di proprietà privata destinato ad essere adibito a caserma dell’Arma dei Carabinieri.
In particolare, la Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in merito alla questione di massima concernente la corretta interpretazione delle disposizioni recate dall’art. 1, comma 439, della legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007) ove si prevede espressamente che “per la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la sicurezza dei cittadini, il Ministro dell’Interno e per sua delega i Prefetti, possono stipulare convenzioni con le regioni e gli enti locali, che prevedano la contribuzione logistica, strumentale e finanziaria delle stesse regioni e degli enti locali.”
1. In primo luogo, occorre valutare la pregiudiziale relativa all’ammissibilità, sotto il profilo oggettivo, della questione posta all’odierno esame dalla Sezione remittente.
Al riguardo, le Sezioni regionali di controllo chiamate ad esprimersi su questioni analoghe hanno assunto posizioni contrastanti. In particolare, le Sezioni per la Campania e la Calabria, come brevemente riassunto nella parte in fatto, hanno ritenuto il quesito inammissibile, in quanto riferito ad uno specifico atto gestionale e perciò carente del requisito della generalità.
Di converso, le Sezioni di controllo per le Regioni Friuli Venezia Giulia e Sardegna hanno valutato il quesito ammissibile anche sotto il profilo oggettivo, in quanto inerente a scelte amministrative dell’ente non ancora poste in essere e riguardanti la disciplina da applicarsi alla gestione del patrimonio del Comune, pertanto riconducibili nell’alveo della materia di contabilità pubblica.
La Sezione delle autonomie ritiene che il quesito posto, diretto a conoscere la legittimità dell’erogazione a carico del bilancio comunale, involge una tematica connessa alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro degli specifici obiettivi di contenimento della spesa pubblica, sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica, contenuti nelle leggi finanziarie (ora leggi di stabilità), possa essere considerato ammissibile anche sotto il profilo oggettivo. Infatti, oggetto del quesito in esame è stabilire se gli oneri da sostenere per il pagamento del canone di locazione possano essere legittimamente imputati al bilancio del comune. Ciò postula un’attività di interpretazione di norme che regolano la gestione finanziaria e che sovraintendono al coordinamento della finanza pubblica, nonché alla salvaguardia degli equilibri di bilancio.
In particolare, la questione oggetto di parere può essere ricondotta nell’ambito della “materia di contabilità pubblica” nell’accezione dinamica di cui alla deliberazione delle Sezioni Riunite n. 54/2010, da ultimo ripresa dalla delibera n. 3/SEZAUT/2014, ove la Corte ha affermato che materie, nel loro nucleo originario estranee alla contabilità pubblica, possono essere ricondotte in tale ambito, in una visione dinamica del concetto, che sposti l’ottica dalla gestione strettamente intesa agli equilibri di bilancio ed alla funzione di coordinamento della finanza pubblica.
Atteso, poi, che nella fattispecie sottoposta all’attenzione della Sezione delle autonomie non rilevano atti di gestione adottati o adottandi, il quesito in esame consente alla Corte di esprimere il proprio avviso in merito limitatamente al richiamo di principi e regole che l’ente potrà tenere nella dovuta considerazione nell’esercizio della propria discrezionalità, per assumere le determinazioni di competenza, salvaguardando tanto l’autonomia gestionale dell’ente richiedente quanto la posizione di terzietà ed indipendenza rivestita dalla Corte dei Conti nell’esercizio della funzione consultiva.
2. Per quanto riguarda il merito, occorre inizialmente considerare che la competenza in materia di accasermamento per l’assolvimento da parte dell’Arma dei Carabinieri, dei compiti di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza spetta al Ministero dell’Interno .
E’ anche da considerare che la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza risulta, in forza di quanto disposto dall’art. 117, comma 2, lett. h), della Costituzione, chiaramente intestata, in via esclusiva, allo Stato e che, quindi, i relativi oneri finanziari ricadono direttamente sul bilancio statale e specificatamente sullo stato di previsione della spesa del predetto Ministero.
3. Dall’attuale assetto delle competenze istituzionali nonché dall’articolazione costituzionale della finanza pubblica deriva, come corollario, il principio di autonomia finanziaria di entrata e di spesa riconosciuta in capo agli enti locali, che, avvalendosi delle proprie risorse finanziarie e patrimoniali provvedono all’espletamento delle funzioni e dei compiti istituzionalmente intestatigli. Pertanto, gli oneri finanziari collegati al pagamento del canone di locazione di un immobile di proprietà privata adibito a caserma, coerentemente con il quadro delle competenze istituzionali e con il citato principio di autonomia finanziaria, ricadono, come già precisato, sul bilancio dello Stato.
Tuttavia, deve considerarsi che il testo novellato dell’art. 118 della Costituzione prevede che la legge statale possa disciplinare forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza.
Inoltre, l’art. 14 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL) prevede la possibilità che la legge affidi ai Comuni eventuali ulteriori funzioni amministrative per servizi di competenza statale, assicurando, al contempo, le risorse necessarie e regolando i relativi rapporti finanziari.
Al riguardo, occorre rammentare che diverse sono le forme di collaborazione fra amministrazioni centrali e locali previste da disposizioni di legge, intervenute negli ultimi anni, in vista del perseguimento dell’obiettivo del miglioramento delle condizioni di sicurezza locale. In primo luogo, devono rammentarsi “le convenzioni in materia di sicurezza”, introdotte dall’art. 39 della legge 16.01.2003, n. 3, che il Dipartimento della Pubblica sicurezza può stipulare con soggetti pubblici e privati, al fine di contribuire, attraverso la fornitura di mezzi, attrezzature e locali, ad incrementare la sicurezza pubblica.
Con successiva disposizione di cui all’art. 1, comma 439, della legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007) il legislatore ha previsto, per la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente ed in generale per la sicurezza dei cittadini, la possibilità di stipula di convenzioni fra il Ministro dell’interno e per sua delega, i Prefetti e gli enti territoriali. Convenzioni queste ultime che hanno ad oggetto la contribuzione logistica, strumentale e finanziaria e che hanno trovato nell’Accordo quadro, stipulato, in data 20.03.2007, fra il predetto Ministero e l’ANCI, le linee generali di regolazione.
Al predetto Accordo hanno fatto seguito una serie di “Patti per la sicurezza”, sottoscritti dagli enti territoriali, fra i quali si annoverano sedici Regioni ed i Comuni di Roma, Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Napoli. Con l’Accordo Quadro del marzo 2007 si è avviata una nuova fase di collaborazione fra istituzioni centrali e locali nel campo della sicurezza, caratterizzate dall’evidenziazione delle specificità delle singole realtà territoriali.
4. Per quanto attiene alle risorse finanziarie per l’attuazione delle predette forme di concertazione interistituzionale, occorre precisare che le contribuzioni finanziarie a tal fine destinate dalle regioni e dagli enti locali sono state escluse dall’applicazione dell’art. 1, comma 46, della legge 23.12.2005, n. 266 (legge finanziaria per il 2006) che limita, per ciascuna amministrazione, l’importo complessivo delle riassegnazioni a quelle effettuate nell’anno 2005.
Inoltre, negli articolati dei Patti per la sicurezza, fino ad ora adottati, gli enti firmatari hanno introdotto previsioni specifiche per l’istituzione di un apposito fondo, presso la competente Prefettura per finanziarie la realizzazione di progetti e programmi speciali, con lo stanziamento di somme ad hoc, in aggiunta a quelle già destinate presso ciascuna amministrazione alla finalità della sicurezza locale.
5. Premesso quanto sopra, è anche da rappresentare che, alla luce dell’attuale quadro normativo vigente in materia di acquisto e locazione di immobili da parte delle Amministrazioni dello Stato, nonché alla luce del processo di razionalizzazione della gestione del patrimonio immobiliare, avviato ai sensi dell’art. 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191 (legge finanziaria per il 2010) e proseguito con l’intervento delle disposizioni recate dal d.l. 06.07.2011, n. 98 convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 15.07.2011, n. 111, nonché dal d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214, le Amministrazioni dello Stato, ivi compreso il Ministero dell’Interno per quanto riguarda le caserme, prima dell’avvio della ricerca di soluzioni “allocative” sul mercato, devono rivolgersi all’Agenzia del Demanio per l’accertamento dell’esistenza di immobili di proprietà dello Stato, ma anche degli enti locali, idonei all’utilizzo richiesto.
Solo in caso di indisponibilità è possibile per le anzidette amministrazioni fare luogo ad indagini di mercato per reperire immobili di proprietà privata, che risultino idonei alle specifiche esigenze e, soprattutto, in linea con le necessità già rappresentate nel Piano triennale dei fabbisogni di spazi allocativi, tenendo presenti, comunque, gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, nonché di razionalizzazione dell’utilizzo del patrimonio immobiliare pubblico.
Ulteriori limiti in materia sono stati introdotti, com’è noto, dalla legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), che, all’art. 1, comma 138, ha apportato modifiche alla citata normativa, vietando sostanzialmente per il 2013 l’acquisto di immobili a titolo oneroso, ma anche la stipula di contratti di locazione passiva, salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero che la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi.
Le anzidette disposizioni trovano applicazione nel caso di specie e rappresentano il quadro normativo di riferimento, sia in termini gestionali che di limiti alla spesa, per le Amministrazioni centrali, per la stipula di contratti di locazione passiva e, quindi, anche per l’Amministrazione dell’Interno, che deve applicarle nella scelta della corretta soluzione allocativa delle caserme per le forze di polizia.
6. Premesso quanto sopra, conclusivamente, deve considerarsi che la Costituzione, pur attribuendo allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce, nella nuova formulazione dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con legge statale, forme di coordinamento fra Amministrazioni centrali e periferiche, in vista del potenziamento della sicurezza a livello locale.
Al riguardo, deve osservarsi che
una specifica base normativa e soprattutto finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, che autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti locali per realizzare programmi straordinari, tesi ad un potenziamento dei presidi di sicurezza sul territorio, accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie messe a disposizione dagli enti che aderiscono.
Le disposizioni in parola prevedono, fra l’altro, la costituzione di un fondo speciale in cui allocare le risorse per l’acquisizione di mezzi e tecnologie, una contabilità speciale per accelerare le procedure e la verifica periodica dello stato di attuazione degli obiettivi concordati, nella prospettiva di un’eventuale rimodulazione degli stessi, in vista del rinnovo stesso delle convenzioni.
La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a valutare le necessità della collettività amministrata in termini di priorità e di compatibilità finanziarie e gestionali e, sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare le eventuali concertazioni interistituzionali, volte all’adozione di specifici protocolli d’intesa che individuino obiettivi e risorse.
Pertanto,
ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del canone di locazione. Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve  presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente ben oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale (Corte dei Conti. Sez. Autonomie, deliberazione 09.06.2014 n. 16).

PATRIMONIOGli enti non possono pagare l'affitto di una caserma.
I comuni non possono caricarsi l'onere economico di partecipare al pagamento del canone di locazione di una caserma dei carabinieri. Ferma restando l'importanza e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica, le forme di contribuzione così intese non possono essere ammesse, anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione.

È quanto ha precisato la Sez. Autonomie della Corte dei Conti, nel testo della deliberazione 09.06.2014 n. 16, con cui, sollecitata sul punto dalla sezione regionale dell'Emilia Romagna, ha fornito un indirizzo interpretativo univoco sulla vicenda che, in questi anni, ha visto diverse articolazioni della Corte stessa pronunciarsi in senso opposto.
In vista del perseguimento dell'obiettivo del miglioramento delle condizioni di sicurezza locale, negli ultimi anni è stata prevista, per la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e in generale per la sicurezza dei cittadini, la possibilità di stipula di convenzioni fra il ministro dell'interno e per sua delega, i prefetti e gli enti territoriali (su tutti, i Patti per la sicurezza).
In questi Patti, ha sottolineato la Corte, gli enti firmatari hanno introdotto previsioni specifiche per l'istituzione di un apposito fondo presso la competente prefettura, per finanziarie la realizzazione di progetti e programmi speciali, con lo stanziamento di somme ad hoc, in aggiunta a quelle già destinate presso ciascuna amministrazione alla finalità della sicurezza locale. Tuttavia, nell'ambito di questi strumenti, la Corte non ha ritenuto possano rientrare le forme di contribuzione sopra evidenziate, ovvero quelle volte al pagamento del canone di locazione di una caserma dell'Arma.
Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell'ente ben oltre l'esercizio in corso e che, pertanto, mal si sposa con la natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale. Senza dimenticare che, l'eventuale partecipazione economica del comune, confliggerebbe con la previsione della legge di stabilità del 2013, dove, sostanzialmente, si vieta sia l'acquisto di immobili a titolo oneroso, ma anche la stipula di nuovi contratti di locazione (articolo ItaliaOggi del del 13.06.2014).

maggio 2014

INCARICHI PROFESSIONALI - PATRIMONIOContratti, tagli solo facoltativi. Cade la stretta su consulenze e incarichi di studio e ricerca. Negli emendamenti del governo i correttivi al dl Irpef. Slitta la decisione sulla Tasi.
Non più obbligo, bensì «facoltà» di ridurre del 5% i nuovi contratti stipulati dalle amministrazioni pubbliche per acquistare beni e servizi. E, per quanto concerne i pagamenti, bisognerà mettere nero su bianco (e darne prova anche sul web) un prospetto trimestrale sulle fatture saldate, sebbene, in caso di mancato rispetto della norma, i responsabili non saranno sanzionati.

Sono queste le novità per stato centrale ed enti locali dal decreto Irpef 66/2014, fino al pomeriggio di ieri al vaglio delle commissioni bilancio e finanze di palazzo Madama, dove i relatori (Antonio D'Ali del Ncd e Cecilia Guerra del Pd) ed il governo hanno depositato una serie di testi emendativi, alcuni dei quali nel solco della «spending review».
Resta invece ancora incerta la sorte della proroga Tasi al 16 ottobre, che, pur essendo ormai scontata, non ha ancora visto la luce. Lo slittamento era atteso in un decreto legge ad hoc da approvare oggi per poi transitare come emendamento nel dl 66. Ma la mancata convocazione del cdm rimanda la soluzione del giallo a martedì prossimo. E resta incerto se il rinvio al 16 ottobre riguarderà solo le seconde case o anche le prime (per le quali però si tratterebbe di un anticipo visto che per quest'anno la Tasi sull'abitazione principale, nei comuni che non hanno approvato le delibere entro il 23 maggio, si sarebbe dovuta pagare in rata unica a dicembre).
Regioni, province, città metropolitane e comuni saranno fuori dall'obbligo di dare l'altolà ad incarichi di consulenza, studio e ricerca e a contratti di collaborazione coordinata e continuativa, quando la spesa complessiva supera un certo rapporto rispetto alla spesa per personale; il semaforo rosso ad ulteriori incarichi era contenuto nell'articolo 14 del testo, e comprendeva tutte le amministrazioni pubbliche annoverate nel perimetro individuato dall'Istat, però i senatori hanno approvato una modifica che consente agli organismi la possibilità di rimodulare le proprie scelte, oppure di adottare misure alternative di contenimento delle uscite correnti, sempre, però, garantendo i medesimi risparmi.
A seguire, grazie ad un ritocco all'art. 8 del provvedimento, si dà «la facoltà», e si toglie l'imposizione, di operare una sforbiciata del 5% sui nuovi contratti per le dotazioni di beni e servizi. E, all'insegna della trasparenza delle procedure, arriva il vincolo alla pubblicazione (anche online) di un indicatore trimestrale di tempestività dei pagamenti; non scatteranno, però, sanzioni in caso di mancata ottemperanza, inizialmente previste nella versione originale del decreto, e legate alla retribuzione di risultato e al trattamento accessorio dei soggetti responsabili.
Fra le altre norme varate in commissione, una riguarda il versamento della tassa sulla rivalutazione dei beni di impresa, che sarà diluita in tre tranche (da salare il 16 giugno, il 16 settembre ed il 16 dicembre) di pari importo, e senza alcuna corresponsione di interessi. Mentre è stato disposto che, anche nel 2015, le entrate che deriveranno da misure straordinarie di lotta all'evasione saranno destinate alla riduzione generale delle imposte.
Expo 2015. Concesso alla regione Lombardia di derogare ai limiti di spesa (imposti dalla legge 122/2010) in materia di «comunicazione e promozione per le sole voci inerenti al grande evento Expo 2015» sia nel 2014, sia nel 2015. L'emendamento, che ha ricevuto il via libera dei senatori, stabilisce che l'amministrazione dovrà, comunque, garantire gli obiettivi complessivi di riduzione dei costi, rimodulando ed adottando «misure alternative di contenimento della spesa corrente al fine di compensare il maggior esborso» per tali finalità legate all'evento espositivo universale milanese del prossimo anno.
Documento di cittadinanza. Per il trattamento della domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana di persona maggiorenne bisognerà corrispondere la somma di 300 euro, mentre per il rilascio del passaporto ordinario «è dovuto un contributo amministrativo di euro 73,50, oltre al costo del libretto» (articolo ItaliaOggi del 30.05.2014).

PATRIMONIO: Concessione bene patrimoniale indisponibile. Procedura riservata alle cooperative sociali.
La normativa vigente statale e regionale (art. 5, L. n. 381/1991; art. 24, L.R. n. 20/2006) consente all'amministrazione, quando ricorrono le condizioni previste, di affidare in convenzione alle cooperative sociali di tipo b) di cui all'art. 1, L. n. 381/1991, gli appalti di fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi.
Il Consiglio di Stato ha affermato la valenza eccezionale dell'art. 5, L. n. 381/1991, in quanto norma derogatoria ai principi generali di tutela della concorrenza, nel cui ambito applicativo non è possibile far rientrare contratti diversi da quelli, di appalto di forniture e servizi, specificamente indicati. In particolare, l'affidamento in concessione di un bene pubblico per la gestione di un'attività rivolta ai cittadini, e non all'amministrazione, non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 5, L. n. 381/1991, con la conseguenza che la scelta del contraente deve avvenire nel rispetto delle procedure amministrative poste a tutela della concorrenza Concessione bene patrimoniale indisponibile. Procedura riservata alle cooperative sociali.

Il Comune riferisce dell'intenzione di procedere ad una selezione pubblica per la concessione in uso di un bene del patrimonio indisponibile da destinare a punto di ristoro, esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e bevande, all'interno di un parco pubblico, con previsione dell'obbligo di impiegare nella gestione anche soggetti svantaggiati. In considerazione di quest'ultima circostanza, il Comune valuterebbe l'idea di riservare l'accesso alla selezione alle cooperative sociali, ai sensi dell'art. 5, L. n. 381/1991
[1], e dell'art. 24, L.R. n. 20/2006 [2], e di prevedere un canone concessorio ridotto mediante applicazione per analogia dell'art. 12, D.P.R. n. 296/2005 [3].
Il Comune chiede un parere in ordine alla legittimità del quadro prospettato, evidenziando che nel caso di specie trattasi di concessione di bene immobile vincolata alla realizzazione di attività commerciale e ponendo una riflessione su una recente pronuncia del Consiglio di Stato
[4], secondo cui non è possibile applicare l'art. 5, L. n. 381/1991, per la gestione di un bene pubblico e lo svolgimento di attività rivolta ai cittadini e non all'Amministrazione, dovendosi, invece, effettuare la procedura selettiva, a tutela della concorrenza.
Il predetto art. 5 prevede che 'gli enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione', possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di servizi 'per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli sociosanitari ed educativi
[5] il cui importo stimato al netto dell'iva sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate' (comma 1).
Il Consiglio di Stato ha affermato la valenza eccezionale dell'art. 5, L. n. 381/1991, in quanto norma derogatoria ai principi generali di tutela della concorrenza e che, dunque, deve essere interpretata in maniera restrittiva
[6].
In questi termini, l'ambito applicativo dell'articolo 5 citato è esplicitato dal Consiglio di Stato, il quale precisa che lo stesso consente all'amministrazione, quando ricorrono le condizioni specificamente indicate, di affidare direttamente
[7] alle cooperative sociali di tipo b) gli appalti di fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi [8]. Il Supremo giudice amministrativo specifica il riferimento della norma ai contratti di appalto di forniture e servizi, con la conseguenza che non è possibile far rientrare nel suo campo di applicazione contratti diversi da quelli specificamente indicati [9]. Più precisamente, la fattispecie giuridica presa in considerazione dall'art. 5 in argomento consiste nella fornitura di servizi diretta a soddisfare esigenze dell'amministrazione pubblica, che questa ha facoltà di procurarsi, tramite convenzione, in deroga alle norme in materia di contratti della pubblica amministrazione, da parte di cooperative sociali allo scopo di creare opportunità di lavoro per persone svantaggiate [10].
Nel caso in esame, la fattispecie contrattuale che viene prospettata è quella della concessione di un bene pubblico per la gestione di attività di somministrazione di alimenti e bevande, con la previsione dell'impiego anche di persone svantaggiate. Ebbene, il Consiglio di Stato ha affermato che l'affidamento di un bene pubblico per la gestione di un'attività rivolta ai cittadini, e non all'amministrazione, non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 5, L. n. 381/1991, con la conseguenza che la scelta del contraente deve avvenire nel rispetto delle procedure amministrative poste a tutela della concorrenza. In ogni caso, afferma il Consiglio di Stato, si impone l'osservanza delle regole dell'evidenza pubblica quando viene in considerazione la gestione di un bene pubblico
[11].
Ciò chiarito in ordine al campo applicativo del convenzionamento, limitato agli appalti per la fornitura di beni e servizi in favore dell'amministrazione, quando ricorrono le condizioni dell'art. 5 della L. n. 381/1991
[12], e alla necessaria evidenza pubblica, laddove si sia invece in presenza della fattispecie concessoria, si passa ora ad esaminare in quest'ultima ipotesi, ricorrente nel caso di specie, l'aspetto relativo alla possibile riserva della procedura selettiva alle cooperative sociali.
Al riguardo, si osserva che la possibilità di ritenere ammissibile l'indizione di procedure selettive riservate alle cooperative sociali è stata considerata come ulteriore espressione della relazione preferenziale delle cooperative sociali con l'ente pubblico, consentita dall'art. 5, L. n. 381/1991, nei limiti ivi previsti. Il Consiglio di Stato, nel rilevare la facoltà concessa, dall'art. 5 della L. n. 381/1991, alle amministrazioni pubbliche, di stipulare convenzioni con le cooperative sociali di tipo b)
[13], ha affermato come possa ammettersi che detta facoltà comporti anche la possibilità per l'amministrazione pubblica di indire gare di appalto, per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi, riservate alle cooperative di tipo b), purché l'importo dell'affidamento sia sotto la soglia comunitaria [14]. Allo stesso modo, la dottrina ha osservato che, se non sussistono particolari ragioni collegate alla situazione particolare tali da indurre l'ente a negoziare direttamente con una specifica cooperativa sociale, il ricorso all'art. 5 della L. n. 381/1991 si concretizzerà nella negoziazione riservata a più cooperative sociali [15].
Qualora, invece, come nel caso in esame, si sia in presenza di una fattispecie concessoria, ciò 'esclude tout court l'applicabilità della deroga contenuta nell'art. 5, comma 1, L. n. 381/1991'
[16]: pertanto, per le considerazioni sopra espresse, anche la possibilità di costituire una riserva di partecipazione sembra venire meno.
Un tanto chiarito, per quanto concerne la possibilità per il Comune di applicare canoni concessori agevolati a cooperative sociali cui, nel rispetto delle procedure di legge, dovesse concedere l'uso di immobili del proprio patrimonio, si esprime quanto segue. Il D.P.R. n. 296/2005, richiamato dall'Ente, disciplina i criteri di concessione o locazione di parte dei beni immobili demaniali e patrimoniali dello Stato, gestiti dall'Agenzia del demanio, anche a titolo gratuito ovvero a canone agevolato, per finalità di interesse pubblico o di particolare rilevanza sociale, in favore di determinati soggetti beneficiari dell'agevolazione, tra cui le ONLUS (artt. 9, 10, 11 e 12)
[17].
La normativa testé richiamata è espressamente riferita al patrimonio immobiliare dello Stato, in relazione al quale reca delle previsioni in deroga al principio generale di fruttuosità dei beni pubblici: pertanto, trattandosi di norme di eccezione, non sembrano passibili di applicazione estensiva in via analogica ai sensi dell'art. 14 delle Preleggi.
Specificamente per il patrimonio immobiliare degli enti territoriali, il principio della fruttuosità dei beni pubblici è affermato dall'art. 32, comma 8, L. 23.12.1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica)
[18], che fa salvi gli scopi sociali.
Alla luce di un tanto, compete all'Ente valutare, in relazione alle peculiarità degli affidamenti del proprio patrimonio indisponibile, la possibilità di operare temperamenti al principio di fruttuosità dei beni pubblici, in considerazione della finalità sociale perseguita.
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[1] L. 08.11.1991, n. 381, recante: 'Disciplina delle cooperative sociali'.
[2] L.R. 20.10.2006, n. 20, recante: 'Norme in materia di cooperazione sociale'.
[3] D.P.R. 13.09.2005, n. 296, recante: 'Regolamento concernente i criteri e le modalità di concessione in uso e in locazione dei beni immobili appartenenti allo Stato'.
[4] Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342.
[5] L'art. 1, L. n. 381/1991, distingue le cooperative sociali in quelle di tipo a), aventi ad oggetto la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi, e di tipo b), cui fa riferimento l'art. 5 della L. 381, aventi ad oggetto lo svolgimento di attività diverse -agricole, industriali, commerciali o di servizi- finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
[6] Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1863; Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342.
[7] Sul piano dell'ordinamento regionale, cui l'art. 9 della L. 381 rinvia per l'attuazione delle disposizioni recate, viene in considerazione, sotto il profilo della convenzione, l'art. 24, L.R. 20/2006, secondo cui, qualora nel territorio provinciale interessato abbia sede una pluralità di cooperative sociali iscritte all'Albo che provvedono specificamente alla fornitura di beni e servizi richiesti e l'importo della spesa sia pari o superiore a 50.000 euro per singola annualità, iva esclusa, e comunque nel rispetto della soglia di rilevanza comunitaria, la scelta del contraente con cui stipulare la convenzione di cui all'art. 5, L. n. 381/1991, avviene attraverso procedura negoziata previo espletamento di gara ufficiosa tra almeno tre cooperative sociali di cui almeno una scelta con il criterio di rotazione tra le iscritte all'Albo, ovvero tra tutte le cooperative presenti qualora le stesse siano in numero inferiore a tre.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1863, secondo cui la norma, riferendosi ad appalti, presuppone fattispecie in cui la relativa prestazione sia rivolta all'amministrazione.
[9] Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342.
[10] Consiglio di Stato, sez. V, 11.05.2010, n. 2829. Conforme, Consiglio di Stato n. 1863/2014, cit.. Anche l'AVCP richiama l'orientamento restrittivo della giurisprudenza amministrativa in relazione all'art. 5, L. n. 381/1991, secondo cui detta disposizione, nel riferirsi alla 'fornitura di beni e servizi', offre agli enti pubblici la possibilità di stipulare convenzioni, alle condizioni ivi previste, in favore dell'amministrazione richiedente. (Cfr. AVCP, deliberazione n. 34 del 09.03.2011).
[11] Consiglio di Stato, sez. VI, 29.04.2013, n. 2342. In quella fattispecie si trattava di concessione in uso di un campo sportivo comunale per lo svolgimento dell'attività di manifestazione fieristica rivolta ai cittadini. Ebbene, in relazione all'uso dell'immobile comunale, il Consiglio di Stato ha affermato che si è in presenza di una concessione di bene pubblico, con la conseguenza che, in attuazione dei principi generali posti a tutela della concorrenza, devono essere seguite procedure di garanzia per la scelta del concessionario.
Per l'applicazione alle concessioni di beni pubblici dei principi dell'evidenza pubblica di derivazione comunitaria -concorrenza, parità di trattamento, trasparenza, non discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità- cfr. CdS. 19.06.2009, sez. V, n. 4035 e CdS, sez. VI, 25.01.2005, n. 168, che argomentano dalla circostanza per cui la concessione di un bene pubblico fornisce un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai principi di trasparenza e non discriminazione.
[12] Cfr. AVCP, deliberazione n. 34 del 09.03.2011.
[13] Con la possibilità di stipulare convenzioni (sistema di affidamento derogatorio dell'evidenza pubblica) con le cooperative sociali di tipo b), che occupano soggetti svantaggiati, il legislatore intende agevolare tali soggetti in quanto, per le loro condizioni di fragilità, hanno maggiore difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro.
[14] Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2003, n. 794. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. V, n. 4580/2001, secondo cui la pubblica amministrazione appaltante non può legittimamente limitare alle sole cooperative sociali l'ammissione ad una gara, di importo superiore alla soglia comunitaria, relativa ad un appalto di servizi, essendo ciò possibile solo per gli appalti sotto soglia.
[15] Cfr. in dottrina, Giacomo Andolina, Il Comune e le cooperative sociali: è possibile un rapporto preferenziale?, su Lexitalia.it.
[16] Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1863, con riferimento alla concessione di un servizio pubblico, ma le medesime considerazioni sembrano estensibili anche all'ipotesi della concessione dei beni (Cfr., al riguardo, CdS. n. 2342/2013, cit., laddove si afferma che, anche a prescindere dalla sussistenza di una concessione di servizio pubblico 'la gestione di un bene pubblico e lo svolgimento di una attività rivolta ai cittadini e non all'amministrazione non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 5 della legge n. 381 del 1991, con la conseguenza che la scelta del gestore deve avvenire nel rispetto delle procedure amministrative poste a tutela della concorrenza'.
[17] Ai sensi dell'art. 10, comma 8, D.Lgs. n. 460/1997, sono ONLUS di diritto le cooperative sociali iscritte al Registro regionale delle cooperative di cui alla L.R. n. 27/2007 (artt. 3 e 4), e secondo quanto previsto dall'art. 2551 c.c.
[18] Il comma 8 in argomento prevede che 'a decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali'
(28.05.2014 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 27.05.2014 n. 121 "Testo del decreto-legge 28.03.2014, n. 47, coordinato con la legge di conversione 23.05.2014, n. 80, recante: “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015.”.".
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Di particolare interesse, si leggano:
Art. 3. - Misure per la alienazione del patrimonio residenziale pubblico
Art. 4. - Programma di recupero di immobili e alloggi di edilizia residenziale pubblica
Art. 5. - Lotta all’occupazione abusiva di immobili. Salvaguardia degli effetti di disposizioni in materia di contratti di locazione
Art. 8. - Riscatto a termine dell’alloggio sociale
Art. 10. - Edilizia residenziale sociale
Art. 10-ter. Semplificazione in materia edilizia
Art. 10-quater. - Modifiche al decreto legislativo 20.06.2005, n. 122
Art. 12. - Disposizioni urgenti in materia di qualificazione degli esecutori dei lavori pubblici

PATRIMONIODanno erariale se il canone di locazione è troppo basso.
L'affidamento oneroso di un immobile comunale a soggetti privati che, in concreto non apporta alcun beneficio per le casse comunali, esponendole anzi a una perdita, è fonte di danno erariale cui devono rispondere innanzi al giudice contabile sia il funzionario che ha disposto tale affidamento sia il sindaco colpevole di aver omesso qualsiasi controllo sulla gestione della struttura comunale.

È quanto ha messo nero su bianco la Sez. giurisdizionale della Corte dei Conti Toscana, nel testo della sentenza 23.05.2014 n. 96, con la quale ha condannato un funzionario del comune di Forte dei Marmi e il sindaco della cittadina versiliana per aver affidato, nel triennio 2008-2011, a ditte private la gestione di spazi espositivi all'interno del locale palazzetto dello sport.
Ditte che hanno versato canoni di concessioni molto bassi che, al termine della manifestazione, non hanno coperto le spese di allestimento sopportate dall'amministrazione comunale. A detta del collegio giudicante, è inequivocabile che la scelta di destinare gli spazi espositivi non ha apportato alcuna utilità al comune. Anzi, come dimostrato dalla procura, l'aver concesso l'uso della struttura alla condizioni praticate nel concreto si è rivelata una scelta antieconomica, poiché l'amministrazione ha subito forti perdite conseguenti alla spese per allestimento e condizionamento di tali spazi, che non hanno trovato neppure copertura con i canoni di affitto versati dagli aggiudicatari.
A corollario della decisione, il collegio ha ravvisato che non ritenersi che tale esborso trovi giustificazione nell'utilità, ovvero nel vantaggio che ne sarebbe conseguito per l'immagine della città e per il rilancio del turismo, poiché in atti non è stata fornita prova di tale circostanza.
Le parti, per dimostrare l'assenza del danno, avrebbero dovuto provare che l'esposizione allestita nel palazzetto dello sport avrebbe assunto un peso determinante nell'aumento delle presenze in loco anche procedendo a dei raffronti delle presenze negli anni in cui non vi si erano tenute tali iniziative (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2014).

PATRIMONIO: Locazione futura con regole appalti.
Un contratto di locazione di opera futura rientra nella normativa Ue in materia di appalti. Nessuna possibilità, quindi, per l'amministrazione comunale di non applicare le direttive Ue perché se è vero che dall'ambito di applicazione delle direttive sugli appalti sono esclusi i contratti di locazione è anche vero che l'inquadramento di un'operazione non dipende dal diritto nazionale ma dalla normativa europea.

Lo ha chiarito l'avvocato generale della Corte di giustizia Ue Nils Wahl nelle conclusioni 15.05.2014 - C-213/13 su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato.
Per l'avvocato generale, le cui conclusioni non sono vincolanti per la Corte Ue, l'eccezione all'applicazione della normativa sugli appalti riguarda unicamente beni immobili esistenti e non «beni la cui costruzione non è neppure iniziata». La qualificazione di un'operazione come appalto pubblico di lavori -osserva Wahl- rientra nel diritto dell'Unione e deve essere effettuata prescindendo dal diritto nazionale.
Poco importa la qualificazione formale del contratto. L'avvocato generale fa salva, però, l'autorità di cosa giudicata, prevedendo nei casi in cui ciò renda impossibile l'applicazione del diritto Ue un risarcimento dei danni causati a terzi (articolo Il Sole 24 Ore del 16.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIODecreto in G.U.. Immobili, p.a. riduca gli acquisti.
Da quest'anno, l'acquisto di immobili destinati ad attività istituzionali della pubblica amministrazione deve sottostare preventivamente alle principali regole di indispensabilità e indilazionabilità dell'operazione. In pratica, l'acquisto dell'immobile deve soddisfare il superiore interesse pubblico e non può essere «allungato» nel tempo se questa dilazione compromette eventuali obiettivi fissati dal vertice dell'amministrazione pubblica. In relazione al prezzo, poi, deve essere acquisito il parere di congruità rilasciato dall'Agenzia del demanio.

Lo prevede il dm Economia 14/02/2014, in G.U. del 12/05/2014, in relazione alle disposizioni contenute all'art. 12, c. 1-bis, del dl 98/2011.
Pertanto, nel caso in cui le amministrazioni pubbliche, tranne gli enti territoriali, previdenziali e quelli del Servizio sanitario nazionale, comunicano alla ragioneria generale dello stato il piano triennale di investimento, come prevede il decreto attuativo delle disposizioni sopra richiamate (il dm Economia 16/03/2012), il responsabile del procedimento di ogni p.a. richiedente dovrà contestualmente documentare l'indispensabilità e l'indilazionabilità dell'operazione di acquisto.
Il primo requisito, precisa il dm, attiene alla necessità di procedere in tal senso sia per un obbligo giuridico che incombe all'amministrazione per il perseguimento delle proprie finalità che per la tutela ed il soddisfacimento dei superiori interessi pubblici. Il secondo, attiene all'impossibilità di differire l'acquisto senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi istituzionali. Entrambi tali requisiti si ritengono soddisfatti nel caso in cui l'acquisto comporti effetti finanziari ed economici positivi, così riscontrati dall'organo di controllo interno o dal competente ufficio della ragioneria.
Sull'iter di acquisto è necessario che si pronunci l'Agenzia del demanio con l'attestazione di congruità del prezzo. Documento, questo, che deve essere acquisito prima della definizione delle operazioni e che sarà rilasciato gratuitamente per le amministrazioni indicate all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, mentre le restanti amministrazioni dovranno provvedere al rimborso delle spese sostenute (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

PATRIMONIOL'Anas paga i danni anche se la nevicata è fortissima. Strade bloccate. In dicembre caso non eccezionale.
Una nevicata, anche se fortissima, non può essere considerata un evento eccezionale. Quindi, l'ente proprietario della strada non può invocare il caso fortuito e deve risarcire gli utenti rimasti bloccati.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Firenze, con la sentenza 14.05.2014 sul caso di un gruppo di persone rimaste bloccate (alcune anche per 36 ore) sulla statale Tosco-Romagnola, durante la nevicata di metà dicembre 2010 che mise in ginocchio l'area fiorentina.
Il Tribunale è partito dall'articolo 14 del Codice della strada, che enuncia poteri e compiti degli enti proprietari di strade, facendo loro carico di manutenzione, gestione, pulizia e controllo tecnico dell'efficienza. Una formulazione tanto generale da essere non di rado ritenuta più come indicazione che come vero e proprio obbligo. I giudici fiorentini, invece, l'hanno intesa come fonte di responsabilità del custode (articolo 2051 del Codice civile).
Ciò implica che all'utente basti dimostrare di aver subìto il danno dalla cosa in custodia e che il custode possa sottrarsi alla responsabilità solo se prova l'eccezionalità e l'imprevedibilità dell'evento. E infatti è ciò che ha fatto l'Anas, ma i giudici hanno ritenuto che a Firenze in dicembre nessuna nevicata può essere ritenuta eccezionale, tanto più che era stata prevista dalla Protezione civile.
Tutto ciò, secondo la sentenza, avrebbe dovuto quantomeno far scattare un coordinamento tra Anas e gestori dell'autostrada e della superstrada Firenze-Pisa, per garantire che chi era bloccato sulla Tosco-Romagnola potesse essere raggiunto tempestivamente. Ma così non è stato. Di qui i risarcimenti (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2014).

PATRIMONIODecreto in G.U.. Immobili, p.a. riduca gli acquisti.
Da quest'anno, l'acquisto di immobili destinati ad attività istituzionali della pubblica amministrazione deve sottostare preventivamente alle principali regole di indispensabilità e indilazionabilità dell'operazione. In pratica, l'acquisto dell'immobile deve soddisfare il superiore interesse pubblico e non può essere «allungato» nel tempo se questa dilazione compromette eventuali obiettivi fissati dal vertice dell'amministrazione pubblica. In relazione al prezzo, poi, deve essere acquisito il parere di congruità rilasciato dall'Agenzia del demanio.

Lo prevede il dm Economia 14/02/2014, in G.U. del 12/05/2014, in relazione alle disposizioni contenute all'art. 12, c. 1-bis, del dl 98/2011.
Pertanto, nel caso in cui le amministrazioni pubbliche, tranne gli enti territoriali, previdenziali e quelli del Servizio sanitario nazionale, comunicano alla ragioneria generale dello stato il piano triennale di investimento, come prevede il decreto attuativo delle disposizioni sopra richiamate (il dm Economia 16/03/2012), il responsabile del procedimento di ogni p.a. richiedente dovrà contestualmente documentare l'indispensabilità e l'indilazionabilità dell'operazione di acquisto.
Il primo requisito, precisa il dm, attiene alla necessità di procedere in tal senso sia per un obbligo giuridico che incombe all'amministrazione per il perseguimento delle proprie finalità che per la tutela ed il soddisfacimento dei superiori interessi pubblici. Il secondo, attiene all'impossibilità di differire l'acquisto senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi istituzionali. Entrambi tali requisiti si ritengono soddisfatti nel caso in cui l'acquisto comporti effetti finanziari ed economici positivi, così riscontrati dall'organo di controllo interno o dal competente ufficio della ragioneria.
Sull'iter di acquisto è necessario che si pronunci l'Agenzia del demanio con l'attestazione di congruità del prezzo. Documento, questo, che deve essere acquisito prima della definizione delle operazioni e che sarà rilasciato gratuitamente per le amministrazioni indicate all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, mentre le restanti amministrazioni dovranno provvedere al rimborso delle spese sostenute (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

PATRIMONIO: Sulla gratuità per l'utilizzo di locali comunali alle associazioni o gruppi no profit ad alta valenza sociale.
La deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni.
A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione.
La Sezione precisa, inoltre, che, oltre all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale
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Con la conseguenza che risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

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Il Sindaco del Comune di Curno, con nota prot. n. 4683 del giorno 24.04.2014, dopo aver premesso che:
- nel perseguimento delle proprie finalità istituzionali di sviluppo sociale delle categorie fragili, il Comune intende prevedere tariffe agevolate (un euro all'ora) rispetto a quelle ordinarie (oggi 30 all'ora) o la gratuità per l'utilizzo di locali comunali alle associazioni o gruppi no profit ad alta valenza sociale;
- in questo ambito è stato individuato come gruppo ad alta valenza sociale il gruppo anziani e pensionati che svolge la propria attività a favore degli anziani del comune di Curno nell'area ricreativa, culturale e sportiva, per promuovere la cura della salute e l'informazione medica, servizi di solidarietà sociale verso le persone anziane non autosufficienti e svolge percorsi di aggregazione della popolazione anziana alla scopo di prevenire situazioni di isolamento ed emarginazione;
- il gruppo anziani e pensionati è l'unica organizzazione del territorio che offre sevizi gratuiti o con tariffe calmierate agli anziani residenti in comune,
ha posto alla Sezione il seguente quesito: “se è da ritenersi legittima tale intenzione della giunta comunale per tutte le manifestazioni del gruppo anziani, come per esempio gli auguri natalizi, ove non venga svolta alcuna attività di natura commerciale.
...
Il quesito oggetto della richiesta di parere del Comune di Curno deve ritenersi inammissibile.
Il quesito, infatti, non investe una questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimere una valutazione che attiene ad una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste di parere devono avere rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative opportune cautele e valutazioni che la sana gestione richiede.
Ad ogni modo, l’ente nell’adottare il provvedimento gestionale potrà orientare la sua decisione ai principi generali già espressi da questa Corte.
In particolare si ricorda come la Sezione regionale per il Veneto (parere 05.10.2012 n. 716), ponendosi in linea di continuità con quanto già affermato da questa Sezione (cfr. in particolare parere 13.06.2011 n. 349 e precedenti ivi richiamati), ha chiaramente evidenziato come
la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata “solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni. A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione. […] La Sezione precisa, inoltre, che, oltre all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale.
Con la conseguenza che
risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 06.05.2014 n. 172).

PATRIMONIO: Demanio. La p.a. risparmia sugli affitti.
Un applicativo per consentire alle amministrazioni di risparmiare sugli affitti. Si chiama «Paloma» ed è la piattaforma predisposta dall'Agenzia del demanio per adempiere alle prescrizioni del «decreto spending» (dl 66/2014).

Il sistema, già attivo dall'anno scorso, consentirà alle amministrazioni statali di svolgere direttamente le proprie indagini di mercato, accedendo ad un unico database che raccoglie sia gli immobili di proprietà pubblica che quelli di soggetti privati, selezionando i più funzionali alle esigenze degli enti nel rispetto del parametro metro quadro/addetto previsto dalla legge. Le p.a. dovranno effettuare le loro ricerche prioritariamente fra quelli di proprietà pubblica e, successivamente, tra quelli offerti in locazione o in vendita da soggetti privati.
Ad oggi sono 130 gli immobili caricati sulla piattaforma che punta a favorire l'incontro tra domanda e offerta dei beni disponibili sul mercato. Il database sarà costantemente aggiornato, con l'inserimento di immobili di proprietà di soggetti privati e con gli immobili statali liberi o in via di rilascio (articolo ItaliaOggi del 06.05.2014).

aprile 2014

PATRIMONIO: S. D'Agostini, STRADE - FASCE DI RISPETTO - INTERVENTI DI URGENZA - Nozione di strada, classificazione delle strade - Nozione di fascia di rispetto, come si misurano le fasce di rispetto e la loro tutela - Procedimento di analisi tecnica e interventi di urgenza in caso di dissesti e di cedimenti franosi in fregio alle strade pubbliche (30.04.2014 - tratto da http://venetoius.it).

PATRIMONIO: P. Balzani, STRADE, FRANE E FASCE DI RISPETTO IN URBANISTICA - La responsabilità in ipotesi frane da fondi finitimi alle strade pubbliche.
I movimenti franosi da fondi finitimi alle strade appartenenti a pubblico demanio - Ipotesi di responsabilità (30.04.2014 - tratto da http://venetoius.it).

APPALTI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO: G.U. 24.04.2014 n. 95 "Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale" (D.L. 24.04.2014 n. 66).
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 8. (Trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica per beni e servizi)
Art. 9. (Acquisizione di beni e servizi attraverso soggetti aggregatori e prezzi di riferimento)
Art. 10. (Attività di controllo)
Art. 14. (Controllo della spesa per incarichi di consulenza, studio e ricerca e per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa)
Art. 15. (Spesa per autovetture)
Art. 23. (Riordino e riduzione della spesa di aziende, istituzioni e società controllate dalle amministrazioni locali)
Art. 24. (Disposizioni in materia di locazioni e manutenzioni di immobili da parte delle pubbliche amministrazioni)
Art. 25. (Anticipazione obbligo fattura elettronica)
Art. 26. (Pubblicazione telematica di avvisi e bandi)
● Art. 27. (Monitoraggio dei debiti delle pubbliche amministrazioni)
Art. 28. (Monitoraggio delle certificazioni dei pagamenti effettuati dalle pubbliche amministrazioni con le risorse trasferite dalle regioni)
Art. 31. (Finanziamento dei debiti degli enti locali nei confronti delle società partecipate)
Art. 41. (Attestazione dei tempi di pagamento)
Art. 42. (Obbligo della tenuta del registro delle fatture presso le pubbliche amministrazioni)
Art. 43. (Anticipo certificazione conti consuntivi enti locali)
Art. 48. (Edilizia scolastica)

ENTI LOCALI - PATRIMONIOEdilizia scolastica, comuni liberi dal patto di stabilità.
Patto di stabilità soft per i comuni che investono in edilizia scolastica. Gli enti locali avranno a disposizione 122 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014 e 2015. Per la lista dei comuni beneficiari, però, sarà necessario attendere il 15.06.2014. Entro questa data, infatti, il presidente del consiglio dei ministri dovrà individuare i comuni che potranno trarre vantaggio dall'esclusione e l'importo di quest'ultima.

Queste le novità, emerse ieri a termine del consiglio dei ministri, contenute nel decreto Irpef la cui pubblicazione in G.U. è attesa per i primi giorni della prossima settimana.
Nel dettaglio, la norma prevede che «per gli anni 2014 e 2015, nel saldo finanziario espresso in termini di competenza mista rilevante ai fini del rispetto del patto di stabilità interno, non sono considerate le spese sostenute dai comuni per interventi di edilizia scolastica. L'esclusione opera nel limite massimo di 122 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014 e 2015».
Altri fondi in arrivo anche sul fronte della riqualificazione e la messa in sicurezza degli edifici scolastici in particolare per quelli in cui è stata rilevata la presenza di amianto. Complessivamente, infatti, gli stanziamenti potranno raggiungere quota 300 milioni di euro. La possibilità di accesso a questi fondi però, «è subordinata alla previa verifica dell'utilizzo delle risorse assegnate nell'ambito della programmazione 2007-2013 del Fondo per lo sviluppo e la coesione».
Effettuata la verifica, infatti, spetterà al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) riprogrammare le eventuali risorse non utilizzate e assegnare le ulteriori risorse disponibili sulla base di un programma articolato a livello regionale e in relazione alla tipologia di interventi da effettuare (articolo ItaliaOggi del 19.04.2014).

PATRIMONIODanni da caduta, colpa estesa alla vittima. Risarcimenti. Il comportamento imprudente limita la responsabilità del «custode».
Per i danni subiti da un motociclista caduto su una strada provinciale si configura una doppia responsabilità: sia del custode, vale a dire la Provincia (in base agli articoli 2043 e 2051 del Codice civile), sia dell'utente danneggiato, che ha usato il bene senza la normale diligenza o con un affidamento soggettivo anomalo sulle sue caratteristiche o, infine, ignorando eventuali avvisi o divieti.
Lo ha precisato il TRIBUNALE di Napoli -Sez. XII civile- che, con la sentenza 14.04.2014 n. 5687 (tratta da www.ilsole24ore.com), si è pronunciato sul caso della caduta accidentale di un motociclista, avvenuta a causa -ha affermato- di un avvallamento situato a margine di un tombino. Per questo l'uomo ha citato in giudizio la provincia di Napoli (titolare del bene demaniale), per vedere riconoscere la responsabilità per omessa custodia della sede stradale.
Nel giudizio si è costituito l'ente pubblico, che ha contestato ogni propria responsabilità e invocato l'assenza di un obbligo di garantire, per tutta l'estensione dalla rete adibita alla circolazione, l'uniformità del manto stradale e l'assenza di insidie più o meno avvistabili dall'utente.
Nel dirimere la controversia, il tribunale riassume i profili di responsabilità che riguardano, in via generale, gli enti tenuti alla gestione e alla manutenzione della strada, rammentando che il custode risponde sia in forza dell'articolo 2043 del Codice civile (che impone un obbligo generale di diligenza e attenzione nella gestione del bene), sia per effetto della presunzione di responsabilità contenuta nell'articolo 2051 del Codice civile, che disciplina una sorta di responsabilità oggettiva che può essere superata solo se l'ente prova che la caduta è stata provocata da un caso fortuito. Quella prevista dall'articolo 2051 è, in effetti, una presunzione assai gravosa per il custode della rete stradale, sia per la difficoltà materiale di estendere il controllo a tutta la rete, sia perché nella giurisprudenza il concetto di "caso fortuito" è relegato a ipotesi residuali, come un evento atmosferico esterno e imprevedibile nelle conseguenze.
Nel caso esaminato, il tribunale di Napoli rileva che la conformazione dell'insidia stradale era tale da dover richiedere la pronta attivazione del custode che avrebbe dovuto esercitare in modo efficace quel potere di dominio sulla rete viaria, utile per ripristinare lo stato di agibilità della strada ed evitare pericolo per chi dovesse transitarvi.
Al tempo stesso, però, il tribunale non omette di considerare la condotta responsabile e concorrente della vittima che, vista la conformazione della strada e la relativa avvistabilità dell'insidia, avrebbe dovuto guidare il motociclo con attenzione. Nei fatti, secondo il giudice, il motociclista avrebbe contribuito attivamente alla caduta e, quindi, a provocare i danni.
Il concorso colposo della vittima che cada a terra per effetto di una insidia stradale, infatti, può essere dichiarato in associazione alla colpa del custode, secondo l'articolo 1227 del Codice civile, che, al primo comma, dispone che «se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate». Di conseguenza, il risarcimento del danno viene ridotto dal giudice nella misura del 50% di quanto gli sarebbe spettato in totale (articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2014).

PATRIMONIOEdilizia, il Miur non può tacere. Deve tirare fuori la mappatura delle 41.483 strutture. Il Tar Lazio condanna il ministero a fare chiarezza entro 60 giorni. Non serve un regolamento.
Sessanta giorni. Entro due mesi la scuola italiana deve diventare una casa di vetro, almeno per la sicurezza degli edifici: il conto alla rovescia è iniziato con la sentenza n. 3014/2014 del Tar Lazio che ha accolto il ricorso di Cittadinanzattiva, ordinando al ministero dell'istruzione pubblicare i dati dell'anagrafe dell'edilizia scolastica e quelli della mappatura degli elementi non strutturali di tutti i 41.483 fabbricati italiani frequentati da docenti e studenti.
Ed è grazie alla riforma Severino che è divenuta realtà l'operazione-trasparenza voluta dalla onlus di partecipazione civica: la domanda di accesso civico inizialmente bocciata dal Miur, ma ora ritenuta legittima dai giudici, è stata infatti introdotta dall'articolo 5 del decreto legislativo 33/2013, vale a dire uno dei provvedimenti delegati della legge 190/2012.
Sono molte le carte che il Ministero dovrà tirare fuori sulla sicurezza degli edifici scolastici: si tratta in particolare delle certificazioni di agibilità statica, di adeguamento sismico, igienico-sanitario, prevenzione incendi; senza dimenticare la mappatura delle barriere architettoniche, la presenza di bagni per disabili, l'elenco degli interventi effettuati e da realizzare relativi alla rimozione di amianto e la presenza o meno del documento di valutazione dei rischi e del piano di evacuazione.
Le informazioni disponibili finora, infatti, riguardano solo 33 mila edifici, peraltro aggregati per regioni. Non colgono nel segno le difese dell'amministrazione: anzitutto l'articolo 7 della legge 23/1996 stabilisce in modo chiaro che è attribuita al Miur la «responsabilità della costituzione e dell'aggiornamento periodico della banca dati sebbene ciò debba avvenire con la collaborazione degli enti locali interessati», vale a dire regioni, comuni, province.
Ma soprattutto non ha senso per il ministero eccepire che Cittadinanzattiva, piuttosto che un'altra onlus, non abbiano il diritto ad accedere alle banche dati e che comunque prima di aprire le porte ai privati che vogliono ficcare il naso servirebbe una regolamentazione da parte dell'amministrazione stessa: è stato il decreto sviluppo 2.0 (dl 179/2012) a chiarire che sussiste un obbligo generalizzato di pubblicazione esteso a tutti i database pubblici, con la sola eccezione dell'anagrafe tributaria.
Nessun dubbio, dunque, può sussistere sull'esclusiva legittimazione passiva in capo al ministero dell'istruzione a provvedere sull'istanza di accesso civico a dati e informazioni relativi all'anagrafe dell'edilizia scolastica. Né si può convenire sulla necessaria adozione di un regolamento ad hoc preventivo all'accesso civico perché equivarrebbe ad applicare un'interpretazione che di fatto abroga l'articolo 5 del decreto legislativo 33/2013: si finirebbe per riconoscere ai singoli enti la possibilità di differire nel tempo l'efficacia di una disposizione fondamentale per l'attuazione del principio di trasparenza nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Il tutto in assenza di una espressa norma (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2014 - tratto da www.centroctsudicni.it).

marzo 2014

PATRIMONIO: G.U. 31.03.2014 n. 75 "Procedure per la gestione delle attività di messa in sicurezza e salvaguardia del patrimonio culturale in caso di emergenze derivanti da calamità naturali" (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, direttiva 12.12.2013).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 28.03.2014 n. 73 "Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015" (D.L. 28.03.2014 n. 47).
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Di particolare interesse, si leggano:
Art. 3. - Misure per la alienazione del patrimonio residenziale pubblico
Art. 4. - Piano di recupero di immobili e alloggi di edilizia residenziale pubblica
Art. 5. - Lotta all’occupazione abusiva di immobili
Art. 8. - Riscatto a termine dell’alloggio sociale
Art. 10. - Edilizia residenziale sociale
Art. 12. - Disposizioni urgenti in materia di qualificazione degli esecutori dei lavori pubblici

PATRIMONIO: OGGETTO: Dismissione del patrimonio immobiliare pubblico - Art. 11-quinquies del decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con modificazioni, con legge 02.12.2005, n. 248 (MIBACT Veneto, circolare 27.03.2014 n. 19/2014).

PATRIMONIO: G.U. 18.03.2014 n. 64 "Definizione di poteri derogatori ai sindaci e ai presidenti delle province interessati che operano in qualità di commissari governativi per l’attuazione delle misure urgenti in materia di riqualificazione e di messa in sicurezza delle istituzioni scolastiche statali" (D.P.C.M. 22.01.2014).

PATRIMONIO: Gli enti si rifanno le caldaie. Contributi a fondo perduto per sostituire gli impianti. Il Gestore servizi energetici ha pubblicato il bando 2014 per gli interventi oltre i 500 kw.
Gli enti locali possono ottenere un contributo a fondo perduto per la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti. Il Gestore servizi energetici (Gse) ha pubblicato il bando 2014 per la procedura di iscrizione ai registri riservata agli interventi con potenza maggiore di 500 kW e inferiore o uguale a 1.000 kW.

Il bando, disponibile sul sito internet del Gse (www.gse.it), prevede che l'iscrizione sia possibile dal 31.03.2014 alle ore 9 e fino al giorno 29.05.2014 alle ore 21.
Le risorse destinate all'incentivazione degli interventi per i quali ricorre l'obbligo di iscrizione ai registri, definite in termini di spesa cumulata annua, sono pari a 6,91 milioni di euro per gli interventi realizzati dalle amministrazioni pubbliche e a 22,81 milioni di euro per gli interventi realizzati dai soggetti privati.
Contributi per la sostituzione di caldaie. Il bando finanzia la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore elettriche o a gas, anche geotermiche con potenza termica utile nominale superiore a 500 kWt e fino a 1000 kWt. Inoltre finanzia la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale o di riscaldamento delle serre esistenti e dei fabbricati rurali esistenti con generatori di calore alimentati da biomassa con potenza termica nominale superiore a 500 kWt e fino a 1.000 kWt.
La richiesta di iscrizione, a pena di esclusione, deve essere trasmessa esclusivamente per via telematica, entro e non oltre il termine di chiusura dei registri e prima di realizzare l'investimento, mediante l'applicazione informatica Portaltermico predisposta dal Gse.
L'applicazione è disponibile al sito applicazioni.gse.it, accessibile tutti i giorni del periodo di apertura dei registri, 24 ore su 24, ad eccezione dei giorni di apertura e di chiusura. La graduatoria è redatta applicando, in ordine gerarchico, i criteri di priorità di seguito elencati: minor potenza degli impianti; anteriorità del titolo autorizzativo/abilitativo; precedenza della data della richiesta di iscrizione al registro.
Sempre accessibile il contributo per interventi di potenza fino a 500 kWt. Oltre agli interventi di sostituzione di caldaie, gli enti locali possono finanziare interventi per l'isolamento termico di superfici opache, delimitanti il volume climatizzato e la sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi delimitanti il volume climatizzato, nonché l'installazione di sistemi di schermatura e/o ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione al sole.
Gli enti locali possono accedere al conto termico anche per interventi di piccole dimensioni di produzione di energia termica da fonti rinnovabili e di sistemi ad alta efficienza. L'incentivo spetta anche per l'installazione di collettori solari termici, anche abbinati a sistemi di solar cooling, nonché per la sostituzione di scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa di calore.
Contributo a fondo perduto in due o cinque anni. L'incentivo consiste in un contributo a fondo perduto che viene erogato in rate annuali per un periodo di due o cinque anni a seconda del tipo di intervento. Solo nel caso di incentivo fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata. L'entità dell'incentivo varia da tipologia a tipologia.
A titolo esemplificativo, per un generatore di calore a condensazione con potenza maggiore di 35 kWt l'incentivo massimo è del 40% della spesa che non può risultare maggiore di 130 euro/kWt, con un incentivo massimo che può ammontare a 26 mila euro. Se la potenza del generatore si abbassa sotto i 35 kWt, il costo ammissibile è pari a 160 euro/kWt e l'incentivo massimo può ammontare a 2.300 euro.
Per gli scaldacqua a pompa di calore l'incentivo è pari al 40% del costo di acquisto, per un massimo erogabile pari a 400 euro per prodotti con capacità uguale o inferiore a 150 litri e a 700 euro per prodotti con capacità maggiori (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

PATRIMONIODall’01.01.2014 gli enti locali possono effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità di cui al comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2011, n. 111, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012 (solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità delle stesse, il "prezzo di acquisto" deve essere oggetto di una attestazione di congruità da parte dell'Agenzia del Demanio).
Con riferimento alla riconducibilità dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità nell’ambito di applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, il Collegio ritiene condivisibile il parere della Sezione Veneto secondo cui la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle procedure espropriative. Ciò peraltro non significa che non trovino adeguata considerazione, all’interno del procedimento espropriativo, le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost. l’espropriazione è consentita, nei casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale. Tale finalità costituisce il presupposto indefettibile del potere di esproprio. Il Collegio ritiene che la disciplina relativa alle procedura di acquisizione di beni immobili (contenuta nell’art. comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011) e la disciplina delle procedure espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001), non siano fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate da notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene ai relativi presupposti.
Con specifico riferimento alla possibilità di effettuare una permuta da parte dell’ente locale si deve distinguere la fattispecie della permuta “pura” dalla fattispecie della permuta con conguaglio di prezzo. La permuta pura, costituisce un’operazione finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter. Diversamente, nell’ipotesi in cui l’operazione comprenda il versamento, da parte dell’ente territoriale, della differenza di valore fra i beni immobili oggetto di permuta, con la conseguente qualificazione dell’operazione non in termini di neutralità finanziaria, si ricade nell’alveo di applicazione del comma 1-ter.

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Il Sindaco del Comune di Lomazzo, con nota 30.01.2014, prot. Comunale n. 1889 (prot. Corte dei Conti, 03.02.2014 n. 1059), ha formulato una richiesta di parere in merito alla possibilità di acquistare beni immobili.
In particolare il Sindaco del Comune di Lomazzo chiede:
1) se effettivamente i comuni nell’anno 2014 possano acquistare beni immobili;
2) ovvero in subordine se, come per il 2013, sia ammesso acquisire immobili con procedure espropriative, ovvero nei casi di permuta a parità di prezzo;
3) se sia nel caso di permuta comunque ammissibile ricevere un immobile di valore inferiore con il versamento della somma della differenza di valore
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...
A decorrere dall’01.01.2014 gli enti locali possono effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità di cui al comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2011, n. 111, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Attualmente quindi non è più vigente la precedente norma imperativa che vietava l’acquisto di beni immobili nell’anno 2013, contenuta nel comma 1-quater dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012 ("Per l'anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione ... (omissis)... non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti").
Il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, dispone che “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
A partire dal 01.01.2014 è stato quindi introdotto un regime che -al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno e con le modalità indicate dal richiamato comma 1-ter– consente operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità delle stesse. Nel disciplinare le modalità di acquisto degli immobili da parte degli Enti Territoriali per l'anno 2014, il comma 1-ter dispone che il "prezzo di acquisto" debba essere oggetto di una attestazione di congruità da parte dell'Agenzia del Demanio.
Con specifico riferimento al quesito, presentato dal Sindaco del Comune di Lomazzo, relativo alla riconducibilità dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità nell’ambito di applicazione del comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, si rileva che sono già intervenute alcune pronunce di altre Sezioni regionali. In particolare, dopo un primo parere della Sezione regionale per la Liguria che, con deliberazione n. 9/2013/PAR, ha succintamente fornito risposta positiva al quesito, la Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto, sulla base di un’approfondita disamina della problematica, che “la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle procedure espropriative. In tal senso si è pronunciata altresì la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/PAR/2013.
Il Collegio ritiene condivisibile l’impostazione da ultimo riferita, pur ritenendo di dover svolgere alcune precisazioni.
Il comma 1-ter -che contiene un’espressa indicazione della propria finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno”) ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3 della legge 31.12.2009, n. 196, contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari– contempla una disciplina delle condizioni e delle modalità delle operazioni di acquisto di immobili destinata a valere a tempo indeterminato e prospetta una specifica disciplina dei presupposti delle suddette operazioni.
Il previgente comma 1-quater (che conteneva un divieto di acquisto di beni immobili) dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, in vigore per tutto il 2013, era stato oggetto di una norma di interpretazione autentica (legge n. 64/2013) al fine di escludere espressamente dall’ambito di applicabilità del divieto ivi contenuto le procedure espropriative per pubblica utilità. Non si può quindi non tener conto del fatto che lo stesso legislatore abbia espressamente voluto –intervenendo con la legge 06.06.2013 n. 64 in riferimento al comma 1-quater citato- escludere dalla disciplina limitativa dell’acquisto di beni immobili da parte, fra l’altro, degli enti territoriali, le procedure espropriative.
D’altro canto la procedura espropriativa è oggetto di una compiuta e sistematica disciplina, contenuta nel d.p.r. 08.06.2001, n. 327, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”, sia con riferimento ai presupposti di esercizio del potere, sia in relazione alle modalità di esercizio dello stesso.
L’applicazione del comma 1-ter alle procedure espropriative, comunque connesse all’esercizio di funzioni fondamentali dell’ente, quali quelle della programmazione del territorio e della pianificazione urbanistica, introdurrebbe incisive limitazioni nell’espletamento delle suddette funzioni e andrebbe a modificare una disciplina con carattere di specialità rispetto alla generale regolamentazione delle procedure di acquisto di beni da parte delle pubbliche amministrazioni. Il procedimento ablatorio è infatti legato da un rapporto strutturalmente molto stretto con l’attività di pianificazione urbanistica dal momento che, da un lato, l’espropriazione costituisce un imprescindibile strumento di pianificazione urbanistica e di attuazione del piano regolatore generale e rappresenta una delle tipiche modalità di perseguimento delle funzioni fondamentali degli enti territoriali e, dall’altro lato, la “conformazione della proprietà” è condizione necessaria del procedimento di esproprio e nasce dalle prescrizioni urbanistiche contenute nei piani regolatori.
Una limitazione del potere espropriativo si ripercuoterebbe anche sulla programmazione territoriale e sull’effettività della stessa, con conseguenze che, verosimilmente, andrebbero al di là delle dichiarate intenzioni del legislatore (conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dall’operatività delle disposizioni finalizzate al conseguimento degli obiettivi posti dal patto di stabilità interno). Del resto, eventuali vincoli alla potestà espropriativa delle amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto –alla luce del dettato costituzionale di cui all’art. 42, comma 3, e della riserva di legge in esso contenuta, che copre l’indicazione dei soggetti titolari del potere e degli interessi perseguibili, oltre ai beni espropriabili e alle regole procedimentali da osservare– essere espressamente individuati dal legislatore.
Inoltre risulta piuttosto difficile ritenere che il legislatore abbia voluto, in modo indiretto ma così incisivo, limitare l’attività di programmazione e di cura del territorio da parte degli enti a ciò competenti con una disposizione volta, in modo espresso, a realizzare effetti finanziari e senza prevedere alcuna disposizione di raccordo espresso. E ciò ancor più se si considera che la disciplina di cui al comma 1-ter –al contrario di quanto previsto nel previgente 1-quarter- contiene potenzialmente una regolamentazione a tempo indeterminato delle procedure di acquisto di beni immobili e non svolge invece una funzione esclusivamente derogatoria, per un tempo limitato, rispetto alla ordinaria modalità di acquisizione dei beni medesimi.
Dal punto di vista procedurale la disciplina delle modalità di effettuazione degli acquisti di beni immobili contenuta nel comma 1-ter verrebbe sostanzialmente a sovrapporsi, in modo peraltro non organico, all’iter espropriativo di cui al d.p.r. n. 327/2001. In particolare si porrebbero necessariamente problemi in ordine alla determinazione del “prezzo” di acquisizione del bene immobile.
La stessa prescrizione, contenuta nella disposizione di cui al comma 1-ter in esame, circa l’attestazione di conformità da parte dell’Agenzia del Demanio in ordine al "prezzo di acquisto" dell’immobile trova con difficoltà applicazione nell’ambito di una procedura espropriativa volta all’adozione di un provvedimento ablatorio, in quanto la determinazione dell'indennità di espropriazione è soggetta ai criteri e alla procedura previsti dal T.U. di cui al d.p.r. 08.06.2001, n. 327. L’art. 20 del T.U. prevede infatti che il promotore dell'espropriazione compili l'elenco dei beni da espropriare e dei relativi proprietari, con una descrizione sommaria, “ed indica le somme che offre per le loro espropriazioni” oppure rimetta al proprietario, ove non vi siano esigenze di celerità, anche in base ad una relazione esplicativa, la precisazione di “quale sia il valore da attribuire all'area ai fini della determinazione della indennità di esproprio”.
Inoltre, in base alle previsioni del Testo unico –oltre che dell’art. 42 della Costituzione, ai sensi del quale "La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale"-, è riconosciuto al proprietario un indennizzo e non un prezzo di acquisto. I due concetti non possono essere sovrapposti. La Corte costituzionale, con sentenza n. 348/2007, dopo aver precisato che il criterio di calcolo dell’indennizzo non deve essere valutato in modo assoluto ma in relazione al (mutevole) contesto storico di riferimento, ha indicato il valore di mercato del bene oblato quale punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione ma precisando che non vi è “coincidenza necessaria fra valore di mercato e indennità espropriativa” e che “il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene oblato”.
La predetta ricostruzione interpretativa porta ad escludere dal campo di applicazione della norma vincolistica di cui al comma 1-ter le procedure di espropriazione per pubblica utilità. Ciò peraltro non significa che non trovino adeguata considerazione, all’interno del procedimento espropriativo, le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno. Ai sensi dell’art. 42, comma 3, Cost. l’espropriazione è consentita, nei casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale. Tale finalità costituisce il presupposto indefettibile del potere di esproprio.
Il trasferimento coattivo deve risultare infatti “indispensabile per far fronte a bisogni che, pure se destinati a concretarsi in futuro o a essere soddisfatti soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che valga a far considerare necessario e tempestivo il sacrificio della proprietà privata nell’ora presente” (Corte costituzionale, 06.07.1966, n. 90). Attraverso la dichiarazione di pubblica utilità l’autorità espropriante è tenuta pertanto a valutare la sussistenza di tali condizioni, ponderando e confrontando gli interessi coinvolti e le prerogative di cui sono portatori i soggetti del procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai principi di economicità ed efficienza, oltre che di pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2).
D’altro canto la necessità che l’operazione espropriativa si qualifichi in termini di concretezza assicura che l’interesse pubblico perseguito non sia solamente ipotetico ma rivesta i caratteri dell’attualità. “L’espropriazione deve necessariamente collegarsi e cioè deve essere in rapporto immediato con la soddisfazione di effettive e specifiche esigenze rilevanti per la comunità” (Corte costituzionale, 06.07.1966, n. 90). In particolare il requisito temporale, declinato in termini di urgenza –e quindi sottolineando la stretta concomitanza che deve sussistere fra il l’interesso pubblico a cui è preordinata l’espropriazione e la procedura ablatoria–, viene richiesto in modo ancora più incisivo nelle ipotesi di decreto di esproprio urgente (art. 20 d.p.r. 327/2001) e di decreto d’occupazione d’urgenza (art. 22-bis d.p.r. n. 327/2001).
Si ritiene pertanto che, nei termini sopra descritti, le due discipline, la disciplina relativa alle procedura di acquisizione di beni immobili (contenuta nell’art. comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011) e la disciplina delle procedure espropriative (contenuta nel d.p.r. n. 327/2001), non siano fra loro confliggenti e anzi siano caratterizzate da notevoli punti di contatto soprattutto per quanto attiene ai relativi presupposti.
Con specifico riferimento all’ulteriore quesito posto da Sindaco del Comune di Lomazzo in ordine alla possibilità di effettuare una permuta da parte dell’ente locale si deve distinguere la fattispecie della permuta “pura” dalla fattispecie della permuta con conguaglio di prezzo.
Si è già detto che il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012 –che contiene un’espressa indicazione della propria finalità “al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno”- novella un decreto-legge recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili, costituisce un’operazione finanziariamente neutra (in termini, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, nn. 162/2013/PAR, 164/2013/PAR e 193/2013/PAR) e pertanto non rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter.
Peraltro, il comma 1-ter dell’art. 12 citato prevede espressamente una serie di obblighi concernenti le operazioni di acquisto che prevedono l'indicazione “del soggetto alienante e del prezzo pattuito” mentre nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di acquirenti sono reciproche e predicabili con riferimenti a entrambi i contraenti. Ciò costituisce un ulteriore indizio dell’inapplicabilità della disposizione in esame ai casi di permuta “pura” (in termini Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, n. 193/2013/PAR).
Tali considerazioni si applicano ai soli casi di permuta “pura”, nel presupposto dell’effettiva coincidenza di valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di permuta.
Diversamente, cioè nell’ipotesi in cui l’operazione comprenda il versamento, da parte dell’ente territoriale, della differenza di valore fra i beni immobili oggetto di permuta, con la conseguente qualificazione dell’operazione non in termini di neutralità finanziaria, si ricade nell’alveo di applicazione del comma 1-ter (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.03.2014 n. 97).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 10 del 05.03.2014, "Incentivi per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al regolamento regionale n. 2/2011 recante «Definizione degli standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale 16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo)». Avviso" (decreto D.U.O. 26.02.2014 n. 1541).

PATRIMONIOPermuta di un’area di proprietà statale con area di proprietà comunale (parere 04.03.2014 n. 98221 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2014).

febbraio 2014

PATRIMONIO: F. Palazzotto, IL DIVIETO DI RINNOVO AUTOMATICO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME PER ATTIVITÀ TURISTICO-RICREZTIVE A SEGUITO DI DANNI CAUSATI DA EVENTI ATMOSFERICI ECCEZIONALI E DANNOSI - La Corte Costituzionale, con la recente sentenza del 04.07.2013 n. 171, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l.reg. Liguria 30.07.2012, n. 24, che ha tentato di reintrodurre il rinnovo automatico delle concessioni a seguito di eventi naturali atmosferici che causassero danni. La Corte ha affermato che il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni, venendo meno agli obblighi che incombono ai sensi degli artt. 49 e 101 del TFUE e dell’art. 12 della dir. 2006/123/CE (c.d. dir. Bolkestein), viola l’art. 117,co. 1, cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, determinando altresì una disparità di trattamento tra operatori economici, in violazione dell’art. 117, co. 2, lett. e), dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore. Eliminando la proroga i concessionari non vengono ricompensati dei propri investimenti, di conseguenza vengono disincentivati ad effettuare investimenti per recuperare i beni demaniali danneggiati dalle mareggiate poiché i loro sforzi rischiano di non portare alcun vantaggio per la propria attività, stante il rischio che la loro concessione venga assegnata a un altro operatore. Adesso, sarà necessario trovare un sistema di incentivi alla riparazione dei danni subiti dai beni demaniali, necessariamente più adeguato e coerente don i principi del diritto europeo (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

PATRIMONIO: Buca ricolma d'acqua: automobilista finisce fuori strada ed il Comune paga.
La signora C.D. conveniva in giudizio il Comune di Lauria per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dell'incidente causato dalla presenza sul manto stradale di una buca ricolma d'acqua, non segnalata, che provocava la perdita di controllo dell’autovettura e la conseguente caduta della stessa nella sottostante scarpata. Il Tribunale di Lagonegro accoglieva la domanda attorea condannando il Comune convenuto al risarcimento dei danni.
La sentenza veniva impugnata dalla parte soccombente, e la Corte d’Appello di Potenza perveniva ad opposta conclusione, rigettando la domanda di risarcimento in accoglimento dei motivi di gravame proposti dal Comune.
La sig. C.D. proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso e, confermando la propria aderenza alla concezione oggettivistica della responsabilità del custode, affermava che l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito, si presume responsabile ex art. 2051 c.c., dei sinistri causati dalla particolare conformazione della strada o delle sue pertinenze.
Gli Ermellini tornano ad affrontare rilevanti questioni attinenti alla responsabilità da cosa in custodia prevista dall’art. 2051 c.c., operandone il raffronto con la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., definendone le caratteristiche sotto il profilo causale e probatorio, soffermandosi in particolare sull’analisi del concetto di caso fortuito dal punto di vista dell’idoneità ad escluderne la sussistenza.
Invero, dopo avere premesso alcune questioni processuali riguardanti la presenza di errori materiali e la formulazione dei motivi di ricorso in Cassazione, la Corte, rilevato il carattere oggettivo della responsabilità da cosa in custodia, ne analizza le caratteristiche intrinseche al fine di procedere ad un giudizio di legittimità sulla sentenza impugnata.
Pare opportuno precisare che l’oggettività della responsabilità da cosa in custodia, che la Suprema Corte giunge a definire “principio consolidato”, è stata oggetto di un dibattito giurisprudenziale che ha visto contrapporsi opposte correnti interpretative: secondo l’opinione più risalente, che può dirsi superata dalle più recenti pronunce, l’art. 2051 c.c. non configurerebbe una responsabilità oggettiva ma fondata su una presunzione di colpa, pur aggravata sotto il profilo probatorio, in quanto, in deroga alla regola generale, il danneggiato è tenuto a fornire la prova che i danni subiti derivano direttamente dalla cosa, mentre il danneggiante è onerato della prova dell’assenza di colpa per sottrarsi al risarcimento.
Tale interpretazione si fondava sul raffronto con il contratto di deposito e sull’assimilazione del proprietario della cosa oggetto di custodia, con il depositario, ritrovandone alcune analogie sotto il profilo della responsabilità. Nel contratto di deposito invero, per espressa formulazione codicistica caratterizzato da responsabilità per colpa, il depositario è tenuto ad osservare nella custodia, la diligenza del buon padre di famiglia potendosi liberare dall’obbligo di restituire la cosa affidatagli, solo in presenza del fortuito, dimostrando la non imputabilità del danno alla propria condotta.
Tale analogia è stata aspramente criticata dall'opposta corrente interpretativa, alla quale ha aderito la Corte di Cassazione nelle più recenti pronunce, che consentono di ritenere ormai consolidata l’interpretazione in chiave oggettistica della responsabilità del custode, sulla considerazione che è proprio l'aspetto relativo all'imputabilità del danno, che differenzia la responsabilità del titolare della custodia, oggettiva, da quella del depositario, fondata sulla colpa presunta. Invero il caso fortuito, che la norma individua come condizione di esclusione della responsabilità, se nel contratto di deposito influisce sul profilo soggettivo della rimproverabilità del danno, così non può dirsi nei confronti del custode, laddove incide unicamente sotto l'aspetto oggettivo del profilo causale dell’evento, riconducibile in tal caso non alla cosa che ne fonte immediata, ma ad un elemento esterno.
Pertanto non assume rilievo in sé la violazione dell'obbligo di vigilanza da parte del custode, essendo sufficiente per l'attribuzione della responsabilità, la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all'evento lesivo.
Sull’oggettività della responsabilità da cosa in custodia si fonda il regime probatorio agevolato nei confronti del danneggiato, dal momento che l'inversione dell'onere della prova in ordine al nesso causale, consente che l’attore, per ottenere il risarcimento del danno subito, si limiti a provare l'esistenza del danno e la sua derivazione causale dalla cosa, non essendo necessaria alcuna prova in ordine alla condotta tenuta dal custode stesso.
Il concetto di custodia ex art. 2051 c.c. richiede la sussistenza di un effettivo potere sulla cosa, inteso quale disponibilità giuridica e materiale, unitamente al correlativo potere di porre potenzialmente in essere interventi sulla cosa stessa al fine di impedire le conseguenze dannose di un’eventuale situazione di pericolo insita o determinatasi nella cosa stessa. Tale potere deve dirsi sussistente in capo all’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito, titolare di una responsabilità oggettiva per i danni causati dalla particolare conformazione della strada o delle sue pertinenze.
La Corte di Cassazione, in accoglimento dei motivi di gravame proposti dalla danneggiata, ribadisce la propria posizione interpretativa affermando chiaramente l’applicabilità nel caso di specie dell’art. 2051 c.c., che configura una presunzione di responsabilità oggettiva in capo al Comune.
L’efficienza causale nella determinazione dell'evento dannoso può dirsi interrotta unicamente dall'interferenza di un fattore esterno che, interferendo sulla situazione in atto incida sulla causazione del danno impedendone la derivazione diretta con la cosa custodita. Il fortuito viene a configurarsi quale impulso causale autonomo, imprevedibile ed eccezionale, in grado di produrre autonomamente l’evento o incidere sulla causazione del danno anche tramite la cosa custodita.
Si riafferma dunque una responsabilità oggettiva della pubblica amministrazione sui beni di sua proprietà, ivi comprese le strade, che attribuisce al custode convenuto di esonerarsi da responsabilità unicamente tramite la dimostrazione positiva del caso fortuito, che può consistere sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti nemmeno con l'uso dell'ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa vittima che consista nell'omissione delle normali cautele esigibili in situazioni analoghe, sia nell'impropria utilizzazione del bene pubblico, che abbia determinato l'interruzione del nesso eziologico tra lo stesso bene custodia il danno.
Nel caso di specie la Cassazione rileva che la Corte di merito di secondo grado ha erroneamente fondato la propria decisione sull’applicabilità dell’art. 2043 c.c. e non sulla norma prevista dall'art. 2051 c.c., imponendo conseguentemente un ingiustificato onere probatorio a carico del danneggiato (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 18.02.2014 n. 3793 - link a www.altalex.com).

PATRIMONIOStadi, corsia veloce alla ristrutturazione ma senza residenziale. Progetti da approvare entro 180 giorni. Legge di stabilità. Le nuove norme per gli impianti sportivi.
Corsia preferenziale per riqualificare gli stadi e gli impianti sportivi o costruirne di nuovi. Dal 1° gennaio sono in vigore le norme per il rilancio dell'impiantistica sportiva dettate dall'articolo 1, commi 303-306, della legge di Stabilità (n. 147/2013).
La cosiddetta legge stadi, pur se con qualche limitazione, asseconda concretamente l'esigenza di promuovere sia la costruzione di nuovi stadi, sia gli interventi per l'ammodernamento degli impianti esistenti. La procedura, che deve concludersi entro 120 giorni (180 in caso di atti di competenza regionale quali solitamente le varianti urbanistiche) dal suo avvio, è la seguente:
   - il soggetto interessato presenta al Comune uno studio di fattibilità corredato da un piano economico-finanziario e dall'accordo con una o più associazioni o società sportive utilizzatrici in via prevalente;
   - il Comune, ove valuti positivamente il progetto in conferenza di servizi istruttoria, lo dichiara entro 90 giorni di pubblico interesse;
   - viene quindi presentato il progetto definitivo, sul quale il Comune o la Regione -previa conferenza di servizi decisoria cui partecipano i soggetti titolari di competenze specifiche- delibera in via definitiva sul progetto, eventualmente chiedendo le modifiche ritenute strettamente necessarie.
È importante evidenziare che per legge:
   - il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o permesso comunque denominato necessario alla realizzazione dell'opera e ne determina la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza;
   - in caso di superamento dei termini fissati dalla legge il presidente del Consiglio dei ministri, su istanza del proponente, assegna all'ente interessato 30 giorni per adottare i provvedimenti necessari e, in difetto, la regione ovvero lo stesso Presidente del Consiglio per gli impianti più grandi (superiori ai 4mila posti al coperto e 20mila allo scoperto) adotta i provvedimenti necessari entro il termine di 60 giorni;
   - in caso di interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti, il progetto approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza pubblica (si veda l'articolo a fianco).
Così descritta la short-track di legge, occorre riferire delle due disposizioni frutto della mediazione maturata rispetto alle istanze di chi, per ragioni di tutela ambientale, si era opposto all'approvazione della normativa nella sua versione originale. Anzitutto, la norma precisa che lo studio di fattibilità non può prevedere altri tipi di intervento, salvo quelli strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici. È comunque esclusa la realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale.
La disposizione tutela la posizione di chi teme che dietro il rilancio dell'impiantistica sportiva si celi solo l'interesse di ottenere varianti urbanistiche accelerate (se non di favore) per rendere edificabili aree verdi periferiche o per consentire la costruzione di nuove case di alto valore, perché localizzate nelle zone centrali delle città, ove spesso si collocano gli stadi italiani (da rilocalizzare).
Può essere che la tutela sia giustificata dalla concreta esperienza dell'urbanistica italiana, certo è che la nuova norma avrebbe precluso la realizzazione dell'Emirates Stadium di Londra. Il nuovo stadio dell'Arsenal (impianto modernissimo e multifunzionale) è stato costruito su un'area acquistata dal municipio e in precedenza destinata al trattamento dei rifiuti, usando il denaro ottenuto con la vendita degli appartamenti di lusso realizzati al posto delle tribune del vecchio Highbury.
L'ultima cautela fissata dalla legge attiene al disfavore per la realizzazione di nuovi stadi. Gli interventi agevolati, infatti «laddove possibile, sono realizzati prioritariamente mediante recupero di impianti esistenti o relativamente a impianti localizzati in aree già edificate».
La norma appare pienamente giustificata, sia perché è comunque doveroso dedicarsi alla riqualificazione del patrimonio edilizio (anche sportivo) esistente prima di consumare nuovo territorio, sia perché la legge non preclude la realizzazione di nuovi impianti (comunque ammessi sui cosiddetti brownfield), anche su aree non urbanizzate purché la scelta sia assistita da idonea motivazione.
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La procedura. Ogni decisione urbanistica viene presa dalla conferenza dei servizi.
Il nodo delle varianti al Prg.

La prima ristrutturazione dello stadio di San Siro fu realizzata negli anni 30 del secolo scorso utilizzando la finanza che il Comune di Milano mise a disposizione dopo aver comprato l'impianto dalla famiglia Pirelli. I tempi sono cambiati. Il rilancio dell'impiantistica sportiva richiede ora l'intervento dei capitali privati, il cui impiego presuppone il raggiungimento dell'equilibrio finanziario tra i costi di realizzazione e gestione dell'impianto e i relativi proventi.
L'esperienza recente inoltre dimostra che la remunerazione dei capitali impiegati nell'edilizia sportiva non è garantita dal reddito prodotto dalla vendita dei biglietti e dai diritti correlati agli eventi sportivi, vale a dire i quelli che con denominazione inglese vengono definiti rights applicati su advertising (inserzioni pubblicitarie), naming (commercializzazione del nome dell'impianto o suoi settori) e puring (esclusiva di somministrazione alimenti e bevande).
Buona parte del reddito che ha permesso l'ammodernamento degli stadi in tutto il mondo deriva infatti dallo sviluppo sinergico di destinazioni d'uso diverse da quella sportiva, quali i servizi, il commercio, gli uffici e la residenza.
Questi principi sono finalmente riconosciuti anche in Italia attraverso le norme della legge di stabilità, secondo cui lo studio di fattibilità dei nuovi stadi può prevedere anche altri tipi di intervento, purché «strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa».
Per quanto la norma precisi che tra le nuove funzioni sia esclusa la residenza e richieda, in continuità con le migliori pratiche internazionali, che gli usi correlati «concorrano alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici», è evidente che la nuova legge apre la via alla realizzazione di una impiantistica moderna, multifunzionale, produttrice di reddito e di servizi per la comunità.
La possibilità di affiancare allo stadio altre destinazioni urbane pone ovviamente il problema di garantire la conformità del progetto con le previsioni del piano regolatore comunale, che non sempre consentono di affiancare agli stadi i servizi privati, il terziario e le funzioni retail. È questo un tema che accompagna tutte le politiche di governo del territorio e che notoriamente è complicato dal contrasto esistente in materia tra competenze regionali e statali.
Secondo il vigente assetto costituzionale, è esclusiva prerogativa delle Regioni dettare le regole procedurali attraverso cui mutare le previsioni urbanistiche comunali. La Corte Costituzionale ha così annullato le leggi statali che prevedevano meccanismi accelerati di variante urbanistica per favorire la riqualificazione urbana (decisione n. 393/1992), la dismissione degli immobili pubblici (decisione n. 340/2009), il social housing (decisione n. 121/2010).
La legge stadi sul punto prevede un meccanismo estremamente veloce per cambiare le previsioni dei piani regolatori che, per esempio, non consentano la realizzazione di un centro commerciale ai margini dello stadio, stabilendo che «il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o permesso comunque denominato» ivi compresa, quindi, la variante urbanistica.
Ora, è vero che in tal caso il provvedimento si forma attraverso una conferenza di servizi decisoria indetta proprio dalla Regione, ma è altrettanto vero che la procedura di variante è dettata direttamente dalla norma statale e prevede meccanismi sostitutori in capo alla presidenza del Consiglio dei ministri.
I dubbi di incostituzionalità che pendono sulla norma possono superarsi attraverso leggi regionali che recepiscano le previsioni della disciplina nazionale anche in ambito urbanistico, oppure seguendo le ordinarie procedure di variante previste in sede locale, anche utilizzando la disposizione del comma 304, per cui comunque «resta salvo il regime di maggiore semplificazione previsto dalla normativa vigente».
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Il caso. Confronto concorrenziale aperto ad altri operatori.
Proprietà pubblica, scatta la gara.

Salve poche eccezioni (Juventus e Mapei stadium, stadi di Udine, Teramo e Olimpico di Roma, del Coni) tutti gli stadi italiani sono di piena proprietà comunale. Secondo i principi comunitari recepiti nell'ordinamento italiano, la loro cessione ai privati a fini di lucro deve passare da una procedura di evidenza pubblica, ovvero da una gara.
Le prime bozze della legge stadi erano lacunose sul punto, prevedendo che qualsiasi società privata interessata a costruire e gestire gli impianti, solo per aver trovato una intesa con le associazioni fruitrici dell'impianto, avesse titolo per presentare un progetto e attuarlo direttamente se riconosciuto di interesse pubblico dal Comune.Le nuove disposizioni prescrivono ora una vera e propria procedura di gara mutuata dal modello del project financing del Codice dei contratti pubblici: «In caso di interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti –si legge nella norma– il progetto approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza pubblica, da concludersi comunque entro novanta giorni dalla sua approvazione. Alla gara è invitato anche il soggetto proponente, che assume la denominazione di promotore. Il bando specifica che il promotore, nell'ipotesi in cui non risulti aggiudicatario, può esercitare il diritto di prelazione entro quindici giorni dall'aggiudicazione definitiva e divenire aggiudicatario se dichiara di assumere la migliore offerta presentata. Si applicano, in quanto compatibili, le previsioni del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di finanza di progetto».
Se l'aggiudicatario è diverso dal proponente, è tenuto a subentrare, alle stesse condizioni, negli accordi proposti dallo stesso proponente
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014).

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: G. Totino, Il servizio pubblico di distribuzione del gas. L'Antitrust ed il Giudice Amministrativo. Nota a margine alla sentenza del Consiglio di Stato n. 6256 del 27.12.2013 (17.02.2014 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 14.02.2014, "Incentivi per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al regolamento regionale n. 2/2011 recante “Definizione degli standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale 16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo)”" (deliberazione G.R. 07.02.2014 n. 1339).

PATRIMONIODismissioni con iter alleggerito. Anche gli enti locali potranno usare la trattativa privata - Possibile sanare gli abusi edilizi. Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una sanatoria delle opere abusive e la possibilità per Comuni e Province di attivare la trattativa privata arrivano nuovi incentivi per le dismissioni di immobili pubblici, compresi quelli degli enti locali. Le novità sono contenute nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei beni pubblici:
- si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie presenti nell'immobile alienato;
- si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che possono essere oggetto di alienazione;
- si conferisce agli enti territoriali la possibilità di accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato acquirente di un immobile di presentare la domanda di sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo». Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi, riformulando il precetto normativo con l'inserimento dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà degli enti territoriali. Comuni, Province, Città metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
- gli enti territoriali dovranno individuare i beni che intendono dismettere con propria delibera;
- la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
- il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti territoriali nel proprio decreto dirigenziale di autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
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Urbanistica. L'ostacolo principale alle valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.

La valorizzazione degli immobili pubblici, intesa nel senso della loro cessione per ottenerne il controvalore in denaro, passa attraverso tre elementi essenziali: la procedura di vendita del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la verifica della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl 133/2013, convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e tre questi elementi per agevolare la dismissione del patrimonio pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che, quindi, ora potranno conferire mandato al ministero dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con delibera dagli stessi enti nei propri decreti di autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non prevalentemente abitativo». La norma così non affronta il vero tema delle modalità procedurali necessarie per cambiare la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la cui valorizzazione mediante dismissione richiede spesso l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani regolatori come immobili a servizio pubblico (standard urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19 dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa privata che ora viene così potenziata (articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2014).

PATRIMONIODismissioni con iter alleggerito. Anche gli enti locali potranno usare la trattativa privata - Possibile sanare gli abusi edilizi. Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una sanatoria delle opere abusive e la possibilità per Comuni e Province di attivare la trattativa privata arrivano nuovi incentivi per le dismissioni di immobili pubblici, compresi quelli degli enti locali. Le novità sono contenute nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei beni pubblici:
   - si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie presenti nell'immobile alienato;
   - si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che possono essere oggetto di alienazione;
   - si conferisce agli enti territoriali la possibilità di accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato acquirente di un immobile di presentare la domanda di sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo». Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi, riformulando il precetto normativo con l'inserimento dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà degli enti territoriali. Comuni, Province, Città metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
   - gli enti territoriali dovranno individuare i beni che intendono dismettere con propria delibera;
   - la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
   - il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti territoriali nel proprio decreto dirigenziale di autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
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Urbanistica. L'ostacolo principale alle valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.

La valorizzazione degli immobili pubblici, intesa nel senso della loro cessione per ottenerne il controvalore in denaro, passa attraverso tre elementi essenziali: la procedura di vendita del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la verifica della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl 133/2013, convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e tre questi elementi per agevolare la dismissione del patrimonio pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che, quindi, ora potranno conferire mandato al ministero dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con delibera dagli stessi enti nei propri decreti di autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non prevalentemente abitativo». La norma così non affronta il vero tema delle modalità procedurali necessarie per cambiare la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la cui valorizzazione mediante dismissione richiede spesso l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani regolatori come immobili a servizio pubblico (standard urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19 dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa privata che ora viene così potenziata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2014).

PATRIMONIOMessa in sicurezza di edifici scolastici e interventi senza permesso di costruire. Ecco le deroghe ammesse.
Il D.M. 906/2013 ha predisposto lo stanziamento di 150 milioni per il finanziamento di lavori di riqualificazione e messa in sicurezza delle scuole, con l’obbligo da parte degli enti locali di affidamento mediante una procedura più snella ed immediata entro il 28.02.2014, pena la revoca delle risorse disponibili.
Il Decreto del Fare ha dato facoltà a sindaci e presidenti delle Province interessate di operare in qualità di commissari governativi per gli interventi riguardanti la messa in sicurezza delle scuole.
Al fine di rispettare i tempi di affidamento dei lavori, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha firmato il Decreto attuativo del 22.01.2014, che definisce le possibili deroghe a norme e leggi di seguito riportate:
Codice Appalti (D.Lgs. 163/2006):
art. 11 (Fasi delle procedure di affidamento)
art. 12 (Controlli sugli atti delle procedure di affidamento)
art. 48 (Controlli sul possesso dei requisiti)
art. 70 (Termini di ricezione delle domande di partecipazione e di ricezione delle offerte)
art. 71 (Termini di invio ai richiedenti dei capitolati d'oneri, documenti e informazioni complementari nelle procedure aperte)
art. 122 (Disciplina specifica per i contratti, di lavori pubblici sotto soglia)
art. 123 (Procedura ristretta semplificata per gli appalti di lavori)
art. 125 (Lavori, servizi e forniture in economia)
Decreto 207/2010, tutte le disposizioni strettamente connesse agli articoli derogabili del Codice Appalti
Legge 241/1990: art. 10-bis (Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza)
D.P.R. 380/2001 (Testo Unico in Edilizia): art. 10 (Interventi subordinati a permesso di costruire) (06.02.2014 - link a www.acca.it).

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: S. Ferla, Rimborsi ai gestori uscenti, tariffe e gare d'ambito per la distribuzione gas. Note critiche sulla disposizione introdotta dal Decreto “Destinazione Italia” per porre rimedio al differenziale V.I.R./R.A.B. (art. 1, comma 16, d.l. n. 145/2013) (04.02.2014 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

gennaio 2014

PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U. 29.01.2014 n. 23, suppl. ord n. 9/L, "Testo del decreto-legge 30.11.2013, n. 133, coordinato con la legge di conversione 29.01.2014, n. 5, recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia»".

PATRIMONIOSe un ente compra immobili a caro prezzo è danno erariale.
L'acquisto di immobili da parte di un ente locale a un prezzo superiore rispetto alla valutazione operata dall'Agenzia del territorio, costituisce un esborso privo di qualsiasi utilità per la stessa amministrazione comunale e, di riflesso, un danno erariale.

È quanto ha sancito la Sez. giurisdizionale della Corte dei Conti per la regione Sardegna, nel testo della sentenza 24.01.2014 n. 12, con cui ha condannato un dirigente comunale per aver proceduto all'acquisto di alcuni immobili a prezzi ritenuti notevolmente superiori rispetto ai valori di mercato determinati dall'Agenzia del territorio, precedentemente investita dallo stesso comune al fine di acquisire una valutazione tecnica estimativa degli stessi immobili.
Il collegio della magistratura contabile sarda ha ritenuto sussistente il danno erariale, correlandolo al maggior costo sostenuto dall'ente locale per l'acquisto degli immobili sopra specificati, tenuto conto che per gli stessi beni l'Agenzia del territorio, su richiesta del comune, aveva reso dei pareri fondati su valutazioni che tenevano conto degli aspetti urbanistici e previa specificazione delle metodologie estimative adottate.
La valutazione dell'Agenzia, a detta della Corte, consentiva (se fosse stata seguita) non solo di determinare il più probabile valore di mercato degli immobili in questione (e in ciò consistevano le consulenze tecnico-estimali richieste all'Agenzia del territorio), ma altresì di potersi opporre alle eventuali ulteriori pretese dei proprietari. È pertanto pacifico la sussistenza di una condotta gravemente colposa tenuta dal responsabile del servizio tecnico che, piuttosto che attenersi ai valori di mercato determinati dall'Agenzia, «inspiegabilmente e immotivatamente» ha proceduto all'acquisto degli immobili determinando i maggiori costi per le casse comunali.
Infine, a nulla può valere l'eccezione sollevata dalla difesa, consistente nella probabile resistenza che i proprietari degli immobili avrebbero opposto ove si fossero mantenuti i prezzi determinati dalla suddetta Agenzia, con la conseguenza di dover ricorrere a procedimenti espropriativi connotati da tempi non compatibili con le esigenze dell'ente locale e della comunità amministrata. Infatti, la Corte ha rimarcato che una tale evenienza si pone in radicale contrasto con la possibilità di utilizzare legittimamente, in alternativa all'acquisto diretto degli immobili, lo strumento giuridico dell'espropriazione previsto dalla normativa vigente (articolo ItaliaOggi del 30.05.2014).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 23.01.2014 n. 18, suppl. ord. n. 8, "Criteri ambientali minimi per l’acquisto di lampade a scarica ad alta intensità e moduli led per illuminazione pubblica, per l’acquisto di apparecchi di illuminazione per illuminazione pubblica e per l’affidamento del servizio di progettazione di impianti di illuminazione pubblica - aggiornamento 2013" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 23.12.2013).

PATRIMONIO: Valutazione dei rischi e gestione della sicurezza nelle scuole: dall’Inail il manuale completo.
L’Inail in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca ha pubblicato un utile manuale (giugno 2013) sulla valutazione dei rischi e gestione della sicurezza nelle scuole.
Il volume, rivolto alle scuole di ogni ordine e grado, fornisce modelli, procedure e regolamenti per una buona gestione della sicurezza in ambito scolastico, in base alle recenti disposizioni legislative.
Obiettivo della pubblicazione è quello di favorire la conoscenza della sicurezza nelle scuole, sia sul piano educativo che formativo ed offrire un utile strumento a docenti, personale dirigente e consulenti per la sicurezza per un’efficace individuazione, valutazione e gestione dei rischi.
Il documento affronta tutte le tipologie di rischio presenti negli ambienti e negli spazi in cui si svolgono le attività scolastiche e tratta i diversi aspetti legati alla sicurezza, tra cui segnaliamo:
normativa in materia di sicurezza nella scuola
processo di valutazione dei rischi e di individuazione delle misure di prevenzione
problematiche strutturali e di igiene ambientale
gestione degli agenti chimici
gestione del rischio fisico
gestione del rischio biologico
dispositivi di protezione individuale
aspetti ergonomici
benessere organizzativo e gestione dello stress lavoro-correlato
gestione degli infortuni e delle malattie professionali
sorveglianza sanitaria
rischi per le lavoratrici madri
informazione, formazione e addestramento
gestione delle emergenze
gestione del primo soccorso
E’ presente anche un utile glossario con i termini della sicurezza (16.01.2014 - link a www.acca.it).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 13.01.2014, "Aggiornamento tecnico della direttiva per la gestione organizzativa e funzionale del sistema di allerta per i rischi naturali ai fini di protezione civile (d.g.r. 8753/2008)" (decreto D.U.O. 30.12.2013 n. 12812).

dicembre 2013

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI: Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014) - Selezione norme di interesse dei Comuni (ANCI, dicembre 2013).

PATRIMONIO - VARI: La tassazione dei trasferimenti immobiliari a titolo oneroso dal 01.01.2014.
Sommario: 1. Gli atti di cui all’art. 1 della tariffa; 2. I riflessi sulla tassazione delle cessioni soggette ad IVA; 3. La tassazione degli acquisti della cd. prima casa; 4. I trasferimenti a titolo oneroso dei terreni agricoli; 5. La tassazione degli atti societari; 6. L’imposta “minima” per gli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso; 6.1 L’imposta “minima” per alcune fattispecie particolari; 6.2 La natura dell’ammontare minimo – lo scomputo; 7. Il cd. assorbimento degli altri tributi: le regole del comma 3 dell’art. 10; 8. La soppressione di esenzioni e agevolazioni; 9. L’entrata in vigore della disciplina dell’art. 10; 10. Aumento delle imposte fisse nella misura di 200 euro: decorrenza (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 30.12.2013 n. 1011-2013/T).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 18.12.2013, "Approvazione iniziativa anno 2014 per l’accesso ai contributi in conto capitale a fondo perduto per la riqualificazione delle palestre scolastiche di uso pubblico esistenti" (decreto D.S. 13.12.2013 n. 12217).

ENTI LOCALI - PATRIMONIO: G.U. 14.12.2013 n. 293 "Testo del decreto-legge 15.10.2013, n. 120, coordinato con la legge di conversione 13.12.2013, n. 137, recante: «Misure urgenti di riequilibrio della finanza pubblica nonché in materia di immigrazione»".
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Di particolare interesse, si legga:
Art. 2-bis - Facoltà di recesso delle pubbliche amministrazioni da contratti di locazione

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 03.12.2013, "Modifiche alla legge regionale 04.12.2009, n. 27 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica)" (L.R. 02.12.2013 n. 17).

PATRIMONIO: Contratto di locazione passiva.
Domanda
In caso di rinnovo del contratto di locazione passiva a un Comune (conduttore) si applica la riduzione del 15% del canone?
Risposta
L'art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012 prevede ai fini del contenimento della spesa pubblica, l'ulteriore misura della riduzione dei canoni pagati dalle amministrazioni pubbliche, ivi previste, del 15% di quanto attualmente in essere, dal primo gennaio 2015, salvo il diritto di recesso garantito al locatore. La norma prevede, poi, che a decorrere dal 15.08.2012 la riduzione del 15% si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data.
Specificamente, l'art. 3, comma 4, identifica le amministrazioni pubbliche coinvolte dalla misura di contenimento della spesa indicando le amministrazioni centrali inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché le Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob).
Per quanto concerne il quesito posto circa l'applicazione o meno della riduzione del 15% agli enti locali, si segnala il parere della Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Lazio, n. 3 del 10.01.2013, in ordine ad una richiesta proveniente da un sindaco e concernente l'applicazione o meno agli enti locali delle disposizioni di cui all'art. 3, commi 4, 5 e 6 del dl n. 95/2012.
In particolare, il giudice contabile circoscrive l'attenzione sul comma 6, il quale, osserva, è espressamente dettato per le amministrazioni richiamate dal comma 4, che si riferisce alle amministrazioni centrali come individuate dall'Istat ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196. Per cui, prosegue, il giudice contabile, non rientrando i comuni tra le amministrazioni centrali, è da ritenere che la disposizione di cui al comma 6 (riduzione 15% del canone) non possa ad essi applicarsi (articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2013).

novembre 2013

PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U. 30.11.2013 n. 281 "Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia" (D.L. 30.11.2013 n. 133).

PATRIMONIO: Concessione ad associazione.
Domanda
Un dirigente pubblico che concede un immobile del Comune in uso gratuito a un'associazione privata commette danno erariale?
Risposta
Al fine di rispondere al quesito posto è preliminarmente opportuno precisare, come più volte ribadito dalla Magistratura contabile, che le Pubbliche amministrazioni sono tenute a valorizzare il patrimonio immobiliare pubblico e che tale valorizzazione consiste in primis nel ricavare un reddito dalla gestione degli stessi.
La concessione e/o comodato a titolo gratuito è pertanto vista come extrema ratio (cfr. parere Corti conti Veneto n. 33/2009). Solo in caso in cui l'utilità sociale per la comunità è maggiore del ricavato economico (ex Università, Croce Rossa) è ammessa la concessione e/o comodato a titolo gratuito. Diversamente il comportamento tenuto dall'Amministrazione costituisce danno erariale. È comunque consigliabile prevedere i casi circoscritti in cui è ammesso l'uso a titolo gratuito degli immobili pubblici, con apposito regolamento, approvato dal Consiglio comunale.
In merito è inoltre opportuno precisare che la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Sardegna , con una recente sentenza (n. 234 del 16.09.2013), ha statuito che non determina alcun danno erariale il dirigente comunale che concede un immobile del Comune in uso gratuito a un'associazione privata se da ciò deriva un corrispettivo indiretto all'ente come lo svolgimento di servizi e attività di utilità pubblica, nonché gli obblighi di gestione e manutenzione dell'immobile in capo all'associazione stessa (articolo ItaliaOggi Sette del 25.11.2013).

APPALTI - PATRIMONIO: Deve essere esclusa dalla gara pubblica l'impresa che non ha prodotto l'attestazione del R.U.P. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta a pena di esclusione dal disciplinare di gara; ciò in quanto, con il richiedere l'attestazione della presa di conoscenza delle condizioni locali e di tutte le circostanze che possono influire sull'esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa responsabilità contrattuale di quest'ultimo.
La provenienza di detto documento dall'Amministrazione aggiudicatrice assicura a quest'ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di ordine imperativo, all'individuazione del contraente più idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, e, dunque, in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo contenuto.
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Non è applicabile la norma contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il principio della tassatività delle cause di esclusione dalla gare pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non costituisce norma di principio estensibile al di fuori di tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione (se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis, autovincolante per l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, altresì, la norma, espressiva invece di un principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere di soccorso”, atteso che, una volta constatata la sostanziale assenza di un requisito essenziale per la partecipazione in corso di gara, la conseguente regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in un'integrazione della domanda proposta, configurandosi perciò come una violazione del principio della "par condicio" nei riguardi di altri concorrenti.

Peraltro, come si evince da pag. 12 del predetto avviso, con inciso riportato con caratteri in grassetto ed opportunamente sottolineato, la lex specialis ha disposto che “La mancata presentazione di uno solo dei documenti, dichiarazioni o della cauzione costituisce automatica esclusione dalla partecipazione alla gara”.
Inoltre, l’art. 4 della lex specialis prescrive chiaramente che il concorrente doveva presentare, per ogni singolo lotto cui intendeva partecipare, a pena di esclusione, un plico contenente un’elencazione di documenti, tra cui, per la busta relativa alla documentazione amministrativa, l’attestazione per cui è causa; l’art. 9, relativo alle disposizioni di carattere generale, ribadiva che “L’assenza dei requisiti richiesti per la partecipazione alla gara e la violazione delle prescrizioni previste dal presente avviso determineranno l’esclusione dalla gara”.
Né tale omissione è surrogabile da un’autocertificazione ex d.P.R. 28.12.2000, n. 445 poiché l’efficacia probatoria equivalente di quest’ultima è stata espressamente esclusa, nella specie, dalla lex specialis, che ha prescritto un mezzo di prova più rigoroso.
Come d’altra parte ha già statuito la Sezione in caso analogo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 03.07.2012, n. 3881, attinente agli appalti pubblici di lavori), deve essere esclusa dalla gara pubblica l'impresa che non ha prodotto l'attestazione del R.U.P. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta a pena di esclusione dal disciplinare di gara; ciò in quanto, con il richiedere l'attestazione della presa di conoscenza delle condizioni locali e di tutte le circostanze che possono influire sull'esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa responsabilità contrattuale di quest'ultimo. La provenienza di detto documento dall'Amministrazione aggiudicatrice assicura a quest'ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di ordine imperativo, all'individuazione del contraente più idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, e, dunque, in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo contenuto.
Non è, invece, applicabile la norma contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il principio della tassatività delle cause di esclusione dalla gare pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non costituisce norma di principio estensibile al di fuori di tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione (se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis, autovincolante per l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, invece, la norma, espressiva invece di un principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere di soccorso”, atteso che, una volta constatata la sostanziale assenza di un requisito essenziale per la partecipazione in corso di gara, la conseguente regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in un'integrazione della domanda proposta, configurandosi perciò come una violazione del principio della "par condicio" nei riguardi di altri concorrenti.
Non rilevanti sono le questioni relativa alla numerosità delle prescrizioni a pena di esclusione e non sono fondate quelle in ordine alla violazione del cd. favor partecipationis (come appena detto, non applicabile nel caso di violazione del principio della par condicio dei concorrenti) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.11.2013 n. 5470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIOFederalismo demaniale. Gli effetti dell'«obolo» del 10 per cento. L'incognita del Patto frena le alienazioni.
Il 10% dei proventi netti derivanti dalle alienazioni immobiliari di Comuni e Province va destinato al fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.

Secondo l'articolo 56-bis, comma 11, del Dl 69/2013 gli enti territoriali devono destinare al bilancio statale parte delle risorse nette ricavabili dalla vendita dell'originario patrimonio immobiliare disponibile, salvo l'obbligo di utilizzo delle entrate per il ripristino dei limiti massimi di indebitamento consentiti dall'ordinamento contabile vigente.
La restante parte di risorse non destinabili al Fondo dovrà essere utilizzata per la copertura di spese di investimento oppure, per la parte eccedente, per la riduzione del debito (articolo 1, comma 443, della legge 228/2012).
Le modalità attuative andranno definite con decreto, ma i rischi di censura costituzionale della norma sono evidenti. Già con la sentenza 63 del 26.03.2013, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità di una regola analoga, con cui si prevedeva questo vincolo di destinazione in caso di vendita di terreni agricoli regionali.
Resta il fatto che, in assenza di chiarimenti ufficiali, i bilanci di Comuni e Province dovranno tenere conto della norma e prevedere uno stanziamento in conto capitale per l'ammortamento dei titoli di Stato, oppure costituire un vincolo di destinazione all'eventuale avanzo di amministrazione 2013.
Occorre tuttavia riflettere su alcune difficoltà applicative.
La valorizzazione del patrimonio degli enti locali può infatti comportare la necessità di cessione tramite permuta dei propri immobili, oppure il loro utilizzo secondo le finalità fissate dall'articolo 53, comma 6, del Dlgs 163/2006: in base a questa norma, l'appalto di lavori pubblici può prevedere, a titolo di corrispettivo totale o parziale, il trasferimento all'affidatario della proprietà di beni immobili appartenenti all'amministrazione aggiudicatrice,
In questo caso, l'obbligo di destinazione al bilancio statale di parte dei proventi derivanti dalle alienazioni impone la contabilizzazione netta del valore degli immobili, con evidenti effetti negativi a livello finanziario, economico e patrimoniale per gli enti cedenti.
Anche sulla cessione di aree Peep (piani di edilizia economica popolare), in quanto tecnicamente configurabile alienazione patrimoniale, dovrebbe gravare il vincolo di destinazione imposto dall'articolo 56-bis.
Poiché i proventi da dismissione patrimoniale costituiscono entrata rilevante per il calcolo dei saldi finanziari utili al rispetto del Patto di stabilità interno, occorrerebbe poi chiarire se anche l'uscita ad essi inerente, ma finalizzata ad alimentare il Fondo per l'ammortamento dei titolo di Stato, debba essere considerata, con segno negativo, ai fini della verifica degli obiettivi di finanza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

ENTI LOCALI - PATRIMONIOIndirette. Da gennaio aumenti del 300%. Dal registro stangata per gli enti locali.
È destinata a colpire soprattutto gli enti locali la riforma della tassazione indiretta -Registro e imposte ipocatastali- che dal 01.01.2014 riguarderà i trasferimenti immobiliari. Per tutte le operazioni dei Comuni non assoggettate ad Iva la botta sarà pesante: sul versante delle vendite, ad esempio, non saranno più agevolate le cessioni di alloggi sociali, di aree Peep e/o Pip, di aree o opere di urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di convenzioni di lottizzazione, di immobili di interesse storico-artistico; sul versante degli acquisti, poi, nuove e più pesanti aliquote di tassazione riguarderanno tutti gli acquisti di beni immobili (terreni o fabbricati), compresi gli espropri e i trasferimenti da privati.

A delineare questo scenario è l'articolo 10 del Dlgs 23/2011, che entrerà in vigore dall'anno prossimo. La norma modifica radicalmente la tassazione a Registro dei trasferimenti immobiliari, e incrementa l'imposta fissa da 168 a 200 euro. Nelle operazioni imponibili ad Iva, invece, non ci saranno modifiche apprezabili, dal momento che per, effetto della alternativa Iva/Registro, troverà applicazione l'imposta fissa.
Per la generalità degli atti, l'aliquota base passa dall'8 al 9 per cento; l'unica deroga riguarderà le prime case non di lusso, il cui trasferimento sconterà un'aliquota che passa dal 3 al 2 per cento. Tutte le altre ipotesi di tassazione dei trasferimenti immobiliari previste dall'articolo 1 della Tariffa, parte I° -di solito più favorevoli rispetto all'aliquota dell'8%- vengono abrogate. Allo stesso tempo, l'articolo 10 sopprime tutte le ulteriori agevolazioni, e introduce un minimo fisso da mille euro per i trasferimenti immobiliari.
Altre novità sono state poi introdotte dall'articolo 26 del Dl 104/2013. Per i soli trasferimenti immobiliari, dal 1° gennaio le attuali imposte ipotecarie e catastali verranno sostituite da una tassa fissa di 50 euro per ognuna delle due imposte; nelle altre ipotesi di tassazione l'imposta fissa, oggi fissata in 168 euro per ognuna delle tre imposte (Registro, ipotecaria e catastale), aumenta a 200 euro.
Queste novità rivoluzionano l'articolo 1 della Tariffa, che ora prevede due sole ipotesi di tassazione a Registro degli atti di trasferimenti della proprietà e dei diritti reali su immobili: l'aliquota ordinaria passa dall'8 al 9%, e resta una sola aliquota ridotta per i trasferimenti di prime case non di lusso, che passa dal 3 al 2%: resta in ogni caso ferma la misura minima di 1000 euro: una tassazione che risulta quanto mai regressiva e penalizzante in relazione ai tanti provvedimenti di esproprio di modesto importo. La costituzione di un diritto di servitù o l'esproprio di un reliquato stradale da poche centinaia di euro subirà aumenti di tassazione anche oltre il 300%.
A colpire gli enti locali è anche l'abrogazione di molti "regimi speciali". Rispetto all'attuale imposta fissa di Registro, verrà applicata l'aliquota proporzionale del 9% sugli atti di trasferimento di aree Peep o Pip, le concessioni del diritto di superficie, le cessioni gratuite di aree a Comuni, atti e contratti di attuazione di programmi di edilizia residenziale, gli espropri di aree produttive, gli atti di redistribuzione immobiliare e le operazioni di ricomposizione fondiaria. Stesso incremento di aliquote per le cessioni di aree o opere a scomputo: dato atto che l'articolo 51 della legge 342/2000 esclude da Iva le cessioni nei confronti dei Comuni di aree od opere di urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di convenzioni di lottizzazione. Dal 2014 l'agevolazione sarà ridotta per effetto dell'inasprimento dell'aliquota di Registro, che compenserà quasi del tutto l'esclusione da Iva di queste operazioni.
Molti aumenti colpiranno poi le cessioni di alloggi sociali non soggette ad Iva da parte di Comuni e Iacp, che al posto del Registro fisso di 168 euro sconteranno 100 euro di ipotecaria e catastale più il 2% di Registro (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 11.11.2013 n. 264 "Testo del decreto-legge 12.09.2013, n. 104, coordinato con la legge di conversione 08.11.2013, n. 128, recante: «Misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca»".
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Di interesse si leggano:
● Art. 10 - Mutui per l’edilizia scolastica e per l’edilizia residenziale universitaria e detrazioni fiscali
● Art. 10-bis - Disposizioni in materia di prevenzione degli incendi negli edifici scolastici
● Art. 10-ter - Interventi di edilizia scolastica

PUBBLICO IMPIEGO: Videoregistrazioni.
Domanda
Sono utilizzabili in sede penale, ai fini della prova di un reato commesso dal dipendente, le videoregistrazioni effettuate direttamente dal datore di lavoro?
Risposta
L'art. 4 St. Lav. è una disposizione mirata e limitata al divieto di controllo della attività lavorativa in quanto tale, ovvero al divieto di controllo della corretta esecuzione della ordinaria prestazione del lavoratore subordinato, ma tale stessa disposizione non impedisce, invece, i controlli destinati alla difesa dell'impresa rispetto a specifiche condotte illecite del lavoratore o, comunque, a tutela del patrimonio aziendale.
Secondo la Giurisprudenza vale la piena utilizzabilità ai fini della prova di reati anche delle videoregistrazioni effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario del divieto, laddove agisca non per il controllo della prestazione lavorativa ma per specifici casi di tutela dell'azienda rispetto a specifici illeciti.
Perciò non è esatto affermare che dalla citata disposizione dello Statuto dei Lavoratori discenda un divieto probatorio che riguardi la polizia giudiziaria, sia perché il divieto, coerentemente con la sua funzione, è testualmente riferito al datore di lavoro e sia perché il divieto riguarda solo il controllo dell'esecuzione dell'ordinaria attività lavorativa (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

PUBBLICO IMPIEGOCome si configura il mobbing?
Il c.d. «mobbing» è una condotta protrattasi nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente, in violazione degli obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ. Esso si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

PATRIMONIO: Oneri assicurativi per convenzioni con associazioni.
Compete alle associazioni/imprese agricole, con cui il Comune stipula una convenzione per l'attività di pulizia a titolo gratuito, provvedere alla copertura assicurativa dei propri collaboratori. Nel caso di convenzione con le organizzazioni di volontariato o le associazioni di promozione sociale (lr 23/2012) i relativi oneri assicurativi sono a carico degli enti con cui la convenzione è stipulata.
Il Comune intende stipulare una convenzione con delle associazioni locali e delle aziende agricole che si sono rese disponibili, a titolo gratuito, ad attività di pulizia del territorio.
Il Comune, che si limiterà unicamente a fornire il carburante, chiede di conoscere i propri eventuali profili di responsabilità tanto nel caso di infortunio che dovesse occorrere ad un soggetto operante per conto di taluna delle suddette associazioni e/o aziende agricole, quanto nel caso di danni arrecati a terzi nello svolgimento delle attività dedotte in convenzione.
In ambedue i casi l'ente chiede di conoscere se sia legittima la stipula di idonea polizza assicurativa.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni premettendo che non compete allo scrivente Ufficio esprimersi in ordine alla legittimità di atti/attività posti in essere dagli enti locali.
Si osserva, innanzi tutto, come secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato
[1] gli aderenti alle associazioni che presteranno la loro attività in forma volontaria non pare possano essere assimilati ai prestatori di lavoro subordinato di cui all'articolo 2094 del codice civile. Un tanto come già chiarito nel parere prot. 13600 dd. 06.03.2012, reso dallo scrivente, che s'intende qui integralmente richiamato [2].
Inoltre, tanto le associazioni quanto le aziende agricole in commento, nella misura in cui per lo svolgimento della propria attività si avvalgono di singoli soggetti a vario titolo (volontari, associati, lavoratori dipendenti etc.), dovrebbero essere dotate di un'organizzazione interna facente capo ad uno o più responsabili i quali saranno tenuti all'osservanza delle disposizioni di cui al d.lgs. 09.04.2008, n. 81, recante 'Attuazione dell'articolo 1 della legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro'.
Un tanto pare poter escludere che eventuali profili di responsabilità del Comune siano riconducibili a quella del datore di lavoro ai sensi del summenzionato d.lgs. 81/2008.
Da quanto premesso sembra potersi affermare che compete alle associazioni/imprese agricole in commento provvedere alla copertura assicurativa dei propri collaboratori. Un tanto, peraltro, è espressamente previsto dalla disciplina delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale (lr 23/2012) la quale dispone (mediante un rinvio alla disciplina statale di cui rispettivamente all'art. 4 della l. 266/1991 e all'art. 30 della l. 383/2000) che le predette organizzazioni/associazioni che svolgono attività mediante convenzioni devono assicurare i propri aderenti, che prestano tale attività, contro gli infortuni e le malattie connessi con lo svolgimento dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso terzi e che i relativi oneri assicurativi sono a carico degli enti con cui la convenzione è stipulata.
Si suggerisce, in ogni caso, che tanto le attività che verranno poste in essere dalle associazioni e/o aziende agricole, quanto gli obblighi relativi alla sicurezza, gravanti sui responsabili di queste, vadano espressamente riscontrati nelle convenzioni, che verranno approvate tanto dagli organi competenti delle associazioni e/o aziende agricole quanto dell'Ente locale.
Va inoltre tenuto presente che i singoli soggetti incaricati delle attività dedotte in convenzione opereranno su immobili di proprietà dell'Ente instante e, presumibilmente, secondo le direttive con esso concordate. Sulla base di tali presupposti sembra opportuno che il Comune adotti, comunque, tutte le precauzioni ritenute utili, in ossequio ai criteri di diligenza e prudenza che, in via preventiva, possano escludere o ridurre, per quanto possibile, i fattori di rischio nell'impiego dei predetti soggetti, in ossequio del principio del neminem laedere, a tutela dei diritti soggettivi primari, quali la salute fisica e morale e degli altri principi che sicuramente informano lo statuto dell'Ente, quali la salvaguardia del benessere e della sicurezza dei propri cittadini.
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[1] Consiglio di Stato, Sez. I, 21.01.2004, n. 2040.
[2] Il parere è reperibile sul portale delle autonomie locali all'indirizzo internet: http://autonomielocali.regione.fvg.it
(06.11.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIOIl Comune paga per le buche in strada. Infortuni stradali. La rete estesa non è una giustificazione.
Il gestore di una strada ha sempre l'obbligo di tenerla in condizioni di sicurezza e non può più liberarsene semplicemente affermando che l'estensione della propria rete stradale è talmente estesa da non consentirne una sorveglianza puntuale e continua.

È il cosiddetto obbligo di custodia, che è stato riaffermato dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza 05.11.2013 n. 24793, depositata ieri. Ma ciò non basta a sollevare il danneggiato da ogni responsabilità: dev'essere lui a dimostrare di aver percorso la strada «con la dovuta attenzione» e, se si tratta di un pedone, con le scarpe adatte.
La questione sta nell'interpretare l'articolo 2051 del Codice civile, che prevede la responsabilità che ha il custode (e il gestore della strada è assimilato ad esso, come prevede il regio decreto 2056 del 1923) sulle cose che ha in custodia, «salvo che provi il caso fortuito». Per anni, sulla scia della sentenza 156/1999 della Consulta, la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che l'estensione della rete bastasse di per sé a configurare il caso fortuito. Ma già negli ultimi cinque anni la Corte aveva adottato un'interpretazione più restrittiva per il gestore.
La durata dei processi ha fatto sì che ci siano ancora casi in cui c'è un verdetto che risale a prima e che non sono ancora arrivati alla sentenza definitiva. Uno di questi è appunto quello deciso dalla Cassazione con la sentenza depositata ieri, che si riferisce alla frattura di una gamba riportata da una signora inciampata sul dislivello tra una basola e l'altra di una via di Napoli. L'infortunio è del 2001 e la pronuncia della Corte d'appello era del 2006.
La causa si era sviluppata fondamentalmente sul fatto che il Comune non potesse garantire una custodia effettiva della sua rete stradale, a causa della sua vasta estensione (e quindi non poteva essere ritenuto responsabile della sua custodia) e sul fatto che la donna abitasse nel quartiere dov'è avvenuto l'incidente (e quindi ne conoscesse lo stato delle strade). Si era anche discusso se fosse configurabile una responsabilità da fatto illecito (articolo 2043 del Codice civile), perché il dislivello era occultato da immondizia e scarsa illuminazione.
La Cassazione ha ricordato che ora la sua giurisprudenza è cambiata. I giudici si riferiscono alla sentenza 20427/2008, che solleva l'ente proprietario della strada dalle sue responsabilità solo se dimostra di non aver potuto fare nulla per evitare il danno, causato da un evento improvviso.
La sentenza di appello sulla vicenda di Napoli si limitava a respingere la richiesta di risarcimento perché all'epoca l'obbligo di custodia non era inteso in modo così stringente. Quindi in appello non ci si era addentrati nell'analisi dell'eventuale responsabilità della donna. La Cassazione ha quindi rinviato il caso in appello, dove si dovrà considerare che il Comune ha una sua responsabilità e la si dovrà comparare a quella che eventualmente emerge dalla distrazione della danneggiata e al fatto che potesse indossare scarpe che hanno amplificato il danno (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2013).

ottobre 2013

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 44 del 30.10.2013, "Disposizioni in materia ambientale. Modifiche alle leggi regionali n. 26/2003 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), n. 7/2012 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione) e n. 5/2010 (Norme in materia di valutazione di impatto ambientale)" (L.R. 29.10.2013 n. 9).

PATRIMONIO: Diniego di concessione demaniale.
Domanda
È legittimo il comportamento dell'Amministrazione che, a fronte della presentazione di istanza di concessione da parte di un terzo, nega il rilascio di una concessione demaniale, senza preventivamente comunicarne i motivi ostativi?
Risposta
L'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e smi prevede che «nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti».
Tale principio generale si applica anche in materia di concessioni demaniali. Pertanto, nel merito del quesito posto, se l'Amministrazione intende respingere una istanza di concessione demaniale, anche se nell'esercizio dei propri poteri discrezionali, occorre trasmettere il preavviso previsto dall'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e smi (cfr. Consiglio di stato, sezione VI n. 3614 del 09/07/2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013).

PATRIMONIO: Corte conti. Legittime le permute alla pari.
Solo le permute «pure» (in cui gli immobili vengono scambiati alla pari senza il pagamento di una differenza in termini di prezzo) sono escluse dal divieto che, ai sensi della legge di stabilità 2013, ha colpito tutte le amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della p.a. tenuto dall'Istat (e quindi anche gli enti locali).

Lo ha chiarito la Corte conti del Veneto nel parere 23.10.2013 n. 302, emessa su richiesta del comune di Chioggia che voleva sapere se fosse o meno legittima un'operazione che prevedeva l'acquisizione da parte dell'ente di un immobile di proprietà della Marina militare a fronte dell'impegno a realizzare (per un valore equivalente) un intervento di ristrutturazione su un immobile di proprietà della Marina.
La Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza in materia che in più di un'occasione ha ristretto l'ambito applicativo del divieto ai soli acquisti «a titolo derivativo» tra privati. Sulla base di questo presupposto, la sezione veneta ha sempre escluso che la locuzione «acquisti a titolo oneroso», contenuta nella legge, potesse estendersi anche alle espropriazioni per pubblica utilità (che fanno acquisire la proprietà a titolo originario e senza il pagamento di un corrispettivo in senso tecnico).
La Corte estende l'esonero anche alle permute a parità di prezzo, in quanto le stesse rispettano «la ratio della norma vincolistica volta a escludere esborsi di denaro a titolo di corrispettivo».
Le tesi della Corte conti Veneto sono state recepite nel decreto sui pagamenti della p.a. (dl n. 35/2013, convertito nella legge n. 64) che all'art. 10-bis ha espressamente escluso dal divieto «le procedure relative agli acquisti a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità, le permute a parità di prezzo» e infine le operazioni di acquisto programmate da delibere assunte dagli enti prima del 31.12.2012 (articolo ItaliaOggi del 29.10.2013).

PATRIMONIO: Insidia stradale e condotta negligente del danneggiato: P.A. senza responsabilità.
Nel danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica.
Il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti non può prescindere da un modello relazionale, per cui la cosa deve essere vista nel suo normale interagire con il contesto dato talché una cosa inerte può definirsi pericolosa quando determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante.
Pertanto, se il contatto con la cosa provochi un danno per l’abnorme comportamento del danneggiato, difetta il presupposto per l’operare della presunzione di responsabilità di cui l’art. 2051 cod. civ., atteggiandosi in tal caso la cosa come mera occasione e non come causa del danno. In particolare, poi, in tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso.
In applicazione degli enunciati principi, già espressi in precedenti pronunce, la Corte di cassazione ha ritenuto di confermare la decisione con la quale il la corte di merito, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda di risarcimento danni avanzata nei confronti di un’amministrazione comunale dal conducente di un ciclomotore rimasto vittima di lesioni personali in conseguenza di una caduta dovuta ad una buca presente sul manto stradale.
Facendo corretta applicazione del suddetto criterio relazionale, osserva il giudice di legittimità nella parte motiva, si rileva come nel caso in esame il conducente del motorino fosse ben a conoscenza dell’esistenza di buche sulla strada da lui percorsa per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle.
Inoltre, affrontando sia il problema dell’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ. alla custodia esercitata dagli enti territoriali sulle strade demaniali, sia quello relativo al valore da attribuire alla non visibilità e non prevedibilità dei dissesti del manto stradale, la corte del merito, conclude la Cassazione, ha rilevato che la buca in corrispondenza della quale il conducente è caduto era ampiamente prevedibile e che tanto risulta sia dalle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo ai Vigili Urbani, sia dal verbale degli stessi, sia da quanto dichiarato da un testimone. In conclusione, non opera pertanto nel caso in esame la presunzione di responsabilità ex art. 2051 cod. civ. in quanto, essendo il conducente del motorino a conoscenza dell’esistenza di buche, ben avrebbe potuto evitarle.
In seguito a tale conoscenza gravava su di lui la prova della non visibilità e non prevedibilità, il cui onere nel caso specifico, non è stato adempiuto (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 22.10.2013 n. 23919).

PATRIMONIO: Concessione di un'area demaniale.
Domanda
È legittimo escludere un concorrente, che abbia commesso un'irregolarità contributiva di minima entità, da una procedura ad evidenza pubblica per la concessione di un'area demaniale marittima?
Risposta
Alla procedura per il rilascio di una concessione demaniale marittima non sono direttamente applicabili le disposizioni che disciplinano l'aggiudicazione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Nello specifico è illegittima l'esclusione del concorrente che sia stata disposta per un'irregolarità contributiva di minima entità, ed è altresì illegittima la clausola del bando che rechi una simile previsione, dal momento che risulta violato il principio di proporzionalità (cfr. Tar Lazio, sezione Latina n. 618 del 15/07/2013).
L'esigenza della proporzionalità nell'azione amministrativa si articola infatti nei distinti profili inerenti: 1) l'idoneità, ovvero il rapporto tra il mezzo adoperato e l'obiettivo perseguito; 2) la necessarietà, ovvero l'assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in maniera minore sulla sfera del singolo; 3) l'adeguatezza ovvero la tollerabilità della restrizione per il privato (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

PATRIMONIOBuche in strada costose. Appaltatore dei lavori sempre responsabile. Cassazione: non rileva che le risorse della p.a. siano insufficienti.
La società che accetti le condizioni contrattuali dell'appalto dettate dall'amministrazione si assume la responsabilità per tutte le conseguenze dannose che possano derivare a terzi in esecuzione dei lavori, e ciò anche laddove le risorse messe a disposizione dalla stazione appaltante risultino inadeguate o insufficienti.

Lo ha stabilito la IV Sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza 16.10.2013 n. 42498.
Nel caso concreto il comune di Roma ha affidato a una società la manutenzione ordinaria, la sorveglianza e l'intervento sulla grande viabilità del territorio romano. Durante i lavori è accaduto che un ciclista, percorrendo uno dei viali sotto manutenzione, si sia imbattuto in una buca profonda quasi venti centimetri, cadendo rovinosamente a terra e riportando diverse lesioni.
Dell'incidente è stato chiamato a rispondere l'amministratore unico della società appaltatrice, sottoposto a procedimento penale innanzi al giudice di pace per il reato di lesioni colpose. L'accusa mossa nei suoi confronti dalla procura è stata quella di aver adempiuto negligentemente agli obblighi nascenti dall'appalto, omettendo la dovuta vigilanza sui pericoli nascenti dall'incarico posto che la buca da cui era scaturito l'incidente del ciclista non era stata segnalata né erano state apprestate misure impeditive al verificarsi di eventi dannosi del tipo di quello accaduto.
All'esito del processo di primo grado il giudice ha ritenuto fondata la tesi della procura, di conseguenza condannando l'imputato alla pena della multa assieme al risarcimento dei danni patiti della parte civile. Della stessa opinione è stato il tribunale monocratico, adito in appello dai difensore dell'amministratore unico: per entrambi i giudici di merito, infatti, la responsabilità dell'imputato derivava dal non aver lo stesso adempiuto agli obblighi contrattuali di vigilanza, da effettuarsi 24 ore su 24, e di immediata eliminazione o segnalazione dei pericoli rilevati sulle strade.
La decisione del giudice di secondo grado è stata impugnata in sede di legittimità: alla Suprema corte è stato chiesto l'annullamento della decisione muovendo dall'asserita erroneità dei precedenti verdetti di condanna che male avrebbero rinvenuto i limiti della posizione di garanzia gravante sui gestori della società appaltatrice: la difesa ha argomentato la propria tesi osservando come nel capitolato d'appalto fosse prevista la facoltà della stazione appaltante di procedere a indagini per verificare l'esatta esecuzione dei lavori e imporre sanzioni in caso di mancato rispetto degli obblighi, contestazioni e sanzioni che non ricorrevano affatto nel caso di specie. D'altra parte, la difesa ha insistito nel sostenere come i mezzi destinati dal comune all'attività di sorveglianza del territorio fossero minimi, tanto che la società appaltatrice si era trovata costretta a lavorare con una sola squadra di sorveglianza ogni cinque municipi (ossia per uno spazio di circa 800 km per ciascuna squadra): da qui il richiamo alla regola generale, in materia di responsabilità per colpa, secondo cui non è sufficiente l'oggettiva inosservanza della regola cautelare di condotta, poiché occorre non di meno che questa sia soggettivamente imputabile al soggetto agente.
Ebbene, i giudici romani, nel rigettare completamente il ricorso presentato, hanno risposto a entrambe le censure nei seguenti termini. Con riferimento alla mancata contestazione di violazioni degli obblighi da parte dell'amministrazione comunale, è stato osservato come siffatto profilo non potesse assumere alcun rilievo poiché si trattava di circostanze avulse dall'attestazione o meno, in sede penale, del pieno rispetto, da parte della società, degli obblighi nascenti dal contratto di appalto né potevano risultare utili ai fini dell'esonero dell'imputato da ogni responsabilità.
Analogamente, è stata rigettata la contestazione relativa alla mancanza di fondi destinati all'attività di sorveglianza: sul punto, gli ermellini hanno evidenziato come «l'impossibilità di gestire adeguatamente il territorio per l'insufficienza del corrispettivo previsto nell'appalto, non autorizzava certo l'imputata a non rispettare gli obblighi assunti e a fornire un servizio assolutamente inadeguato, bensì la obbligava a segnalare al committente l'impossibilità di garantire il servizio stesso e di concordare possibili diverse soluzioni». Lambendo i confini della «colpa per assunzione», dunque, la Corte capitolina ha redarguito l'imputato sottolineando come, peraltro, «nulla» lo avesse obbligato a sottoscrivere il contratto di appalto o, comunque, ad accontentarsi di corrispettivi inadeguati alla rilevanza degli impegni che avrebbe dovuto assumere (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Telefonia mobile.
Domanda
Il contributo per i diritti di installazione di strutture su proprietà pubbliche o private deve esse corrisposto dagli operatori non proprietari di tali strutture che utilizzino le stesse per prestare servizi di telefonia mobile?
Risposta
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione quarta, con la sentenza del 12.07.2012 (cause riunite C-55/11, C57/11; C58/11) – Vodafone España SA, ha interpretato l'articolo 13 della direttiva 2002/20/Ce nel senso che non si applica il contributo per i diritti di installazione di strutture su proprietà pubbliche o private, al di sopra o sotto di esse, agli operatori non proprietari di tali strutture che utilizzino le stesse per prestare servizi di telefonia mobile.
Detta normativa, per i giudici europei, ha un'efficacia diretta atteso che essa attribuisce ai singoli il diritto di avvalersene dinnanzi al giudice nazionale, anche per chiedere la disapplicazione dei provvedimenti nazionali che vengono ad assoggettare a contributo diritti non ricompresi in detta normativa. Pertanto, ai legislatori nazionali o locali viene vietata la facoltà di imporre oneri fiscali contributivi agli operatori che non siano proprietari delle strutture per il solo fatto che le utilizzano per prestare servizi di comunicazione elettronica, quali quelli di telefonia mobile.
Infatti, le frequenze, alla luce di tale principio, sono un bene di proprietà pubblica, per cui, alla luce di detta configurazione giuridica, deve esser meglio garantita l'utilizzazione ottimale dello spettro radio. Ciò comporta che deve essere garantita al meglio l'utilizzazione e distribuzione di servizi sulle stesse frequenze, nel rispetto dei limiti degli standard di compatibilità con il divieto delle interferenze dannose.
Nel caso, è da sottolineare che, pure a distanza di tempo, i principi internazionali relativi alle frequenze radio sono ancora oggi attuali e devono essere rispettati in tutto il mondo per una corretta ripartizione delle frequenze e delle loro allocazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

PATRIMONIO: Divieto di transito per veicoli a motore su strade in aree collinari e boschive.
Tra le strade non appartenenti al demanio pubblico, rimangono estranee alla disciplina pubblicistica, venendo regolate da norme di diritto privato, le c.d. vie agrarie (chiamate anche 'vicinali private').
Sono, di conseguenza, assai circoscritte le possibilità offerte dalla legge alle amministrazioni locali per limitare la circolazione su dette strade onde impedire danneggiamenti all'ambiente circostante, mentre dovrebbe essere nell'interesse dei proprietari dei fondi interessati intervenire, utilizzando gli strumenti forniti dal diritto privato e dal diritto penale, a tutela del proprio diritto di proprietà e dell'integrità dei terreni ai quali questo diritto si riferisce.

Il Comune riferisce che, in un'area collinare e boschiva, sita nell'ambito del proprio territorio, sussistono diverse strade che attraversano proprietà private. Tra di esse vi è una strada che pare essere stata realizzata diverso tempo fa dall'Esercito. Quest'ultimo, interpellato riguardo alla stessa, sembra abbia dichiarato informalmente il proprio disinteresse senza però produrre un ufficiale atto di dismissione.
Poiché tali strade, che non sono pubbliche o ad uso pubblico, vengono spesso percorse da motoveicoli fuoristrada, che si spingono anche al di fuori dei sentieri tracciati, inoltrandosi nei boschi e scavando profondi solchi nell'ambiente circostante, l'Ente chiede di sapere in che modo possa legittimamente interdire la circolazione ai veicoli a motore, con l'eccezione dei mezzi agricoli appartenenti ai proprietari del fondo, anche se i terreni in argomento non costituiscono aree soggette a vincolo idrogeologico di cui alla legge regionale 23.04.2007, n. 9 (Norme in materia di risorse forestali)
[1].
In via preliminare, il Comune dovrebbe verificare se la strada menzionata appartenga tuttora all'Esercito ovvero se vi sia stata una sdemanializzazione, anche tacita, della stessa
[2].
In caso di appartenenza della via al demanio militare, spetterebbe, infatti, all'ente proprietario della stessa la predisposizione di eventuali misure idonee a contrastare abusi e fenomeni di degrado come quelli segnalati dal Comune
[3].
Le strade che non risultano essere militari e neppure statali, provinciali o comunali e che, quindi, non appartengono al demanio pubblico, sono, secondo una normativa piuttosto risalente, ripresa dalla giurisprudenza e dalla dottrina, le strade vicinali
[4] e le strade agrarie (quest'ultime chiamate anche vicinali private) [5].
Le vie vicinali sono strade private o pubbliche, non iscritte nei registri delle pubbliche vie, che sono idonee al pubblico transito ed assoggettate al medesimo regime giuridico delle strade pubbliche. Titolare del diritto d'uso delle vie vicinali è il comune, ma chi lo esercita è la collettività considerata come complesso di persone
[6].
Le vie agrarie sono strade private costituite dai passaggi interpoderali che sono in comunione incidentale tra i proprietari dei fondi latistanti i quali si servono, iure domini, di quei percorsi per l'accesso e l'utilizzo dei terreni. Su tali vie i proprietari partecipanti alla comunione vantano un diritto d'uso riservato ed esclusivo
[7].
Si osserva, quindi, che mentre le vie vicinali sono di interesse amministrativo, rimangono, invece, estranee alla disciplina pubblicistica, venendo regolate da norme di diritto privato (in particolare da quelle relative alla comunione), le vie agrarie
[8].
Sembrano, perciò, essere assai circoscritte le possibilità offerte dalla legge al Comune instante per limitare la circolazione sulle strade interpoderali de quibus le quali, inoltre, non possono nemmeno godere della protezione fornita con la L.R. 9/2007 non ricadendo all'interno di territori sottoposti a vincolo idrogeologico per i quali sono previste apposite disposizioni riguardanti la circolazione fuori strada
[9].
A dimostrazione di un tanto, si riscontra che unicamente nelle vie vicinali si applicano le disposizioni del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) in quanto solo esse rientrano nella definizione fornita dall'art. 2 di questa normativa che definisce come "strada" l'area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali. In particolare, ai sensi dell'art. 3, comma 1, n. 52, del Nuovo codice della strada, è definita strada vicinale la 'strada privata fuori dai centri abitati ad uso pubblico'. Inoltre, ai sensi dell'art. 2, comma 6, del decreto, le strade vicinali sono assimilate alle strade comunali.
Per questa ragione, per le strade private non soggette ad uso pubblico, è esclusa la possibilità per il sindaco del comune competente, prevista in relazione alle strade vicinali, di emettere le ordinanze, di cui agli artt. 5, comma 3 e 6, comma 4, del Nuovo codice della strada, grazie alle quali l'ente proprietario può stabilire anche obblighi, divieti e limitazioni di carattere temporaneo o permanente, anche per determinate categorie di veicoli, in relazione alle esigenze della circolazione o alle caratteristiche strutturali delle strade.
Diversa è anche la disciplina per i due tipi di strade che deriva dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446 (Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse)
[10].
L'art. 15 di tale decreto ha affidato al sindaco compiti di vigilanza e polizia su tutte le strade vicinali, ma tali poteri, che sembrano comunque esulare dagli aspetti di regolamentazione del traffico
[11], possono essere autonomamente esercitati solamente nell'ipotesi in cui le vie vicinali siano gravate da pubblico transito, mentre, nel caso di strade private non soggette ad uso pubblico, il sindaco può attivarsi solamente a seguito di un'istanza dei consorzi eventualmente costituiti fra gli utenti [12].
Al contrario, poiché le strade in argomento risultano essere di proprietà privata e non soggette ad uso pubblico, dovrebbe essere nell'interesse dei proprietari dei fondi interessati intervenire, utilizzando gli strumenti forniti dal diritto privato e dal diritto penale, a tutela del proprio diritto di proprietà e dell'integrità dei terreni ai quali questo diritto si riferisce
[13].
Un intervento da parte di un comune su strade private, non interessate dalla pubblica circolazione, potrebbe quindi giustificarsi solamente qualora sorgessero importanti esigenze di carattere pubblico.
Tale è evidentemente l'ipotesi in cui si integrino i presupposti, nel caso de quo difficilmente riscontrabili, per l'emissione delle ordinanze contingibili ed urgenti di cui all'art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 che richiedono la sussistenza di gravi ed imminenti pericoli per la pubblica incolumità e la sicurezza urbana
[14]. Tali provvedimenti rimangono comunque limitati nel tempo, essendo per loro natura provvisori e sono soggetti a particolare cautela nella loro applicazione nel caso riguardino beni di proprietà privata [15].
In relazione, infine, alla possibilità, fatta propria da alcune amministrazioni comunali, di prevedere, all'interno dei propri regolamenti di polizia rurale
[16], disposizioni che pongono il divieto di ingresso nei fondi altrui, si rileva che risulta abrogato ormai da anni l'art. 110 del Regio decreto 12.02.1911, n. 297 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge comunale e provinciale) [17].
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[1] Tale normativa ha abrogato la legge regionale 15.04.1991, n. 15 (Disciplina dell'accesso dei veicoli a motore nelle zone soggette a vincolo idrogeologico o ambientale. Modifica della legge regionale 22.01.1991, n. 3).
[2] La sdemanializzazione può avvenire grazie ad un provvedimento di declassificazione, assunto ai sensi dell'art. 3, comma 6, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495, oppure in forma tacita, come precisato dalla Corte di cassazione: 'La sdemanializzazione di una strada può anche verificarsi senza l'adempimento delle formalità previste dalla legge in materia, ma occorre che essa risulti da atti univoci, concludenti e positivi della Pubblica Amministrazione, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico. Né il disuso da tempo immemorabile o l'inerzia dell'ente proprietario possono essere invocati come elementi indiziari dell'intenzione di far cessare la destinazione, anche potenziale, del bene demaniale all'uso pubblico, poiché a dare di ciò la prova è pur sempre necessario che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella che la Pubblica Amministrazione abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo' (Cassazione civile, Sez. II, 30.08.2004, n. 17387).
[3] Ai sensi dell'art. 5, comma 3, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), 'I provvedimenti per la regolamentazione della circolazione sono emessi dagli enti proprietari, attraverso gli organi competenti a norma degli articoli 6 e 7, con ordinanze motivate e rese note al pubblico mediante i prescritti segnali'.
[4] L'art. 3, comma 1, n. 52, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) reca la definizione della sola strada vicinale come 'strada privata fuori dei centri abitati ad uso pubblico'.
[5] La distinzione tra i due tipi di strade vicinali deriva dal diritto romano ed è stata ripresa dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446. V. 'Il regime giuridico delle strade provinciali, comunali, vicinali e private', Pietro La Rocca, 2006, Maggioli Editore, pagg. 209-290.
[6] Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, affinché una strada possa rientrare nella categoria delle strade vicinali pubbliche, devono sussistere: il requisito del passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale; la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di interesse generale; un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile (Cfr. Cass. civ., sez. II, 12.07.1991, n. 7718; TAR Sardegna, 21.12.2000, n. 1246; Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7831).
[7] 'Le vie vicinali agrarie formate "ex collazione privatorum agrorum" traggono la loro origine da situazioni oggettive di diversa natura, le quali possono essere determinate dalla volontà coincidente, anche se non concorde, di tutte le parti, manifestata attraverso il fatto materiale del conferimento in relazione all'effettiva esigenza dei fondi (Cass. 27.07.2006 n. 17111) [...] l'insorgenza della comunione presuppone inevitabilmente che tutti i partecipanti abbiano in vario modo o misura contribuito a conferire il sedime della strada, non essendo ipotizzabile che alla comunione partecipi un soggetto che nulla abbia conferito, a meno che non ricorra un diverso titolo negoziale (Cass. 11.02.2005 n. 2751)', Cassazione civile, sez. II, 05.07.2013, n. 16864.
[8] Come osservato in dottrina, 'le strade private agrarie sono proprietà comune pro indiviso dei proprietari dei fondi latistanti [...] e le strade medesime sono completamente assoggettate alla regolamentazione e alla disciplina privatistica del condominio' ('Le strade nell'attuale disciplina legislativa', A. Romano, in 'Amm. It', n. 4, aprile 1963 e n. 5, maggio 1963, pagg. 309 e ss.)
[9] Tale normativa in particolare prevede, per i territori soggetti a vincolo idrogeologico o appartenenti ad aree protette di cui alla legge regionale 30.12.1996, n. 42, il divieto di circolazione e sosta dei veicoli a motore sui percorsi fuoristrada, fatte salve alcune eccezioni tra le quali il passaggio di veicoli per la conduzione dei fondi e per l'accesso ai beni immobili in proprietà o possesso (artt. 71-73).
[10] Ai sensi dell'art. 3 del decreto, il comune è tenuto a contribuire alle spese di manutenzione e sistemazione/ricostruzione delle strade vicinali soggette a pubblico traffico da 1/5 fino a metà delle stesse, mentre ha solo la facoltà di farlo per quelle private e solo fino ad un massimo di 1/5 della spesa..
[11] L'art. 15, comma 1, specifica che al sindaco spetta 'ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle strade e all'esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate'.
[12] V. Tar Sardegna, 05.12.1979, n. 399 e Tar Piemonte, sez, I, 16.03.1989, n. 203.
[13] V. gli artt. 633 (Invasione di terreni ed edifici), 635 (Danneggiamento), 637 (Ingresso abusivo su fondo altrui) del Codice.
[14] Ai sensi dell'art. 1 del decreto del Ministero dell'interno 05.08.2008, 'per incolumità pubblica si intende l'integrità fisica della popolazione e per sicurezza urbana un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell'ambito delle comunità locali. del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale'.
[15] 'Quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo gravante esclusivamente su beni privati sottratti a qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di legittimità dell'esercizio del suddetto potere di ordinanza ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo, soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza in liti tra privati (magari già incardinate dinanzi al competente giudice civile)' (Tar Campania, Napoli, sez. V, 19.04.2007, n. 4992).
[16] 'I regolamenti di polizia urbana e rurale solitamente disciplinano, in conformità ai principi generali dell'ordinamento giuridico ed in armonia con le norme speciali e con le finalità degli statuti, comportamenti ed attività comunque influenti sulla vita della comunità cittadina e rurale al fine di salvaguardare la convivenza civile, la sicurezza dei cittadini, la decenza, il decoro, la più ampia fruibilità dei beni comuni e di tutelare la qualità della vita e dell'ambiente, con attività di prevenzione, ma anche con attività diretta all'attuazione e all'osservanza da parte dei singoli cittadini delle leggi e dei regolamenti emessi dallo Stato e da altri enti' (v. 'La disciplina della polizia locale nell'ambito dell'autonomia regolamentare degli enti locali', Regione Piemonte, Assessorato Polizia locale, promozione della sicurezza, 2013, pag. 10).
[17] Tale articolo stabiliva -prima dell'abrogazione avvenuta con la legge 08.06.1990, n. 142- che i comuni, con i regolamenti di polizia rurale, provvedessero, tra l'altro, a 'evitare i passaggi abusivi nelle private proprietà'. Nulla di simile è stato successivamente previsto dalla stessa L. 142/1990, dal Tuel o da altre disposizioni di legge
(11.10.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Beni culturali. Degrado monumenti e responsabilità enti pubblici.
L'ente pubblico proprietario del complesso monumentale lasciato in stato di abbandono, al degrado e alla vandalizzazione altrui, e altresì tutti coloro che erano tenuti alla conservazione ed alla vigilanza del medesimo bene culturale, rispondono innanzitutto ai sensi degli artt. 677 e 733 c.p. dei danneggiamenti strutturali e dei pericoli di crollo che siano stati immediatamente e direttamente causati dalla mancanza di manutenzione ordinaria (e che nulla abbiano a che fare con l'opera di eventuali ignoti occupanti abusivi o con gli abusi edilizi consumati all'interno dello stesso sito o con la condotta di chi lo ha usato come discarica di rifiuti -come avvenuto nella specie-).
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Gravano inoltre sul sindaco, e o sul dirigente in suo luogo delegato, la responsabilità ex art. 328 c.p. per avere omesso ogni intervento necessario a scongiurare conclamati pericoli di crollo (nella specie più volte denunziati e già avvenuti), anche attraverso l'esercizio dei poteri di ordinanza di cui all'art. 54 t.u. enti locali.
Se poi sul medesimo sito gravano specifici vincoli storico monumentale, paesaggistico, idrogeologico, di inedificabilità assoluta, o di altra natura, i predetti enti tenuti alla manutenzione e conservazione e tutela del bene, nelle persone dei rispettivi responsabili pro tempore (da individuarsi ogni volta in base alla funzione), rispondono delle violazione di detti vincoli, sia di quelle cagionate direttamente attraverso l'omissioni della cura manutentiva del bene, sia di quelle riconducibili alle condotte arbitrarie di terzi, ma favorite significativamente dal mancato esercizio della doverosa vigilanza.
In particolare i danneggiamenti strutturali, gli abusi edilizi compiuti all'interno del monumento, così come il conferimento di rifiuti presso il suo sito (come è avvenuto nella specie) costituiscono condotte di violazione dei vincoli monumentale e paesaggistico su esso gravanti, ai sensi dell'art. 169 e dell'art. 181, comma 1 e 1-bis, del Dlgs. 42/2004; e sono in concreto riconducibili alla responsabilità immediata e diretta dei predetti enti pubblici proprietari o tenuti alla conservazione e alla tutela, relativamente ai danni da mancanza di manutenzione; i medesimi enti, relativamente alle violazioni dei vincoli, compiute da terzi attraverso abusi edilizi e conferimenti incontrollati di rifiuti, risponderanno a titolo di concorso laddove la loro inerzia -di fronte a simili scempi- abbia assunto in concreto i caratteri dell'acquiescenza.
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La totale omissione di ogni vigilanza sul monumento, ove sotto gli occhi di tutti vi si continuino a consumare per anni abusi edilizi, conferimenti di rifiuti, adibizioni abusive e deturpanti di ogni sorta, palesa i caratteri dell'acquiescenza (a tali abusi) da parte degli enti responsabili della sorte del monumento, diffondendo nella popolazione la convinzione del loro disinteresse e della loro chiara volontà di lasciarne fare a chiunque quel che creda.
L'ordinamento nel suo complesso appresta al patrimonio storico e artistico una accentuata tutela conto le azioni dannose, prevedendo poteri-doveri di tutela di altrettanta pregnanza, che ricevono particolari riconoscimento e copertura costituzionale (cfr. tra gli altri gli artt. 838 c.c., l'art. 733, gli artt. 169 e 181 cod. beni culturali, e innanzitutto l'art. 9 Cost.).
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L'abbandono impietoso di un monumento, costituisce un aperto dispregio dell'obbligo giuridico di natura generale di gestione del bene di interesse pubblico secondo i criteri del buon padre di famiglia.
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La funzione di vigilanza e di tutela di un bene immobile di notevole importanza monumentale, da esercitarsi innanzitutto mediante una gestione e una manutenzione ordinaria adeguate, non afferiscono a profili di discrezionalità del proprietario o di chi sia investito ad altro titolo della sua conservazione, anche ove questi siano delle pubbliche amministrazioni, ma a ben specifici obblighi giuridici di agire, che si traggono agevolmente dalla disciplina penale (che incrimina condotte di violazione della integrità del bene culturale, cfr. artt. 733 e 677 c.p., artt.169 e 181 cod. beni culturali; dalla disciplina civilistica (art. 838 c.c.), dalla normativa di natura amministrativa, che regolamenta l'esercizio di relativi compiti e poteri affidati a diversi organismi della p.a., e dal fondamentale principio di rango costituzionale di tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio della nazione (art. 9 Cost. e cfr. inoltre art. 117 Cost., comma 2, lett. S)
(massima tratta da e link a www.lexambiente.it - TRIBUNALE di Palermo, G.I.P., ordinanza 08.10.2013 n. 16090).

PATRIMONIO: Federalismo demaniale.
Domanda
A seguito del trasferimento a un Ente locale di immobili dello Stato tramite le procedure previste dall'art. 56-bis dl n. 69/2013 (Federalismo demaniale), l'Ente può procedere all'alienazione di detti immobili o sussistono particolari vincoli di inalienabilità?
Risposta
L'art. 56-bis, introdotto in sede di conversione al decreto legge n. 69/2013 («Decreto del Fare»), ha sbloccato e data concreta attuazione al processo di trasferimento dei beni patrimoniali dallo Stato agli Enti locali. Dal 01.09.2013 fino al 30.11.2013 gli Enti, in base al principio di sussidiarietà, potranno avanzare apposita richiesta all'Agenzia del demanio territorialmente competente per richiedere il trasferimento in proprietà dei beni.
I beni trasferiti, con tutte le pertinenze, accessori, oneri e pesi, entrano a far parte del patrimonio disponibile delle regioni e degli enti locali. Come patrimonio disponibile il bene può pertanto essere alienato, previo esperimento delle procedure previste dalla normativa, dall'Ente che ne ha acquisito la proprietà. La normativa in esame non prevede nessun particolare vincolo di inalienabilità.
In caso però gli enti decideranno di alienare i beni loro trasferiti potranno tenere per sé il 75% del ricavato e destinarlo prioritariamente alla riduzione dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25% sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. (cfr. art. 56-bis, comma 10, decreto legge n. 69/2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

PATRIMONIO: Ordine di sgombero
Domanda
Nel caso in cui un terzo occupi abusivamente un'area demaniale e presenta un'istanza di regolarizzazione la Pubblica amministrazione può ordinare ugualmente lo sgombero dell'area ?
Risposta
La Pubblica amministrazione può ordinare la rimozione delle strutture abusivamente installate su area demaniale anche in presenza di un'istanza di regolarizzazione, dal momento in cui non esiste un principio generale secondo cui la Pubblica amministrazione non può adottare provvedimenti repressivi in pendenza di procedimenti di regolarizzazione dell'attività svolta (cfr. tra gli altri Tar Lazio, Sezione I-ter Roma n. 5551 del 04/06/2013).
Tale divieto deve trovare fondamento in un'esplicita previsione normativa (ex. art. 38 legge 47/1985), essendo un'eccezione al principio secondo cui la Pubblica amministrazione deve intervenire in presenza di ogni comportamento di privati che realizzi una violazione delle regole che disciplinano il territorio e l'utilizzo delle differenti aree (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

PATRIMONIOStazioni, locazione pubblica.
Illegittima la trattativa privata per la locazione di vani commerciali all'interno della stazione. Ciò quando i contenuti specifici del contratto vanno ben oltre la cessione della mera detenzione dell'immobile. Ovvero nel caso in cui prevedono un'ingerenza delle Ferrovie non giustificata da un mero rapporto di locazione ed evidenziano, invece, che il contratto è caratterizzato dalla volontà di garantire un servizio attinente ai viaggiatori.

Se non vi è in sostanza, ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. VI, nella sentenza 04.10.2013 n. 4902, una mera connessione logistica dovuta alla collocazione dell'attività in locali destinati al servizio pubblico ma una chiara connessione funzionale con i viaggiatori, va applicato il codice degli appalti.
Tanto gli appalti «sotto soglia», che fruiscono di una temporanea esenzione, che gli appalti e le concessioni di servizi «esclusi», che fruiscono di un regime di parziale esenzione, precisa infatti la sentenza, rientrano negli scopi del diritto comunitario. Con la conseguenza che va applicato l'art. 27 del dlgs 163/2006, il quale estende l'applicazione dei principi del trattato Ue anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto. E ciò in quanto è posto un principio di rispetto delle regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli appalti.
Nel caso specifico, il contratto stipulato dalle Ferrovie prevedeva che la struttura e la destinazione dei locali, i tipi di servizi da fornire alla clientela, le attrezzature e gli arredi dovevano essere predisposti e organizzati sotto la direttiva delle Ferrovie allo scopo del migliore soddisfacimento delle esigenze dei viaggiatori. Il contratto prevedeva, inoltre, che «la ditta è obbligata a mantenere in condizioni di pulizia il pavimento dell'intero atrio biglietteria, sala d'attesa e quant'altro adibito a luogo di accesso al pubblico interno ed esterno della stazione» (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

PATRIMONIO: In tema di contratto di locazione e principi di evidenza pubblica.
Ai servizi di cui all’Allegato II-B, d.lgs. n. 163 del 2006, si applicano ex art. 20, comma 1, solo gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque applicabili ex ante i principi del trattato, sia che si tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di concessione.
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L’art. 27, d.lgs. n. 163 del 2006, estende l’applicazione dei principi del Trattato europeo anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto, intendendo porre un principio di rispetto delle regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli appalti. Sicché detta disposizione deve dirsi applicabile anche quando il contratto da stipulare abbia ad oggetto la prestazione di un servizio funzionalmente connesso ovvero integrativo di servizio pubblico.

La controversia riguarda un contratto stipulato da FES in ordine al quale l’odierna appellante, prioritariamente ripropone le censure di violazione delle regole dell’evidenza pubblica e, in particolare, dell’art. 27 d.lgs. n. 163 del 2006.
La sentenza di primo grado ha affermato che FSE rientra nella categoria degli organismi di diritto pubblico e in tale parte essa non è stata impugnata. Posto, dunque, che si rientra nell’ambito di applicazione soggettiva del codice e del diritto comunitario, occorre esaminare i contenuti del contratto per valutare se la fattispecie sia soggetta ai principi in materia di evidenza pubblica nonché alla disposizione in particolare segnalata.
La natura non strettamente privatistica di mera locazione si desume chiaramente dal tenore del contratto stipulato in data 04.11.2009 tra FSE e la ditta Caniglia Francesco (cfr. doc. 1 della produzione di primo grado, depositata il 22.06.2010, di FSE), il cui art. 1, intitolato “oggetto del contratto” indica che “FSE mette a disposizione della ditta il complesso dei locali … per la produzione del servizio di ristorazione per l’esigenza dei viaggiatori, nonché della rivendita di generi di privativa e pubblicazioni editoriali nella stazione di Campi Salentina. La struttura e le destinazione dei locali, i tipi di servizi da fornire alla clientela, le attrezzature e gli arredi dovranno essere predisposti e organizzati sotto la direttiva di FSE allo scopo del miglior soddisfacimento delle esigenze dei viaggiatori”; il contratto prevede inoltre che “la ditta è obbligata a mantenere in condizioni di pulizia il pavimento dell’intero atrio biglietteria, sala d’attesa e quant’altro adibito a luogo di accesso al pubblico interno ed esterno della stazione” (art. 4), l’obbligo della ditta ad attenersi, nella conduzione dell’esercizio, alle “prescrizioni che al riguardo FES potesse impartire”, la necessità di autorizzazione di FSE per consentire alla ditta di “essere coadiuvata nella conduzione dell’esercizio da persona di Sua fiducia in possesso dei requisiti richiesti”, il controllo di FSE sugli introiti di esercizio e sulla gestione contabile (art. 5), il diritto di FSE “di controllare i prezzi di vendita al pubblico e di richiedere tutte quelle modificazioni che, a proprio discrezionale giudizio, ritenesse giusto” (art. 7), gli orari di apertura e chiusura in funzione degli orari dei treni (apertura almeno mezz’ora prima del primo treno e fino a mezz’ora dopo l’ultimo), con facoltà di FSE di “modificare insindacabilmente tale orario in funzione delle esigenze del servizio” (art. 11), l’interferenza di FSE in ordine ai generi di consumo in funzione delle “necessità dell’utenza” (art. 13), riduzioni di prezzo per il personale FSE ed altri specificati (art. 16), la non ammissione del passaggio del pubblico non munito di biglietto dall’esterno della stazione alla parte dei locali del bar comunicanti con il piazzale interno e viceversa (art. 24), il mantenimento nei locali del quadro orari dei treni (art. 25), la riserva a FSE della pubblicità per conto terzi sulle pareti dei locali del bar (art. 26).
I contenuti specifici del contratto, che vanno ben oltre la cessione della mera detenzione dell’immobile e prevedono un’ingerenza delle FSE non giustificata dal un mero rapporto di locazione, evidenziano che il contratto stipulato è caratterizzato dalla volontà di garantire un servizio attinente ai viaggiatori.
La stessa appellata, del resto, puntualizza che era “interessata esclusivamente ad offrire celermente un servizio, in parte indispensabile, volto alla commercializzazione dei biglietti di trasporto dell’azienda, in parte utile e più volte richiesto dall’utenza”.
Non vi è, quindi, una mera connessione logistica dovuta alla collocazione in locali destinati al servizio pubblico ma una chiara connessione funzionale, ponendosi il servizio di ristorazione come integrativo del servizio ai viaggiatori
Il servizio di ristorazione è incluso nell’Allegato II –B (cat. 17) cui si riferisce il primo comma dell’art. 20 d.lgs. 16.04.2006, n. 163 (inserito nel Titolo II “Contratti esclusi in tutto o in parte”), comma secondo cui si applicano solo le specificate norme del codice (artt. 65, 68 e 225); il successivo art. 27 (“Principi relativi ai contratti esclusi”) stabilisce che “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi forniture esclusi, in tutto o in parte dall’applicazione del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto”; ai principi di matrice comunitaria si riferisce anche il terzo comma dell’art. 30 (“Concessione di servizi”) secondo cui “La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici, in particolare dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità,previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tal numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Ne deriva, in una lettura coordinata, che ai servizi di cui all’Allegato II –B, si applicano ex art. 20, comma 1, solo gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque applicabili ex ante i principi del trattato (sia che si tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di concessione).
La giurisprudenza (cfr., in particolare, Cons. Stato Ad. plen. 01.08.2001, n. 16), sulla premessa che tanto gli appalti “sotto soglia”, che fruiscono di una temporanea esenzione, che gli appalti e le concessioni di servizi “esclusi”, che fruiscono di un regime di parziale esenzione, rientrano negli scopi del diritto comunitario, è orientata nel senso di ritenere che l’art. 27 d.lgs. citato estende l’applicazione dei principi del Trattato anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto, intendendo porre un principio di rispetto delle regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli appalti.
Nella specie, dunque, non si poteva addivenire alla stipula del contratto in questione in spregio ai principi di trasparenza ed imparzialità, omettendo una comparazione tra le offerte presentate (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.10.2013 n. 4902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Trattandosi di terreni di proprietà comunale, l’Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad un soggetto privato, ai sensi dell’art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione al migliore offerente, sia perché da tale concessione il Comune ricava un’entrata, sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce un’occasione di guadagno per il soggetto privato che utilizza tale bene.
... per l'annullamento della Determinazione n. 304 del 29.8.2012 (pubblicata nell’Albo Pretorio on-line il 31.08.2012), nella parte in cui il Dirigente dell’Unità di Direzione Gestione Patrimonio del Comune di Potenza ha dato in concessione, per la durata di 5 anni con scadenza il 29.06.2015 ed esclusivamente per l’installazione di impianti di radiodiffusione sonora in ambito locale, il terreno di proprietà comunale, sito nella Località Poggio Cavallo, alla Festula 2000;
...
La Determinazione n. 304 del 29.8.2012 è stata impugnata con il presente ricorso (notificato il 12.07.2013), deducendo:
2) violazione dei principi in materia di evidenza pubblica, cioè dei principi comunitari e nazionali di trasparenza, concorrenza e par condicio, in quanto il concessionario di un bene di proprietà comunale va individuato mediante l’indizione di un apposito procedimento di evidenza pubblica;
...
Invece, risulta fondato il secondo motivo di impugnazione.
Infatti, trattandosi di terreni di proprietà comunale, l’Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad un soggetto privato, ai sensi dell’art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione al migliore offerente, sia perché da tale concessione il Comune ricava un’entrata, sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce un’occasione di guadagno per il soggetto privato che utilizza tale bene.
A riprova di ciò, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale in materia di concessioni demaniali marittime (cfr. C.d.S. Sez. VI n. 168 del 25.01.2005) e quello recentissimo in tema impianti pubblicitari (cfr. C.d.S. Ad. Plen. Sent. n. 5 del 25.02.2013), oltre a quello relativo alle cave di proprietà comunale (cfr. da ultimo TAR Basilicata Sent. n. 406 del 30.08.2012) (TAR Basilicata, Sez. I, sentenza 02.10.2013 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2013

PATRIMONIOAnche allorquando una concessione di suolo pubblico sia scaduta, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all’occupante (anche ex concessionario), irrilevante a tal fine essendo anche il pagamento delle somme corrispondenti all’originario canone (anche maggiorato), in quanto tali somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo, non essendo del resto ammissibile il rinnovo di una concessione per facta concludentia per l’impossibilità di desumere per implicito la volontà dell’amministrazione di vincolarsi.
Come ha precisato la giurisprudenza, anche allorquando una concessione di suolo pubblico sia scaduta, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all’occupante (anche ex concessionario), irrilevante a tal fine essendo anche il pagamento delle somme corrispondenti all’originario canone (anche maggiorato), in quanto tali somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo (C.d.S., sez. V, 27.09.2004, n. 6277), non essendo del resto ammissibile il rinnovo di una concessione per facta concludentia per l’impossibilità di desumere per implicito la volontà dell’amministrazione di vincolarsi (C.d.S., sez. V, 22.11.2005, n. 6489) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIOEdifici scolastici sicuri, sostenibili ed adeguati alle nuove esigenze didattiche, ecco quanto proposto nelle nuove Linee Guida.
Il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato le nuove “Linee guida per le architetture interne delle scuole”, per la corretta progettazione dell’edilizia scolastica.
La ridefinizione delle Linee guida, strettamente collegata al piano di innovazione digitale delle scuole, fornisce nuove soluzioni: non più solo aule, ma spazi modulari e polifunzionali, facilmente configurabili ed in grado di rispondere a contesti educativi sempre in evoluzione.
Tradizionalmente l’aula è sempre stata lo spazio unico della didattica quotidiana, un luogo in cui il docente, posto di fronte ai ragazzi disposti in file di banchi, trasmetteva agli studenti le conoscenze da acquisire. L’aula moderna è ancora uno spazio pensato per interventi frontali ma è ora uno dei tanti momenti di un percorso di apprendimento articolato e centrato sullo studente. Quindi cambiano radicalmente i principi alla base della progettazione funzionale.
La guida, in particolare, fornisce i criteri generali per la progettazione di edifici scolastici, con indicazioni operative su:
configurazione e articolazione interna degli edifici
ottimizzazione del sistema edificio/ambiente
scelta dei materiali da utilizzare
materiali da evitare
Particolare attenzione è dedicata nel testo agli impianti tecnologici, per i quali è necessario puntare sulla flessibilità.
Il documento è certamente interessante per tutti i tecnici che operano nel settore della progettazione di edifici ad uso collettivo (26.09.2013 - link a www.acca.it).

PATRIMONIO: Vendita di bene sdemanializzato.
Il bene avente natura demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo.
Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta da un privato cittadino di poter acquistare una strada di proprietà dell'Ente (bene demaniale) 'inglobata' da oltre 50 anni nella proprietà del privato stesso.
Riferisce l'Ente che l'area oggetto della richiesta ha ormai perso i requisiti di strada, essendone stata realizzata un'altra al limite della proprietà del richiedente, atta a servire tutti i fondi limitrofi, in conseguenza di una 'sorta di riordino fondiario'.
Il Comune chiede, quindi, di conoscere se, una volta sdemanializzata la strada in argomento con apposito atto, possa procedere alla vendita della stessa al privato, chiedendogli eventualmente di corrispondere una indennità per il periodo di utilizzo antecedente alla vendita.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Circa la possibilità di procedere alla vendita del bene pubblico, successivamente alla sdemanializzazione dello stesso da parte dell'Amministrazione instante, si richiama l'attenzione sulla necessità che la vendita venga effettuata nel rispetto delle regole dell'evidenza pubblica.
Quanto, invece, alla possibilità di richiedere al privato la corresponsione di un'indennità per il periodo di utilizzo del bene antecedente alla vendita, si precisa che la stessa potrebbe essere vantata dall'Ente solo in relazione all'ultimo quinquennio, risultando prescritta per i periodi antecedenti
[1].
Ad ogni buon conto, in relazione alla fattispecie prospettata, corre l'obbligo di rappresentare quanto segue, in modo che l'Ente possa effettuare le valutazioni ritenute opportune.
Nel possesso indisturbato e protratto da tempo immemore (nel caso in oggetto, oltre 50 anni) da parte del proprietario del fondo in cui la strada risulta 'inglobata' potrebbero ravvisarsi i requisiti per la richiesta di accertamento dell'avvenuta usucapione
[2] della strada in argomento. Il bene avente natura demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo.
La giurisprudenza
[3] ha al riguardo osservato che '[...] il disuso prolungato di una strada vicinale da parte della collettività e l'inerzia dell'amministrazione nella cura della stessa e/o nell'intervento riguardo ad occupazioni o usi da parte di privati incompatibili con la destinazione pubblica, non bastano a comprovare inequivocabilmente la cessata destinazione del bene (anche solo potenziale) all'uso pubblico (c.d. sdemanializzazione tacita), occorrendo che detti indizi siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze tali da non lasciare adito ad altre ipotesi, salva quella che la stessa abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso stradale pubblico.'.
Atteso che, nell'ambito di un giudizio intentato per l'accertamento dell'avvenuta usucapione del bene, la sdemanializzazione tacita può essere accertata autonomamente dal Giudice, che deve valutare i comportamenti dell'amministrazione in rapporto al bene che si sostenga passato al regime patrimoniale, si considera opportuno che l'Ente instante verifichi preventivamente se la sdemanializzazione tacita possa aver operato in relazione al caso concreto e se il privato intenda conseguentemente far valere l'usucapione
[4], eventualità che renderebbero di fatto impossibili tanto la vendita del bene, quanto la richiesta di indennizzo.
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[1] Con riferimento al termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento per l'occupazione sine titulo del sedime stradale, cfr., tra le altre, Trib. Napoli Sez. fall., 11.04.2011 e Trib. Bologna Sez. III, 20.09.2007.
[2] L'usucapione potrebbe operare anche a vantaggio dell'acquirente (attuale proprietario) del terreno in cui è 'inglobata' l'area, atteso che il possesso dello stesso si può sommare a quello del suo dante causa, ai sensi dell'art. 1146, secondo comma, del codice civile.
[3] Cfr., fra le altre, TAR Umbria Perugia Sez. I, Sent., 11.07.2011, n. 198; Cons. Stato, IV, 07.09.2006, n. 5209; TAR Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009, n. 1450.
[4] Nel caso in esame, tale ultima evenienza sembrerebbe peraltro scongiurata dal fatto che è stato il privato stesso a richiedere, seppur informalmente, la vendita
(25.09.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Condanna per il Comune al risarcimento dei danni provocati da un incendio sviluppatosi nel parco pubblico comunale, in adiacenza alla rete di confine con lo stabilimento dell’attore, e propagatosi all’interno della proprietà.
I motivi sono manifestamente infondati, quando non inammissibili, poiché il ricorrente, pur richiamando formalmente anche la violazione di norme di diritto, pone in realtà in discussione solo gli accertamenti e le valutazioni in fatto mediante le quali la Corte di appello ha ritenuto di escludere l’addebitabilità di un qualunque concorso di colpa alla danneggiata: accertamenti e valutazioni che risultano adeguatamente motivati ed oggettivamente condivisibili.
Il proprietario non ha alcun obbligo di utilizzare in un modo o nell’altro il proprio fondo, né incorre in alcun divieto di sistemarvi oggetti ed attrezzi nel modo ritenuto più conveniente, qualora non sussista alcun elemento o circostanza idonei a dimostrare la pericolosità di una data sistemazione.
Il ricorrente non afferma di avere dedotto o dimostrato alcunché, nelle competenti sedi di merito, circa la prevedibilità del sinistro verificatosi, quindi circa l’imputabilità ad imprudenza o a negligenza del danneggiato del fatto di avere collocato la sue merce in quel particolare punto dalla sua proprietà, come ha correttamente rilevato la Corte di appello.
Né sono consentite in questa sede ulteriori indagini in merito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2013 n. 21100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Il vantaggio indiretto per il Comune esclude il danno erariale.
Non determina alcun danno erariale il dirigente comunale che concede un immobile del Comune in uso gratuito a un'associazione privata se da ciò deriva un corrispettivo indiretto all'ente come lo svolgimento di servizi e attività di utilità pubblica, nonché obblighi di gestione e di manutenzione dell'immobile in capo all'associazione stessa.
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Il danno azionato in giudizio deriverebbe, secondo la prospettazione di parte attrice, dalla concessione a titolo gratuito di un immobile del patrimonio del Comune di Cagliari a una associazione privata.
In proposito, occorre preliminarmente osservare che
la normativa in materia di concessione di beni pubblici prevede espressamente l'affidamento in concessione, anche gratuita, o in locazione a canone ridotto di beni immobili demaniali e patrimoniali, destinati ad uso diverso da quello abitativo. In questi termini, dispone il D.P.R. 13.09.2005, n. 296 (che ha abrogato la legge n. 390 del 1986 e successive modifiche), agli artt. 9, 10 e 11, con riguardo a particolari categorie di immobili (tra cui quelli d’interesse culturale) ed a specifiche tipologie di soggetti (organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni di promozione sociale) … per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei principi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Con riguardo al patrimonio indisponibile degli Enti locali, specifiche disposizioni stabiliscono:
-
la concessione in uso di beni immobili per il perseguimento di “scopi sociali” che in concreto possono comportare la fissazione di canoni inferiori a quelli di mercato (art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994);
-
la previsione di canoni meramente ricognitori (art. 3, comma 66, della legge n. 549 del 1995) nella concessione di aree e di impianti sportivi in favore delle associazioni o società sportive dilettantistiche e senza scopo di lucro o agli enti di promozione sportiva;
-
la concessione in comodato ad associazioni di promozione sociale e ad organizzazioni di volontariato, per lo svolgimento delle loro attività istituzionali (art. 32, comma 1, della legge n. 383 del 2000).
Alla stregua della disciplina di cui sopra va esaminata la concessione del bene del patrimonio comunale denominato Chiesetta Aragonese, il cui rilievo storico culturale non appare, all’evidenza, suscettibile di un uso per scopi commerciali o comunque economicamente lucrativi estranei a finalità pubbliche nelle quali, viceversa, come previsto dall’art. 2 della concessione, trova giustificazione prevalente l’affidamento in uso.
Risulta dagli atti di causa e, in particolare, dalla determinazione n. 9718, del 22.09.2010, che, stante la necessità di provvedere a un servizio di gestione del bene per garantirne la fruibilità e l’accesso al pubblico ed evitare atti vandalici e il nuovo degrado del sito, è stato richiesto, con nota del 27.07.2010, alle associazioni interessate di presentare un progetto di gestione e utilizzo della Chiesetta Aragonese.
Entro i termini stabiliti nella nota di cui sopra, hanno partecipato alla selezione l’Associazione ISARDI e l’Associazione CUM - Centro Universitario Musicale: al progetto presentato dalla prima Associazione è stato attribuito il punteggio di 8/10 e quello presentato dalla seconda è stato valutato con il punteggio di 7/10 (doc. 83 e 84 allegati alla citazione). Si legge nella parte motiva della determinazione che il progetto dell’Associazione ISARDI è stato ritenuto meglio rispondente alle esigenze dell’Amministrazione … in quanto prevede numerose attività, non incentrate su un unico argomento, ma diversificate e spazianti in più discipline, che, pur rispettando il valore storico culturale del sito, rendono lo stesso maggiormente fruibile da una molteplicità di cittadini.
Nella convenzione stipulata con l’Associazione e approvata con il provvedimento in esame –il quale prevede espressamente che la concessione del sito non comporta oneri di alcun genere per l’Amministrazione Comunale– viene stabilito che il concessionario è obbligato:
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a garantire l’apertura al pubblico dell’edificio della Chiesa Aragonese nei giorni e per le ore previsti dal calendario concordato con il Servizio Cultura del Comune, nonché in occasione di manifestazioni culturali, e a presentare trimestralmente allo stesso Servizio una dettagliata relazione sull’attività svolta e sul numero dei visitatori (art. 2);
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a gestire gli impianti a servizio dei locali concessi, assicurando la piena efficienza e funzionalità degli impianti stessi e assumendo a proprio carico la relativa responsabilità sia nei confronti del Comune che dei terzi (art. 5, c. 1);
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a farsi carico di tutte le spese occorrenti al funzionamento della struttura: fornitura dell’energia elettrica, riscaldamento, acqua potabile, pulizia, rimozione dell’immondizia, e ogni altra spesa necessaria all’esercizio stesso e, infine, a dotarsi di arredi e attrezzature consone al sito e previa approvazione del Servizio (art. 5, c. 2 e 3).
In convenzione
si prevede, infine, l’utilizzazione dell’immobile, oltre che per le finalità culturali di cui all’art. 2, anche per le finalità istituzionali dell’Associazione e per la realizzazione del programma di attività culturali e didattiche presentato ai fini della concessione (art. 3): attività queste di interesse dell’ente locale e svolte o da svolgersi senza oneri a carico del Comune.
Nel periodo di circa un anno di vigenza della concessione, l’Associazione interessata ha sostanzialmente assolto agli obblighi dedotti in convenzione. In ogni caso, nessuno specifico addebito è stato mosso al riguardo da parte attrice, fatta eccezione per le spese relative alla fornitura di energia elettrica sostenute dal Comune nel periodo, a causa della mancata voltura dell’utenza: spese che, peraltro, non sono state quantificate né hanno formato oggetto della pretesa risarcitoria.
Il concreto soddisfacimento delle finalità della concessione si evince proprio dalla determinazione n. 10218, in data 12.10.2011, di revoca della convenzione, nelle cui premesse si da atto che con nota del 23.09.2011 era stato contestato all’associazione il mancato rispetto delle prescrizioni di cui agli artt. 2 e 3 della convenzione citata e, in particolare, la mancata apertura della chiesa per diversi giorni nella settimana dal 12 al 17.07.2011 e nei giorni 6 e 07.09.2011, senza previa tempestiva comunicazione al pubblico e al Servizio del Comune concedente, e la mancata presentazione della relazione trimestrale.
In disparte la considerazione che tali osservazioni sono state formulate nell’imminenza del provvedimento di revoca della concessione e, probabilmente proprio in funzione della determinazione stessa, mentre in precedenza non risulta che sia stato formulato alcun rilievo circa la regolarità e la correntezza del servizio, vi è da dire che la mancata apertura al pubblico del monumento per soli otto giorni nell’arco di un anno, non appare sicuro indice di ulteriori gravi inadempienze dell’Associazione nell’esecuzione del rapporto concessorio.
Oltretutto, per quanto riguarda la gestione dell’immobile, dalla relazione, in data 04.04.2012, redatta dal funzionario tecnico incaricato dal Comune di verificare lo stato d’uso e manutenzione del sito, emerge che, a parte la presenza di macchie di umidità e di distacchi di tinteggiatura all'interno della struttura e la rottura del vetro della finestra del box esterno all’edificio (già esistente), non sono stati rilevati danni dovuti all'uso rispetto alla situazione del sito constatata all’atto della consegna dell’01/10/2010.
Per quanto riguarda il danno erariale, che la Procura attrice ha quantificato in € 13.041,60, pari alla somma dovuta al Comune nel periodo intercorrente dal 24.09.2010 al 24.04.2012, sulla base della stima peritale redatta dal tecnico del competente Servizio dell’Ente, la difesa ne ha eccepito l’infondatezza, contestando l’asserita gratuità della concessione d’uso del bene comunale perché l’obbligo di pagare un canone era sostituito dall’onere a carico del concessionario di effettuare molteplici prestazioni a favore dell’amministrazione comunale, gran parte delle quali erano estranee alle spese gestionali ordinarie e ai compiti di ordinaria manutenzione, rappresentando attività che, altrimenti, avrebbero dovuto essere svolte dal Comune, con accollo dei relativi costi.
In ogni caso, ha dedotto la sua non attualità, in quanto il Comune potrebbe ancora pretendere dall’associazione il pagamento del proprio credito, non essendo ancora intervenuto il termine prescrizionale dei cinque anni. Tale ultima argomentazione non è conferente, ove appena si consideri che, essendo stata espressamente prevista dal provvedimento di approvazione della convenzione la gratuità dell’assegnazione, nessun credito può vantare il Comune nei confronti dell’associazione.
E’ viceversa coerente con la realtà, risultante dagli atti di causa, l’assunto della sostanziale onerosità della concessione.
Si è detto in precedenza che,
in ragione delle sue peculiarità storiche e culturali, il monumento denominato Chiesetta Aragonese non è affatto assimilabile ad immobile suscettibile di redditività e/o da destinare a scopi economicamente lucrativi, rilevando piuttosto finalità di fruizione pubblica. E’, dunque, fuor di dubbio che con la sua concessione d’uso il Comune ha conseguito (o si è ripromesso di conseguire per la durata della concessione) un risparmio in termini di spese di gestione, di custodia e di manutenzione del sito, specie con riguardo alle spese del personale necessario per il compimento di tali attività, raggiungendo nello stesso tempo lo scopo di consentire la visita del monumento e di impedire atti vandalici e un nuovo degrado del sito (considerata anche la sua recente ristrutturazione).
La forma concessoria adottata si è rivelata funzionale a garantire la cura del bene, a consentirne la fruizione pubblica e a realizzare iniziative culturali e sociali, senza alcun onere per le finanze dell’Ente.
Si può, pertanto, fondatamente ritenere che la concessione di cui si tratta, ancorché conferita a titolo formalmente gratuito, non sia stata priva di congruo corrispettivo per la parte pubblica, in quanto sono stati espressamente previsti a carico del concessionario servizi e attività di utilità pubblica, e obblighi di gestione e di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile sicuramente comportanti oneri quantificabili anche monetariamente.
Sotto questo profilo,
nell’affidamento della gestione della Chiesetta Aragonese all’Associazione culturale ISARDI non è ravvisabile alcun danno patrimoniale per l’amministrazione comunale, atteso che, come si è detto più volte, l’amministrazione comunale, da un lato, ha potuto soddisfare l’interesse alla fruizione pubblica del sito e, dall’altro, ha conseguito l’altrettanto rilevante obiettivo della gestione, della vigilanza e della tutela del monumento, delle strutture annesse e dell'area verde circostante, senza onere alcuno a carico del bilancio del Comune.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si deve, pertanto, pronunciare il proscioglimento del convenuto dalla domanda attrice
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna, sentenza 16.09.2013 n. 234).

agosto 2013

PATRIMONIO: Alienazione immobile con vincolo di destinazione.
Qualora le disposizioni normative costitutive del vincolo di destinazione di un edificio risultino abrogate, non pare sussistere alcun ostacolo legislativo all'alienabilità dello stesso, senza vincolo di destinazione.
Il Comune, proprietario di un immobile con vincolo di destinazione a scuola materna, ai sensi dell'art. 2-ter della legge 04.08.1978, n. 465, chiede di conoscere se, attesa l'abrogazione della predetta legge ad opera dell'art. 24 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2008, n. 133, il vincolo di destinazione possa considerarsi non più operante e l'Ente possa dunque procedere all'alienazione dell'edificio. Un tanto in considerazione anche dello stato di abbandono dell'immobile in argomento e della intervenuta realizzazione di altra struttura specificamente progettata per accogliere la nuova scuola materna.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti considerazioni.
Come già rappresentato nel parere prot. 5073 dd. 22.02.1995, l'immobile in argomento può essere annoverato tra i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dell'Ente.
Circa il regime giuridico dei beni indisponibili, l'unica indicazione legislativa esplicita è quella di cui al secondo comma dell'art. 828 c.c. secondo cui tali beni non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. A parte questa disposizione, manca una disciplina uniforme dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile. In linea generale, può affermarsi che detti beni sono sottoposti a un regime differente da quello di diritto comune, ma la portata di questo regime è solitamente stabilita dalle singole leggi che li disciplinano.
[1]
Si ritiene, dunque, che qualora l'alienabilità non sia vietata da alcuna norma di legge, essa dovrebbe essere, in via generale, ammessa.
Atteso che, come descritto in premessa, le disposizioni normative costitutive del vincolo di destinazione dell'edificio 'de quo' risultano abrogate, non pare sussistere alcun ostacolo legislativo all'alienabilità, senza vincolo di destinazione, del predetto immobile.
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[1] Si osserva, ad esempio, che l'inalienabilità dei beni indisponibili non è un carattere assoluto come invece è previsto per i beni demaniali, tuttavia, numerose leggi speciali sanciscono l'inalienabilità delle miniere, delle cave, delle torbiere, delle foreste, ecc. (26.08.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Oggetto: Istruzioni e linee guida per la fornitura e posa in opera di segnaletica stradale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 05.08.2013 n. 4867 di prot.).
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Un freno dai Trasporti alla segnaletica creativa.
La segnaletica stradale deve essere uniforme e adeguata alle direttive ministeriali. Sono quindi fuori legge tutte le iniziative locali finalizzate a valorizzare un attraversamento pedonale o un incrocio senza il rispetto delle specifiche tecniche richieste dalla normativa.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare 05.08.2013 n. 4867 di prot. avente per oggetto «istruzioni e linee guida per la fornitura e posa in opera di segnaletica stradale».
Nonostante l'art. 38/6° del codice stradale richiami chiaramente la necessaria uniformità della segnaletica stradale sono tanti gli enti proprietari delle strade che in questi anni hanno intrapreso scelte originali spesso molto censurabili.
Nonostante le continue e ripetute diffide e due direttive ad hoc del 24.10.2000 e del 27.04.2006 la questione è ancora molto combattuta per cui il ministero ha ritenuto opportuno riepilogare tutta la disciplina in materia alla luce del regolamento 305/2011/Ue che dal 1° luglio ha definitivamente sostituito la direttiva 89/106/Ce. In particolare ai sensi di questa dettagliata disposizione normativa ora tutta la segnaletica verticale deve essere marcata Ce e deve rispondere a specifiche tecniche ad hoc richiamate anche dall'art. 63 del codice degli appalti.
Per quanto non coperto da norme armonizzate, prosegue la nota centrale, restano valide le norme nazionali per esempio circa i vincoli e le modalità di impiego dei segnali e dei dispositivi contemplati nell'art. 45/6° del codice stradale per i quali è obbligatorio ricorrere a prodotti omologati o approvati. È il caso per esempio della segnaletica temporanea di cantiere, dei segnali complementari previsti dall'art. 42 Cds (tra cui i dispositivi destinati ad impedire la sosta o limitare la velocità) e tutti gli altri dispositivi analoghi previsti dal regolamento stradale.
La questione sulla corretta e uniforme applicazione delle norme in materia di segnaletica però è già stata adeguatamente approfondita in particolare dalla direttiva del 27.04.2006 che per la prima volta viene ufficializzata dopo un periodo di grande incertezza sull'ufficialità della stessa (articolo ItaliaOggi del 22.08.2013
).

PATRIMONIO: L. 228/2012, art. 1, comma 141. Limiti di spesa per l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma 143, della L. 228/2012 dispone che le amministrazioni pubbliche non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto dia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili.
Spetta, pertanto, all'Ente valutare la sussistenza o meno delle condizioni al fine di procedere all'acquisto degli arredi sulla base di una puntuale quantificazione preventiva dei costi e dei risparmi conseguenti.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di procedere all'acquisto di mobili e arredi funzionali alla conduzione del centro di aggregazione giovanile di proprietà comunale, destinato all'uso non gratuito da parte di terzi, stante il disposto di cui all'articolo 1, comma 143, della legge 24.12.2012, n. 228.
In via preliminare, si fa presente che la decisione sulla sussistenza o meno delle condizioni al fine di procedere all'acquisto degli arredi attiene al merito dell'azione amministrativa e rientra nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità di codesto ente, non potendo lo scrivente sostituirsi agli organi e uffici dello stesso.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti considerazioni di carattere generale.
La norma in argomento, facendo salve le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, stabilisce che, per gli anni 2013 e 2014, «le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, ... omissis... non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori di conti verifica preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma».
Alla luce del fatto che la violazione della disposizione in argomento è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti, si ritiene necessario che l'Ente effettui un'analisi approfondita dell'operazione, nell'ottica di una puntuale quantificazione preventiva dei costi e dei risparmi conseguenti, avendo presente che la norma impone che:
a) l'acquisto di mobili e arredi deve essere funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. Si tratta di un aspetto che solo l'Ente è in grado di valutare pienamente;
b) i risparmi realizzabili con l'acquisto devono essere superiori all'entità della spesa di conduzione degli immobili.
In via collaborativa, si riporta quanto specificato da un articolo di dottrina
[1], avente ad oggetto 'L'applicazione dei limiti sulle singole tipologie di spesa: il caso dell'acquisto di mobili e arredi (articolo 1, comma 141, legge di stabilità n. 228/2012', secondo il quale occorre che il collegio dei revisori certifichi che i nuovi mobili e arredi consentono un risparmio sulla base di una motivata analisi economica che dimostri come tali risparmi siano ottenibili dal mancato taglio e li quantifichi.
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[1] Pubblicato sulla newsletter quindicinale 'Bilancio e contabilità news' di martedì 07.05.2013 (01.08.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

luglio 2013

PATRIMONIO: Alienazione immobili.
Domanda
Un comune, in presenza di apposita disposizione regolamentare, ha provveduto ad alienare un immobile di sua proprietà ad una fondazione pubblica, senza ricorrere a procedure di selezione improntate a criteri di evidenza pubblica.
Si chiede se la procedura seguita e la relativa clausola regolamentare siano legittime.
Risposta
Alla luce delle disposizioni comunitarie e nazionali, nonché dei più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia, si ritiene che la procedura seguita dall'ente, seppur conforme alle disposizioni del regolamento comunale, presenti forti elementi di criticità.
In primis, si rileva che tale procedura è astrattamente idonea a pregiudicare la concorrenza in quanto attribuisce al comune la facoltà di vendere un bene pubblico, senza garantire un confronto competitivo, attribuendo in tal modo al diretto aggiudicatario un ingiustificato vantaggio competitivo.
L'art. 12 della legge n. 127/1997 prevede poi che i comuni e le province possono procedere alla alienazione del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle procedure previste dalle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando però i principi generali dell'ordinamento giuridico contabile. A tal fine sono assicurati «criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato».
La stessa giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che i criteri dell'evidenza pubblica debbono essere rispettati anche nei casi di alienazione di beni da parte di una pubblica amministrazione (cfr. Cons. stato, 19.05.2008, n. 2280).
Ciò posto, si segnala infine che, pronunciandosi su un caso analogo, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, con proprio parere del 20.03.2013, ha auspicato le eliminazioni delle disposizioni del regolamento comunale che prevedono l'esclusione di forme di confronto concorrenziale qualora l'acquirente interessato agli immobili oggetto di vendita sia un ente pubblico, una società partecipata da un ente pubblico locale, una fondazione, un'associazione, una onlus o un ente ecclesiastico (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

PATRIMONIO: Il divieto di acquistare immobili.
Domanda
Il divieto per le pubbliche amministrazioni di procedere all'acquisto di immobili nell'anno 2013 si estende anche alle procedure espropriative?
Risposta
La c.d. legge di stabilità 2013 (legge 24.12.2012 n. 228) nell'introdurre –con l'art. 1, comma 138– i commi 1-ter e 1-quater all'art. 12 del dl 06.07.2011, n. 98 ha apportato una limitazione di carattere assoluto, per l'anno 2013, e condizionata alla verifica dei presupposti di necessità e urgenza, per l'anno 2014, alla possibilità per le Amministrazioni pubbliche di acquistare la proprietà di immobili a titolo oneroso.
La previsione ut supra ha pertanto una portata generale in un'ottica di contenimento della spesa pubblica, imponendo pertanto alle P.a. uno stretto vincolo alle spese per l'acquisto di beni immobili sia per l'anno 2013, sia, anche se in modo meno stringente, per il 2014.
Venendo al quesito posto, al silenzio del legislatore in merito, si sono susseguiti, in questo primo semestre, pareri da parte delle sezioni regionali della Corte dei Conti, tutti improntati a una interpretazione tendente ad estendere il divieto di acquisto previsto dalla norma.
Di particolare importanza, ai fini del quesito posto, la deliberazione n. 9 del 31.01.2013 della Corte dei conti - sezione regionale di controllo per la Liguria, dove, in occasione della risposta alla richiesta di parere formulata da un Comune, la Corte ha espresso le proprie «coordinate interpretative», rispetto ai vincoli posti dalle norme sopra citate.
Nello specifico, per quanto attiene l'estensione del divieto procedere all'acquisto di immobili nell'anno 2013 anche alle procedure espropriative, ha precisato la Corte che le condizioni di cui sopra devono riferirsi applicabili anche all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
Il parere della sezione ligure della Corte dei conti ha finito per assumere una inevitabile forza di contagio. Concludendo, auspicando un quanto più repentino intervento del Legislatore in materia, allo stato attuale, considerando l'orientamento della magistratura contabile, si può affermare pertanto che il divieto de quo si estenda anche all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
È infine doveroso precisare che, in data 05.06.2013, la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35, recante disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Con tale disposizione il blocco degli acquisti viene tolto per tutte le acquisizioni per pubblica utilità di cui al dpr 327/2001, ricomprendendo quindi evidentemente anche l'articolo 42-bis (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

PATRIMONIO: Scadenza della concessione.
Domanda
Alla scadenza della concessione l'immobile realizzato dal concessionario sull'area demaniale è acquisito al demanio o resta al concessionario?
Risposta
L'art. 934 C.C. prevede che «qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo». È questo il principio dell'accessione.
In particolare, salvo che sia diversamente stabilito nell'atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell'autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato (Art. 49 Codice navigazione).
Concludendo si può quindi affermare che in mancanza di previsioni o clausole dirette a sottrarre il bene realizzato su suolo demaniale alla regola dell'accessione, il bene a tale regola non sfugge ed è quindi acquisito al demanio, nel quale il bene è incorporato (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

PATRIMONIO: DECRETO DEL FARE/ Agli enti locali 150 mln per la messa in sicurezza delle scuole
Demanio ai comuni, si riparte. Beni statali trasferiti gratis. Richieste dall'01/09 al 30/11.

Riparte il federalismo demaniale. Dopo essere stato tenuto tre anni in naftalina (il decreto legislativo che aveva dato il là alla riforma risale al 2010) la macchina organizzativa per il passaggio a titolo gratuito degli immobili dello stato a comuni, province e città metropolitane si rimetterà in moto il 1° settembre.
Da questa data e fino al 30 novembre gli enti locali interessati a mettere le mani sugli immobili dismessi dallo stato potranno farne richiesta all'Agenzia del demanio, indicando l'utilizzo che vorranno farne e le risorse a ciò destinate. Per gli enti locali sono poi in arrivo 150 milioni per il 2014 da destinare alla riqualificazione e la messa in sicurezza delle scuole. I fondi saranno ripartiti a livello regionale per essere poi destinati ai comuni e alle province sulla base del numero degli edifici scolastici e della popolazione studentesca. I contributi saranno ripartiti con decreto del Miur entro il 30 ottobre sulla base delle graduatorie presentate dalle regioni entro il 15 ottobre.

Sono queste le novità più significative per gli enti locali contenute negli emendamenti presentati nelle commissioni affari costituzionali e bilancio della camera dai due relatori al «decreto del fare» (dl n.69/2013) Francesco Paolo Sisto (Pdl) e Francesco Boccia (Pd).
Quasi a voler recuperare il tempo perduto, l'emendamento sul federalismo demaniale prevede tempi stretti per il riscontro delle richieste degli enti da parte dell'Agenzia del demanio: 60 giorni dalla ricezione dell'istanza per comunicare l'esito positivo o negativo. Se le richieste avranno ad oggetto beni già utilizzati dalla p.a., il Demanio interpellerà le amministrazioni interessate per sondare (entro il termine perentorio di 30 giorni) il loro interesse a continuare a utilizzarli per esigenze istituzionali.
In caso di mancata risposta da parte degli enti pubblici, l'Agenzia verificherà che gli immobili non assolvano ad altre esigenze statali, dopodiché procederà a trasferire i beni. Qualora sullo stesso immobile giungano richieste di attribuzione da parte di più livelli di governo, il bene sarà trasferito in via prioritaria al comune o alla città metropolitana (e in subordine alle province e alle regioni) sulla base del principio di sussidiarietà. Gli immobili trasferiti agli enti locali torneranno allo stato qualora l'Agenzia accerti che, a distanza di tre anni dal trasferimento, gli immobili non vengono utilizzati dalle amministrazioni.
Se gli enti decideranno di alienare i beni demaniali loro trasferiti, potranno tenere per sé il 75% del ricavato e destinarlo prioritariamente alla riduzione dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25% sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

PATRIMONIO: In merito alla possibilità o meno di stipulare “un contratto di comodato d’uso gratuito per il mantenimento nella propria cittadina della Tenenza dei Carabinieri”, la sussistenza di un rapporto di reciprocità tra Amministrazione dello Stato ed ente locale (cui fa riferimento il Sindaco interpellante, esponendo che, a sua volta, il Comune di Ercolano è “destinatario di un bene di proprietà statale trasferito a titolo gratuito”) costituisce elemento di valutazione, valorizzato dallo stesso testo di legge (cfr. prima parte dell’art. 1, comma 439, della legge n. 311 del 2004 cit.).
Tuttavia ciò non elide la necessità che le scelte discrezionali dell’Ente siano fondate al riguardo anche sulla completa e prudente disamina delle compatibilità finanziarie e gestionali già innanzi richiamate, oltre che sul soddisfacimento degli interessi della comunità locale.
Le concrete modalità di esercizio, nei sensi suindicati, della discrezionalità dell’Ente, vanno peraltro demandate all’esclusiva competenza degli Organi comunali a ciò preposti, senza possibilità di ingerenze o di previe, specifiche valutazioni della Sezione in questa sede consultiva.

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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Ercolano (NAPOLI) ha rivolto a questa Sezione richiesta di parere avente ad oggetto la possibilità o meno di stipulare “un contratto di comodato d’uso gratuito per il mantenimento nella propria cittadina della Tenenza dei Carabinieri.
Ai riguardo il Sindaco interpellante, dopo aver richiamato la normativa in materia di alienazione e di valorizzazione del patrimonio immobiliare degli enti locali, in particolare facendo riferimento all’art. 3, comma 2-bis, del decreto legge 06.07.2012 n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012 n. 135 (per il quale, tra l’altro, “…Le Regioni e gli enti locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, possono concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di immobili di loro proprietà”), espone che:
- L’Ente è proprietario di un immobile, facente parte del proprio patrimonio disponibile, che attualmente versa in stato di abbandono;
- l’Ente stesso ha partecipato al bando “PIU Europa” (Programma di Integrazione Urbana previsto dalla Regione Campania nella propria strategia di sviluppo 2007-2013 con l’obiettivo di ridare competitività al’intero sistema regionale in linea con le indicazioni della Commissione europea), presentando un progetto, ammesso al relativo finanziamento, avente tra le proprie finalità quella dell’aumento della sicurezza sociale, individuata come volano attraverso il quale dar vita al complessivo progetto di riqualificazione territoriale, inserendo, nel piano presentato, l’allestimento di una Tenenza dei Carabinieri in linea con le esigenze dell’Arma e dello stesso Ente locale;
- l’Ente ha proceduto ad un’attenta valutazione comparativa degli interessi in gioco, ritenendo prudenzialmente che l’affidamento in comodato gratuito dell’immobile di che trattasi non solo consentirebbe di acquisire i proventi relativi al finanziamento del suindicato progetto, ma compenserebbe la mancata percezione di canoni di locazione con la valorizzazione del bene stesso conseguente alla sua ristrutturazione, nonché con i benefici sociali e di indotto connessi al mantenimento in loco di un presidio di forze dell’ordine;
- la possibilità -sancita dal surrichiamato art. 3, comma 2-bis, del decreto legge n° 95 del 2012, convertito nella legge n° 135 del 2012- di utilizzare nella fattispecie la formula contrattuale del comodato, andrebbe comunque a collocarsi nel rapporto di reciprocità già intrapreso dall’Ente e dallo Stato in subiecta materia, considerato che il Comune di Ercolano già risulta destinatario di un bene di proprietà statale trasferitogli a titolo gratuito;
- l’Ente ha comunque avviato un proficuo percorso di revisione, con contestuale rescissione contrattuale dei rapporti locativi passivi, allocando in immobili di proprietà comunale gli uffici comunali già ospitati presso strutture esterne.
...

L’ammissibilità oggettiva della richiesta di parere in trattazione va dunque limitata alla sola disamina, in astratto, della possibilità per l’Ente interpellante di concedere in comodato d’uso gratuito un immobile di proprietà comunale all’Arma dei Carabinieri per le finalità istituzionali di tale Arma, ferme restando, comunque, le esigenze di rispetto di eventuali obblighi e vincoli derivanti dalla partecipazione dell’Ente stesso al progetto “PIU Europa”, oltre che ogni altra necessità di preventiva e oculata pianificazione della gestione del patrimonio immobiliare comunale.
Passando dunque, con tali precisazioni, al merito della richiesta di parere de qua, va osservato che “
…rientra nella sfera di discrezionalità dell’Ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo” (così, condividibilmente, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, 17.06.2010, n. 672/2010/PAR).
E’ peraltro evidente, come sostanzialmente evidenziato dallo stesse Ente interpellante nelle premesse della richiesta di parere, che
le scelte operate in proposito devono rientrare in un ambito programmatorio gestionale, anche al fine di operare previamente e con la necessaria tempestività le necessarie classificazioni dei beni immobili e di individuare il connesso regime giuridico applicabile.
La norma sopravvenuta citata dal Sindaco (art. 1, comma 439, della legge 30.12.2004 n. 311, quale modificato dal comma 2-bis dell’art. 3 del decreto-legge 06.07.2012 n. 95, come a sua volta modificato dalla legge di conversione 07.08.2012 n. 135), nel prevedere testualmente che “Le Regioni e gli enti locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, possono concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di immobili di loro proprietà”, ha introdotto una specifica disciplina in subiecta materia, che appare volta principalmente a contenere la spesa statale relativa ai canoni corrisposti per locazione di immobili di proprietà degli enti territoriali.
Non priva di rilevanza appare peraltro la circostanza che la norma in argomento, quale formulata all’art. 2 del testo originario del decreto legge n. 95 del 2012, introduceva l’obbligo (e non già la mera facoltà) per Regioni ed enti locali di concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di immobili di loro proprietà, sicché le modifiche apportate in sede di conversione del suindicato decreto-legge hanno attenuato la portata precettiva della norma stessa, valorizzando in proposito l’esercizio della discrezionalità degli enti proprietari, con tutte le connesse implicazioni circa la necessità di oculate valutazioni e di attenta comparazione degli interessi coinvolti.
Certamente
la sussistenza di un rapporto di reciprocità tra Amministrazione dello Stato ed ente locale (cui fa riferimento il Sindaco interpellante, esponendo che, a sua volta, il Comune di Ercolano è “destinatario di un bene di proprietà statale trasferito a titolo gratuito”) costituisce elemento di valutazione, valorizzato dallo stesso testo di legge (cfr. prima parte dell’art. 1, comma 439, della legge n. 311 del 2004 cit.); tuttavia ciò non elide la necessità che le scelte discrezionali dell’Ente siano fondate al riguardo anche sulla completa e prudente disamina delle compatibilità finanziarie e gestionali già innanzi richiamate, oltre che sul soddisfacimento degli interessi della comunità locale (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 672 del 2010 cit.).
Le concrete modalità di esercizio, nei sensi suindicati, della discrezionalità dell’Ente, vanno peraltro demandate all’esclusiva competenza degli Organi comunali a ciò preposti, senza possibilità di ingerenze o di previe, specifiche valutazioni della Sezione in questa sede consultiva (cfr. Sezione regionale di controllo per la Campania, 23.05.2013, n. 216) (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 10.07.2013 n. 237).

giugno 2013

PATRIMONIO: F. Palazzotto, IL DIVIETO DI RINNOVO AUTOMATICO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME PER ATTIVITÀ TURISTICO-RICREZTIVE A SEGUITO DI DANNI CAUSATI DA EVENTI ATMOSFERICI ECCEZIONALI E DANNOSI - La Corte Costituzionale, con la recente sentenza del 04.07.2013 n. 171, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l.reg. Liguria 30.07.2012, n. 24, che ha tentato di reintrodurre il rinnovo automatico delle concessioni a seguito di eventi naturali atmosferici che causassero danni. La Corte ha affermato che il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni, venendo meno agli obblighi che incombono ai sensi degli artt. 49 e 101 del TFUE e dell’art. 12 della dir. 2006/123/CE (c.d. dir. Bolkestein), viola l’art. 117,co. 1, cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, determinando altresì una disparità di trattamento tra operatori economici, in violazione dell’art. 117, co. 2, lett. e), dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore. Eliminando la proroga i concessionari non vengono ricompensati dei propri investimenti, di conseguenza vengono disincentivati ad effettuare investimenti per recuperare i beni demaniali danneggiati dalle mareggiate poiché i loro sforzi rischiano di non portare alcun vantaggio per la propria attività, stante il rischio che la loro concessione venga assegnata a un altro operatore. Adesso, sarà necessario trovare un sistema di incentivi alla riparazione dei danni subiti dai beni demaniali, necessariamente più adeguato e coerente don i principi del diritto europeo (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

PATRIMONIOImmobili p.a., il Demanio stringe i costi.
Agenzia del demanio al lavoro per il contenimento dei costi degli immobili della p.a. Grazie a una norma inserita nel recente ddl semplificazioni, le amministrazioni avranno l'obbligo di comunicare il proprio fabbisogno di spazio (si veda ItaliaOggi del 19.06.2013). Cambierà il parametro di riferimento: dal concetto di metro quadro a persona si andrà verso il costo totale a persona (total occupancy cost), includendo quindi anche gli oneri indiretti, compresi quelli energetici.

A spiegarlo a ItaliaOggi è Stefano Scalera, direttore del Demanio, a margine di un convegno sulle società di investimento immobiliare quotate (Siiq), che si è tenuto giovedì a Milano.
«L'attività si articola in due fasi», afferma Scalera, «la prima è la raccolta dati da parte delle amministrazioni. A oggi, nonostante l'adempimento sia volontario, abbiamo avuto un riscontro da circa il 47% degli enti. La seconda fase sarà invece costituita dal benchmarking tra le diverse amministrazioni, relativamente alle spese collegate agli immobili. Scendere nel dettaglio delle singole voci è indispensabile per una vera spending review».
Un processo senz'altro articolato, ma che finora ha consentito allo stato di risparmiare circa 50 milioni di euro di sole locazioni. Al centro dei lavori c'erano le Siiq e i nuovi veicoli societari introdotti dall'articolo 33-bis del dl n. 98/2011, che possono beneficiare di un trattamento fiscale analogo. Il binomio real estate-finanza è ancora debole: mentre alla borsa di Parigi l'industria immobiliare rappresentata vale il 5% del comparto, in Italia è appena lo 0,2%.
Un fenomeno che rispecchia la scarsa propensione dei soggetti nazionali ad approdare sui mercati, dal momento che «solo il 20% del pil è quotato», evidenzia Massimo Tononi, presidente Borsa Italiana. Secondo il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, «l'immobiliare è il settore che, forse più di altri, deve seguire trasparenza, regole di governance chiare e moralità dei protagonisti. Contemporaneamente a qualche aggiustamento legislativo andrà operata una selezione accurata dei partecipanti al mercato».
Alessandro Balp, partner dello studio Bonelli Erede Pappalardo, ha invece passato in rassegna le campagne di dismissione del mattone pubblico negli altri paesi europei, «dove negli ultimi dieci anni sono stati privatizzati immobili per circa 25 miliardi di euro, soprattutto in Inghilterra, Germania e Olanda. Le operazioni non hanno riguardato solo cessioni, ma sono state strette anche partnership pubblico-privato per la manutenzione straordinaria e la valorizzazione dei fabbricati pubblici non utilizzati» (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013).

PATRIMONIO: La Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di parere del Sindaco del Comune di Bene Lario (CO), in materia di permuta immobiliare.
Per effetto della recente norma di interpretazione autentica (legge 06.06.2013, n. 64), si deve ritenere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate a seguito di permute a parità di prezzo.
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Il Sindaco del Comune di Bene Lario (CO) ha formulato alla Sezione una richiesta di parere in materia di permuta immobiliare, del seguente tenore.
Il bene oggetto della permuta è un immobile dato in uso perpetuo alla parrocchia di SS. Vito e Modesto che la utilizza come casa parrocchiale, ma la nuda proprietà è rimasta in capo al Comune di Bene Lario. La Curia ha chiesto di acquistare la nuda proprietà della casa parrocchiale e offre in permuta terreni di proprietà che si trovano sul territorio di Bene Lario.
Il Comune sarebbe disponibile alla permuta, in considerazione del fatto che il bene non è utilizzabile a fini istituzionali.
Alla luce dell’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, che ha disposto il divieto alle pubbliche amministrazioni e tra queste gli enti locali, di acquistare a qualsiasi titolo beni immobili, l’organo rappresentativo dell’ente chiede se sia possibile concludere l’operazione di permuta con la Curia in considerazione del fatto che l’operazione di per sé si caratterizza per lo scambio di immobili, senza pagamento di prezzo in denaro.
...
La Sezione si è già espressa in numerosi precedenti sul tema del divieto di acquisto di immobili sancito dall’art. 1, comma 138, della Legge 24.12.2012 n. 228. Tali pronunce, rese in sede consultiva, devono intendersi integralmente richiamate (SRC Lombardia, deliberazione nn .73/2013/PAR; 162/2013/PAR; 163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR, 181/2013/PAR, 193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), novellato dalla richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater. Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell’articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui alla prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter. A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente».
Il principio della inapplicabilità del divieto in oggetto alle procedure di permuta “pura” è stato affermato nella deliberazione n. 162/2013.
Successivamente è intervenuta la legge 06.06.2013, n. 64, la quale ha proceduto alla conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35 (recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111” (art. 10-bis) il quale, in modo risolutivo esclude dalla portata applicativa della disposizione alcune ipotesi, e segnatamente: «1. Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del quesito,
per effetto della recente norma di interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate a seguito di permute a parità di prezzo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.06.2013 n. 268).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: La Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di parere del Presidente della Regione Lombardia, relativamente all’interpretazione 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 (comma inserito dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012).
In relazione all’oggetto del primo quesito, per effetto della recente norma di interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate all’interno delle procedure di cui al T.U. n. 327/2001 (testo unico espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da legge regionale e statale riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta salva la salvaguardia del principio di necessità.

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Il Presidente della Regione Lombardia ha formulato alla Sezione una richiesta di parere del seguente tenore.
L’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 (comma inserito dall’articolo 1, comma 138, della legge n. 228/2012) prevede quanto segue: “per l'anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, (…), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell'articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del presente decreto".
Il Presidente della Regione chiede se il divieto posto dall’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 riguardi:
a) l’acquisizione tramite il procedimento espropriativo;
b) l’acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e forestale ai sensi dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983
.
a. Acquisizione tramite procedimento espropriativo
La norma, ponendo in via generale il divieto di acquisizione di immobili a titolo oneroso, sembra non lasciare spazio ad alcuna eccezione così da ritenere incluso nel divieto anche l’acquisizione dell’immobile a seguito dell’espropriazione per pubblica utilità, dal momento che anche l’espropriazione comporta l’acquisizione di immobili a titolo oneroso.
Tuttavia l’applicazione della norma con riguardo alle espropriazioni si tradurrebbe nel divieto, per l’anno 2013, di realizzare anche le opere di pubblica utilità, quali le opere idrauliche, le opere di difesa del suolo, o comunque opere infrastrutturali in relazione alle quali gli immobili da espropriare sono da intestare al demanio pubblico o al patrimonio indisponibile.
In tali casi, si ritiene che la sospensione del procedimento espropriativo comporterebbe un sacrificio dell’interesse pubblico di rilievo superiore o comunque sicuramente comparabile all’interesse di riduzione della spesa pubblica.
Si chiede, pertanto, se il divieto di acquisto a titolo oneroso comporti l’indiscriminata sospensione per il 2013 di tutte le procedure espropriative, indipendentemente dalla finalità e dalla natura dell’opera da realizzare, o se occorra distinguere tra procedure volte all’acquisizione di immobili ascrivibili al demanio o al patrimonio indisponibile (ad esempio procedure di esproprio volte alla realizzazione di opere idrauliche, opere di difesa del suolo, opere infrastrutturali) e procedure relative ad immobili, pur riconosciuti di pubblica utilità, ascrivibili al patrimonio disponibile.
b) Acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e forestale ai sensi dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983
L’art. 5, comma 1, della L.r. n. 86/1983 dispone che “I piani dei parchi e delle riserve prevedono l'acquisizione in proprietà pubblica delle aree per le quali i piani medesimi prevedano un uso pubblico nonché delle aree per le quali i limiti alle attività antropiche comportino la totale inutilizzazione”.
La regione Lombardia, a decorrere dall’anno 2000, in attuazione dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983, ha attivato un processo di acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e forestale, localizzate all’interno del Sistema regionale delle aree protette (Parchi Regionali e Naturali, Riserve e Monumenti Naturali) e strumentali all’attività degli Enti gestori.
Nel corso degli anni, tale attività ha consentito l’acquisizione al patrimonio regionale di aree di rilevanza naturalistica, per una superficie catastale complessiva pari a circa 775 ettari. Questa superficie è ripartita in 24 Aree Protette Regionali, tra cui otto Riserve e Monumenti Naturali, quattordici Parchi Regionali e due PLIS.
Una volta acquisite, le aree entrano a far parte del patrimonio forestale regionale indisponibile e, successivamente, vengono assegnate in concessione agli enti gestori delle aree protette.
Le modalità di acquisizione al patrimonio regionale di aree, di proprietà privata, ad alta valenza naturale, sono state, da ultimo, definite con deliberazione di Giunta Regionale n. IX/2109 del 04.08.2011.
Le risorse disponibili per l’acquisizione delle aree sono allocate annualmente in un capitolo di bilancio appositamente dedicato.
Anche in questo caso l’estensione del divieto a questa tipologia di acquisto comporterebbe un sacrificio dell’interesse pubblico di rilievo superiore o comunque comparabile all’interesse di riduzione della spesa: ciò in quanto l’acquisizione di che trattasi è strumentale al perseguimento di obiettivi di tutele e salvaguardia riconducibili a Rete Natura 2000 (d.P.R. 357/1997), anche con presenza di habitat e specie prioritarie (Direttiva 92/43 CEE “Habitat”) o ad emergenza naturalistica (faunistiche/floristiche) a rischio di compromissione (legge regionale 10/2008 e d.g.r. 7736/2008).
Il Presidente della Regione chiede, pertanto, se il divieto di acquisto a titolo oneroso riguardi le sole procedure ascrivibili al patrimonio disponibile con esclusione di quelle, finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da legge regionale e statale e, in quanto tali, riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile dell’ente.
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La Sezione si è già espressa in numerosi precedenti sul tema del divieto di acquisto di immobili sancito dall’art. 1, comma 138 della Legge 24.12.2012 n. 228. Tali pronunce, rese in sede consultiva, devono intendersi integralmente richiamate (SRC Lombardia, deliberazione nn. 73/2013/PAR; 162/2013/PAR; 163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR, 181/2013/PAR, 193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), novellato dalla richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater. Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell’articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui alla prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter. A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente».
Il tema della estensibilità del divieto in oggetto alle procedure di esproprio è stato ampiamente affrontato nelle deliberazioni nn. 162 e 163/2013/PAR, nonché nn. 169 e 193/2013/PAR e nelle pronunce di altre Sezioni ivi richiamate.
In tali deliberazioni la Sezione riteneva che il ridetto divieto si applicasse alle procedure di esproprio, salve le procedure collegate ad opere di urgenza, anche a salvaguardia del principio di necessità (in questo senso anche SRC Liguria
parere 31.01.2013 n. 9).
Successivamente a tali pronunce rese dalla Magistratura contabile in sede consultiva, è intervenuta la legge 06.06.2013, n. 64, la quale ha proceduto alla conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35 (recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111” (art. 10-bis) che, in modo risolutivo esclude dalla portata applicativa della disposizione alcune ipotesi, tra cui quelle relative alle procedure per acquisti di pubblica utilità di cui al T.U. espropriazioni (D.P.R 327/2001), e segnatamente: «1. Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del primo quesito,
per effetto della recente norma di interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate all’interno delle procedure di cui al T.U. n. 327/2001 (testo unico espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da legge regionale e statale riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta salva la salvaguardia del principio di necessità (Corte dei Conti, Sez. contr. Lombardia, n. 162/2013) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.06.2013 n. 267).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIOLa novella dell'art. 12 del DL 98/2011 (convertito dalla L. 111/2011), operata dal c. 138 dell'art. 1 della L. 228/2012, prevede “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche (…) non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti (…)”.
La stessa disposizione eccettua dal proprio perimetro applicativo una serie di norme. In linea di principio la Sezione ha (del.ne 200/2013) precisato che l’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono categoricamente ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, nel senso auspicato dal comune. Circa l’applicabilità del divieto alle fattispecie di espropriazione per pubblica utilità, la questione è stata, tra l’altro, esaminata e confermata dalla SRC Liguria (del.ne 31.03.2013, n. 9).
Non si può concordare con la tesi per cui l’applicazione della norma proibitiva ai casi di espropriazione per pubblica utilità risulterebbe preclusa dalla natura originaria, e non derivativa, dell’acquisto compiuto dall’ente. Il testo della norma, riferito agli “acquisti”, non sembra eccettuare dal proprio perimetro applicativo gli acquisti a titolo originario, in quanto l’esigenza di contenimento delle spese pubbliche sussiste anche per le fattispecie in cui in capo all’ente l’acquisto si determini a titolo originario: la differenza tra le due modalità acquisitive pare irrilevante con riguardo al diverso tema delle ragioni di carattere finanziario. Elemento discretivo potrebbe essere la sussistenza a carico dell’acquirente di un obbligazione pecuniaria, solo requisito sussistente ai fini dell’applicabilità del divieto.
In secondo luogo, il codice civile conosce una serie di ipotesi, a titolo originario, che non prescindono da un’attività dell’acquirente, che può essere in condizione di determinare la propria condotta. Ma, soprattutto, ad abundatiam, il carattere originario dell’acquisto a titolo espropriativo risulta affermazione controversa in dottrina e giurisprudenza. La tesi dell’acquisto a titolo originario si basa su una serie di disposizioni (oggi contenute nel d.p.r. 08.06.2001, 327, t.u. espr.) quali l’art. 2; l’art. 25; più in generale, la circostanza che l’intero procedimento espropriativo prescinda dalla volontà negoziale dell’interessato.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che la qualificazione giuridica dell’acquisto sia condizionata dalle peculiarità della fattispecie e dall’interferenza di un procedimento pubblicistico, che spiegherebbero le norme sopra descritte. Altri elementi sintomatici (l’art. 23 del d.p.r. 327/2001, che prevede la trascrizione dell’acquisto; l’istituto della c.d. retrocessione del bene, che presuppone l’individuazione di un precedente proprietario; più in generale, la potenziale interferenza di momenti di carattere negoziale e volontaristico) indurrebbero a ritenere che l’espropriazione disciplini e incida l’an del trasferimento e non anche il quomodo.
La diatriba risulta superata dal dato normativo: con la L. 64/2013, conversione, con modificazioni, del DL 35/2013, il legislatore ha ritenuto di dettare una disciplina espressa che (art. 10-bis) prevede “Nel rispetto del PdS interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'art. 12, c. 1-quater, del DL 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico”.
La sopravvenienza normativa determina la completa rivisitazione del quadro fattuale e normativo e rende superflua l’interpretazione della Sezione. Nulla osta a che l’ente interessato proceda ad acquisizioni espropriative ai sensi del d.p.r. 08.06.2001, n. 327.

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Il comune richiede chiarimenti sull'art. 12, comma 1-quater, della legge 15.07.2011, n. 111, inserito dall'art.1, comma 138, della legge 24.12.2012 n. 228 (legge di stabilità 2013).
In particolare, il comune di Varese, ai fini della realizzazione di opere pubbliche, ha, nel corso degli ultimi anni, acquisito la disponibilità di aree di proprietà di terzi e, ciò, sia in forza di procedure espropriative avviate ai sensi della vigente normativa di cui al d.p.r. 08.06.2001, n. 327, previa occupazione anticipata ex art. 22-bis, concordando in seguito la cessione volontaria dei beni (art. 45) in superamento del procedimento ablatorio; che, in assenza di quest' ultimo, in forza di accordi sin dall'origine raggiunti con la proprietà per la bonaria acquisizione -a titolo oneroso- di dette aree.
Anche nella maggior parte dei casi di accordo bonario, l'ente, per ragioni di qualificata urgenza, ha infatti convenuto con i proprietari di poter occupare le aree necessarie per la realizzazione dell'intervento anteriormente alla stipula del formale atto di compravendita.
Il corrispettivo dell'acquisizione in parola è stato quindi determinato tenendo conto anche dell'indennità dovuta per la suddetta occupazione
Il perfezionamento degli atti di trasferimento immobiliare delle aree già nella disponibilità dell'Amministrazione ed irreversibilmente trasformate per effetto dell'avvenuta realizzazione delle previste opere pubbliche risulterebbe, oggi, inibito, nonostante l'obbligazione in tal senso antecedentemente assunta dall'Amministrazione e l'avvenuto accantonamento delle necessarie risorse finanziarie, dalle disposizioni di cui all'art. 1, comma 138, l. 228/2012.
Non risulterebbe infatti oggettivamente possibile procedere alla retrocessione di dette aree che, pertanto, l'Amministrazione continuerebbe a detenere, mantenendo a proprio diretto carico, pur non avendone la titolarità giuridica, ogni conseguente responsabilità ed onere manutentivo.
Al protrarsi del possesso conseguirebbe, necessariamente, anche un progressivo incremento dell'entità dell'indennità di occupazione dovuta alla proprietà. L'indennità, infatti, non è riferibile all'acquisto del diritto di proprietà o di altro diritto reale, ma, avendo sostanzialmente funzione sostitutiva della mancata percezione dei frutti ritraibili dai beni occupati, è direttamente proporzionale al periodo di occupazione.
Sarebbe quindi, prevedibile, come peraltro già paventato da taluni, che l'alterazione dell'equilibrio economico sotteso all'accordo raggiunto con la proprietà, conseguenza diretta dell'impossibilità per l'Amministrazione di perfezionare l'acquisto, si traduca nella necessità di una rinegoziazione del corrispettivo con la proprietà, con aggravio di costi per l'Amministrazione stessa.
Tanto premesso, il comune richiede se il divieto di procedere ad acquisizioni a titolo oneroso debba ritenersi operante anche in relazione a fattispecie, quali quelle sopra descritte, ove, al contrario, il perfezionamento dell'acquisizione, già nel 2013, si tradurrebbe in un concreto risparmio di spesa per l'Amministrazione.
...
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le esigenze allocative in materia di edilizia residenziale pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di programmi e piani concernenti interventi di perequazione socio-territoriale.
In linea di principio la Sezione ha (anche di recente: parere 08.05.2013 n. 200) avuto modo di precisare che l’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono in modo categorico che ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, e quindi nel senso auspicato dal comune.
Passando al diverso problema relativo all’applicabilità del divieto alle fattispecie di espropriazione per pubblica utilità, tale questione è stata, tra l’altro, esaminata e confermata dalla sezione regionale di controllo per la Liguria della Corte dei Conti (
parere 31.01.2013 n. 9).
Non si può in nessun modo concordare con la tesi per cui l’applicazione della norma proibitiva ai casi di espropriazione per pubblica utilità risulterebbe preclusa dalla natura originaria, e non derivativa, dell’acquisto compiuto dall’ente.
In primis, occorre precisare che il testo della norma, laconicamente riferito agli “acquisti”, non sembra affatto eccettuare dal proprio perimetro applicativo gli acquisti a titolo originario, in quanto l’esigenza di contenimento delle spese pubbliche sussiste, con tutta evidenza, anche per le fattispecie in cui in capo all’ente l’acquisto si determini a titolo originario: la differenza tra le due modalità acquisitive, infatti, se assume un certo pregio al fine della risoluzione dei conflitti tra terzi, pare del tutto irrilevante con riguardo al diverso tema delle ragioni di carattere finanziario.
Elemento discretivo potrebbe, al massimo, essere la sussistenza a carico dell’acquirente di un obbligazione pecuniaria, solo requisito sussistente ai fini dell’applicabilità del divieto (cfr ultra).
In secondo luogo, occorre rammentare che il codice civile conosce una serie di ipotesi (si pensi, a puro titolo di esempio, alla costruzione operata dal fondo con materiali propri o all’usucapione) che, pur essendo a titolo originario, non prescindono certo da un’attività dell’acquirente, che quindi può essere in condizione di determinare la propria condotta.
Ma, soprattutto, ad abundatiam, va precisato che il carattere originario dell’acquisto a titolo espropriativo risulta affermazione ancora controversa in dottrina e giurisprudenza.
La tesi dell’acquisto a titolo originario si basa infatti su una serie di disposizioni (oggi contenute nel d.p.r. 08.06.2001, 327, t.u. espr.) quali l’art. 2, che prevede l’irrilevanza della difettosa individuazione del proprietario; l’art. 25, che indica quale effetto del procedimento l’estinzione dei diritti gravanti sul bene; più in generale, la circostanza che l’intero procedimento espropriativo prescinda dalla volontà negoziale dell’interessato.
Tuttavia, altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che la qualificazione giuridica dell’acquisto sia condizionata dalle peculiarità della fattispecie e dall’interferenza di un procedimento pubblicistico, che spiegherebbero le norme sopra descritte.
Per contro, altri elementi sintomatici (l’art. 23 del d.p.r. 327/2001, che prevede la trascrizione dell’acquisto; l’istituto della c.d. retrocessione del bene, che presuppone l’individuazione di un precedente proprietario; più in generale, la potenziale interferenza di momenti di carattere negoziale e volontaristico – cfr ultra) indurrebbero invece a ritenere che l’espropriazione disciplini e incida l’an del trasferimento e non anche il quomodo.
La diatriba risulta per vero ormai superata dal dato normativo, in quanto, con la legge 06.06.2013, n. 64, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35, il legislatore ha ritenuto di dettare una disciplina espressa che, tra l’altro (art. 10-bis) tra l’altro prevede che “Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (…)”.
La sopravvenienza normativa determina, ovviamente, la completa rivisitazione del quadro fattuale e normativo e, di conseguenza, rende superflua l’interpretazione della Sezione.
Pertanto, nulla osta a che l’ente interessato proceda ad acquisizioni espropriative ai sensi del d.p.r. 08.06.2001, n. 327 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 27.06.2013 n. 251).

COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: Accettazione di una donazione immobiliare.
Ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel), l'accettazione di una donazione immobiliare rientra nell'ambito delle competenze del consiglio comunale in quanto, per 'acquisti immobiliari', devono intendersi sia quelli a titolo oneroso sia quelli a titolo gratuito.
Il Comune chiede di sapere se all'accettazione di una donazione immobiliare sia competente il Consiglio o la Giunta comunale.
Tale questione, già affrontata da questo Ufficio
[1], risulta risolvibile ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel) che prevede, tra le attribuzioni dei consigli, 'gli acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altre funzioni'.
Non essendo stato specificato diversamente dal legislatore, per 'acquisti immobiliari' devono intendersi sia quelli a titolo oneroso (come nella compravendita) sia quelli a titolo gratuito (come nella donazione).
Per tale ragione, si ritiene che anche l'accettazione di una donazione immobiliare rientri all'interno delle competenze del consiglio comunale.
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[1] V. parere prot. n. 166 del 04.01.2007, reperibile alla pagina web http://autonomielocali.regione.fvg.it (25.06.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIOVia libera agli affitti delle sedi giudiziarie
I comuni possono stipulare nuove locazioni passive per le necessità conseguenti alla riforma delle sedi giudiziarie, in deroga al generale divieto imposto alle pubbliche amministrazioni dalle disposizioni contenute nella legge di stabilità 2013.

È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti Umbria, nel testo del parere 30.05.2013 n. 111, rispondendo a un preciso quesito posto dal comune di Perugia.
Se da un lato, il dlgs n. 155/2012 ha disegnato un nuovo assetto degli uffici giudiziari (tra cui il distretto di Perugia) prevedendo l'accorpamento delle sezioni distaccate e degli uffici del giudice di pace, come si concilia l'esigenza di reperire i necessari e ulteriori spazi immobiliari per tali uffici, con il divieto a stipulare contratti di locazione passiva, imposto dall'articolo 1, comma 138, della legge n. 228/2013.
A questa domanda, il collegio della Corte umbra ha risposto positivamente. In primo luogo, si osserva che il comune è tenuto a soddisfare le accresciute esigenze allocative degli uffici giudiziari, in adempimento a un preciso obbligo di legge. Il riferimento, rileva il collegio, è alla legge n.392/1942 che impone ai comuni nei quali hanno sede gli uffici giudiziari, l'obbligo di provvedere a determinate spese, tra cui quelle di illuminazione, riscaldamento, pulizia e custodia. In questo quadro normativo, il legislatore con una mano impone ai comuni di provvedere alle esigenze della macchina giudiziaria e, con l'altra, impone limiti rigorosi all'utilizzo della locazione passiva.
La soluzione del caso si trova rilevando che sia il dlgs n.155/2012 che la legge di stabilità per il 2013 perseguono lo stesso obiettivo, ovvero ottenere risparmi dalla spesa pubblica. Prevedendo la soppressione di piccoli uffici giudiziari, il legislatore realizza un risparmio e quindi, senza oneri aggiuntivi per il bilancio statale, i comuni possono stipulare contratti di locazione passiva.
In definitiva, il comune di Perugia può stipulare locazioni passive per reperire immobili da destinare alle nuove esigenze degli uffici giudiziari, a condizioni più vantaggiose rispetto alle spese che l'amministrazione giudiziaria sosteneva per la disponibilità degli immobili destinati ai piccoli uffici giudiziari oggi soppressi (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

maggio 2013

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: In merito ai cosiddetti "lavori di somma urgenza".
Il comma 3 dell’art. 191 dlgs n. 267/2000 risulta essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi indicati dal terzo comma.
Allora, appare chiara la volontà del legislatore di consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.

Diversamente, la presenza di fondi a tal fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.

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... il Sindaco del Comune di Riva Ligure chiede alla Sezione di controllo un parere in merito alla corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 191, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, (come modificato dall'art. 3, comma 1, lettera i), legge n. 213 del 2012), in base a cui “Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti, entro dieci giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.”
Il Sindaco chiede di conoscere se nel caso in cui per i lavori di somma urgenza i fondi previsti a bilancio siano sufficienti occorra seguire la procedura di cui all’art. 194 (riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio).
...
Quesito analogo era stato posto dalla provincia di La Spezia cui questa Sezione di controllo ha rilasciato parere con delibera n. 12 del 2013, dalle cui conclusioni questa Sezione non intende discostarsi.
Brevemente il Collegio, nel ripercorrere quanto già osservato nelle delibera suddetta, ritiene che non sia indifferente, al fine di un corretto percorso argomentativo, evidenziare l’allocazione della norma all’interno del TUEL. L’art. 191, difatti, fissa le “Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese” nel rispetto dei “Principi di gestione e controllo di gestione” (CAPO IV).
Il primo comma della norma citata individua l’ordinaria procedura di spesa per cui l’Ente può attivarsi solo se sussistono l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5. Solo dopo, il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista dalla legge,
il comma 3 dell’articolato normativo risulta essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati
appare chiara la volontà del legislatore di consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.
Diversamente, la presenza di fondi a tal fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto,
la deroga è una sorta di autorizzazione del legislatore con cui l’Ente può procedere a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare interessi primari e consentire, successivamente, attivare un percorso che consenta l’individuazione delle risorse da destinare alla copertura finanziaria dei lavori ordinati in via d’urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano trovarsi all’interno del bilancio dell’Ente non interessa al fine della corretta applicazione della norma.

Altro non farà l’Ente, in sede di riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli equilibri di bilancio) del TUEL (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 22).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 09.05.2013, "Integrazioni del capitolato d’oneri generale e del capitolato d’oneri particolare per la vendita in piedi di lotti boschivi di proprietà pubblica approvato con d.d.g. n. 2481/2012 della D.g. Sistemi verdi e paesaggio" (decreto D.G. 30.04.2013 n. 3723).

APPALTI FORNITURE - PATRIMONIO: Se sia possibile derogare al divieto di acquisto di beni immobili previsto dalla norma.
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le esigenze allocative in materia di edilizia residenziale pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di programmi e piani concernenti interventi di perequazione socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono in modo categorico che ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, e quindi nel senso auspicato dal comune.

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Il comune istante richiede chiarimenti in merito alla corretta interpretazione dell'art. 12, comma 1-quater ss., del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge 24.12.2012, n. 228.
In particolare, il comune specifica di non essere in possesso di un idoneo magazzino dove poter sistemare i propri mezzi e i mezzi in dotazione ai gruppo di protezione civile e volontariato.
Tanto premesso, ed esposto di essere in trattative per l'acquisto di una porzione di laboratorio da adibire a magazzino, e di aver nel bilancio di previsione per l'anno 2013 copertura finanziaria per l'operazione di compravendita, il comune richiede se sia possibile derogare al divieto di acquisto di beni immobili previsto dalla norma in commento, attesa l’indubbia convenienza economica del prezzo richiesto dall’alienante e la transitorietà del divieto, che potrebbe impedire il conseguimento delle vantaggiose condizioni offerte.
...
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le esigenze allocative in materia di edilizia residenziale pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di programmi e piani concernenti interventi di perequazione socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono in modo categorico che ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, e quindi nel senso auspicato dal comune (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.05.2013 n. 200).

aprile 2013

PATRIMONIO: Contratti di locazione passiva.
Domanda
È consentito a una pubblica amministrazione stipulare un contratto di locazione passiva?
Risposta
La locazione passiva è quel contratto di locazione dove la pubblica amministrazione è conduttore di un immobile di proprietà di terzi.
Gli ultimi interventi del legislatore in materia, in un'ottica di contenimento della spesa pubblica, tendono a disincentivare l'utilizzo di questa tipologia contrattuale da parte delle pubbliche amministrazioni. In particolare, l'art. 3 del decreto legge sulla spending review prevede la riduzione del canone di locazione del 15% rispetto a quanto attualmente corrisposto anche per i contratti in corso, nonché molte limitazioni al rinnovo del rapporto di locazione.
L'art. 3 del decreto sulla spending review, nell'ambito di una serie di misure finalizzate alla razionalizzazione del patrimonio pubblico, esprime pertanto un generalizzato disfavore per le locazioni passive, limitando la possibilità di rinnovare i contratti dopo la scadenza e di stipularne di nuovi e imponendo la riduzione dei relativi costi (cfr. Deliberazione della Corte dei conti, sez. regionale di controllo per il Lazio 09/01/2013 n. 3/2012) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

PATRIMONIO: Natura del bene pubblico.
Domanda
Quale sia, tra la concessione amministrativa e la locazione, la tipologia contrattuale più idonea per la stipulazione di contratti che abbiano a oggetto l'utilizzazione di una struttura da destinare ad attività commerciale?
Risposta
Al fine di poter rispondere al presente quesito è necessaria una breve premessa in ordine alla natura dei beni immobili pubblici. Secondo quanto disposto dagli art. 822 e ss. c.c. i beni immobili di proprietà degli enti pubblici si distinguono in demaniali e patrimoniali. I beni patrimoniali, a loro volta, si distinguono in indisponibili e disponibili.
Il demanio e il patrimonio indisponibile, per la loro intrinseca natura a tutelare maggiormente l'interesse pubblico, sono inalienabili, inusucapibili e non possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi se non nei limiti e modi stabiliti dalla legge. I beni patrimoniali disponibili seguono invece il classico regime privatistico ex codice civile.
Quel che più conta però, ai fini della risposta al quesito in esame, è che la corretta qualificazione giuridica del bene assume una decisiva rilevanza ai fini della scelta della tipologia contrattuale con cui affidarlo a terzi. Invero, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la natura disponibile del bene implica la possibilità di un affidamento in locazione (cfr. Corte conti reg. Sardegna, sez. contr., 07/03/2008, n. 4).
In conclusione quindi l'ente locale non gode di discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti (concessione e/o locazione) di attribuzione in godimento a soggetti terzi del bene ma che, nella scelta tra le varie soluzioni percorribili, debba avere quale parametro di riferimento esclusivo la natura del bene che determina il conseguente regime giuridico a cui lo stesso bene è sottoposto (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

PATRIMONIO: Sì alla locazione "diretta" di un immobile comunale non utilizzato a fini economici.
La decisione 5 aprile 2013, n. 285 risolve la questione circa la possibilità per una civica P.A. di concedere “in via diretta” a un privato la locazione di un bene demaniale da utilizzarsi per un limitato periodo di tempo e senza scopo di lucro.
Il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 30 e 144, D.Lgs. n. 163/2006, ha gravato la determinazione con cui il competente dirigente, senza l’esperimento di una procedura a evidenza pubblica, ha concesso in locazione a un partito politico un immobile comunale da adibire a “luogo di propaganda politica”.
Il TAR di Ancona, però, ha escluso l’applicabilità dei principi sull’evidenza pubblica, atteso che il Comune non solo aveva a disposizione ulteriori immobili comunali idonei a soddisfare similari esigenze, ma era dotato di un regolamento per cui era possibile l’affidamento a trattativa privata delle concessioni di immobili, il cui canone annuo di locazione era di modesta entità.
IL CASO
Il deducente, candidato Sindaco alle scorse consultazioni elettorali, ha contestato la legittimità del provvedimento di (diretta) concessione in locazione di un immobile comunale a un partito politico, in quanto, a suo opinare, il Comune avrebbe dovuto concedere il predetto bene previo esperimento di una procedura a evidenza pubblica.
LE NORME VIOLATE
L’interessato, reputando che la concessione in locazione di un bene demaniale sia da equiparare, in termini di disciplina, alle concessioni di servizi o di lavori pubblici, ha eccepito la violazione degli artt. 30 e 144, D.Lgs. n. 163/2006.
Orbene, con riferimento alle concessioni di servizi, è appena il caso di rammentare come l’art. 30 cit. sancisce che: “1. Salvo quanto disposto nel presente articolo, le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di servizi.
2. Nella concessione di servizi la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio. Il soggetto concedente stabilisce in sede di gara anche un prezzo, qualora al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell'ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare.
3. La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione e con predeterminazione dei criteri selettivi.
4. Sono fatte salve discipline specifiche che prevedono forme più ampie di tutela della concorrenza.
5. Restano ferme, purché conformi ai principi dell'ordinamento comunitario, le discipline specifiche che prevedono, in luogo delle concessione di servizi a terzi, l'affidamento di servizi a soggetti che sono a loro volta amministrazioni aggiudicatrici.
6. Se un'amministrazione aggiudicatrice concede a un soggetto che non è un'amministrazione aggiudicatrice diritti speciali o esclusivi di esercitare un'attività di servizio pubblico, l'atto di concessione prevede che, per gli appalti di forniture conclusi con terzi nell'ambito di tale attività, detto soggetto rispetti il principio di non discriminazione in base alla nazionalità.
7. Si applicano le disposizioni della parte IV. Si applica, inoltre, in quanto compatibile l'art. 143, comma 7
”.
Parallelamente, in materia di concessioni di lavori pubblici, il successivo art. 144 prevede che: “1. Le stazioni appaltanti affidano le concessioni di lavori pubblici con procedura aperta o ristretta, utilizzando il criterio selettivo dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
2. Quale che sia la procedura prescelta, le stazioni appaltanti pubblicano un bando in cui rendono nota l'intenzione di affidare la concessione.
3. I bandi relativi alle concessioni di lavori pubblici contengono gli elementi indicati nel presente codice, le informazioni di cui all'all. IX B e ogni altra informazione ritenuta utile, secondo il formato dei modelli di formulari adottati dalla Commissione in conformità alla procedura di cui all'art. 77, par. 2, direttiva 2004/18. 3-bis. I bandi e i relativi allegati, ivi compresi, a seconda dei casi, lo schema di contratto e il piano economico finanziario, sono definiti in modo da assicurare adeguati livelli di bancabilità dell'opera.
4. Alla pubblicità dei bandi si applica l'art. 66 ovvero l'art. 122
”.
LA DECISIONE DEL TAR
Il G.A. marchigiano non ha ritenuto meritevoli di accoglimento le censure mosse dal deducente.
Sul proposito ha, infatti, precisato che mentre l’art. 30 del Codice riguarda unicamente le concessioni di servizi, l’art. 144 afferisce le sole modalità di affidamento delle concessioni di lavori relativi alla costruzione e gestione di opere pubbliche.
Inoltre, ha sottolineato che le concessioni sono costituite da veri e propri contratti che presentano le stesse caratteristiche di un appalto pubblico, a eccezione del corrispettivo dei servizi o dei lavori consistente nel diritto di gestire il servizio pubblico o l’opera, ovvero in tale diritto accompagnato da un prezzo.
Di conseguenza, l’adito Collegio ha ritenuto che l’essenza della concessione -di lavori o servizi pubblici– risiede nella circostanza per cui il concessionario si remunera per l’appunto erogando il servizio all’utenza, oppure sfruttando il bene demaniale a fini economici.
Al contempo, ha osservato che le concessioni amministrative sono entrate nell’alveo di applicazione della normativa comunitaria sugli appalti pubblici in quanto, dal punto di vista della tutela della concorrenza, le stesse possiedono uguale incidenza sul mercato; non a caso, il concessionario di beni o servizi pubblici ricava un’utilità sfruttando economicamente beni pubblici che non sono disponibili in quantità illimitata.
Di tal ché, il giudicante ha rilevato che le suddette concessioni, poiché in grado di alterare le ordinarie dinamiche del mercato, devono essere assegnate mediante le procedure competitive di cui agli artt. 30 e 144 del D.Lgs. n. 163/2006.
Orbene, con riferimento al caso di specie, il TAR ha evidenziato l’inapplicabilità delle suddette disposizioni e principi, atteso che il partito politico non avrebbe svolto nel locale concesso in locazione alcuna attività economica.
Parallelamente, ha soggiunto la dirimente circostanza per cui il Comune aveva comunicato al ricorrente la disponibilità di altri locali aventi caratteristiche e ubicazione simili a quelle dell’immobile concesso in locazione all’avversario partito politico.
E ancora, ferma restando la regola per cui gli appalti aventi valore esiguo possono essere affidati senza gara, il Tribunale ha precisato che il regolamento comunale sulla gestione dei beni demaniali e patrimoniali stabiliva la possibilità di “… affidamento a trattativa privata delle concessioni allorquando il canone annuo di locazione è inferiore a €. 5.000,00”.
In considerazione di siffatte emergenze, il Collegio di Ancona ha ritenuto che la civica P.A. non aveva alcun onere di bandire un confronto concorrenziale per il rilascio della concessione dell’immobile in questione, anche avuto riguardo alla circostanza per cui lo stesso non era stato mai oggetto di interesse da parte di nessuna delle forze politiche più “tradizionali”.
I PRECEDENTI ED I POSSIBILI IMPATTI PRATICO-OPERATIVI
La pronuncia in esame cristallizza il fermo principio per cui le pubbliche Amministrazioni possono affidare, in via diretta, la locazione di un bene demaniale soltanto nelle ipotesi in cui il privato non intenda svolgere, all’interno dello stesso, qualsivoglia attività economica, in grado di determinare non solo alterazioni concorrenziali, ma anche entrate economiche in favore dell’Erario.
Sul punto il TAR di Pescara, con riferimento alla locazione di un locale demaniale in cui sarebbe stata svolta un’attività di commercio al pubblico, ha dichiarato l’illegittimità della delibera con cui la Giunta comunale, in spregio ai canoni di trasparenza, imparzialità e par condicio, aveva stabilito l’affidamento diretto in favore di un soggetto.
Invero, il Comune avrebbe dovuto procedere alla preliminare pubblicazione di un avviso, onde passare all’affidamento della locazione dell’immobile di sua proprietà solo mediante l’esperimento di idonea procedura concorrenziale che avrebbe consentito la partecipazione di tutti i potenziali aspiranti (TAR Abruzzo Pescara, Sez. I, 05.11.2008, n. 878 in www.giustizia-amministrativa.it).
E ancora, Palazzo Spada ha rimarcato la rilevanza dello svolgimento di una procedura a evidenza pubblica per la concessione di beni pubblici –nella specie di una cava di marmo– passibili di utilizzo economico, attesa l’esigenza di garantire una migliore gestione delle risorse dell’ente e, così, il miglior utilizzo di beni che fanno parte del patrimonio o del demanio e che vengono ceduti in godimento a terzi con ricavo di un corrispettivo a incremento delle entrate finanziarie (Cons. Stato, Sez. VI, 04.04.2007, n. 1523, in www.giustizia-amministrativa.it).
Eppertanto, alla stregua delle suindicate decisioni, può ragionevolmente ritenersi che l’indizione di una formale gara per l’affidamento in locazione di un immobile demaniale non è necessaria qualora il privato, per mezzo del medesimo bene, intenda esercitare un’attività che in alcuna guisa incide sul mercato, né tampoco sull’entrate erariali (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Marche, sentenza 05.04.2013 n. 285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2013

PATRIMONIOCostituisce principio ormai pacifico quello per cui anche per i cc.dd. contratti attivi (mediante cui la p.a. si procura entrate, come vendita e locazione) sussiste un obbligo di rispetto dei principi di trasparenza e di imparzialità.
Per ciò che concerne in particolare l’alienazione degli immobili di proprietà pubblica, tali principi appaiono invero ancor più radicati alla luce della risalenza della relativa disciplina, a mente della quale la vendita deve avvenire secondo modalità tali da garantire gli interessi pubblici con la massima trasparenza ed imparzialità nella scelta del contraente, esclusivamente attraverso le seguenti procedure: pubblici incanti o asta pubblica (sulla base del valore di stima, previe pubblicazioni, affissioni ed inserzioni da ordinarsi dall'Amministrazione demaniale in conformità del regolamento di esecuzione).
In via del tutto eccezionale, qualora gli incanti siano andati deserti e l'Amministrazione lo ritenga conveniente, gli immobili possono essere venduti, purché non siano variati se non a tutto vantaggio dell'Ente, il prezzo e le condizioni di vendita, mediante le modalità di gara della licitazione privata o della trattativa privata. La vendita è poi deliberata a favore di colui che abbia fatto la maggiore offerta in aumento rispetto alla base d'asta nel bando di gara stabilita.

... per l'annullamento della deliberazione Consiglio Comunale n. 44/2011 nella parte in cui delibera la vendita mediante trattativa privata dell'area individuata al CT Foglio n. 310, mappale n. 214 di proprietà del Comune di Milano.
...
In linea di diritto costituisce principio ormai pacifico quello per cui anche per i cc.dd. contratti attivi (mediante cui la p.a. si procura entrate, come vendita e locazione) sussiste un obbligo di rispetto dei principi di trasparenza e di imparzialità.
Per ciò che concerne in particolare l’alienazione degli immobili di proprietà pubblica, tali principi appaiono invero ancor più radicati alla luce della risalenza della relativa disciplina, a mente della quale la vendita deve avvenire secondo modalità tali da garantire gli interessi pubblici con la massima trasparenza ed imparzialità nella scelta del contraente, esclusivamente attraverso le seguenti procedure: pubblici incanti o asta pubblica (sulla base del valore di stima, previe pubblicazioni, affissioni ed inserzioni da ordinarsi dall'Amministrazione demaniale in conformità del regolamento di esecuzione). In via del tutto eccezionale, qualora gli incanti siano andati deserti e l'Amministrazione lo ritenga conveniente, gli immobili possono essere venduti, purché non siano variati se non a tutto vantaggio dell'Ente, il prezzo e le condizioni di vendita, mediante le modalità di gara della licitazione privata o della trattativa privata. La vendita è poi deliberata a favore di colui che abbia fatto la maggiore offerta in aumento rispetto alla base d'asta nel bando di gara stabilita.
Questo è quanto prevede la Legge n. 783 del 1908 ed il successivo regolamento di esecuzione R.D. n. 454 del 1908.
L'articolo 12, comma 2, della legge 15.05.1997 numero 127 ha invero disposto che "I comuni e le province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i princìpi generali dell'ordinamento giuridico-contabile. A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato".
A tal fine è quindi fatto obbligo alle amministrazioni, secondo la condivisa opinione giurisprudenziale (cfr. ad es. Tar Catania n. 419/2009) di assicurare idonei criteri di trasparenza ed adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, la cui determinazione non può essere rimessa al libero arbitrio, ma ad una normazione contenuta nel dedicato regolamento adottato dall'ente interessato.
Nel caso di specie, per un verso è mancata del tutto la predisposizione di tali adeguate forme di pubblicità, avendo la p.a. proceduto direttamente a disporre la trattativa privata diretta, peraltro immotivatamente ed illogicamente nel contesto di una delibera avente diverso e più ampio oggetto. Per un altro verso, la delibera si è altresì posta in diretta violazione della disciplina regolamentare che lo stesso comune resistente si è conseguentemente dato nel 1998.
A quest’ultimo riguardo, mentre la delibera non ha speso una parola di motivazione in ordine alla verifica della sussistenza di tali eccezionali presupposti per ricorrere alla trattativa privata diretta (e le difese giudiziali sul punto non sono ammissibili a fronte del consolidato principio che vieta l’integrazione in giudizio della motivazione), nel caso de quo gli stessi neppure risultano sussistere.
Sul punto, l’unico possibile specifico riferimento, ricavabile dalla lettera c) dell’art. 8 del regolamento in merito all’interclusione, risulta non indicato in delibera e smentito dalle produzioni delle parti, atteso che l’interclusione stessa eventualmente riguarda tre diversi immobili confinanti, tutti possibili interessati. Né del pari è invocabile l’ipotesi residuale del terzo comma: sia per generalità della stesso, che conseguentemente deve essere restrittivamente inteso quale deroga ed eccezione ad un principio; sia per mancata indicazione di ragioni tali da integrare le necessarie circostanze speciali. A quest’ultimo proposito, la delibera richiama: l’appartenenza storica ad un immobile già dismesso, in gran parte smentita dalla situazione di fatto emersa con la pluralità di immobili e proprietà confinanti, oltre che per la diversità soggettiva rispetto all’invocato fondo immobiliare; i tempi ed i costi di una gara che non sarebbero convenienti per l’amministrazione, secondo una valutazione invero illogica e collidente, prima facie, con la ratio sottesa ai principi concernenti l’obbligo di una procedura trasparente ed aperta, che è (anche, oltre alla tutela degli interessi collettivi della trasparenza e della par condicio) quella (egoistica per la p.a.) di ottenere il miglior prezzo possibile.
Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.03.2013 n. 677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Responsabile del settore gestione del territorio di un Comune e omissione di regolare manutenzione per gli impianti ed i dispositivi di sicurezza presso il parco comunale e la biblioteca.
Dichiara inammissibile il ricorso avverso la
sentenza 27.02.2012 n. 46 del TRIBUNALE di Bergamo, Sez. distaccata di Clusone e, di fatto, resta confermata la condanna in 1° grado (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.2013 n. 10932).

PATRIMONIO: Acquisto immobili. Art. 12, D.L. n. 98/2011, come novellato dalla legge di stabilità 2013.
Il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, per l'anno 2013, di cui al nuovo comma 1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, è stabilito per tutte le amministrazioni pubbliche, ivi compresi gli enti territoriali. La clausola di salvezza prevista per gli acquisti già autorizzati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze prima dell'01.01.2013 è espressamente riferita alle Amministrazioni centrali.
La Corte dei Conti, nell'osservare che il comma 1-quater pone 'un divieto assoluto di acquistare, a qualunque titolo, diritti immobiliari nell'esercizio 2013', ha affermato, però, che occorre 'evitare che l'applicazione pedissequa di tale divieto conduca al risultato opposto rispetto a quello voluto dal Legislatore'. In particolare, per il Giudice contabile: per quanto concerne le procedure espropriative, è conforme alla volontà del legislatore portare a termine quelle per cui risultino, in data antecedente all'01.01.2013, un decreto di occupazione di urgenza con la corresponsione della relativa indennità; per i contratti preliminari stipulati prima dell'01.01.2013, il comma 1-quater introduce una fattispecie di impossibilità giuridica sopravvenuta per factum principis preclusiva alla conclusione dei contratti definitivi per l'anno 2013.

Il Comune chiede alcuni chiarimenti in merito alle nuove disposizioni aggiunte all'art. 12, D.L. n. 98/2011
[1], a seguito della novella dettata dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012 [2], statuenti misure restrittive per l'acquisto di beni immobili da parte delle pubbliche amministrazioni. L'Ente chiede, in particolare, di sapere se trovi applicazione agli enti locali il nuovo comma 1-quater dell'art. 12.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 12, comma 1, D.L. n. 98/2011 (non interessato dalla novella del 2012) prevede che a partire dal 01.01.2012 le operazioni di acquisto e vendita di immobili, da parte delle amministrazioni pubbliche
[3] sono subordinate alla verifica del rispetto dei saldi strutturali di finanza pubblica da attuarsi con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze. La disposizione esclude espressamente dal suo ambito di applicazione, tra gli altri, gli enti territoriali.
Il nuovo comma 1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, stabilisce che, per l'anno 2013, tutte le amministrazioni pubbliche
[4], incluse le autorità indipendenti, tra cui la Consob, non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata, a condizioni più vantaggiose, per sostituire immobili dismessi o per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Dall'ambito soggettivo di applicazione del comma 1-quater in argomento sono espressamente esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, mentre gli enti territoriali (venendo al quesito posto dall'Ente) si intendono ricompresi nell'alveo delle amministrazioni pubbliche ivi indicate [5].
L'ente pone, inoltre, l'attenzione sul comma 1-quater laddove esclude dal divieto le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto ministeriale di cui al comma 1 (come sopra chiarito, riferito alle Amministrazioni centrali), prima dell'entrata in vigore della novella del 2012
[6], e chiede se una tale esclusione possa applicarsi in via analogica agli enti territoriali ed, altresì, se possano ritenersi esclusi gli acquisti conseguenti a procedure espropriative.
Al riguardo, atteso che le nuove disposizioni recate dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012, non dispongono in modo specifico, si auspica che i competenti organi statali intervengano tempestivamente a fornire gli opportuni chiarimenti
[7], esulando l'interpretazione delle norme statali dalla competenza dello scrivente Servizio.
Si segnala, comunque, il parere 31.01.2013 n. 9 della Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Liguria, in ordine ad una richiesta proveniente da un comune e concernente la corretta interpretazione dell'art. 1, comma 138, della Legge di stabilità 2013, di novella dell'art. 12, D.L. n. 98/2011.
In particolare, sul nuovo comma 1-quater dell'art. 12 richiamato, il Giudice contabile, nell'osservare che lo stesso pone 'un divieto assoluto di acquistare, a qualunque titolo, diritti immobiliari nell'esercizio 2013', afferma, però, che occorre 'evitare che l'applicazione pedissequa di tale divieto conduca al risultato opposto rispetto a quello voluto dal Legislatore'.
A tal fine, per quanto concerne le procedure espropriative, la Corte dei conti distingue l'ipotesi della sola dichiarazione di pubblica utilità, per la quale non sembra porsi alcun problema, nel senso dell'applicazione, in questa ipotesi, delle nuove limitazioni agli acquisti immobiliari, dalla diversa situazione, tutt'altro che infrequente, che la dichiarazione di pubblica utilità sia stata accompagnata dall'emissione, antecedente all'01.01.2013, di un decreto di occupazione di urgenza dell'area preordinata all'espropriazione con la contemporanea corresponsione della relativa indennità. In quest'ultimo caso, secondo la Corte, 'il procedimento è giunto ad un livello tale (tempus regit actum) da ritenere possibile e più soddisfacente alla ratio finanziaria voluta dal Legislatore condurlo a termine, anche con possibile accordo di cessione volontaria intervenuto nel frattempo, piuttosto di lasciare ferma la situazione con una complessiva perdita maggiore di denaro pubblico, costituita dall'artificioso prolungamento del periodo di occupazione rispetto all'immissione definitiva nella proprietà da parte dell'ente'.
Mentre, per quanto riguarda la concreta esecuzione dei negozi preparatori -contratti preliminari di compravendita stipulati prima dell'01.01.2013, per i quali non sia stato ancora concluso il contratto definitivo, e diritti di prelazione da esercitarsi entro termini perentori- la Corte dei conti ritiene che il nuovo comma 1-quater introduca una 'fattispecie di impossibilità giuridica sopravvenuta per factum principis preclusiva all'esercizio dei diritti di prelazione e alla conclusione dei contratti definitivi per l'anno 2013, laddove negli esercizi successivi anche questa tipologia di acquisti immobiliari dovrà soggiacere al requisito dell'indispensabilità ed indilazionabilità', di cui al nuovo comma 1-ter
[8], D.L. n. 98/2011 [9]
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[1] D.L. 06.07.2011, n. 98, recante: 'Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria', convertito, con modificazioni, dalla L. n. 111/2011.
[2] L. 24.12.2012, n. 228, recante: 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)'.
[3] Il comma 1 in argomento si riferisce alle amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della L. n. 196/2009, con l'esclusione degli enti territoriali, degli enti previdenziali e degli enti del servizio sanitario nazionale, nonché del Ministero degli affari esteri con riferimento ai beni immobili ubicati all'estero.
[4] Il comma 1-quater in argomento si riferisce alle amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della L. n. 196/2009.
Il coinvolgimento di tutte le amministrazioni pubbliche è evidenziato dalla Camera, Temi dell'Attività parlamentare, Acquisto, vendita e manutenzione degli immobili pubblici, all'indirizzo web: http://www.camera.it.
[5] Cfr. parere Anci del 17.01.2013. Per il coinvolgimento degli enti territoriali nelle disposizioni della legge di stabilità 2013 (L. n. 228/2012), cfr.: Eduardo Racca, 'Legge di stabilità: tutte le novità misura per misura', in 'Il sole 24 ore Enti locali', 03.01.2013.
[6] Il comma 1-quater è inserito dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012, a decorrere dall'01.01.2013.
[7] Si rileva che dette questioni non risultano affrontate nella circolare 05.02.2013, n. 2, del Ministero dell'economia e delle finanze.
[8] Il nuovo comma 1-ter dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, dispone che, a partire dal 01.01.2014, gli Enti territoriali e gli Enti del Servizio sanitario nazionale, per ottenere risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal Patto di stabilità interno, possono acquistare immobili solo nel caso in cui sia comprovata documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestata dal Responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è, altresì, attestata dall'Agenzia del Demanio, previo rimborso delle spese. Sul sito Internet dell'ente deve essere data preventiva notizia dell'operazione di acquisto, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito.
[9] Per completezza di esposizione, si segnala il diverso avviso dell'ANCI (di maggiore apertura, invero), per cui il legislatore non ha inteso porre le amministrazioni pubbliche di fronte al rischio di contenziosi derivanti ad esempio da compromessi di acquisto che non possono essere rispettati per effetto di norme sopravvenute, o di contenziosi derivanti dal ritardato pagamento di indennità di esproprio con ulteriori aggravi economici per l'ente espropriante.
Per cui, ad avviso dell'Associazione di categoria, si può ritenere che le operazioni già avviate prima dell'entrata in vigore della legge di stabilità 2013 (01.01.2013) possano trovare completamento nell'anno in corso e che, comunque, siano ammissibili operazioni connesse ad interventi di pubblica utilità in conseguenza di progetti o piani di attuazione che hanno già trovato le relative fonti di finanziamento nei bilanci degli anni precedenti.
Per l'ANCI, tale interpretazione, peraltro, sembra risultare coerente con quanto previsto per le amministrazioni dello Stato per le quali il comma 1-quater dell'art. 12 del D.L. n. 98/2011, come introdotto dalla legge di stabilità 2013, fa salve le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate prima dell'entrata in vigore della stessa legge n. 228 (Cfr. parere Anci del 16.01.2013)
(08.03.2013 - link a www.regione.fvg.it).

febbraio 2013

PATRIMONIO: I proventi di una servitù di passaggio su un terreno di proprietà comunale sono obbligatoriamente ascrivibili al titolo III dell'entrata del bilancio (entrate extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e trasferimenti di capitale).
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Casaletto Spartano chiede a questa Sezione un parere in ordine alla possibilità di acquisizione di un fabbricato “da destinare alla collettività generale e da includere nel patrimonio degli usi civici posseduti dal comune”, utilizzando somme provenienti dal pagamento, da parte della Società Snam progetti, della servitù di passaggio di un gasdotto realizzato su terreni gravati da usi civici.
Il comune prosegue chiedendo se i proventi di cui alla citata servitù possano essere iscritti al titolo IV della parte entrate del bilancio di previsione, finanziando la spesa, prevista al titolo II della parte spesa dello stesso bilancio, per l’acquisizione dell’immobile predetto.

...
Premesso che la Sezione non può affrontare la complessa questione attinente all’immobile relativamente alla possibilità di essere o meno, lo stesso, incluso nel patrimonio degli usi civici del comune, in quanto non in possesso degli elementi utili alla sua risoluzione (essendo, la materia degli usi civici, dettagliatamente disciplinata da una specifica normativa di settore e da copiosa giurisprudenza che varia in relazione alle concrete situazioni specifiche e riguardando, in linea di massima, provvedimenti amministrativi di tipo ricognitivo e non costitutivo dell’uso), nel merito dei quesiti sottoposti –possibilità di acquisizione dell’immobile in oggetto utilizzando i proventi rimessi all’ente da una società, quale corrispettivo della servitù per il passaggio su terreni di sua proprietà, e iscrizione dei proventi stessi nel titolo IV delle entrate– la stessa Sezione si esprime nei seguenti termini.
Il d.leg. 18.08.2000, n. 267, T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, e precisamente l’articolo n. 199 del titolo IV –Investimenti-, prevede quanto segue: “Fonti di finanziamento. 1. Per l’attivazione degli investimenti gli enti locali possono utilizzare:
a) entrate correnti destinate per legge agli investimenti;
b) avanzi di bilancio, costituiti da eccedenze di entrate correnti rispetto alle spese correnti aumentate delle quote capitali di ammortamento dei prestiti;
c) entrate derivanti dall’alienazione di beni e diritti patrimoniali, riscossioni di crediti, proventi da concessioni edilizie e relative sanzioni;
d) entrate derivanti da trasferimenti in conto capitale dello stato, delle regioni, da altri interventi pubblici e privati finalizzati agli investimenti, da interventi finalizzati da parte di organismi comunitari e internazionali;
e) avanzo di amministrazione, nelle forme disciplinate dall’articolo 187;
f) altre forme di ricorso al mercato finanziario consentite dalla legge.
".
Considerato che le entrate che l’ente intende utilizzare –proventi di una servitù di passaggio su un terreno di sua proprietà– sono obbligatoriamente ascrivibili al titolo III dell’entrata del bilancio (entrate extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e trasferimenti di capitale), ed escluso il caso in cui l’ente stesso non sia a conoscenza di una specifica disciplina giuridica (correlata alla situazione di fatto dell’immobile che solo esso è in grado di conoscere e che sfugge invece a questa Corte, non avendo essa la disponibilità degli elementi fattuali della fattispecie concreta), che gli consenta di applicare la lettera a) della normativa succitata –utilizzo di entrate correnti destinate per legge agli investimenti-, questa Sezione esprime parere negativo all’utilizzo specifico dei proventi della servitù per l’acquisto dell’immobile, ritenendo che non sia consentito, alla luce di quanto esplicitamente espresso dalla normativa, l’utilizzo di entrate correnti per l’attivazione di qualsiasi investimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 28.02.2013 n. 25).

PATRIMONIO: Iscrizione dei beni negli elenchi.
Domanda
L'iscrizione dei beni negli elenchi, di cui all'art. 58 dl n. 112/2008 (Piano delle alienazioni e valorizzazioni), produce conseguenze a favore della vendibilità del bene?
Risposta
Il comma 3 dell'art. 58 dl 112/2008, prevede che «Gli elenchi di cui al comma 1, da pubblicare mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni, e producono effetti previsti dall'articolo 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto
Dalla disposizione ut supra emerge pertanto che la norma riconosce a tali elenchi, in assenza di precedenti trascrizioni, conseguenze di favore per la vendibilità del bene: hanno effetti dichiarativi della proprietà e non costitutivi. Producono gli stessi effetti della trascrizione (Art. 2644 del Codice civile), e quelli sostitutivi dell'iscrizione catastale del bene. Spetta invece al responsabile del procedimento, se necessario procedere alla trascrizione degli elenchi, intavolazione e voltura. Contro l'iscrizione del bene nel Piano delle alienazioni è previsto il ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla pubblicazione, e sono confermati gli altri rimedi di legge.
Inoltre visti gli importanti e dirompenti effetti che produce l'approvazione di tali elenchi, tra cui quello dichiarativo della proprietà, la deliberazione di approvazione del Piano delle alienazioni e valorizzazioni, di competenza del Consiglio, è preceduta da altra distinta deliberazione con cui l'organo di governo individua, redigendo apposito elenco, i beni immobili non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Tale delibera, di competenza della Giunta, precede l'adozione del piano e contiene la sola elencazione dei beni individuati. La stessa deve essere pubblicata «mediante le forme previste» per l'Ente locale (come il Piano delle opere pubbliche).
Gli effetti dell'approvazione del Piano, tra cui quello dichiarativo della proprietà, sono prodotti comunque, lo si ribadisce, solo a seguito dell'approvazione della delibera di Consiglio (articolo ItaliaOggi Sette del 25.02.2013).

PATRIMONIO: La Sezione, chiamata a rendere parere in merito alla possibilità di alienare l’immobile, in caso di plurime aste andate deserte, ad un prezzo ribassato e all’esistenza di limite economico minimo entro il quale si possa procedere alla vendita in rapporto al valore di acquisizione, giunge alla conclusione che non si rinviene un limite normativo oltre il quale l’amministrazione non possa scendere nella determinazione del valore da porre a base di gara per l’atto dispositivo in parola.
Si precisa, tuttavia,
che detto valore dovrà mantenersi comunque congruo rispetto alla situazione concreta del mercato, oltre che, come posto in evidenza dal medesimo Comune, al prezzo di acquisizione, ove il bene sia entrato recentemente nel patrimonio dell’Ente.
L’esigenza di valutare costantemente la congruità del valore di un bene da alienare, o acquisire, costituisce, infatti, uno dei principi cardine della contabilità e contrattualistica pubblica, cui l’art. 12 del d.lgs. n. 127/1997 fa riferimento.
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Il Sindaco del Comune di Calcinato (LO), con nota del 07.12.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di parere inerente le modalità di alienazione di un immobile comunale.
In particolare, il Comune ha inserito un immobile, acquisito nel 2009 per il valore stimato di circa un milione di euro, nel piano delle alienazioni. Con successivi provvedimenti del responsabile dell’area tecnica, sono state bandite varie aste per la vendita: la prima, nel 2010, con base di gara pari a € 1.020.000 e l’ultima, nel 2012, dopo una riduzione dell’area in vendita, con base di gara di € 872.100. Tutte le suddette procedure sono andate deserte.
La mancata alienazione dipende dalla grave crisi del mercato immobiliare e, in particolare, di quello industriale. Pertanto il Comune vorrebbe bandire altre gare, anche a prezzi ancora ribassati, al fine di evitare un ulteriore depauperamento del bene, oggi in stato di abbandono (oltre a risparmiare l’onere derivante dalle spese di manutenzione).
Posto che la questione ha notevole incidenza sul bilancio dell'ente, il Sindaco chiede un parere circa la possibilità di alienare l’immobile ad un prezzo ribassato e, a tal fine, se vi sia un limite economico minimo entro il quale si possa procedere alla vendita, in rapporto al valore di acquisizione.
In alternativa, chiede se può essere opportuno attendere una futura ripresa del mercato immobiliare, al fine di alienare l’immobile con maggiore valorizzazione.
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L’Ente istante può trarre utili indicazioni dall’art. 12 (“Disposizioni in materia di alienazione degli immobili di proprietà pubblica”) della legge n. 127 del 15/05/1997 (“Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo”) in base al quale: “I comuni e le province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla L. 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con R.D. 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i princìpi generali dell'ordinamento giuridico-contabile. A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato”.
La norma evidenzia come i Comuni, pur non essendo obbligati a seguire le disposizioni (ancora parzialmente vigenti) per l’alienazione dei beni immobili dello Stato, debbano comunque osservare i criteri di trasparenza, parità di trattamento e pubblicità, da definire con regolamenti interni dell’Ente medesimo, conformi ai principi generali della contrattualistica pubblica (l'ampiezza della deroga, giustificata dall’esigenza di procedere celermente alla definizione dei provvedimenti concernenti l'alienazione di beni, anche per consentire il risanamento dei bilanci degli enti locali, è stata evidenziata da Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 4418 del 13/07/2006).
Il precetto normativo sopra esposto risulta sostanzialmente conforme, fra l’altro, all’art. 27 del Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, emanato in esecuzione delle Direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE, che, per i contratti esclusi in tutto in parte dall’applicazione della disciplina comunitaria (fra cui quelli attivi di alienazione di beni mobili e immobili, mentre quelli passivi, di acquisto e locazione, sono oggetto di specifica considerazione nell’art. 19 del d.lgs. n. 163/2006), richiede che l’affidamento avvenga nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità.
Si rinvia, per approfondimenti, alle Comunicazioni interpretative della Commissione europea del 12.04.2000 (richiamata nella Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le politiche comunitarie, n. 945 del 01.03.2002) e del 01.08.2006. E, per i precedenti giurisprudenziali, alle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea 03.12.2001, C-59/2000; 07.12.2000, C-324/1998; 13.10.2005, C-458/2003; 20.10.2005, C-264/2003).
La presenza di un limite oltre il quale, andate deserte una serie di aste, non è possibile far scendere il prezzo del bene a base di gara, non si rinviene neppure nella legge che disciplina l’alienazione dei beni immobili dello Stato (non applicabile direttamente ai Comuni per effetto del citato art. 12 della legge n. 127/1997).
L’art. 6 della legge n. 783 del 24/12/1908 (“Unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato”) prevede infatti quanto segue: “Qualora il primo esperimento d'asta vada deserto, il secondo avrà luogo mediante offerte per schede segrete con le modalità di cui al primo comma del presente articolo. L'aggiudicazione sarà pronunciata a favore di colui la cui offerta sia la maggiore e raggiunga almeno il prezzo indicato nell'avviso d'asta.
Riuscito infruttuoso anche il secondo esperimento l'amministrazione demaniale potrà ordinare ulteriori esperimenti d'asta con successive riduzioni, ciascuna delle quali non potrà eccedere il decimo del valore di stima
”.
Allo stesso modo, l’art. 38 del R.D. n. 454 del 17/06/1909 (“Regolamento per l'esecuzione della L. 24.12.1908, n. 783, sull’unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato”), come sostituito dall'art. 1 del R.D. 09.12.1940, n. 1837 dispone che: “Qualora riesca infruttuoso anche il secondo esperimento d'incanto e l'Intendenza, ovvero il Ministero delle finanze, quando il prezzo di asta superi le lire 20.000.000, ritenga che la ripetuta diserzione non sia causata da eventuale elevatezza del prezzo medesimo, ma da altre cagioni, provvede per nuovi esperimenti mediante estinzione di candele vergini o a schede segrete sullo stesso prezzo.
Nel caso contrario si procede ad ulteriori esperimenti d'asta con successive riduzioni, ciascuna delle quali non può eccedere il decimo del valore di stima, salvo il disposto dell'art. 54
”.
L’ultimo inciso rinvia alla disposizione che permette all’amministrazione statale, in caso di plurime aste andate deserte, di procedere a trattativa privata.
In conclusione, non si rinviene un limite normativo oltre il quale l’amministrazione non possa scendere nella determinazione del valore da porre a base di gara per l’alienazione di un’immobile.
Appare evidente che quest’ultimo dovrà mantenersi comunque congruo rispetto alla situazione concreta del mercato, oltre che, come posto in evidenza dal medesimo Comune, al prezzo di acquisizione, ove il bene sia entrato recentemente nel patrimonio dell’Ente.
L’esigenza di valutare costantemente la congruità del valore di un bene da alienare, o acquisire, costituisce, infatti, uno dei principi cardine della contabilità e contrattualistica pubblica, cui l’art. 12 del d.lgs. n. 127/1997 fa riferimento (ne è espressione, per esempio, in tema di contratti passivi, l’art. 89 del d.lgs. n. 163/2006) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 14.02.2013 n. 50).

gennaio 2013

PATRIMONIO: Circa la vendita di un cespite immobiliare.
Il bando di gara prescrive, per la partecipazione, di presentare una dichiarazione unica contenente la dichiarazione di "ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta –per cui intende partecipare– nello stato di fatto e di diritto in cui si trova nonché nello stato manutentivo e conservativo e di giudicare quindi il prezzo fissato a base d’asta congruo e tale da consentire l’aumento che andrà ad offrire” nonché l’“attestazione rilasciata dal responsabile del procedimento di avvenuta presa visione dello stato giuridico del bene cui si intende partecipare”.
Reputa il Collegio che la clausola in esame mira a garantire che i partecipanti alla vendita immobiliare abbiano piena contezza delle caratteristiche del bene che si accingono ad acquistare e che detta partecipazione avvenga in maniera responsabile, mediante la presentazione di offerte aderenti e congrue rispetto al valore effettivo del bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che, peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di stile inserita nel modello predisposto dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare che il concorrente ha preso visione di tutta la documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione, ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola divistata miri ad imporre un ingiustificato aggravio della procedura, dovendosi al contrario ritenere del tutto proporzionata rispetto agli scopi (partecipazione informata delle imprese partecipanti alla gara) che essa mira a realizzare”.
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Tutta la disciplina contenuta nel codice dei contratti pubblici non si applica, per espressa previsione dell’art. 19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai contratti pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere”.
Ne deriva che le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis autovincolante per l’Amministrazione.

I rilievi sollevati dalla ricorrente principale sono condivisibili.
Al punto 4), rubricato “Documentazione da presentare”, l’Avviso pubblico stabilisce che nella busta n. 1, contenente la documentazione amministrativa, avrebbe dovuto essere inserita una dichiarazione unica, come da fac-simile in allegato B, contenente, tra l’altro, la dichiarazione di “ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta –per cui intende partecipare– nello stato di fatto e di diritto in cui si trova nonché nello stato manutentivo e conservativo e di giudicare quindi il prezzo fissato a base d’asta congruo e tale da consentire l’aumento che andrà ad offrire” nonché l’ “attestazione rilasciata dal responsabile del procedimento di avvenuta presa visione dello stato giuridico del bene cui si intende partecipare”.
La Commissione, nel riammettere in gara la RE.DE. s.r.l., ha ritenuto ultronea ed inutilmente gravatoria del procedimento questa seconda attestazione.
Reputa, invece, il Collegio che la clausola in esame mira a garantire che i partecipanti alla vendita immobiliare abbiano piena contezza delle caratteristiche del bene che si accingono ad acquistare e che detta partecipazione avvenga in maniera responsabile, mediante la presentazione di offerte aderenti e congrue rispetto al valore effettivo del bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che, peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di stile inserita nel modello predisposto dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare che il concorrente ha preso visione di tutta la documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione, ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola divistata miri ad imporre un ingiustificato aggravio della procedura, dovendosi al contrario ritenere del tutto proporzionata rispetto agli scopi (partecipazione informata delle imprese partecipanti alla gara) che essa mira a realizzare” (cfr. TAR Puglia–Lecce, sez. I, 04.06.2012, n. 1025).
Né può sostenersi, nel caso di specie, l’applicazione dell’art. 46, commi 1 ed 1-bis, del d.lgs. n. 163/2001, atteso che tutta la disciplina contenuta nel codice dei contratti pubblici non si applica, per espressa previsione dell’art. 19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai contratti pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere”.
Ne deriva che, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente incidentale, le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis autovincolante per l’Amministrazione (TAR Lazio–Roma, sez. II, 22.09.2008, n. 8429).
Nel caso in esame l’avviso d’asta non contiene alcun richiamo alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 163/2006 (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 04.01.2013 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

PATRIMONIOÈ il Comune l’unico responsabile del marciapiede. Oneri. La competenza per danni e manutenzione.
Sono molti i Comuni che hanno deliberato ordinanze con le quali attribuiscono ai condòmini l’onere di curare la manutenzione del tratto di marciapiede antistante lo stabile (soprattutto l’onere di spargere sul marciapiede antistante ai palazzi il sale nei periodi invernali), liberandosi così dalle spese di gestione dei marciapiedi e dalla responsabilità in caso di incidenti dovuti alla mancata o inesatta manutenzione. Ma queste ordinanze non possono ribaltare sui condomìni le responsabilità dei danni causati a terzi da mancata manutenzione.
Il marciapiedi antistante al condominio, infatti, a differenza dei cortili e degli spazi interni, è suolo pubblico e quindi appartiene totalmente alla pubblica amministrazione. Il decreto legislativo 285/1992 (codice della Strada) definisce chiaramente il concetto di strada pubblica e annovera i marciapiedi nel demanio.
L’articolo 3, numero 33, infatti, specifica che si intende per marciapiede «parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni». Ed è quindi illegittimo che una semplice ordinanza comunale deroghi a un decreto legislativo.
In particolare, il Comune mantiene la proprietà del marciapiedi anche per la porzione antistante allo stabile condominiale e tale diritto di proprietà comprende l’onere di effettuare le opere di manutenzione dovute e necessarie. Non esiste quindi alcun obbligo in capo al condominio e al suo amministratore di effettuare riparazioni o manutenzioni per rendere sicuro o agibile il marciapiedi. Si può affermare quindi che l’estensione del condominio arriva fino alle proprie mura esterne (tranne che esiste un’area «di sedime» dell’edificio), e che il marciapiede antistante non ne faccia parte.
Questa affermazione risulta cruciale, oltre che per le spese di manutenzione già accennate, al fine di determinare chi debba rispondere dei danni cagionati dal marciapiede.
Sul punto risulta chiara una sentenza emessa dalla IV Sez. sez. civile del TRIBUNALE di Torino, che con sentenza 05.12.2012 dirimeva ogni dubbio in merito a queste problematiche.
Nel caso in oggetto un passante era scivolato sul marciapiede a causa della neve accumulatasi, e aveva chiesto un risarcimento al condominio antistante al camminamento. Nell’atto di citazione la parte attrice aveva citato il condominio, in persona del suo amministratore pro tempore, ritenuto proprietario del marciapiede e quindi onerato dello spargimento del sale.
La difesa del condominio era stata, principalmente, quella di contestare la propria legittimazione a stare in giudizio. Il legale dello stabile, infatti, aveva sottolineato come il marciapiede fosse indiscutibilmente parte della strada e quindi del demanio comunale. Di conseguenza, a prescindere da eventuali ordinanze comunali di senso contrario, era lo stesso Comune a doversi occupare della manutenzione della carreggiata, compreso lo spargimento di sale in periodo invernale. Il giudice ha dato ragione al condominio.
È infatti responsabile per i danni cagionati dalla cosa in custodia colui che ha del bene la custodia, intesa come potere di gestione. E, come chiarisce il Codice della strada, «gli enti proprietari delle strade (...) provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - PATRIMONIOIllegittimo impedire l’ingresso dei cani nei parchi.
Sono illegittime le ordinanze urgenti che impongano il divieto di ingresso dei cani nei parchi. E’ illegittima una ordinanza contingibile ed urgente con la quale un Ente locale, per la tutela igienico sanitaria e/o la prevenzione di pericoli per la pubblica incolumità, disponga il divieto assoluto di introdurre cani in alcune aree verdi del territorio comunale, nel caso in cui difetti una situazione di effettiva eccezionalità ed imprevedibilità tale da far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli per la pubblica incolumità.
Lo ha stabilito il TAR Sardegna, Sez. I, con la sentenza 30.11.2012 n. 1080.
E’ infatti noto, spiegano i giudici amministrativi isolani, che il potere di emanare ordinanze di cui all’art. 50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000 (TUEL), peraltro riservato al Sindaco, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico dei destinatari; tuttavia, il potere ivi previsto presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento.
L'ordinanza non può, invece, essere utilizzata per soddisfare esigenze che siano prevedibili ed ordinarie (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIOIl Collegio ribadisce che l’indirizzo politico-legislativo (che si è venuto affermando negli ultimi anni) riconosce alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico una valorizzazione finalizzata all'utilizzo dei beni secondo criteri privatistici di redditività e di convenienza economica.
I
l Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata “l'ente locale rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove lo sviluppo".
L'eventuale scelta di disporre di un bene pubblico ad un canone di importo diverso da quello corrispondente al suo valore di mercato, ad avviso della Sezione deve avvenire a seguito di “un’attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui però deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6, Cost.)”.
Altresì, “
l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo temperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile degli interessi compresenti”.
Naturalmente tale valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco nonché della verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, è rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

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Il Sindaco del Comune di Treviso, con la nota indicata in epigrafe, ha posto alla Sezione un quesito in ordine alle modalità di determinazione del canone dei beni demaniali e patrimoniali dell’ente locale, affidati in gestione alle associazioni di interesse collettivo nei campi della cultura, dello sport e del sociale (come ad esempio, palestre, campi sportivi, edifici).
A questo riguardo il Sindaco richiama il principio, affermato dall’art. 2, comma 4, del Decreto legislativo 28.05.2010, n. 86, di massima valorizzazione funzionale dei beni attribuiti al patrimonio dell’ente locale, a vantaggio diretto o indiretto della collettività, ed anche il principio di sussidiarietà verticale, in base al quale i cittadini, idoneamente associati, possono essere destinatari dell’esercizio di attività pubbliche, se queste vengono svolte in maniera più economica, efficiente ed efficace rispetto a quanto l’ente di riferimento possa garantire.
Per questo motivo, l’ente chiede se il solo modo legittimo di procedere, in materia di valorizzazione del proprio patrimonio, sia quello di sfruttare il bene in base al valore di mercato, idoneamente periziato, o se sia possibile impostare uno sfruttamento del bene patrimoniale non sul valore di mercato, bensì su un valore più basso, in considerazione delle finalità sociali, senza scopo di lucro, delle associazioni di interesse collettivo alle quali l’ente affiderebbe la gestione dei beni pubblici.
A questo proposito, il Sindaco richiama la norma di cui all’art. 32, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724 che dispone che “a decorrere dal 01.01.1995, i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali”.
...
Passando al merito della questione, poiché nella richiesta in argomento viene fatto un indistinto riferimento ai beni demaniali e patrimoniali, la Sezione ritiene opportuno ricordare preliminarmente che tali categorie di beni, sebbene condividano l’attitudine ad essere utilizzati per fini di pubblico interesse, hanno in realtà un regime giuridico diverso.
Infatti, i beni demaniali (individuabili dalla lettura combinata degli artt. 822 e 824 c.c.) hanno come loro naturale e necessaria destinazione l’adempimento di una pubblica funzione e sono, pertanto, assoggettati ad una disciplina pubblicista; quelli patrimoniali, invece, si suddividono in due ulteriori categorie: i beni patrimoniali indisponibili (individuati dall’art. 826, commi 2 e 3, c.c.) che, in quanto destinati ad un pubblico servizio, sono sottoposti anch’essi alla disciplina pubblicistica; ed i beni patrimoniali disponibili, categoria residuale, che sono soggetti al regime giuridico proprio dei beni di diritto privato, dal momento che realizzano l’interesse pubblico solo in via strumentale ed indiretta, in virtù della destinazione data ai redditi ricavati derivante (dai frutti naturali o civili), facendoli concorrere in questo modo al finanziamento della spesa pubblica.
Con riferimento in particolare agli enti locali, si fa inoltre presente che la riforma del Titolo V della Costituzione ha riconosciuto che gli enti territoriali hanno un proprio patrimonio (art. 119 Cost., comma 7) e non solo il demanio e che, a seguito del c.d “federalismo demaniale”, attuato con il D.Lgs. 85/2010, è stata prevista l’attribuzione a titolo non oneroso, ad ogni livello di governo, di beni statali secondo dei criteri di territorialità, di sussidiarietà, di adeguatezza, di semplificazione e di capacità finanziaria. Con quest’ultimo requisito si intende la capacità finanziaria dell’ente territoriale al quale è trasferito il bene, di garantirne le esigenza di tutela, di gestione e di valorizzazione. Proprio con riferimento a questi beni statali così attribuiti, il legislatore ha specificato che l’ente dispone del bene nell’interesse della collettività, favorendone la “massima valorizzazione funzionale”, secondo il principio richiamato dal Sindaco di Treviso nel quesito.
La Sezione, infine, ricorda anche quanto previsto dall’art. 58 del decreto legge 25.06.2008, convertito dalla legge 03.08.2008, n. 133, che prescrive agli enti territoriali di procedere al riordino e valorizzazione del proprio patrimonio immobiliare attraverso l’adozione di appositi piani di alienazione immobiliare, che vanno allegati ai bilanci di previsione.
Da queste premesse si deduce che
le varie forme di gestione del patrimonio introdotte di recente dal legislatore sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari dei vari enti territoriali, di volta in volta coinvolti, nel senso che le diverse forme di utilizzazione o destinazione dei beni in argomento devono mirare all’incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale. Si tratta, infatti, di gestire dinamicamente partite del patrimonio immobiliare per potenziare le entrate di natura non tributaria.
Queste osservazioni permettono al Collegio di indicare alcuni principi rilevanti per il quesito posto dal Sindaco di Treviso.
Infatti,
l’ente, ai fini della possibilità di concedere la disponibilità di un bene appartenente al suo patrimonio, a delle condizioni diverse da quelle di mercato, in considerazione delle peculiari finalità sociali perseguite dal soggetto beneficiario (associazioni di interesse collettivo senza fini di lucro), dovrà tener conto, nell’ambito delle valutazioni da effettuare nell’esercizio della sua esclusiva discrezionalità, di una serie di principi che espongono di seguito.
Innanzitutto, indipendentemente dallo strumento giuridico che verrà utilizzato per disporre del bene (provvedimento amministrativo se si tratta di bene demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile; negozio di diritto privato se si tratta di bene patrimoniale disponibile), l’atto di disposizione dovrà comunque tener conto dell’obbligo di assicurare una gestione economica dei beni pubblici, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie.
Quest’obbligo rappresenta infatti una delle forme di attuazione da parte delle pubbliche amministrazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l’economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, L 241/1990 e s.i.m.). Ne consegue che, da un lato, l’azione amministrativa deve garantire livelli ottimali di soddisfazione dell’interesse pubblico generale attraverso l’impiego di risorse proporzionate; dall’altro, deve conseguire il massimo valore ottenibile dall’impiego delle risorse a disposizione.
In questo senso si è espressa anche
questa Sezione con la delibera n. 33/2009/PAR che ha affermato, con riferimento alla cessione gratuita di un immobile comunale, come questa non possa considerarsi una modalità tipica di valorizzazione del patrimonio proprio perché “non reca alcuna entrata all’ente e costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del bene, ma addirittura una fonte di depauperamento e, dunque, di danno patrimoniale per l’ente”.
La Sezione fa anche presente che il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni.

A questo riguardo
il Collegio richiama non solo quanto previsto dall’art. 32, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724 (cui si fa espresso riferimento nella richiesta di parere in questione) in ordine alla considerazione degli “scopi sociali” che possono giustificare un canone inferiore a quello di mercato per la locazione di beni del patrimonio indisponibile dei comuni, ma anche la disposizione di cui all’art. 32 della legge 07.12.2000, n. 383 che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
In questo caso la mancata redditività del bene è comunque compensata dalla valorizzazione di un altro bene ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento nell’art. 2 della Costituzione (in questo senso vedi anche delibera della Sezione di controllo della Lombardia n. 349/2011).
La Sezione tuttavia ritiene rilevante evidenziare che
le predette eccezioni si giustificano alla luce delle particolari caratteristiche che rivestono i beneficiari di tali disposizioni sulle quali si ritiene opportuno fare delle chiare precisazioni.
Infatti, nelle norme sopra citate si fa riferimento ad una categoria ben individuata di soggetti, quali organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale (art. 32, L 383/2000), secondo la definizione contenuta nell’art. 2 della L 383/2000 che comprende “le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati”.
D’altra parte, anche il beneficio previsto dall'art. 32, comma 8, della L 724/1994, limitatamente ai canoni annui dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni, in considerazione degli “scopi sociali”, va letto, ad avviso di questo Collegio, in riferimento a quanto previsto dal comma 3 del medesimo articolo che esclude dall’incremento dei canoni annui dei beni patrimoniali, questa volta dello Stato, una serie di categorie di soggetti (vedove o persone già a carico di dipendenti pubblici deceduti per causa di servizio, ecc.) tra le quali sono comprese anche le associazioni e fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti.
Dalla lettura delle norme in questione, risulta pertanto evidente che
la deroga alla regola della determinazione di canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato di cui alla citata norma, appare giustificata solo dall’assenza di scopo di lucro dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni.
A questo proposito, il Collegio ritiene opportuno chiarire che
la sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa, va accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione, alla stessa stregua del parametro che viene utilizzato, ad esempio, per valutare il carattere economico o meno dei servizi pubblici locali.
La Sezione prende atto che attualmente la tradizionale contrapposizione tra impresa e assenza di scopo di lucro ha assunto contorni via via più sfumati, dal momento che viene riconosciuta la possibilità di svolgere un’attività economica organizzata anche da parte di soggetti diversi dall’imprenditore, purché comunque destinata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi di utilità sociale e diretta a realizzare finalità di interesse generale. Ci si riferisce, in particolare, alla figura dell’impresa sociale introdotta dal D.lgs. 155/2006; tuttavia, anche in questo caso, il legislatore, oltre ad indicare in modo tassativo i settori in cui i beni ed i servizi prodotti o scambiati si considerano di utilità sociale, fa dell’assenza d lucro l’elemento costitutivo della figura (precisando, tra l’altro anche il divieto di distribuzione, anche in forma indiretta, di utili o di avanzi di gestione).
La Sezione precisa, inoltre, che,
oltre all'accertamento in concreto dell’assenza di uno scopo di lucro dell’associazione di interesse collettivo, ai fini di un corretta gestione del bene pubblico di cui si intende disporre a suo favore, qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione amministrativa nonché nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale.
La Sezione ritiene, ancora che,
ove la disposizione del bene sia attuata con un provvedimento, la concessione ad un soggetto di un’utilità a condizioni diverse da quelle previste dal mercato, possa essere qualificata come “vantaggio economico” ai sensi dell’art. 12 della legge 07.08.1990, n, 241 (vedi in questo senso la citata delibera della Sezione Lombardia n. 349/2011). Tale norma, sotto la rubrica “Provvedimenti attributivi di vantaggi economici”, stabilisce che “la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”; poi, al secondo comma, aggiunge che “l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1”.
Questa norma va letta anche con riferimento alla disciplina introdotta di recente dall’art. 18 del decreto legge 22.06.2012, n. 183, con dalla legge 07.08.2012, n. 134, in tema di amministrazione aperta, che disciplina in maniera dettagliata il regime di pubblicità sulla rete internet delle concessione di “sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese e l’attribuzione dei corrispettivi…e comunque di vantaggi economici di qualunque genere di cui all’articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241 ad enti pubblici e privati”; regime di pubblicità che, a partire dal 01.01.2013, diventa una condizione legale di efficacia, a determinate condizioni, del titolo legittimante le concessioni stesse.
Se, invece, l’atto dispositivo è di diritto privato, si raccomanda all’ente di garantire, comunque, un’adeguata forma di pubblicità.
Il Comune dovrà, inoltre, redigere il relativo verbale di consistenza dei luoghi al fine di accertare l’effettiva consistenza dei beni, anche allo scopo della corretta determinazione del canone dovuto. L’atto costitutivo del diritto reale dovrà poi contenere il regime quanto più dettagliato possibile delle rispettive obbligazioni, alla luce dei sopra citati principi di massima valorizzazione del bene e di trasparenza, prevedendo anche un obbligo di rendicontazione periodica.

In conclusione,
il Collegio ribadisce che l’indirizzo politico-legislativo (che si è venuto affermando negli ultimi anni) riconosce alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico una valorizzazione finalizzata all'utilizzo dei beni secondo criteri privatistici di redditività e di convenienza economica.
Aggiunge, tuttavia, il Collegio che
il Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata “l'ente locale rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove lo sviluppo (art. 3, comma 2, D ).
L'eventuale scelta di disporre di un bene pubblico ad un canone di importo diverso da quello corrispondente al suo valore di mercato, ad avviso della Sezione deve avvenire a seguito di “un’attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui però deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6, Cost.), secondo il principio già affermato nella citata delibera 33/2009/PAR di questa Sezione.
Nella stessa pronuncia viene inoltre ribadito che “
l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo temperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile degli interessi compresenti”.
Naturalmente tale valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco nonché della verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, è rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 05.10.2012 n. 716).

PATRIMONIOLa proprietà delle scarpate stradali. Chi deve provvedere alla manutenzione e come si determinano i confini.
Le scarpate stradali sono da considerarsi parti delle strade su cui insistono, in quanto pertinenze la cui staticità influisce sull'agibilità delle strade stesse. In tal senso, esse possono essere paragonate ai fossi e alle banchine.
Del resto, lo stesso articolo 3, n. 10), del decreto legislativo n. 285/1992 (Codice della strada) prevede espressamente che in assenza di atti di acquisizione o di fasce di esproprio di progetto, i confini stradali vadano rinvenuti nel piede della scarpata, se la strada è in rilevato, o nel ciglio superiore della scarpata, se la strada è in trincea.
I soggetti onerati della manutenzione delle scarpate.
Da quanto detto, deriva che proprietario delle scarpate e onerato del loro mantenimento è esclusivamente l'ente proprietario della strada. I privati proprietari dei fondi limitrofi, invece, non hanno alcun obbligo in tal senso.
Su questi ultimi, piuttosto, ricade un obbligo manutentivo relativamente alle ripe che sono situate nei fondi limitrofi alle strade, ovverosia relativamente a quelle zone di terreno immediatamente sovrastanti o sottostanti le scarpate.
Sulla base dell'articolo 31 del Codice della strada, infatti, i proprietari delle ripe sono chiamati a mantenerle in una condizione tale da non rischiare di causare frane, cedimenti o ingombri delle strade, cadute di massi o materiali o qualsiasi ulteriore insidia atta a generare danni.
Del resto, l'ente proprietario della strada, pur se chiamato, ai sensi dell'articolo 14 del Codice della strada, a provvedere alla manutenzione e alla pulizia non solo della sede stradale in senso stretto ma anche delle sue pertinenze, non può veder esteso il proprio obbligo di tutela della sicurezza degli utenti della strada sino al punto di doversi occupare della gestione anche di zone estranee ad essa, pur se circostanti.
Il parere n. 2158/2012 del Consiglio di Stato.
Sulla questione si sono espressi in diverse occasioni sia i giudici di merito che i giudici di legittimità, ma una particolare rilevanza la assume il parere n. 2158 reso dal Consiglio di Stato in data 09.05.2012, con il quale, nel respingere il ricorso dinanzi al Presidente della Repubblica fatto da un privato cittadino avverso una delle numerose ordinanze emesse dai Comuni nei confronti dei proprietari dei fondi limitrofi alle sedi stradali, si è fatta chiarezza circa i confini degli obblighi manutentivi dei privati rispetto a quelli degli enti gestori delle strade.
Tale parere risulta rilevante, peraltro, anche per aver precisato, confermando la sentenza della Cassazione n. 1730 del 25.06.2008, come per la definizione di "strada" (e in conseguenza della scarpata) assuma rilievo la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico e non la titolarità pubblica o privata della proprietà (commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
Per la definizione di “strada” assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà.
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L’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor S.V. avverso l’ordinanza del Comune di Terni concernente esecuzione di lavori su terreni confinanti con strada pubblica;
...
Premesso:
Con ordinanza n. 13217 del 21.01.2009, il sindaco del Comune di Terni, ai sensi degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, ha intimato a tutti i proprietari ed ai soggetti aventi titolo sui terreni confinanti con il corpo delle strade di pubblico transito, di tenere regolate le siepi, togliere i rami che si protendono oltre il confine stradale, rimuovere gli alberi che cadono sul piano stradale, non piantare alberi, siepi, piantagioni nelle fasce di rispetto laterali alle strade all’esterno di centri abitati relativamente ai tratti in rettilineo o in curva, nonché nelle aree di visibilità in corrispondenza delle intersezioni.
L’ordinanza prevede che i suddetti lavori debbano essere eseguiti entro il 20.05.2009, disponendo, in caso di violazione, l’avvio di azioni di tutela ed ingerenza straordinaria con rivalsa della spesa a carico dell’inadempiente e con irrogazione delle sanzioni amministrative previste dalla legge per le specifiche violazioni accertate secondo le procedure di cui all’art. 211 del Codice della Strada, salvi gli interventi di indifferibile urgenza.
Avverso tale ordinanza propone ricorso straordinario al Capo dello Stato il signor S.V., proprietario di alcune particelle di terreno prospicienti strade, chiedendone l’annullamento per eccesso di potere per falsità dei presupposti, travisamento dei fatti e illogicità manifesta.
In sintesi il ricorrente, premesso che le strade di interesse sono diventate di pubblico transito raramente per cessione volontaria ma soprattutto per acquisizione appropriativa e/o accessione invertita, con ampliamenti non risultanti in catasto (per cui pende causa civile attivata dal ricorrente), ritiene che le opere imposte relativamente alle scarpate confinanti con la strada siano di competenza del Comune.
Ciò in quanto l’area di pertinenza sotto la responsabilità del Comune è delimitata dal “confine stradale” inteso come “limite del corpo stradale che contiene la sede stradale, ovvero la carreggiata e le fasce di pertinenza (comprese le scarpate), come afferma peraltro la stessa ordinanza imponendo il taglio “dei rami che protendono oltre il confine stradale”.
Doglianze queste ribadite e sviluppate con memoria aggiunta presentata, a confutazione delle controdeduzioni del Comune, in data 04.01.2010.
L’Amministrazione, acquisite le controdeduzioni del Comune, che deduce preliminarmente la inammissibilità del ricorso per difetto di concretezza dell’interesse fatto valere, ritiene chiede conclude per la reiezione del ricorso.
Considerato:
Pur considerando che il gravame è volto avverso un atto generale e che il ricorrente non fornisce una prova concreta degli effetti immediati dell’atto sulla propria situazione fattuale, ritiene la Sezione di poter considerare il ricorso ammissibile, tenuto conto che trattasi di atto potenzialmente in grado di incidere sui diritti e interessi del ricorrente, in quanto proprietario di aree confinanti con strade pubbliche.
Nel merito il ricorso è da respingere.
In ordine alle connotazione dei luoghi effettuata dal ricorrente, va considerato come, per la definizione di “strada”, assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà (cfr., Cass. Sez. II, sent. 17350 del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è volta a precisare e ad imporre gli obblighi manutentivi, ordinari e straordinari, previsti ai fini della sicurezza, che incombono sui proprietari e gli aventi titolo dei terreni confinanti con il “corpo stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3, punto 10, del d. leg.vo n. 285 del 1992 stabilisce che, “qualora non vi siano atti di acquisizione o fasce di esproprio di progetto", come nel suo caso, il “confine stradale” è identificato “nel piede della scarpata se la strada è in rilevato o dal ciglio superiore della scarpata se la strada è in trincea”, gli obblighi manutentivi ed il taglio dei sensi insistenti sulla strada e involgenti le scarpate non sono legittimamente addossabili ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato, nell’imporre ai confinanti gli obblighi ivi previsti, nel richiamare esplicitamente la normativa vigente al riguardo, non appare adottato in violazione della suddetta normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e l’esecuzione dei lavori, relativamente a coloro che siano proprietari o abbiano comunque titolo nei terreni “confinanti” con il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto dall’ordinanza in questione, diretta a soggetti responsabili di terreni privati posti oltre il confine stradale, mentre rimangono a carico del Comune gli interventi riguardanti le strade in quanto tali, comprese le fasce di rispetto e le scarpate, ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale responsabilità del confinante che abbia illecitamente operato sulla sede stradale medesima.
Il ricorrente, d’altra parte, non evidenzia situazioni concrete che possono, nei suoi confronti, concretare una illegittima applicazione dell’ordinanza in questione che, se verificata, potrà determinare l’attuazione di specifici rimedi contenziosi.
Né assumono consistenze le osservazioni svolte in ordine alla procedura sanzionatoria di cui l’atto impugnato fa ricognizione, coerente alle disposizioni normative vigenti, mentre non assume alcun rilievo la lamentata entità delle spese necessarie ad assicurarne l’adempimento delle prescrizioni, in luogo di una astratta azione preventiva, che rientra a pieno titolo nei poteri-doveri della Pubblica Amministrazione.
Per le esposte considerazioni l’atto impugnato non è affetto dai lamentati vizi di legittimità ed il ricorso è da respingere (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 09.05.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Per la definizione di “strada”, assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà.
L’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.

In ordine alle connotazione dei luoghi effettuata dal ricorrente, va considerato come, per la definizione di “strada”, assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà (cfr., Cass. Sez. II, sent. 17350 del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è volta a precisare e ad imporre gli obblighi manutentivi, ordinari e straordinari, previsti ai fini della sicurezza, che incombono sui proprietari e gli aventi titolo dei terreni confinanti con il “corpo stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3, punto 10, del d. leg.vo n. 285 del 1992 stabilisce che, qualora non vi siano atti di acquisizione o fasce di esproprio di progetto, come nel suo caso, il “confine stradale” è identificato “nel piede della scarpata se la strada è in rilevato o dal ciglio superiore della scarpata se la strada è in trincea”, gli obblighi manutentivi ed il taglio dei sensi insistenti sulla strada e involgenti le scarpate non sono legittimamente addossabili ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato, nell’imporre ai confinanti gli obblighi ivi previsti, nel richiamare esplicitamente la normativa vigente al riguardo, non appare adottato in violazione della suddetta normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e l’esecuzione dei lavori, relativamente a coloro che siano proprietari o abbiano comunque titolo nei terreni “confinanti” con il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto dall’ordinanza in questione, diretta a soggetti responsabili di terreni privati posti oltre il confine stradale, mentre rimangono a carico del Comune gli interventi riguardanti le strade in quanto tali, comprese le fasce di rispetto e le scarpate, ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale responsabilità del confinante che abbia illecitamente operato sulla sede stradale medesima (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 09.05.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIOVa condanno il dirigente dell'ufficio tecnico per non aver tenuto gli impianti elettrici (nel caso di specie, del parco comunale, della biblioteca e dell'archivio del Comune) in condizioni di sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81 l'obbligo della sicurezza grava sia sul datore di lavoro e sia sul dirigente.

All'udienza odierna avveniva la discussione. Al termine della stessa il PM chiedeva l'assoluzione dell'imputato per non aver commesso il fatto; la difesa si associava.
Ritiene questo decidente che in base agli elementi acquisiti nel corso del giudizio debba essere, invece, affermata la penale responsabilità di L.G. per tutte e tre le contravvenzioni allo stesso ascritte.
...
Riferisce in udienza in ordine ai fatti il tecnico Asl della prevenzione G.D.:
- che interveniva presso il Comune di Severe nel 2008 in due distinte occasioni per verificare la idoneità degli impianti elettrici sotto il profilo della sicurezza;
- che, esattamente il controllo riguardava il 20.05.2008 il Parco Comunale ed il 28.05.2008 la Biblioteca comunale (e l'archivio comunale);
- che per il Parco Comunale esattamente le carenze rilevate erano tre, così puntualizzate nel verbale di contestazione delle irregolarità: "Sono rotti i morsetti di connessione dei conduttori PE ai dispersori collocati lungo il perimetro del campo da tennis, gli interruttori del quadro generale non riportano chiare indicazioni dei circuiti ai quali si riferiscono ed il dispositivo differenziale del quadro prese, collocato all'aperto, è guasto e privo di pannello di protezione";
- che il verbale di violazione veniva elevato nei confronti del geom. L.G., quale responsabile del settore gestione del territorio del Comune di Sovere;
...
Al prevenuto L. viene, invero, rimproverato -nella contestazione che la Pubblica accusa ha elevato
elevato- di non aver tenuto gli impianti elettrici del parco comunale, della biblioteca e dell'archivio del Comune di Sovere in condizioni di sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81 l'obbligo della sicurezza grava sia sul datore di lavoro e sia sul dirigente.
...
Non vi è necessità di avere una particolare competenza per rendersi conto che gli impianti elettrici sono in uno stato di abbandono mancando pure i normali interventi di manutenzione per la sostituzione, ad cs., delle luci che non funzionano (significativamente la Asl, come visto, respinge la richiesta di proroga del termine inerente gli adempimenti relativi al parco comunale perché ritiene che si sia di fronte a semplici interventi di ordinaria manutenzione).
Segue che la pratica stessa non può non avere una priorità nella gestione (dovendo altrimenti prendersi l'iniziativa doverosa della chiusura per motivi di sicurezza dell'archivio, della biblioteca e del parco comunale), con evidente stimolazione del progettista se lo stesso tarda a fare i sopralluoghi e poi a redigere il progetto.
Non c'è traccia di un impegno simile del prevenuto. Solo dopo i controlli della Asl lo stesso si attiva in qualche modo.
La colpevolezza appare quindi innegabile (TRIBUNALE di Bergamo, Sez. distaccata di Clusone, sentenza 27.02.2012 n. 46).

anno 2011

PATRIMONIO: La decisione se procedere o meno alla stipula di apposita convenzione con la locale associazione sportiva per la gestione degli impianti sportivi di proprietà comunale -al fine di consentire agli utenti amministrati (giovani atleti, studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel territorio comunale- attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente.
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in linea generale, si ricorda che la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del negozio di comodato pone a carico del comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che <<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti>>).
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All’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale.
In particolare, <<
l’ente locale nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo>>.
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile e l’erogazione di contributi, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte,
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale o finanziaria <<è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990 sui principi generali procedimento amministrativo, ha affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico>>.
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Il Sindaco del Comune di Verdello ha posto alla Sezione un quesito del seguente tenore: <<L'amministrazione sta valutando la possibilità di stipulare apposita convenzione con la locale associazione sportiva per la gestione degli impianti sportivi di proprietà comunale al fine di consentire agli utenti amministrati (giovani atleti, studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel territorio comunale dato che la promozione dello sport e le attività dì facilitazione della attività agonistica, a livello dilettantistico, rientrano tra le finalità istituzionali dell'ente locale>>.
In particolare, l’ente locale istante chiede di <<conoscere se, alla luce delle recenti restrizioni legislative in tema di riduzione dei costi della finanza pubblica:
1) il Comune possa concedere alla locale associazione sportiva (unica presente in loco direttamente l'uso della gestione degli impianti di proprietà comunale, degli arredi e delle strutture dei locali senza alcun corrispettivo;
2) il Comune possa accollarsi, in tutto o in parte, gli oneri inerenti le spese per l'energia elettrica, la fornitura di acqua ed il riscaldamento derivanti dall'uso dei locali da parte degli utenti, restando a carico della associazione sportiva la gestione degli impianti e delle strutture compresa la manutenzione ordinaria. Le tariffe per l'utilizzo degli impianti e delle palestre, saranno stabilite dall'amministrazione comunale mentre i proventi derivanti dall'utilizzo o del subaffitto a terzi degli impianti, resterebbero appannaggio della associazione sportiva. Le spese, infine; di manutenzione straordinaria, trattandosi di impianti di proprietà comunale, sono a carico del Comune;
3) l'amministrazione inoltre dovrebbe accollarsi la erogazione di un contributo annuale, a titolo di concorso dell'ente, nelle spese per la manutenzione ordinaria degli impianti e la gestione generale del centro sportivo;
4) il Comune possa concedere un ulteriore contributo da finalizzare per la promozione e il sostegno delle attività e per la promozione della pratica sportiva della popolazione e ciò perché tali erogazioni contributive non sembrano in, contrasto con il disposto dell'art. 12 della legge della L . n. 241/1990, in ordine alla concessione di contributi, atteso che la effettiva erogazione è comunque subordinata alla stipulazione di una apposita convenzione; né sembra in contrasto con l'art. 6, comma 9, D.L. n. 78/2010, in tema di divieto di sponsorizzazioni, poiché l'erogazione dei contributi di che trattasi, verrebbe concessa per promuovere e facilitare l'accesso ai giovani della attività sportiva dilettantistica nell'ambito delle finalità istituzionali dell'ente
>>.
...
In via preliminare la Sezione precisa che
la decisione se procedere o meno alla stipula di apposita convenzione con la locale associazione sportiva per la gestione degli impianti sportivi di proprietà comunale -al fine di consentire agli utenti amministrati (giovani atleti, studenti ecc.) lo svolgimento dì attività sportiva nel territorio comunale- attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente.
Inoltre, l’ente locale istante chiede di <<conoscere se, alla luce delle recenti restrizioni legislative in tema di riduzione dei costi della finanza pubblica:
1) il Comune possa concedere alla locale associazione sportiva (unica presente in loco direttamente l'uso della gestione degli impianti di proprietà comunale, degli arredi e delle strutture dei locali senza alcun corrispettivo.
2) il Comune possa accollarsi, in tutto o in parte, gli oneri inerenti le spese per l'energia elettrica, la fornitura di acqua ed il riscaldamento derivanti dall'uso dei locali da parte degli utenti, restando a carico della associazione sportiva la gestione degli impianti e delle strutture compresa la manutenzione ordinaria. Le tariffe per l'utilizzo degli impianti e delle palestre, saranno stabilite dall'amministrazione comunale mentre i proventi derivanti dall'utilizzo o del subaffitto a terzi degli impianti, resterebbero appannaggio della associazione sportiva. Le spese, infine; di manutenzione straordinaria, trattandosi di impianti di proprietà comunale, sono a carico del Comune.
3) L'amministrazione inoltre dovrebbe accollarsi la erogazione di un contributo annuale, a titolo di concorso dell'ente, nelle spese per la manutenzione ordinaria degli impianti e la gestione generale del centro sportivo;
4) il Comune possa concedere un ulteriore contributo da finalizzare per la promozione e il sostegno delle attività e per la promozione della pratica sportiva della popolazione e ciò perché tali erogazioni contributive non sembrano in, contrasto con il disposto dell'art. 12 della legge della L. n. 241/1990, in ordine alla concessione di contributi, atteso che la effettiva erogazione è comunque subordinata alla stipulazione di una apposita convenzione; né sembra in contrasto con l'art. 6, comma 9, D.L. n. 78/2010, in tema di divieto di sponsorizzazioni, poiché l'erogazione dei contributi di che trattasi, verrebbe concessa per promuovere e facilitare l'accesso ai giovani della attività sportiva dilettantistica nell'ambito delle finalità istituzionali dell'ente
>>.
Anche con riferimento a queste specifiche richieste occorre, preliminarmente, osservare che il quesito non investe una questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimersi sul contenuto di specifiche clausole da inserire nella convenzione implicante una valutazione che attiene ad una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste di parere devono avere rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative opportune cautele e valutazioni che la sana gestione richiede.
Ad ogni modo, l’ente nell’adottare il provvedimento gestionale potrà orientare la sua decisione ai principi generali che seguono.
Con riferimento ai punti nn. 1, 2 e 3 dell’istanza di parere,
in linea generale, si ricorda che la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del negozio di comodato pone a carico del comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che <<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti>>).
Ne consegue che, nel caso di specie, viene in rilievo la disciplina generale dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della legge in materia di procedimento amministrativo (L. 07.08.1990, n. 241). L’art. 12 cit., sotto la rubrica <<Provvedimenti attributivi di vantaggi economici>>, stabilisce che <<la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi>>; poi, al secondo comma, aggiunge che <<l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1>>.
Chiarito che il provvedimento attributivo del vantaggio economico in favore di soggetto di diritto privato deve essere adottato nel rispetto dei principi generali dettati dalla l. n. 241/1990, nonché delle norme regolamentari dell’ente locale, occorre altresì evidenziare che
all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale.
In particolare, come ha già ricordato questa Sezione, <<
l’ente locale nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo>> (si veda la delibera Lombardia/429/2010/PAR del 15.04.2010 con riferimento al contratto di comodato e, più in generale, le delibere Lombardia, 29/06/2006, n. 9, Lombardia 13/12/2007 n. 59, Lombardia 05/06/2008 n. 39 per l’erogazione di contributi da parte degli enti locali in favore di soggetti privati).
Dunque,
rientra nella sfera della discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile e l’erogazione di contributi, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte,
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale o finanziaria <<è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990 sui principi generali procedimento amministrativo, ha affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico>> (così, Lombardia/429/2010/PAR del 15.04.2010).
Con riferimento al punto n. 4 dell’istanza di parere, inoltre, si aggiunga che alla stregua del divieto di “spese per sponsorizzazioni” introdotto dall’art. 6, comma 9, d.l. n. 78/2010, questa Sezione ha valorizzato una nozione lata di sponsorizzazione di matrice giuscontabile, in coerenza con la ratio di riduzione degli oneri a carico delle Amministrazioni e con finalità anti-elusive.
In sede consultiva, in merito all’obbligo di riduzione della spesa per sponsorizzazioni ex art. 61, commi 6 e 15, del d.l. n. 112/2008, ha infatti statuito che “
il termine sponsorizzazioni .. si riferisce a tutte le forme di contribuzione a terzi alle quali possono ricorrere gli enti territoriali per addivenire alla realizzazione di eventi di interesse per la collettività locale di riferimento” (delibera n. 2/2009). Dunque, il divieto di spese per sponsorizzazioni ai sensi dell’art. 6, comma 9, del d.l. 31.05.2010, n. 78, presuppone anche un vaglio di natura telelogica.
Ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione comunale, a prescindere dalla sua forma, quale spesa di sponsorizzazione del tutto interdetta dopo l’entrata in vigore del citato decreto, è la relativa funzione. La spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza del Comune, così da promuoverne l’immagine. Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto terzo, rientranti nei compiti del Comune, nell’interesse della collettività anche sulla scorta dei principi di sussidiarietà orizzontale ex art. 118 Cost.
In via puramente esemplificativa,
il divieto di spese per sponsorizzazioni non può ritenersi operante nel caso di erogazioni ad associazioni che erogano servizi pubblici in favore di fasce deboli della popolazione (anziani, fanciulli, etc.), oppure a fronte di sovvenzioni a soggetti privati a tutela di diritti costituzionalmente riconosciuti, quali i contributi per il c.d. diritto allo studio o contributi per manifestazioni a carattere socio-culturale (et similia).
In sintesi,
tra le molteplici forme di sostegno all’associazionismo locale l’elemento che connota, nell’ordinamento giuscontabile, le contribuzioni tutt’ora ammesse (distinguendole dalle spese di sponsorizzazione ormai vietate) è lo svolgimento da parte del privato di un’attività propria del comune in forma sussidiaria. L’attività, dunque, deve rientrare nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche piuttosto che (direttamente) da parte di comuni e province, rappresentando una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’Amministrazione.
Dunque, come ha già ricordato più volte questa Sezione, <<
se la finalità perseguita dal Comune con l’erogazione di un contributo annuale alle Associazioni che operano sul territorio è quella di sostenere le associazioni locale che abbiano specifiche caratteristiche di collegamento con la Comunità locale, risultanti sia dall’iscrizione nel Registro locale che dallo svolgimento di attività e prestazioni in favore della Comunità insediata sul territorio sul quale insiste l’ente locale, si tratta di prestazione che non rientra nella nozione di spesa per sponsorizzazione vietata dall’art. 6, co. 9, del d.l. n. 78, conv. in l. n. 122 del 2010 e, come tale, ammissibile, nei limiti delle risorse finanziarie dell’ente locale e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica di carattere generale>> (Lombardia/122/2011/PAR del 10.03.2011; Lombardia/285/2011/PAR del 16.05.2011).
Tale profilo teleologico, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni, deve essere palesato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento. L’Amministrazione dovrà palesare i presupposti di fatto e l’iter logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo (ovvero, dovrà evidenziare che il contributo viene erogato per finalità effettivamente legate allo sviluppo sociale), nonché l’erogazione dovrà essere rispondente ai criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.06.2011 n. 349).

anno 2010

PATRIMONIO: Oggetto: PIANIGA (Venezia) - Villa Calzavara Pinton - Contratto di leasing - QUESITO (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 13.10.2010 n. 32/2010).

PATRIMONIO: La possibilità per l’ente locale di stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito avente ad oggetto un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile, è rimessa ad una scelta discrezionale operata dall’Ente, non sindacabile dalla Sezione che non può ingerirsi nelle concrete scelte amministrative dell’Amministrazione stessa.
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Il Presidente della Provincia di Lecco ha posto alla Sezione un quesito in ordine alla compatibilità dell’istituto del comodato ad uso gratuito, di un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile, con le norme relative alla corretta gestione del patrimonio immobiliare pubblico.
In maggior dettaglio, nella richiesta di parere, l’ente provinciale specifica che intende concedere in uso gratuito un bene immobile -facente parte del suo patrimonio indisponibile- in favore della Fondazione Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde che persegue fini di solidarietà sociale nell’ambito territoriale della provincia medesima; aggiunge che l’amministrazione provinciale partecipa alla nomina del Consiglio di amministrazione della fondazione e che gli amministratori sono scelti da un comitato di nomina presieduto dal Prefetto.
...
Venendo al merito della richiesta, occorre preliminarmente osservare che il quesito non investe una questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimersi su di una specifica fattispecie implicante una valutazione che attiene ad una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste di parere devono avere rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative opportune cautele e valutazioni che la sana gestione richiede.
Dunque, in merito al quesito posto dalla Provincia di Lecco, l’attività consultiva di questa Sezione va limitata ai principi che vengono in considerazione nella fattispecie prospettata, ai quali gli organi dell’Ente, al fine di assumere le determinazioni di loro competenza, nell’ambito della loro discrezionalità, possono riferirsi.
Al fine di individuare la disciplina generale applicabile al caso di specie occorre evidenziare la natura di soggetto di diritto privato della fondazione bancaria che persegue fini di solidarietà sociale nell’ambito territoriale della provincia di Lecco; a prescindere dal fatto che l’amministrazione provinciale partecipi alla nomina del Consiglio di amministrazione della fondazione e che gli amministratori siano scelti da un comitato di nomina presieduto dal Prefetto.
Ne consegue che
la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del negozio di comodato pone a carico del comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che <<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti>>).
Ne consegue che, nel caso di specie, viene in rilievo la disciplina generale dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della legge in materia di procedimento amministrativo (L. 07.08.1990, n. 241), normativa –tra l’altro- che viene correttamente richiamata dall’art. 7 del Regolamento della Provincia di Lecco.
L’art. 12 della legge n. 241/1990, sotto la rubrica <<Provvedimenti attributivi di vantaggi economici>>, stabilisce che <<la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi>>; poi, al secondo comma, aggiunge che <<l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1>>.
Chiarito che il provvedimento attributivo del vantaggio economico in favore di soggetto di diritto privato deve essere adottato nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale, nonché dei principi generali dettati dalla l. n. 241/1990, occorre altresì evidenziare che all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale.
In maggior dettaglio,
non sussiste un divieto in ordine alla natura del bene in quanto i beni patrimoniali disponibili sono beni che appartengono all’Ente pubblico uti privatorum. Il bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell’ente non ha una destinazione o, comunque, un’utilità pubblica e, quindi, è assoggettato in linea di massima alla disciplina privatistica.
Tuttavia, l’ente locale nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo (anche se non si riferiscono al contratto di comodato ma, più in generale, all’erogazione di contributi in favore degli enti locali si vedano precedenti delibere di questa Sezione, quali Lombardia, 29/06/2006, n. 9, Lombardia 13/12/2007 n. 59, Lombardia 05/06/2008 n. 39).
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte, la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990 che regola i principi generali procedimento amministrativo, ha affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico.
In conclusione,
la possibilità per l’ente locale di stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito avente ad oggetto un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile, è rimessa ad una scelta discrezionale operata dall’Ente, non sindacabile dalla Sezione che non può ingerirsi nelle concrete scelte amministrative dell’Amministrazione provinciale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.06.2010 n. 672).

anno 2009

PATRIMONIONon risulta precluso a priori per l’amministrazione l’utilizzo del comodato quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell’ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

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La Provincia di Verona, con nota a firma del suo Presidente, ha formulato ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003 i seguenti quesiti:
1. Se l’ente, dovendo procedere alla programmazione degli interventi di valorizzazione del patrimonio di cui all’art. 58, comma 1, del D.L. n. 112/2008, conv. in L. n. 133/2008, possa cedere gratuitamente la proprietà di immobili ad enti come Università o enti di ricerca, per favorire lo svolgimento di attività di formazione o ricerca.
In particolare, l’ente chiede se il rispetto del principio di redditività e l’interesse alla corretta gestione del patrimonio immobiliare pubblico possano essere considerati secondari rispetto a finalità di interesse generale, quali quelle di permettere ad enti, come l’Università, di disporre di un proprio patrimonio per gestire l’attività didattica e contribuire, così, alla crescita culturale della comunità.
A tal proposito, l’ente ricorda che l’art. 34, comma 1, del vigente regolamento per la disciplina dei contratti stabilisce espressamente il divieto di effettuare donazioni di beni immobili.
2. Se, viceversa, sia da valutare più rispondente alle regole giuscontabili procedere nella fattispecie alla concessione gratuita degli immobili di proprietà Provinciale tramite un contratto di comodato gratuito a tempo determinato, che manterrebbe la proprietà degli immobili in capo alla Provincia, trasferendo semplicemente l’uso con i relativi oneri di manutenzione.
In questo caso, la redditività del patrimonio sarebbe assicurata indirettamente dalle finalità perseguite e avverrebbe nel pieno rispetto dell’art. 39 del regolamento Provinciale dei contratti, che stabilisce che “Non è consentito concedere beni di proprietà Provinciale in comodato, se non in casi eccezionali o per motivi sociali o di pubblico interesse rapportato alle funzioni Provinciali, da indicare nel provvedimento a contrarre di cui all’art. 3. Sono, comunque, a carico del comodatario gli esborsi che farebbero carico al comodante per tutta la durata del contratto, oltre che le spese occorrenti per servirsi del bene di cui all’art. 1808, comma 1, del codice civile. Tale somma può essere anche determinata all’atto della stipula del contratto in modo forfetario, sulla base di apposita stima che tiene conto degli oneri sostenuti al momento dalla Provincia.”
...
Venendo al merito, la Sezione preliminarmente ricorda
che mentre i beni riservati e quelli destinati all’uso pubblico consentono all’amministrazione di perseguire direttamente i suoi fini attraverso la funzione pubblica cui assolvono, i beni patrimoniali cd. “disponibili” sono beni di proprietà di enti pubblici, non strumentali all’esercizio di pubbliche funzioni, che giovano ai fini dell’amministrazione solo indirettamente, in quanto generalmente produttivi di reddito (derivante da frutti naturali o civili).
In quest’ottica, la legislazione più recente, al fine di pervenire ad una gestione efficace e redditizia del patrimonio pubblico, ha avviato processi di graduale dismissione e/o di valorizzazione degli immobili pubblici, volta ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso (cfr., ad es., art. 9 L. n. 537 del 24/12/1993, art. 12 della L. 15/05/1997 n. 127, art. 19 della L. 23/12/1998 n. 448, art. 3-bis del D.L. n. 351/2001, conv. in L. n. 224/2001, art. 7 del d.l. 15.04.2002 n. 63 conv. in L. n. 112/2002),
non ritenendo conforme ai principi del buon andamento della gestione pubblica mantenere beni di importante valore in uno stato di quasi totale inutilizzabilità economica.
Importanti segnali in questo senso sono venuti anche con l’introduzione dell’art. 2, c. 594 e seguenti, della legge n. 244/2007, che ha previsto l’obbligo di adozione, da parte delle amministrazioni pubbliche, di piani triennali finalizzati alla razionalizzazione dell’utilizzo, tra l’altro, di beni immobili ad uso abitativo o di servizio, -con esclusione dei beni infrastrutturali-, e la trasmissione di apposite relazioni all’organo di controllo interno ed alla Sezione regionale della Corte dei conti competente per territorio.
Con specifico riferimento alla realtà degli enti locali, l’art. 58 del D.L. n. 112/2008, conv. in L. n. 133/2008, ha imposto agli enti territoriali di redigere annualmente un piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, da allegare al bilancio di previsione, in cui inserire i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non ritenuti strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, ed ha previsto una procedura semplificata al fine della classificazione di tali beni come patrimoniali disponibili –presupposto per poter essere alienati liberamente-, nonché di variante urbanistica con riferimento alla eventuale nuova destinazione d’uso da imprimere.
La Provincia di Verona, dovendo procedere alla programmazione degli interventi di valorizzazione di cui al citato art. 58, chiede se può cedere gratuitamente la proprietà di alcuni immobili ad Università o enti di ricerca e se, in particolare, le finalità pubbliche di didattica, di ricerca e di crescita culturale della collettività amministrata possano ritenersi prevalenti rispetto ai principi di redditività e di corretta gestione del patrimonio pubblico.
La Sezione esprime forti perplessità in merito, sulla base delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto, bisogna premettere che
la cessione gratuita di un immobile non rientra tra le tipiche modalità di valorizzazione del patrimonio ipotizzate dal legislatore, generalmente riconducibili ad ipotesi di concessione onerosa –eventualmente nelle forme di cui all’art. 143 del D. Lgs. n. 163/2006-, o di locazione infracinquantennale a privati a fini di riqualificazione o riconversione (es., art. 1, comma 259, L. n. 296/2006), nonché ad ipotesi di permuta (es., art. 1, comma 262, L. n. 296/2006), o di conferimento o costituzione di fondi comuni di investimento immobiliare (es., art. 4 e ss. del D.L. n. 351/2001, conv. in L. n. 224/2001, art. 58 D.L. n. 112/2008).
Ciò posto, bisogna considerare che
se lo scopo del patrimonio disponibile è generalmente quello di produrre reddito, risulta evidente che una cessione gratuita di un immobile non solo non reca alcuna entrata all’ente, e dunque costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del bene, ma addirittura può risultare fonte di depauperamento –e dunque di danno- patrimoniale per l’ente, che è invece tenuto ad improntare la gestione del proprio patrimonio a criteri di economicità ed efficienza, e a scegliere la soluzione che ottimizzi al massimo i costi di gestione in relazione anche alle finalità cui il patrimonio è adibito.
Ed invero, pur volendo prescindere da ragionamenti aprioristici, non può tuttavia negarsi che
un’eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito dovrebbe avvenire a seguito di un’attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui, però, deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6 novellato), e della sempre crescente attenzione postavi dal legislatore in occasione di alcune recenti normative di settore (tra cui, appunto, l’art. 58 del D.L. n. 112/2008).
L’interesse alla conservazione e alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerare primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione, ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo contemperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti.
Il rischio di depauperamento patrimoniale per l’ente potrebbe peraltro assumere connotazioni ancora più problematiche qualora l’Università dovesse, nella propria autonomia, deliberare la trasformazione in fondazione di diritto privato, avvalendosi della facoltà riservatale dall’art. 16 del D.L. n. 112/2008 conv. in L. n. 133/2008.
In ogni caso, nella fattispecie l’amministrazione ha già ritenuto a priori che l’interesse all’integrità del patrimonio provinciale sia imprescindibile, e dunque prevalente rispetto a qualsiasi ulteriore interesse pubblico da realizzare, visto che la donazione di immobili è espressamente vietata dall’art. 34 del regolamento dei contratti dell’ente.
Con riferimento al secondo quesito, si rileva che anche il comodato (art. 1803 – 1812 c.c.), in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con la tradizionale redditività dei beni patrimoniali disponibili.
E’ per questo motivo che lo stesso regolamento provinciale dei contratti all’art. 39 stabilisce la regola generale che “non è consentito concedere beni di proprietà Provinciale in comodato”. In questo caso, però, non vi è un definitivo depauperamento da parte dell’ente, in quanto questo concede semplicemente in uso un bene, di cui può rientrare in possesso alla scadenza del termine, o addirittura immediatamente in caso di urgente ed imprevisto bisogno (art. 1809 c. 2 c.c.).
In questo senso si giustificano le aperture da parte del regolamento provinciale, che ammette la possibilità di ricorrere a tale istituto qualora ricorrano casi eccezionali, o qualora sussistano motivi sociali o di pubblico interesse rapportati alle funzioni provinciali.
Non risulta, dunque, precluso a priori per l’amministrazione l’utilizzo del comodato quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali. Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell’ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 24.04.2009 n. 33).

anno 2008

PATRIMONIO: Dalla sussistenza o meno della pubblica fruizione delle strade "vicinali" discende l’obbligo o meno per il comune di compartecipazione alle spese: per le strade vicinali di uso pubblico, il comune è tenuto (art. 3 del D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446) a concorrere alle spese di manutenzione, sistemazione e ricostruzione in misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, a seconda della loro importanza, mentre per le altre il concorso del comune è facoltativo, e può essere concesso a fini diversi dalla manutenzione e in misura non eccedente il quinto della spesa.
Tali limiti di compartecipazione sono inderogabili, in quanto il legislatore con tale disciplina, tenendo conto dello speciale regime giuridico di tali strade, ha già contemperato a monte gli interessi pubblici e privati in gioco, demandando ai comuni solo la possibilità di scegliere in concreto l’ammontare della contribuzione all’interno dei limiti minimi e massimi consentiti.
Tale scelta, corredata da esaustiva motivazione anche in relazione al grado di fruizione pubblica della strada oggetto di intervento, dovrà ovviamente seguire criteri di trasparenza, parità di trattamento, economicità e razionalità di gestione, e dovrà tener conto anche delle disponibilità finanziarie complessive dell’ente.

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Nel caso in esame, il sindaco del comune di Pozzonovo (PD) ha richiesto un parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003 in ordine alla possibilità per il comune di farsi integralmente carico degli oneri di sistemazione delle strade vicinali, presenti in gran numero nel territorio comunale ed in cattivo stato manutentivo, in ragione della notevole importanza che esse assumono nel contesto della viabilità urbana.
Gli uffici comunali hanno sollevato perplessità di ordine giuridico in merito a tale possibilità -essendo l’entità massima del concorso del comune a tali spese fissata dall’art. 3 del D.L.Lgt 1/9/1918 n. 1446-, e hanno paventato il rischio per l’ente di incorrere in responsabilità amministrativa.
A sostegno della legittimità della contribuzione integrale da parte dell’ente, il sindaco invoca il fatto che tali strade hanno perso da decenni il loro carattere rurale e sono ormai entrate a far parte a tutti gli effetti della viabilità pubblica, nonostante l’area di sedime stradale sia rimasta privata.
...
Ciò premesso, e venendo al merito, il Collegio rileva che
le strade vicinali in questione, a differenza delle strade comunali, non appartengono al demanio dell’ente (le relative aree di sedime stradale sono infatti di proprietà dei privati frontisti).
Nei confronti di tali strade, tuttavia, il comune può essere titolare di un diritto reale di uso pubblico (che si inquadrerebbe tra i diritti demaniali su beni altrui di cui all’art. 825 del codice civile), per il cui riconoscimento, secondo la giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass. Civ., sez. II, sent. n. 3108 del 19.05.1984) devono concorrere una serie di requisiti: il passaggio abituale (cioè non occasionale o sporadico) esercitato da una collettività di persone qualificate dalla appartenenza ad un gruppo territoriale, la concreta idoneità delle strade a soddisfare esigenze di pubblico interesse (per esempio, il collegamento con la via pubblica o il loro collegamento con edifici di interesse collettivo, quali chiese o edifici pubblici), e l’esistenza di un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto in questione, che può consistere in un provvedimento della Pubblica Amministrazione, in un atto spontaneo dei privati di messa a disposizione del bene ("dicatio ad patriam"), in una convenzione, nell'usucapione o nell'uso "ab immemorabili". Non sono sufficienti a tal fine l’iscrizione della strada nell’elenco delle strade vicinali e la mancanza di un provvedimento comunale di declassamento (Cfr. TAR Campania, sent. 29/06/2006 n. 721 e TAR Sardegna, sent. 07/08/2006 n. 1599).
Le strade vicinali, soprattutto se di uso pubblico, pur appartenendo alla viabilità rurale minore, assolvono ugualmente ad una funzione di ausilio alla viabilità locale, ed è per questo motivo che ai fini del codice della strada (art. 2, comma 6, lett. D, del D.Lgs. n. 285/1992) sono assimilate alle strade comunali e soggette (art. 14, comma 4, CDS) ad una serie di funzioni da parte dei comuni (controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze, apposizione e manutenzione della segnaletica stradale, servizi di polizia stradale, ecc.), tipiche degli enti proprietari.
Tra questi compiti vi è anche quello di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, e di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade e delle pertinenze (art. 14, c. 1, CDS).
I comuni, tuttavia, sono chiamati ad assolvere a tali obblighi di manutenzione solo in caso di inadempimento da parte dei soggetti a ciò tenuti, -ossia i consorzi per la manutenzione delle strade vicinali, da costituirsi con la procedura di cui all’art. 2 del D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446-, o qualora si tratti di interventi urgenti. Da ciò, dunque, l’obbligo di recuperare le somme di altrui spettanza eventualmente anticipate.
I consorzi in questione (in cui il Comune è rappresentato con voto proporzionale alla misura del concorso alle spese), sulla base di quanto dispone l’art. 14 della L. n. 12.02.1958 n. 126, sono obbligatori per quanto concerne le strade vicinali di uso pubblico (infatti, il comune può anche promuoverne d’ufficio la costituzione), mentre sono facoltativi, a mente dell’art. 1 e 3, c. 2, del D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446, per le strade vicinali non soggette a tale uso.
Dalla sussistenza o meno della pubblica fruizione discende anche l’obbligo o meno per il comune di compartecipazione alle spese: per le strade vicinali di uso pubblico, il comune è tenuto (art. 3 del D.L.Lgt 01/09/1918 n. 1446) a concorrere alle spese di manutenzione, sistemazione e ricostruzione in misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, a seconda della loro importanza, mentre per le altre il concorso del comune è facoltativo, e può essere concesso a fini diversi dalla manutenzione e in misura non eccedente il quinto della spesa.
Tali limiti di compartecipazione sono inderogabili, in quanto il legislatore con tale disciplina, tenendo conto dello speciale regime giuridico di tali strade, ha già contemperato a monte gli interessi pubblici e privati in gioco, demandando ai comuni solo la possibilità di scegliere in concreto l’ammontare della contribuzione all’interno dei limiti minimi e massimi consentiti.
Tale scelta, corredata da esaustiva motivazione anche in relazione al grado di fruizione pubblica della strada oggetto di intervento, dovrà ovviamente seguire criteri di trasparenza, parità di trattamento, economicità e razionalità di gestione, e dovrà tener conto anche delle disponibilità finanziarie complessive dell’ente (
Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Veneto, parere 07.11.2008 n. 140).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 07.07.2008, "Applicazione dell'art. 21 «Viabilità agro-silvo-pastorale, gru a cavo e fili a sbalzo» della l.r. 28.10.2004, n. 27 e della «Direttiva relativa alla viabilità locale di servizio all'attività agro-silvo-pastorale» ai sensi della delibera di Giunta regionale n. 14016 dell'08.08.2003 con particolare riguardo agli aspetti legati alla regolamentazione e alla chiusura" (circolare regionale 01.07.2008 n. 11).

anno 2003

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 35 del 29.08.2003, "Direttiva relativa alla viabilità locale di servizio all’attività agro-silvo-pastorale" (deliberazione G.R. 08.08.2003 n. 14016).