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AGGIORNAMENTO AL 31.12.2019 (ore 23,59) |
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Legge
urbanistica della Lombardia:
ne davamo notizia con l'AGGIORNAMENTO
AL 13.08.2018... e la censura della Consulta (puntualmente) è arrivata!! |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Spazi
per le moschee e altri luoghi religiosi: la Lombardia ha limitato
irragionevolmente la libertà di culto.
La libertà religiosa garantita dall’articolo 19 della
Costituzione comprende anche la libertà di culto e, con essa, il diritto di
disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare. Pertanto,
quando disciplina l’uso del territorio, il legislatore deve tener conto
della necessità di dare risposta a questa esigenza e non può comunque
ostacolare l’insediamento di attrezzature religiose.
È quanto ha stabilito la Corte costituzionale, che con la
sentenza 05.12.2019 n. 254 (relatrice Daria de Pretis) ha accolto
le questioni sollevate dal TAR Lombardia e, conseguentemente, ha annullato
due disposizioni in materia di localizzazione dei luoghi di culto introdotte
nella disciplina urbanistica lombarda (l. 12/2005) dalla legge regionale
della Lombardia n. 2 del 2015.
La prima (contenuta nell’articolo
72, secondo comma, legge 12/2005) poneva come condizione per l’apertura
di qualsiasi nuovo luogo di culto l’esistenza del piano per le attrezzature
religiose (PAR). La Corte ha fatto riferimento al carattere assoluto della
norma, che riguardava indistintamente tutte le nuove attrezzature religiose
a prescindere dal loro impatto urbanistico, e al regime differenziato
irragionevolmente riservato alle sole attrezzature religiose e non alle
altre opere di urbanizzazione secondaria.
In base alla seconda disposizione dichiarata incostituzionale (articolo
72, quinto comma, secondo periodo), il PAR poteva essere adottato solo
unitamente al piano di governo del territorio (PGT). Secondo la Corte,
questa necessaria contestualità e il carattere del tutto discrezionale del
potere del Comune di procedere alla formazione del PGT rendevano
assolutamente incerta e aleatoria la possibilità di realizzare nuovi luoghi
di culto.
Le norme censurate finivano così per determinare una forte compressione
della libertà religiosa senza che a ciò corrispondesse alcun reale interesse
di buon governo del territorio (Corte Costituzionale,
comunicato stampa 05.12.2019).
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Nel regolare, in sede di disciplina del governo del
territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire
esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere
ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di
allocazione delle attrezzature religiose; in ragione del peculiare rango
costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina
urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature
religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per
il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare
l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare
strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia,
alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento
nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto
urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della
necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse
comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici,
cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi
attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR (piano delle attrezzature
religiose) e che per un verso non consente un equilibrato e armonico
sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare
l’apertura di nuovi luoghi di culto.
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua
variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì
che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a
essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del
fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una
sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a
sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per
sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e
il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature
religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio
della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da
ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della
libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di
culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo
del territorio.
Ciò posto va dichiarata:
- l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge
della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge
della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi
per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
- l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo
periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato
dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.com).
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Considerato in diritto
1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2018 il Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia (sentenza
03.08.2018 n. 1939) dubita della legittimità costituzionale dell’art.
72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche
apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione
Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto
con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature
religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente
parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla
base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che «[l]’installazione
di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza
il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura
religiosa da confessioni di cui all’articolo 70». Le attrezzature
religiose sono identificate dall’art. 71 della stessa legge reg. Lombardia
n. 12 del 2005.
Secondo il TAR, i citati commi 1 e 2 dell’art. 72, nel prevedere che, in
assenza o comunque al di fuori delle previsioni del piano delle attrezzature
religiose (di seguito, PAR), i comuni non possano consentire l’apertura di
spazi destinati all’esercizio del culto, a prescindere dal contesto e dal
carico urbanistico generato dalla specifica opera, violerebbero:
a) l’art. 19 Cost., in quanto la possibilità di esercitare
collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume
verrebbe a essere subordinata alla discrezionale pianificazione comunale e,
quindi, al controllo pubblico;
b) l’art. 3 Cost., in quanto le norme censurate eccederebbero lo
scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle
attrezzature religiose e assegnerebbero a queste un trattamento
discriminatorio rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque
destinate alla fruizione pubblica, con conseguente violazione «dei
fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione»;
c) l’art. 2 Cost., «stante la centralità del credo religioso
quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua
affermazione individuale e collettiva».
2.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 172 del 2018, lo stesso TAR
Lombardia dubita della legittimità costituzionale del
comma 5, secondo periodo, dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114,
secondo comma, 117, secondo comma, lettera m), e sesto comma, e 118, primo
comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono
prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare
il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di
entrata in vigore della legge regionale […]. Decorso detto termine il piano
è approvato unitamente al nuovo PGT».
Secondo il TAR, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, in base al quale, una
volta decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, il PAR è approvato unitamente al nuovo piano per il
governo del territorio (di seguito, PGT), senza «alcun limite alla
discrezionalità del Comune nel decidere quando […] determinarsi a fronte
della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto»,
violerebbe:
a) gli artt. 2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione
della libertà religiosa dei fedeli, sotto il profilo del loro diritto di
trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, in quanto, a
seguito della inutile decorrenza del termine di diciotto mesi per l’adozione
del PAR, la norma non prevede «alcun intervento sostitutivo», e
demanda all’amministrazione comunale la facoltà di introdurre il piano in
sede di revisione o adozione del PGT «senza alcun ulteriore termine»
e senza «alcuna disposizione “sanzionatoria”»;
b) l’art. 97 Cost., in quanto la mancata previsione di tempi certi
di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il
principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato,
esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno
religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità
dell’azione amministrativa;
c) l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la
predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base
all’art. 29 della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi);
d) gli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo
comma, Cost., in quanto, una volta decorsi i diciotto mesi dall’entrata in
vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma regionale
condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione
complessiva del piano di governo del territorio», con conseguente
ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni.
3.– I due giudizi, riguardando norme sotto più profili connesse e sollevando
questioni in parte sovrapponibili, vanno riuniti per essere definiti con
un’unica pronuncia.
4.– L’intervento dell’associazione As. di Cantù è avvenuto in entrambi i
giudizi oltre il termine previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, in quanto
l’atto di intervento è stato depositato il 25.09.2019, ben dopo i venti
giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo
del giudizio, avvenuta il 14.11.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 159
del 2018 e il 05.12.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 172 del 2018.
L’intervento è dunque inammissibile in quanto, secondo il costante
orientamento di questa Corte, il termine per l’intervento nei giudizi
dinanzi a essa è perentorio (tra le molte, sentenze n. 106, n. 90 e n. 78
del 2019).
5.– Venendo all’esame delle questioni sollevate nella prima causa (reg. ord.
n. 159 del 2018), occorre innanzitutto precisare il thema decidendum
sottoposto a questa Corte e affrontare i profili processuali.
Il TAR Lombardia censura i primi due commi dell’art. 72 della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005: il comma 2 perché subordina in modo assoluto
l’apertura di luoghi di culto alla previa adozione del PAR; il comma 1
perché, «anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è
realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate».
A sostegno delle sue censure il giudice a quo sviluppa per le due
disposizioni un’argomentazione unica, articolata in riferimento ai tre
parametri invocati. In realtà, le due norme censurate presentano un
contenuto differenziato e sono in effetti oggetto di distinte doglianze da
parte del TAR, che contesta per un verso la subordinazione dei luoghi di
culto alla previa approvazione del PAR (prevista al comma 2) e per altro
verso il necessario rispetto della zonizzazione operata nel PAR stesso
(prescritto al comma 1). Le censure devono dunque essere distinte anche in
relazione all’oggetto, e non solo in relazione al parametro.
5.1.– Precisato ciò, le questioni relative all’art. 72,
comma 1, sono inammissibili per irrilevanza.
Il TAR censura infatti il carattere vincolante delle previsioni
localizzative del PAR per l’insediamento di qualsivoglia nuova attrezzatura
religiosa, ma, nel caso oggetto del giudizio a quo, il PAR non
risulta adottato, con la conseguenza che al giudizio stesso è estraneo il
tema –anche logicamente, oltre che fattualmente, subordinato al tema della
previa esistenza del PAR– della necessaria conformità alla zonizzazione del
piano e dunque in esso non viene in rilievo la questione di costituzionalità
della norma che la prescrive (art. 72, comma 1).
5.2.– Passando alle questioni proposte con riferimento all’art. 72, comma 2,
occorre esaminare, in primo luogo, l’eccezione di irrilevanza sollevata
dalla Regione, secondo la quale, mentre il TAR censura la sproporzione tra
l’obbligo generalizzato previsto dalla norma, che impone l’esistenza del PAR
come condizione per l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa, e
le ipotesi in cui questa consista per esempio in una piccola sala di
preghiera, il giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di culto
potenzialmente frequentabile da un numero non determinato di fedeli e
destinato a incidere in modo rilevante e permanente sul tessuto urbano.
L’eccezione non è fondata.
Anche senza entrare nel merito del presupposto di fatto dell’eccezione
(cioè, l’asserita rilevante consistenza della dimensione dell’immobile
oggetto del giudizio a quo), si deve osservare che il TAR non censura
l’art. 72, comma 2, solo nella parte in cui si applica ai luoghi di culto di
dimensioni modeste, ma chiede una pronuncia ablativa dell’intera
disposizione. Il riferimento all’applicazione della norma anche alle «modeste
sale di preghiera» è diretto a mettere in evidenza gli effetti
irragionevoli della norma stessa, non a limitare il petitum.
L’effettiva consistenza della struttura oggetto del giudizio a quo
non è dunque significativa ai fini della rilevanza delle questioni.
Complessivamente, la motivazione del TAR sulla rilevanza risulta adeguata.
Il giudice a quo censura l’art. 72, comma 2, cioè esattamente la
norma posta alla base del provvedimento di annullamento d’ufficio, impugnato
nel giudizio a quo. Si sofferma inoltre espressamente sugli effetti
della sopravvenuta legge della Regione Lombardia 25.01.2018, n. 5
(Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni
di legge), che ha abrogato la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015,
argomentando in modo plausibile sulla permanenza della rilevanza delle
questioni.
Si può osservare, infine, che la parte dell’atto di rimessione in cui si
sollevano le questioni di legittimità costituzionale ha una propria
autonomia e delinea in modo chiaro le questioni stesse, mettendone in
evidenza la rilevanza ai fini della decisione del quinto motivo di ricorso
(l’unico non deciso dal rimettente). Non rilevano dunque in questa sede
eventuali profili di non coerenza fra la parte dell’atto di rimessione che
solleva le questioni e altri capi della pronuncia in cui vengono respinti
gli altri motivi di ricorso, in alcuni casi applicando le disposizioni che
il TAR ha poi sottoposto al giudizio di questa Corte.
6.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale
dell’art.
72, comma 2, proposta in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 19
Cost., è fondata.
È opportuno, innanzitutto, ricordare la cornice costituzionale in cui si
inserisce l’oggetto dei presenti giudizi.
La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile
(sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato «al
massimo grado» (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia
costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di
laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi,
secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato
(sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995,
n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza
religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima
espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità»
(sentenza n. 67 del 2017).
Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto
essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo
che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente la propria fede
religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e
di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di
riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario del
culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va
assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere
dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro
condizione di minoranza (sentenze n. 63 del 2016, n. 195 del 1993 e n. 59
del 1958).
La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi
adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del 2017) e
comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità
pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio
(essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo –in applicazione del
citato principio di laicità– esso implica che le amministrazioni competenti
prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose;
in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati
all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le
confessioni nell’accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del 2016, n.
346 del 2002 e n. 195 del 1993).
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto
delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro
presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto,
il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le
confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli
spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità
limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si
dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare
adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o
dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e
alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione» (sentenza n. 63
del 2016).
6.1.– Il quadro costituzionale descritto ha trovato attuazione nella
normativa, sia statale che di molte regioni, che garantisce la previsione di
adeguati spazi per i luoghi di culto per l’esercizio della libertà
religiosa.
Quanto alla disciplina statale, è sufficiente ricordare che, in base
all’art. 3 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17
della legge 06.08.1967, n. 765), i luoghi di culto rientrano tra le «attrezzature
di interesse comune» che devono essere previste dagli strumenti
urbanistici al fine di soddisfare gli standard fissati dallo stesso decreto.
Inoltre, l’art. 16, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia), ha confermato che gli oneri di
urbanizzazione secondaria riguardano anche «chiese e altri edifici
religiosi».
A livello regionale, negli anni Ottanta e Novanta molte regioni hanno
dettato norme dirette a riservare alle attrezzature religiose un trattamento
differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al
fine di agevolarne la realizzazione, in particolare con la previsione di
contributi finanziari (regionali e comunali) e con l’innalzamento della
dotazione minima richiesta dalla disciplina statale (così, fra le altre:
legge della Regione Liguria 24.01.1985, n. 4, recante «Disciplina
urbanistica dei servizi religiosi»; legge della Regione Piemonte 07.03.1989,
n. 15, recante «Individuazione negli strumenti urbanistici generali di
aree destinate ad attrezzature religiose. Utilizzo da parte dei Comuni del
fondo derivante dagli oneri di urbanizzazione»; legge della Regione
Campania 05.03.1990, n. 9, recante «Riserva di standard urbanistici per
attrezzature religiose»).
6.2.– In questo filone si inseriva anche la legge della Regione Lombardia
09.05.1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di
attrezzature destinate a servizi religiosi), che riservava alle attrezzature
religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse
comune e prevedeva, fra l’altro, che in ciascun comune almeno l’8% delle
somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla
loro realizzazione e manutenzione. Poiché tuttavia tali contributi erano
riservati alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose dotate di
intesa, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la
disposizione che li prevedeva, nella parte in cui prescriveva il requisito
dell’intesa (sentenza n. 346 del 2002).
La successiva legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio), disciplinava poi, agli artt. da 70 a 73, la
realizzazione di attrezzature religiose, stabilendo che esse sarebbero state
regolate, insieme alle altre attrezzature di interesse pubblico, dal piano
dei servizi. Tale normativa è stata oggetto, a partire dal 2006, di varie
modifiche, che hanno progressivamente sottoposto l’apertura di luoghi di
culto a controlli e limiti sempre più penetranti.
La prima modifica è stata apportata con la legge della Regione Lombardia
14.07.2006, n. 12 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 «legge per il governo del territorio»), che ha assoggettato a
permesso edilizio i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza
opere, «finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati
a centri sociali» (art. 52, comma 3-bis, aggiunto alla legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005).
Una nuova restrizione è stata introdotta dalla legge regionale 14.03.2008,
n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», che,
aggiungendo il comma 4-bis nell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, ha limitato le zone in cui potevano essere realizzate le attrezzature
religiose fino all’approvazione del piano dei servizi.
La successiva legge regionale 21.02.2011, n. 3 (Interventi normativi per
l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di
disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2011), ha poi allargato
la nozione di attrezzature religiose, comprendendovi «gli immobili
destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi
forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da
ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione
religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali»
(art. 71, comma 1, lettera c-bis, aggiunta alla legge reg. Lombardia n. 12
del 2005).
È infine intervenuta la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, oggetto del
presente giudizio, che ha dettato una complessa disciplina in materia di
attrezzature religiose, modificando l’art. 70 e sostituendo l’art. 72 della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La disciplina del 2015 è stata impugnata, in alcune sue parti, dal Governo,
e questa Corte ha deciso il ricorso con la sentenza n. 63 del 2016, fra
l’altro dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 70, commi 2-bis
(nella parte in cui fissava alcuni requisiti solo per le confessioni non
cattoliche senza intesa) e 2-quater (che istituiva la consulta regionale), e
l’art. 72, comma 4, primo periodo (che prevedeva i pareri relativi ai
profili di sicurezza pubblica, nel corso del procedimento di formazione del
PAR), e comma 7, lettera e) (che richiedeva un impianto di videosorveglianza
negli edifici di culto), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La sentenza n. 63 del 2016 non si è pronunciata nel merito sulle norme qui
in esame, poiché i commi 1 e 2 dell’art. 72 non erano stati impugnati dal
Governo e l’art. 72, comma 5, è stato oggetto di una pronuncia di manifesta
inammissibilità.
6.3.– Così illustrato il contesto di riferimento, si possono ora esaminare
le questioni sollevate dal giudice rimettente.
La disposizione censurata (art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n.
12 del 2005, introdotto dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015) subordina
l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR (atto
separato facente parte del piano dei servizi), che rappresenta a sua volta
una novità introdotta dalla stessa legge reg. Lombardia n. 2 del 2015.
Occupandosi della potestà legislativa regionale in tema di edilizia di
culto, questa Corte ne ha già chiarito finalità e limiti, affermando che «[l]a
legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione
e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di
assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella
realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia
accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195
del 1993)» (sentenza n. 63 del 2016). In questo contesto «la Regione
è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono
sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la
programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di
tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che
siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del
territorio affidate alle sue cure» (sentenza n. 67 del 2017).
Nell’esercizio delle sue competenze, tuttavia, il legislatore regionale «non
può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione»,
non essendogli consentito in particolare di introdurre «all’interno di
una legge sul governo del territorio […] disposizioni che ostacolino o
compromettano la libertà di religione» (sentenza n. 63 del 2016).
In sintesi dunque, nel regolare, in sede di disciplina del governo del
territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire
esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere
ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di
allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango
costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina
urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature
religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per
il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare
l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare
strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia,
alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento
nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto
urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della
necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse
comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici,
cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi
attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Questa Corte non può non
rilevare infatti che tale soluzione legislativa per un verso non consente un
equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con
l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.
A questo riguardo viene in evidenza innanzitutto il carattere assoluto della
previsione, che riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove
attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato,
dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro
attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque
dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e
potenzialmente irrilevante. L’effetto di tale assolutezza è che anche
attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di
avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera
privata di una comunità religiosa), devono essere preventivamente
localizzate nel PAR, e che, per esempio, i membri di un’associazione avente
finalità religiosa non possono riunirsi nella sede privata dell’associazione
per svolgere l’attività di culto, senza una specifica previsione del PAR. Al
contrario, qualsiasi altra attività associativa, purché non religiosa, può
essere svolta senz’altro nella sede sua propria, liberamente localizzabile
sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni
urbanistiche. In questa prospettiva, la potenziale irrilevanza urbanistica
di una parte almeno delle strutture investite dalla previsione contestata
rende evidente l’esistenza di un obiettivo ostacolo all’insediamento di
nuove strutture religiose.
Va sottolineato inoltre il regime differenziato che, a dispetto dello
specifico riconoscimento costituzionale –sopra ricordato– del diritto di
disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature
religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per
esempio scuole, ospedali, palestre, centri culturali. Si tratta in tutti i
casi di impianti di interesse generale a servizio degli insediamenti
abitativi che, in maniera non diversa dalle attrezzature religiose, possono
presentare maggiore o minore impatto urbanistico in ragione delle loro
dimensioni, della funzione e dei potenziali utenti. Il fatto che il
legislatore regionale subordini solo le attrezzature religiose al vincolo di
una specifica e preventiva pianificazione indica che la finalità perseguita
è solo apparentemente di tipo urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della
disciplina è invece in realtà quello di limitare e controllare
l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro
consistenza, dalla semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande
tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.
In conclusione, la compressione della libertà di culto che
la norma censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole
giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità
urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2,
3, primo comma, e 19 Cost.
7.– Passando a esaminare la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, occorre soffermarsi in primo luogo sulle eccezioni di inammissibilità
sollevate dalla Regione Lombardia.
7.1.– Secondo la Regione Lombardia, la questione è irrilevante innanzitutto
perché l’atto impugnato davanti al giudice rimettente non farebbe
riferimento alla previsione censurata (art. 72, comma 5), che non troverebbe
dunque applicazione nel giudizio a quo.
Sebbene sia vero che l’atto impugnato non menziona l’art. 72, comma 5, e che
esso si pronuncia su un’osservazione presentata nel procedimento di
approvazione del PGT, l’eccezione di irrilevanza non è fondata. Il TAR
infatti non si limita a contestare la discrezionalità delle scelte
urbanistiche affidate ai comuni in relazione al quando deliberare sulle
istanze di individuazione di un luogo di culto, ma precisa espressamente
che, nel caso di specie, viene in rilievo il secondo periodo dell’art. 72,
comma 5, e la necessità, in esso prevista, che il PAR venga approvato «unitamente
al nuovo PGT», con la conseguenza che resterebbero incerti e aleatori i
tempi di risposta sull’istanza degli interessati, dato che, secondo il TAR,
«l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di
revisione del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto».
E, in effetti, il baricentro delle questioni sollevate è proprio quello
della necessaria approvazione del PAR contestualmente al nuovo PGT.
Ciò precisato, la motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle
questioni investe due distinti profili.
Innanzitutto, è valorizzato il fatto che nel primo dei motivi aggiunti la
ricorrente in due punti lamenta l’illegittimità del diniego perché, nella
sua parte finale, la delibera impugnata afferma che «ogni determinazione
in tal senso sarà oggetto di successiva ed ulteriore verifica in sede di
futuro aggiornamento del PGT», come prescritto proprio all’art. 72,
comma 5, secondo periodo. In secondo luogo, dopo aver affermato che l’art.
72, comma 5, vigente dal 2015, trova applicazione nel procedimento oggetto
del giudizio a quo (iniziato con un’osservazione al PGT presentata
nel 2011), il TAR osserva che, in base all’art. 72, comma 5, secondo
periodo, «senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio rimane
senza tutela la posizione dell’Associazione: in tal senso è quindi
innegabile la rilevanza della questione nel caso di specie».
Secondo il rimettente, pertanto, da un lato la legittimità dell’art. 72,
comma 5, secondo periodo, condiziona la legittimità del rinvio, operato dal
provvedimento impugnato, al futuro aggiornamento del PGT, dall’altro la
questione è comunque rilevante perché il Comune non avrebbe potuto
accogliere l’istanza senza avviare il procedimento per il nuovo PGT, a causa
del vincolo discendente dall’art. 72, comma 5, secondo periodo.
La motivazione fornita sulla rilevanza è dunque sufficiente e plausibile.
7.2.– La seconda eccezione di inammissibilità è sviluppata dalla Regione
Lombardia nella memoria depositata il 30.09.2019, nella quale lamenta che, «non
motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la loro priorità
logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la proposizione del
dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
In realtà il TAR rimettente afferma espressamente, basandosi sull’ordine dei
motivi aggiunti fissato dalla stessa ricorrente, che la seconda censura può
essere esaminata solo dopo aver deciso sulla prima, e poi argomenta (come
appena visto) sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa
all’art. 72, comma 5, ai fini della decisione del primo dei motivi aggiunti.
È comunque il caso di ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, non è sindacabile l’ordine di esame delle questioni seguito dal
rimettente, qualora esso si sviluppi in modo non implausibile (ad esempio,
sentenze n. 120 del 2019 e n. 125 del 2018).
Nemmeno questa eccezione, dunque, è fondata.
8.– Nel merito, anche la questione di legittimità
costituzionale relativa all’art.
72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., è fondata.
Come visto, la norma censurata stabilisce che, decorso il termine di
diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del
2015, il PAR «è approvato unitamente al nuovo PGT», il che significa
che –come del resto precisato, con riferimento alla previsione in esame,
anche nella circolare n. 3 del 20.02.2017, recante gli indirizzi per
l’applicazione della suddetta legge regionale– il PAR non può essere
approvato «separatamente da un nuovo strumento di pianificazione
urbanistica (PGT o variante generale)».
Seguendo un modello diffuso nella legislazione urbanistica regionale più
recente, anche il legislatore regionale lombardo ha previsto un piano
urbanistico comunale, denominato PGT, che si articola in tre atti: documento
di piano, piano dei servizi e piano delle regole (art. 7 della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005). Il documento di piano ha un contenuto
ricognitivo-conoscitivo e determina gli obiettivi e le politiche di sviluppo
del territorio. Esso ha validità quinquennale ed è sempre modificabile (art.
8 della citata legge regionale). Il piano dei servizi serve ad assicurare
una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico e generale, non ha termini di validità ed è sempre modificabile
(art. 9 della stessa legge regionale). Infine, il piano delle regole ha i
diversi contenuti indicati nell’art. 10 della legge regionale in questione,
e anch’esso non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 10,
comma 6). Il complesso procedimento di approvazione degli atti costituenti
il PGT è regolato dall’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; la
stessa disciplina si applica «anche alle varianti agli atti costituenti
il PGT» (art. 13, comma 13).
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua
variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì
che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a
essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del
fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una
sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a
sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per
sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an
e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature
religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio
della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da
ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della
libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di
culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo
del territorio. Secondo le regole generali, infatti, la realizzazione di un
impianto di interesse pubblico che richieda la modifica delle previsioni di
piano si può tradurre in una semplice variante parziale. E comunque,
quand’anche la previsione del nuovo impianto possa richiedere una
riconsiderazione dell’intero ambito interessato, la valutazione in concreto
dell’impatto della nuova struttura sul contesto circostante spetterebbe in
via esclusiva al comune. La previsione ad opera della legge regionale della
necessaria e inderogabile approvazione del PAR unitamente all’approvazione
del piano che investe l’intero territorio comunale (il PGT o la sua variante
generale) è dunque ingiustificata e irragionevole, e tanto più lo è in
quanto riguarda l’installazione di attrezzature religiose, alle quali, come
visto, in ragione della loro strumentalità alla garanzia di un diritto
costituzionalmente tutelato, dovrebbe piuttosto essere riservato un
trattamento di speciale considerazione.
È significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005 non solo non esiga la variante generale del
PGT ma non richieda neppure sempre la procedura di variante parziale, visto
che «[l]a realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico
o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi,
non comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed
e` autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale»
(art. 9, comma 15, della citata legge regionale).
Anche nel caso dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, si deve concludere
che la disposizione censurata determina una limitazione
dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali
esigenze di buon governo del territorio e che essa, dunque, comprimendo in
modo irragionevole la libertà di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 Cost.
9.– A seguito dell’accoglimento delle censure esaminate, le questioni
riferite all’art. 97, all’art. 117, secondo comma, lettera m), e agli artt.
5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. restano
assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dall’Associazione
culturale As. di Cantù nei giudizi indicati in epigrafe;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art.
72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1,
lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche
alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)
- Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art.
72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia
n. 2 del 2015;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale
per la Lombardia, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione,
con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018
(Corte Costituzionale,
sentenza 05.12.2019 n. 254). |
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STRADE:
pubbliche sì, pubbliche no... |
EDILIZIA PRIVATA:
Che una via sia inserita nell’elenco
delle strade ad uso pubblico e che sia dotata di illuminazione e di
sottoservizi tali circostanze, come è noto,
costituiscono una mera presunzione di pubblicità dell'uso di cui è possibile
fornire prova contraria.
---------------
Come chiarito dalla giurisprudenza, l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice
amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal privato
sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimità del provvedimento
impugnato, mentre si è fuori dalla giurisdizione del giudice amministrativo
se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un
provvedimento favorevole, che si assume illegittimo, si configuri solo come
uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda sulla capacità del
provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del
suo patrimonio, che consegue a tale affidamento.
Ciò vale anche in
ipotesi di giurisdizione esclusiva nelle quali, come nel caso di specie, il
soggetto leso denuncia una lesione della sua integrità patrimoniale
derivante dall’affidamento incolpevole sulla legittimità dell’attribuzione
favorevole ritenuta illegittima, che dà luogo ad una situazione soggettiva,
che si ritiene lesa, qualificabile come diritto soggettivo, rispetto alla
quale il comportamento che si assume lesivo dell’Amministrazione non
consiste nella sola illegittimità dell’agire, ma nella violazione del
principio generale del neminem laedere.
---------------
I ricorrenti sono proprietari di un terreno nel Comune di San Martino di
Venezze a lato di una strada denominata via Trento, per il quale hanno
ottenuto il permesso di costruire n. 52/2008 del 07.10.2008, per la
realizzazione di un’abitazione unifamiliare.
Tale abitazione non è stata costruita perché un vicino, sostenendo di essere
proprietario esclusivo del tratto terminale di via Trento, ha impedito ai
ricorrenti l’accesso al proprio fondo.
I ricorrenti con nota del 28.08.2012, hanno chiesto al Comune di
intervenire per rendere accessibile la strada, sostenendo che la stessa è
pubblica o quantomeno ad uso pubblico.
Il Segretario comunale con nota prot. n. 7533 del 05.12.2012 ha
respinto l’istanza rilevando che la porzione di strada oggetto di
contestazione è del controinteressato e che la stessa non ha le
caratteristiche per poter essere definita d’uso pubblico.
Tale provvedimento non è stato impugnato.
Successivamente i ricorrenti con atto di diffida del 26.07.2017, hanno
quindi chiesto nuovamente al Comune il ripristino in via d’urgenza dell’uso
pubblico della strada, per consentire la prosecuzione dei lavori sul proprio
fondo e per recuperare al pubblico accesso e transito la via.
Il Comune, previa acquisizione di un parere legale, con decreto sindacale n.
10 del 16.10.2017, ha risposto in senso negativo alla richiesta,
riconfermando in sostanza le argomentazioni già illustrate nella precedente
nota del 2012.
Con il ricorso in epigrafe tale provvedimento è impugnato con un unico ed
articolato motivo con il quale i ricorrenti lamentano la violazione
dell’art. 15 del D.L.L. 01.09.1918, n. 1446, dell’art. 378 della legge
20.03.1865, n. 2248, all. F, il difetto e la falsità di presupposti, la
contraddittorietà rispetto a precedenti comportamenti dell’Amministrazione e
lo sviamento.
Inoltre, con domanda di risarcimento, i ricorrenti pretendono il ristoro dei
danni causati dal ritardo del Comune nel rilascio del provvedimento di
autotutela possessoria o comunque di apprensione del bene per l’ipotesi di
accoglimento del ricorso, ovvero da mancata realizzazione dell’immobile, in
caso di reiezione del ricorso, per la lesione dell’affidamento indotto
dall’Amministrazione all’atto di rilascio del permesso di costruire
assentito, in modo illegittimo, nonostante l’inesistenza di una via di
accesso al fondo.
Per quanto riguarda la domanda di annullamento in particolare i ricorrenti
lamentano che erroneamente il Comune ha rifiutato di esercitare i propri
poteri in ordine al ripristino della viabilità pubblica sulla strada ad uso
pubblico, e che ciò avrebbe dovuto fare sulla base della semplice
circostanza che la predetta strada risulta iscritta nell’elenco delle strade
di uso pubblico del Comune, che costituisce una presunzione di demanialità.
...
L’eccezione di difetto di giurisdizione deve essere respinta.
Nel caso in esame il petitum sostanziale è la verifica di legittimità del
provvedimento con il quale il Comune ha respinto l’istanza di esercizio dei
poteri di autotutela possessoria in tema di strade al fine di garantirne il
libero transito alla generalità delle persone, con richiesta di un
accertamento solamente incidentale e senza efficacia di giudicato della
proprietà della strada ai sensi dell’art. 8 cod. proc. amm. (ex pluribus cfr.
Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 04.07.2019, n. 1530; Consiglio di Stato,
Sez. V, 16.10.2017, n. 4791; Tar Campobasso, Sez. I, 19.05.2016, n.
212), diversamente da quanto accaduto nei precedenti giurisprudenziali
richiamati nelle difese del Comune (cfr. Tar Veneto, Sez. I, 28.02.2019, n. 250) in cui il soggetto che si proclamava proprietario della strada
agiva nei confronti del Comune non per la verifica del corretto esercizio
dei poteri amministrativi, ma sostanzialmente con un’azione di negatoria servitutis.
Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Infatti è vero che via Trento è inserita nell’elenco delle strade ad uso
pubblico ed è dotata di illuminazione e di sottoservizi.
Tuttavia tali circostanze, come è noto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.10.2018, n. 5820; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 12.07.2016, n. 7967),
costituiscono una mera presunzione di pubblicità dell'uso di cui è possibile
fornire prova contraria.
Nel caso di specie va osservato che effettivamente, come già documentato dal
Comune nel provvedimento, analogo a quello impugnato in questa sede, del
Segretario comunale prot. n. 7533 del 05.12.2012 (cfr. doc. 5 allegato
alle difese del Comune) e allora non impugnato, vi sono una pluralità di
elementi che depongono nel senso dell’insussistenza dei requisiti propri
dell’uso pubblico del tratto di strada oggetto di contestazione.
Infatti il predetto tratto di strada di proprietà del controinteressato che
in origine costituiva l’area cortilizia pertinenziale della sua abitazione,
è stato delimitato da un cancello in tempi non recenti, e il Comune, quando
nel 2008 ha realizzato delle opere di urbanizzazione sulla strada, ha
acquisito il sedime della stessa esclusivamente con riguardo alle aree
comprese nel Foglio 14, mappale n. 39, di mq 1030, che corrisponde al tratto
iniziale della strada, con espressa esclusione del terreno di proprietà del
controinteressato delimitato dal cancello (cfr. la deliberazione della
Giunta comunale n. 21 del 05.03.2008 contenente disposizioni di indirizzo
per l’acquisizione della strada, la deliberazione della Giunta comunale n.
36 del 04.04.2008 avente ad oggetto l’approvazione dell’elenco dei
proprietari e l’atto di determinazione dell’indennità nonché il
provvedimento dirigenziale prot. n. 3524 del 20.05.2008, di
acquisizione, di cui ai docc. nn. 6, 7 e 8 allegati alle difese del Comune).
Peraltro la circostanza che il predetto tratto di strada sia delimitato da
un cancello fin da epoca risalente (almeno dal 2010 per ammissione degli
stessi ricorrenti; il Comune sostiene invece che la chiusura risale almeno
al 2008, come attestato da una lettera dei ricorrenti del 2011 in cui
affermano di aver potuto realizzare le fondazioni del fabbricato attraverso
un accesso provvisorio da nord, ammettendo in tal modo implicitamente che il
passaggio dal fondo del controinteressato gli era precluso) impedisce di
configurare nella fattispecie un acquisito per usucapione da parte del
Comune, e denota l’insussistenza dei requisiti necessari per poter affermare
l’esistenza del transito da parte di chiunque e il protrarsi dello stesso
per lungo periodo, come specificato dal provvedimento del Segretario
comunale prot. n. 7533 del 05.12.2012, non impugnato, con cui era stata
respinta un’istanza analoga a quella che ha dato luogo all’adozione del
provvedimento impugnato in questa sede (cfr. doc. 5 allegato alle difese del
Comune).
Pertanto, poiché allo stato si deve ritenere che la strada pubblica termini
proprio al confine con il terreno dei controinteressati nel punto delimitato
dal cancello, il provvedimento del Comune si rivela immune dai vizi dedotti
dalla parte ricorrente, con conseguente reiezione del ricorso nella sua
parte impugnatoria.
Quanto alle due domande di risarcimento proposte, la prima deve essere
respinta, la seconda, come indicato alle parti nel corso dell’udienza
pubblica ai sensi dell’art. 73 cod. proc. amm., deve essere dichiarata
inammissibile per difetto di giurisdizione.
Infatti la prima domanda di risarcimento è espressamente proposta per
l’ipotesi di accoglimento del ricorso, ed ha ad oggetto la richiesta di
ristorare i danni subiti a causa del ritardo con il quale il Comune è
intervenuto ad esercitare i propri poteri di autotutela possessoria sulla
strada al fine di garantirne il libero transito alla generalità delle
persone che, come sopra chiarito, il Comune ha invece legittimamente
rifiutato di esercitare.
La seconda domanda, proposta per l’ipotesi di reiezione del ricorso, è volta
ad ottenere il risarcimento dei danni subiti per aver confidato nella
legittimità del permesso di costruire rilasciato nel 2008 che, secondo la
prospettazione dei ricorrenti, deve invece considerarsi illegittimo in
quanto il Comune in quella sede non avrebbe verificato l’esistenza di un
accesso al lotto dalla pubblica via.
Rispetto a tale domanda il Comune sostiene di non essere tenuto a svolgere
tale tipo di verifiche, perché non può negare il rilascio del permesso di
costruire per la mancanza di un accesso dalla pubblica via, potendo supplire
al problema l’eventuale costituzione di una servitù coattiva di passaggio in
favore del fondo intercluso.
Orbene, la domanda risarcitoria, così formulata, esula dalla giurisdizione
del giudice amministrativo.
Infatti come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. Un., id. 04.09.2015, n. 17586; id. 22.05.2017, n. 12799; id., 23.01.2018, n. 1654; id., 24.09.2018, n. 22435; id. 13.12.2018, n.
32365) l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice
amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal privato
sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimità del provvedimento
impugnato, mentre si è fuori dalla giurisdizione del giudice amministrativo
se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un
provvedimento favorevole, che si assume illegittimo, si configuri solo come
uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda sulla capacità del
provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del
suo patrimonio, che consegue a tale affidamento.
Ciò, ha inoltre chiarito la sopra citata giurisprudenza, vale anche in
ipotesi di giurisdizione esclusiva nelle quali, come nel caso di specie, il
soggetto leso denuncia una lesione della sua integrità patrimoniale
derivante dall’affidamento incolpevole sulla legittimità dell’attribuzione
favorevole ritenuta illegittima, che dà luogo ad una situazione soggettiva,
che si ritiene lesa, qualificabile come diritto soggettivo, rispetto alla
quale il comportamento che si assume lesivo dell’Amministrazione non
consiste nella sola illegittimità dell’agire, ma nella violazione del
principio generale del neminem laedere.
In definitiva pertanto il ricorso deve essere in parte respinto ed in parte
dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
26.11.2019 n. 1284 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte di Cassazione ha costantemente affermato “…che la
controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa
l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta
alla giurisdizione del giudice ordinario, poiché investe l'accertamento
dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della
pubblica amministrazione”.
La giurisdizione del giudice amministrativo non può radicarsi in forza
dell'articolo 133, comma 1, lett. f) cpa, poiché tale giurisdizione
presuppone che l'amministrazione abbia agito con atti idonei a influire
sullo statuto proprietario, determinando l'affievolimento dei diritti
soggettivi in interessi legittimi, circostanza che non è riscontrabile nel
caso di specie ove è stato assunto un atto di natura meramente dichiarativa.
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Una controversia circa il riconoscimento del diritto di uso pubblico su una
strada privata è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario poiché
–come già rilevato– investe l'accertamento dell'esistenza e dell’estensione
di diritti soggettivi dei privati o della pubblica amministrazione, senza
che a tale conclusione possa frapporsi l'esistenza di un formale atto di
classificazione della strada.
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FATTO
A. I ricorrenti sono comproprietari di un appartamento nel condominio Is.,
che insiste in Via X giornate, strada interclusa classificata di uso
pubblico. Riferiscono in punto di fatto che in corrispondenza del n. civico
14, l’arteria si allarga, e il tratto viene utilizzato dai residenti sia
come parcheggio sia per consentire le manovre di inversione di marcia.
B. Rappresentano che, malgrado ciò, nell’autunno 2011 soggetti terzi hanno
posizionato cavalletti e catene presso lo slargo al termine della strada.
C. La diffida trasmessa al Comune restava senza riscontro, cosicché il
24/1/2012 veniva depositata un’istanza di accesso agli atti amministrativi.
Con nota 26/03/2012 l’amministrazione:
- informava dell’assenza sia di pratiche o istanze per collocare
paletti o strutture sulla strada sia di ordinanze o atti autorizzatori che
assentissero gli interventi in corso;
- precisava però che Via X Giornate sarebbe stata dichiarata strada
privata ad uso pubblico, ad eccezione dello slargo posto al termine stessa.
D. Sostengono gli esponenti che il titolo abilitativo rilasciato ai
controinteressati nel 1975 recava la prescrizione di arretrare il fabbricato
in costruzione e il muro di recinzione per lasciare uno spazio sufficiente a
creare uno slargo di manovra per l’utilizzo collettivo (cfr. parere della
Commissione edilizia nella seduta del 19/11/1974 – doc. 6 e 7). La vocazione
dei beni all’uso pubblico sarebbe stata confermata nelle tavole di
azzonamento del PGT, poiché le aree sono comprese nel sistema viario
pubblico (doc. 12, 13 e 14).
E. Dopo l’instaurazione del contraddittorio, con l’atto impugnato (doc. 1)
l’Ente locale ha preso atto che Via X giornate è privata ad uso pubblico e
soggetta a pubblico transito, ma lo slargo corrispondente al civico ...
–individuato tra il mappale 265 (area di sedime stradale) e 532 (porzione
appartenente ai Sigg.ri Pa.)– è di proprietà esclusivamente privata, come si
desume dall’estratto di mappa.
...
DIRITTO
I ricorrenti censurano il provvedimento della Giunta comunale che ha
qualificato il tratto della strada denominata Via X Giornate.
0. Nella memoria conclusionale la parte controinteressata ha dedotto il
difetto di giurisdizione del giudice adito sulle questioni inerenti
all’accertamento della proprietà (pubblica o privata) di una strada o
all’esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata.
La prospettazione è condivisibile.
0.1 Come evidenziato da TAR Lombardia Milano, sez. II – 19/07/2018 n. 1767,
la Corte di Cassazione ha costantemente affermato “…che la controversia
circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza
di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla
giurisdizione del giudice ordinario, poiché investe l'accertamento
dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della
pubblica amministrazione (Cass. civ., SS.UU., 23.12.2016, n. 26897; Id.,
27.01.2010, n. 1624)”.
La giurisdizione del giudice amministrativo non può radicarsi in forza
dell'articolo 133, comma 1, lett. f) cpa, poiché tale giurisdizione
presuppone che l'amministrazione abbia agito con atti idonei a influire
sullo statuto proprietario, determinando l'affievolimento dei diritti
soggettivi in interessi legittimi, circostanza che non è riscontrabile nel
caso di specie ove è stato assunto un atto di natura meramente dichiarativa.
0.2 Anche se la domanda proposta con il ricorso introduttivo è formalmente
intesa all'annullamento di un provvedimento amministrativo, il petitum
sostanziale ha natura di accertamento petitorio dell'esistenza del diritto
di uso pubblico sul tratto finale di Via X Giornate. Gli esponenti radicano
una controversia circa il riconoscimento del diritto di uso pubblico su una
strada privata, che è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario
poiché –come già rilevato– investe l'accertamento dell'esistenza e
dell’estensione di diritti soggettivi dei privati o della pubblica
amministrazione, senza che a tale conclusione possa frapporsi l'esistenza di
un formale atto di classificazione della strada (cfr. TAR Liguria, sez. I –
08/04/2019 n. 315; TAR Campania Napoli, sez. VII – 02/07/2019 n. 3589).
0.3 I principi suesposti sono stati riepilogati anche nella sentenza di
questa Sezione 23/10/2017 n. 1268.
0.4 In conclusione, il gravame introduttivo deve essere dichiarato
inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, con
contestuale declaratoria della giurisdizione del giudice ordinario, dinanzi
al quale il giudizio potrà essere riassunto, nei termini e per gli effetti
di cui all'art. 11 del Codice del processo amministrativo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.11.2019 n. 970 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dicatio
ad patriam.
---------------
L’accertamento sul carattere pubblico di una
strada, a ben vedere, non eccede l’ambito
della competenza del giudice amministrativo
ove detto carattere costituisca un
presupposto del provvedimento contestato,
dovendosi rammentare che la giurisdizione
s’individua in base alla qualificazione
della pretesa azionata, prescindendo dagli
accertamenti incidentali su situazioni
soggettive di diverso tipo.
Il Collegio non ignora l’orientamento della
Cassazione, secondo cui la valutazione in
ordine alla contestazione dei provvedimenti
di classificazione di una strada –come di
proprietà pubblica o dedita all’uso
pubblico– è rimessa alla competenza del
giudice civile, involgendo pretese di
accertamento di un diritto soggettivo; ma,
laddove oggetto della controversia non sia
il provvedimento di classificazione bensì,
come nella fattispecie in esame, altro e
diverso provvedimento che ha ordinato al
ricorrente di rimuovere l’impedimento
frapposto al passaggio, in tal caso è
evidente che la decisione sull’impugnazione
di tale provvedimento involge l’accertamento
della sussistenza di una servitù di uso
pubblico, che può essere esperito in via
incidentale dal giudice amministrativo, ai
sensi dell’art. 8, comma 1, del codice del
processo amministrativo.
---------------
La “dicatio ad patriam”
rappresenta un modo di costituzione di una
servitù di uso pubblico, consistente nel
comportamento del proprietario che, seppure
non intenzionalmente diretto a dar vita al
diritto di uso pubblico, mette
volontariamente, con carattere di continuità
(non di precarietà e tolleranza), un proprio
bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine
di soddisfare un’esigenza comune ai membri
di tale collettività “uti cives”,
indipendentemente dai motivi per i quali
detto comportamento venga tenuto, dalla sua
spontaneità e dallo spirito che lo anima.
I presupposti per l’integrazione della
dicatio ad patriam consistono, quindi:
(i) nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una
collettività di persone;
(ii) nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze
d’interesse generale;
(iii) in un titolo valido a costituire il diritto ovvero in un
comportamento univoco del proprietario che,
seppure non intenzionalmente diretto a dar
vita al diritto di uso pubblico, risulti
idoneo a manifestare l’intenzione di porre
il bene a disposizione della collettività.
---------------
Per consolidato orientamento
giurisprudenziale, affinché un’area privata
possa ritenersi sottoposta ad un uso
pubblico, “è necessario, oltre
all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso
avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e per soddisfare un
pubblico, generale interesse. Ne consegue
che deve escludersi l’uso pubblico quando il
passaggio venga esercitato unicamente dai
proprietari di determinati fondi in
dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi, o da coloro che abbiano
occasione di accedere ad essi per esigenze
connesse alla loro privata utilizzazione,
oppure, infine, rispetto a strade destinate
al servizio di un determinato edificio o
complesso di edifici …”.
---------------
Come noto, la cd. dicatio ad patriam
richiede un comportamento del proprietario
del bene che deponga in modo univoco nel
senso della spontanea messa a disposizione
del bene medesimo a favore di una
collettività indeterminata di cittadini.
Quanto alle previsioni contenute negli
strumenti urbanistici, ricorda il Collegio
come le stesse non possano da sole
costituire diritti reali in favore
dell’Amministrazione pubblica, con la
conseguenza che un’area privata rimane tale
anche se lo strumento urbanistico la
classifichi come area pubblica o come area
destinata ad uso pubblico.
Inoltre, come noto, per dimostrare la
sussistenza di una effettiva destinazione
del bene all’uso pubblico occorrono una
pluralità di interventi pubblici sul bene
stesso dai quali desumere che esso è posto a
disposizione di tutta la collettività dei
consociati.
---------------
MASSIMA
6) In via pregiudiziale, il Collegio ritiene
utile chiarire, per dissipare eventuali
dubbi sollevati al riguardo dalle difese di
parte ricorrente, come la controversia in
esame rientri nella giurisdizione del
giudice adito.
La situazione giuridica di cui il Condominio
chiede tutela, assumendone la lesione ad
opera del cattivo esercizio del potere da
parte del Comune di Valtravaglia, sfociato
nelle impugnate ordinanze nn. 24 e 28 del
2016, è in effetti qualificabile come
interesse legittimo.
L’accertamento sul carattere pubblico di una
strada, a ben vedere, non eccede l’ambito
della competenza del giudice amministrativo
ove detto carattere costituisca un
presupposto del provvedimento contestato,
dovendosi rammentare che la giurisdizione
s’individua in base alla qualificazione
della pretesa azionata, prescindendo dagli
accertamenti incidentali su situazioni
soggettive di diverso tipo (cfr. Cons. St.,
V, 31.8.2017, n. 4141; TAR Lazio, Latina,
22.03.2018, n. 126).
Il Collegio non ignora l’orientamento della
Cassazione, secondo cui la valutazione in
ordine alla contestazione dei provvedimenti
di classificazione di una strada –come di
proprietà pubblica o dedita all’uso
pubblico– è rimessa alla competenza del
giudice civile, involgendo pretese di
accertamento di un diritto soggettivo; ma,
laddove oggetto della controversia non sia
il provvedimento di classificazione bensì,
come nella fattispecie in esame, altro e
diverso provvedimento che ha ordinato al
ricorrente di rimuovere l’impedimento
frapposto al passaggio, in tal caso è
evidente che la decisione sull’impugnazione
di tale provvedimento involge l’accertamento
della sussistenza di una servitù di uso
pubblico, che può essere esperito in via
incidentale dal giudice amministrativo, ai
sensi dell’art. 8, comma 1, del codice del
processo amministrativo (cfr. TAR Liguria,
II, 29.03.2017, n. 267; TAR Umbria
29.04.2015, n. 191; TAR Lombardia, Brescia,
I, 28.04.2014, n. 451).
Nell’ipotesi in esame oggetto principale di
contestazione è l’ordinanza n. 24, del 18.07.2016, avente ad oggetto la rimozione
della sbarra d’ingresso alla strada Monte
Sole, di cui il ricorrente condominio deduce
la relativa proprietà in assenza di servitù
di uso pubblico. In siffatte evenienze, le
contestazioni di legittimità dei
provvedimenti adottati sulla base
dell’affermazione dell’inesistenza della
servitù possono essere conosciute dal
giudice amministrativo nei limiti di cui
all’art. 8 del c.p.a. e dunque senza effetti
di giudicato tra le parti (TAR Lazio, Roma,
II-ter 18.12.2018, n. 12336; id., sentenza
nr. 9243/2017 e nr. 3634/2017).
7) Passando all’esame del merito, in
relazione al primo motivo il Collegio
osserva quanto segue.
La giurisprudenza ha da tempo affermato che
la “dicatio ad patriam” rappresenta “un
modo di costituzione di una servitù di uso
pubblico, consistente nel comportamento del
proprietario che, seppure non
intenzionalmente diretto a dar vita al
diritto di uso pubblico, mette
volontariamente, con carattere di continuità
(non di precarietà e tolleranza), un proprio
bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine
di soddisfare un’esigenza comune ai membri
di tale collettività ‘uti cives’,
indipendentemente dai motivi per i quali
detto comportamento venga tenuto, dalla sua
spontaneità e dallo spirito che lo anima”
(cfr. Cons. Stato, IV, 15.03.2018, n.
1662; id., 22.05.2017, n. 2368; id., V,
16.11.2018, n. 6460; nello stesso
senso cfr. Cass., II, 14.06.2018, n.
15618; 21.02.2017, n. 4416; I, 11.03.2016, n. 4851; II, 12.08.2002, n.
12167; I, 07.05.1993, n. 5262; SS.UU.,
03.02.1988, n. 1072).
I presupposti per l’integrazione della
dicatio ad patriam consistono, quindi:
(i) nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una
collettività di persone;
(ii) nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze
d’interesse generale;
(iii) in un titolo valido a costituire il diritto ovvero in un
comportamento univoco del proprietario che,
seppure non intenzionalmente diretto a dar
vita al diritto di uso pubblico, risulti
idoneo a manifestare l’intenzione di porre
il bene a disposizione della collettività
(sui diversi profili, cfr., tra le tante,
Cons. Stato, V, 22.08.2019, n. 5785; id.,
10.09.2018, n. 5286; Cass., SS. UU.,
n. 1072/1988).
Ciò posto, reputa il Collegio, sulla base di
quanto allegato e documentato in atti dalle
parti, che non sia stata qui raggiunta, da
parte dell’Amministrazione, la prova della
destinazione ad uso pubblico della strada
Monte Sole.
Difetta, in primo luogo, la prova dell’uso
esercitato “iuris servitutis publicae” da
parte di una collettività di persone. Ciò
che emerge, infatti, sia dalla lettera del
Condominio, pervenuta in Comune il
15.04.2010 (allegata sub n. 8 della
produzione resistente), che dalla risposta
ad essa del Comune del 27.12.2010, è l’uso
della strada de qua limitato «alle sole
categorie autorizzate per lo svolgimento dei
servizi di pubblico interesse (Vigili del
Fuoco, Carabinieri, …» o comunque ai
«gestori dei pubblici servizi (Comune
incluso)» e alle «Autorità di pubblica
sicurezza» (cfr. la comunicazione comunale
allegata sub n. 9 della produzione
resistente).
Per consolidato orientamento
giurisprudenziale, invero, affinché un’area
privata possa ritenersi sottoposta ad un uso
pubblico, “è necessario, oltre
all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso
avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e per soddisfare un
pubblico, generale interesse. Ne consegue
che deve escludersi l’uso pubblico quando il
passaggio venga esercitato unicamente dai
proprietari di determinati fondi in
dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi, o da coloro che abbiano
occasione di accedere ad essi per esigenze
connesse alla loro privata utilizzazione
(Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637),
oppure, infine, rispetto a strade destinate
al servizio di un determinato edificio o
complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.1985, n. 3761)…” (TAR Lombardia,
Milano, IV, 05/09/2017, n. 1781; Cons. di
Stato, Sez. V, sent. n. 728 del 14/02/2012;
TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12/05/2008,
n. 1328, per cui: “… l'ubicazione della
suddetta strada lascia agevolmente presumere
che essa sia stata in realtà utilizzata dai
soli comproprietari frontisti; utilizzo
questo che, come è noto, non può ritenersi
sufficiente a costituire una servitù di uso
pubblico o addirittura a rendere pubblica la
strada stessa”).
L’uso limitato della strada da parte di
proprietari di determinati fondi in
dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi è esattamente quanto si
riscontra nella fattispecie in esame dove,
come comprovato dalle note, allegate dalla
stessa parte resistente (cfr., la lettera
del 18/11/2013, proveniente dai sigg.ri
Ma., Ma. e Bi., tutti
residenti in via ... nn. 10, 10/A e
10/B, allegata sub n. 12 della produzione
resistente; la lettera del 29.12.2014,
proveniente sempre dagli stessi residenti di
via ..., allegata sub n. 13 e la
lettera del 14.09.2015, dell’Avv. Ro.,
sempre per conto dei sigg.ri Ma.,
Ma. e Bi., allegata sub n. 14),
richiamate nella stessa ordinanza di
rimozione, l’uso della strada è reclamato
soltanto da alcuni residenti di via
....
È allora evidente come da tali note non si
ricavi affatto un uso della strada Monte
Sole ad opera di una collettività
indeterminata di soggetti considerati uti
cives, ossia quali titolari di un pubblico
interesse di carattere generale, bensì un
uso uti singuli, ossia quali soggetti che si
trovano in una posizione qualificata
rispetto al bene che si pretende gravato.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi
quanto alla prova della “dicatio ad patriam”,
atteso che, ciò che si ricava dalle
documentate interlocuzioni fra Comune e
Condominio è la volontà di quest’ultimo di
assicurare l’accesso e la percorrenza della
strada in parola, non già, alla generalità,
bensì, ai gestori di pubblici servizi e alle
Autorità di pubblica sicurezza.
Come noto, invece, la cd. dicatio ad patriam
richiede un comportamento del proprietario
del bene che deponga in modo univoco nel
senso della spontanea messa a disposizione
del bene medesimo a favore di una
collettività indeterminata di cittadini (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 27/02/2019, n. 1369).
Quanto alle previsioni contenute negli
strumenti urbanistici, ricorda il Collegio
come le stesse non possano da sole
costituire diritti reali in favore
dell’Amministrazione pubblica, con la
conseguenza che un’area privata rimane tale
anche se lo strumento urbanistico la
classifichi come area pubblica o come area
destinata ad uso pubblico (cfr. TAR Lazio
Roma, sez. II, 02.02.2015, n. 1881;
TAR Toscana, sez. III, 23.12.2014,
n. 2149).
Nessun intervento pubblico sulla strada in
parola risulta, d’altro canto, documentato
da parte resistente, benché, come noto, per
dimostrare la sussistenza di una effettiva
destinazione del bene all’uso pubblico
occorrano una pluralità di interventi
pubblici sul bene stesso dai quali desumere
che esso è posto a disposizione di tutta la
collettività dei consociati (cfr. TAR
Lombardia, Milano, 04/06/2019, n. 1275;
TAR Valle d'Aosta, 15.03.2016, n. 12).
È incontestato, al riguardo, che la
manutenzione della strada è sempre stata
effettuata ad opera del Condominio e mai del
Comune.
Non risulta, poi, adeguatamente comprovata
da parte del Comune neppure l’oggettiva
idoneità della strada a soddisfare il fine
di pubblico interesse perseguito tramite
l’esercizio della servitù. Al riguardo,
giova osservare che, come indicato nella
relazione della Polizia Locale depositata
dallo stesso Comune (sub allegato n. 17), la
strada che attraversa il Condominio è ad
unica carreggiata, priva di marciapiedi ed
ha una larghezza media di 5 metri con una
pendenza media del 12%. Si tratta di
caratteristiche che, come evidenziato da
parte ricorrente, lungi dal rivelare
un’idoneità all’uso generalizzato della
strada, pongono in luce il pericolo per la
pubblica incolumità e la sicurezza stradale
sotteso all’utilizzo in modo indifferenziato
della stessa da parte della collettività.
Non appare, infine, dirimente quanto
affermato dal Comune in ordine alla
legittimità dell’ordinanza di rimozione
della sbarra per pretese ragioni di
viabilità, che –a ben vedere- postulano
l’esistenza ma non creano un diritto di
pubblico passaggio (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sentenza citata n. 1257/2019)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 14.10.2019 n. 2145 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Accertamento
in via incidentale dell’esistenza di un uso
pubblico su aree di proprietà privata.
Il TAR Brescia affronta
il tema dell’ampiezza del potere del giudice
amministrativo e ricorda che la
giurisprudenza ha chiarito che rientra nella
giurisdizione del G.A., ai sensi dell’art. 8
c.p.a. (secondo cui il G.A. stesso può
conoscere, seppur solo in via incidentale e
senza efficacia di giudicato tutte le
questioni pregiudiziali o incidentali
relative a diritti la cui risoluzione sia
necessaria per pronunciare sulla questione
principale), l’esame dell’eccezione (di tipo
riconvenzionale), avanzata in via
incidentale dalla P.A., tendente a far
valere l’usucapione su un bene oggetto di
una procedura espropriativa, al fine di
pervenire ad un’eventuale declaratoria di
inammissibilità del ricorso introduttivo per
difetto di interesse.
Aggiunge il TAR che è stato anche osservato,
sotto altro profilo, che l’accertamento
giurisdizionale dell’effettiva esistenza di
una servitù di pubblico passaggio su una
strada privata compete all’autorità
giudiziaria ordinaria, mentre il giudice
amministrativo può esercitare, al riguardo,
esclusivamente una cognizione incidentale,
senza poter fare stato con la propria
decisione sulla questione, e al solo e
limitato fine di pronunciarsi sulla
legittimità della determinazione che forma
specifico oggetto di ricorso: quindi il
giudice amministrativo può accertare
incidenter tantum, ai sensi dell’art. 8
c.p.a., l’esistenza di un uso pubblico
consolidato su aree di proprietà privata,
laddove tale accertamento sia indispensabile
al fine di delibare la legittimità di un
provvedimento (come, ad esempio, l’atto di
rigetto di un’istanza di rilascio di un
titolo edilizio motivato sull’esistenza di
un diritto di uso pubblico sull’area su cui
ricade l’intervento)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.08.2019 784 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
4.1 Come ha statuito questo TAR nella
sentenza della sez. I – 09/10/2018 n. 961
(che non risulta appellata), in base
all’art. 11, comma 1, del DPR 380/2001 il
permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo, e tale ultima
espressione va intesa nel senso più ampio di
una legittima disponibilità dell’area, in
base ad una relazione qualificata con il
bene, sia essa di natura reale, o anche solo
obbligatoria, purché, in questo caso, con il
consenso del proprietario (Consiglio di
Stato, sez. IV – 28/03/2018 n. 1949, il quale
ha precisato che “il Comune, prima di
rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del
richiedente, accertando che questi sia il
proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque,
ne abbia un titolo di disponibilità
sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (Cons. Stato, sez. IV, n.
4818/2014 cit.; in senso conforme, sez. V, 04.04.2012 n. 1990)”.
4.2 L’onere del Comune è dunque quello
ricercare la sussistenza di un titolo (di
proprietà, di altri diritti reali, etc.) che
fonda una relazione giuridicamente
qualificata tra soggetto e bene oggetto
dell’intervento, e che possa renderlo
destinatario di un provvedimento
amministrativo autorizzatorio, senza che
l’Ente locale debba comprovare –prima del
rilascio– la “pienezza” (nel senso di
assenza di limitazioni) del titolo medesimo,
dato che ciò comporterebbe l’attribuzione
all’amministrazione di un potere di
accertamento della sussistenza (o meno) di
diritti reali e del loro “contenuto”, ad
essa non assegnato dall’ordinamento.
4.3 Orbene, in linea di diritto, secondo il
consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, in sede di
rilascio del titolo abilitativo edilizio
sussiste l’obbligo per il Comune di
verificare il rispetto da parte dell’istante
dei limiti privatistici, a condizione che
tali limiti siano effettivamente conosciuti
o immediatamente conoscibili e/o non
contestati, di modo che il controllo da
parte dell’Ente locale si traduca in una
semplice presa d’atto dei limiti medesimi
senza necessità di procedere ad un’accurata
e approfondita disanima dei rapporti
civilistici, sicché l’amministrazione
normalmente non è tenuta a svolgere indagini
particolari in presenza di una richiesta
edificatoria, salvo che sia manifestamente
riconoscibile l’effettiva insussistenza
della piena disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio in relazione al
tipo di intervento richiesto (Consiglio di
Stato, sez. VI – 05/04/2018 n. 2121).
Si è
tuttavia anche specificato che
l’accertamento demandato all’Ente locale va
compiuto con “serietà e rigore”, e che “la
più recente giurisprudenza del Consiglio di
Stato, superando l'indirizzo più risalente,
è oggi allineata nel senso che
l'Amministrazione, quando venga a conoscenza
dell'esistenza di contestazioni sul diritto
del richiedente il titolo abilitativo, debba
compiere le necessarie indagini istruttorie
per verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a
valutazioni squisitamente civilistiche (che
appartengono alla competenza dell’A.G.O.),
arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire
elementi prima facie attendibili” (Consiglio
di Stato, sez. IV – 20/04/2018 n. 2397).
4.4 Nel caso di specie, l’art. 27 delle NTA
al PGT (doc. 16 ricorrenti), nella parte
rubricata “Scarichi acque meteoriche”
(inizio di pag. 41) dispone che “Nel caso di
realizzazione di serre di qualsiasi
tipologia, è fatto obbligo all’imprenditore
agricolo di provvedere alla richiesta di
concessione di scarico all’Ente competente
gestore del canale ricettore (Comune o
Consorzio di Bonifica). All’istanza dovrà
essere allegato apposito studio idrologico,
secondo quanto verrà richiesto dall’Ente
gestore dei canali”.
Tra i documenti
finalizzati al rilascio del permesso di
costruire, il Comune era dunque tenuto ad
acquisire il nulla osta dell’Ente pubblico
preposto alla gestione del canale.
L’amministrazione resistente ha
correttamente accertato il possesso del
titolo autorizzatorio, emesso dal Consorzio
di Bonifica Vaso Gattinardo in data
27/03/2013. L’atto predetto (doc. 54
ricorrenti) autorizza Carini Agostino
all’attraversamento del vaso precisando che
“per quanto riguarda lo scarico pioggia
meteorica dovuta alla realizzazione di
tunnel per la coltivazione di ortaggi, nella
Vs. stessa lettera citate che l’acqua
piovana non assorbita dal terreno sarà
convogliata in un vaso a sud della proprietà
(fg. 11, mappale 29), canale che sfocia nel
vaso consorziale. Lo stesso Consorzio
precisa di non avere nessuna obiezione a
ricevere tali acque, salvo che non vengano
lesi diritti dei terzi”.
4.5 A questo punto conviene affrontare il
tema dell’ampiezza del potere del giudice
amministrativo sulla vicenda. Il C.G.A.
Sicilia, con sentenza 14/01/2013 n. 9
(richiamata dalla sentenza della sez. II di
questo TAR – 10/06/2014 n. 628), ha chiarito
che “Rientra nella giurisdizione del G.A.,
ai sensi dell’art. 8 c.p.a. (secondo cui il
G.A. stesso può conoscere, seppur solo in
via incidentale e senza efficacia di
giudicato "tutte le questioni pregiudiziali
o incidentali relative a diritti la cui
risoluzione sia necessaria per pronunciare
sulla questione principale"), l’esame
dell’eccezione (di tipo riconvenzionale),
avanzata in via incidentale dalla P.A.,
tendente a far valere l’usucapione su un
bene oggetto di una procedura espropriativa,
al fine di pervenire ad un’eventuale
declaratoria di inammissibilità del ricorso
introduttivo per difetto di interesse”.
E’
stato anche osservato, sotto altro profilo,
che l’accertamento giurisdizionale
dell’effettiva esistenza di una servitù di
pubblico passaggio su una strada privata
compete all’autorità giudiziaria ordinaria,
mentre il giudice amministrativo può
esercitare, al riguardo, esclusivamente una
cognizione incidentale (cfr. art. 8, comma
1, CPA), senza poter fare stato con la
propria decisione sulla questione, e al solo
e limitato fine di pronunciarsi sulla
legittimità della determinazione che forma
specifico oggetto di ricorso (Consiglio di
Stato, sez. V – 05/12/2014 n. 5985; si veda
anche Consiglio di Stato, sez. IV –
18/11/2014 n. 5676): quindi il giudice
amministrativo può accertare incidenter
tantum, ai sensi dell’art. 8 cod. proc. amm.,
l’esistenza di un uso pubblico consolidato
su aree di proprietà privata, laddove tale
accertamento sia indispensabile al fine di
delibare la legittimità di un provvedimento
(come, ad esempio, l’atto di rigetto di
un’istanza di rilascio di un titolo edilizio
motivato sull’esistenza di un diritto di uso
pubblico sull’area su cui ricade
l’intervento). |
EDILIZIA PRIVATA: La
cd. “dicatio ad patriam” rappresenta “un modo di costituzione di una servitù
di uso pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure
non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette
volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e
tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune
ai membri di tale collettività ‘uti cives’, indipendentemente dai motivi per
i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo
spirito che lo anima”.
I presupposti per l’integrazione della dicatio ad patriam consistono
nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di
persone; nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze d’interesse
generale; in un titolo valido a costituire il diritto, ovvero in un
comportamento univoco del proprietario che, seppure non intenzionalmente
diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, risulti idoneo a manifestare
l’intenzione di porre il bene a disposizione della collettività.
---------------
4.1. La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato e della Corte di
cassazione ha da tempo affermato che la cd. “dicatio ad patriam”
rappresenta “un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico,
consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non
intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette
volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e
tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune
ai membri di tale collettività ‘uti cives’, indipendentemente dai motivi per
i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo
spirito che lo anima” (cfr. Cons. Stato, IV, 15.03.2018, n. 1662;
22.05.2017, n. 2368; V, 16.11.2018, n. 6460; nello stesso senso cfr. Cass.,
II, 14.06.2018, n. 15618; 21.02.2017, n. 4416; I, 11.03.2016, n. 4851; II,
12.08.2002, n. 12167; I, 07.05.1993, n. 5262; SS.UU., 03.02.1988, n. 1072).
I presupposti per l’integrazione della dicatio ad patriam consistono
nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività
di persone; nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze
d’interesse generale; in un titolo valido a costituire il diritto, ovvero in
un comportamento univoco del proprietario che, seppure non intenzionalmente
diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, risulti idoneo a manifestare
l’intenzione di porre il bene a disposizione della collettività (sui diversi
profili, cfr. inter multis Cons. Stato, n. 6460/2018, cit.; V,
10.09.2018, n. 5286; 09.07.2015, n. 3446; 24.05.2007, n. 2621 e 2622; Cass.,
SS. UU., n. 1072/1988, cit.)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.08.2019 n. 5785 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
principi consolidati “le risultanze catastali non fanno piena prova circa la
titolarità della proprietà e degli altri diritti reali, … in assenza di
titoli di proprietà o atti di trasferimento depositati”.
---------------
Per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata
è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra
l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo
relativo (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento
d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non
valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune,
l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale
iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla
proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima, né
la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione
della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento
su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale,
o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima
circa la funzione assolta da una determinata strada.
Imvero, "affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non basta né
che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta,
effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine
titulo dell'area da parte della p.a.) né l'intervento di atti di
riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la funzione da
essa assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c., che la
strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base ad un
atto o fatto (fra cui anche l'usucapione) idoneo a trasferire il dominio,
ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù di
uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà
espressa o tacita, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità
territoriale".
---------------
Sebbene secondo principi consolidati “le risultanze catastali non fanno
piena prova circa la titolarità della proprietà e degli altri diritti reali,
… in assenza di titoli di proprietà o atti di trasferimento depositati”
(TAR Marche, Ancona, sez. I, 06.11.2017, n. 840), emerge in tutta evidenza
che il tecnico del Comune non ha indicato atti idonei a stabilire in modo
certo la natura della via, essendosi egli limitato ad affermare di non aver
rilevato elementi tali da confermare la proprietà privata, pur richiamata
nell’atto di divisione fra i fratelli Farina del 12.02.1972 del vicolo in
questione.
Sulla base di queste sole risultanze, senza addurre alcun ulteriore elemento
di prova circa la titolarità della proprietà e, dunque, in assenza di alcuna
ulteriore attività istruttoria, il Comune ha dato per accertata la natura
pubblica del vicolo, provvedendo per questo alla modifica dello stradario
comunale e all’adozione degli atti di annullamento in autotutela e di
ingiunzione alla rimozione del cancello.
Giova sul punto richiamare la giurisprudenza ai sensi della quale "per
l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è
necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra
l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo
relativo (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento
d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non
valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune,
l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale
iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla
proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima, né
la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione
della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento
su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale,
o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima
circa la funzione assolta da una determinata strada" [v. Cons. Stato, sez.
VI, 08.10.2013, n. 4952; v., altresì, TAR Trento, sez. 1, 21.11.2012, n.
341, per cui "affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non
basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua
concreta, effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la
occupazione sine titulo dell'area da parte della p.a.) né l'intervento di
atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c.,
che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base
ad un atto o fatto (fra cui anche l'usucapione) idoneo a trasferire il
dominio, ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una
servitù di uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione
di volontà espressa o tacita, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le
esigenze di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una
comunità territoriale"]” (Cons. Stato, sez. IV, sent. 5820/2018 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 24.07.2019 n. 4063 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
osservarsi come l’accertamento pieno e diretto della natura demaniale di un
bene (o comunque della sussistenza di servitù e diritti di uso pubblico
gravanti sullo stesso bene) rientri nell’ambito della giurisdizione
ordinaria. Infatti, è stato affermato che “Rientra nella giurisdizione
dell'autorità giudiziaria ordinaria, e non già in quella del giudice
amministrativo, la cognizione della controversia avente ad oggetto
l'accertamento della natura demaniale, o non, di un determinato bene, in
quanto le questioni relative alla natura demaniale o privata di un bene e,
quindi, alla titolarità del diritto dominicale, attengono a situazioni
giuridiche di diritto soggettivo ed esulano pertanto dalla giurisdizione del
g.a.; conseguentemente appartiene alla giurisdizione ordinaria la
controversia in cui la demanialità di un bene sia fatta valere quale ragione
di nullità del contratto con il quale un Comune, agendo iure privatorum,
abbia ceduto a terzi quel suolo”.
---------------
Più di recente, la giurisprudenza ha ribadito che “La controversia relative
alla proprietà, pubblica o privata, di una strada, così come quella relativa
all'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, deve essere
devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto investe
l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei
privati o della pubblica amministrazione”.
Deve anche rilevarsi che –sebbene l’accertamento della natura del bene
spetti in via diretta alla giurisdizione ordinaria– non risulta in atto
promosso (o, quanto meno, non è stata fornita piena prova di tale
circostanza) un giudizio innanzi all’a.g.o. che abbia la citata finalità,
non potendosi ritenere funzionale a tale scopo il procedimento civile
menzionato dal ricorrente, che appare rivolto meramente alla tutela di una
situazione di fatto –il possesso del bene immobile– piuttosto che
all’accertamento del suo status giuridico.
---------------
La giurisprudenza più recente del Consiglio di
Stato, nel richiamare il metodo di acquisto della dicatio ad patriam, ha
rammentato che si tratta di un modo di costituzione di una servitù di uso
pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non
intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette
volontariamente, con carattere di continuità e dunque senza precarietà o
spirito di tolleranza, un proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune
ai membri di tale collettività "uti cives", indipendentemente dai motivi per
i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo
spirito che lo anima.
---------------
In via preliminare, deve osservarsi come l’accertamento pieno e diretto
della natura demaniale di un bene (o comunque della sussistenza di servitù e
diritti di uso pubblico gravanti sullo stesso bene) rientri nell’ambito
della giurisdizione ordinaria. Infatti, è stato affermato che “Rientra
nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, e non già in quella
del giudice amministrativo, la cognizione della controversia avente ad
oggetto l'accertamento della natura demaniale, o non, di un determinato
bene, in quanto le questioni relative alla natura demaniale o privata di un
bene e, quindi, alla titolarità del diritto dominicale, attengono a
situazioni giuridiche di diritto soggettivo ed esulano pertanto dalla
giurisdizione del g.a.; conseguentemente appartiene alla giurisdizione
ordinaria la controversia in cui la demanialità di un bene sia fatta valere
quale ragione di nullità del contratto con il quale un Comune, agendo iure
privatorum, abbia ceduto a terzi quel suolo” (Tar Catania, 3840/2010).
La massima appena riportata riguarda un caso molto simile a quello ora in
esame, poiché la natura demaniale del bene costituiva –in quella vicenda–
motivo di nullità di un contratto, mentre –nel caso a mani– costituisce lo
spartiacque tra l’illegittimità e la legittimità del provvedimento adottato
dal Comune in materia edilizia.
Più di recente, la giurisprudenza ha ribadito che “La controversia
relative alla proprietà, pubblica o privata, di una strada, così come quella
relativa all'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata,
deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto
investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti
soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione” (Tar Napoli
2252/2019; in termini analoghi, Tar Lecce 269/2019).
Deve anche rilevarsi che –sebbene l’accertamento della natura del bene
spetti in via diretta alla giurisdizione ordinaria– non risulta in atto
promosso (o, quanto meno, non è stata fornita piena prova di tale
circostanza) un giudizio innanzi all’a.g.o. che abbia la citata finalità,
non potendosi ritenere funzionale a tale scopo il procedimento civile
menzionato dal ricorrente, che appare rivolto meramente alla tutela di una
situazione di fatto –il possesso del bene immobile– piuttosto che
all’accertamento del suo status giuridico.
Fatte tali premesse, questo giudice è chiamato nella vicenda in esame ad
operare una valutazione meramente incidentale circa la natura delle grotte
–valutazione consentita dall’art. 8 del c.p.a., nella parte in cui consente
al giudice amministrativo di conoscere, senza efficacia di giudicato, di
tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui
soluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale- al
limitato scopo di statuire sulla legittimità o illegittimità del
provvedimento comunale che ha negato al ricorrente l’autorizzazione ad
eseguire lavori sull’area antistante le grotte stesse.
Alla luce di quanto precisato, e negli stretti limiti del potere di “cognizione”
esercitabile nella fattispecie, il Collegio rassegna le seguenti
conclusioni:
a) il sig. Ca. è proprietario dell’area sopraelevata e delle
sottostanti grotte per averle regolarmente acquistate; peraltro, tale
diritto di proprietà non sembra essere stato messo in discussione dalla
amministrazioni che, a vario titolo, si sono occupate della vicenda;
b) ciononostante, il diritto di proprietà privata sulle grotte
sembra aver subìto, già da molti decenni, una consistente limitazione a
beneficio della collettività, quale conseguenza dell’uso pubblico che di
tali grotte è stato fatto sin dagli anni ’40 del secolo scorso;
c) la sussistenza di tale uso appare comprovata sia dalle antiche
fotografie prodotte in giudizio, che ritraggono le grotte come luogo adibito
a ricovero delle barche dei locali pescatori, sia dall’atto meramente “ricognitivo”
adottato dal Ministero delle infrastrutture e trasporti – Delegazione di
spiaggia di Salina, prot. 233 del 28.03.2013, che lo menziona come risalente
dato di fatto;
d) a ciò vanno aggiunti i documentati interventi con i quali
l’amministrazione pubblica ha inteso procedere direttamente alla
eliminazione della situazione di pericolo pubblico che discendeva dalla
stabilità precaria delle grotte; circostanza questa che lascia intendere
come l’amministrazione sia prontamente intervenuta a protezione dei terzi “utilizzatori”
delle grotte;
e) infine, l’uso pubblico dei citati beni appare compatibile con la
collocazione dell’ingresso delle grotte proprio a ridosso della spiaggia di
Rinella, ed a pochi metri dal mare.
In base alla esposte considerazioni, il provvedimento che ha negato al
ricorrente il diritto di recintare (in parte qua) il proprio fondo
risulta legittimo, in quanto teso a garantire il perpetuarsi del continuato
“uso pubblico”; correlativamente, risultano infondate le censure
articolate in ricorso, anche perché queste sono dirette essenzialmente a
negare la natura demaniale del bene, ed a confermarne l’incidenza
nell’ambito della proprietà privata, ma non tengono conto della diversa
connotazione dei beni che l’amministrazione ha messo in risalto (ossia,
dell’esistenza di un uso pubblico, compatibile con la proprietà privata) al
fine di negare il rilascio del provvedimento autorizzatorio richiesto.
Ai fini dell’inquadramento giuridico della ricostruzione sopra operata
appare utile richiamare la seguente massima: “La giurisprudenza più
recente del Consiglio di Stato, nel richiamare il metodo di acquisto della
dicatio ad patriam, ha rammentato che si tratta di un modo di costituzione
di una servitù di uso pubblico, consistente nel comportamento del
proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto
di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e dunque
senza precarietà o spirito di tolleranza, un proprio bene a disposizione
della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di
soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives",
indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto,
dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (Cons. Stato, IV,
15.03.2018 n. 1662; Cass. civ., I, 11.03.2016, n. 4851)” (Cons. Stato,
V, 6460/2018)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 09.07.2019 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Natura
e uso pubblico di una strada.
La verifica in ordine
alla esistenza di una servitù di uso
pubblico sulla strada in esame o della sua
demanialità è finalizzata a stabilire se i
provvedimenti comunali impugnati siano o
meno legittimi.
---------------
Secondo una costante
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la
natura e l’uso pubblico di una strada
dipendono dalla esistenza di tre concorrenti
elementi, che sono:
a) l’esercizio del passaggio e del transito iuris servitutis
publicae da una moltitudine indistinta di
persone qualificate dall’appartenenza ad un
ambito territoriale;
b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il
collegamento con la via pubblica, le
esigenze di carattere generale e pubblico;
c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso
pubblico, il quale può identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile
(comportamento della collettività
contrassegnato dalla convinzione di
esercitare il diritto d’uso della strada).
Della sussistenza di tali elementi il Comune
(interessato a far valere l’uso pubblico
della via) deve dare idonea dimostrazione,
salvo che la strada non sia inserita
nell’elenco delle strade comunali, ciò
rappresentando una presunzione (semplice) di
appartenenza della stessa all’Ente ovvero
del suo uso pubblico.
E’ stato anche precisato che l’esistenza di
un diritto di uso pubblico del bene non può
sorgere per meri fatti concludenti, ma
presuppone un titolo idoneo a tal fine,
quale ad esempio la proprietà del sedime
stradale in capo ad un soggetto pubblico.
---------------
MASSIMA
1. In via preliminare, va affermata la
giurisdizione del Giudice amministrativo con
riferimento alla parte della domanda con cui
si chiede l’annullamento degli atti
impugnati, atteso che il giudice
amministrativo può conoscere in via
incidentale di diritti soggettivi quando
tale sindacato è necessario per accertare la
legittimità di un provvedimento
amministrativo.
Difatti, la verifica in ordine alla
esistenza di una servitù di uso pubblico
sulla strada in esame o della sua
demanialità è finalizzata a stabilire se i
provvedimenti comunali impugnati siano o
meno legittimi (cfr. Consiglio di Stato, V,
16.10.2017, n. 4791; VI, 10.05.2013, n.
2544; altresì, TAR Lombardia, Milano, III,
11.03.2016, n. 507).
1.1. Quanto, invece, alla domanda di
accertamento del trasferimento del diritto
di proprietà della porzione della stradella
della Zoccascia, pro-quota, in capo ai
ricorrenti, la stessa risulta inammissibile
per difetto di giurisdizione del Giudice
amministrativo, giacché come evidenziato
dalla difesa comunale, si tratta di decidere
l’assetto proprietario di un bene e quindi
la sussistenza o meno di un diritto
soggettivo, facente capo alla giurisdizione
del Giudice ordinario (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, V, 16.10.2017, n. 4791).
...
2. Passando all’esame del merito della
domanda di annullamento, la stessa è
infondata.
3. Con la prima censura si assume il difetto
di istruttoria e motivazione in ordine alla
sussistenza di un effettivo uso pubblico
della stradella della Zoccascia e al suo
regime demaniale, trattandosi piuttosto di
un’area di passaggio di proprietà di
soggetti privati, peraltro non più destinata
all’uso pubblico attesa l’inidoneità della
stessa.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che, secondo una costante
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la
natura e l’uso pubblico di una strada
dipendono dalla esistenza di tre concorrenti
elementi, che sono:
a) l’esercizio del passaggio e del transito iuris servitutis
publicae da una moltitudine indistinta
di persone qualificate dall’appartenenza ad
un ambito territoriale;
b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il
collegamento con la via pubblica, le
esigenze di carattere generale e pubblico;
c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso
pubblico, il quale può identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile
(comportamento della collettività
contrassegnato dalla convinzione di
esercitare il diritto d’uso della strada).
Della sussistenza di tali elementi il Comune
(interessato a far valere l’uso pubblico
della via) deve dare idonea dimostrazione,
salvo che la strada non sia inserita
nell’elenco delle strade comunali, ciò
rappresentando una presunzione (semplice) di
appartenenza della stessa all’Ente ovvero
del suo uso pubblico (Cass., SS. UU.,
16.02.2017, n. 713; nonché, Consiglio di
Stato, VI, 20.06.2016, n. 2708; IV,
19.03.2015, n. 1515; diffusamente, da
ultimo, Consiglio di Stato, IV, 10.10.2018,
n. 5820).
E’ stato anche precisato che l’esistenza di
un diritto di uso pubblico del bene non può
sorgere per meri fatti concludenti, ma
presuppone un titolo idoneo a tal fine,
quale ad esempio la proprietà del sedime
stradale in capo ad un soggetto pubblico (cfr.
Consiglio di Stato, V, 16.10.2017, n. 4791;
TAR Campania, Napoli, VIII, 04.01.2019, n.
42).
Nella fattispecie de qua –a fronte
dell’assenza di prove di segno contrario
prospettate da parte dei ricorrenti, tali
non potendo considerarsi le apodittiche
affermazioni in punto di insussistenza di un
interesse della collettività all’utilizzo
della detta via, in relazione all’ipotizzata
assenza di sbocchi e alla sua effettiva
conformazione– il Comune ha evidenziato come
nel P.R.G. risalente all’anno 1980 e in
vigore fino al 1995, la strada vicinale
della Zoccascia risulta essere indicata (cfr.
all. 29 del Comune); anche nel P.G.T.
vigente la via risulta riprodotta nella
cartografia del Piano (cfr. all. 31 del
Comune). Inoltre, come ammesso dagli stessi
ricorrenti, sulla predetta strada è stata
realizzata la pubblica fognatura (all. 10
del Comune).
Ad abundantiam, va richiamata
l’ordinanza comunale di ripristino dello
stato dei luoghi n. 488 del 07.05.1982, la
quale dimostra che la predetta strada sia
stata già in passato oggetto di attività di
tutela comunale e i proprietari dell’epoca
non avessero affatto contestato la proprietà
pubblica della medesima (cfr. all. 17, 18 e
19 al ricorso). Nemmeno corrisponde ad un
dato reale la circostanza che la strada
sarebbe priva di sbocco, visto che
dall’aerofotogrammetria risulta il
contrario, ossia la percorribilità della
predetta via (cfr. all. 28 del Comune), e i
provvedimenti impugnati sarebbero proprio
finalizzati a ripristinare tale
collegamento, attraverso la rimozione delle
strutture realizzate dai ricorrenti.
Sulla scorta dei predetti indici appare
evidente la natura pubblica della strada e
quindi la legittimità dell’intervento
comunale.
3.2. Ciò determina il rigetto della prima
doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.07.2019 n. 1530 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza àncora una servitù di diritto pubblico ai presupposti consistenti:
a) nell’uso generalizzato del passaggio da parte di una
collettività indeterminata di individui, considerati “uti cives” in quanto
portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un’utilizzazione
“uti singuli”, finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per
il più agevole accesso ad un determinato immobile di proprietà privata;
b) nell'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di
pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù;
c) nel protrarsi dell'uso per il tempo necessario all'usucapione.
---------------
6.3. In tale contesto l’iniziativa processuale di parte ricorrente non è,
soltanto, comprensibile (in quanto non certamente mossa da un “evidente
travisamento dei presupposti di diritto”, come deduce il Comune) ma risulta
fondata. Infatti, il ricorso trae origine dal rigetto dell’osservazione
presentata che, pur riconoscendo la natura privata del passaggio, gli
assegna un uso pubblico “per consuetudine”.
Ma tale provvedimento risulta in parte qua contrario ai presupposti a cui la
giurisprudenza àncora una servitù di diritto pubblico consistenti:
a) nell’uso generalizzato del passaggio da parte di una
collettività indeterminata di individui, considerati “uti cives” in quanto
portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un’utilizzazione
“uti singuli”, finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per
il più agevole accesso ad un determinato immobile di proprietà privata;
b) nell'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di
pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù;
c) nel protrarsi dell'uso per il tempo necessario all'usucapione (cfr.,
ex multis, Cassazione civile, sez. II, 29.11.2017, n. 28632).
Nel caso di specie, difetta, quindi, l’asservimento del bene ad uso pubblico
con conseguente illegittimità delle provvedimenti impugnati nella parte in
cui questi postulano (senza, come detto, la necessaria chiarezza) la
sussistenza di una servitù e la conseguente possibilità di inserire il
passaggio nei percorsi ciclopedonali previsti dal Comune (pur se, allo
stato, mai realizzati).
7. Il ricorso deve essere, pertanto, accolto con annullamento in parte qua
dei provvedimenti impugnati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.06.2019 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'accertamento
dell'uso pubblico di un bene, quale una strada, deve essere condotto non già
sulla mera base delle risultanze catastali, ma mediante un approfondito
esame della condizione effettiva in cui il bene si trova.
Ai fini dell'accertamento della proprietà di un'area, i dati catastali hanno
valore indiziario e ad essi può essere attribuito maggior peso probatorio
solo quando non risultino contraddetti da specifiche determinazioni
negoziali delle parti o dalla complessiva valutazione del contenuto
dell'atto al quale deve farsi risalire la titolarità dell'area medesima.
L’accertamento della proprietà pubblica richiede l'esistenza di un atto o di
un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di
proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo
ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, o che la stessa sia
destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o
tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine,
l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione
programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di
atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta.
---------------
L'adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto
viario, per le sue caratteristiche, assuma esplicita finalità di
collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di
persone, oppure quando vi sia stato, mediante la cosiddetta dicatio ad
patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico
di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le
caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso
pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune,
ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la
prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto
di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di
servitù.
Per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale a una via privata è
necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra
l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo
relativo, non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al
Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché
tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla
proprietà del terreno e connesse col regime giuridico della medesima.
---------------
È orientamento della giurisprudenza amministrativa ritenere che
l'accertamento dell'uso pubblico di un bene quale una strada deve essere
condotto non già sulla mera base delle risultanze catastali, ma mediante un
approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova (cfr.:
Cons. Stato IV, 17.09.2013, n. 4625).
Ai fini dell'accertamento della
proprietà di un'area, i dati catastali hanno valore indiziario e ad essi può
essere attribuito maggior peso probatorio solo quando non risultino
contraddetti da specifiche determinazioni negoziali delle parti o dalla
complessiva valutazione del contenuto dell'atto al quale deve farsi risalire
la titolarità dell'area medesima (cfr.: Cons. Stato IV, 04.04.2012, n. 1990).
L’accertamento della proprietà pubblica richiede l'esistenza di un atto o di
un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di
proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo
ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, o che la stessa sia
destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o
tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine,
l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione
programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di
atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta (cfr.: Cons. Stato V, 28.06.2011, n. 3868).
Il Comune di Agnone, prima del ricevimento dell’esposto di tale Di Mario
Nicola, non aveva mai effettuato alcuna rivendica né accampato diritti sulla
natura pubblica del viottolo. Solo con la nota datata 10.01.2013, inviata ai
ricorrenti e all’Ufficio del Territorio di Isernia, veniva proposta dal
Comune una “rettifica del foglio di mappa nr. 156 presso gli Uffici
dell’Agenzia del Territorio di Isernia”, chiedendosi di far conoscere “se
dalla data dell’impianto del catasto (1956), al 01.10.1987, data di
redazione dell’atto divisionale rep. 597324, risultano eseguite eventuali
variazioni planimetriche sul foglio di mappa nr. 156 del Comune di Agnone”.
L’Agenzia delle Entrate - Ufficio del Territorio di Isernia, con la nota di
riscontro, comunicava al Comune di Agnone che “il tratto di via comunale,
compreso tra le particelle 98, 99 e parte della 101, evidenziato in giallo
nell’allegato stralcio di mappa, non è stato interessato da alcuna
variazione catastale”. Tale affermazione -invero non molto chiara, poiché
non fornisce precisazioni sulla natura pubblica del viottolo- non contrasta
con la prospettazione dei ricorrenti i quali riconoscono che il viottolo, in
epoca remota, costituisse una “strada vicinale privata” utilizzabile da
proprietari frontisti. Non vi è, viceversa, prova che il sentiero tracciato
sul foglio di mappa catastale, sia stato e permanga una strada di proprietà
comunale, né tampoco che si tratti di un bene pubblico demaniale, come
affermato dal Comune.
L'adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto
viario, per le sue caratteristiche, assuma esplicita finalità di
collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di
persone, oppure quando vi sia stato, mediante la cosiddetta dicatio ad
patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico
di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le
caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (cfr.: Cons. Stato,
IV 10.10.2018, n. 5820; Tar Campania Napoli VI, n. 106/2010).
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso
pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune,
ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la
prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto
di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di
servitù. Per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale a una via
privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico
concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà
del suolo relativo, non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede
viaria al Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade
comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni
giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse col regime
giuridico della medesima (cfr.: Cons. Stato VI, 08.10.2013, n. 4952; Tar
Trentino A.A. – Trento, 21.11.2012, n. 341)
(TAR Molise,
sentenza 24.04.2019 n. 140 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza dell’uso pubblico o solo privato di una strada rileva ai sensi
dell’articolo 15, del d.lgt. 01.09.2018, n. 1446, atteso che per le
strade vicinali soggette ad uso pubblico all'ente pubblico spetta una
ingerenza straordinaria, che si concreta in poteri di polizia e di
regolamentazione della circolazione e dell'ordine e della sorveglianza;
spettando al sindaco “ordinare che siano rimossi gli impedimenti all’uso
delle strade e all’esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate”, mentre per
le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può provvedere solo quando
ne sia richiesto (ultimo comma articolo 15 d.lgt. cit.).
Peraltro anche nell’ipotesi di uso pubblico “La responsabilità per i danni
derivanti dalla mancata manutenzione di strade vicinali private non può
gravare sull'amministrazione comunale, atteso che i compiti di vigilanza e
polizia, come il potere di disporre l'esecuzione di opere di ripristino a
spese degli interessati, che ad essa competono su dette strade, non
comportano anche l'obbligo di provvedere a quella manutenzione, facente
carico esclusivamente ai proprietari interessati”.
Per giurisprudenza consolidata “per poter considerare assoggettata ad uso
pubblico una strada privata è necessario che la stessa sia oggettivamente
idonea all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella necessità
di uso per le esigenze della circolazione o per raggiungere edifici di
interesse collettivo (chiese, edifici pubblici). Deve quindi essere
verificato:
- il requisito del passaggio esercitato da una collettività di
persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
- la concreta
idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via
pubblica, esigenze di generale interesse;
- un titolo valido a sorreggere
l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella
protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile.
Non è pertanto configurabile l’assoggettamento di
una via vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico in relazione ad un
transito sporadico ed occasionale e neppure per il fatto che essa sia
adibita al transito di persone diverse dai proprietari o potrebbe servire da
collegamento con una via pubblica”.
Le questioni inerenti l’accertamento della proprietà, pubblica o privata, di
una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada
privata, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché
investono l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti
soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione, potendo il giudice
amministrativo conoscere di tali questioni solo in via incidentale qualora
l'esistenza della servitù pubblica risulti costituire un presupposto
dell'atto eventualmente impugnato.
---------------
Con ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a. depositato in data 08.01.2019, il
sig. Kr.Jo.Go., proprietario di un’immobile insistente sul mappale
1679 del Comune di Tremosine sul Garda - località Vagne, espone che nel
gennaio del 2014, a seguito del distacco di materiale roccioso dalla parete
posta a monte della strada vicinale privata denominata “via Vagne”, una
frana si riversava su detta via e sui terreni a valle, tra i quali quello di
sua proprietà.
A tutela della pubblica incolumità il sindaco con ordinanza n. 39/2014
disponeva la chiusura e l’interdizione al transito veicolare e pedonale
della strada vicinale, all’altezza dei mappali 1716-1717-9094, demandando
ogni ulteriore “provvedimento di messa in pristino correlato all’evento in
argomento al perfezionamento delle procedure di verifica in atto da parte
dell’Ufficio Tecnico Comunale, il quale dovrà individuare puntualmente le
concause che hanno determinato il fenomeno”.
Lamenta il ricorrente che nonostante gli incontri successivamente tenutisi
tra il tecnico da lui incaricato ed il Sindaco, l’Amministrazione -a
distanza di anni- non ha mai comunicato l’esito dell’istruttoria né
adottato i conseguenti provvedimenti di rimessa in pristino dell’area.
Con istanze di data 29.11.2017 e 27.11.2018 egli ha sollecitato
il Comune intimato all’avvio del procedimento finalizzato all’effettuazione
delle verifiche tecniche e all’adozione delle misure di messa in sicurezza
del versante franato, alle quali però non è stato dato alcun riscontro.
Con l’odierno gravame l’esponente denuncia -quindi- l’illegittimità del
silenzio serbato dall’Amministrazione intimata, in ragione degli obblighi di
intervento posti sia in capo all’ente comunale sia, individualmente, in capo
al sindaco dalla normativa nazionale e regionale in materia di protezione
civile, nell’ambito dei compiti di prevenzione, eliminazione dei pericoli e
mitigazione dei rischi derivanti da eventi calamitosi. Conseguentemente
chiede accertarsi l’obbligo di provvedere sulle istanze sollecitatorie
presentate e di avviare e concludere il procedimento istruttorio disposto
con l’ordinanza sindacale n. 49/2014.
...
Il ricorso è fondato nei termini di seguito illustrati.
Le parti non hanno posizione univoca sulla questione inerente l’apertura o
meno della strada vicinale in questione al pubblico transito, atteso che il
ricorrente ritiene che l’utilizzo pubblico sussista in ragione del
collegamento con la viabilità comunale e dell’uso del percorso da parte di
numerosi escursionisti, mentre l’amministrazione resistente eccepisce che il
tracciato viario non solo è di proprietà privata, ma è di uso esclusivo dei
proprietari degli immobili che la stessa raggiunge.
La circostanza dell’uso pubblico o solo privato rileva ai sensi
dell’articolo 15, del d.lgt. 01.09.2018, n. 1446, atteso che per le
strade vicinali soggette ad uso pubblico all'ente pubblico spetta una
ingerenza straordinaria, che si concreta in poteri di polizia e di
regolamentazione della circolazione e dell'ordine e della sorveglianza;
spettando al sindaco “ordinare che siano rimossi gli impedimenti all’uso
delle strade e all’esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate”, mentre per
le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può provvedere solo quando
ne sia richiesto (ultimo comma articolo 15 d.lgt. cit.).
Peraltro anche nell’ipotesi di uso pubblico “La responsabilità per i danni
derivanti dalla mancata manutenzione di strade vicinali private non può
gravare sull'amministrazione comunale, atteso che i compiti di vigilanza e
polizia, come il potere di disporre l'esecuzione di opere di ripristino a
spese degli interessati, che ad essa competono su dette strade, non
comportano anche l'obbligo di provvedere a quella manutenzione, facente
carico esclusivamente ai proprietari interessati” (Cass. civ. Sez. III
25/02/2009, n. 4480).
Per giurisprudenza consolidata “per poter considerare assoggettata ad uso
pubblico una strada privata è necessario che la stessa sia oggettivamente
idonea all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella necessità
di uso per le esigenze della circolazione o per raggiungere edifici di
interesse collettivo (chiese, edifici pubblici). Deve quindi essere
verificato: il requisito del passaggio esercitato da una collettività di
persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; la concreta
idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via
pubblica, esigenze di generale interesse; un titolo valido a sorreggere
l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella
protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile (Cons. di Stato, IV, n.
1155/2001; V, n. 5692/2000; n. 1250/1998; n. 29/1997; TAR Toscana, Sez.
III; n. 1385/2003; TAR Sicilia Catania, n. 2124/1996; Cass. civ. II, nn.
20405/2010 e 7718/1991). Non è pertanto configurabile l’assoggettamento di
una via vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico in relazione ad un
transito sporadico ed occasionale e neppure per il fatto che essa sia
adibita al transito di persone diverse dai proprietari o potrebbe servire da
collegamento con una via pubblica (TAR Palermo, Sez. II, 12.06.2013,
n. 1322)” (Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 04.09.2017, n. 4233).
Le questioni inerenti l’accertamento della proprietà, pubblica o privata, di
una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada
privata, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché
investono l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti
soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione (Cass., sez. un.,
ord. 27.01.2010, n. 1624), potendo il giudice amministrativo conoscere
di tali questioni solo in via incidentale qualora l'esistenza della servitù
pubblica risulti costituire un presupposto dell'atto eventualmente
impugnato (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 18.09.2013, n. 2170).
Nel caso di specie l’uso pubblico della strada, che dovrebbe essere
rigorosamente provato, è stato affermato ma non dimostrato dal ricorrente.
Tanto premesso, la questione nel caso di specie non rileva ai fini della
decisione, atteso che l’ordinanza del 2014, consolidatasi per mancata
impugnazione e i cui effetti sono tuttora operanti, così come l’odierno
ricorso traggono diversamente fondamento non già su dette disposizioni, ma
sull’articolo 54 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali), il quale dispone che “Il sindaco,
quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche
contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento,
al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”, nonché sui compiti e gli
obblighi dell’amministrazione previsti dalla normativa in materia di
protezione civile.
La controversia verte pertanto sulla sussistenza di un obbligo del Comune,
ovvero del sindaco, di adottare specifiche disposizioni attinenti
l’accertamento delle cause dell’evento franoso e gli interventi di
ripristino necessari.
Tanto premesso, occorre evidenziare che l’amministrazione resistente
all’esito dell’evento franoso ha tempestivamente adottato un provvedimento
di inibizione al transito finalizzato a preservare l’incolumità e la
sicurezza pubblica.
Come espressamente previsto nell’ordinanza sindacale adottata, la chiusura
dell’accesso alla via costituiva una misura di carattere transitorio,
preliminare ad una successiva fase di approfondimento tecnico delle cause
dell’evento e alla conseguente adozione delle misure di ripristino dello
stato dei luoghi e di apprestamento delle misure necessarie per prevenire
successivi dissesti.
Nell’ordinanza del 2014 lo stesso comune riconosceva che “il presidio
interessati dall’evento franoso appare attualmente in condizioni di precaria
stabilità, per cui potrebbero verificarsi ulteriori crolli con conseguente
rischio per la pubblica incolumità”.
L’amministrazione subordinava inoltre ogni ulteriore provvedimento di messa
in pristino “al perfezionamento delle procedure di verifica in atto da parte
dell’Ufficio tecnico comunale, il quale dovrà individuare puntualmente le
concause che hanno determinato il fenomeno”.
Deve pertanto rilevarsi che, ancorché opportune, le interlocuzioni informali
con i singoli proprietari delle aree interessate e la presa d’atto degli
approfondimenti e degli interventi di ripristino dagli stessi proposti non
esauriscono i compiti riconducibili all’amministrazione comunale, che rimane
garante, a fini di tutela della pubblica incolumità, della verifica della
permanenza di condizioni di pericolo e della individuazione degli interventi
necessari per assicurare il ripristino dello stato dei luoghi e la
prevenzione di ulteriori eventi dannosi per le persone e le cose.
Si ritiene conseguentemente di accogliere il ricorso, ai fini della
declaratoria dell’obbligo del comune di pronunciarsi formalmente, nei limiti
delle relative competenze, anche sulla base degli approfondimenti tecnici
condotti dai privati e delle interlocuzioni informali già avvenute,
accertando la permanenza della situazione di pericolo, le cause dell’evento
franoso e disponendo le misure necessarie per il ripristino dello stato dei
luoghi, che dovranno essere realizzate a cura e carico dei proprietari
utilizzatori della via.
La formale definizione delle misure necessarie per la definitiva messa in
sicurezza dell’area risulta preordinata anche ai fini della successiva
rimozione dell’ordinanza sindacale di inibizione al transito. Resta fermo
che il Comune non è tenuto a dirimere conflitti tra i privati destinatari
dei suoi provvedimenti, in particolare sul riparto degli oneri per gli
interventi di ripristino.
Alla luce dell’attività di approfondimento già svolta dai proprietari
interessati e -informalmente- dal Comune, si ritiene congruo assegnare
all’Amministrazione il termine di giorni 60 (sessanta) giorni dalla
notificazione, o, se anteriore, dalla comunicazione della presente decisione
per adottare i conseguenti provvedimenti, rinviando la nomina di un
Commissario ad acta –su richiesta di parte ricorrente– all’inutile spirare
di tale termine
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.03.2019 n. 258 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può
avvenire alternativamente o a mezzo della cosiddetta dicatio ad patriam,
integrata dal comportamento del proprietario di un bene che metta
spontaneamente ed in modo univoco lo stesso a disposizione di una
collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo
della costituzione della servitù di uso pubblico, ovvero attraverso l’uso
del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini,
protratto per il tempo necessario all'usucapione.
Come risulta dal costante orientamento della giurisprudenza amministrativa:
“affinché un'area -nel caso di specie una strada- possa ritenersi sottoposta
ad un uso pubblico, oltre che l'intrinseca idoneità del bene, è necessario
che l'uso dello stesso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di
persone e, inoltre, per soddisfare un interesse pubblico generale”.
Ed invero: “L'esistenza di un diritto di uso pubblico del bene non può
sorgere per meri fatti concludenti, ma presuppone un titolo idoneo a tal
fine; in particolare, laddove la proprietà del sedime stradale non
appartenga ad un soggetto pubblico, bensì ad un privato, la prova
dell'esistenza di una servitù di uso pubblico non può discendere da semplici
presunzioni o dal mero uso pubblico di fatto della strada, ma
necessariamente presuppone un atto pubblico o privato (provvedimento
amministrativo, convenzione fra proprietario ed amministrazione, testamento)
o l'intervento della usucapione ventennale, fermo restando che,
relativamente a quest'ultimo titolo di acquisto del diritto, va
preliminarmente accertata la riconosciuta idoneità della strada a soddisfare
esigenze di carattere pubblico”.
---------------
Come dedotto dall’appellante, la costituzione su una strada privata di una
servitù di uso pubblico può avvenire alternativamente o a mezzo della
cosiddetta dicatio ad patriam, integrata dal comportamento del
proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco lo
stesso a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini,
producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso
pubblico, ovvero attraverso l’uso del bene da parte della collettività
indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario
all'usucapione.
Come risulta dal costante orientamento della giurisprudenza amministrativa:
“affinché un'area -nel caso di specie una strada- possa ritenersi
sottoposta ad un uso pubblico, oltre che l'intrinseca idoneità del bene, è
necessario che l'uso dello stesso avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e, inoltre, per soddisfare un interesse pubblico
generale” (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 10.10.2018, n. 5820).
Ed invero: “L'esistenza di un diritto di uso pubblico del bene non può
sorgere per meri fatti concludenti, ma presuppone un titolo idoneo a tal
fine; in particolare, laddove la proprietà del sedime stradale non
appartenga ad un soggetto pubblico, bensì ad un privato, la prova
dell'esistenza di una servitù di uso pubblico non può discendere da semplici
presunzioni o dal mero uso pubblico di fatto della strada, ma
necessariamente presuppone un atto pubblico o privato (provvedimento
amministrativo, convenzione fra proprietario ed amministrazione, testamento)
o l'intervento della usucapione ventennale, fermo restando che,
relativamente a quest'ultimo titolo di acquisto del diritto, va
preliminarmente accertata la riconosciuta idoneità della strada a soddisfare
esigenze di carattere pubblico” (Cons. Stato, sez. V, 31.08.2017, n.
4141).
Nessuno di tali elementi risulta ricorrere nella specie, perché la strada è
a fondo cieco e viene usata solo dai condomini. Né il comune ha fornito
alcuna prova circa l'esistenza di una servitù pubblica di passaggio sulla
strada privata, neppure essendo stato provato l'uso di detta strada e la sua
utilità pubblica, mentre dalle planimetrie prodotte risulta
inequivocabilmente che tale strada è aperta solo da una parte e va a servire
esclusivamente il condominio ricorrente.
Neppure è stata fornita la prova della manutenzione della strada ad opera
del Comune, risultando in contrario dalla documentazione versata in atti
dall’appellante che la manutenzione della stessa è effettuata ad opera del
condominio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.02.2019 n. 1369 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento
in via principale dell’effettiva esistenza di una servitù di pubblico
passaggio rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario -trattandosi di
questione riguardante l'accertamento dell'esistenza ed estensione di diritti
soggettivi (e non di interessi legittimi)–.
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto comunque sussistente in capo al
Giudice Amministrativo il potere di esercitare una cognizione incidentale
sulla questione (cfr. art. 8, comma 1, CPA), senza poter fare stato sulla
medesima.
---------------
Il Consiglio di Stato ha chiarito che “La cosiddetta
dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso
pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non
intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta
volontariamente, con carattere di continuità” -“(non di precarietà e
tolleranza)”- “un proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza che
occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale od ablatorio, al
fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività uti
cives” -“e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una
posizione qualificata rispetto al bene gravato”- “indipendentemente dai
motivi per i quali detto comportamento venga tenuto”.
---------------
Osserva il Collegio che, nella fattispecie in esame, la sostanziale
esistenza della servitù di uso pubblico posta dalla P.A. a fondamento del
provvedimento negativo de quo si palesa come dirimente, e di per sé
idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento gravato.
Premesso che l’accertamento in via principale dell’effettiva esistenza di
una servitù di pubblico passaggio (come nel caso di specie) rientra nella
giurisdizione del Giudice Ordinario -trattandosi di questione riguardante
l'accertamento dell'esistenza ed estensione di diritti soggettivi (e non di
interessi legittimi)– si rileva che il Consiglio di Stato ha ritenuto
comunque sussistente in capo al Giudice Amministrativo il potere di
esercitare una cognizione incidentale sulla questione (cfr. art. 8, comma 1,
CPA), senza poter fare stato sulla medesima (ex multis: Consiglio di
Stato, V, 14.02.2012 n. 728).
Orbene, nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio, la sussistenza
della servitù di uso pubblico sull’area che occupa è pacifica tra le parti.
Invero, secondo la ricostruzione dei fatti ad opera delle stesse ricorrenti,
l’area de qua è utilizzata dalla generalità degli utenti, tanto è vero che
ne chiedono la recinzione prevedendo l’apertura di un passaggio della
larghezza di circa tre metri per permettere comunque la fruizione della
strada e garantire la possibilità di parcheggiare.
Peraltro, detta servitù è venuta a costituirsi in conseguenza dei successivi
frazionamenti e vendite di quella che era l’intera proprietà della dante
causa delle sigg.re Li., sig.ra Ep.. Ed infatti l’intera area è stata
frazionata e venduta con successivi atti e l’edificazione dei singoli lotti
è avvenuta previa destinazione di parte di quelle aree a strada.
Come rilevato dalla difesa del Comune, il Consiglio di Stato (ex multis:
n. 3446/2015) ha chiarito che “La cosiddetta dicatio ad patriam, quale
modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel
comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a
dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di
continuità” -“(non di precarietà e tolleranza)” (così Cassazione Civile,
I, 11.03.2016, n. 4851)- “un proprio bene a disposizione della
collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona
l'esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto
negoziale od ablatorio, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri
di tale collettività uti cives” -“e non uti singuli, ossia quali
soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene
gravato” (Consiglio di Stato, V, 14.02.2012, n. 728)- “indipendentemente
dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto” (in termini,
Cassazione Civile, II, 13.02.2006, n. 3075)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 19.02.2019 n. 269 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è pacifico che il giudice amministrativo non
ha giurisdizione per l'accertamento, in via principale,
della natura vicinale, pubblica o privata, della strada in
parola, ovvero della servitù pubblica di passaggio, essendo
dette questioni devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario, è anche vero che il medesimo giudice ben può
(anzi, deve) valutare, incidenter tantum, ossia ai limitati
fini del giudizio concernente la legittimità degli atti
impugnati, la natura vicinale, pubblica o privata, del
passaggio nella strada su cui si controverte, dal momento
che tale questione costituisce un presupposto degli atti
sottoposti al suo esame in via principale.
---------------
Circa la sussistenza degli indici e dei presupposti
riconosciuti essenziali da parte della giurisprudenza per
qualificare una strada come strada a uso pubblico si deve,
in particolare, far riferimento ai seguenti elementi
evidenziati al riguardo che:
“- consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae
da parte di una collettività indeterminata di persone in
assenza di restrizioni all'accesso;
- è collegata con la viabilità generale;
- è connotata da un uso pubblico protratto da tempo;
- è stata oggetto di interventi di manutenzione da parte del
Comune e di installazioni, anche sotterranee, di
infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche,
fognarie, acquedottistiche) da parte del Comune;
- è inclusa nella Stradario Comunale agli atti del servizio
di toponomastica“.
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Ai fini della qualificazione di una strada come
“vicinale e pubblica”, si deve avere riguardo alle sue
condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in
tale categoria solo a determinate condizioni:
1. consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae
da parte di una collettività indeterminata di persone in
assenza di restrizioni all’accesso, ammettendo l’irrilevanza
che la via sia chiusa da un lato senza sbocco su altra
strada (c.d. vicolo cieco) qualora sussistano numerosi e
plurimi indici fattuali che denotano il regime giuridico del
vicolo, quale strada privata assoggettata a uso pubblico;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto
di uso pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile, inteso come
comportamento della collettività contrassegnato dalla
convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi
che non consente di distinguere la strada da una qualsiasi
altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il
diritto di uso della strada;
4. è collegata con la viabilità generale;
5. è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da
parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di
infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche,
fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico;
6. dalla destinazione della strada ad uso pubblico discende
poi l’applicazione della disciplina stradale.
In termini diversi, ai fini della qualificazione di una
strada come “vicinale pubblica”, occorre avere riguardo alle
sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare
in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio
esercitato “iure servitutis pubblicae” da una collettività
di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la
concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l’affermazione
del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi
nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile, non
essendo sufficiente l’iscrizione della strada nell’elenco
delle strade vicinali di uso pubblico costituisce
presunzione “iuris tantum”, superabile con la prova
contraria, che escluda l’esistenza di un diritto di uso o di
godimento della strada da parte della collettività.
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- per quanto attiene alla qualificazione in termini di strada a uso
pubblico del tratto che interessa -premesso che, se è
pacifico che il giudice amministrativo non ha giurisdizione
per l'accertamento, in via principale, della natura
vicinale, pubblica o privata, della strada in parola, ovvero
della servitù pubblica di passaggio, essendo dette questioni
devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, è anche
vero che il medesimo giudice ben può (anzi, deve) valutare,
incidenter tantum, ossia ai limitati fini del giudizio
concernente la legittimità degli atti impugnati, la natura
vicinale, pubblica o privata, del passaggio nella strada su
cui si controverte, dal momento che tale questione
costituisce un presupposto degli atti sottoposti al suo
esame in via principale- si ritiene che la rinnovata e più
approfondita istruttoria espletata da parte
dell’amministrazione comunale al riguardo nonché la
conseguente più diffusa e argomentata motivazione resa a
supporto dell’ordinanza impugnata rendano adeguatamente
conto della sussistenza degli indici e dei presupposti
riconosciuti essenziali da parte della giurisprudenza nella
materia ai predetti fini, ossia per qualificare la strada
che interessa, nel tratto rilevante in questa sede, come
strada a uso pubblico e si fa in particolare riferimento ai
seguenti elementi evidenziati al riguardo:
“- consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae
da parte di una collettività indeterminata di persone in
assenza di restrizioni all'accesso;
- è collegata con la viabilità generale;
- è connotata da un uso pubblico protratto da tempo;
- è stata oggetto di interventi di manutenzione da parte del
Comune e di installazioni, anche sotterranee, di
infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche,
fognarie, acquedottistiche) da parte del Comune di Termini
Imerese (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 08.06.2011, n.
3509);
- è inclusa nella Stradario Comunale agli atti del servizio
di toponomastica... essendo ubicata <<tra via Luigi Sturzo e
via Del Mazziere, con numerazione civica dal n. 1 al n. 6
[...]” “;
- infatti, ai fini della qualificazione di una strada come
“vicinale e pubblica”, si deve avere riguardo alle sue
condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in
tale categoria solo a determinate condizioni:
1. consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae
da parte di una collettività indeterminata di persone in
assenza di restrizioni all’accesso, ammettendo l’irrilevanza
che la via sia chiusa da un lato senza sbocco su altra
strada (c.d. vicolo cieco) qualora sussistano numerosi e
plurimi indici fattuali che denotano il regime giuridico del
vicolo, quale strada privata assoggettata a uso pubblico;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto
di uso pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile, inteso come
comportamento della collettività contrassegnato dalla
convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi
che non consente di distinguere la strada da una qualsiasi
altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il
diritto di uso della strada;
4. è collegata con la viabilità generale;
5. è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da
parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di
infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche,
fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico;
6. dalla destinazione della strada ad uso pubblico discende
poi l’applicazione della disciplina stradale;
- in termini diversi, ai fini della qualificazione di una
strada come “vicinale pubblica”, occorre avere riguardo alle
sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare
in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio
esercitato “iure servitutis pubblicae” da una collettività
di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la
concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l’affermazione
del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi
nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile, non
essendo sufficiente l’iscrizione della strada nell’elenco
delle strade vicinali di uso pubblico costituisce
presunzione “iuris tantum”, superabile con la prova
contraria, che escluda l’esistenza di un diritto di uso o di
godimento della strada da parte della collettività;
- nella fattispecie l’amministrazione ha richiamato più di
uno dei sopra esposti elementi e la difesa di parte
ricorrente, in particolare, nulla risulta avere in concreto
dedotto in ordine alla circostanza che l’area interessata è
stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da parte
del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di
infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche,
fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico se non
che non sono stati indicati gli interventi di manutenzione
che legittimerebbero il preteso uso pubblico e che i pali
dell'illuminazione pubblica sono installati solamente al
termine dei parcheggi di proprietà dei ricorrenti;
- e, peraltro, come emerge con evidenza da quanto sopra
evidenziato, la titolarità della proprietà privata dell’area
non assume alcuna rilevanza ai fini che interessano e non
viene messa in discussione nella presente sede;
- la destinazione a parcheggio non permette di superare le
argomentazioni di cui sopra atteso che parimenti alla strada
anche il parcheggio può essere reso oggetto di una servitù
di uso pubblico e altrettanto è a dirsi quanto alla
circostanza che ogni singolo posto auto riporta “a caratteri
cubitali” la dicitura proprietà privata atteso che,
comunque, l’accesso all’area e la sosta risultano essere
effettuati senza alcuna distinzione, e considerata, altresì,
l'assenza di impedimenti all'ingresso di terzi;
- per quanto attiene alla dedotta violazione dell’art. 381,
comma 5, del D.P.R. n. 495/1992 -il quale dispone che “5.
Nei casi in cui ricorrono particolari condizioni di
invalidità della persona interessata, il comune può, con
propria ordinanza, assegnare a titolo gratuito un adeguato
spazio di sosta individuato da apposita segnaletica
indicante gli estremi del "contrassegno di parcheggio per
disabili" del soggetto autorizzato ad usufruirne (fig. II.79/a).
Tale agevolazione, se l'interessato non ha disponibilità di
uno spazio di sosta privato accessibile, nonché fruibile,
può essere concessa nelle zone ad alta densità di traffico,
dietro specifica richiesta da parte del detentore del
"contrassegno di parcheggio per disabili".”- si rileva che
la norma prevede che la spazio di sosta privato debba essere
sia “accessibile” che “fruibile” di tal che non è
sufficiente che l’interessato sia nella dimostrata proprietà
di uno spazio privato se non è altresì dimostrato in
giudizio che il predetto spazio abbia entrambe le specifiche
e dirimenti caratteristiche indicate (TAR Sicilia-Palermo,
Sez. III,
sentenza 28.12.2018 n. 2785 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Natura
pubblica o privata di una strada
interpoderale.
Al fine di poter
stabilire se una strada interpoderale sia
pubblica oppure privata non rileva il fatto
che la stessa risulti inserita negli elenchi
delle strade vicinali, poiché l’iscrizione
non ha valore costitutivo, ma soltanto
dichiarativo, consentendo soltanto di
presumere che la strada sia pubblica, ma
senza darne la certezza.
Aggiunge il TAR che il riconoscimento della
natura pubblica della strada, dipende,
invece, dalla coesistenza effettiva di tre
condizioni, quali:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae da una
collettività di persone qualificate
dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere
generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso
pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.11.2018 n. 1132 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
La classificazione delle strade ai fini
propri del codice della strada (e cioè in
relazione alla regolazione del traffico
sulle stesse) non può essere utile allo
scopo di determinarne il soggetto
proprietario. Per comune riconoscimento, sia
della giurisprudenza, che della dottrina in
argomento, le strade vicinali si possono
distinguere in pubbliche e private.
Sono private le vie cosiddette agrarie o
vicinali private costituite da passaggi in
comunione incidentale tra i proprietari dei
fondi latistanti serviti da quei medesimi
passaggi. Tra le tante basti ricordare la
sentenza del Tribunale Chieti, 15/10/2009,
n. 748, nella quale si legge: "La via
agraria, cioè la strada privata che i
proprietari dei fondi latistanti aprono e
mantengono per transitarvi secondo le
esigenze della coltivazione, viene formata
mediante conferimento di suolo (cd. "collatio
agrorum privatorum") o di altro apporto dei
vari proprietari, in modo da fondare una
comunione ("communio incidens"), per la
quale il godimento della strada non è "iure servitutis" ma "iure proprietatis" e, pur
avendo di regola, fondi fronteggianti, può
essere utilizzata, in relazione alla
necessità del tracciato, da più fondi in
consecuzione, fermo restando il principio
che essa possa servire a tutti i proprietari
dei fondi in tutte le direzioni, onde
ciascuno ne abbia per tutta la sua lunghezza
la proprietà "pro indiviso").
Sono vicinali pubbliche le vie di proprietà
privata, soggette a pubblico transito. In
concreto, il sedime della vicinale, compresi
accessori e pertinenze, è privato, di
proprietà dei titolari dei terreni
latistanti, mentre l’ente pubblico è
titolare di un diritto reale di transito a
norma dell’art. 825 c.c..
Tale diritto può essere costituito nei modi
più diversi, ossia mediante un titolo
negoziale, per usucapione o attraverso gli
istituti dell’“immemorabile”, cioè dell’uso
della strada da parte della collettività da
tempo, appunto, immemorabile o della
“dicatio ad patriam”, che si configura
quando i proprietari mettono a disposizione
del pubblico la strada, assoggettandola
all’uso collettivo (cfr. Cass. Civ. Sent. n.
12181/1998 "la c.d. Dicatio ad patriam ha
come suo indefettibile presupposto,
l’asservimento del bene all’uso pubblico
nello stato in cui il bene stesso si trovi,
e non in quello realizzabile a seguito di
manipolazioni quali quelle conseguenti alle
irreversibili trasformazioni che
caratterizzano il (diverso) istituto
dell’accessione invertita".
Al fine di poter stabilire se una strada
interpoderale sia pubblica oppure privata,
non rileva, dunque, il fatto che la stessa
risulti inserita negli elenchi delle strade
vicinali, poiché l’iscrizione non ha valore
costitutivo, ma soltanto dichiarativo,
consentendo soltanto di presumere che la
strada sia pubblica, ma senza darne la
certezza (TAR Sicilia, Catania, 29.11.1996, n. 2124); assunto, questo, sostenuto
sia dal dato normativo di cui all’art. 20
della L. 20.03.1865, n. 2248, secondo il
quale, la classificazione ufficiale delle
strade ha efficacia presuntiva e
dichiarativa, ma non costitutiva della
pubblicità o meno del passaggio, sia dalla
giurisprudenza costante (cfr, tra le tante,
Sezione II, Cassazione civile, n. 4938/1992;
Sezione III, n. 6337/1994). Il
riconoscimento della natura pubblica della
strada, dipende, invece, dalla coesistenza
effettiva di tre condizioni, quali:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una
collettività di persone qualificate
dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere
generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso
pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile,
(TAR Toscana, Sez. III, 11.04.2003, n.
1385; conformi, tra le molte: TAR Umbria,
Perugina, 13.01.2006, n. 7; id., 21.09.2004, n. 545; ed in precedenza: Cons. di Stato, Sez. IV, n. 1155/2001; Cons.
di Stato, Sez. V, n. 5692/2000; Cass. civ.,
Sez. II, n. 7718/1991).
La giurisprudenza è dunque costante nel
ritenere che ciò che caratterizza le strade
vicinali pubbliche è il loro concreto
utilizzo da parte della collettività
(Sezione III, Cassazione civile, n. 10139
del 1994, IV Sezione penale della Corte di
Cassazione n. 8950/1990 e Tar della Puglia,
sentenza n. 491 del 1994). Pertanto, la
qualificazione di una strada come di uso
pubblico discende non tanto dal fatto che su
di essa possano transitare persone diverse
dal proprietario o dal fatto che essa si
colleghi ad una pubblica via, quanto,
piuttosto, presuppone che essa sia posta a
servizio di una collettività di utenti (uti
cives).
Riassumendo, dunque, a prescindere dal fatto
che esse siano pubbliche o private, per le
strade vicinali che risultino interessate
dalla circolazione di pedoni, veicoli e
animali, debbono trovare applicazione le
norme disciplinanti la circolazione
stradale, ai sensi dell’art. 3, comma 2,
punto 52.
Il codice della strada, però, non si occupa
minimamente del profilo proprietario di
dette strade, che esula completamente dalla
materia dallo stesso disciplinata.
L’iscrizione della strada nell’elenco di
quelle vicinali tenuto dal Comune determina
una presunzione (semplice) della sussistenza
della pubblicità dell’uso della via (Cass.,
sez. II, 14.05.2018 n. 11676).
Stabilire se tale presunzione operi anche
nel caso di specie risulta essere
determinante, in quanto, se così fosse, con
riferimento alla strada di cui si
controverte, l’estensione del suo utilizzo
anche a favore dei proprietari che risultano
interclusi dalla soppressione del passaggio
a livello prevista dalla dichiarazione di
pubblica utilità non comporterebbe un
ulteriore aggravio della servitù pubblica su
di essa insistente e, conseguentemente,
nemmeno la corresponsione di un’indennità di
asservimento, così come ritenuto da RFI.
L’assenza di mutamento nell’utilizzo della
strada determinerebbe, perciò,
l’infondatezza della pretesa fatta valere
dei ricorrenti e, in particolare, dei motivi
di illegittimità correlati alla mancata
considerazione della natura privata della
strada.
Nel caso di specie, però, la presunzione
suddetta non pare poter operare, atteso che
il Comune stesso, nell’ambito del giudizio
civile promosso dai ricorrenti, ha
dichiarato di non avere mai avuto e di non
avere nessun interesse alla strada vicinale
in questione, che, pertanto, deve ritenersi
di natura privata.
Sebbene, infatti, nella relazione di parte
resistente si sostenga che il Comune, cui
sarebbero stati chiesti chiarimenti circa la
natura pubblica della strada vicinale,
evidenziata nelle mappe come distinta dai
confinanti mappali, non avrebbe affatto
dichiarato che la strada non sia pubblica,
non pare possa attribuirsi altro significato
logico all’affermazione secondo cui la
strada “non è di interesse pubblico”. E che
la strada non sia di natura pubblica appare
confermato da quanto si dirà a breve,
seguendo un percorso logico che prende le
mosse dall’orientamento da ultimo confermato
dal Consiglio di Stato, sez. V, con la
sentenza del 31/08/2017, n. 4141, secondo cui
la semplice indicazione di una strada
nell'elenco delle strade comunali (o
vicinali) non risulta dirimente, considerato
che tali elenchi hanno natura meramente
dichiarativa: principio che deve valere, a
maggior ragione, nel caso in cui la strada,
come quello in esame, seppur definita
vicinale, non risulti inserita nel relativo
elenco del Comune di Crema.
Deve, pertanto, riconoscersi rilevanza alle
circostanze oggettive che escludono la
natura di uso pubblico della strada, quali,
il fatto che la strada non è utilizzata da
persone diverse dai suoi comproprietari, è
stata asfaltata a cura e spese esclusive dei
suoi comproprietari, senza che il Comune di
Crema abbia mai effettuato alcuna opera
manutentiva, nel suolo sottostante non sono
interrati impianti ed essa è totalmente
priva di illuminazione pubblica, all’imbocco
di tale strada da sempre esiste un cartello,
apposto dai ricorrenti, che ne segnala la
“proprietà privata – divieto di accesso”,
senza che ciò abbia mai formato oggetto di
contestazione e, infine, la strada è chiusa
e conduce esclusivamente alla Cascina Colombera ed ai terreni di proprietà dei
ricorrenti.
In linea, dunque, con la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. V, 28/10/2015, n. 4940,
la quale ha chiarito che “Una strada cieca
che si esaurisce di fronte ad un immobile
privato non è idonea a soddisfare le
esigenze della collettività, vale a dire un
numero indeterminato di cittadini, allorché
sia del tutto priva oltre l'accesso, di
qualsiasi altro collegamento con la
viabilità comunale del centro abitato.”,
proprio le caratteristiche oggettive della
strada in questione, ora descritta, non
possono che portare a concludere per la sua
natura privata (principio recentemente
ribadito anche nella sentenza del Consiglio
di Stato n. 5280/2018).
Dunque, il Collegio ritiene di dover
confermare la conclusione cui è addivenuto
in sede cautelare, laddove ha ritenuto che
la qualificazione come strada vicinale della
via di accesso denominata Colombera -che RFI ha individuato come parte del percorso
per garantire gli accessi preclusi a seguito
della soppressione di taluni passaggi a
livello- non ne fa venire meno la natura
privata, né ne legittima l’uso pubblico, dal
momento che essa non risulta classificata
tra le strade vicinali di uso pubblico e
risulta destinata al servizio esclusivo dei
proprietari frontisti, tanto che il Comune
ha negato ogni interesse pubblico al suo
utilizzo.
Né può rilevare, al fine della
classificazione come strada pubblica, la
mancanza dell’elemento identificativo nella
mappa catastale, il quale evidenzia la
presenza della strada, ma non può
determinarne il regime giuridico, pubblico o
privato. Dunque, precisato che la proprietà
dei frontisti non è mai stata revocata in
dubbio da RFI, che ha sempre affermato la
sussistenza di un uso pubblico del bene di
proprietà privata denominato “strada
vicinale Colombera”, non operando la
presunzione semplice derivante
dall’inclusione della strada nell’elenco
comunale di quelle vicinali e non avendo RFI
fornito alcun principio di prova
dell’esistenza di un uso pubblico della
stessa, l’onere della prova del fatto che
esso non sussiste deve ritenersi
adeguatamente assolta dai ricorrenti.
Dunque, la mancata inclusione, tra i beni da
espropriare e/o asservire coattivamente, di
tale porzione di strada, che deve presumersi
di proprietà privata, in ragione della sua
stessa natura, comporta l’incompletezza
della dichiarazione di pubblica utilità e
l’impossibilità di eseguire l’opera così
come progettata.
Quanto alla possibilità di procedere alla
costituzione della sola servitù di uso
pubblico, in luogo dell’espropriazione, si
ritiene necessario un preliminare distinguo.
Poiché la legge n. 2359 del 1865 consentiva
solo l’estinzione di diritti e non anche la
loro costituzione, solo attraverso una
faticosa ricostruzione giurisprudenziale si
è arrivati ad ammettere anche l’imposizione
della servitù coattiva mediante ricorso al
procedimento di espropriazione per pubblica
utilità.
Superando l’ambiguità dell’art. 1 del DPR
327/2001, che si limita a delineare l’ambito
di applicazione della procedura
espropriativa, prevedendo il ricorso alla
stessa per l’acquisto “di ogni diritto
relativo a beni immobili”, ora tale
possibilità è stata espressamente
riconosciuta dal legislatore con l’art. 3
della legge 166/2002, che ha stabilito che
“Le procedure impositive di servitù previste
dalle leggi in materia di trasporti,
telecomunicazioni, acque, energia, relative
a servizi di interesse pubblico, si
applicano anche per gli impianti che siano
stati eseguiti e utilizzati prima della data
di entrata in vigore della presente legge,
fermo restando il diritto dei proprietari
delle aree interessate alle relative
indennità”.
Indiscusso, dunque, che il procedimento
ablatorio possa essere utilizzato anche per
l’imposizione coattiva di una servitù, essa
è ammissibile solo nel caso in cui
ricorrano, a tal fine, le condizioni
previste dal codice civile o dalle leggi
speciali che ne riconoscono la possibilità
della costituzione.
Presupposto perché si disponga la
costituzione di una servitù, in luogo
dell’espropriazione è, oltre alla tipicità
del diritto che si va a costituire, che il
perseguimento dell’interesse pubblico sia
compatibile con la conservazione della
proprietà del bene, nel senso che
l’imposizione della servitù determini una
costrizione nella fruizione della proprietà
che, pur limitandone l’esercizio, non
escluda totalmente l’uso proprio da parte
del proprietario.
Ogni volta che l’uso pubblico precluda
totalmente l’uso privato della porzione di
proprietà in questione lo strumento non può
che essere quello dell’espropriazione del
diritto dominicale.
Quanto alla servitù di passaggio, inoltre,
lo schema tipico dell’asservimento comporta
che essa possa essere costituita
coattivamente solo laddove sia
specificamente individuato un fondo
dominante.
Applicando il principio alla fattispecie in
esame, dunque, il ricorso alla costituzione
della servitù coattiva deve ritenersi
legittimo, in quanto, come emerge
dall’”Elenco ditte” allegato alla relazione
tecnica prodotta a corredo del progetto
approvato e dichiarato di pubblica utilità,
il procedimento avviato risulta essere
preordinato a costituire il diritto di passo
solo a favore di fondi specifici, risultati
interclusi dalla soppressione del passaggio
a livello e non anche a perseguire il
risultato di trasformare quella che è una
viabilità privata (sia nel tratto definito
come strada vicinale, in ragione di quanto
sopra, che nel tratto in cui sul terreno si
rinviene una mera capezzagna), in una
viabilità aperta al pubblico transito. La
fattispecie, infatti, in tal caso esulerebbe
da quello che è lo schema tipico della
servitù, imponendo sui fondi dei ricorrenti
un peso che ne escluderebbe ogni facoltà di
autonomo godimento, così legittimando la
pretesa del ricorso all’esproprio, in luogo
del mero asservimento, con conseguente
imputazione degli oneri di manutenzione,
oltre che di realizzazione, a carico
dell’ente pubblico e trasferimento di ogni
forma di responsabilità derivante dalla
proprietà della strada stessa.
Chiarito, quindi, che il provvedimento
impugnato è illegittimo per aver escluso
dall’elenco dei beni da asservire la strada
vicinale della Colombera, ma non anche per
aver previsto l’imposizione coattiva di una
servitù di passaggio, in luogo
dell’espropriazione dei terreni necessari
per la realizzazione di una strada pubblica,
a favore dei soli fondi privati dell’accesso
dalla soppressione del passaggio a livello,
si può passare all’esame del profilo
attinente alla localizzazione dell’opera
pubblica.
Quanto alla seconda doglianza, va rilevato
che il termine per la presentazione delle
osservazioni non ha natura perentoria
(riservata ai soli termini esplicitamente
classificati come tali) e, conseguentemente,
l’ente espropriante è tenuto a prendere in
considerazione tutte le osservazioni anche
tardivamente pervenute, se lo siano in un
momento in cui l’attività istruttoria non si
è ancora conclusa con la dichiarazione di
pubblica utilità. Ciò che è accaduto nel
caso di specie, atteso che avrebbero dovuto
essere prodotte entro 30 gg. decorrenti dal
17 agosto e, quindi, entro il 16 settembre e
quelle del sig. Ca. sono state
spedite il 15 settembre e ricevute il 19
successivo. Poiché, però, il decreto
dichiarante la pubblica utilità è stato
adottato solo il 23.11.2017, esse
avrebbero dovuto essere comunque prese in
considerazione.
Secondo parte resistente, la mancata
valutazione delle osservazioni in sede di
approvazione del progetto sarebbe stata
sopperita dall’invio della risposta
personale ai ricorrenti, ma la tesi non può
essere condivisa.
Oltre al fatto che essa risulta essere del
tutto generica, in specie considerato che
R.F.I. avrebbe dovuto replicare alla
puntuale relazione di parte ricorrente, che
individuava tutti gli aspetti tecnici di
vantaggio della soluzione alternativa
proposta e tutte le difficoltà di
realizzazione della scelta progettuale
operata dall’ente espropriante, la
giurisprudenza ha da tempo chiarito che la
risposta alle osservazioni dei proprietari,
sebbene predisposta ed elaborata dal
dirigente o dal RUP che l’ha istruita,
dovrebbe essere fatta propria dall’organo
(giunta o consiglio comunale, a seconda che
l’opera sia o meno prevista dal piano
regolatore) deputato all’approvazione del
progetto, in quanto parte integrante dello
stesso. Diversamente opinando non avrebbe
alcun senso la disposizione di cui all’art.
16 del DPR 327/2001, secondo cui
l’accoglimento delle osservazioni comporta
la modifica del progetto, modifica che non
può che competere allo stesso organo
preposto all’approvazione del progetto
stesso (cfr. in tal senso, TAR Brescia,
sentenze n. 2424/2010 e 87/2009).
Ciononostante, l’applicazione dei principi
posti alla base dell’art. 21-octies della
legge n. 241/1990, estendibili alla
fattispecie in quanto trattasi pur sempre di
una omissione della garanzia della
partecipazione al procedimento, permette di
considerare comunque legittimo il rigetto
delle osservazioni presentate dai
ricorrenti, in ragione di quanto
rappresentato nella relazione di RFI
depositata in giudizio, in cui si legge che
“La soluzione alternativa ivi proposta dai Sigg.ri Ca.–Re. è stata
ritenuta non attuabile in quanto prevedeva
il transito dei mezzi agricoli da una zona
di alta densità abitativa (circostanza in
seguito confermata da tecnico comunale)”.
Gli aspetti di sicurezza che la sconsigliano
rendono, dunque, ragionevole e non illogica
la scelta progettuale discrezionalmente
operata da RFI nel rigetto dell’ipotesi di
tracciato alternativo individuato dai
ricorrenti.
Analogo discorso può valere con riferimento
all’ulteriore tracciato alternativo proposto
dai ricorrenti solo nel ricorso e rispetto a
cui il Collegio aveva ravvisato
l’opportunità di un confronto fra le parti
che, anziché in sede procedimentale, ha, di
fatto, avuto luogo attraverso lo scambio di
scritti difensivi.
Ne è emersa una proposta progettuale che
parte ricorrente non ha saputo suffragare
con argomenti idonei a superare le criticità
individuate dall’ente espropriante, ma prima
di approfondire tale profilo nel merito,
appare opportuno premettere che parte
ricorrente non è venuta a conoscenza del
rigetto delle proprie osservazioni fino a
febbraio 2018 e dunque non aveva altra
possibilità di proporre un’ulteriore
alternativa se non in sede impugnatoria.
In considerazione di ciò e, più in generale,
del fatto che la presentazione delle
osservazioni in fase procedimentale non può
essere considerata conditio sine qua non
dell’ammissibilità di una successiva censura
in sede giudiziale, volta ad evidenziare il
più adeguato contemperamento di interessi
pubblici e privati raggiungibile con la
diversa soluzione proposta dai ricorrenti,
quanto evidenziato negli scritti difensivi
di parte resistente appare idoneo a
dimostrare come la soluzione tecnica
individuata nel progetto resista alla
censura di illegittimità mossa al progetto
scaturito dall’esercizio discrezionale del
potere, avvenuto senza prendere in
considerazione il tracciato alternativo che
preserverebbe la proprietà dei ricorrenti,
ancorché tale motivazione non sia stata
puntualmente esternata nel corso del
procedimento.
Invero, la difesa di parte resistente ha ben
evidenziato come la nuova soluzione
prospettata non potrebbe rappresentare una
valida alternativa a quella individuata da
RFI in sede di progettazione, considerate la
sua validità sul piano tecnico, l’efficacia
nel raggiungimento dello scopo e i diversi
interessi contrapposti (e, in particolare
quello all’individuazione di soluzioni
tecniche atte ad ovviare alla preclusione
dei fondi generata dalla realizzazione
dell’opera pubblica che gravino maggiormente
sul soggetto beneficiario della costituzione
della servitù, con minor aggravio sul terzo,
proprietario dei fondi serventi).
Essa, infatti, ingenererebbe problematiche
connesse al posizionamento di due tubolari
autoportanti per l’attraversamento, definiti
ingressi esistenti, che andrebbero ad
interferire con una pista ciclopedonale, il
cui transito con mezzi agricoli e relativi
carichi non è stato adeguatamente valutato
dalle parti proponenti.
Per sfruttare tale ingresso, occorrerebbe
interferire con i mezzi direttamente sulla
pista ciclopedonale e creare una nuova
viabilità (di circa 700 mt) a Nord del
mappale 185, proseguendo verso Ovest sino
alla S.S. 235, per poi proseguire verso Sud
ad incontrare la vicinale dei Campolesi.
Tale opera risulta più complessa di quella
progettata da R.F.I., essendo più estesa la
strada da realizzare, con ben più rilevanti
e (per la collettività) disagevoli
operazioni di movimentazione terra
riguardanti una pluralità di fondi
appartenenti a diversi proprietari.
Tutto ciò a fronte di una danno limitato
alla proprietà dei ricorrenti, atteso che
l’assoggettamento alla servitù di passaggio
riguarderebbe porzioni di terreni già
destinate al transito di mezzi pesanti, per
garantire l’accesso alle (di fatto poche)
proprietà che risulterebbe intercluse dalla
soppressione del sottopasso che garantiva
loro l’accesso e, quindi, destinate non a un
transito pubblico in senso stretto, ma
limitato a soddisfare l’interesse di uno
scarso numero di soggetti.
Respinte, dunque, le censure n. 2 e 4, per
quanto riguarda, infine, la lamentata
omissione, nella fattispecie, della,
asseritamente necessaria, apposizione di un
vincolo preordinato all’esproprio, la
censura non può trovare positivo
apprezzamento. Infatti, laddove la
realizzazione dell’opera di pubblico
interesse comporti, come nel caso di specie,
il mero assoggettamento di una strada
privata, conforme alle previsioni del PRG e
del P.T.C.P., ad una servitù di passaggio,
conservandone, anche a seguito
dell’esecuzione del progetto, le
caratteristiche dimensionali e la medesima
classificazione, l’apposizione del vincolo
espropriativo non risulta necessaria, al
pari dell’acquisizione del parere della
Soprintendenza e di quello per i profili
idraulici.
Anche la terza censura risulta, dunque,
infondata.
L’accoglimento del ricorso introduttivo nei
limiti di cui in motivazione, con
conseguente necessità di integrare la
dichiarazione di pubblica utilità,
estendendola alla strada vicinale “Colombera”,
che dovrà essere inclusa nell’elenco dei
beni da asservire, con conseguente
corresponsione della relativa indennità,
determina anche l’accoglimento del ricorso
per motivi aggiunti per ragioni di
invalidità derivata.
Il decreto che autorizza l’occupazione
anticipata dei beni oggetto di asservimento
risulta, infatti, immune dai vizi dedotti,
in quanto la mancata inclusione tra gli
immobili da asservire della strada vicinale
non comporta, automaticamente,
l’illegittimità dell’occupazione degli altri
beni, regolarmente assoggettati, per tutto
quanto sopra, agli effetti della
dichiarazione di pubblica utilità.
Ciò nondimeno la mancata inclusione della
strada vicinale nell’elenco dei beni da
asservire non può non determinare
l’impossibilità oggettiva di portare ad
esecuzione l’autorizzazione all’occupazione
dei beni, rendendo illegittima la previsione
di essa come limitata alla sola capezzagna
collocata sul lato sud dei mappali 33 e 76.
Il solo parziale accoglimento del ricorso
introduttivo e la natura derivata
dell’illegittimità dell’occupazione
d’urgenza legittimano la compensazione delle
spese del giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Affinché un'area privata venga a far parte del
demanio stradale e assuma, quindi, la natura di strada
pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il
transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva e
attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione
sine titolo dell'area da parte della pubblica
amministrazione), né la mera previsione programmatica della
sua destinazione a strada pubblica, né l'intervento di atti
di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima
circa la funzione da essa assolta, ma è necessario che la
strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale
in base a un atto o a un fatto (convenzione, espropriazione,
usucapione, ecc.) idoneo a trasferire il dominio e che essa
venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa
o tacita dell'ente all'uso pubblico (inequivocabile è in tal
senso l'inciso "se appartengono ... ai comuni" proprio
dell'art. 824, primo comma, cod. civ.).
---------------
6.3.2. Ne consegue che la sentenza qui impugnata non merita
condivisione laddove –al punto 3.5 della relativa
motivazione– assume come corretta l’affermazione della
sentenza n. 818/2004 (sulla questione peraltro riformata dal
giudice d’appello) della sussistenza di una servitù di uso
pubblico, basata sul mero riconoscimento da parte del Comune
di Brindisi che la via in questione è usata dalla
collettività.
Ha ragione, infatti, il Comune appellante quando afferma
che, non solo il diritto di proprietà, ma anche il diritto
reale di servitù presuppone un titolo giuridicamente idoneo
alla sua costituzione (ex art. 825 cod. civ.), tale non
essendo una situazione di mero fatto.
In proposito, non si può che ribadire il principio di
diritto, richiamato dall’appellante, per il quale “Affinché
un'area privata venga a far parte del demanio stradale e
assuma, quindi, la natura di strada pubblica, non basta né
che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la
sua concreta, effettiva e attuale destinazione al pubblico
transito e la occupazione sine titolo dell'area da parte
della pubblica amministrazione), né la mera previsione
programmatica della sua destinazione a strada pubblica, né
l'intervento di atti di riconoscimento da parte
dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa
assolta, ma è necessario che la strada risulti di proprietà
di un ente pubblico territoriale in base a un atto o a un
fatto (convenzione, espropriazione, usucapione, ecc.) idoneo
a trasferire il dominio e che essa venga destinata, con una
manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente
all'uso pubblico (inequivocabile è in tal senso l'inciso "se
appartengono ... ai comuni" proprio dell'art. 824, primo
comma, cod. civ.)” (così Cass. civ., sez. II,
25.01.2000, n. 823, cui è conforme la giurisprudenza di
legittimità successiva, fino, tra le altre, a Cass. civ.,
sez. II, 28.09.2010, n. 20405 e 02.02.2017, n. 2795) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2018 n. 5643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’atto di declassificazione non determina di per
sé stesso la perdita dell’uso pubblico della strada, qualora
quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a
garantirne un’utilizzazione pubblica.
Né «il disuso protratto nel tempo» né «l’inerzia della
pubblica amministrazione nella cura della strada o
nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o l’uso da
parte di privati incompatibile con l’uso pubblico» sono
sufficienti a dimostrarne «l’intervenuta tacita
sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in
assenza di un formale provvedimento di cessazione della
demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti
comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche,
incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso
pubblico».
---------------
8.3. Ebbene, secondo un principio consolidato in
giurisprudenza, l’atto di declassificazione non determina di
per sé stesso la perdita dell’uso pubblico della strada,
qualora quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a
garantirne un’utilizzazione pubblica.
8.4. Inoltre, la giurisprudenza amministrativa anche più
recente ha ribadito che né «il disuso protratto nel tempo»
né «l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura
della strada o nell’intervento volto ad impedire
l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con
l’uso pubblico» sono sufficienti a dimostrarne «l’intervenuta
tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur
in assenza di un formale provvedimento di cessazione della
demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti
comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche,
incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso
pubblico» (Cons. St., Sez. IV, 28.10.2013, n. 5207,
nonché Cons. St., Sez. V, 30.11.2011, n. 6338; Sez. VI,
09.02.2011, n. 868; Sez. IV, 07.09.2006, n. 5209, Sez. V,
01.12.2006, n. 7081) (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 16.01.2018 n. 41 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la giurisprudenza consolidata, per poter
considerare assoggettata ad uso pubblico una strada privata
è necessario che la stessa sia oggettivamente idonea
all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella
necessità di uso per le esigenze della circolazione o per
raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici
pubblici).
Deve quindi essere verificato: il requisito del passaggio
esercitato da una collettività di persone qualificate
dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; la concreta
idoneità della strada a soddisfare, anche per il
collegamento con la via pubblica, esigenze di generale
interesse; un titolo valido a sorreggere l’affermazione del
diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella
protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile.
Non è pertanto configurabile l’assoggettamento di una via
vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico in relazione
ad un transito sporadico ed occasionale e neppure per il
fatto che essa sia adibita al transito di persone diverse
dai proprietari o potrebbe servire da collegamento con una
via pubblica.
Ed ancora la giurisprudenza ha osservato che, affinché possa
considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su
una strada occorre che essa: a) sia utilizzata da una
collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei
soggetti che si trovano in una posizione qualificata
rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a
soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla
pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto
di interventi di manutenzione da parte della Pubblica
amministrazione.
---------------
Condivisibile giurisprudenza ritiene che, in mancanza di
espressa classificazione di una strada privata nell'elenco
delle strade vicinali, come risulta dalle certificazioni del
Comune prodotte in giudizio da parte ricorrente, l'esercizio
del potere di autotutela è condizionato al preventivo
rigoroso accertamento dell'uso pubblico della strada da
parte dell’amministrazione, il quale deve essere condotto
mediante un approfondito esame della condizione effettiva in
cui il bene si trova.
E’, infatti necessario, in mancanza di un atto valido a
dimostrare la sussistenza del diritto di uso pubblico, che
il fatto della protrazione dell'uso stesso da tempo
immemorabile, quale titolo parimenti idoneo a sorreggere
l’affermazione di tale diritto, venga rigorosamente provato
da parte dell’Amministrazione, su cui incombe il relativo
onere.
---------------
Il Collegio, posto che il Comune, come peraltro ammesso dal Comune
stesso nel provvedimento impugnato, non vanta alcun titolo
di proprietà del terreno su cui insiste la strada per cui è
causa, deve verificare se tale strada possa essere
qualificata area ad uso pubblico, come sostenuto nel
medesimo provvedimento.
Ed invero, per la giurisprudenza consolidata, per poter
considerare assoggettata ad uso pubblico una strada privata
è necessario che la stessa sia oggettivamente idonea
all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella
necessità di uso per le esigenze della circolazione o per
raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici
pubblici).
Deve quindi essere verificato: il requisito del
passaggio esercitato da una collettività di persone
qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; la
concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il
collegamento con la via pubblica, esigenze di generale
interesse; un titolo valido a sorreggere l’affermazione del
diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella
protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile (Cons. di
Stato, IV, n. 1155/2001; V, n. 5692/2000; n. 1250/1998; n.
29/1997; TAR Toscana, Sez. III; n. 1385/2003; TAR Sicilia
Catania, n. 2124/1996; Cass. civ. II, nn. 20405/2010 e
7718/1991).
Non è pertanto configurabile l’assoggettamento
di una via vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico
in relazione ad un transito sporadico ed occasionale e
neppure per il fatto che essa sia adibita al transito di
persone diverse dai proprietari o potrebbe servire da
collegamento con una via pubblica (TAR Palermo, Sez. II,
12.06.2013, n. 1322).
Ed ancora la giurisprudenza ha osservato che, affinché possa
considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su
una strada occorre che essa: a) sia utilizzata da una
collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei
soggetti che si trovano in una posizione qualificata
rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a
soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla
pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto
di interventi di manutenzione da parte della Pubblica
amministrazione (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 10.05.2013,
n. 2544).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame
alla luce della richiamata giurisprudenza, occorre
innanzitutto rilevare che il provvedimento deve ritenersi
carente di motivazione, in quanto non indica in modo chiaro
i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione dell’Amministrazione, in relazione
alle risultanze dell’istruttoria, come prescrive l’art. 3
della legge n. 241 del 1990.
Ciò in quanto nella fase istruttoria l’organo che ha
adottato il provvedimento aveva richiesto i rispettivi
pareri al Corpo di Polizia Municipale e all’Area “AA.GG.,
Legale e URP” di Teano ma, immotivatamente, nel
provvedimento decisorio se n’è discostato ponendo a
fondamento del provvedimento stesso unicamente il parere
precedentemente dato (nel 2014) dal suddetto Corpo di
Polizia Municipale.
Occorre premettere che il Corpo di Polizia Municipale di
Teano, nel verbale di sopralluogo prot. n. 2136/PM dell’08.10.2014, aveva concluso che la strada per cui è causa
potesse essere classificata come area ad uso pubblico sulla
base delle seguenti motivazioni: la stessa pavimentazione
della strada principale, la stessa illuminazione pubblica,
la mancanza di scritta o struttura o altro segno che
inibisce a chicchessia la sosta o il transito e/o la
circolazione dei pedoni, la circostanza che il Ci., con
regolare licenza, avesse gestito per più di vent’anni un
pubblico servizio che aveva unico ingresso ed accesso da
detto stradone, l’autorizzazione di un passo carrabile
rilasciata in favore di Ma.Vi..
Ed invero, nel parere n. 30 del 31.03.2016, il
Responsabile dell’Area AA.GG., Legale e URP aveva
rappresentato, andando in contrario avviso rispetto alle
conclusioni del Corpo di Polizia Municipale del 2014, di
“convergere, sostanzialmente, sulle ricerche fatte dagli
avvocati dei tecnici di parte”, dando atto che dalla lettura
del rispettivo parere prot. n. 615 del 29.03.2016 anche
il Comando di PM, seppur ribadendo l’impostazione del
precedente parere dell’08.10.2014, “apre a soluzione
alternative”.
Ciò in quanto il Responsabile della suddetto
Comando pur “confermando tutto quanto in essa” -dell’08.10.2014– “dedotto ed affermato” ha concluso
rappresentando che “Appare chiaro che il diritto di uso
pubblico diventa acquisito de iure allor quando il Comune
invochi, avochi ed imponga la servitù incontestata con
apposito atto amministrativo. A tutt'oggi niente vieta al
Comune di non invocare come necessario e come pretesa tale
diritto, (che comporrebbe tra l'altro ulteriori spese di
manutenzione), riconoscendo al legittimo proprietario la
piena fruibilità, senza vincolo dei propri beni.”.
Il Responsabile dell’Area Legale, dal canto suo, ha concluso
dicendo di essere “del parere che -manchino o sono
insufficienti- gli elementi fondamentali per ipotizzare una
servitù pubblica di passaggio sulla strada privata nel Borgo
di S. Marco, come individuata dagli istanti, sul doppio
presupposto che: 1)- gli attuali proprietari abbiano
dimostrato, con atti tra vivi o mortis causa, che essa sia
privata; 2)- che il palo venga immediatamente disattivato
dalla pubblica illuminazione e che i proprietari paghino una
somma forfetaria -calcolata dall'Ufficio Tecnico- a
ristoro della fornitura di energia dalla sua messa in opera
fino all'interruzione della fornitura.”.
Peraltro, in riferimento a detto palo, già con nota prot. n.
3300 del 23.02.2016 la stessa Responsabile dell’Area
Tecnica, firmataria del provvedimento oggetto di
impugnazione, aveva accolto la richiesta di eliminazione del
punto luce ubicato nella zona interessata, rappresentando di
aver dato inizio alle procedure amministrative propedeutiche
alla rimozione dello stesso.
Il Collegio, confermando quanto già sostenuto da questa
Sezione nell’ordinanza n. 2157 del 22.12.2016, con la
quale è stata accolta la domanda incidentale di sospensione
cautelare proposta dal ricorrente, e concordando con quanto
rappresentato nel parere n. 30 del 31.03.2016 dal
Responsabile dell’Area AA.GG., Legale e URP del Comune di
Teano, ritiene che non si ravvisino elementi certi circa la
sussistenza dell’uso pubblico della strada su cui insistono
le opere oggetto del provvedimento impugnato (cfr. TAR
Napoli, Sez. VIII, 06.12.2016, n. 5810).
Ed invero, alla luce delle risultanze dell’istruttoria, non
può ritenersi provato il requisito principale del passaggio
esercitato da una collettività di persone qualificate
dall'appartenenza ad un gruppo territoriale da tempo
immemorabile, non potendo ritenersi tale circostanza fondata
unicamente sulla presenza, nel passato, di un esercizio
commerciale di cui era titolare uno dei ricorrenti.
Ciò in
quanto la condivisibile giurisprudenza ritiene che, in
mancanza di espressa classificazione di una strada privata
nell'elenco delle strade vicinali, come risulta dalle
certificazioni del Comune di Teano prodotte in giudizio da
parte ricorrente, l'esercizio del potere di autotutela è
condizionato al preventivo rigoroso accertamento dell'uso
pubblico della strada da parte dell’amministrazione, il
quale deve essere condotto mediante un approfondito esame
della condizione effettiva in cui il bene si trova (cfr.
(TAR Palermo, Sez. II, 12.06.2013, n. 1322 cit.,
TAR Lazio, Sez. II, 29.03.2004, n. 2922).
E’, infatti
necessario, in mancanza di un atto valido a dimostrare la
sussistenza del diritto di uso pubblico, che il fatto della
protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile, quale
titolo parimenti idoneo a sorreggere l’affermazione di tale
diritto, venga rigorosamente provato da parte
dell’Amministrazione, su cui incombe il relativo onere (TAR
Marche, Ancona, Sez. I, 01.02.2016, n. 48).
Inoltre dalla documentazione anche fotografica, prodotta in
atti, emerge che tale strada e cieca e consente unicamente
l’accesso alla strada principale (via Aldo Moro), ma non si
rinviene l’oggettiva idoneità della strada stessa
all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella
necessità di uso per le esigenze della circolazione o per
raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici
pubblici); né risultano effettuati lavori di manutenzione
della strada stessa da parte dell’amministrazione comunale (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2017 n. 4233 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza
sindacale contingibile e urgente in questione, ovverosia
l’uso per pubblico transito della strada o l’esistenza di
altre ragioni che rendevano indispensabile il ripristino in
via d’urgenza della sua accessibilità, deve essere provata
dall’amministrazione che adotta il provvedimento.
Ciò tanto più in quanto il Comune in questione non ha
formalmente utilizzato il potere sindacale contemplato
dall'art. 378 l. n. 2248/1865 all. F, quale ipotesi di
autotutela possessoria “iuris publici” in tema di strade
sottoposte all'uso pubblico -che, in quanto tale, trova il
suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l'uso
pubblico della strada senza necessità di ulteriori
motivazioni- ma ha adottato una ordinanza contingibile e
urgente ai sensi dell’art. 54, comma 4, del D.Lgs. 267 del
2000, tipologicamente volta ad affrontare situazioni a
carattere straordinario ed imprevedibile, in rapporto alle
quali non sia possibile utilizzare gli ordinari strumenti
approntati dall'ordinamento giuridico, la cui sussistenza
deve essere suffragata da istruttoria adeguata e congrua
motivazione.
Inoltre, i requisiti affinché una strada possa essere
considerata pubblica sono il passaggio esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone
qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale e
la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di
generale interesse, anche per il collegamento con la
pubblica via, e il diritto di uso pubblico di una strada
deve essere rigorosamente provato.
---------------
2) Il secondo ricorso per motivi aggiunti si rivela
fondato.
L’ordine di rimozione si basa sui presupposti
logico-giuridici della natura di strada vicinale e dell’uso
pubblico della strada in questione, utilizzata dalla
collettività per l’accesso ad altri lotti e ai capannoni
industriali, nonché dell’esistenza di infrastrutture
pubbliche funzionali all’esercizio di servizi pubblici
essenziali per la popolazione.
La sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza
sindacale contingibile e urgente in questione, ovverosia
l’uso per pubblico transito della strada o l’esistenza di
altre ragioni che rendevano indispensabile il ripristino in
via d’urgenza della sua accessibilità, deve essere provata
dall’amministrazione che adotta il provvedimento.
Ciò tanto più in quanto il Comune in questione non ha
formalmente utilizzato il potere sindacale contemplato
dall'art. 378 l. n. 2248/1865 all. F, quale ipotesi di
autotutela possessoria “iuris publici” in tema di strade
sottoposte all'uso pubblico -che, in quanto tale, trova il
suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l'uso
pubblico della strada senza necessità di ulteriori
motivazioni- ma ha adottato una ordinanza contingibile e
urgente ai sensi dell’art. 54, comma 4, del D.Lgs. 267 del
2000, tipologicamente volta ad affrontare situazioni a
carattere straordinario ed imprevedibile, in rapporto alle
quali non sia possibile utilizzare gli ordinari strumenti
approntati dall'ordinamento giuridico, la cui sussistenza
deve essere suffragata da istruttoria adeguata e congrua
motivazione (Cons, Stato, Sez. V, 16/02/2010, n. 868).
Inoltre, i requisiti affinché una strada possa essere
considerata pubblica sono il passaggio esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone
qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale e
la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di
generale interesse, anche per il collegamento con la
pubblica via, e il diritto di uso pubblico di una strada
deve essere rigorosamente provato.
Nel caso di specie il Comune non ha provato la sussistenza
dell’uso pubblico della strada posto a base dell’ordinanza
impugnata, né specifiche ragioni di pubblica utilità
ostative all’installazione della sbarra.
La documentazione allegata dal medesimo Comune, e posta a
base dell’atto impugnato, difatti, non comprova che la
strada fosse stata stabilmente adibita a pubblico transito,
considerata anche la circostanza che si tratta di una strada
sostanzialmente chiusa e sulla quale si affacciano tre soli
lotti, né ha comprovato la presenza di infrastrutture
pubbliche e che l’impedimento alla libera transitabilità
pone a rischio l'incolumità pubblica, non essendo presente
sulla strada altro che il tratto di allaccio della rete
fognaria ai lotti in questione.
Inoltre, non appare chiara e di univoca lettura la
documentazione depositata inerente alla supposta
realizzazione da parte del Comune della strada in questione.
In sostanza, pertanto, si rileva la sussistenza del difetto
di istruttoria rispetto all’ordinanza adottata, non
risultando comprovati i presupposti necessari ai fini del
potere ripristinatorio dello stato dei luoghi esercitato (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 06.03.2017 n. 1289 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la
giurisprudenza, la destinazione di strade vicinali ad uso
pubblico necessariamente comporta il loro coinvolgimento in
un transito generalizzato con la conseguenza che, anche a
prescindere della proprietà del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze, il
Comune possa vantare sulla strada vicinale, ai sensi
dell'art. 825 c.c., un diritto reale di transito.
---------------
Nel disporre la verificazione la Sezione aveva declinato le
caratteristiche richieste perché le strade possano essere
definite strade vicinali, ossia:
- che siano interessate dal passaggio iure servitutis pubblicae da
parte della collettività sul territorio,
- che siano quindi concretamente idonee a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via, e
- che siano anche di fatto destinate a tale uso pubblico da tempo
immemorabile,
prescrivendo dunque che l’accertamento della natura della
strada predetta fosse effettuato non soltanto alla stregua
di quanto previsto nel relativo elenco e secondo le
risultanze catastali, bensì anche in relazione alle
caratteristiche effettive in cui la strada si trova,
verificando l’ubicazione della strada in seno a centri
abitati, l’impiego a transito generalizzato da parte della
collettività (e non da parte, per esempio, di singoli
proprietari di fondi prospicienti sulla strada medesima) in
maniera consolidata e duratura nel tempo, l’idoneità della
strada a fare da congiunzione fra altre strade pubbliche,
nonché le attività ordinariamente svolte dal Comune in
relazione alla gestione e manutenzione di essa.
Una strada vicinale può, infatti, considerarsi aperta al
pubblico transito, quando ricorrono i seguenti tre
presupposti:
a) il passaggio esercitato iure servitutis
publicae da una collettività indeterminata di persone
qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale;
b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per
il collegamento alla via pubblica, esigenze di interesse
generale;
c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione
del diritto di uso pubblico.
In particolare, l'accertamento in ordine all'effettiva
destinazione ad uso pubblico di una strada presuppone,
necessariamente, l'esistenza di un atto o di un fatto in
base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia
di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a
favore del medesimo ente sia costituita una servitù di uso
pubblico e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con
una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente
medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l'esplicarsi
di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione
programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o
ancora, l'intervento di atti di riconoscimento da parte
dell'Amministrazione stessa circa la funzione da essa
assolta.
---------------
4.2. Osserva il Collegio che la natura privata della strada in
questione, unita all’avvenuto accertamento della mancanza di
infrastrutture di servizio e della assenza dei requisiti per
essere classificata come strada aperta al pubblico transito,
alla stregua della disciplina dettata dal Codice della
strada, esclude in radice che il Comune di Leonessa possa
vantare alcuna pretesa sulla stessa né, tanto meno, che
possa ritenersi leso da quella che va qualificata attività
di recinzione di una proprietà privata, dunque
legittimamente posta in essere dall’Ente proprietario.
In proposito deve rammentarsi che la Sezione, fin
dall’ordinanza n. 2482 del 23.02.2016, aveva chiarito
che, secondo la giurisprudenza, la destinazione di strade
vicinali ad uso pubblico necessariamente comporta il loro
coinvolgimento in un transito generalizzato con la
conseguenza che, anche a prescindere della proprietà del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze, il
Comune possa vantare sulla strada vicinale, ai sensi
dell'art. 825 c.c., un diritto reale di transito (cfr. Cons.
Stato IV, 21.09.2015, n. 4398).
Pertanto, nel disporre la verificazione, la Sezione aveva
declinato le caratteristiche richieste perché le strade
possano essere definite strade vicinali, ossia che siano
interessate dal passaggio iure servitutis pubblicae da parte
della collettività sul territorio, che siano quindi
concretamente idonee a soddisfare esigenze di carattere
generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e
che siano anche di fatto destinate a tale uso pubblico da
tempo immemorabile, prescrivendo dunque che l’accertamento
della natura della strada predetta fosse effettuato non
soltanto alla stregua di quanto previsto nel relativo elenco
e secondo le risultanze catastali, bensì anche in relazione
alle caratteristiche effettive in cui la strada si trova,
verificando l’ubicazione della strada in seno a centri
abitati, l’impiego a transito generalizzato da parte della
collettività (e non da parte, per esempio, di singoli
proprietari di fondi prospicienti sulla strada medesima) in
maniera consolidata e duratura nel tempo, l’idoneità della
strada a fare da congiunzione fra altre strade pubbliche,
nonché le attività ordinariamente svolte dal Comune in
relazione alla gestione e manutenzione di essa.
Una strada vicinale può, infatti, considerarsi aperta al
pubblico transito, quando ricorrono i seguenti tre
presupposti:
a) il passaggio esercitato iure servitutis
publicae da una collettività indeterminata di persone
qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale;
b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per
il collegamento alla via pubblica, esigenze di interesse
generale;
c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione
del diritto di uso pubblico.
In particolare, l'accertamento
in ordine all'effettiva destinazione ad uso pubblico di una
strada presuppone, necessariamente, l'esistenza di un atto o
di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui
essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico
territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia
costituita una servitù di uso pubblico e che la stessa sia
destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà
espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia
sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto del transito
del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua
destinazione a strada pubblica, o ancora, l'intervento di
atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione stessa
circa la funzione da essa assolta (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. VI, 03.08.2016, n. 4013).
La relazione del verificatore ha dato risposta esaustiva e
documentata ai quesiti posti dall’ordinanza, escludendo la
sussistenza di tutti i richiamati presupposti perché la
strada in esame possa considerarsi strada vicinale di uso
pubblico: infatti, ferma restando la proprietà della strada
in capo al Comune di L’Aquila, circostanza non contestata,
il Collegio osserva che, anche dai rilievi fotografici
prodotti a corredo della relazione, è agevole verificare
ictu oculi che si tratta di un tratturo non adatto al
pubblico transito e, comunque, privo di segni visibili sia
di un abituale transito di veicoli sia di infrastrutture o
di attività di manutenzione della strada da parte del
Comune.
4.3. Da quanto precede discende l’illegittimità
dell’ordinanza di rimozione impugnata, poiché adottata dal
Comune di Leonessa in radicale assenza del presupposto
fondante, ossia che la sbarra impedisca la fruibilità della
strada, che erroneamente ha qualificato come vicinale di uso
pubblico, nonché il raggiungimento di fontanili ed acque,
anche in questo caso erroneamente qualificati come pubblici.
Conclusivamente, assorbiti gli ulteriori motivi, il ricorso
deve essere accolto e, per l’effetto, l’atto impugnato deve
essere annullato.
All’annullamento dell’ordinanza di rimozione consegue, quale
effetto conformativo, il ripristino della sbarra
illegittimamente rimossa, a cura e spese del Comune di
Leonessa (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 17.02.2017 n. 2571 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La PA deve operare accertamenti in ordine alla
sussistenza di un eventuale uso pubblico pregresso nonché in
ordine alla concreta idoneità della strada a soddisfare
attualmente esigenze di pubblica utilità, condotte mediante
un approfondito esame della condizione effettiva in cui il
bene si trova.
Sicché, è illegittimo il comportamento comunale che si limita a
desumere apoditticamente l'uso pubblico dal fatto che il
passaggio venga esercitato nell'interesse di un gruppo
limitato di soggetti, quali i proprietari degli immobili
confinanti nonché coloro che devono recarsi alla centralina
idroelettrica, costruita a seguito di procedure ablative che
non hanno interessato la suddetta stradina e che avrebbero
dovuto, se del caso, interessarla, in presenza di eventuali
connesse esigenze di pubblica utilità.
Non risulta, dunque, dimostrato che la stradina in questione
sia al servizio della generalità indifferenziata dei
cittadini uti cives e non uti singuli e non risulta neanche
comprovata l’utilizzazione continuativa da parte dei soli
residenti che se ne servono per raggiungere i fondi.
Nel caso di specie, quindi, non vengono indicati elementi
presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e
concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c. e neanche viene
indicata la concreta idoneità della strada a soddisfare
attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di
dimostrare l’asservimento della stradella in questione
all'uso pubblico.
Rafforza tale significativo quadro fattuale la circostanza
inerente l’omesso inserimento della strada in questione
nell’elenco comunale, come confermato dallo stesso Comune
resistente, anche a voler prescindere dalla considerazione
secondo cui detta inclusione, ai sensi dell'art. 8 della
legge n. 126 del 1958, non risulta dirimente, ha natura
dichiarativa e non costitutiva ed ha carattere di mera
presunzione di demanialità, ai sensi dell'art. 22 della
legge n. 2248 del 1865, all. F, superabile con la prova
contraria dell'inesistenza di un diritto di godimento da
parte della collettività mediante un'azione negatoria di
servitù.
---------------
Viene impugnata l’epigrafata ordinanza, con cui viene
imposto al ricorrente di rimuovere una sbarra metallica,
apposta dal ricorrente sul tratto di strada privata
denominato “Taverna-Monti”, di proprietà del
ricorrente.
In punto di fatto, non risulta in contestazione che la
stradella in questione sia mai stata rilevata o censita,
come ammesso dallo stesso Comune con nota prot. 2545 del
24.11.2008, sebbene sia utilizzata dai proprietari dei vari
fondi agricoli limitrofi e serva per arrivare alla
Centralina Idroelettrica Comunale, realizzata mediante
procedure ablative che non hanno interessato il sito su cui
sorge detta stradina.
Risulta altresì che pende presso il Tribunale di Cosenza un
giudizio civile, intrapreso dal ricorrente con citazione del
09.03.2006 nei confronti del Comune.
Non risulta che la P.A. abbia posto a fondamento del
provvedimento impugnato idonei accertamenti in ordine alla
sussistenza di un eventuale uso pubblico pregresso nonché in
ordine alla concreta idoneità della strada a soddisfare
attualmente esigenze di pubblica utilità, condotte mediante
un approfondito esame della condizione effettiva in cui il
bene si trova (conf.: Cons. St., Sez. V, 07.04.1995, n. 522;
Tar Lombardia, Brescia, 07.09.1999, n. 769; TAR Sardegna,
21.12.2000, n. 1246; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 29.03.2004,
n. 2922 TAR Valle d'Aosta, I, n. 86/2009), limitandosi a
desumere apoditticamente l'uso pubblico dal fatto che il
passaggio venga esercitato nell'interesse di un gruppo
limitato di soggetti, quali i proprietari degli immobili
confinanti nonché coloro che devono recarsi alla centralina
idroelettrica, costruita a seguito di procedure ablative che
non hanno interessato la suddetta stradina e che avrebbero
dovuto, se del caso, interessarla, in presenza di eventuali
connesse esigenze di pubblica utilità.
Non risulta, dunque, dimostrato che la stradina in questione
sia al servizio della generalità indifferenziata dei
cittadini uti cives e non uti singuli e non
risulta neanche comprovata l’utilizzazione continuativa da
parte dei soli residenti che se ne servono per raggiungere i
fondi.
Nel caso di specie, quindi, non vengono indicati elementi
presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e
concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c. e neanche viene
indicata la concreta idoneità della strada a soddisfare
attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di
dimostrare l’asservimento della stradella in questione
all'uso pubblico.
Rafforza tale significativo quadro fattuale la circostanza
inerente l’omesso inserimento della strada in questione
nell’elenco comunale, come confermato dallo stesso Comune
resistente, anche a voler prescindere dalla considerazione
secondo cui detta inclusione, ai sensi dell'art. 8 della
legge n. 126 del 1958, non risulta dirimente, ha natura
dichiarativa e non costitutiva ed ha carattere di mera
presunzione di demanialità, ai sensi dell'art. 22 della
legge n. 2248 del 1865, all. F, superabile con la prova
contraria dell'inesistenza di un diritto di godimento da
parte della collettività mediante un'azione negatoria di
servitù (Cass. Civ., Sez. Un., 27.01.2010, n. 1624; Cass.
Civ., Sez. II, 09.11.2009, n. 23705).
Ritiene, dunque, il Collegio che, in punto di fatto, risulti
ammessa la natura privata della strada in questione e non
risulta dimostrata alcuna situazione di demanialità o di uso
pubblico nel caso di specie, sebbene in via di fatto la
stradina sia ritenuta molto utile per accedere alla centrale
comunale idroelettrica: ma tanto non basta a consentire al
Comune l’esercizio di poteri autoritativi, nei confronti del
ricorrente, in assenza di atti ablativi, né tanto meno
mediante lo strumento atipico dell’ordinanza contingibile ed
urgente, difettandone, nella specie, ab imis i
presupposti legittimanti (sebbene il ricorso non sia
incentrato su questo aspetto).
In definitiva, gli elementi acquisiti al giudizio depongono
per la fondatezza del gravame.
In definitiva, il ricorso si appalesa fondato e va accolto
e, per l’effetto, va annullato il provvedimento impugnato,
fatti salvi gli ulteriori e legittimi provvedimenti
dell’Autorità Amministrativa (TAR Calabria-Catanzaro, Sez.
I,
sentenza 08.02.2012 n. 157 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
|
Che i giudici
si mettessero d'accordo, una vota per tutte, rimettendo la quaestio juris
all'Adunanza Plenaria del CdS!! |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la
relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza
momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno
stato di quiescenza.
Ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o all’emissione di un
esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali gli effetti
sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una nuova
ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di
ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di
condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
---------------
4. La ricorrente ritiene, inoltre, che la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001, depositata in data
07.08.2007, avrebbe avuto l’effetto di rendere illegittima l’ordinanza de
qua.
La censura è infondata.
Infatti, per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la
relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza
momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno
stato di quiescenza; ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o
all’emissione di un esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali
gli effetti sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una
nuova ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di
ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di
condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
Nel caso in questione, è maturato il diniego tacito (che peraltro non è
stato gravato), sulla domanda di sanatoria presentata dalla ricorrente, per
cui l’ordinanza di demolizione è efficace e priva dei vizi sollevati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 02.12.2019 n. 13763 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposizione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere
abusive produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace la misura
ripristinatoria, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di
un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda
di sanatoria, e in questo secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine
di rimozione degli abusi, con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere.
In altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di
demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo edilizio in
sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di ripristino
dello stato dei luoghi.
Pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di conformità
successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso improcedibile,
non essendovi più alcun interesse alla decisione relativamente ad atto
divenuto medio tempore inefficace e quindi non più idoneo a ledere
l’interesse della parte ricorrente.
In conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato improcedibile, a fronte
della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 quando
già era stato proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi
trasposto in sede giurisdizionale.
---------------
Ritenuto:
- che si presenta assorbente di ogni altra questione la circostanza
che nelle more del giudizio l’interessato abbia presentato istanza di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
- che, secondo un orientamento giurisprudenziale già fatto proprio
dalla Sezione (v., tra le altre, sentt. n. 2635 del 23.11.2018 e n. 665 del
27.03.2019), la proposizione di una simile istanza –successivamente
all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive– produce l’effetto di
rendere definitivamente inefficace la misura ripristinatoria, essendo
comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento,
che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo
secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine di rimozione degli abusi,
con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere;
- che, in altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo
edilizio in sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di
ripristino dello stato dei luoghi (v. TAR Umbria 10.12.2018 n. 672; TAR
Puglia, Lecce, Sez. III, 18.05.2018 n. 827);
- che, pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di
conformità successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso
improcedibile, non essendovi più alcun interesse alla decisione
relativamente ad atto divenuto medio tempore inefficace e quindi non più
idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente (v. TAR Veneto, Sez. II,
30.07.2019 n. 901);
- che, in conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato
improcedibile, a fronte della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 quando già era stato proposto ricorso straordinario al Capo
dello Stato, poi trasposto in sede giurisdizionale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.11.2019 n. 2544 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria di
un abuso edilizio non determina alcuna
inefficacia sopravvenuta o invalidità di
sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma
solo la temporanea sospensione della sua
esecuzione.
In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria
l’amministrazione non deve quindi reiterare
l’ordine di demolizione, altrimenti
finendosi per riconoscere in capo al
privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio,
il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale suo annullamento, quel medesimo
provvedimento.
Ne consegue che la presentazione
dell’istanza di sanatoria dell’intervento
edilizio non determina l’improcedibilità del
ricorso principale, poiché l’ordine
demolitorio avversato mantiene la sua
efficacia e lesività, con conseguente
necessità di esaminare le doglianze in
merito sollevate dall’esponente.
---------------
1. L’odierno ricorrente, che ha realizzato
una veranda attrezzata antistante il locale
ove esercita l’attività di somministrazione
di alimenti e bevande, contesta la
legittimità dell’ordinanza di demolizione
del manufatto e del successivo diniego di
rilascio del titolo edilizio in sanatoria.
2. Deve essere esaminato preliminarmente il
ricorso principale, in adesione
all’orientamento secondo il quale la
presentazione dell'istanza di sanatoria di
un abuso edilizio non determina alcuna
inefficacia sopravvenuta o invalidità di
sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma
solo la temporanea sospensione della sua
esecuzione. In caso di rigetto dell’istanza
di sanatoria l’amministrazione non deve
quindi reiterare l’ordine di demolizione,
altrimenti finendosi per riconoscere in capo
al privato, destinatario del provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale suo annullamento,
quel medesimo provvedimento (in termini
Cons. Stato, sez. II, 24.06.2019, n.
4304, Cons. Stato, Sez. IV, 05.11.2018,
n. 6233).
Ne consegue che la presentazione
dell’istanza di sanatoria dell’intervento
edilizio non determina l’improcedibilità del
ricorso principale, poiché l’ordine
demolitorio avversato mantiene la sua
efficacia e lesività, con conseguente
necessità di esaminare le doglianze in
merito sollevate dall’esponente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.11.2019 n.
990 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria sorge in capo
all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi nuovamente in modo espresso o
tacito sulla predetta istanza e, in caso di reiezione della stessa (come
avvenuto nella specie), dovrà poi adottare un nuovo provvedimento
sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione
dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa
di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione
della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività
dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà
adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un
nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione
dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio,
essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle
sanzioni acquisitive eventualmente già adottate.
---------------
1. Deve essere preliminarmente vagliata l’eccezione di improcedibilità del
ricorso introduttivo –proposto avverso l’ordine di demolizione– a seguito
della proposizione di istanza di sanatoria (nella specie ex art. 36 d.P.R.
n. 380/2001).
L’eccezione è fondata.
Come già affermato dalla Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 03.05.2019, n. 1003), in seguito alla presentazione
dell’istanza di sanatoria sorge in capo all’Amministrazione l’obbligo di
pronunciarsi nuovamente in modo espresso o tacito sulla predetta istanza e,
in caso di reiezione della stessa (come avvenuto nella specie), dovrà poi
adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione
dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa
di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione
della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività
dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa. Infatti nell’ipotesi di rigetto
dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento
sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del
pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più
interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato
abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente
già adottate (cfr., TAR Lombardia, Milano, II, 23.11.2018, n. 2635; TAR
Lombardia, Brescia, I, 10.07.2017, n. 904; TAR Molise, I, 26.02.2016, n.
105).
Nel caso di specie, il Comune ha espressamente provveduto, in maniera
negativa, sull’istanza di sanatoria, sicché relativamente alle opere in
parola dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, nei confronti
del quale le parti interessate potranno far valere le loro eventuali
doglianze.
In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.11.2019 n. 2381 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca
successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La
presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi,
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto
sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto),
che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere
spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello
assegnato in precedenza).
---------------
9. La difesa del Comune ha dato,
altresì, atto della presentazione di una DIA in sanatoria ai sensi dell’art.
37 del DPR n. 380/2001 con riferimento alla “serranda e vetrata con porta al
locale portico e scala” oggetto di contestazione, puntualizzando, nella
memoria depositata il 07.09.2013, che “tali denunce sono in corso
trattazione”.
Sul tema della sorte processuale del ricorso avverso l’ordinanza di
demolizione seguita da un’istanza di sanatoria ai sensi degli articoli 36 e
37 del DPR 380/2001, è principio acquisito nella giurisprudenza di questa
Sezione quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca
successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La
presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi,
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto
sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto),
che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere
spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello
assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria, 24.08.2019, n. 511; 17.09.2018, n. 559; 03.07.2018, n. 406).
Il ricorso è, pertanto, anche per questa parte improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse in ragione della presentazione,
successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione, di una DIA in
sanatoria per le opere di realizzazione della “serranda e vetrata con porta
al locale portico e scala”
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne
l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria
emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque
a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di
positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla
definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della
stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio.
Ne consegue, “da un lato, che è preclusa
all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e,
dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza
di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”,
con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere.
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di
sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione,
successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di
conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 ovvero di
domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali
temporanee laddove si è
ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria
per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive
leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione
dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in
precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro
rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di
sanatoria”.
---------------
Per giurisprudenza costante:
1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo
dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione
degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che
l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un
abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di
demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta
di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima,
è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa
prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale
effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza
dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò
che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere
una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in
mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001
vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere
abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi
eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di
costruire”;
2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla
proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto
inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la
conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non
hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo
provvedimento repressivo”;
3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente
all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti,
determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso”>>.
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze
pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel
demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a
(successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i
presupposti per il suo rilascio”.
---------------
1. - L’impugnata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 -
Protocollo Generale n. 24219 è divenuta inefficace e ha perso la propria
capacità lesiva della sfera giuridica dei ricorrenti, in quanto gli stessi,
successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione impugnata ed
alla proposizione del presente ricorso, hanno presentato -in data 16.12.2013- istanza di sanatoria, ex art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.1 - Ed invero, il Collegio non ravvisa, allo stato, ragioni per
discostarsi dalla <<giurisprudenza consolidata di questa Sezione, secondo
cui <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne
l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria
emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque
a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di
positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla
definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della
stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione
oggetto dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266).
Ne consegue, “da un lato, che è preclusa
all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e,
dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza
di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR
Puglia, Lecce, III, 19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce,
Sezione Terza, 12.04.2018, n. 628, idem, 30.09.2016, n. 1512),
con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere>> (TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.06.2019, n. 1061).
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di
sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione,
successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di
conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 (<<cfr. TAR
Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137, che espressamente
richiama, “ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez.
VI, 12.11.2008, n. 5646; 07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n.
1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n.
172; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472;
07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n.
4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243;
sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315;
07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n.
1519; Salerno, sez. I, 23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
21.02.2009, n. 258; 04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte, Torino, sez.
I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n. 885; TAR Lazio, Roma, sez.
I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche,
Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691”), ovvero di
domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali
temporanee (v. Consiglio di Stato, V, 19.04.2013, n. 2221, con cui si è
ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria
per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle
successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi
dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di
una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto
dell'istanza di sanatoria”)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 24.10.2017, n. 1649).
Per giurisprudenza costante di questa Sezione (cfr., da ultimo, TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 28.01.2019, n. 154, 18.03.2019, n. 447
e giurisprudenza ivi citata - “ex multis, TAR Puglia-Lecce, n.
1454/2013, n. 1956/2017, n. 1388/2017, n. 69/2018, n. 706/2018”), da cui,
allo stato, non si ravvisa ragioni per discostarsi:
1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo
dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione
degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che
l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un
abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di
demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta
di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima,
è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa
prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale
effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza
dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò
che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere
una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in
mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001
vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere
abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi
eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di
costruire” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 13.01.2011, n. 11;
TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909);
2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla
proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto
inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la
conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non
hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo
provvedimento repressivo” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.09.2013, n. 1938);
3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente
all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti,
determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso” (ex multis,
TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 01.08.2012 n. 1447...” )>> (TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.09.2014, n. 2342).
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze
pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel
demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a
(successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i
presupposti per il suo rilascio” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909).
1.2 - Orbene, nel caso in esame, il Collegio, rilevata la piana
ascrivibilità della vicenda concreta de qua alla terza delle sopra indicate
fattispecie, ribadisce che, nell’ipotesi di presentazione dell’istanza di
sanatoria edilizia successivamente all’ordine di demolizione e
all’impugnazione del medesimo, l’interesse del responsabile dell’abuso si
concentra sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di
sanatoria, prima, e di demolizione, poi (ex plurimis, TAR Campania,
Napoli, Sezione Ottava, 08.03.2012, n. 1202): pertanto, in caso di
reiezione dell’istanza (come avvenuto nella specie, giusta diniego prot. n.
8737/2014, impugnato innanzi a questo TAR con il giudizio avente nr. R.G.
1557/2014), l’Amministrazione dovrà emanare un nuovo provvedimento
sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell’opera edilizia
ritenuta abusiva, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
1.3 - In conclusione, la gravata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 - Protocollo Generale n. 24219 ha perso la propria
efficacia lesiva: non essendovi, quindi, attualmente, pregiudizio per i
ricorrenti e non permanendo, quindi, l’interesse all’impugnazione, il
ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, come da esplicita richiesta in tal senso presentata dai medesimi
ricorrenti in data 18.06.2019
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 29.10.2019 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro:
è illecito mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente. Dopo la
cessazione del rapporto di lavoro la società aveva avuto anche accesso alle
e-mail.
Commette un illecito la società che mantiene attivo
l’account di posta aziendale di un dipendente dopo l’interruzione del
rapporto di lavoro e accede alle mail contenute nella sua casella di posta
elettronica. La protezione della vita privata si estende anche all’ambito
lavorativo.
Questi i principi ribaditi dal Garante per la privacy (provvedimento
04.12.2019 n. 216) nel definire il reclamo di un dipendente che
lamentava la violazione della disciplina sulla protezione dei dati da parte
della società presso la quale aveva lavorato.
L’ex dipendente contestava, in particolare, alla società la mancata
disattivazione della e-mail aziendale e l’accesso ai messaggi ricevuti sul
suo account. L’interessato era venuto a conoscenza di questi fatti per caso,
nel corso di un giudizio davanti al giudice del lavoro promosso nei suoi
confronti dalla sua ex azienda, avendo quest’ultima depositato agli atti una
e-mail giunta sulla sua casella di posta un anno dopo la cessazione dal
servizio.
Dagli accertamenti svolti dall’Autorità è emerso che l’account di posta era
rimasto attivo per oltre un anno e mezzo dopo la conclusone del rapporto di
lavoro prima della sua eliminazione, avvenuta solo dopo la diffida
presentata dal lavoratore. In questo periodo la società aveva avuto accesso
alle comunicazioni che vi erano pervenute, alcune anche estranee
all’attività lavorativa del dipendente.
Il Garante ha ritenuto illecite le modalità adottate dalla società perché
non conformi ai principi sulla protezione dei dati, che impongono al datore
di lavoro la tutela della riservatezza anche dell’ex lavoratore. Subito dopo
la cessazione del rapporto di lavoro, un’azienda deve infatti rimuovere gli
account di posta elettronica riconducibili a un dipendente, adottare sistemi
automatici con indirizzi alternativi a chi contatta la casella di posta e
introdurre accorgimenti tecnici per impedire la visualizzazione dei messaggi
in arrivo.
L’adozione di tali misure tecnologiche -ha spiegato il Garante- consente di
contemperare l’interesse del datore di lavoro di accedere alle informazioni
necessarie alla gestione della propria attività con la legittima aspettativa
di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori
oltre che di terzi. Lo scambio di e-mail con altri dipendenti o con persone
esterne all’azienda consente infatti di conoscere informazioni personali
relative al lavoratore, anche solamente dalla visualizzazione dei dati
esterni delle comunicazioni (data, ora oggetto, nominativi di mittenti e
destinatari).
Oltre a dichiarare l’illecito trattamento, il Garante ha quindi ammonito la
società a conformare i trattamenti effettuati sugli account di posta
elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro alle
disposizioni e ai principi sulla protezione dei dati ed ha disposto
l’iscrizione del provvedimento nel registro interno delle violazioni
istituito presso l’Autorità. Tale iscrizione costituisce un precedente per
la valutazione di eventuali future violazioni (commento tratto da e link a
www.gpdp.it).
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MASSIMA
RILEVATO che, in base alle risultanze dell’attività
istruttoria, è emerso che la società, dopo la cessazione del rapporto di
lavoro con il reclamante avvenuta il 10.09.2016, ha mantenuto attivo
l’account di posta elettronica individualizzato assegnato al dipendente, al
dichiarato fine di non perdere contatti utili con i clienti che avessero
voluto mantenere rapporti commerciali con la società; alcune informazioni in
tal modo raccolte sono state utilizzate nell’ambito di un procedimento
avviato successivamente all’inizio della raccolta dei dati (con ricorso del
29.06.2017, notificato all’ex dipendente l’11.07.2017) in sede
giurisdizionale nei confronti del reclamante −in particolare mediante
deposito in giudizio di una e-mail pervenuta sull’account il 12.09.2017− per
l’ulteriore e sopravvenuta finalità di difesa di propri diritti;
RILEVATO pertanto che l’account aziendale è rimasto attivo per un
periodo di tempo significativo (pari a circa un anno e sette mesi, durante
il quale la società ha acceduto alle comunicazioni ivi pervenute), fino alla
cancellazione effettuata dalla società (il 03.05.2018) a seguito della
diffida presentata dal reclamante;
RILEVATO altresì che, in relazione a tale modalità di trattamento
dei dati relativi all’ex dipendente, si prende atto che la società ha
dichiarato di aver previamente comunicato “verbalmente” al reclamante
il trattamento connesso al suo indirizzo di posta elettronica, e che ciò non
costituisce elemento idoneo a documentare l’avvenuto adempimento da parte
della società dell’obbligo informativo che l’ordinamento pone in capo al
titolare del trattamento;
RITENUTO che il titolare è tenuto ad informare preventivamente i
dipendenti circa le caratteristiche essenziali dei trattamenti che intende
effettuare, anche con riferimento all’utilizzo di strumenti messi a
disposizione nell’ambito del rapporto di lavoro, ciò anche in applicazione
del principio di correttezza (v. artt. 11, comma 1, lett. a) e 13 del
Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo, criteri
peraltro confluiti negli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del Regolamento);
RITENUTO che, conformemente al costante
orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, la protezione della
vita privata si estende anche all’ambito lavorativo
(v. Niemietz c. Allemagne, 16.12.1992 (ric. n. 13710/88), spec. par. 29;
Copland v. UK, 03.04.2007 (ric. n. 62617/00), spec. par. 41; Bărbulescu v.
Romania [GC], 05.09.2017 (ric. n. 61496/08), spec. par. 70-73; Antović and
Mirković v. Montenegro, 28.11.2017 (ric. n. 70838/13), spec. par. 41-42);
RILEVATO che lo scambio di corrispondenza
elettronica (estranea o meno all’attività lavorativa) su un account di tipo
individualizzato con soggetti interni o esterni alla compagine aziendale
configura un’operazione che consente di conoscere alcune informazioni
personali relative all’interessato, anche relativamente ai dati c.d. esterni
delle comunicazioni (data, ora, oggetto, nominativi di mittenti e
destinatari) (v.
Provv. 27.11.2014,
n. 551, doc. web n. 3718714);
VISTO, a tale ultimo proposito, che l’elenco delle comunicazioni
ricevute sull’account aziendale riferito al reclamante dopo la cessazione
del rapporto di lavoro contiene anche messaggi che, in base a quanto si
evince dall’indicazione del mittente e dell’oggetto, non sono riferibili
all’attività professionale dell’ex dipendente (ad es. inviti ricevuti sul
social LinkedIn, inviti ad iniziative culturali, pubblicità di un istituto
bancario alla clientela: v. reclamo 31.10.2018, All. 10);
RILEVATO altresì che nel provvedimento contenente le "Linee
guida del Garante per posta elettronica e Internet" (adottato
dall´Autorità il 01.03.2007 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 58 del
10.03.2007), il Garante ha ritenuto che "il contenuto
dei messaggi di posta elettronica –come pure i dati esteriori delle
comunicazioni e i file allegati- riguardano forme di corrispondenza
assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente, la
cui ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità umana e
il pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali"
(punto 5.2 lett. b) e che ciò, trasposto in ambito
lavorativo, comporta la possibilità che il lavoratore o soggetti terzi
coinvolti (i cui diritti devono essere parimenti tutelati), possano vantare
una legittima aspettativa di riservatezza su talune forme di comunicazione;
rilevato che tali esigenze di tutela devono essere tenute
in considerazione anche nell´ipotesi in cui venga a cessare il rapporto di
lavoro tra le parti;
RITENUTO, in particolare, che il datore di lavoro,
in conformità ai principi in materia di protezione dei dati personali, dopo
la cessazione del rapporto di lavoro debba rimuovere gli account di posta
elettronica aziendali riconducibili a persone identificate o identificabili
(in un tempo ragionevole commisurato ai tempi tecnici di predisposizione
delle misure), previa disattivazione degli stessi e
contestuale adozione di sistemi automatici volti ad informarne i terzi ed a
fornire a questi ultimi indirizzi alternativi riferiti all’attività
professionale del titolare del trattamento, provvedendo altresì ad adottare
misure idonee ad impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo durante
il periodo in cui tale sistema automatico è in funzione; l’adozione di tali
misure tecnologiche ed organizzative consente di contemperare l’interesse
del titolare ad accedere alle informazioni necessarie all’efficiente
gestione della propria attività e a garantirne la continuità con la
legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di
dipendenti/collaboratori nonché dei terzi
(v., da ultimo, provv.to 01.02.2018, n. 53, in www.garanteprivacy.it,
doc. web n. 8159221.
Si veda anche il provv. 05.03.2015, n. 136,
doc. web n. 3985524
e il citato provv. 27.11.2014, n. 551; nello stesso senso v. Raccomandazione
CM/Rec(2015)5 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sul trattamento di
dati personali nel contesto occupazionale, spec. par. 14.5);
RITENUTO che non risulta conforme ai suesposti
principi la prassi già adottata dalla società, consistente nel reindirizzare
automaticamente -per un periodo di tempo anche assai ampio- i messaggi
pervenuti sull’account dell’ex dipendente su un diverso account aziendale,
tenuto conto peraltro che il ricorso della società nei confronti del
reclamante davanti all’autorità giudiziaria ordinaria (in relazione a
ritenute condotte illecite effettuate in violazione del patto di non
concorrenza) è stato presentato in data successiva al reindirizzo
dell’account; tale trattamento è pertanto avvenuto in violazione dei
principi di liceità, necessità e proporzionalità (v. art. 11, comma 1, lett.
d) del Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo,
criterio peraltro confluito nell’art. 5, par. 1, lett. c) del Regolamento);
PRESO ATTO, con riguardo alla richiesta del reclamante di “imporre
il divieto del trattamento illegittimo” consistente nella persistente
attività dell’account a lui riferito, che la società ha affermato –con
dichiarazione della quale può essere chiamata a rispondere ai sensi
dell’art. 168 del Codice, “Falsità nelle dichiarazioni al Garante e
interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio dei poteri del
Garante”– di aver disposto la disattivazione dell’account a far data dal
03.05.2018 (dunque prima della proposizione del reclamo al Garante, sebbene
in sede di riscontro all’interpello presentato il 24.04.2018, la società
abbia dichiarato al reclamante che avrebbe provveduto alla disattivazione
solo dopo che quest’ultimo avesse comunicato ai clienti della società gli
estremi del nuovo account per contattare la società; v. nota 15.5.2018, All.
10, reclamo 05.02.2019 cit.);
RITENUTO pertanto che, relativamente a tale istanza, non vi siano i
presupposti per l’adozione di misure correttive da parte dell’Autorità;
VISTO che, in base a quanto dichiarato all’Autorità, la società
allo stato ha adottato un regolamento interno in base al quale subito dopo
la cessazione del rapporto di lavoro l’account aziendale è disattivato con
contestuale adozione di un messaggio automatico volto ad informarne i terzi
e a indicare un account alternativo per contattare la società;
PRESO ATTO, con riguardo all’istanza di accesso alle comunicazioni
pervenute sull’account di posta elettronica aziendale riferito al reclamante
−formulata con il menzionato interpello del 24.04.2018−, che la società ha
inviato al reclamante un sufficiente riscontro in allegato alla nota del
15.05.2018;
RITENUTO pertanto che, anche relativamente a tale istanza,
considerata pure l’assenza di controdeduzioni del reclamante sul punto, non
vi siano i presupposti per l’adozione di provvedimenti da parte
dell’Autorità;
RITENUTO che il reclamo sia fondato in relazione
alla prospettata illiceità del trattamento,
allo stato non più in essere, consistente nella prolungata
attività dell’account di posta aziendale riferito al reclamante dopo la
cessazione del rapporto di lavoro ed all’accesso ai messaggi ivi pervenuti,
peraltro in assenza di una policy aziendale resa nota ai dipendenti
al riguardo;
RITENUTO che ricorrano i presupposti di cui all’art. 17 del
Regolamento n. 1/2019 concernente le procedure interne aventi rilevanza
esterna, finalizzate allo svolgimento dei compiti e all’esercizio dei poteri
demandati al Garante;
...
TUTTO CIÒ PREMESSO
ai sensi dell’art. 57, par. 1, lett. f) e 58, par. 2, lett. b) del
Regolamento, dichiara illecito il trattamento descritto nei
termini di cui in motivazione, consistente nella persistente attività
dell’account aziendale individualizzato per un ampio periodo di tempo dopo
l’interruzione del rapporto di lavoro, con contestuale accesso ai messaggi
ivi pervenuti, ed ammonisce Im.It. S.r.l. sulla necessità di conformare i
trattamenti effettuati sugli account di posta elettronica aziendale dopo la
cessazione del rapporto di lavoro alle disposizioni ed ai principi in
materia di protezione dei dati personali indicati in motivazione. |
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IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Obblighi
di bonifica per inquinamenti provocati prima
del d.lgs. n. 22/1997.
Il TAR Milano, con
riferimento alla problematica concernente
gli inquinamenti provocati prima
dell’entrata in vigore dell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (norma che per la
prima volta ha introdotto l’obbligo di
bonifica o messa in sicurezza dei siti
inquinati) aderisce al prevalente
orientamento secondo cui la normativa
contenuta nell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del
1997 e negli artt. 239 e seguenti del
decreto legislativo n. 152 del 2006 non ha
in realtà introdotto una nuova figura di
illecito, ma si è limitata a regolare
diversamente le conseguenze dell’illecito
ambientale, figura che rientra in quella più
ampia dell’illecito civile disciplinata
dagli artt. 2043 e segg. cod. civ., la quale
peraltro aveva già trovato speciale
disciplina con l’art. 18, comma 8, della
legge n. 349 del 1986.
In particolare, la nuova normativa,
considerata la rilevanza dell’interesse leso
in caso di danno ambientale, ha inteso dare
prevalenza al rimedio del risarcimento in
forma specifica (bonifica e messa in
sicurezza) rispetto al risarcimento per
equivalente.
Tale assunto porta ad affermare, secondo il
TAR, che i danni ambientali provocati prima
dell’entrata in vigore del citato art. 17
del d.lgs. n. 22 del 1997 hanno comunque
determinato, in virtù della normativa
generale contenuta negli artt. 2043 e segg.
cod. civ., la nascita dell’obbligo di porvi
rimedio, obbligo che oggi è definito nella
sua struttura dagli artt. 239 e segg. del
d.lgs. n. 152 del 2006, applicabili anche
con riferimento alle condotte poste in
essere prima della loro entrata in vigore
stante il carattere permanente dell’illecito
di cui si discute
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 02.12.2019 n. 2562 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
Come noto, il principio cardine sul quale è
stato costruito il sistema normativo in
materia di inquinamento ambientale è il
principio “chi inquina paga”, sancito
dall’art. 191, par. 2, TFUE, in base al
quale è tenuto ad attuare gli interventi di
rimedio all’inquinamento il soggetto che lo
ha provocato. A questo principio è stata
data attuazione, a livello comunitario, con
la direttiva 2004/35/CE e, a livello
nazionale, con gli artt. 3-ter e 239 e
seguenti del d.lgs. n. 152 del 2006.
In particolare, l’art. 244, secondo comma,
del d.lgs. n. 152 del 2006 attribuisce alle
province il compito di effettuare indagini
volte ad identificare il responsabile
dell’inquinamento al quale deve essere
ordinata l’esecuzione degli interventi di
bonifica o di messa in sicurezza previsti e
disciplinati dalle precedenti norme.
Per poter affermare la sussistenza della
responsabilità dell’inquinamento è
necessario accertare la sussistenza di un
nesso di causalità fra l’attività da
esercitata del presunto responsabile ed il
danno ambientale riscontrato.
La giurisprudenza amministrativa ritiene
che, per dimostrare la sussistenza di questo
nesso di causalità, si può far ricorso,
oltre che ovviamente alle prove dirette,
alle presunzioni semplici di cui all’art.
2727 cod. civ. Si precisa peraltro che il
ragionamento presuntivo non deve
necessariamente seguire l’impostazione "penalistica"
incentrata sul superamento della soglia del
"ragionevole dubbio", potendosi
invece applicare la regola del “più
probabile che non” –elaborata dalla
giurisprudenza civile in materia di
responsabilità aquiliana– secondo la quale,
per affermare il legame causale fra azione
ed evento, non è necessario raggiungere il
livello della certezza, bensì è sufficiente
dimostrare un grado di probabilità maggiore
della metà (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
18.12.2018, n. 7121; id. 04.12.2017, n.
5668).
Anche la giurisprudenza della Corte di
Giustizia segue il principio secondo cui la
sussistenza del nesso causale fra condotta
del presunto responsabile ed inquinamento
può essere dimostrata attraverso la prova
presuntiva, e precisa che, relativamente
alle contaminazioni ambientali riscontrate
in prossimità di siti industriali,
costituiscono sufficienti indizi la
vicinanza dell’impianto dell’operatore
all’inquinamento accertato e la
corrispondenza tra le sostanze inquinanti
ritrovate e i componenti impiegati da detto
operatore nell’esercizio della sua attività
(cfr. Corte di Giustizia UE, 09.03.2010,
causa C-378/08).
Si osserva infine che il soggetto
individuato come responsabile
dell’inquinamento sulla base di un
attendibile ragionamento presuntivo
formulato nei termini sopra indicati non
può, per contrastarne le conclusioni,
limitarsi a ventilare genericamente il
dubbio circa una possibile responsabilità di
terzi, ma deve a sua volta fornire
specifiche prove idonee a dimostrare la
reale dinamica degli avvenimenti e indicare
a quale altra specifica impresa debba
addebitarsi la condotta causativa della
contaminazione (cfr. Consiglio di Stato sent.
n. 2171/2018 cit.).
...
Venendo ora alla problematica concernente
gli inquinamenti provocati prima
dell’entrata in vigore dell’art. 17 del
d.lgs. n. 22 del 1997 (norma che per la
prima volta ha introdotto l’obbligo di
bonifica o messa in sicurezza dei siti
inquinati), si deve rilevare come tale
problematica abbia fatto sorgere
contrapposti orientamenti giurisprudenziali.
Ritiene il Collegio che sia preferibile
aderire al prevalente orientamento,
confermato dall’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato con recentissima
sentenza, secondo cui la normativa contenuta
nell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 e
negli artt. 239 e seguenti del decreto
legislativo n. 152 del 2006 non ha in realtà
introdotto una nuova figura di illecito, ma
si è limitata a regolare diversamente le
conseguenze dell’illecito ambientale, figura
che rientra in quella più ampia
dell’illecito civile disciplinata dagli artt.
2043 e segg. cod. civ., la quale peraltro
aveva già trovato speciale disciplina con
l’art. 18, comma 8, della legge n. 349 del
1986.
In particolare, la nuova normativa,
considerata la rilevanza dell’interesse leso
in caso di danno ambientale, ha inteso dare
prevalenza al rimedio del risarcimento in
forma specifica (bonifica e messa in
sicurezza) rispetto al risarcimento per
equivalente.
Tale assunto porta ad affermare che i danni
ambientali provocati prima dell’entrata in
vigore del citato art. 17 del d.lgs. n. 22
del 1997 hanno comunque determinato, in
virtù della normativa generale contenuta
negli artt. 2043 e segg. cod. civ., la
nascita dell’obbligo di porvi rimedio,
obbligo che oggi è definito nella sua
struttura dagli artt. 239 e segg. del d.lgs.
n. 152 del 2006, applicabili anche con
riferimento alle condotte poste in essere
prima della loro entrata in vigore stante il
carattere permanente dell’illecito di cui si
discute (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen.,
22.10.2019, n. 10). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Alla luce di quanto disposto dall’art. 245, c. 2, D.Lgs. 152/2006, il
proprietario o il gestore dell'area −pur se non responsabili
dell'inquinamento– sono tenuti ad attuare le misure di prevenzione e, cioè,
ad adottare le iniziative volte a contrastare una minaccia, intesa come
rischio sufficientemente probabile che si verifichi in un prossimo futuro un
danno alla salute o all'ambiente. Si tratta di iniziative a carattere
preventivo, utili ad impedire od attenuare i probabili effetti di una
minaccia potenziale di danno alla salute o all'ambiente, che vanno ad
aggiungersi all’onere reale ed al privilegio speciale sull’immobile previsti
dall’art. 253 D.Lgs. 152/2006.
Trattasi delle cc.dd. “passività ambientali” che possono ricondursi a
due situazioni problematiche: la prima è costituita dalla presenza nel sito
di rifiuti accumulatisi durante la gestione anteriore al trasferimento,
senza che tale accumulo abbia comportato il superamento dei limiti legali di
contaminazione che fanno scattare gli obblighi di bonifica; la seconda è
riferita all’ipotesi in cui un qualsiasi fatto di inquinamento abbia
comportato la contaminazione del sito.
Quindi, mentre nel sistema normativo anteriore al D.lgs. 152/2006, la sola
presenza di sostanze contaminanti era sufficiente per imporre la bonifica,
il nuovo assetto normativo delineato dal Codice dell’Ambiente e dinanzi
sinteticamente richiamato impone la bonifica soltanto nell’ipotesi in cui
venga superata non la CSC -perché questo non è più sufficiente-, ma la
concentrazione soglia di rischio (CSR).
---------------
4.§.2. Con la seconda censura contenuta nel ricorso per motivi
aggiunti il ricorrente censura la legittimità della prescrizione, per così
dire nel merito, ritenendola del tutto sproporzionata ed ingiustificata.
La censura non è fondata.
L’art. 240, per quanto di odierno interesse, definisce:
a) sito: l'area o porzione di territorio, geograficamente definita
e determinata, intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, materiali di
riporto, sottosuolo ed acque sotterranee) e comprensiva delle eventuali
strutture edilizie e impiantistiche presenti;
b) concentrazioni soglia di contaminazione (CSC): i livelli di
contaminazione delle matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra
dei quali è necessaria la caratterizzazione del sito e l'analisi di rischio
sito specifica, come individuati nell'Allegato 5 alla parte quarta del
decreto;
c) concentrazioni soglia di rischio (CSR): i livelli di
contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con
l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo
i principi illustrati nell'Allegato 1 alla parte quarta del e decreto e
sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento
richiede la messa in sicurezza e la bonifica;
d) sito potenzialmente contaminato: un sito nel quale uno o più
valori di concentrazione delle sostanze inquinanti rilevati nelle matrici
ambientali risultino superiori ai valori di concentrazione soglia di
contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di
caratterizzazione e di analisi di rischio sanitario e ambientale sito
specifica, che ne permettano di determinare lo stato o meno di
contaminazione sulla base delle concentrazioni soglia di rischio (CSR);
e) sito contaminato: un sito nel quale i valori delle
concentrazioni soglia di rischio (CSR), determinati con l'applicazione della
procedura di analisi di rischio di cui all'Allegato 1 alla parte quarta del
decreto sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, risultano
superati;
g) sito con attività in esercizio: un sito nel quale risultano in
esercizio attività produttive sia industriali che commerciali nonché le aree
pertinenziali e quelle adibite ad attività accessorie economiche, ivi
comprese le attività di mantenimento e tutela del patrimonio ai fini della
successiva ripresa delle attività; s) analisi di rischio sanitario e
ambientale sito specifica: analisi sito specifica degli effetti sulla salute
umana derivanti dall'esposizione prolungata all'azione delle sostanze
presenti nelle matrici ambientali contaminate, condotta con i criteri
indicati nella parte quarta del decreto.
Alla luce di quanto disposto dall’art. 245, c. 2, D.Lgs. 152/2006, il
proprietario o il gestore dell'area −pur se non responsabili
dell'inquinamento– sono tenuti ad attuare le misure di prevenzione e, cioè,
ad adottare le iniziative volte a contrastare una minaccia, intesa come
rischio sufficientemente probabile che si verifichi in un prossimo futuro un
danno alla salute o all'ambiente. Si tratta di iniziative a carattere
preventivo, utili ad impedire od attenuare i probabili effetti di una
minaccia potenziale di danno alla salute o all'ambiente, che vanno ad
aggiungersi all’onere reale ed al privilegio speciale sull’immobile previsti
dall’art. 253 D.Lgs. 152/2006.
Trattasi delle cc.dd. “passività ambientali” che possono ricondursi a
due situazioni problematiche: la prima è costituita dalla presenza nel sito
di rifiuti accumulatisi durante la gestione anteriore al trasferimento,
senza che tale accumulo abbia comportato il superamento dei limiti legali di
contaminazione che fanno scattare gli obblighi di bonifica; la seconda è
riferita all’ipotesi in cui un qualsiasi fatto di inquinamento abbia
comportato la contaminazione del sito.
Le relative procedure sono previste dall’art. 242 D.lgs. 152/2006, che
delinea le seguenti fasi:
1) verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di
contaminare il sito ed obbligo di comunicazione da parte del responsabile
dell'inquinamento (o del soggetto interessato non responsabile, così come
consentito dall'art. 245);
2) indagine preliminare e mancato superamento delle concentrazioni
soglia di contaminazione (Csc);
3) superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (Csc):
comunicazioni, piano di caratterizzazione ed analisi del rischio sito
specifica (commi 3 e 4);
4) mancato superamento delle concentrazioni soglia di rischio (Csr),
che determina la fine del procedimento e monitoraggio (commi 5 e 6);
5) superamento delle concentrazioni soglia di rischio (Csr), con
obbligo degli interventi di bonifica (commi 7 e 8).
Il procedimento delineato dall’art. 242 del D.Lgs. 152/2006, quindi, prevede
che, a seguito della caratterizzazione dell’area oggetto di contaminazione,
laddove si riscontri un superamento delle concentrazioni soglia di
contaminazione (“CSC”), il responsabile dell’inquinamento rediga
un’analisi di rischio sito-specifica, volta a verificare il rispetto delle
CSR. Laddove il tetto delle CSR non sia raggiunto, l’autorità competente
dichiara positivamente concluso il procedimento stabilendo, se necessario,
delle prescrizioni. Al contrario, si provvederà ad elaborare un progetto di
bonifica o di messa in sicurezza del sito, da approvarsi ad opera della
Conferenza di Servizi. La fase di bonifica o messa in sicurezza del sito,
dunque, è una fase meramente eventuale, obbligatoria solo laddove si
riscontri un superamento delle CSR.
Quindi, mentre nel sistema normativo anteriore al D.lgs. 152/2006, la sola
presenza di sostanze contaminanti era sufficiente per imporre la bonifica,
il nuovo assetto normativo delineato dal Codice dell’Ambiente e dinanzi
sinteticamente richiamato impone la bonifica soltanto nell’ipotesi in cui
venga superata non la CSC -perché questo non è più sufficiente-, ma la
concentrazione soglia di rischio (CSR)
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 16.11.2019 n. 557 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO DEL SUOLO – Artt. 240 e ss. d.lgs. n. 152/2006
– Responsabile dell’inquinamento e soggetti non responabili
– Disciplina differente – Principio “chi inquina paga” –
Misure di prevenzione – Interventi di messa in sicurezza,
bonifica e ripristino.
La differente disciplina recata dagli artt. 240 e ss. del
d.lgs. n. 152/2006 –ossia la previsione dell’obbligo di
porre in essere le procedure operative e amministrative in
capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la
previsione di una mera facoltà di porre in essere tali
procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi
compreso il proprietario o il gestore dell’area, non
responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo
di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro– è stata
in più occasioni posta in rilievo dalla giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI,
05.10.2016, n.
4099; TAR Lombardia Milano, Sez. IV, 06.11.2017, n.
2088; TAR Sardegna Cagliari, Sez. I, 16.12.2011, n.
1239) nel senso che l’obbligo di bonifica dei siti
contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in
base al principio “chi inquina paga”), e non sul
proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta
riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli
interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva,
di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale
possono essere imposti solo ai soggetti responsabili
dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in
tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un
preciso nesso di causalità. In sostanza, non essendo
configurabile una sorta di responsabilità oggettiva in capo
al proprietario o al gestore del sito in ragione di tale
sola qualità, dal suesposto quadro normativo emergono le
seguenti regole:
A) il proprietario o il gestore dell’area,
non responsabili dell’inquinamento, sono tenuti soltanto ad
adottare le misure di prevenzione (art. 245, comma 2);
B)
gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul
soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo
oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
C) se il
responsabile non è individuabile o non provvede, gli
interventi necessari sono adottati dall’amministrazione
competente (art. 244, comma 4);
D) le spese sostenute per
effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo
in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti
del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli
interventi medesimi (art. 253, comma 4);
E) a garanzia di
tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale
e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
...
INQUINAMENTO DEL SUOLO – DANNO AMBIENTALE – Soggetti non
responsabili della potenziale contaminazione – Attuazione di
misure di prevenzione – Imposizione coattiva – Strumenti –
Competenza del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare – Ordinanza ministeriale ex art. 304,
c. 3, d.lgs. n. 152/2006.
Mentre gli obblighi relativi messa in sicurezza, bonifica e
ripristino gravano soltanto sul responsabile
dell’inquinamento, invece anche il proprietario o il gestore
dell’area non responsabili dell’inquinamento (al pari del
responsabile dell’inquinamento) sono tenuti, ai sensi
dell’art. 245, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, ad attuare
le “misure di prevenzione” di cui all’art. 240, comma 1,
lett. i), del d.lgs. n. 152/2006.
Tuttavia, l’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006 (che radica il potere attribuito al
Comune) fa espresso riferimento soltanto al responsabile
dell’inquinamento quale destinatario dell’ordinanza, senza
menzionare il proprietario o il gestore dell’area non
responsabili dell’inquinamento.
Parimenti l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006 (che disciplina la posizione dei
“soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”)
non richiama affatto il potere di ordinanza di cui all’art.
244 del d.lgs. n. 152/2006.
La competenza ad imporre
coattivamente ai “soggetti non responsabili della potenziale
contaminazione” l’attuazione delle misure di prevenzione di
cui all’art. 240, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 152/2006,
seppure attraverso l’esercizio del diverso potere previsto
dall’art. 304, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, appartiene
al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e
del Mare.
Laddove, quindi, il proprietario o il gestore
dell’area non responsabili dell’inquinamento non attivino
spontaneamente le misure di prevenzione di cui all’art. 245,
comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, l’unico rimedio possibile
per imporre a tali soggetti l’attuazione di tali misure è
l’adozione di un’ordinanza ministeriale ai sensi dell’art.
304, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, ove ne sussistano i
presupposti (nella specie, il TAR ha comunque evidneziato
che, quand’anche volesse ritenersi che l’ordinanza di cui
all’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006 possa essere adottata
anche nei confronti del proprietario o del gestore
dell’area, non responsabili dell’inquinamento, in ragione
della mancata spontanea attuazione delle necessarie misure
di prevenzione, comunque il Comune non potrebbe imporre a
detti soggetti l’attuazione di misure di prevenzione a
distanza di anni della campagna di monitoraggio della falda
acquifera, essendo l’inquinamento della falda già in
essere).
...
INQUINAMENTO DEL SUOLO – Adozione delle migliori tecniche
disponibili per arrestare l’inquinamento delle acque
sotterranee nei siti contaminati – Art. 243 d.lgs. n.
152/2006 – Siti inquinati per effetto dello scorrimento
delle acque di falda – Inapplicabilità.
L’art. 243, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 – nel prevedere
che per impedire e arrestare l’inquinamento delle acque
sotterranee nei siti contaminati “devono essere individuate
e adottate le migliori tecniche disponibili per eliminare,
anche mediante trattamento secondo quanto previsto
dall’articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione
dirette e indirette”, si riferisce evidentemente al sito nel
quale si trova la fonte della contaminazione e non al sito
che risulta inquinato per effetto dello scorrimento delle
acque di falda (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento, Sez. I,
sentenza 15.11.2019 n. 154 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento
delle acque sotterranee nei siti contaminati.
---------------
●
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Conseguenze ex artt. 242 e 245 d.lgs. n. 152 del 2006 – Differenze - Ratio.
●
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Responsabile dell’inquinamento –
Individuazione.
●
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Inquinamento delle acque
sotterranee nei siti contaminati – Art. 243, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006
– Ambito di applicazione.
●
La differenza tra la disciplina posta dall’art. 242, d.lgs. n. 152 del 2006,
che prevede in capo al responsabile dell’inquinamento l’obbligo di porre in
essere le procedure operative e amministrative finalizzate a prevenire i
rischi di inquinamento (comma 1) e ad attuare gli interventi di bonifica e
di messa in sicurezza (comma 7), e quella posta dal successivo art. 245, che
prevede una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli
altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore
dell’area, non responsabili dell’inquinamento, fermo restando l’obbligo di
costoro di “attuare le misure di prevenzione” di cui all’art. 240, comma 1,
del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, si spiega in quanto l’obbligo di
bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento in
base al principio “chi inquina paga” e non sul proprietario o il gestore
dell’area, non responsabili dell’inquinamento, in capo ai quali non è
configurabile una sorta di responsabilità oggettiva (1).
●
L’art. 244, d.lgs. n. 152 del 2006 fa espresso riferimento soltanto al
responsabile dell’inquinamento quale destinatario dell’ordinanza motivata di
diffida, senza menzionare il proprietario o il gestore dell’area non
responsabili dell’inquinamento, coerentemente, l’art. 245, che disciplina la
posizione dei “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”,
non richiama il potere di ordinanza di cui all’art. 244; resta ferma
peraltro la competenza del Ministero dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare ad imporre coattivamente ai “soggetti non responsabili
della potenziale contaminazione” l’attuazione delle misure di prevenzione di
cui all’art. 240, comma 1, lett. i), del medesimo decreto legislativo,
seppure attraverso l’esercizio del diverso potere previsto dall’art. 304,
comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006.
●
L’art. 243, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 -nel prevedere che
per impedire e arrestare l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti
contaminati “devono essere individuate e adottate le migliori tecniche
disponibili per eliminare, anche mediante trattamento secondo quanto
previsto dall'articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione dirette e
indirette”- si riferisce al sito ove si trova la fonte della contaminazione
e non al sito che risulta inquinato per effetto dello scorrimento delle
acque di falda.
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che la differente disciplina -ossia la
previsione dell’obbligo di porre in essere le suddette procedure operative e
amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e
la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo
agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore
dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo
di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro- è stata in più
occasioni posta in rilievo dalla giurisprudenza (Cons.
St, sez. VI, 05.10.2016, n. 4099) nel senso che l’obbligo di
bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in
base al principio “chi inquina paga”), e non sul proprietario
dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di
potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza
o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono
essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a
coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un
comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso
nesso di causalità.
In sostanza, secondo tale condivisibile giurisprudenza, non essendo
configurabile una sorta di responsabilità oggettiva in capo al proprietario
o al gestore del sito in ragione di tale sola qualità, dal suesposto quadro
normativo emergono le seguenti regole:
a) il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili
dell’inquinamento, sono tenuti soltanto ad adottare le misure di prevenzione
(art. 245, comma 2);
b) gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al
quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento
(art. 244, comma 2);
c) se il responsabile non è individuabile o non provvede, gli
interventi necessari sono adottati dall’amministrazione competente (art.
244, comma 4);
d) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti
del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi
(art. 253, comma 4);
e) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un
onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)
(TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 15.11.2019 n. 154 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Innanzi tutto l’art. 240, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 tiene ben
distinte le “misure di prevenzione”, definite alla lett. i), come “le
iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato
una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” dalle altre tipologie di
interventi previsti in materia di bonifica dei siti contaminati (cfr. la
rubrica del titolo V della parte IV del d.lgs. n. 152/2006), quali:
A) la
“messa in sicurezza d’emergenza”, definita alla lett. m), come “ogni
intervento immediato o a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni
di emergenza di cui alla lettera t) in caso di eventi di contaminazione
repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti
primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti
nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di
bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente”;
B) la “messa in
sicurezza operativa”, definita alla lett. n) come “l’insieme degli
interventi eseguiti in un sito con attività in esercizio atti a garantire un
adeguato livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente, in attesa di
ulteriori interventi di messa in sicurezza permanente o bonifica da
realizzarsi alla cessazione dell’attività. Essi comprendono altresì gli
interventi di contenimento della contaminazione da mettere in atto in via
transitoria fino all’esecuzione della bonifica o della messa in sicurezza
permanente, al fine di evitare la diffusione delle contaminazioni
all’interno della stessa matrice o tra matrici differenti. In tali casi
devono essere predisposti idonei piani di monitoraggio e controllo che
consentano di verificare l’efficacia delle soluzioni adottate”;
C) la
“bonifica”, definita alla lett. p) come “l’insieme degli interventi atti ad
eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le
concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque
sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni
soglia di rischio”;
D) gli interventi di “ripristino e ripristino
ambientale”, definiti alla lett. q) come “gli interventi di riqualificazione
ambientale e paesaggistica, anche costituenti complemento degli interventi
di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il
sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso
conforme agli strumenti urbanistici”.
Inoltre l’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006 pone in capo al “responsabile
dell’inquinamento” l’obbligo di porre in essere le “procedure operative ed
amministrative” finalizzate, in particolare, a prevenire i rischi di
inquinamento (comma 1) e ad attuare gli interventi di bonifica e di messa in
sicurezza (comma 7), mentre il successivo art. 243, nel richiamare l’art.
242, si occupa delle specifiche procedure volte ad “impedire e arrestare
l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati”.
In particolare
l’art. 243, comma 1, dispone -per quanto interessa in questa sede- che per
impedire e arrestare l'inquinamento delle acque sotterranee nei siti
contaminati “devono essere individuate e adottate le migliori tecniche
disponibili per eliminare, anche mediante trattamento secondo quanto
previsto dall'articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione dirette e
indirette”.
L’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006, a sua volta, prevede che la Provincia -laddove sia stato accertato che i livelli di contaminazione di un sito sono
superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione fissati dalla
normativa vigente- deve individuare il responsabile dell’inquinamento e
diffidarlo, con ordinanza motivata, a provvedere ai sensi del titolo V del d.lgs. n. 152/2006 (comma 2), specificando che l’ordinanza “è comunque
notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti
dell’articolo 253” (comma 3) e che, se il responsabile dell’inquinamento non
è individuabile o non provvede e non provvede neppure il proprietario del
sito né altro soggetto interessato, “gli interventi che risultassero
necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono
adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto
dall’articolo 250” (comma 4).
Nella Provincia di Trento la competenza ad
adottare le ordinanze previste dall’art. 244 è attribuita ai Comuni ai sensi
del sesto comma dell’art. 102-quater (rubricato “Disposizioni in materia di
rifiuti e di bonifica di siti contaminati”) del Testo unico delle leggi
provinciali in materia di tutela dell’ambiente dagli inquinamenti, approvato
con il D.P.G.P. 26.01.1987, n. 1-41/Legisl..
Diversa dalla posizione del responsabile dell’inquinamento è quella dei
“soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”, ai quali si
riferisce l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006, prevedendo (al comma 1) che “Le
procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere
comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili” e (al
comma 2) che “Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale
contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il gestore
dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne
comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente
competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui
all’articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui
sopra, si attiva, sentito il comune, per l’identificazione del soggetto
responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque
riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di
intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli
interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o
disponibilità”.
Tale differente disciplina -ossia la previsione dell’obbligo di porre in
essere le suddette procedure operative e amministrative in capo responsabile
dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre
in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi
compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili
dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di
prevenzione”, dall’altro- è stata in più occasioni posta in rilievo dalla
giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.10.2016, n.
4099; TAR Lombardia Milano, Sez. IV, 06.11.2017, n. 2088; TAR
Sardegna Cagliari, Sez. I, 16.12.2011, n. 1239) nel senso che
l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile
dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”), e non sul
proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un
fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza
d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino
ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili
dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte,
la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato
all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
In sostanza, secondo tale condivisibile giurisprudenza, non essendo
configurabile una sorta di responsabilità oggettiva in capo al proprietario
o al gestore del sito in ragione di tale sola qualità, dal suesposto quadro
normativo emergono le seguenti regole:
A) il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili
dell’inquinamento, sono tenuti soltanto ad adottare le misure di prevenzione
(art. 245, comma 2);
B) gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo
sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia
imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244,
comma 2);
C) se il responsabile non è individuabile o non provvede, gli interventi
necessari sono adottati dall’amministrazione competente (art. 244, comma 4);
D) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti
del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi
(art. 253, comma 4);
E) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da
un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifiche
rafforzate per impianti che sorgono in contesti residenziali. Un parere del
Consiglio di Stato impone obiettivi parametrati alla funzione urbanistica.
Per stabilire gli obiettivi di bonifica di un sito non basta capire il suo
concreto utilizzo; occorre anche calarlo nel contesto urbano. Per cui se un
distributore di carburante sorge in un ambito residenziale i parametri
ambientali di bonifica dovrebbero essere più stringenti e rafforzati.
Questo il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. I, nel
parere 15.04.2019 n. 1156 reso su un ricorso straordinario al
Presidente della repubblica.
In sintesi, i giudici amministrativi, pur riconoscendo che il quadro
legislativo di riferimento è di difficile interpretazione, riferendosi
appunto a una pompa di benzina giungono a ritenere che i principi di
precauzione e azione preventiva impongano di definire gli interventi di
bonifica non solo con riferimento al concreto utilizzo del sito
(produttivo), ma anche con riferimento al contesto urbano in cui il sito si
colloca (residenziale).
Il Dlgs 152/2016 definisce due soglie di verifica per la potenziale
contaminazione di un sito:
una parametrata alla destinazione residenziale e verde
pubblico/privato;
l’altra a quella industriale e commerciale. Anche gli obiettivi
di bonifica di un sito contaminato sono diversificati: più cautelativi nel
primo caso, più tolleranti nel secondo.
Ma le destinazioni urbanistiche sono molto più variegate di quelle definite
dalla normativa ambientale (servizi, terziario, ricettivo) e, in molti casi,
il Piano regolatore generale consente di insediare in un’area diverse
funzioni e destinazioni, introducendo spesso anche il più moderno concetto
di «indifferenziazione funzionale», ossia la possibilità di
diversificare senza particolari limitazioni l’uso degli immobili.
In via estensiva si pone, così, il tema interpretativo di stabilire quali
siano le tabelle ambientali di riferimento e se debba prevalere l’uso
teorico del sito per come previsto nello strumento urbanistico generale,
ovvero quello concreto sancito dai titoli edilizi.
La poca giurisprudenza sul punto (Tar Veneto
sentenza 25.02.2014 n. 255)
ha sempre privilegiato l’uso teorico futuro per parametrare gli obiettivi di
bonifica. Ora il Consiglio di Stato pare andare oltre, stabilendo che debba
essere considerato anche il contesto urbanistico circostante.
Se il caso dei distributori di carburante rappresenta un tema peculiare
(peraltro oggetto di diverse linee guida specifiche), l’argomento in sé
riveste attualità in quanto molti sono i casi di bonifiche di siti
industriali in contesti urbanizzati o con nuove funzioni teoricamente
ammesse.
Tuttavia, la scelta non può essere unicamente basata sul principio di
precauzione e prevenzione, ma deve anche muovere da situazioni oggettive,
quali quella di sostenibilità economica degli interventi di bonifica e della
volontà degli operatori rispetto all’effettivo uso (attuale o futuro) del
sito. Porre obiettivi sempre più cautelativi non sempre equivale ad una
maggior tutela dell’ambiente e della salute.
In assenza di adeguate risorse economiche (private e pubbliche) per la
bonifica, si ottiene un risultato contrario: più siti contaminati e meno
bonificati. Forse allora il vero obiettivo di sostenibilità ambientale
imporrebbe un uso più razionale del territorio che consideri lo stato di
contaminazione come base di partenza per valutare gli scenari di riutilizzo
del sito e del contesto urbano circostante (articolo Il Sole 24 Ore del
29.04.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulla
legittimità, o meno, che relativamente ad
un impianto di distribuzione di carburanti, nell'ambito del procedimento di
bonifica ai sensi dell'art. 240, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, il
provvedimento comunale abbia chiesto di prendere in considerazione -ai fini
dell'analisi di rischio- tutti i superamenti delle concentrazioni soglia di
contaminazione (CSC) ad uso residenziale, posto che il certificato di
destinazione d'uso dell'area in esame era di tipo residenziale anziché sulla
base della sua destinazione d’uso effettiva.
La questione centrale attorno alla quale ruota la
soluzione della controversia in esame si riassume nella domanda se
nell'analisi di rischio di un distributore di carburanti la destinazione
d’uso del sito, rispetto alla quale la normativa vigente differenzia i
valori delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) da prendere a
riferimento, sia quella prevista nella strumentazione urbanistica o
quella effettivamente in atto.
Invero, non risulta condivisibile l'osservazione della
parte ricorrente secondo la quale ciò che rileva è la destinazione effettiva
dell'area che, nel caso di specie, è commerciale, in deroga, quindi,
al certificato di destinazione d'uso dell'area (che è di tipo
residenziale)”, con l’ulteriore rilievo per cui “l'appendice V dei
criteri ISPRA ... fa esclusivo riferimento all'utilizzo effettivo del sito,
riguardo al modello concettuale per l'analisi di rischio (ad es. per la
valutazione dei bersagli), mentre il confronto con le CSC di riferimento è
relativo al certificato di destinazione d'uso, come già esposto”.
Pur a fronte di un dato testuale del decreto legislativo di settore poco
perspicuo (sia nella parte dell’articolato, sia in quella degli allegati), e
non chiarito dai decreti attuativi, né dalla linee guida dell’ISPRA
(inidonee a modificare la norma giuridica in quanto mere regole tecniche),
criteri interpretativi sistematici e finalistici inducono a ritenere che gli
obiettivi di “promozione dei livelli di qualità della vita umana, da
realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni
dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”
(art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006) e “della
precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria
alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina
paga"” (art. 3-ter stesso decreto) siano più adeguatamente conseguiti e
soddisfatti commisurando gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti al livello di tutela
ambientale richiesto, alla stregua della pertinente strumentazione
urbanistica, per l’area a destinazione residenziale all’interno della
quale si colloca l’impianto, piuttosto che al livello (meno protettivo)
richiesto ove si consideri isolatamente l’impianto (e il suo mero sedime),
come sito ad uso (fattualmente) commerciale e industriale.
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Premesso:
1. Con il ricorso straordinario in esame, notificato il 30
maggio–04.06.2012, la società To. s.p.a., titolare di un impianto di
distribuzione di carburanti nel Comune di Torino, corso Casale, ha
impugnato, nell'ambito del procedimento di bonifica dell'impianto ai sensi
dell'art. 240, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, la determinazione
dirigenziale n. 227 del 05.09.2011 (e altri atti connessi), con la quale il
Comune di Torino ha chiesto di prendere in considerazione ai fini
dell'analisi di rischio tutti i superamenti delle concentrazioni soglia di
contaminazione (CSC) ad uso residenziale, posto che il certificato di
destinazione d'uso dell'area in esame era di tipo residenziale, procedendo
alla “riformulazione dell'analisi di rischio e del progetto di bonifica
secondo le indicazioni contenute nella determinazione 274 del 20/09/2011 e
ribadite con il predetto parere di Arpa Piemonte”.
2. La Società ricorrente ha dedotto due motivi di censura.
2.1. “Violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione; violazione e
falsa applicazione degli artt. 239 ss. del d.lgs. 152/2006 recante "norme in
materia ambientale" (testo unico in materia ambientale), degli allegati nn.
1, 2, 3, 4, 5 al titolo V, parte quarta del d.lgs. 152/2006; eccesso di
potere in tutte le sue figure sintomatiche”: sarebbe errata e
illegittima l'affermazione, su cui si fonda l’impugnata prescrizione dettata
alla ricorrente, secondo la quale le concentrazioni soglia di contaminazione
(CSC) dovrebbero essere individuate sulla base del certificato di
destinazione d'uso dell'area che, nel caso di specie, risulterebbe essere
residenziale, anziché sulla base della sua destinazione d’uso effettiva.
Secondo parte ricorrente, infatti, l'allegato 5 al d.lgs. n. 152 del 2006,
rubricato "Valori di concentrazione limite accettabili nel suolo e nel
sottosuolo riferiti alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare",
facendo riferimento, nella tabella 1, alle "Concentrazioni soglia di
contaminazione nel suolo e nel sottosuolo riferiti alla specifica
destinazione d'uso dei siti da bonificare", senza stabilire una
correlazione necessaria tra il certificato di destinazione urbanistica e le
CSC di riferimento, andrebbe inteso come riferito alla destinazione d’uso di
fatto del sito, non a quella urbanistica, atteso che le destinazioni prese
in considerazione dalla normativa ambientale non rispecchiano le ben più
numerose destinazioni d'uso riconosciute in sede urbanistica dalle
amministrazioni locali.
Tale conclusione troverebbe, a giudizio della società ricorrente, un preciso
riscontro nell'appendice V al manuale ISPRA, "Applicazione dell'analisi di
rischio ai punti vendita carburante", il quale dispone espressamente, al
paragrafo 4: "per quanto riguarda i bersagli della contaminazione, il
presente documento prende in considerazione solo ricettori umani e la
protezione della risorsa idrica sotterranea così come richiesto e dal d.lgs.
04/2008. Questi sono identificati in funzione della destinazione d'uso e del
reale utilizzo del suolo, compreso nell'area logica di influenza del sito
potenzialmente contaminato ... Per i PV in esercizio si fa riferimento
all'utilizzo effettivo, ovvero industriale/commerciale. Per i PV in
dismissione si fa riferimento allo scenario futuro previsto dagli strumenti
urbanistici per il sito".
Il riferimento allo strumento urbanistico rileverebbe, dunque, a detta della
ricorrente, esclusivamente per i punti vendita in dismissione, ma non anche
per quelli in esercizio, quale è quello in esame, per i quali rileva
l'utilizzo effettivo, che, nel caso di specie, stante la natura
dell'attività svolta, è commerciale.
2.2. “Incompetenza; eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche
e particolarmente sotto il profilo del difetto di motivazione,
dell'illogicità e contraddittorietà e della violazione del principio di
proporzionalità”.
La determinazione impugnata sarebbe affetta da incompetenza, siccome
adottata, deduce la ricorrente, “da un soggetto, il Comune, privo
(analogamente ad Arpa e Regione) del potere di integrare e modificare il
quadro normativo delineato dal legislatore”, modifica e integrazione che
invece deriverebbero come effetto della pretesa dell'Amministrazione di
stabilire una correlazione necessaria tra certificato di destinazione d'uso
dell'area e CSC di riferimento, a prescindere dalla destinazione effettiva
del sito.
Il formalistico, mero, rinvio alle risultanze del certificato di
destinazione d'uso integrerebbe, inoltre, il vizio del difetto di
motivazione. Le prescrizioni dettate alla ricorrente sarebbero inoltre
contraddittorie, illogiche e sproporzionate, posto che con esse si pone a
carico della ricorrente un onere ingiustificatamente gravoso.
3. Il Ministero, nella sua relazione n. prot. 22438 del 20.10.2017,
trasmessa con nota prot. 26798 del 13.12.2017, ha preliminarmente eccepito
la tardività del ricorso, atteso che l'atto impugnato costituirebbe una
conferma di provvedimenti antecedenti ricognitiva di obblighi già gravanti
sulla parte ricorrente per effetto della determinazione n. 274 del
20.09.2011, cui, peraltro, la nota espressamente rinvia, impugnata dalla
ricorrente solo in questa sede con la stereotipata clausola di stile di
impugnazione (anche) di "...ogni atto connesso, presupposto o collegato”.
Il Ministero ha dunque eccepito anche l’improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza d’interesse, poiché la società ricorrente avrebbe
ottemperato alle contestate prescrizioni comunali, avendo trasmesso, nelle
more del giudizio, il documento "Revisione Analisi di Rischio e Progetto
di Bonifica" del 23.03.2012, nel quale, al punto 5.7, ha individuato
quali recettori dell'analisi di rischio, tra i diversi bersagli, anche
quello "residenziale: residenti (bambini e adulti), on site e off site;
ricreativo: frequentatori, on site e off site”, rapporto già approvato
dal Comune di Torino con richiesta di integrazioni, quale progetto operativo
di bonifica ex art. 249 del d.lgs. n. 152 del 2006, con la determinazione
dirigenziale n. 194 del 14.08.2012.
In ogni caso, in linea con le controdeduzioni comunali, il Ministero ha
concluso anche per il rigetto del ricorso nel merito.
Considerato:
...
2. La questione centrale attorno alla quale ruota la soluzione della
controversia in esame si riassume nella domanda se nell'analisi di rischio
di un distributore di carburanti la destinazione d’uso del sito, rispetto
alla quale la normativa vigente differenzia i valori delle concentrazioni
soglia di contaminazione (CSC) da prendere a riferimento, sia quella
prevista nella strumentazione urbanistica o quella effettivamente in
atto.
3. Giova premettere che l’art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, al
comma 4, in linea generale, che “Sulla base delle risultanze della
caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio
sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio
(CSR)”, e che, tra gli allegati al titolo V della parte IV, l’allegato 5
-Concentrazione soglia di contaminazione nel suolo, nel sottosuolo e nelle
acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti–
distingue i valori dei composti inorganici (espressi in termini di
concentrazione soglia di contaminazione nel suolo e nel sottosuolo) in
riferimento alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare (siti
ad uso verde pubblico e privato e residenziale nella colonna “A” e siti ad
uso commerciale e industriale in quella “B”).
4. Sostiene la parte ricorrente che, trattandosi di un impianto distributore
di carburanti non in dismissione, ma ancora in funzione, i valori delle CSC
debbano essere quelli (meno severi) propri dell’uso in atto del sito, inteso
come area di sedime dell’impianto, da considerare in sé come commerciale e
industriale, e non (come invece preteso dall’amministrazione) quelli (più
impegnativi) propri della destinazione d’uso residenziale della zona nella
quale l’impianto ricade, così come definita nello strumento urbanistico.
5. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, cui
deve ascriversi una speciale competenza istituzionale nell’interpretazione e
nell’applicazione della normativa di settore, in particolar modo nel quadro
del (così detto) “codice” dell’ambiente, di cui al più volte citato
d.lgs. n. 152 del 2006, una volta chiarito che non può trovare applicazione
nel caso di specie, ratione temporis, la sopravvenuta disciplina
speciale introdotta con il d.m. 12.02.2015, n. 31 (Regolamento recante
criteri semplificati per la caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica
dei punti vendita carburanti, ai sensi dell'articolo 252, comma 4, del
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152), ha ritenuto “non condivisibile
l'osservazione della parte ricorrente secondo la quale ciò che rileva è la
destinazione effettiva dell'area che, nel caso di specie, è commerciale,
in deroga, quindi, al certificato di destinazione d'uso dell'area (che è di
tipo residenziale)”, con l’ulteriore rilievo per cui “l'appendice
V dei criteri ISPRA richiamata dalla parte ricorrente ... fa esclusivo
riferimento all'utilizzo effettivo del sito, riguardo al modello concettuale
per l'analisi di rischio (ad es. per la valutazione dei bersagli), mentre il
confronto con le CSC di riferimento è relativo al certificato di
destinazione d'uso, come già esposto”.
6. Tra le due tesi che si contendono il campo la Sezione giudica più
convincente quella sostenuta dal competente Ministero e dall’amministrazione
intimata.
Pur a fronte di un dato testuale del decreto legislativo di settore poco
perspicuo (sia nella parte dell’articolato, sia in quella degli allegati), e
non chiarito dai decreti attuativi, né dalla linee guida dell’ISPRA
(inidonee a modificare la norma giuridica in quanto mere regole tecniche),
criteri interpretativi sistematici e finalistici inducono a ritenere che gli
obiettivi di “promozione dei livelli di qualità della vita umana, da
realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni
dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”
(art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006) e “della
precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria
alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina
paga"” (art. 3-ter stesso decreto) siano più adeguatamente conseguiti e
soddisfatti commisurando gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti al livello di tutela
ambientale richiesto, alla stregua della pertinente strumentazione
urbanistica, per l’area a destinazione residenziale all’interno della
quale si colloca l’impianto, piuttosto che al livello (meno protettivo)
richiesto ove si consideri isolatamente l’impianto (e il suo mero sedime),
come sito ad uso (fattualmente) commerciale e industriale.
7. Conclusivamente, il ricorso deve giudicarsi infondato e andrà come tale
respinto
(Consiglio di Stato, Sez. I, nel
parere 15.04.2019 n. 1156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguardo si legga anche:
● E. Carloni,
Obiettivi di bonifica e destinazioni d’uso (Urbanistica e
appalti n. 6/2019).
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L’articolo analizza il delicato tema del rapporto tra normativa ambientale e
disciplina urbanistica nell’ambito delle procedure di bonifica dei siti
contaminati in relazione al tema dell’individuazione degli specifici livelli
di bonifica richiesti.
La normativa ambientale, compresa quella antecedente all’attuale Codice
dell’ambiente, richiamando la “destinazione d’uso” dei siti quale parametro
da utilizzare per fissare l’obiettivo di bonifica, non specifica cosa si
debba intendere con tale espressione.
In assenza di un’espressa definizione a livello normativo, sono andati
sviluppandosi differenti e contrapposti orientamenti giurisprudenziali e
dottrinali sul punto: un primo filone ha interpretato tale
espressione come riferita alla destinazione d’uso urbanistica impressa negli
strumenti di pianificazione generale, un’altra corrente ha invece
ricondotto l’espressione “destinazione d’uso” all’uso effettivo che del sito
viene fatto in concreto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le procedure operative ed amministrative da attivare, a carico del “responsabile
dell’inquinamento”, al verificarsi di un evento potenzialmente
contaminante, sono previste all’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, il quale
prevede:
a) l’effettuazione, nelle zone interessate (una volta poste in
essere le immediate e necessarie misure di prevenzione) di una “indagine
preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento”, finalizzata alla
verifica del livello delle “concentrazioni soglia di contaminazione (CSC)”
(comma 2);
b) l’attuazione –per l’eventualità di mancato superamento della
ridetta soglia– di interventi di ripristino della zona contaminata, con
successiva comunicazione, strumentale ai necessari controlli e verifiche
dell’autorità di settore;
c) l’attivazione –in caso di superamento della soglia– della
procedura di attuazione di un “piano di caratterizzazione”, alla cui
formulazione il responsabile dell’inquinamento è onerato, con successiva
attivazione, da parte della Regione, di apposita procedura conferenziale
preordinata alla sua autorizzazione (comma 3);
d) la successiva attivazione, sulla base delle risultanze della
caratterizzazione, della procedura di analisi del rischio sito-specifica “per
la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)”, sulla
scorta di appositi parametri tabellari, destinata a refluire in apposita “analisi
dei rischi”, destinata alla approvazione in sede conferenziale, con
eventuale prescrizione di programma di monitoraggio, in caso di accertamento
del mancato superamento della soglia di rischio (commi 4 e 5);
e) l’effettuazione –per l’alternativa eventualità di superamento
della soglia di rischio– di interventi di bonifica o di messa in sicurezza,
operativa o permanente, e, ove necessario, di ulteriori misure di
riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre
ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente
nel sito (comma 7).
Dal dato normativo emerge con chiarezza la distinzione tra CSC e CSR: le
prime strumentali a riconoscere, nell’area sottoposta a verifica,
l’esistenza di sostanze inquinanti in una soglia tale da giustificare la
predisposizione di un piano di caratterizzazione; le seconde preordinate
alla verifica della sussistenza di un livello di rischio tale da
giustificare l’attuazione di interventi di bonifica e di messa in sicurezza.
Il piano della caratterizzazione (descritto e disciplinato dall'allegato 2
alla parte IV del citato decreto legislativo), è, infatti, un documento
progettuale riportante un elenco di attività di indagine e i tempi necessari
per effettuarle, compiute le quali si potrà conoscere l'impatto sulle
matrici ambientali (suolo, sottosuolo, acque sotterranee e superficiali).
Solo con i risultati del piano della caratterizzazione del sito è possibile
prevedere la necessità o meno della predisposizione del progetto operativo
di bonifica, anche in base all'analisi di rischio sito-specifica per la
definizione delle concentrazioni di rischio.
In sostanza, con le risultanze del piano della caratterizzazione si può
progettare la bonifica, ma a tal fine è necessario preventivamente
verificare la distribuzione delle concentrazioni di sostanze inquinanti al
di sopra delle Concentrazioni Soglie di Contaminazione. In sede di
approvazione del piano di caratterizzazione si devono indicare i valori CSC,
cioè i valori minimi che servono a riconoscere l'esistenza delle sostanze
cioè (come efficacemente argomentato dalla difesa regionale) a "vederle";
dopo di che, in fase di progettazione della bonifica si determineranno i
valori di CSR, cioè le concentrazioni degli inquinanti che non causano
rischio per l'uomo e l'ambiente e cioè sono accettabili.
È del tutto logico, allora, che, ai fini di “riconoscimento”, la
soglia di concentrazione possa essere senz’altro abbassata: la fissazione
dei valori di CSC non ha per scopo la tutela della salute, ma solo la
rintracciabilità nell'ambiente delle sostanze: per contro, la soglia “di
intervento” (questa, beninteso, potenzialmente onerosa per il
responsabile dell’inquinamento che vi fosse onerato) è fissata in un secondo
momento, avuto riguardo ai limiti fissati, per la tutela della salute,
dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Ne discende, altresì, che –per la determinazione della soglia di
concentrazione rilevante per le sostanze inquinanti non tabellate– non
appare arbitraria, per un verso, l’utilizzazione di parametri fissati per
sostanze con analoghe caratteristiche e, per altro verso, la
valorizzazione del parere reso dall’Istituto di superiore di sanità, al
quale la Regione (e l’ARPA) hanno inteso correttamente adeguarsi, senza che
all’uopo fosse necessaria (non trattandosi di prefigurare le condizioni per
la programmazione di un intervento) una apposita motivazione e senza che
venissero in rilievo i prospettati profili di competenza.
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Le procedure operative ed amministrative da attivare, a carico del “responsabile
dell’inquinamento”, al verificarsi di un evento potenzialmente
contaminante, sono previste all’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, il quale
prevede, per quanto di interesse ai fini della lite:
a) l’effettuazione, nelle zone interessate (una volta poste in
essere le immediate e necessarie misure di prevenzione) di una “indagine
preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento”, finalizzata alla
verifica del livello delle “concentrazioni soglia di contaminazione (CSC)”
(comma 2);
b) l’attuazione –per l’eventualità di mancato superamento della
ridetta soglia– di interventi di ripristino della zona contaminata, con
successiva comunicazione, strumentale ai necessari controlli e verifiche
dell’autorità di settore;
c) l’attivazione –in caso di superamento della soglia– della
procedura di attuazione di un “piano di caratterizzazione”, alla cui
formulazione il responsabile dell’inquinamento è onerato, con successiva
attivazione, da parte della Regione, di apposita procedura conferenziale
preordinata alla sua autorizzazione (comma 3);
d) la successiva attivazione, sulla base delle risultanze della
caratterizzazione, della procedura di analisi del rischio sito-specifica “per
la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)”, sulla
scorta di appositi parametri tabellari, destinata a refluire in apposita “analisi
dei rischi”, destinata alla approvazione in sede conferenziale, con
eventuale prescrizione di programma di monitoraggio, in caso di accertamento
del mancato superamento della soglia di rischio (commi 4 e 5);
e) l’effettuazione –per l’alternativa eventualità di superamento
della soglia di rischio– di interventi di bonifica o di messa in sicurezza,
operativa o permanente, e, ove necessario, di ulteriori misure di
riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre
ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente
nel sito (comma 7).
Dal dato normativo emerge con chiarezza la distinzione tra CSC e CSR: le
prime strumentali a riconoscere, nell’area sottoposta a verifica,
l’esistenza di sostanze inquinanti in una soglia tale da giustificare la
predisposizione di un piano di caratterizzazione; le seconde preordinate
alla verifica della sussistenza di un livello di rischio tale da
giustificare l’attuazione di interventi di bonifica e di messa in sicurezza.
Il piano della caratterizzazione (descritto e disciplinato dall'allegato 2
alla parte IV del citato decreto legislativo), è, infatti, un documento
progettuale riportante un elenco di attività di indagine e i tempi necessari
per effettuarle, compiute le quali si potrà conoscere l'impatto sulle
matrici ambientali (suolo, sottosuolo, acque sotterranee e superficiali).
Solo con i risultati del piano della caratterizzazione del sito è possibile
prevedere la necessità o meno della predisposizione del progetto operativo
di bonifica, anche in base all'analisi di rischio sito-specifica per la
definizione delle concentrazioni di rischio.
In sostanza, con le risultanze del piano della caratterizzazione si può
progettare la bonifica, ma a tal fine è necessario preventivamente
verificare la distribuzione delle concentrazioni di sostanze inquinanti al
di sopra delle Concentrazioni Soglie di Contaminazione. In sede di
approvazione del piano di caratterizzazione si devono indicare i valori CSC,
cioè i valori minimi che servono a riconoscere l'esistenza delle sostanze
cioè (come efficacemente argomentato dalla difesa regionale) a "vederle";
dopo di che, in fase di progettazione della bonifica si determineranno i
valori di CSR, cioè le concentrazioni degli inquinanti che non causano
rischio per l'uomo e l'ambiente e cioè sono accettabili.
È del tutto logico, allora, che, ai fini di “riconoscimento”, la
soglia di concentrazione possa essere senz’altro abbassata: la fissazione
dei valori di CSC non ha per scopo la tutela della salute, ma solo la
rintracciabilità nell'ambiente delle sostanze: per contro, la soglia “di
intervento” (questa, beninteso, potenzialmente onerosa per il
responsabile dell’inquinamento che vi fosse onerato) è fissata in un secondo
momento, avuto riguardo ai limiti fissati, per la tutela della salute,
dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Ne discende, altresì, che –per la determinazione della soglia di
concentrazione rilevante per le sostanze inquinanti non tabellate– non
appare arbitraria, per un verso, l’utilizzazione di parametri fissati per
sostanze con analoghe caratteristiche e, per altro verso, la valorizzazione
del parere reso dall’Istituto di superiore di sanità, al quale la Regione (e
l’ARPA) hanno inteso correttamente adeguarsi, senza che all’uopo fosse
necessaria (non trattandosi di prefigurare le condizioni per la
programmazione di un intervento) una apposita motivazione e senza che
venissero in rilievo i prospettati profili di competenza (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 14.04.2019 n. 2346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
jus receptum il principio per cui non è necessario un idoneo titolo edilizio
per la realizzazione di una recinzione nel caso in cui sia posta in essere
una trasformazione dalla quale, per l'utilizzo di materiale di scarso
impatto visivo e per le dimensioni ridotte dell'intervento, non derivi
un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, pertanto la
distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios
va riscontrata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto.
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Considerato in diritto che:
- l’appello è fondato in parte qua, in relazione alle opere
rimanenti sul lettera d), cioè la recinzione posta dal lato del mare e i
camminamenti;
- in linea di fatto la ricostruzione posta a fondamento della
sentenza appellata appare corretta;
- in relazione ai manufatti sub lettere b) e c) predette il
relativo ingombro rende condivisibile la valutazione negativa svolta dal
giudice di prime cure, basata, nei limiti del sindacato giurisdizionale, su
una adeguata valutazione dei fatti e priva di elementi di illogicità;
- al riguardo, assumono rilievo preminente ed insuperato gli
elementi posti a base del parere contrario dell’esperto paesistico, fatto
proprio dagli atti in contestazione;
- per un verso, relativamente al deposito in adiacenza alle
cabine, rilevano l’estraneità di detto manufatto all’impianto di balneazione
e l’impossibilità di (ri)assorbirlo dal punto di vista volumetrico nel
contesto tutelato, dando esso luogo ad un eccessivo ingombro e ad
un’eccessiva occupazione di aree scoperte;
- per un altro verso, relativamente al manufatto aperto,
rilevano il carattere precario, il contrasto (per materiali e dimensioni)
con i valori ambientali del luogo, la attuale totale trasformazione, che lo
rende non riconducibile allo stato che aveva al 31.12.1993, termine
rilevante ai fini di condono in esame;
- a diverse conclusioni deve giungersi rispetto agli interventi
rimanenti, privi di concreto impatto, quantomeno nei rilevanti termini
invocati dalla p.a.;
- infatti, in assenza di elementi di ingombro rilevante, le
generiche considerazioni poste a base della valutazione negativa si
scontrano con il limitato impatto di tali interventi;
- per ciò che concerne la recinzione, costituisce jus receptum
il principio per cui non è necessario un idoneo titolo edilizio per la
realizzazione di una recinzione nel caso in cui sia posta in essere una
trasformazione dalla quale, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto
visivo e per le dimensioni ridotte dell'intervento, non derivi
un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, pertanto la
distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius
excludendi alios va riscontrata nella verifica concreta delle
caratteristiche del manufatto (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV,
14.06.2018, n. 3661 e 15.12.2017, n. 5908);
- nel caso di specie, la valutazione appare carente di
approfondimento istruttorio e valutativo nei termini appena ricordati, in
quanto l’affermazione circa la apparente schermatura appare generica e priva
della necessaria verifica concreta della specifica consistenza e
funzionalità del manufatto;
- per ciò che concerne il mutamento del manto erboso, non emerge
un’alterazione paesaggisticamente rilevante, stante la palese omogeneità
estetica del medesimo manto erboso nei termini di cui alla presente
fattispecie;
- infatti, a fronte della permanenza del medesimo manto erboso, il
diverso mero utilizzo, senza strutture di ingombro di rilievo, rende
illogica e travisante la valutazione negativa, non potendo rilevare, ai fini
in esame, elementi casuali e facilmente mutabili come sedie e tavoli;
- alla luce delle considerazioni che precedono l’appello è fondato
in parte qua e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va
accolto il ricorso di primo grado in relazione alle restanti opere sub
lettera d)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2019 n. 8178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
sostituzione di una staccionata in legno con recinzione in cemento e rete
metallica lunga oltre sei metri ed
alta oltre un metro.
La sostituzione di una staccionata in legno con
recinzione in cemento e rete metallica lunga oltre sei metri ed alta oltre
un metro non sostanzia un'opera di manutenzione straordinaria della
precedente recinzione ma di nuova opera, differente nel posizionamento,
nella struttura e nelle dimensioni, che necessita del permesso di costruire
perché dotata di stabilità e perché costruita con materiale tipicamente
edilizio, tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo.
---------------
... per l'annullamento:
1) dell'ordinanza n. 8/2018 a firma del responsabile dell'area
tecnica del Comune di Jacurso, notificata in data 04.10.2018, con la quale
si ingiunge alla ricorrente di “rimuovere/demolire a propria cura e
spese, entro il termine di giorni 90 (novanta) dalla notifica della presente
ordinanza, tutte le opere abusive in premessa indicate e precisamente:
recinzione realizzata con rete metallica sorretta da paletti in cemento”;
...
La ricorrente impugna l’ordinanza di demolizione del Comune di Jacurso n.
8/2018, relativa ad recinzione realizzata con rete metallica sorretta da
paletti in cemento, ciò in quanto il predetto manufatto risulterebbe “spostato
di circa 0,50 m in corrispondenza del ciglio stradale” ed essendo quindi
“necessario presentare una SCIA, in quanto si tratta di sostituzione di
quella già esistente con spostamento della stessa di circa 50 cm, realizzata
con rete metallica sorretta da paletti in cemento”.
...
Occorre premettere che, dall’ordinanza impugnata, come dalla relazione
tecnica a supporto, non si evince che lo spostamento della recinzione “di
circa 0,50 m in corrispondenza del ciglio stradale” comporti anche
l’invasione della fascia di rispetto stradale.
Resta, quindi, come unica causa di illegittimità, la mancata acquisizione
preventiva del titolo edilizio.
A tal proposito, la ricorrente denuncia la non irrogabilità della sanzione
demolitoria, in quanto opera soggetta a SCIA.
L’assunto non è condivisibile.
La fattispecie in esame riguarda un’opera di recinzione realizzata, a
differenza della staccionata in legno preesistente, in cemento e rete
metallica, lunga oltre sei metri ed alta oltre un metro.
Non si tratta, quindi, di manutenzione straordinaria della precedente
recinzione, ma di nuova opera, differente nel posizionamento, nella
struttura e nelle dimensioni, che necessita del permesso di costruire perché
dotata di stabilità (cfr. Cass. 20739/2018) e perché costruita con materiale
tipicamente edilizio, tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo.
Ogni altra censura di natura formale, è sanata dalla natura vincolata
dell’atto
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 26.11.2019 n. 1972 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, con
riferimento al regime edilizio applicabile ai muri di recinzione colpiti
dall'ordine demolitorio, “in assenza di precise indicazioni ritraibili dal testo unico
in materia di edilizia, le opere funzionali alla delimitazione dei confini
dei terreni, quali recinzioni, muri di cinta e cancellate, non devono essere
riguardate in base all'astratta tipologia di intervento che incarnano, ma
sulla scorta dell'impatto effettivo che determinano sul preesistente assetto
territoriale: ne deriva, in linea generale, che tali opere restano
sottoposte al regime della DIA (oggi SCIA) ove non superino in concreto la
soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, per essersi tradotte in
manufatti di corpo ed altezza modesti, mentre abbisognano del permesso di
costruire ove detta soglia, come avvenuto nella fattispecie, risulta
superata in ragione dell'importanza dimensionale degli interventi posti in
essere".
---------------
12. Passando all’ulteriore contestazione relativa alla proprietà comune,
ritiene il Collegio che il provvedimento, nella parte in cui ordina la
demolizione della recinzione e del cancello elettrico, resista alle censure
sollevate dal ricorrente.
Nel verbale di accertamento dell’11.02.2013 la suddetta recinzione è
così descritta: “cancello elettrico in ferro lungo circa 4,00 mt e altro
circa 1,90 mt con recinzione in muratura ordinaria e ferro lunga
complessivamente circa 15,00 mt con porta d’ingresso di circa 0,87 mt X
circa 2,00 mt con pensilina in muratura e tegole a chiusura di uno spazio
che originariamente era libero”.
Parte ricorrente, muovendo dal presupposto secondo il quale la recinzione,
secondo una prassi dell’epoca, non era prevista dagli elaborati progettuali
e senza soffermarsi sulle caratteristiche dell’opera, contesta la
illegittimità dell’ordinanza di demolizione asserendo che essa è, per questa
parte, in contrasto con l’articolo 70 del regolamento edilizio comunale
secondo il quale “le aree fronteggianti vie o piazze aperte al traffico
devono essere recintate adeguatamente”.
L’assunto non è condivisibile.
Occorre precisare, al riguardo, che, secondo l’orientamento
giurisprudenziale prevalente, condiviso dal Collegio, con riferimento al
regime edilizio applicabile ai muri di recinzione colpiti dall'ordine
demolitorio, “in assenza di precise indicazioni ritraibili dal testo unico
in materia di edilizia, le opere funzionali alla delimitazione dei confini
dei terreni, quali recinzioni, muri di cinta e cancellate, non devono essere
riguardate in base all'astratta tipologia di intervento che incarnano, ma
sulla scorta dell'impatto effettivo che determinano sul preesistente assetto
territoriale: ne deriva, in linea generale, che tali opere restano
sottoposte al regime della DIA (oggi SCIA) ove non superino in concreto la
soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, per essersi tradotte in
manufatti di corpo ed altezza modesti, mentre abbisognano del permesso di
costruire ove detta soglia, come avvenuto nella fattispecie, risulta
superata in ragione dell'importanza dimensionale degli interventi posti in
essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.01.2016 n. 10 e 04.07.2014 n. 3408; Cass. Pen., Sez. III, 11.11.2014 n. 52040)” TAR Napoli,
sentenza n. 2122 del 15.04.2019
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del
permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e
all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare
l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli
"interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del
d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Né va dimenticato il principio
generale secondo cui, in tema di reati edilizi, la realizzazione di un muro
di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel
caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area
relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del
territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova
costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez.
3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261521, cfr. in
motivazione, quanto alle esemplificazioni del principio dichiarato)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.05.2018 n. 20739). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto all'installazione della sbarra di legno su pilastrini,
il Collegio ritiene che tale intervento non
necessitasse di titolo autorizzatorio in quanto è stata realizzata senza interventi
in muratura e non costituisce espressione dello jus
aedificandi, bensì del diverso jus excludendi omnes alios
che non necessita di titolo edilizio.
Il Collegio condivide, sul punto, l’impostazione
giurisprudenziale secondo cui la realizzazione della
recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in
presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di
materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni
dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale. Con la conseguenza che la
distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus
excludendi alios va rintracciata nella verifica concreta
delle caratteristiche del manufatto.
Nella fattispecie la sbarra in questione si
presenta quale opera riconducibile al legittimo esercizio
dello ius excludendi alios, come tale non bisognevole d’un
titolo edilizio a proprio fondamento.
---------------
1. Con il ricorso in epigrafe, ritualmente notificato e depositato,
è impugnata l'ordinanza n. 6 del 18.02.2016 con la quale il
Comune di Alcamo ha ordinato la rimozione delle seguenti
opere, eseguite alla data del 06.03.2015, perché
realizzate senza l’autorizzazione di cui all’ art. 5 della l.r. 37/1985:
1. stradella ricoperta di materiale inerte di collegamento,
attraverso la spiaggia (arenile demaniale) tra la strada
comunale e il fabbricato insistente sul terreno in catasto
al fg. 1, p.lle 381 e 3 (in parte);
2. spiazzo antistante il predetto fabbricato, sulla spiaggia
(arenile demaniale);
3. barra di legno (longitudinale posta su due pilastrini)
che ostruisce l’accesso pedonale alla stradella di cui al
punto 1.
Trattasi di opere insistenti sull’aerea demaniale marittima
di mq 248 concessa con atto n. 520 del 16.12.2004, per mq 65
(spazio antistante in fabbricato) in uso esclusivo e per i
restanti mq 183 in uso non esclusivo.
Nella motivazione dell’atto è spiegato che:
- nella suddetta concessione demaniale non è previsto il
collocamento della sbarra di legno;
- ai sensi dell’art. 23 del R.E. per le opere realizzate era
necessario il titolo abilitativo;
- l’area di che trattasi ricade in Z.T.O. Fp6 nella quale
l’edilizia libera può concernere la realizzazione di strada
poderali con caratteristiche di ruralità, di cui sarebbe
priva l’opera in questione;
- la concessione demaniale n. 520 del 16.12.2004, all’art. 2,
obbligava il concessionario a richiedere al Comune il titolo
edilizio prima dell’inizio dei lavori.
Il sig. Si.Pi., in qualità di comproprietario, ne
chiede l’annullamento previa sospensione cautelare,
deducendone l’illegittimità per i motivi di violazione degli artt. 4, 5, 6, 7 e 9 della legge regionale n. 37/1985, degli artt. 31, 34 e 37 del D.P.R. 380 del 2001 e dell’art. 23 del
regolamento edilizio, nonché per eccesso di potere e difetto
di motivazione, in quanto sia la stradella sia lo spiazzo
esisterebbero almeno dal 1968, come accertato in fatto dal
Tribunale di Trapani con la sentenza n. 47/2014 (relativa a
controversia tra proprietari, in cui il ricorrente era
parte) e di cui l’A.R.T.A. ha preso atto con la nota n. 44856
del 02.10.2014.
Le opere eseguite, quindi, sarebbero di mera manutenzione e
come tali rientranti nella tipologia dell’edilizia libera di
cui all’art. 6 della l.r. 37/1985 che, invero, riguarderebbe
anche le strade poderali e non solo quelle rurali; parimenti
non rileverebbe il fatto che le opere ricadono in zona Fp6
poiché l’area ricade nel demanio marittimo; non troverebbe
applicazione l’art. 23 del regolamento edilizio che
disciplina la costruzione di strade interpoderali
assoggettandola ad autorizzazione, poiché quella oggetto di
lite servirebbe soltanto l’abitazione del ricorrente.
Quanto alla sbarra in legno, si sostiene che la sua
collocazione –comunque da ricondurre alla fattispecie
dell’edilizia libera di cui all’art. 6 della l.r. 37/1985-
sarebbe stata autorizzata dall’A.R.T.A. con la concessione
demaniale marittima n. 520/2014 oltre che imposta dallo
stesso assessorato con la nota n. 23634/2014 (1° motivo).
Trattandosi di opere soggette a autorizzazione l’unica
sanzione applicabile sarebbe quella pecuniaria e comunque la
demolizione non sarebbe attuabile per la stradella,
esistente ab immemorabile (2° motivo).
Lamenta anche la violazione delle norme sulla partecipazione
procedimentale di cui alla legge 241 del 1990 a causa
dell’omessa valutazione delle controdeduzioni presentate e
il difetto di istruttoria e di motivazione (3° motivo).
Con l’ordinanza collegiale n. 759 del 04.07.2016, è stata
accolta la domanda di sospensione cautelare dell'esecuzione
del provvedimento impugnato.
Il Comune di Alcamo si è costituito in giudizio con memoria,
il 10.05.2017, controdeducendo che ai sensi dell’art. 74
(“Fp6 zona delle dune e della spiaggia”) delle N.T.A.
del P.R.G. –che espressamente disciplina sia le aree
private, sia le aere demaniali- nella zona Fp6 non sono
ammesse opere stabili come la sbarra sorretta da pilastrini,
né la copertura di un sentiero naturale in terra battuta con
misto granulometrico calcareo in quanto “nella zona Fp6 sono
consentiti soltanto interventi con applicazione di tecniche
naturalistiche volti a ristabilire l’equilibrio delle dune e
dello specifico habitat dunale.
Nella spiaggia lungo il litorale sono ammesse solo attività
per la diretta fruizione del mare che non comportino
installazioni o impianti stabili, al fine di garantire
l’azione eolica di ripascimento delle dune.
Nelle aeree di proprietà privata ricadenti in zona Fp6 sono
ammesse destinazioni d’uso relative a giardini e verde
privato, purché compatibili con le finalità e gli interventi
della zona Fp6”.
...
Quanto all'installazione della sbarra di legno su pilastrini,
il Collegio, invece, ritiene che tale intervento non
necessitasse di titolo autorizzatorio –prescindendosi in
questa sede dagli aspetti connessi alle limitazioni
all’accesso alla spiaggia da parte del pubblico discendenti
dalla concessione demaniale marittima che non sono oggetto
del giudizio- in quanto è stata realizzata senza interventi
in muratura e non costituisce espressione dello jus
aedificandi, bensì del diverso jus excludendi omnes alios
che non necessita di titolo edilizio.
Il Collegio condivide, sul punto, l’impostazione
giurisprudenziale secondo cui la realizzazione della
recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in
presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di
materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni
dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale. Con la conseguenza che la
distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello
jus
excludendi alios va rintracciata nella verifica concreta
delle caratteristiche del manufatto (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 05/06/2013, n. 1460; Cons. di Stato, Sez. V,
09/04/2013, n. 1922; Cons. St., Sez. V, 23/02/2012, n. 976).
Nella fattispecie la sbarra in questione -così come
descritta nell’atto impugnato, negli atti istruttori ed
evincibile dal materiale fotografico versato in atti- si
presenta quale opera riconducibile al legittimo esercizio
dello ius excludendi alios, come tale non bisognevole d’un
titolo edilizio a proprio fondamento.
In parte qua, dunque, l’atto impugnato è illegittimo
e va annullato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 28.11.2017 n. 2758 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
la parte abusiva da demolire risulti senza autorizzazione non può trovare
applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo
le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato.
Invero, «In tema di reati edilizi, la possibilità di non eseguire la
demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di
fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui
all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di
parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato
dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in
cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso
amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto illegittima la
revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del
tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé
conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche)».
---------------
Relativamente alla questione, posta con il ricorso in cassazione -incidenza
della demolizione sulla parte di fabbricato non abusiva-, la decisione della
Corte di appello risulta adeguatamente motivata, rilevando come lo stesso
consulente della parte ricorrente aveva ritenuto solo una difficile e
complessa esecuzione della demolizione, ma non già un'impossibilità della
demolizione; inoltre la Corte di appello logicamente evidenzia come in sede
esecutiva saranno prese le opportune misure per la demolizione in sicurezza.
Anche nel ricorso per cassazione si prospetta un'incidenza negativa e grave
(della demolizione) sulle opere costruite legittimamente, ma solo in modo
teorico, generico, e non concreto, desunto da specifici atti del giudizio di
esecuzione. E' una evidente questione di fatto, non valutabile in questa
sede se adeguatamente motivata, come nel caso in oggetto (Sez. 3, n. 19090
del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101).
Deve inoltre rilevarsi che la parte abusiva da demolire risulta senza
autorizzazione, completamente abusiva e, quindi, non può trovare
applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo
le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato: «In tema di reati edilizi, la
possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne
pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura
di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001,
riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di
tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto
oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo
invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste
del necessario assenso amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha
ritenuto illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto
completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una
preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle
prescrizioni urbanistiche)» (Sez. 3, n. 16548 del 16/06/2016 - dep.
03/04/2017, P.G. in proc. Porcelli, Rv. 26962401; vedi anche Sez. 3, n.
28747 del 11/05/2018 - dep. 21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101 e Sez. 3,
n. 19090 del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101)
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.11.2019 n. 46382). |
EDILIZIA PRIVATA: La cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la
rimozione della
porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza
pregiudizio
per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente
ovvero il
responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla
determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione
delle
parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne
consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita
la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per
le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto
del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'art. 34 dpr
380/2001, la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di
riferimento "le misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato.
Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a
che vedere con la "sanatoria" dell'abuso edilizio, la quale soltanto
estingue, come espressamente previsto dall'art. 45, comma 3, d.P.R.
380/2001, il corrispondente reato, in quanto non integra una
regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere
realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si
trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate
legittimamente.
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da
quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un
titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui
si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo
caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale.
---------------
Il Consiglio di Stato ha ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che
la procedura di cui al citato art. 34 si applica soltanto ai casi di
difformità parziale tra l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece,
concretamente realizzato e non anche per gli interventi realizzati in
assenza di permesso.
---------------
3. Di tali principi la Corte partenopea ha fatto buon governo avendo
ritenuto
che il tempo trascorso dalla presentazione dell'istanza unitamente
all'insussistenza
di elementi concreti che ne lasciassero presagire la rapida definizione non
consentissero la pronuncia di revoca dell'ordine demolitorio e
contestualmente
escluso l'applicabilità al caso di specie dell'art. 34 d.P.R. 380/2001, che
costituisce
oggetto del terzo motivo di ricorso, sul rilievo che non si verte
nell'ipotesi di
parziale difformità dell'opera dal permesso di costruire, alla quale
soltanto è riferita
la suddetta disposizione.
Va infatti considerato, secondo quanto ripetutamente affermato da questa
Corte, che la cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la
rimozione della
porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza
pregiudizio
per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente
ovvero il
responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla
determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione
delle
parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne
consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita
la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per
le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto
del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dello stesso art. 34,
la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di riferimento "le
misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a costruire e
quanto invece realizzato (cfr. Corte di cassazione, Sezione III penale,
24.05.2010, n. 19538).
Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a che vedere con la "sanatoria"
dell'abuso edilizio, la quale soltanto estingue, come espressamente previsto
dall'art. 45, comma 3, d.P.R. 380/2001, il corrispondente reato, in quanto
non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il
completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate,
nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle
realizzate legittimamente (Sez. 3, n. 28747 del 11/05/2018 - dep.
21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101).
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da
quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un
titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui
si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo
caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale
(Corte di Cass. n. 55372 del 2018).
Da quanto sopra risulta evidente l'infondatezza della contestazione
difensiva atteso che nel caso in questione le opere edilizie di cui si
discute, non sono state eseguite in parziale difformità dal permesso a
costruire, ma sono del tutto sprovviste del necessario assenso
amministrativo.
Le sentenze del giudice amministrativo, indicate dalla difesa in termini
difformi dall'univoca interpretazione data da questa Corte all'ambito di
operatività della norma in esame, risultano pronunce isolate, ampiamente
contrastate dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato che ha
ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che la procedura di cui al
citato art. 34 si applica soltanto ai casi di difformità parziale tra
l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece, concretamente realizzato e
non anche per gli interventi realizzati in assenza di permesso (Cons.
di Stato, Sez. VI, Sent. n. 1924 del 2018; Cons. Stato, sez. VI, n. 547223
del 23.11.2017, nonché in fattispecie esattamente sovrapponibile a quella in
esame Cons. di Stato Sent. n. 5128 del 2018, secondo cui la procedura di cui
all'art. 34 non è applicabile alle opere realizzate senza titolo per
ampliare un manufatto preesistente)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2019 n. 43433). |
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IN EVIDENZA |
URBANISTICA: I
soggetti residenti nelle aree del territorio comunale coinvolte dagli
accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto alla convenzione, possono
vantare una qualificata pretesa soggettiva, individuabile più propriamente
nella situazione giuridica dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte
dell’autorità comunale degli obblighi di realizzazione e di gestione delle
opere pubbliche previste dalla convenzione di lottizzazione; pertanto, in
linea di principio, anche il singolo proprietario è ben legittimato a veder
garantita l’attuazione delle previsioni delle convenzioni concluse in
materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n.
1150.
La norma da ultimo citata, nel testo introdotto dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765, espressamente dispone che: “L'autorizzazione comunale è
subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del
proprietario, che preveda: 1) la cessione gratuita entro termini
prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la
cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione
secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
2) l'assunzione, a carico
del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria
e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla
lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona
ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle
caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
3) i termini non
superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l'esecuzione
delle opere di cui al precedente paragrafo;
4) congrue garanzie finanziarie
per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione”.
Ciò posto deve ancora rilevarsi che dall’art. 28 appena richiamato discende
l’obbligo per il Comune di prendere in carico le opere di urbanizzazione
realizzate in base a convenzione di lottizzazione, in quanto passaggio
necessario alla concreta attuazione dell’assetto del territorio voluto dal
legislatore, nonché delle norme vigenti in materia di gestione dei servizi
pubblici, la cui titolarità è per legge affidata all’autorità
amministrativa.
---------------
Come noto, la giurisprudenza
è ormai concorde nell’inquadrare la convenzione di lottizzazione negli
accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge
241/1990.
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere,
ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non
incompatibili con la generale disciplina pubblicistica.
Ne discende
l’applicabilità, altresì, del disposto di cui all’art. 1367 c.c., norma che
stabilisce che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono
interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in
quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.
---------------
A seguito del completamento degli interventi a
carico dei lottizzanti, le opere sono state collaudate dal Comune con esito
positivo: nel certificato
di collaudo si rileva, in particolare, che, quanto alle strade realizzate
“le lievi discordanze di frazionamento rispetto lo stato attuale risultano
ininfluenti nel collaudo delle opere”.
Ciò posto deve ritenersi che, dato l’esito positivo del collaudo, competa al
Comune, ai sensi delle disposizioni di legge e delle previsioni
convenzionali, l’acquisizione in carico delle opere
di urbanizzazione: invero, appare contraria al canone generale di buona fede
la pretesa di sottrarsi agli obblighi –si ribadisce, di fonte legale e
convenzionale- che gravano sull’Amministrazione in forza di “lievi
discordanze” che non hanno impedito che il collaudo delle opere avvenisse
positivamente.
Resta inteso che, in questa sede, può trovare accoglimento esclusivamente la
pretesa a che la PA acquisisca, facendosene carico, le opere di
urbanizzazione realizzate in attuazione della convenzione di lottizzazione,
che non consente, come ovvio, il trasferimento di aree che non siano nella
titolarità dei lottizzanti.
Valuterà la P.A. quali soluzioni adottare in relazione alle opere insistenti
su aree in proprietà di terzi privati, rispetto alle quali si è accertato il
suddetto discostamento rispetto agli obblighi convenzionali (tenuto anche
conto del fatto che, come da insegnamento della Suprema Corte, le opere di
urbanizzazione, una volta realizzate, non “tollerano” di rimanere in
proprietà privata), riversando, ove ne ricorrano i presupposti, il peso
economico che ne deriverà sui lottizzanti che non hanno correttamente
adempiuto le obbligazioni loro imposte.
---------------
1. Con il ricorso in esame la società in epigrafe chiede che il
Comune resistente venga condannato a farsi carico delle opere di
urbanizzazione che sono state realizzate nella località Vanzelle del
territorio comunale in forza di convenzione di lottizzazione sottoscritta
nell’anno 1982.
Il Comune resiste all’accoglimento del ricorso, facendo valere due ordini di
ragioni: in primo luogo, si afferma, le previsioni convenzionali
escluderebbero che a carico dell’Amministrazione possa rinvenersi un
siffatto obbligo; inoltre, alla delibazione favorevole della domanda
osterebbe l’esistenza di alcuni discostamenti tra il frazionamento
progettato e lo stato attuale dei luoghi. Ciò implicherebbe che alcune parti
del sedime stradale insisterebbero in proprietà privata, il che impedirebbe
il trasferimento delle opere nella titolarità del Comune fino alla
regolarizzazione dello stato di fatto.
2. La domanda è fondata e deve, pertanto, trovare accoglimento nei termini
che si passa a specificare.
E’ bene premettere che i soggetti residenti nelle aree del territorio
comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto
alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa soggettiva,
individuabile più propriamente nella situazione giuridica dell’interesse
legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale degli obblighi di
realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste dalla convenzione
di lottizzazione; pertanto, in linea di principio, anche il singolo
proprietario è ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle
previsioni delle convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi
dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150 (in termini: Cons. St.,
Sez. IV, 18.10.2018, nr. 199).
La norma da ultimo citata, nel testo introdotto dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765, espressamente dispone che: “L'autorizzazione comunale è
subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del
proprietario, che preveda: 1) la cessione gratuita entro termini
prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la
cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione
secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
2) l'assunzione, a carico
del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria
e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla
lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona
ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle
caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
3) i termini non
superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l'esecuzione
delle opere di cui al precedente paragrafo;
4) congrue garanzie finanziarie
per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione”.
Ciò posto deve ancora rilevarsi che, sulla scorta di orientamento
giurisprudenziale al quale il Collegio ritiene di dover aderire in quanto
fondato su ragioni meritevoli di condivisione, dall’art. 28 appena
richiamato discende l’obbligo per il Comune di prendere in carico le opere
di urbanizzazione realizzate in base a convenzione di lottizzazione, in
quanto passaggio necessario alla concreta attuazione dell’assetto del
territorio voluto dal legislatore, nonché delle norme vigenti in materia di
gestione dei servizi pubblici, la cui titolarità è per legge affidata
all’autorità amministrativa (cfr. Tar Sardegna, Sez. II, 10.07.2019, nr.
765; Tar Sardegna, Sez. II, 15.05.2019, n. 563; Tar Sardegna, Sez. II,
15.05.2013 nr. 404).
E’ d’altro canto vero che, ad una attenta lettura, non risultano sussistenti
previsioni di segno contrario nelle clausole della convenzione di
lottizzazione dalla quale trae spunto la presente vertenza.
Secondo la prospettazione del Comune, dal disposto dell’art. 13 della
convenzione in esame si desumerebbe che la presa in carico delle opere di
urbanizzazione sarebbe per l’Amministrazione resistente una mera facoltà,
esercitabile al ricorrere di ragioni di interesse pubblico che lo
suggeriscano.
Rileva il Collegio che, come noto, la giurisprudenza è ormai concorde
nell’inquadrare la convenzione di lottizzazione negli accordi sostitutivi di
provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 (cfr. Cons. St., Sez. IV, 21.12.2012, nr. 324; Cass. civ. Sez. Unite,
01.07.2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29.02.2008, n. 781; Sez. IV,
02.08.2011,
n. 4576).
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere,
ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non
incompatibili con la generale disciplina pubblicistica. Ne discende
l’applicabilità, altresì, del disposto di cui all’art. 1367 c.c., norma che
stabilisce che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono
interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in
quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.
Si impone, di conseguenza, un’interpretazione delle disposizioni
convenzionali che qui vengono in esame che, in quanto coerente con il dato
normativo di riferimento –ovvero, la previsione dell’art. 28 L. 1150/1942,
già citato-, consenta alle stesse di esplicare i propri effetti.
La lettura sistematica delle norme convenzionali in oggetto, condotta alla
luce dei principi appena esplicitati, conduce a risultati difformi da quelli
prospettati dal Comune.
L’art. 13 della convenzione di lottizzazione qui in esame stabilisce:
“Durante l’attuazione delle opere previste nel piano di lottizzazione, di
cui all’art. 5 e fino alla consegna di cui al successivo art. 19, tutti gli
oneri di manutenzione e ogni responsabilità civile e penale inerente
all’attuazione ed all’uso della lottizzazione sono a totale ed esclusivo
carico della ditta lottizzante. (…) Tutte le opere passeranno,
gratuitamente, in proprietà del Comune, a semplice richiesta, quando se ne
ravvisasse l’opportunità per l’esistenza di necessità di interesse
collettivo; le opere stesse, finché rimarranno in proprietà privata, si
considereranno assoggettate a servitù di uso pubblico. (…)”.
Il successivo art. 18, poi, dispone: “La ditta lottizzante si impegna a
consegnare al Comune le opere e le aree di cui ai precedenti art. 3) e 5)
non prima di 360 giorni dalla data dei collaudi con esito favorevole”.
Dalle norme convenzionali appena citate si trae il seguente quadro
regolamentare:
- gli oneri di manutenzione sono a carico della ditta lottizzante
fino alla consegna (art. 13);
- la proprietà delle opere si trasferirà al Comune –con i
conseguenti obblighi manutentivi- al momento della consegna (art. 18);
- anche prima di tale momento, al ricorrere di necessità pubbliche
che tanto impongano, il Comune potrà, a semplice richiesta, acquisire la
proprietà delle opere (art. 12).
Da quanto precede risulta dunque smentita la tesi del Comune a mente della
quale l’acquisizione in proprietà delle opere di urbanizzazione in capo
all’Amministrazione costituirebbe il contenuto di una semplice facoltà: è
invece vero che al Comune è riconosciuta la facoltà di acquisire la
titolarità delle opere, a semplice richiesta e prima della consegna,
allorquando ciò risponda all’interesse pubblico, fermo restando l’obbligo di
acquisirle una volta completate e collaudate positivamente.
Il Comune resistente ha, inoltre, dedotto che all’acquisizione della
titolarità delle opere di urbanizzazione, con correlata assunzione degli
obblighi manutentivi, si opporrebbe l’esistenza di alcuni discostamenti tra
il frazionamento progettato dal tecnico incaricato e lo status quo, nel
senso che le opere in discorso sarebbero state in parte realizzate su area
di sedime in proprietà di terzi privati.
Anche questo argomento non convince.
E’ documentato in atti che, a seguito del completamento degli interventi a
carico dei lottizzanti, le opere sono state collaudate dal Comune con esito
positivo (cfr. all. 8 alla produzione di parte ricorrente): nel certificato
di collaudo si rileva, in particolare, che, quanto alle strade realizzate
“le lievi discordanze di frazionamento rispetto lo stato attuale risultano
ininfluenti nel collaudo delle opere”.
Ciò posto deve ritenersi che, dato l’esito positivo del collaudo, competa al
Comune, ai sensi delle disposizioni di legge e delle previsioni
convenzionali in precedenza richiamate, l’acquisizione in carico delle opere
di urbanizzazione: invero, appare contraria al canone generale di buona fede
la pretesa di sottrarsi agli obblighi –si ribadisce, di fonte legale e
convenzionale- che gravano sull’Amministrazione in forza di “lievi
discordanze” che non hanno impedito che il collaudo delle opere avvenisse
positivamente.
Resta inteso che, in questa sede, può trovare accoglimento esclusivamente la
pretesa a che la PA acquisisca, facendosene carico, le opere di
urbanizzazione realizzate in attuazione della convenzione di lottizzazione,
che non consente, come ovvio, il trasferimento di aree che non siano nella
titolarità dei lottizzanti.
Valuterà la P.A. quali soluzioni adottare in relazione alle opere insistenti
su aree in proprietà di terzi privati, rispetto alle quali si è accertato il
suddetto discostamento rispetto agli obblighi convenzionali (tenuto anche
conto del fatto che, come da insegnamento della Suprema Corte, le opere di
urbanizzazione, una volta realizzate, non “tollerano” di rimanere in
proprietà privata: cfr. Cass., Sez. I civ., 25.07.2016, n. 15340),
riversando, ove ne ricorrano i presupposti, il peso economico che ne
deriverà sui lottizzanti che non hanno correttamente adempiuto le
obbligazioni loro imposte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.12.2019 n. 1390 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In linea generale va ricordato che il contributo di costruzione
dovuto dal soggetto che intraprende un’iniziativa edificatoria rappresenta
una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione che hanno spesso portata più
ampia rispetto a quelle strettamente necessarie a urbanizzare il nuovo
insediamento edilizio.
Per tale motivo quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione
urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione
comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in
posizione sinallagmatica, con la conseguenza che rientrano nel novero delle
prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost..
In secondo luogo va osservato che il rilascio del titolo edilizio si
configura come fatto di per sé costitutivo dell’obbligo giuridico di
corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per
gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché
l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento assentito e per
le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da
calcolarsi secondo i parametri vigenti prescindendo totalmente o meno dalle
singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato
indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette
opere.
Orbene, sulla base di tali premesse è pertanto necessario affermare che il
contributo di costruzione ha carattere generale, prescinde totalmente dalle
singole opere di urbanizzazione, viene altresì determinato indipendentemente
sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia
dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
Inoltre va altresì sottolineato che, attesa la natura non sinallagmatica e
il regime interamente pubblicistico che connota il contributo de quo, la sua
disciplina vincola anche il giudice, al quale è impedito di configurare
autonomamente ipotesi di non debenza della specifica prestazione
patrimoniale diverse da quelle autoritativamente individuate dal
legislatore.
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Come è noto, a livello
normativo l’art. 17 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevede che decorso
il termine stabilito per l’esecuzione del piano “questo diventa inefficace
per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi
edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”, chiarendo che l’ultrattività
del piano attuativo riguarda i soli profili edilizi ed urbanistici, e non
anche quelli di carattere obbligatorio che regolano i rapporti tra le parti,
perché altrimenti perderebbe ogni senso la previsione, contenuta nell’art.
16 della medesima legge, di una data di scadenza del piano.
Altresì, all’interno delle previsioni urbanistiche
del piano attuativo “sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona,
la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le
prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto
del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino
all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa
condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale".
---------------
Non è
ipotizzabile alcuno scomputo degli oneri correlati al titolo edilizio
(rilasciato 15 anni dopo la approvazione del piano poi decaduto) in regione
delle previsioni contenute nel piano di lottizzazione da anni inefficace (…)
di conseguenza deve ritenersi fondata la pretesa del Comune di pagamento e
ritenzione degli oneri di urbanizzazione relativi al permesso perché
direttamente ed autonomamente correlata al rilascio del permesso medesimo,
dove l’eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di
urbanizzazione, eseguite a spese del lottizzante, un carattere satisfattivo
dell’obbligazione relativa al pagamento del contributo concessorio, non può
vincolare l’ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica.
Sicché, sulla scorta della prevalente giurisprudenza, si deve
giungere alla conclusione che la tesi secondo cui non è dovuto il contributo
di costruzione in ragione dell’integrale ultrattività di tutti gli obblighi
previsti dalla convenzione deve essere respinta.
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In linea generale va ricordato che il contributo di costruzione
dovuto dal soggetto che intraprende un’iniziativa edificatoria rappresenta
una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione che hanno spesso portata più
ampia rispetto a quelle strettamente necessarie a urbanizzare il nuovo
insediamento edilizio.
Per tale motivo quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione
urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione
comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in
posizione sinallagmatica, con la conseguenza che rientrano nel novero delle
prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost. (cfr. Consiglio di
Stato, Ad. Plen., 07.12.2016, n. 24; id. 30.08.2018, n. 12).
In secondo luogo va osservato che il rilascio del titolo edilizio si
configura come fatto di per sé costitutivo dell’obbligo giuridico di
corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per
gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché
l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento assentito e per
le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da
calcolarsi secondo i parametri vigenti prescindendo totalmente o meno dalle
singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato
indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette
opere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22.02.2011, n. 1108; Consiglio
di Stato, Sez. IV, 24.12.2009, n. 8757; Consiglio di Stato, Sez. V, 23.01.2006, n. 159; id. 21.04.2006, n. 2258; Cons. Stato V, 15.12.2005, n. 7140;
06.05.1997, n. 462).
Orbene, sulla base di tali premesse è pertanto necessario affermare che il
contributo di costruzione ha carattere generale, prescinde totalmente dalle
singole opere di urbanizzazione, viene altresì determinato indipendentemente
sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia
dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
Inoltre va altresì sottolineato che, attesa la natura non sinallagmatica e
il regime interamente pubblicistico che connota il contributo de quo, la sua
disciplina vincola anche il giudice, al quale è impedito di configurare
autonomamente ipotesi di non debenza della specifica prestazione
patrimoniale diverse da quelle autoritativamente individuate dal legislatore
(cfr. Tar Marche, Ancona, Sez. I, 30.12.2017, n. 954).
Pertanto la pretesa della parte ricorrente deve essere respinta perché
l’esistenza della convenzione e la presenza delle opere di urbanizzazione
non possono fondatamente essere invocate per sostenere che non è dovuto il
pagamento del contributo di costruzione.
Anche la tesi dell’integrale ultrattività di tutti gli obblighi previsti
dalla convenzione non può essere condivisa perché, come è noto, a livello
normativo l’art. 17 della legge 17.08.1942, n. 1150, prevede che decorso
il termine stabilito per l’esecuzione del piano “questo diventa inefficace
per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi
edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”, chiarendo che l’ultrattività
del piano attuativo riguarda i soli profili edilizi ed urbanistici, e non
anche quelli di carattere obbligatorio che regolano i rapporti tra le parti,
perché altrimenti perderebbe ogni senso la previsione, contenuta nell’art.
16 della medesima legge, di una data di scadenza del piano.
Sul punto è stato rimarcato che all’interno delle previsioni urbanistiche
del piano attuativo “sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona,
la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le
prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto
del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino
all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa
condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale” (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.06.2018, n. 3672; id, 18.05.2018, n.
3002; Consiglio di Stato, IV, 28.10.2009, n. 6661).
Sul punto è stato altresì condivisibilmente osservato che “non è
ipotizzabile alcuno scomputo degli oneri correlati a tale titolo edilizio
(rilasciato 15 anni dopo la approvazione del piano poi decaduto) in regione
delle previsioni contenute nel piano di lottizzazione da anni inefficace (…)
di conseguenza deve ritenersi fondata la pretesa del Comune di pagamento e
ritenzione degli oneri di urbanizzazione relativi al permesso perché
direttamente ed autonomamente correlata al rilascio del permesso medesimo,
dove l’eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di
urbanizzazione, eseguite a spese del lottizzante, un carattere satisfattivo
dell’obbligazione relativa al pagamento del contributo concessorio, non può
vincolare l’ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica" (cfr.
Tar Lombardia, Milano, 29.02.2016, n. 406; Tar Lombardia, Milano, Sez.
IV, 17.08.2018, n. 2001).
La ricorrente sostiene inoltre che l’ultrattività delle previsioni della
convenzione scaduta deriverebbe dalla circostanza che l’art. 58 delle norme
tecniche di attuazione allegate al piano degli interventi ha qualificato le
aree come “PEC 2” (piano edilizio convenzionato), in tal modo riconoscendo
alla convenzione una perdurante efficacia.
Questa tesi risulta priva di fondamento perché la predetta norma si limita a
prevedere che nel caso di piani attuativi decaduti rimangano in vigore gli
indici urbanistici e stereometrici del piano approvato, precisando che il
piano non deve più ritenersi efficace per la parte non attuata, con
l’obbligo a tempo indeterminato di osservare nella costruzione di nuovi
edifici gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabilite dal piano, e
ciò è perfettamente in linea con quanto previsto dagli articoli artt. 16, 17
e 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, i quali, come sopra precisato,
dispongono che l’ultrattività del piano attuativo scaduto riguarda i soli
profili edilizi ed urbanistici, e non anche quelli di carattere obbligatorio
che regolavano i rapporti tra le parti.
Ne discende che, sulla scorta della prevalente giurisprudenza, si deve
giungere alla conclusione che la tesi secondo cui non è dovuto il contributo
di costruzione in ragione dell’integrale ultrattività di tutti gli obblighi
previsti dalla convenzione deve essere respinta
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.11.2019 n. 1281 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Secondo
la giurisprudenza della Cassazione «la controversia avente ad oggetto
l'escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a
garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali,
pattuite in una convenzione di lottizzazione, rientra nella giurisdizione
del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo
in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in
questione, nonché la circostanza che, nella specie, la P.A. agisce
nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure
mediatamente, pubblici poteri».
---------------
Circa l'accertamento negativo
dell’inadempimento da parte della ricorrente agli obblighi assunti con la
Convenzione accessoria al piano, occorre premettere che tale accertamento
rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo secondo
quanto previsto dall’art. 133 del c.p.a. secondo il quale sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori
previsioni di legge: a) le controversie in materia di: …. 2) formazione,
conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di
provvedimento amministrativo.
Occorre poi precisare che la domanda comporta che la ricorrente si faccia
carico dell’onere della prova delle cause che hanno reso l’inadempimento non
imputabile, ai sensi dell’art. 2697 c.c.
Non basta infatti affermare che si tratterebbe di un accertamento negativo
dell’inadempimento per onerare il convenuto dell’onere di provare la
responsabilità dell’inadempimento, in quanto grava sul debitore provare ex
art. 1218 c.c. l’impossibilità non imputabile della prestazione al fine di
paralizzare la richiesta di escussione della fideiussione del creditore. La
ricorrente ha quindi l’onere della prova dei fatti impeditivi, estintivi e
modificativi del diritto dedotto in giudizio, non potendo limitarsi alla
mera allegazione dei fatti ritenuti tali.
---------------
A. La ricorrente proprietaria di alcuni terreni siti nel Comune di Tradate è
parte del Piano Integrato di Intervento via Monte San Michele/via Don
Tornaghi approvato dal Comune di Tradate con la delibera del consiglio
comunale n. 26 del 03/04/2007, il quale prevede la realizzazione di un
comparto Centro Servizi e di un comparto Caserma dei Carabinieri.
Ai sensi della Convenzione Rep. n. 95039 del 19/06/2008, accessoria al
menzionato PII, la ricorrente doveva realizzare direttamente la nuova
Caserma dei Carabinieri per l'importo di € 3.000.000,00, ristrutturare
l'edificio di proprietà comunale sito in via Isonzo destinato ad ospitare la
nuova sede dei Vigili del Fuoco Volontari per un importo massimo di €
160.000,00, nonché, a titolo di urbanizzazione, realizzare una rotatoria tra
la via Allende e la via Monte San Michele per l'importo di € 500.000, opere
queste tutte a scomputo.
A seguito del superamento dei termini per la realizzazione dei lavori
previsti dalla Convenzione Rep. N. 95039 del 19/06/2008, il Comune, con la
nota prot. 11382 del 24/06/2011, qui gravata, ha chiesto direttamente alla
società CO.CO., quale fideiussore della ricorrente, l’escussione
della polizza fideiussoria n. 5072 del 20/04/2010 ed il conseguente
pagamento entro 15 giorni della somma di € 3.100.000,00 per le asserite
inadempienze della Ma. in ordine al mancato completamento delle opere.
La ricorrente per l’annullamento di tale atto e/o per l'accertamento
negativo del diritto del Comune di Tradate di procedere all'escussione della
polizza fideiussoria n. 5072 del 20/04/2010 e per l’accertamento negativo
del proprio inadempimento, ha sollevato i seguenti motivi di ricorso.
...
B2. Venendo all’eccezione di difetto di giurisdizione dell’impugnazione
dell’atto comunale prot. n. 11382, datato 25/06/2011 di escussione della
polizza fideiussoria n. 5072 del 20/04/2010, essa è fondata.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione (Cass., Sez. Un., 28.07.2016,
n. 15666), infatti, «la controversia avente ad oggetto l'escussione, da
parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme
dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una
convenzione di lottizzazione, rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di
urbanistica ed edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione,
nonché la circostanza che, nella specie, la P.A. agisce nell'ambito di un
rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici
poteri» (Cass., sez. un., 13.06.2012, n. 9592, m. 623047, Cass., sez.un.
23.02.2010, n. 4319, m. 611803).
Di conseguenza, tutte le contestazioni mosse avverso la richiesta di
escussione della polizza fideiussoria, avrebbero dovuto essere dedotte
davanti al giudice ordinario.
B.3 Ne consegue che i primi tre motivi di ricorso sono inammissibili.
B.4 Venendo ora all’esame della domanda subordinata di accertamento negativo
dell’inadempimento da parte della ricorrente agli obblighi assunti con la
Convenzione accessoria al piano, occorre premettere che tale accertamento
rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo secondo
quanto previsto dall’art. 133 del c.p.a. secondo il quale sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori
previsioni di legge: a) le controversie in materia di: …. 2) formazione,
conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di
provvedimento amministrativo.
Occorre poi precisare che la domanda comporta che la ricorrente si faccia
carico dell’onere della prova delle cause che hanno reso l’inadempimento non
imputabile, ai sensi dell’art. 2697 c.c.
Non basta infatti affermare che si tratterebbe di un accertamento negativo
dell’inadempimento per onerare il convenuto dell’onere di provare la
responsabilità dell’inadempimento, in quanto grava sul debitore provare ex
art. 1218 c.c. l’impossibilità non imputabile della prestazione al fine di
paralizzare la richiesta di escussione della fideiussione del creditore. La
ricorrente ha quindi l’onere della prova dei fatti impeditivi, estintivi e
modificativi del diritto dedotto in giudizio, non potendo limitarsi alla
mera allegazione dei fatti ritenuti tali.
Nel caso di specie la società ricorrente ha ritenuto che l’inadempimento non
fosse a lei imputabile per i seguenti motivi:
a) i disegni della caserma non sono mai stati formalmente
consegnati dopo la specifica richiesta del progettista della Ma. datata
11/03/2009;
b) i disegni della sede dei Vigili del Fuoco sono pervenuti solo in
data 29/05/2009, per cui la ricorrente ha potuto presentare il progetto
esecutivo solo in data 16/06/2009 cioè 2 giorni prima del termine finale per
l’esecuzione dei lavori;
c) per quanto attiene in particolare la caserma dei carabinieri, le
risultanze geologiche hanno comportato un inevitabile slittamento della
pratica costruttiva;
d) la rotatoria è stata poi di fatto "congelata" per meglio
ponderarne le interferenze con la viabilità anche provinciale di imminente
riassetto; e) non sono mai stati approvati dall’amministrazione i progetti
definitivi su cui la Ma. avrebbe dovuto redigere gli esecutivi.
L’azione è infondata.
Per quanto riguarda la lettera a) la ricorrente non ha depositato la
specifica richiesta del progettista della Ma. datata 11/03/2009 per cui non
ha dato piena prova del fatto che la documentazione specificamente
richiamata nel preambolo della Convenzione come facente parte della pratica
edilizia n. 446/05 relativi al progetto riguardante la Caserma dei
Carabinieri, non fosse sufficiente per la realizzazione della caserma.
Per quanto riguarda la lettera b) il termine previsto dalla convenzione per
l’esecuzione dei lavori relativi alla sede dei Vigili del Fuoco, cioè il
18.06.2009, non è termine essenziale previsto dalla Convenzione a pena di
risoluzione dell’accordo, come si desume dall’art. 15 della Convenzione
secondo la quale in caso di ritardo il Comune si riserva la facoltà di
eseguire i lavori direttamente spese del concessionario nel caso in cui il
medesimo non vi abbia provveduto tempestivamente. Ne consegue che la
scadenza di quel termine non è causa di impossibilità della prestazione.
Per quanto riguarda la lettera c) la ricorrente non ha dato prova della
sorpresa geologica.
Per quanto riguarda la lettera d) la ricorrente non ha fornito prova alcuna
del “congelamento” della rotatoria per supposta necessità di migliore
ponderazione delle interferenze con la viabilità.
e) Per quanto riguarda la presunta mancata approvazione dei progetti
esecutivi la ricorrente non ha dato prova di aver presentato una proposta di
approvazione dei progetti definitivi al protocollo comunale.
In definitiva quindi la domanda subordinata di accertamento negativo
dell’inadempimento va respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.10.2019 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Va
affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle
controversie riguardanti l'adempimento degli obblighi derivanti da
convenzioni urbanistiche connesse a lottizzazioni, in forza dell'art. 133,
comma 1, lett. a) n. 2, del codice del processo amministrativo, in tema di
formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o
sostitutivi di provvedimento amministrativo che riserva alla giurisdizione
esclusiva di questo plesso le controversie sulla materia in discorso.
---------------
Va sottolineato, per un verso, che le convenzioni urbanistiche hanno
lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda, non
solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture
pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto
di zona, per
altro verso, come le obbligazioni connesse all’adempimento di dette
convenzioni urbanistiche (vuoi afferenti alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione, vuoi, come in questo caso, afferenti alla cessione delle
aree destinate ad accoglierle), abbiano natura "propter rem" e, quindi,
vadano adempiute non solo da chi ha stipulato la convenzione edilizia, ma
anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia,
da colui che realizza le opere di trasformazione edilizia e, come nel caso
che ci occupa, dai successivi aventi causa.
---------------
In ordine alla questione relativa all’esatta natura giuridica delle
convenzioni urbanistiche, è importante evidenziare come esse, pacificamente,
rientrano nel novero degli accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento amministrativo, per cui ad esse, ai sensi dell’art. 11, comma
2, della legge 241/1990, si applicano, ove non diversamente previsto, i
princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto
compatibili, di conseguenza, la disciplina dell'inadempimento degli obblighi
che le parti di dette convenzioni abbiano assunto è governata dalle regole
del codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
---------------
È materia del contendere l'azione di accertamento dell'inadempimento da
parte dei lottizzanti, degli obblighi da essi assunti nei confronti del
Comune di Reggio Calabria con la convenzione di lottizzazione perfezionata
il 07.01.1983, con la richiesta di esecuzione in forma specifica
dell'obbligazione di cessione delle aree interessate da opere di
urbanizzazione secondaria, mediante pronuncia costitutiva di trasferimento
della proprietà ai sensi e per gli effetti dell'art. 2932 del codice civile.
4.1. Il Collegio ritiene di dover, preliminarmente, affermare la
giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle controversie
riguardanti l'adempimento degli obblighi derivanti da convenzioni
urbanistiche connesse a lottizzazioni, in forza dell'art. 133, comma 1,
lett. a) n. 2, del codice del processo amministrativo, in tema di
formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o
sostitutivi di provvedimento amministrativo che riserva alla giurisdizione
esclusiva di questo plesso le controversie sulla materia in discorso (in
termini, da ultimo, TAR Brescia 03.01.2019 n. 11).
4.2. Va altresì sottolineato, per un verso, che le convenzioni urbanistiche
hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda,
non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture
pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto
di zona (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06.11.2009, n. 6947), per
altro verso, come le obbligazioni connesse all’adempimento di dette
convenzioni urbanistiche (vuoi afferenti alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione, vuoi, come in questo caso, afferenti alla cessione delle
aree destinate ad accoglierle), abbiano natura "propter rem" e, quindi,
vadano adempiute non solo da chi ha stipulato la convenzione edilizia, ma
anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia,
da colui che realizza le opere di trasformazione edilizia e, come nel caso
che ci occupa, dai successivi aventi causa (ex multis TAR Campania,
Napoli, sez. II, 09.01.2017, n. 187).
4.3. Tanto premesso, osserva il Collegio come l’art. 2 della convenzione di
lottizzazione stipulata il 07.01.1983, Rep. 22123 e versata in atti dal
Comune ricorrente, vincoli i lottizzanti alla cessione delle aree relative
alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria nel rispetto degli
standards definiti dal decreto ministeriale 02.04.1968 ed indicate nel
richiamato piano di lottizzazione nella Trav. n. 4, nel momento in cui
l’amministrazione ne farà richiesta, con le prescrizioni riportate nella
delibera del Consiglio Comunale n. 143 del 19.12.1981.
In disparte ogni considerazione in ordine alla questione relativa all’esatta
natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, è importante evidenziare
come esse, pacificamente, rientrano nel novero degli accordi integrativi o
sostitutivi del provvedimento amministrativo, per cui ad esse, ai sensi
dell’art. 11, comma 2, della legge 241/1990, si applicano, ove non
diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti in quanto compatibili, di conseguenza, la
disciplina dell'inadempimento degli obblighi che le parti di dette
convenzioni abbiano assunto è governata dalle regole del codice civile in
materia di obbligazioni e contratti.
Avendo dunque parte ricorrente allegato l’inadempimento della controparte ed
assolto all’onere di provare il titolo fonte del proprio credito, i soggetti
intimati avrebbero dovuto, dal canto loro, dare prova del corretto
adempimento dell'obbligazione di cui è chiesta l'esecuzione, ovvero
dell’esistenza di una causa impeditiva non imputabile, ai sensi dell’art.
1218 del codice civile (Consiglio di Stato sezione IV, 18.05.2016, n.
2000).
In ragione della mancata costituzione in giudizio dei soggetti
intimati tali prove sono mancate, di talché la domanda di accertamento e
condanna ai sensi dell'art. 2932 del codice civile deve essere accolta,
avendo l'Amministrazione fornito anche sufficienti elementi per individuare
i soggetti passivi ed il contenuto delle obbligazioni da adempiere.
5. Deve, in conclusione, essere accolta la domanda del Comune di Reggio
Calabria volta ad ottenere, a termini della convenzione di lottizzazione
stipulata il 07.01.1983, Rep. 22123, il trasferimento coattivo delle
aree, relative alle opere di urbanizzazione secondaria, da assoggettare a
cessione gratuita indicate alla Tav. 4 del ripetuto piano di lottizzazione
approvato con delibera del Consiglio Comunale di Reggio Calabria n. 143 del
19.12.1981 e riportate in catasto al foglio di mappa 10 della sezione
catastale di Salice, corrispondenti alle aree campite come da legenda quali
verde pubblico, attrezzature scolastiche, aree di interesse comune e
parcheggio, per una superficie complessiva di mq. 7.176.
Tutti gli eventuali aggiornamenti dei dati catastali sono posti a carico dei
soggetti intimati inadempienti che dovranno affrontare ogni onere
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 21.10.2019 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
questioni attinenti alla spettanza e alla liquidazione del contributo per
gli oneri di urbanizzazione sono riservate alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm.; le stesse, poi,
avendo ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere
dall’esistenza di atti della P.A., non sono soggette alle regole delle
azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi
termini di decadenza.
---------------
Le obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di
costruzione, e le conseguenti sanzioni per ritardato pagamento, hanno natura
reale o “propter rem”, essendo caratterizzate dalla stretta inerenza alla
res ed essendo perciò destinate a circolare unitamente ad essa, per il
carattere dell’ambulatorietà che le contraddistingue. Ne deriva che le
stesse gravano anche sull’acquirente nel caso di trasferimento del bene.
È stato infatti affermato che “l’obbligazione in solido per il pagamento
degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell’obbligazione riguardano
i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la
concessione e quelli che realizzano l’edificazione, nonché i loro aventi
causa”.
Analogamente, si è precisato che anche “l’obbligazione di pagamento delle
sanzioni per ritardato pagamento degli oneri concessori va configurata come
propter rem e, quindi, da porsi a carico del soggetto che, in un determinato
momento, si trova in una relazione qualificata con l’immobile”.
---------------
Un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti
dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta
dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri
relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento
dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di
pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria
del pagamento presso il debitore principale.
Ciò in quanto dalla portata
letterale delle disposizioni che integrano il regime sanzionatorio si evince
come l’applicazione dell’aumento di contributo sia correlata al fatto in sé
del suo mancato o non puntuale pagamento da parte dell’obbligato, senza
distinzione alcuna, sul piano delle conseguenze del meccanismo sanzionatorio,
tra l’ipotesi dell’obbligazione del solo debitore, e quella in cui sia stata
prestata una garanzia fideiussoria accessoria per il pagamento del suddetto
contributo.
Non assumendo, pertanto, alcuna rilevanza il comportamento delle parti
diverse dal debitore principale antecedenti al fatto-inadempimento, ciò che
unicamente rileva, nella logica della norma sanzionatoria, è il semplice
mancato pagamento della rata di contributo imputabile al debitore
principale.
Non solo non si rinviene un dovere di “soccorso” dell’amministrazione
comunale nei confronti del beneficiario di un titolo edilizio in ritardo nel
pagamento del contributo di costruzione, ma in senso opposto
l’amministrazione è tenuta, trattandosi di attività vincolata prevista
direttamente dalla fonte normativa di rango primario, all’applicazione delle
sanzioni alla scadenza dei termini di pagamento, senza potersi sottrarre al
potere-dovere di aumentare, in funzione sanzionatoria, l’importo del
contributo dovuto.
---------------
1. In via preliminare, va affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo sulla presente controversia, giacché secondo una consolidata
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, le questioni attinenti alla
spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione
sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai
sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm.; le stesse, poi,
avendo ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere
dall’esistenza di atti della P.A., non sono soggette alle regole delle
azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi
termini di decadenza (Consiglio di Stato, VI, 07.05.2015, n. 2294; TAR
Lombardia, Milano, II, 10.05.2018, n. 1242).
2. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso non è fondato; ciò
consente di prescindere dallo scrutinio delle ulteriori eccezioni di
carattere preliminare sollevate dalla difesa del Comune.
3. Con l’unica censura di ricorso si deduce l’illegittimità delle sanzioni
applicate alla ricorrente, avendo la stessa acquistato il mappale n. 853
soltanto dopo la scadenza dei termini di pagamento degli oneri e quindi non
essendo ad essa imputabile il mancato e/o ritardato versamento delle rate
degli stessi; inoltre, il Comune avrebbe aggravato indebitamente la
posizione del soggetto obbligato non provvedendo alla previa escussione
della garanzia fideiussoria, violando in tal modo i canoni della buona fede
e della cooperazione con il privato debitore; infine si contesta l’ammontare
della somma richiesta, corrispondente al 125% delle rate pagate in ritardo,
piuttosto che alla misura del 40% prevista dall’art. 42 del D.P.R. n. 380
del 2001.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che nell’atto di compravendita del 15.02.2001 stipulato
con Im.No. s.r.l., la ricorrente ha espressamente dichiarato
“di assumere a suo totale carico gli oneri di urbanizzazione ancora da
versare al Comune” (cfr. all. 7 del Comune). A ciò ha fatto seguito, in
data 16.03.2001, la volturazione in suo favore della concessione edilizia n.
103/1997 da parte del Comune (all. 8 del Comune).
Ulteriormente, va evidenziato che il Comune, in data 26.10.1998, ha
sollecitato la dante causa della ricorrente ad adempiere agli obblighi di
pagamento, a seguito della scadenza del termine (all. 6 del Comune).
A giudizio della parte ricorrente la sanzione conseguente al mancato
versamento delle rate relative agli oneri concessori non avrebbe potuto
essere irrogata nei suoi confronti, stante l’assenza di alcuna
rimproverabilità in capo ad essa e trattandosi di un atto connotato dal
carattere dell’afflittività.
La prospettazione della parte ricorrente non può essere accolta, poiché
secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, le obbligazioni di
pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione, e le
conseguenti sanzioni per ritardato pagamento, hanno natura reale o “propter
rem”, essendo caratterizzate dalla stretta inerenza alla res ed essendo
perciò destinate a circolare unitamente ad essa, per il carattere dell’ambulatorietà
che le contraddistingue. Ne deriva che le stesse gravano anche
sull’acquirente nel caso di trasferimento del bene.
È stato infatti affermato che “l’obbligazione in solido per il pagamento
degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell’obbligazione riguardano
i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la
concessione e quelli che realizzano l’edificazione, nonché i loro aventi
causa” (cfr. Consiglio di Stato, IV, 15.05.2019, n. 3141; altresì, C.G.A.,
30.09.2019, n. 848; TAR Sicilia, Palermo, II, 19.10.2017, n. 2402).
Analogamente, si è precisato che anche “l’obbligazione di pagamento delle
sanzioni per ritardato pagamento degli oneri concessori va configurata come propter rem e, quindi, da porsi a carico del soggetto che, in un determinato
momento, si trova in una relazione qualificata con l’immobile” (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 01.04.2011, n. 2037).
3.2. Quanto alla parte della censura che eccepisce l’illegittima mancata
previa escussione della garanzia fideiussoria, invece dell’adozione della
sanzione, si deve richiamare, in senso contrario, la pronuncia dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, 07.12.2016, n. 24, secondo la quale
“un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti
dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta
dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri
relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento
dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di
pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria
del pagamento presso il debitore principale”: ciò in quanto dalla portata
letterale delle disposizioni che integrano il regime sanzionatorio si evince
come l’applicazione dell’aumento di contributo sia correlata al fatto in sé
del suo mancato o non puntuale pagamento da parte dell’obbligato, senza
distinzione alcuna, sul piano delle conseguenze del meccanismo sanzionatorio,
tra l’ipotesi dell’obbligazione del solo debitore, e quella in cui sia stata
prestata una garanzia fideiussoria accessoria per il pagamento del suddetto
contributo.
Non assumendo, pertanto, alcuna rilevanza il comportamento delle parti
diverse dal debitore principale antecedenti al fatto-inadempimento, ciò che
unicamente rileva, nella logica della norma sanzionatoria, è il semplice
mancato pagamento della rata di contributo imputabile al debitore
principale.
Non solo non si rinviene un dovere di “soccorso” dell’amministrazione
comunale nei confronti del beneficiario di un titolo edilizio in ritardo nel
pagamento del contributo di costruzione, ma in senso opposto
l’amministrazione è tenuta, trattandosi di attività vincolata prevista
direttamente dalla fonte normativa di rango primario, all’applicazione delle
sanzioni alla scadenza dei termini di pagamento, senza potersi sottrarre al
potere-dovere di aumentare, in funzione sanzionatoria, l’importo del
contributo dovuto (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.12.2016, n. 24, cit.; sull’inesistenza di un dovere di “soccorso” e sull’estraneità alla
disciplina civilistica, ed in specie all’art. 1944, secondo comma, cod. civ.,
della pretesa che venga previamente escusso il fideiussore, cfr. TAR
Veneto, II, 11.12.2017, n. 1121)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.10.2019 n. 1083 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Ritenute nei contratti di appalto e subappalto – art. 4 D.L.
124/2019 - Primi chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate (ANCE di
Bergamo,
circolare 30.12.2019 n. 298). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Codice di prevenzione incendi: circolare esplicativa
(ANCE di Bergamo,
circolare 20.12.2019 n. 291). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto : Rigenerazione urbana e territoriale - Approvazione ed entrata
in vigore della l.r. 18 del 26.11.2019
(Regione Lombardia,
nota 10.12.2019 n. 48351 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Nuova norma sulla cessazione della qualifica di rifiuto
(ANCE di Bergamo,
circolare 06.12.2019 n. 274). |
APPALTI: Oggetto:
Responsabilità solidale del committente per inadempimenti contributivi –
Nota INL n. 9943/2019
(ANCE di Bergamo,
circolare 29.11.2019 n. 272). |
APPALTI: Oggetto:
art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 – responsabilità solidale del
committente per debiti contributivi (Ispettorato Nazionale del Lavoro,
nota 19.11.2019 n. 9943 di prot.). |
APPALTI:
OGGETTO: Rilascio della documentazione antimafia. -Direttiva a carattere
ricognitivo-
(Prefettura di Avellino,
nota 15.11.2019 n. 75319 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Applicazione del Codice di Prevenzione Incendi alle istruttorie di
prevenzione incendi. Indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno,
Dipartimento VV.F., Comando di Bergamo,
nota 12.11.2019 n. 25177 di prot.).
---------------
Al riguardo si leggano gli allegati:
● fac-simile "comunicazione
avvio del procedimento"
● fac-simile "Ricevuta
di avvenuto deposito Attestazione Periodica di Conformità Antincendio"
● fac-simile "Ricevuta
SCIA" |
PATRIMONIO:
Oggetto: DPR 151/2011 Attività n. 80 - Gallerie stradali più lunghe di
500 metri - Adempimenti procedurali e tecnici - Indirizzi applicativi
(Ministero dell'Interno, Dipartimento VV.F.,
nota 31.10.2019 n. 16510 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 31.12.2019 n. 305 "Disposizioni urgenti in materia di proroga di
termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni,
nonché di innovazione tecnologica" (D.L.
30.12.2019 n. 162). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI:
G.U. 30.12.2019 n. 304 "Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022" (Legge
27.12.2019 n. 160).
---------------
Al riguardo si legga:
●
Legge di Bilancio 2020: la sintesi di tutte le novità (27.12.2019
- link a www.lentepubblica.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 53 del 30.12.2019 "Legge di stabilità
2020-2022"
(L.R.
30.12.2019 n. 24).
---------------
Di particolare interesse si legga:
● Art. 10 - (Modifica degli articoli 22-bis e 22-ter della l.r. 86/1983)
1. Alla legge regionale 30.11.1983, n. 86 (Piano regionale delle aree
regionali protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei
parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza
naturale e ambientale) sono apportate le seguenti modifiche: (...continua) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia,
supplemento n. 53 del 30.12.2019
"Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico -
finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34
(Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla
contabilità della Regione) – Collegato 2020" (L.R.
30.12.2019 n. 23).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
● Art. 1 - (Disposizioni in materia di personale delle province e della
Città metropolitana di Milano impiegato per l’esercizio di funzioni
confermate in capo alle stesse)
● Art. 2 -
(Sostituzione dell’articolo 20-ter della l.r. 19/2008)
1. L’articolo 20-ter della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle
Comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di comuni lombardi
e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali) è
sostituito dal seguente: (...continua)
● Art. 22 -
(Modifica dell’art. 13 della l.r. 4/2016)
1. Al comma 1 dell’articolo 13 della legge regionale 15.03.2016, n. 4
(Revisione della normativa regionale in materia di difesa del suolo, di
prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi
d’acqua) sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: (...continua)
● Art. 30 -
(Modifiche alla l.r. 17/2003)
1. Alla legge regionale 29.09.2003, n. 17 (Norme per il risanamento
dell’ambiente, bonifica e smaltimento dell’amianto) sono apportate le
seguenti modifiche: (...continua) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 30.12.2019 "Nono
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 18.12.2019 n. 18651). |
APPALTI -
CONSIGLIERI COMUNALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI - VARI: G.U. 24.12.2019
n. 301 "Testo
del decreto-legge 26.10.2019, n. 124, coordinato con la legge di conversione
19.12.2019, n. 157, recante: «Disposizioni urgenti in materia
fiscale e per esigenze indifferibili»".
---------------
Di interesse si leggano:
● Art. 4. Ritenute e
compensazioni in appalti e subappalti ed estensione del regime del reverse
charge per il contrasto dell’illecita somministrazione di manodopera
● Art. 18. Modifiche al regime dell’utilizzo del contante
● Art. 43. Affitti passivi PA
● Art. 57-quater. Indennità di funzione minima per l’esercizio
della carica di sindaco e per i presidenti di provincia
---------------
Al riguardo si legga:
●
Decreto Fiscale convertito in legge: un focus sulle principali novità -
Riscritte le disposizioni di contrasto all’omesso versamento delle ritenute
nel campo degli appalti e dei subappalti (18.12.2019 -
link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 24.12.2019, "Bando per
L’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di
altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati approvato con d.d.u.o.
14.06.2019, n. XI/8615. Approvazione Terzo ed ultimo elenco di domande
ammesse e non ammesse a finanziamento ed assunzione degli impegni di spesa" (decreto
D.U.O. 18.12.2019 n. 18680). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 23.12.2019 n. 300 "Testo del decreto-legge 24.10.2019, n. 123,
recante: «Disposizioni urgenti per l’accelerazione e il completamento delle
ricostruzioni in corso nei territori colpiti da eventi sismici, coordinato
con la legge di conversione 12.12.2019, n. 156, recante: «Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 24.10.2019, n. 123, recante
disposizioni urgenti per l’accelerazione e il completamento delle
ricostruzioni in corso nei territori colpiti da eventi sismici»".
---------------
Di particolare interesse si legga:
● Art. 9-quater -
Modifiche all’articolo 94-bis del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
---------------
Si legga, altresì:
●
Legge Sisma: niente previa autorizzazione scritta per gli interventi nelle
località a bassa sismicità. Il Decreto Sisma convertito in legge esclude le
località a bassa sismicità (zone 3 e 4) dall’ambito definitorio degli
“interventi rilevanti” (24.12.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 23.12.2019, "Linee di
indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni trasferite ai
Comuni in materia sismica (artt. 3, comma 1 e 13 comma 1, della l.r.
33/2015) – Implementazione ai fini di semplificazione della modulistica
prevista dall’allegato b alla d.g.r. n. X/5001/2016" (deliberazione
G.R. 02.12.2019 n. 2584). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2019, "Testo
coordinato del r.r. 23.11.2017, n. 7 «Regolamento recante
criteri e metodi per il rispetto del principio dell’invarianza idraulica ed
idrologica ai sensi dell’articolo 58-bis della legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio)»". |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 20.12.2019, "Criteri per il
coordinamento delle procedure di valutazione ambientale strategica (VAS) -
valutazione di incidenza (VINCA) - verifica di assoggettabilità a VIA negli
accordi di programma a promozione regionale comportanti variante
urbanistica/territoriale (art. 4, c. 1, l.r. 12/2005), in attuazione del
programma strategico per la semplificazione e la trasformazione digitale
lombarda" (deliberazione
G.R. 16.12.2019 n. 2667). |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 19.12.2019, "Aggiornamento
annuale 2020 del prezzario regionale delle opere pubbliche di Regione
Lombardia ai sensi dell’art. 23, comma 16, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50" (deliberazione
G.R. 16.12.2019 n. 2656).
---------------
Si leggano anche gli allegati:
●
VOLUME 1.1 - Opere compiute civili, urbanizzazione e difesa del suolo
●
VOLUME 1.2 - Opere compiute impianti elettrici e meccanici
●
VOLUME 2.1 - Costi unitari e piccola manutenzione civili e urbanizzazioni
●
VOLUME 2.2 - Costi unitari e piccola manutenzione impianti elettrici e
meccanici
●
VOLUME SPECIFICHE TECNICHE
OPERE CIVILI
OPERE IMPIANTI - elettriche -
meccaniche
OPERE URBANIZZAZIONI -
fognatura - acquedotto - strade - segnaletica stradale - arredo urbano e
verde - impianti sportivi |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 19.12.2019, "Identificazione
dei comuni dove è vietato, nell’anno campagna 2019-2020, l’impiego per uso
agronomico dei fanghi di depurazione in attuazione dell’articolo 6.2
«Condizioni e modalità di utilizzo dei fanghi», lettera d) dell’allegato 1
della deliberazione della Giunta regionale 01.07.2014, n. X/2031" (decreto
D.S. 13.12.2019 n. 18334). |
ENTI LOCALI: G.U.
17.12.2019 n. 295 "Differimento del termine per la deliberazione del
bilancio di previsione 2020/2022 degli enti locali dal 31.12.2019 al
31.03.2020" (Ministero dell'Interno,
decreto 13.12.2019). |
VARI: G.U. 14.12.2019
n. 293 "Modifica del saggio di interesse legale" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 12.12.2019). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 14.12.2019, "Risoluzione concernente
il documento di economia e finanza regionale 2019" (deliberazione
C.R. 26.11.2019 n. 766).
---------------
Di particolare interesse si legga:
●
AGGIORNAMENTO DEL PIANO TERRITORIALE REGIONALE (PTR) ‐ ANNO 2019 (EX ART. 22
L.R. 12/2005). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 13.12.2019
n. 292 "Testo
del decreto-legge 14.10.2019, n. 111, coordinato con la legge di conversione
12.12.2019, n. 141, recante: «Misure urgenti per il rispetto
degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria e
proroga del termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge
17.10.2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.12.2016,
n. 229»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 50 del 13.12.2019, "Seconda legge di
revisione normativa ordinamentale 2019" (L.R.
10.12.2019 n. 22). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 50 del 13.12.2019, "Seconda legge di
semplificazione 2019" (L.R.
10.12.2019 n. 21).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
● Art. 6 (Modifiche agli
articoli 2, 8 e 10 della l.r. 33/2015) --->
testo coordinato della l.r. 12.10.2015 n. 33
● Art. 7 (Modifica all’articolo 32 della l.r. 12/2005) --->
testo coordinato della l.r. 11.03.2005 n. 12 |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 13.12.2019, "Classificazione
del territorio montano, ai sensi dell’art. 3 della legge regionale
15.10.2007, n. 25, classificazione dei piccoli comuni non montani e
classificazione generale dei piccoli comuni della Lombardia in zone che
presentano simili condizioni di sviluppo socio-economico e infrastrutturale,
ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 05.05.2004, n. 11" (deliberazione
G.R. 09.12.2019 n. 2611). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2019, "Approvazione
delle linee guida regionali per l’aggiornamento dei piani d’ambito del
servizio idrico integrato" (deliberazione
G.R. 26.11.2019 n. 2537). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2019, "Adeguamento del
«Valore del soprassuolo» stabilito con d.g.r. 675/2005" (decreto
D.S. 03.12.2019 n. 17595). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2019, "Adeguamento
delle sanzioni amministrative pecuniarie in materia di danni alle superfici
boschive e ai terreni soggetti a vincolo idrogeologico (art. 61, comma 14,
l.r. n. 31/2008)" (decreto
D.S. 02.12.2019 n. 17520). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2019, "Bilancio idrico
regionale approvato con d.g.r. 2122/2019: rettifica per errore materiale di
n. 47 valori di portata contenuti negli allegati 2, 3, 4 e 5 dell’elaborato
5 del programma di tutela e uso delle acque" (deliberazione
G.R. 02.12.2019 n. 2583). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 03.12.2019, "Disciplina della
programmazione negoziata di interesse regionale" (L.R.
29.11.2019 n. 19). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 03.12.2019, "Approvazione
degli schemi di segnalazione certificata di inizio attività per strutture
ricettive alberghiere e strutture ricettive all’aria aperta" (decreto
D.U.O. 28.11.2019 n. 17264). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 03.12.2019, "Designazione di
nuove zone vulnerabili da nitrati di origine agricola ai sensi dell’art. 92
del d.lgs. 152/2006" (deliberazione
G.R. 26.11.2019 n. 2535). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 03.12.2019, "Aggiornamento e
pubblicazione degli importi dovuti a Regione Lombardia per l’anno 2020 a
titolo di canoni di concessione per l’utilizzo delle aree del demanio idrico
fluviale (polizia idraulica) in applicazione dell’art. 6 della legge
regionale 29.06.2009, n. 10" (decreto
D.G. 22.11.2019 n. 16869). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 02.12.2019, "Bando per
l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di
altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati approvato con d.d.u.o.
14.06.2019, n. XI/8615. Approvazione secondo elenco di domande ammesse e non
ammesse a finanziamento ed assunzione degli impegni di spesa" (decreto
D.U.O. 27.11.2019 n. 17233). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 02.12.2019, "Disposizioni per
la semplificazione degli adempimenti per la comunicazione dei dati relativi
ai controlli delle emissioni e degli scarichi per le attività non soggette
ad autorizzazione integrata ambientale - Utilizzo applicativo «AUA POINT» e
avvio fase sperimentale" (deliberazione
G.R. 18.11.2019 n. 2481). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 48 del 29.11.2019, "Misure di
semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale,
nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e ad altre leggi regionali" (L.R.
26.11.2019 n. 18 - entra in vigore il 14.12.2019).
---------------
Al riguardo, si leggano i testi coordinati della:
●
R.R. 23.11.2017 n. 7
- Regolamento recante criteri e metodi per il rispetto del principio dell’invarianza
idraulica ed idrologica ai sensi dell’articolo 58-bis della l.r. 11.03.2005
n. 12 (Legge per il Governo del Territorio)
●
L.R. 10.03.2017 n. 7
- Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti
●
L.R. 28.11.2014 n. 31 -
Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione
del suolo degradato
●
L.R. 02.02.2010 n. 6
- Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere
●
L.R. 11.03.2005
n. 12 - Legge per il governo del territorio |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 29.11.2019, "Criteri e
modalità operative per l’accertamento e la contestazione delle violazioni e
per l’irrogazione delle sanzioni amministrative per opere/occupazioni senza
titolo concessorio in aree del demanio idrico fluviale" (deliberazione
G.R. 26.11.2019 n. 2533). |
PUBBLICO IMPIEGO:
G.U.U.E. 26.11.2019 n. L 305
"DIRETTIVA
(UE) 2019/1937 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 23.10.2019
riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto
dell’Unione".
---------------
Si legga anche:
●
In Gazzetta ufficiale la nuova Direttiva Ue sul
whistleblowing - Gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepire le
nuove norme all’interno del diritto nazionale (03.12.2019
- link a www.gdc.ancitel.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2019, "Bando per
l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di
altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati approvato con d.d.u.o.
14.06.2019, n. XI/8615. Approvazione primo elenco di domande ammesse e non
ammesse a finanziamento ed assunzione degli impegni di spesa" (decreto
D.U.O. 21.11.2019 n. 16778). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2019 "Nuovi criteri per
la rateizzazione delle entrate regionali non tributarie in tema di uso delle
aree del demanio idrico e di uso dell’acqua pubblica" (deliberazione
G.R. 18.11.2019 n. 2489). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2019, "Disposizioni per
l’efficienza energetica degli edifici: nuovi criteri per la copertura degli
obblighi relativi alle fonti rinnovabili e per il riconoscimento delle serre
bioclimatiche come volumi tecnici" (deliberazione
G.R. 18.11.2019 n. 2480). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2019, "Approvazione
definitiva dei criteri e parametri per l’individuazione e la classificazione
dei piccoli comuni non montani e dei piccoli comuni montani, ai sensi
dell’art. 2 della legge regionale 05.05.2004, n. 11 e dell’art. 3 della
legge regionale 15.10.2007, n. 25" (deliberazione
G.R. 18.11.2019 n. 2485). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2019, "Ottavo
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 15.11.2019 n. 16480).
---------------
Si legga anche:
●
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria
n. 50 del 10.12.2019 "Rettifica per mero errore materiale del decreto n.
16480 del 15.11.2019 «Ottavo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti
locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r.12/2005, art.
80)»" (decreto
D.G. 03.12.2019 n. 17602). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.11.2019 n. 273 "Approvazione della regola tecnica di prevenzione
incendi per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio degli impianti
per la produzione di calore alimentati da combustibili gassosi" (Ministero
dell'Interno,
decreto 08.11.2019).
---------------
Si legga al riguardo:
●
Impianti termici di condomìni e scuole: in vigore le nuove norme antincendio
(23.12.2019 - link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 21.11.2019, "Programma di
qualificazione ed ammodernamento della rete di distribuzione dei carburanti
in attuazione dell’art. 83, comma 1, della l.r. 02.02.2010, n. 6" (deliberazione
C.R. 12.11.2019 n. 759). |
APPALTI: G.U.
20.11.2019 n. 272 "Definizione delle caratteristiche essenziali delle
prestazioni principali costituenti oggetto delle convenzioni stipulate da
Consip S.p.a." (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 21.10.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
G.U.U.E. 14.11.2019 n. C 386 "Documento di orientamento relativo
all’applicazione delle esenzioni ai sensi della direttiva sulla valutazione
dell’impatto ambientale (direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, modificata dalla direttiva 2014/52/UE) — articolo 1, paragrafo 3,
e articolo 2, paragrafi 4 e 5" (Comunicazione
della Commissione). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U.
14.11.2019 n. 267 "Adeguamento dei requisiti di accesso al pensionamento
all’incremento della speranza di vita a decorrere dal 01.01.2021" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 05.11.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 14.11.2019, "Approvazione del
«Regolamento di attuazione tipo» per i Piani di Indirizzo Forestale di cui
all’art. 47 della l.r. 31/2008" (decreto
D.S. 07.11.2019 n. 15968). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
11.11.2019 n. 264 "Approvazione dello Statuto del Consorzio Recupero
Vetro (CoReVe)" (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 22.10.2019). |
URBANISTICA: CONTENUTI
E MODALITÀ DI RESTITUZIONE DELLE INFORMAZIONI RELATIVE AL CONSUMO DI SUOLO
NEI PIANI DI GOVERNO DEL TERRITORIO (ART. 5, COMMA 4, L.R. 31/2014)
(deliberazione G.R. 11.03.2019 n. 1372). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
V. A. Bonanno,
Decreto Fiscale. I pagamenti dei debiti commerciali delle pubbliche
amministrazioni: tra rinvii e nuove complicazioni. Analisi delle misure
contenute nella legge di conversione del “decreto fiscale” e nella
legge di bilancio dello Stato per il 2020
(30.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: Il
divieto di opere aggiuntive vale anche per servizi e forniture, non solo per
lavori
(23.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
dei sottotetti e distanze dai confini.
La Corte d'Appello di Milano (Sez. II civile,
sentenza
23.08.2018 n. 3952), confermando il Tribunale di Lecco (Sez. I,
sentenza 26.03.2016 n. 216), afferma che
il recupero dei sottotetti effettuati ai sensi della legge regionale
della Lombardia n. 12/2005 è soggetto al rispetto della distanza dai
confini, nella misura prevista dal Piano di Governo di Territorio,
nonostante la legge regionale disponga che detti interventi siano ammessi "in
deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione
comunale vigenti ed adottati".
(...continua)
(23.12.2019 - tratto da e link a www.dirittopa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
A. Fanizza,
Danno da occupazione
(23.12.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
R. De Nictolis,
Il risarcimento del danno: modalità e
tecniche di liquidazione nel settore delle pubbliche gare (23.12.2019 -
tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Quadro di sintesi: i principi europei e le norme del
c.p.a. - 2. Natura della responsabilità della stazione appaltante in
relazione alle procedure di affidamento. - 3. La responsabilità
precontrattuale nelle procedure di affidamento. - 3.1. La giurisdizione. -
3.2. Natura giuridica della responsabilità precontrattuale. - 3.3.
Configurazione della responsabilità precontrattuale della p.a. prima della
Cass., sez. un., n. 500/1999. - 3.4. La responsabilità precontrattuale della
pubblica amministrazione dopo le sez. un. del 1999. - 3.5. Momento in cui
sorge la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante. - 3.6.
Ipotesi di responsabilità precontrattuale. - 3.7. Danno risarcibile nella
responsabilità precontrattuale. - 3.8. Risarcimento del danno per
responsabilità precontrattuale e indennizzo per revoca legittima. - 4.
Risarcimento e colpa della stazione appaltante. - 4.1. La giurisprudenza
nazionale sulla colpa della stazione appaltante: dalla colpa in re ipsa alla
presunzione relativa di colpa. - 4.2. La giurisprudenza comunitaria in tema
di onere della prova della colpa della p.a. in materia di pubblici appalti.
- 4.3. La prova della colpa in caso di esecuzione di sentenza di primo grado
riformata in appello. La responsabilità oggettiva per impossibilità
sopravvenuta. - 5. Il danno da perdita di chance. - 5.1. Nozione e danno
risarcibile. - 5.2. La temporanea eliminazione del danno da perdita di
chance da aprile a settembre 2010. - 5.3. Il risarcimento in forma specifica
e per equivalente della chance. - 5.4. Modalità del ristoro della perdita di
chance per equivalente: il rinnovo virtuale della gara e la liquidazione
equitativa. - 5.5. La misura della chance quale criterio dell’an ovvero del
quantum del risarcimento della chance: la teoria eziologica e la teoria
ontologica. - 6. Il c.d. risarcimento in forma specifica in materia di
procedure di affidamento di pubblici appalti. Il concorso tra risarcimento
in forma specifica e per equivalente. - 7. La quantificazione del
risarcimento per equivalente. - 7.1. Domanda di parte e onere della prova.
Scompare la liquidazione forfettaria del mancato utile. - 7.2. La mancata
domanda di subentro nel contratto e la quantificazione del risarcimento per
equivalente ai sensi dell’art. 1227 c.c. - 7.3. Il danno emergente. - 7.4.
Il lucro cessante come mancato utile. - 7.5. Il c.d. danno curricolare. -
7.6. Il danno all’immagine professionale. - 8. Risarcimento del danno e
informativa antimafia. - 9. Profili processuali. La tecnica della condanna
sull’an con i criteri per il quantum. |
PUBBLICO IMPIEGO:
La durata del rapporto di lavoro dei dirigenti a contratto non può andare
oltre il mandato politico. Continuano gli errori interpretativi indotti
dalla deleteria sentenza della Cassazione 478/2014
(22.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: M.
Chiarelli,
L’ANAC e gli obblighi di trasparenza dopo la sentenza della Corte
costituzionale n. 20 del 2019
(18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa: gli obblighi di trasparenza sottoposti alla
Corte costituzionale. - 2. La rimessione alla Corte. - 3. Il conflitto tra
trasparenza e tutela dei dati personali nella sentenza n. 20 del 2019. - 4.
L'intervento interpretativo dell'ANAC con la delibera n. 587 del 26.06.2019.
- 5. Conclusioni: gli obblighi di trasparenza e gli Ordini professionali. |
APPALTI SERVIZI: G.
Barozzi Reggiani,
In house providing, capitali privati e vincoli per il legislatore
(18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Considerazioni introduttive - 2. I caratteri dell’in
house providing nelle ricostruzioni antecedenti l’entrata in vigore delle
Direttive del 2014 in materia di appalti e concessioni e le novità apportate
da queste ultime - 2.a. Il quadro normativo previgente alle riforme europee
del 2014 - 2.b Le novità apportate dal "pacchetto di Direttive" del 2014 e
la sclerosi del legislatore nazionale. Le questioni interpretative
concernenti la locuzione "prescritte dalle disposizioni legislative
nazionali” presente nei testi europei - 3. Le interpretazioni (oscillanti)
del Consiglio di Stato rispetto alle disposizioni del Codice dei contratti
pubblici e del T.u. partecipate - 4. Considerazioni critiche alle
ricostruzioni offerte dai due pareri del Consiglio di Stato, sotto entrambi
i profili analizzati. La prospettiva di una terza soluzione interpretativa
4.a In riferimento al primo profilo (presenza obbligatoria o facoltativa, in
quanto prescritta ovvero prevista da disposizioni legislative, di capitali
privati al soggetto in house) - 4.b Sul secondo profilo: quale legge? - 5.
Altre questioni - 6. Conclusioni. |
ENTI LOCALI: Un
colpo al "controllo collaborativo" della Corte dei conti, che non ha
mai davvero funzionato?
(18.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Delega
negli enti locali - Excursus - parte IV
(17.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Appalti:
incentivi tecnici, le non condivisibili interpretazioni della Corte dei
conti su concessioni e partenariati pubblico privati
(16.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: Appalti:
La rotazione lede la concorrenza e la salvaguardia dei bilanci pubblici, se
attuata con eccessivo rigorismo
(13.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
falso mito dell'abolizione della dotazione organica sostituita da quella "solo
finanziaria"
(06.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: Appalti:
il falso mito che le procedure sotto soglia "semplificate" siano più
semplici di quelle ordinarie
(05.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
M. Conforti,
L’INCANDIDABILITÀ NELLE ELEZIONI COMUNALI (PublikaDaily n. 22
- 04.12.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
SEGGIO DI GARA E COMMISSIONE: MODALITÀ DI COSTITUZIONE E COMPETENZE (PublikaDaily
n. 22 - 04.12.2019). |
APPALTI SERVIZI:
C. Contessa,
Lo stato dell’arte in tema di affidamenti in house
(dicembre 2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Aspetti generali della questione. – 2. Principali
acquisizioni giurisprudenziali in materia di in house providing prima del
‘pacchetto normativo’ del 2014 (sintesi). - 3. Le novità in tema di in house
providing introdotte dal nuovo Codice dei contratti pubblici e dal ‘Decreto
correttivo’. – 4. Le differenze tra la nuova disciplina e quella anteriore
al 2016. – 5. Il requisito del controllo analogo. - 6. Il controllo analogo
in caso di in house pluripartecipato. - 7. Il requisito dell’attività
prevalente nelle società pluripartecipate. - 8. L’in house è una modalità di
affidamento ordinaria ovvero speciale ed eccezionale? - 9. La questione
della fallibilità delle società in house. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E.
Carloni,
Obiettivi di bonifica e destinazioni d’uso (Urbanistica e
appalti n. 6/2019).
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L’articolo analizza il delicato tema del rapporto tra normativa ambientale e
disciplina urbanistica nell’ambito delle procedure di bonifica dei siti
contaminati in relazione al tema dell’individuazione degli specifici livelli
di bonifica richiesti.
La normativa ambientale, compresa quella antecedente all’attuale Codice
dell’ambiente, richiamando la “destinazione d’uso” dei siti quale parametro
da utilizzare per fissare l’obiettivo di bonifica, non specifica cosa si
debba intendere con tale espressione.
In assenza di un’espressa definizione a livello normativo, sono andati
sviluppandosi differenti e contrapposti orientamenti giurisprudenziali e
dottrinali sul punto: un primo filone ha interpretato tale
espressione come riferita alla destinazione d’uso urbanistica impressa negli
strumenti di pianificazione generale, un’altra corrente ha invece
ricondotto l’espressione “destinazione d’uso” all’uso effettivo che del sito
viene fatto in concreto. |
APPALTI:
G. Carrozzo,
I limiti
quantitativi al subappalto e la recente sentenza CGUE C-63/2019
(26.11.2019 - link a www.filodiritto.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Voglia
di scudo anche dei sindaci
(22.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati patrimoniali dei dirigenti. Accolto ricorso Cosmed
(21.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
F. Fina,
False
dichiarazioni nel concorso: non sempre giustificano l’esclusione dalla
procedura (21.11.2019 - tratto da e link a
www.filodiritto.com).
---------------
Commento a TRIBUNALE di Brindisi, Sez. lavoro, sentenza 13.11.2019 n. 2502. |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
A. Sacchi,
TRASPARENZA E PRIVACY NEL PNA 2019 (PublikaDaily n. 21 -
20.11.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
L'ACCESSO AGLI ATTI DELLE VALUTAZIONI DEI DIPENDENTI
- commento a TAR Basilicata, sentenza 08.02.2019 n. 169 (PublikaDaily
n. 21 - 20.11.2019).
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SENTENZA
La dott.ssa An.Di. è stata dipendente del Comune di Grottole fino al
06.05.2018, quando è stata assunta per mobilità dal Comune di Matera, e con
Decreto n. 8 del 13.03.2014 il Sindaco di Grottole le ha conferito
l’incarico di Responsabile dell’Area Amministrativa, che ha svolto dal
17.04.2014 al 31.12.2014.
Con nota del 04.07.202018 è stata notificata alla dott.ssa An.Di. la
valutazione negativa del Nucleo di Valutazione del Comune di Grottole con
riferimento allo svolgimento del predetto incarico di Responsabile dell’Area
Amministrativa, con la disponibilità del Nucleo di Valutazione ad esaminare
tale giudizio in contraddittorio.
Con istanza del 29.7.2018 la dott.ssa An.Di. ha chiesto la copia delle
valutazioni del Nucleo di Valutazione, relative allo svolgimento nell’anno
2014 dell’incarico di direzione delle altre 3 Aree del Comune, cioè
dell’operato del Rag. Gi.Fa., Responsabile dell’Area Economico-finanziaria,
dell’ing. Ro.Vi., Responsabile dell’Area Tecnica, e del Comandante Gi.Lo.,
Responsabile dell’Area Vigilanza, ed anche del Segretario comunale Ma.Lu.Ca.,
in quanto aveva diretto l’Area Amministrativa dall’01.01.2014 al 16.03.2014,
unitamente alla copia di tutta la documentazione, presentata dai predetti
funzionari, “al fine di controdedurre” al giudizio negativo espresso
dal Nucleo di Valutazione nei suoi confronti.
In data 12.09.2018 è stato trasmesso alla dott.ssa An.Di. il verbale n. 9
dell’11.09.2018, con il quale il Nucleo di Valutazione faceva presente che i
predetti documenti non erano accessibili, “in quanto ricorrono i
presupposti dell’applicazione della normativa vigente sulla Privacy, che
riconosce al lavoratore dipendente non solo la tutela della riservatezza in
senso più stretto, ma anche dell’identità personale del lavoratore che nel
contesto lavorativo ha il diritto di limitare la diffusione di notizie che
lo riguardano”, “per prevenire la conoscenza ingiustificata da parte
di persone non autorizzate, tant’è che l’Amministrazione è tenuta ad
adottare forme di comunicazione con il dipendente protette ed
individualmente mediante l’inoltro di mail personali, note in busta chiusa o
con ritiro personale”.
La dott.ssa An.Di. con il presente ricorso, notificato il 27/28.09.2018 e
depositato il 03.10.2018, ha impugnato il silenzio-rigetto, formatosi il
28.08.2018, sull’istanza di accesso del 29.07.2018, ed anche il verbale del
Nucleo di Valutazione del Comune di Grottole n. 9 dell’11.09.2018, deducendo
la violazione dell’art. 24, comma 7, L. n. 241/1990, in quanto la
documentazione richiesta “è necessaria per consentire alla ricorrente di
confutare la valutazione negativa subita anche in via giudiziale, al fine di
effettuare la verifica comparativa con le valutazioni conseguite dagli altri
colleghi e di accertare eventuali disparità di trattamento”.
Successivamente, con Del. G.M. n. 95 del 23.10.2018 il Comune di Grottole ha
autorizzato l’accesso ai suddetti documenti.
Con memoria del 10.01.2019 la ricorrente ha insistito per la condanna del
Comune di Grottole al pagamento delle spese di lite.
Nella Camera di Consiglio del 06.02.2019 il ricorso è passato in decisione.
Ciò stante, al Collegio non rimane altro che dichiarare, ai sensi dell’art.
35, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., l’improcedibilità del ricorso in
esame per sopravvenuta carenza di interesse.
Tenuto conto del comportamento di ravvedimento operoso, il
Comune di Grottole va condannato parzialmente al pagamento delle spese di
giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata dichiara
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso in epigrafe.
Condanna parzialmente il Comune di Grottole al pagamento in
favore della ricorrente delle spese di giudizio, che vengono liquidate, ai
sensi degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 6, D.M. n. 55/2014 e della Tabella
n. 21 (scaglione da € 26.000,01 a € 52.000,00) allegata allo stesso D.M. n.
55/2014, in complessivi € 2.000,00 oltre IVA, CPA e spese a titolo di
Contributo Unificato nella misura versata
(TAR Basilicata,
sentenza 08.02.2019 n. 169 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
P. Carpentieri,
Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni. La “rigenerazione
urbana"
(18.11.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
1. L’espansione dei centri urbani e l’erosione delle campagne. - 2. Il
“suolo” e i suoi diversi significati. - 3. Perché legare insieme minor
consumo di suolo e rigenerazione urbana. - 4. L’occasione per una
“rinascita” dell’urbanistica? - 5. Le domande principali. - 6. Il contributo
dell’Unione europea. - 7. Gran Bretagna e Germania. - 8. I disegni di legge.
- 8.1. Gli antecedenti normativi più recenti. - 8.2. Il primo d.d.l.
“Catania” del 2012. - 8.3. Il d.d.l. del 2013 AC 2039 “Contenimento del
consumo del suolo e riuso del suolo edificato”. - 8.4. I disegni di legge
presentati nell’attuale legislatura. - 9. Le leggi regionali. - 10. Un
tentativo di sistemazione giuridica. - 11. Il ruolo centrale della
pianificazione paesaggistica, dei piani regolatori comunali, della v.i.a. e
della v.a.s. - 12. La rigenerazione urbana e il recupero delle periferie. -
12.1. La nozione. - 12.2. Quali strumenti utilizzare? - 12.3. La
rigenerazione urbana “dal basso”. - 12.4. Il problema della micro-proprietà
privata parcellizzata e i “piani casa”. - 13. Conclusioni. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le novità in tema di assunzioni. Dpcm 03.09.2019 - Possibili ricadute sugli
enti locali
(11.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo
chiamare idonei di graduatorie a tempo indeterminato per lavori a termine,
vigente il regime della legge 145/2018
(07.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ccnl
e decreto crescita: la media delle Posizioni Organizzative è necessariamente
separata da quella del Fondo
(05.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le
risorse variabili discrezionali esistono ancora
(01.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: G.
Milo,
ATTIVITÀ ISTITUZIONALE DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE E ATTI DI PIANIFICAZIONE
URBANISTICA
(novembre 2019 -
www.ambientediritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1) Pianificazione delle destinazioni d’uso del
territorio; 2) Il mutamento di destinazione d’uso ed i provvedimenti
amministrativi legittimanti tale mutamento: l’evoluzione della disciplina;
3) L’art. 23-ter del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; 4) attività degli enti del
Terzo settore e disciplina delle destinazioni d’uso urbanistiche. |
EDILIZIA PRIVATA: S.
De Rosa,
L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO E L’ORDINE DI DEMOLIZIONE. Il contrasto
all’abusivismo edilizio tra obbligo di motivazione e legittimo affidamento
(novembre 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
--------------
SOMMARIO: 1. Premesse. – 2. L’annullamento d’ufficio del titolo
edilizio illegittimo: l’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017. –
3. L’incidenza del decorso del tempo sull’ordine di demolizione di manufatto
abusivo: l’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2017. – 4.
Osservazioni conclusive. |
EDILIZIA PRIVATA:
L. B. Molinaro,
DOPO LA CORTE EUROPEA ANCHE LA CASSAZIONE “APRE” ALL’“ABUSO DI
NECESSITÀ” - Via libera degli ermellini al bilanciamento dei
diritti e alla “valutazione di proporzionalità tra l’abuso -se di
dimensioni tali da farlo ritenere di necessità- e gli interessi della
comunità al rispetto delle norme” - Nota a cass. pen., sez. III,
02.10.2019, n. 40396
(novembre 2019 - tratto da
www.ambientediritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La sentenza “ivanova” e gli approdi
interpretativi della corte europea in materia di “proporzionalità” della
sanzione demolitoria. 3. L’apertura Della Sentenza In Commento: L’abuso È
Considerato Di Necessità Se Presenta Limitate Dimensioni. 4. La scriminante
dell’abuso di necessità nella giurisprudenza di legittimità. 5.
Considerazioni Finali. |
SEGRETARI COMUNALI: Per
la carenza dei segretari comunali servono concorsi, non soluzioni
improvvisate
(28.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
SEGRETARI COMUNALI:
L. Oliveri, Segretari
comunali: tra estinzione e spoils system
(15.10.2019 - link a https://phastidio.net). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Delega
negli enti locali - Excursus - parte III
(14.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: Presidenza
delle commissioni di gara: l’erronea prospettiva della funzione
amministrativa
(09.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Delega negli enti locali - Excursus - parte II
(06.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Delega
negli enti locali - Excursus - parte I
(05.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: Concessioni
di punti di ristoro in scuole e uffici pubblici non sono concessioni di
servizi cui si applica il codice dei contratti
(02.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI:
V. Ferrara,
L’accesso nelle procedure di pubblica evidenza: la complessa ricerca di una
pacifica convivenza tra esigenze di riservatezza e diritto a conoscere
(De Iustitia n. 3/2019 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. L’istituto dell’accesso agli atti: origini ed
evoluzione; - 1.1. L’accesso civico generalizzato; - 2. L’accesso agli atti
di gara: breve esegesi dell’art. 53 d.lgs. 50/2016; - 3. Qualificazione
dell’istanza di accesso: sull’applicabilità dell’accesso civico
generalizzato agli atti di gara; - 3.1. La tesi dell’esclusione dell’accesso
civico generalizzato alla materia degli appalti; - 3.2. La tesi
dell’applicabilità dell’accesso civico generalizzato agli atti di gara; - 4.
La tutela dei segreti tecnici e commerciali; 5. Conclusioni. |
APPALTI SERVIZI: E.
Boccia,
La (possibile) partecipazione di un soggetto privato all’interno di una
società in house providing alla luce delle recenti evoluzioni
normative (De Iustitia n. 3/2019 - tratto da
www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa; - 2. L’evoluzione del modello dell’in house
providing; - 3. Il modello dell’in house providing nel T.U. in materia di
società a partecipazione pubblica; - 4. La (possibile) partecipazione di un
soggetto privato al capitale di una società a totale partecipazione
pubblica; 5. Conclusioni. |
ATTI AMMINISTRATIVI: G.
Dezio,
Pubbliche amministrazioni, accesso e trasparenza alla prova del nuovo GDPR
(De Iustitia n. 3/2019 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa: privacy e trasparenza, l’esigenza di un
equo bilanciamento. - 2. Il regolamento UE 2016/679. - 3. Il rapporto tra
privacy, trasparenza amministrativa e accountability alla luce del GDPR. |
EDILIZIA PRIVATA: E.
Centore,
La tutela del terzo controinteressato nell’ambito della S.C.I.A. -
Interviene la Corte costituzionale (De Iustitia n. 2/2019
- tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. La S.C.I.A. come regime amministrativo ex post delle
attività private. - 2. I c.d. contropoteri spettanti alla P.A., alla luce
della l. n. 124/2015. - 3. La natura giuridica della S.C.I.A. e la tutela
del controinteressato, tra giurisprudenza e interventi normativi: L’azione
di accertamento (atipica) e il “nuovo” art. 19, comma 6-ter. - 4. La
questione di legittimità costituzionale sollevata da TAR Toscana, ord. n.
667/2017. - 5. Anche il TAR Emilia Romagna, Parma, ord. n. 12/2019, solleva
la questione di legittimità costituzionale sul comma 6-ter. - 6.
L’intervento della Corte costituzionale, n. 45/2019. - 7. Osservazioni
conclusive e possibili sviluppi normativi. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ La parità vale sempre. Anche per le nomine
in corso di consiliatura. L’uguaglianza di genere nelle giunte non deve
poter essere aggirata.
Per rispettare la normativa in tema di parità di
genere nelle giunte si deve sostituire l'assessore esterno che si sia
dimesso nel corso della consiliatura?
Il caso segnalato si riferisce a un comune con popolazione superiore a 3.000
abitanti la cui giunta era formata da quattro assessori oltre al sindaco. A
seguito delle dimissioni dell'assessore esterno di genere femminile,
attualmente la giunta è composta da quattro uomini, compreso il sindaco, e
da una sola donna.
Atteso che lo statuto dell'ente contempla la possibilità di nominare un
numero di assessori non inferiore a tre e non superiore a quattro, sorge il
dubbio se, nello specifico caso, visto che la situazione attuale è
conseguente alle dimissioni dell'assessore esterno e non ad una nuova nomina
effettuata dal sindaco, sia possibile mantenere la composizione della giunta
come risultante a seguito delle suddette dimissioni o sia necessario
riequilibrare le percentuali di genere previste dalla vigente normativa. La
normativa di riferimento dispone che «nelle giunte dei comuni con
popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Al riguardo, il Consiglio di stato, con sentenza n. 4626 del 05/10/2015, ha
precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell'art. 1, comma 137,
trovano in esso «un ineludibile parametro di legittimità» e,
pertanto, un'interpretazione che riferisse l'applicazione della norma alle
sole nomine assessorili effettuate all'indomani delle elezioni e non anche a
quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento
della suddetta normativa. Tali osservazioni sono state ribadite da ultimo
dal Tar Abruzzo con sentenza n. 105 del 2019 (articolo ItaliaOggi del 27.12.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Riduzione a 35 ore settimanali dell’orario di lavoro, polizia locale.
Domanda
È ancora possibile prevedere la riduzione dell’orario di lavoro del
personale turnista, con particolare riferimento alla Polizia locale? E’
necessario inserire delle norme nel Contratto Collettivo Integrativo?
Risposta
Per rispondere al quesito è necessario ricostruire il quadro normativo
legato alla possibilità di ridurre l’orario di lavoro del personale che
svolte attività articolate in turni.
a) La questione della riduzione dell’orario di settimanale a 35 ore
è stata posta nell’art. 22 del CCNL regioni e autonomie locali, del
01.04.1999, che testualmente prevede:
Art. 22 – Riduzione di orario
1. Al personale adibito a regimi di orario articolato in più turni
o secondo una programmazione plurisettimanale, ai sensi dell’art. 17, comma
4, lett. b) e c), del CCNL del 06.07.1995, finalizzati al miglioramento
dell’efficienza e dell’efficacia delle attività istituzionali ed in
particolare all’ampliamento dei servizi all’utenza, è applicata, a decorrere
dalla data di entrata in vigore del contratto collettivo decentrato
integrativo, una riduzione di orario fino a raggiungere le 35 ore medie
settimanali. I maggiori oneri derivanti dall’applicazione del presente
articolo devono essere fronteggiati con proporzionali riduzioni del lavoro
straordinario, oppure con stabili modifiche degli assetti organizzativi.
2. I servizi di controllo interno o i nuclei di valutazione,
nell’ambito delle competenze loro attribuite dall’art. 20 del D.Lgs.
29/1993, verificano che i comportamenti degli enti siano coerenti con gli
impegni assunti ai sensi del comma 1, segnalando eventuali situazioni di
scostamento.
3. La articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro secondo
quanto previsto dal CCNL del 06.07.1995 è determinata dagli enti previo
espletamento delle procedure di contrattazione di cui all’art. 4.
4. Le parti si impegnano a riesaminare la disciplina del presente
articolo alla luce di eventuali modifiche legislative riguardanti la materia
[1].
b) Il CCNL del 21.05.2018, all’art. 2, comma 8, stabilisce che per
gli istituti non disciplinati “continuano a trovare applicazione le
disposizioni dei precedenti CCNL non disapplicate”.
c) L’articolo 49 – Disapplicazioni, del citato CCNL del 2018, non
contempla l’art. 22 del CCNL 01/04/1999, tra le norme non più applicabili;
d) In aggiunta, va ricordato che l’art. 3, comma 7, del CCNL 2018,
afferma che “Le clausole del presente titolo sostituiscono integralmente
tutte le disposizioni in materia di relazioni sindacali previste nei
precedenti CCNL, le quali sono pertanto disapplicate”;
e) L’art. 5, comma 3, lettera a), del CCNL 2018, prevede tra le
materie oggetto di “Confronto” l’articolazione delle tipologie dell’orario
di lavoro;
f) La riduzione dell’orario di lavoro (sino) a 35 ore settimanali,
non è prevista tra le materie soggette a contrattazione, come
dettagliatamente elencate nell’art. 7, comma 4, lettere da a) a z), del CCNL
2018.
Tutto ciò premesso, la risposta al quesito è la seguente:
a) le norme sulla riduzione sino a 35 ore settimanali sono ancora
in vigore;
b) la materia non è più soggetta a contrattazione, come invece era
previsto nel comma 3, dell’art. 22, CCNL 1999 che va letto –dopo il
22.05.2018– in combinato disposto con l’art. 3, comma 7, dell’ultimo CCNL;
c) la questione è, oggi, materia di confronto, alla luce dell’art.
5, comma 3, lettera a) del CCNL 2018;
d) di conseguenza è da evitare qualsiasi inserimento nel contratto
decentrato integrativo (dove la clausola sarebbe nulla), ma di prevederlo
nell’ambito delle attività di confronto, come disciplinate nell’art. 5,
comma 2, del CCNL 2018;
e) se la riduzione dell’orario, nel comune per la Polizia locale, è
già prevista, può essere sufficiente una semplice norma di “conferma” in un
verbale di confronto.
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[1] NOTA: Come si può notare, la riduzione non era (e non è!) affatto
scontata e ci deve essere una verifica del Nucleo di Valutazione su come
fronteggiare i costi dell’eventuale riduzione, indicando due possibili
strade: la riduzione del fondo del lavoro straordinario o una stabile
modifica degli assetti organizzativi (19.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
di segreteria generale di questo Ente chiede di conoscere se occorre
procedere, ed in che termini, alla pubblicazione dei dati reddituali e
patrimoniali dei dirigenti ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs.
14.03.2013, n. 33 o se permane la sospensione dopo la sentenza della Corte
Costituzionale.
Come noto la vicenda della pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti
pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33
si è complicata a seguito della declaratoria di incostituzionalità da parte
della Corte Costituzionale con la sentenza 23.01.2019 n. 20 "nella parte
in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui
all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per
tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti,
ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo
politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari
degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A seguito di detta sentenza ANAC era intervenuta, pur con ampie critiche,
attraverso la Del. 26.06.2019 n. 586 dell'ANAC «Integrazioni e modifiche
della delibera 08.03.2017, n. 241 per l'applicazione dell'art. 14, co. 1-bis
e 1-ter del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza n. 20 del
23.01.2019 della Corte Costituzionale» con cui l'Autorità ha modificato
e integrato la citata Del. 08.03.2017, n. 241 e fornito precisazioni sulla
delibera 1134/2017 in merito ai criteri e modalità di applicazione dell'art.
14, comma 1, 1-bis e 1-ter, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 alle amministrazioni
pubbliche e agli enti di cui all'art. 2-bis del medesimo decreto, alla luce
della sentenza della Corte Cost. 23.01.2019, n. 20.
A questa delibera sono seguite da più parti richieste di chiarimento, ed in
particolare dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e della
Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e
Province autonome attraverso riunioni operative con la stessa autorità.
Negli incontri, in attesa dell'intervento legislativo chiarificatore
sull'applicazione dell'art. 14, comma 1-bis, con riferimento alla
pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali [art. 14, comma 1, lett.
f)] richiamato dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale, le Regioni,
nella fase transitoria, identificano, entro il 01.03.2020, in appositi atti
legislativi, ovvero normativi o amministrativi generali, gli strumenti utili
all'attuazione della norma tenuto conto delle peculiarità del proprio
assetto organizzativo e alla luce dell'intervento della Corte Costituzionale
e della Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC.
Con ordinanza cautelare il TAR Lazio Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579, in
accoglimento dell'istanza cautelare di due dirigenti sanitari titolari di
struttura complessa dell'Azienda sanitaria locale di Matera, ha sospeso la
deliberazione dell'omonima Asl con cui veniva richiesta ai suddetti
dirigenti la trasmissione dei dati ex art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs.
14.03.2013, n. 33 e rinviata la causa al merito del 22.04.2019.
Sulla base di questi presupposti e dell'incertezza normativa che ne è
derivata l'Autorità ha ritenuto opportuno, con Del. 04.12.2019 n. 1126:
"- In attesa dell'intervento legislativo nazionale
chiarificatore sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs.
33/2013, di rinviare alla data del 01.03.2020 l'avvio della propria attività
di vigilanza sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs.
14.03.2013, n. 33 -dati reddituali e patrimoniali- con riferimento ai
dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da queste dipendenti;
- Fermo restando quanto previsto nella delibera ANAC n. 586/2019
per i dirigenti del SSN, di sospendere, alla luce dell'ordinanza cautelare
del TAR Lazio n. 7579 del 21.11.2019, l'efficacia della richiamata delibera
limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione dell'art. 14, co.
1, lett. f), del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 ai dirigenti sanitari titolari di
struttura complessa fino alla definizione nel merito del giudizio".
Ciò premesso e considerato, venendo al quesito proposto, ne deriva che:
1) l'obbligo di pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti
pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33
è vigente;
2) tale obbligo legittima le amministrazioni a procedere alla
pubblicazione dei dati in applicazione della citata normativa e della
sentenza della Corte Costituzionale;
3) tuttavia la delibera Anac ha ritenuto opportuno sospendere la
propria attività di vigilanza e la propria deliberazione in materia "con
riferimento ai dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da
queste dipendenti" ed "ai dirigenti sanitari titolari di struttura
complessa";
4) ANAC non ha disposto analoga sospensione per i dirigenti di
altri settori/comparti.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, qualora il richiedente non faccia parte
del SSN dovrà valutare di procedere in ogni caso alla dovuta pubblicazione,
eventualmente valutando forme di minimizzazione e previo ulteriore
approfondimento sui contenuti della sentenza della Corte Costituzionale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14 - Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC
Riferimenti di giurisprudenza
Corte Cost., sentenza 23.01.2019, n. 20
Documenti allegati
Del. 04.12.2019 n. 1126 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 del Presidente
ANAC - TAR Lazio-Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579
(18.12.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PATRIMONIO: L’avvalimento
nelle concessioni.
Domanda
È corretto consentire l’istituto dell’avvalimento una concessione decennale
di gestione di una struttura pubblica?
Risposta
L’istituto dell’avvalimento ai fini della partecipazione alle procedure di
gara, in particolare a quelle inerenti le concessioni, trova disciplina
nell’art. 172, co. 2, del d.lgs. 50/2016, in base al quale si stabilisce
che: “Per soddisfare le condizioni di partecipazione di cui al comma 1,
ove opportuno e nel caso di una particolare concessione, l’operatore
economico può affidarsi alle capacità di altri soggetti, indipendentemente
dalla natura giuridica dei suoi rapporti con loro. Se un operatore economico
intende fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, deve dimostrare
all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore che disporrà
delle risorse necessarie per l’intera durata della concessione. Per quanto
riguarda la capacità finanziaria, la stazione appaltante può richiedere che
l’operatore economico e i soggetti in questione siano responsabili in solido
dell’esecuzione del contratto. Alle stesse condizioni, un raggruppamento di
operatori economici di cui all’articolo 45 può fare valere le capacità dei
partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti. In entrambi i casi si
applica l’articolo 89”.
Il richiamo all’art. 89, ovvero norma che definisce l’istituto dell’avvalimento
nelle procedure di aggiudicazione di appalti, fa ritenere in modo chiaro, la
volontà del legislatore nazionale di consentirne il ricorso anche nel caso
di procedure finalizzate all’affidamento di concessioni.
Tuttavia a differenza degli appalti, nelle concessioni si chiede alla
pubblica amministrazione di fare delle concrete valutazioni in ordine
all’opportunità di consentire la possibilità di affidarsi alla capacità di
altri soggetti, e quindi eventualmente di limitare nella disciplina speciale
di gara il ricorso a tale istituto.
La natura stessa di una concessione, quale contratto che presenta spesso una
durata importante, rende inadatto l’istituto dell’avvalimento, proprio per
la concreta difficoltà nella dimostrazione, all’amministrazione
aggiudicatrice, circa la capacità dell’operatore partecipante di poter
effettivamente disporre, per tutta la durata del contratto, e quindi per un
periodo ad esempio ultradecennale, delle risorse necessarie.
Soprattutto quando si tratta dei requisiti di capacità tecnica ed
organizzativa nelle concessioni ove l’oggetto principale è una gestione
complessiva, proprio per la difficoltà di valutare e considerare tutti quei
fattori e quegli elementi che incidono concretamente sull’equilibrio
economico e finanziario.
Pertanto, fermo restando la natura dell’istituto dell’avvalimento che la
giurisprudenza considera di applicazione generale e volto a consentire la
più ampia partecipazione, nel caso di concessioni, è necessario valutare
l’opportunità, in base agli specifici affidamenti, di introdurre negli atti
di gara delle clausole che ne limitino il ricorso (18.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Responsabilità
e rischi connessi all’incarico di responsabile della prevezione della
corruzione e trasparenza.
Domanda
Sono stato nominato da poco Responsabile della Prevenzione della Corruzione
e Trasparenza dalla mia amministrazione, ma non possiedo una formazione
specifica in materia e non ho del personale assegnato allo staff, per cui
vorrei sapere quali sono le mie responsabilità ed i rischi connessi a tale
incarico.
Risposta
La responsabilità della scelta del dipendente a cui attribuire l’incarico di
Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) è
dell’organo di indirizzo [1]
che è tenuto ad adottare le modifiche organizzative necessarie ad assicurare
allo stesso, funzioni e poteri idonei e, dunque, anche personale e mezzi
tecnici adeguati.
In ogni caso, prima di affrontare il tema della responsabilità e dei rischi,
è necessario comprendere il ruolo del RPCT. Il cardine dei poteri del RPCT,
specifica l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nella delibera n. 840
del 02.10.2018, è centrato sul prevenire la corruzione. A tale figura non
spetta l’accertamento di responsabilità, ma l’acquisizione di informazioni
sulle modalità di attuazione delle misure e la segnalazione agli organi
competenti (Organismo Interno di Valutazione, vertice politico, ufficio di
disciplina) dei dipendenti che non le attuano.
In aggiunta alla citata delibera, si consiglia di consultare la parte IV del
Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2019, approvato con deliberazione ANAC
n. 1064 del 13.11.2019 e l’Allegato 3 dello stesso PNA.
Sinteticamente il RPCT deve:
• proporre all’organo di indirizzo il Piano Triennale di
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), che contiene l’analisi
dei processi a rischio e le misure di prevenzione, vigilare sull’osservanza
dello stesso e proporre i correttivi necessari in caso di significative
violazioni, modifiche organizzative o funzionali;
• relazionare sull’attività svolta, ai sensi dell’art. 1, comma 14,
secondo periodo, della legge 06.11.2012, n. 190. La norma prevede il termine
del 15 dicembre, ma l’ANAC, da alcuni anni, differisce il termine al 31
gennaio dell’anno successivo. Per quest’anno consultare il comunicato del
Presidente dell’Autorità del 13.11.2019;
• verificare che si attui la rotazione o, in mancanza, che ci siano
adeguate misure alternative;
• individuare i dipendenti coinvolti in procedimenti a rischio
corruzione ai fini dell’inserimento in appositi programmi di formazione.
Il RPCT è, dunque, chiamato a delineare la strategia di prevenzione della
corruzione adeguata all’amministrazione di riferimento e verificare il
rispetto delle misure di prevenzione da parte dei dipendenti.
Pertanto –seppure è importante che il RPCT acquisisca una formazione di
carattere tecnico-giuridico– è bene privilegiare, nella scelta del soggetto,
altre valutazioni. Si deve trattare di un soggetto dalla condotta
integerrima, un dirigente che conosca bene l’amministrazione,
l’organizzazione, i processi di lavoro, che abbia una capacità di analisi e
sia in grado di sensibilizzare il personale.
La negligenza del RPCT può comportare delle significative responsabilità nel
caso di commissione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di
corruzione, accertato con sentenza passata in giudicato, nonché nel caso di
ripetute violazioni di misure di prevenzione previste dal piano.
I commi 12 e 14, dell’art. 1 della legge 190/2012, delineano una sorta di
responsabilità oggettiva in capo al RPCT, una responsabilità dirigenziale ex
art. 21, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, una responsabilità
disciplinare (con sanzione non inferiore alla sospensione del servizio con
privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei
mesi) e una responsabilità per danno erariale e all’immagine della pubblica
amministrazione.
Per andare esente da responsabilità il RPCT deve provare di aver predisposto
il PTPCT e vigilato sul funzionamento e l’osservanza dello stesso, nonché di
aver messo in atto tutte le misure, di cui ai commi 9 e 10 dell’art. 1,
della legge 190/2012 e di aver comunicato agli uffici le misure e le
modalità di attuazione. Le prove da fornire per andare esente da
responsabilità sono precisate in dettaglio nel paragrafo 9, della parte IV,
del PNA 2019.
Da ciò consegue che è importante tracciare tutta l’attività di informazione,
formazione e sensibilizzazione del personale. L’ANAC raccomanda anche di
prevedere adeguati meccanismi di monitoraggio e controllo. Pur considerando
la difficoltà di effettuare i controlli connessi al rispetto delle misure
concernenti l’imparzialità dei funzionari pubblici, è importante individuare
degli indicatori utili a verificare se le misure di prevenzione sono state
attuate. Nell’Allegato 1, al PNA 2019, l’ANAC ribadisce che l’individuazione
e la programmazione delle misure rappresentano la parte fondamentale, il “cuore”
del PTPCT e che un elenco generico di misure di prevenzione, non assolve al
compito di definire la strategia di prevenzione della corruzione.
La mancata adozione del PTPCT (come anche del Codice di comportamento)
comporta l’applicazione della sanzione amministrativa da 1.000 a 10.000
euro, ai sensi dell’art. 19, comma 5, lettera b), del decreto legge
24.06.2014, n. 90. Si tratta di una responsabilità in capo
all’Amministrazione ed è evidente che il RPCT non risponde in prima persona
qualora abbia proposto il PTPCT all’organo di indirizzo, ma quest’ultimo non
l’abbia adottato (si veda ad esempio la decisione dell’ANAC relativa al
procedimento sanzionatorio n. 649 del 18.07.2019).
Responsabilità dirette a carico del RPCT conseguono invece alla mancata
predisposizione di misure a tutela del whistleblowing. L’art. 54-bis, comma
6, d.lgs. 165/2001, prevede che “Qualora venga accertata l’assenza di
procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione
di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al
responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
Qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di
attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al
responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni
dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.”
In tema di trasparenza spetta al RPCT delineare chiaramente i soggetti
responsabili della pubblicazione sulle diverse sottosezioni di
Amministrazione Trasparente, al fine di andare esente dalle responsabilità
di cui agli artt. 46 e 47, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
L’individuazione di specifiche responsabilità risponde all’obiettivo di
costruire un modello a rete, che coinvolge tutti i soggetti
dell’amministrazione.
In questo ci aiuta anche il Testo Unico sul Pubblico Impiego: l’art. 16,
comma 1, lettera l-bis), l-ter) e l-quater) del d.lgs. 165/2001, individua,
infatti, specifici compiti in materia di prevenzione della corruzione in
capo a ciascun dirigente.
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[1] Articolo 1, comma 7, delle 190/2012 (17.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI FORNITURE: Acquisto
di attrezzatura da assegnare in uso al gruppo comunale di volontari di
protezione civile.
Atteso che il Comune è l’ente di base per la protezione
civile, ha la responsabilità primaria d’intervento e assicura
l’organizzazione ed il coordinamento degli apporti di volontariato, la cui
attività si svolge in forma di collaborazione, secondo le direttive
impartite dalle strutture istituzionali, si ritiene che non sussistano cause
ostative all’acquisto, con fondi propri dell’ente locale, di un’attrezzatura
da assegnare in uso al gruppo comunale di protezione civile.
Quanto alla possibilità di acquistare l’attrezzatura utilizzando parte
dell’avanzo di amministrazione, il cui impiego presuppone l’adozione di un
provvedimento di variazione di bilancio, si rileva che, ai sensi dell’art.
175, comma 3, del D.Lgs. 267/2000, il termine utile è il 30 novembre, non
essendo la fattispecie de qua annoverabile tra quelle per le quali è
consentito operare la variazione di bilancio entro il 31 dicembre.
Il Comune rappresenta di aver ricevuto un’istanza dal gruppo comunale di
volontari di protezione civile, volta ad ottenere in dotazione
un’attrezzatura che l’ente dovrebbe acquistare.
Poiché il Comune ha interpellato la Protezione civile della Regione, dalla
quale ha appreso di non poter ottenere attualmente alcun finanziamento per
l’acquisizione di cui trattasi, non essendo stato approvato il Piano tecnico
annuale previsto dall’art. 4 del decreto del Presidente della Regione
17.05.2002, n. 140/Pres. [1],
l’Ente chiede di conoscere se sussistano cause ostative all’acquisto del
bene con fondi propri, entro il corrente esercizio finanziario, utilizzando
parte dell’avanzo di amministrazione.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti considerazioni.
Circa la questione generale dell’ammissibilità di procedere all’acquisto,
con fondi propri, dell’attrezzatura da assegnare in uso al gruppo comunale
di protezione civile, non si ravvisano cause ostative, considerato che la
disciplina in materia assegna un ruolo centrale all’ente locale e valorizza
la rilevante funzione svolta dal volontariato di settore.
Si rammenta, infatti, che l’art. 7 della legge regionale 31.12.1986, n. 64,
dispone che il Comune:
- è l’ente di base per la protezione civile ed allo stesso è
riconosciuta la responsabilità primaria d’intervento (primo comma
[2]);
- partecipa allo svolgimento delle attività e dei compiti regionali
in materia di protezione civile assicurando, tra gli altri, l’organizzazione
ed il coordinamento degli apporti di volontariato (secondo comma
[3]).
Va, inoltre, rilevato che l’art. 29 della L.R. 64/1986 riconosce e promuove
la funzione del volontariato nello svolgimento delle attività di protezione
civile a tutti i livelli (primo comma [4]),
precisando che l’attività di volontariato “si svolge in forma di
collaborazione, secondo le direttive impartite dalle strutture
istituzionali” (secondo comma [5]).
Il rapporto funzionale esistente tra il Comune e il gruppo comunale di
volontari di protezione civile si evince anche dalle previsioni contenute
nel regolamento per la costituzione ed il funzionamento del gruppo adottato
da codesta Amministrazione [6],
nell’ambito del quale è sancito, in particolare, che il Sindaco è il
responsabile unico del gruppo (art. 3).
Quanto alla possibilità di acquistare l’attrezzatura richiesta dal gruppo
comunale di volontari di protezione civile utilizzando parte dell’avanzo di
amministrazione, il cui impiego presuppone l’adozione di un provvedimento di
variazione di bilancio [7],
occorre rilevare che, ai sensi dell’art. 175, comma 3 [8],
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il termine utile è scaduto il 30
novembre, non essendo la fattispecie de qua annoverabile tra quelle per le
quali è consentito operare la variazione di bilancio entro il 31 dicembre.
---------------
[1] Ai sensi dell’art. 14, comma 2, del medesimo D.P.Reg. 0140/2002 «Le
domande di finanziamento presentate in assenza del Piano tecnico annuale di
cui al comma 1, si intendono archiviate.».
[2] «Il Comune, fatte salve le attribuzioni spettanti al Sindaco in base
alle vigenti leggi, è, con riguardo al territorio di propria competenza,
l’ente di base per la protezione civile ed allo stesso è riconosciuta la
responsabilità primaria d’intervento all’atto dell’insorgere di situazioni
od eventi del genere di quelli considerati all’articolo 1, I comma, della
presente legge ovvero di quelli d’entità tale da poter essere fronteggiati
con misure ordinarie.».
[3] «Il Comune, anche in forma associata, partecipa, altresì, allo
svolgimento delle attività e dei compiti regionali in materia di protezione
civile, assicurando, in particolare:
- la rilevazione, la raccolta e la trasmissione dei dati interessanti la
protezione civile;
- la disponibilità di una carta a grande scala del proprio territorio con
l’indicazione delle aree esposte a rischi potenziali e di quelle
utilizzabili a scopo di riparo e protezione;
- la predisposizione di piani e programmi di intervento e di soccorso in
relazione ai possibili rischi, da integrare eventualmente con quelli di area
più vasta, di competenza di altri enti ed autorità;
- l’organizzazione e la gestione di servizi di pronto intervento da
integrare con quelli di aree più vaste;
- l’organizzazione ed il coordinamento degli apporti di volontariato;
- l’organizzazione e la gestione di attività intese a formare nella
popolazione la consapevolezza della protezione civile ed una idonea
conoscenza dei problemi connessi.».
[4] «La Regione riconosce la funzione del volontariato come espressione di
solidarietà sociale, quale forma spontanea, sia individuale che associativa,
di partecipazione dei cittadini all’attività di protezione civile a tutti i
livelli, assicurandone l’autonoma formazione, l’impegno e lo sviluppo.».
[5] «L’attività di volontariato ai fini della presente legge, è gratuita e
si svolge in forma di collaborazione, secondo le direttive impartite dalle
strutture istituzionali.».
[6] Con deliberazione del Consiglio comunale n. 41 del 29.09.1995, l’Ente ha
adottato il «Regolamento per la costituzione ed il funzionamento del gruppo
comunale di volontari di protezione civile», nel testo approvato con decreto
del Presidente della Giunta regionale 10.07.1991, n. 0381/Pres.
[7] Si veda, in particolare, l’art. 187, comma 2, del D.Lgs. 267/2002,
secondo il quale: «La quota libera dell’avanzo di amministrazione
dell’esercizio precedente, accertato ai sensi dell’art. 186 e quantificato
ai sensi del comma 1, può essere utilizzato con provvedimento di variazione
di bilancio, per le finalità di seguito indicate in ordine di priorità:
a) per la copertura dei debiti fuori bilancio;
b) per i provvedimenti necessari per la salvaguardia degli
equilibri di bilancio di cui all’art. 193 ove non possa provvedersi con
mezzi ordinari;
c) per il finanziamento di spese di investimento;
d) per il finanziamento delle spese correnti a carattere non
permanente;
e) per l’estinzione anticipata dei prestiti. Nelle operazioni di
estinzione anticipata di prestiti, qualora l’ente non disponga di una quota
sufficiente di avanzo libero, nel caso abbia somme accantonate per una quota
pari al 100 per cento del fondo crediti di dubbia esigibilità, può ricorrere
all’utilizzo di quote dell’avanzo destinato a investimenti solo a condizione
che garantisca, comunque, un pari livello di investimenti aggiuntivi.
Resta salva la facoltà di impiegare l’eventuale quota del risultato di
amministrazione “svincolata”, in occasione dell’approvazione del rendiconto,
sulla base della determinazione dell’ammontare definitivo della quota del
risultato di amministrazione accantonata per il fondo crediti di dubbia
esigibilità, per finanziare lo stanziamento riguardante il fondo crediti di
dubbia esigibilità nel bilancio di previsione dell’esercizio successivo a
quello cui il rendiconto si riferisce.».
[8] «Le variazioni al bilancio possono essere deliberate non oltre il 30
novembre di ciascun anno, fatte salve le seguenti variazioni, che possono
essere deliberate sino al 31 dicembre di ciascun anno:
a) l’istituzione di tipologie di entrata a destinazione vincolata e
il correlato programma di spesa;
b) l’istituzione di tipologie di entrata senza vincolo di
destinazione, con stanziamento pari a zero, a seguito di accertamento e
riscossione di entrate non previste in bilancio, secondo le modalità
disciplinate dal principio applicato della contabilità finanziaria;
c) l’utilizzo delle quote del risultato di amministrazione
vincolato ed accantonato per le finalità per le quali sono stati previsti;
d) quelle necessarie alla reimputazione agli esercizi in cui sono
esigibili, di obbligazioni riguardanti entrate vincolate già assunte e, se
necessario, delle spese correlate;
e) le variazioni delle dotazioni di cassa di cui al comma 5-bis,
lettera d);
f) le variazioni di cui al comma 5-quater, lettera b);
g) le variazioni degli stanziamenti riguardanti i versamenti ai
conti di tesoreria statale intestati all’ente e i versamenti a depositi
bancari intestati all’ente» (13.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
di alcuni consiglieri comunali facenti parte di associazioni locali.
1) Per i consiglieri comunali che
rivestono, altresì, la carica, rispettivamente, di Presidente, Segretario,
Tesoriere di un’associazione, che riceve contributi in denaro da parte
dell’amministrazione comunale, potrebbe sussistere la causa di
incompatibilità prevista dall’art. 63, c. 1, n. 1), del D.Lgs. 267/2000,
nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere
comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la
parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle
entrate dell’ente. Sotto il profilo soggettivo, atteso il diverso ruolo
svolto dai singoli consiglieri all’interno dell’associazione si deve
valutare, per ciascuno di essi, se rientrino o meno nella nozione di
amministratore o in quella di dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento.
2) Non può ricoprire la carica di amministratore locale “colui che,
come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune” (art. 63,
co. 1, n. 2, TUEL). La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al
soggetto che, rivestito di una delle predette qualità soggettive, nel
partecipare ad un servizio nell’interesse del Comune sia contestualmente
portatore di un proprio specifico interesse, contrapposto a quello generale
dell’ente locale e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con
l’esercizio imparziale della carica elettiva. Qualora un amministratore
locale rivestisse una delle qualità soggettive sopra indicate nell’ambito di
un’associazione spetterebbe all'Ente valutare se la stessa svolga o meno un
servizio nell'interesse dell'amministrazione comunale.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibile sussistenza
di cause di incompatibilità, ai sensi dell’articolo 63 del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, per alcuni consiglieri comunali (sia di
maggioranza che di minoranza) i quali fanno parte, nel ruolo di Presidente,
Tesoriere, Segretario o socio, di associazioni (sportive e non) del
territorio che ricevono contributi da parte del Comune stesso.
Con riferimento alla fattispecie in esame risulta necessario prendere in
considerazione il disposto di cui all’articolo 63, comma 1, n. 1), seconda
parte, TUEL, ai sensi del quale non può ricoprire la carica di consigliere
comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la
parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle
entrate dell’ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina [1], il termine
“ente” deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli
organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata
anche la Corte di cassazione [2] che ha inteso comprendere nella nozione di
ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le
associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica,
abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Requisito oggettivo per l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità
è che l’associazione riceva dal comune una sovvenzione, consistente in
un’erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all’ente
sovvenzionato di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituito. Tale sovvenzione deve
possedere tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere
saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l’intervento finanziario
dell’ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte
obbligatorio e in parte facoltativo [3];
- notevole consistenza: l’apporto della sovvenzione deve essere,
per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle
entrate annuali dell’ente sovvenzionato.
Quanto al requisito soggettivo richiesto dall’articolo 63, comma 1, n. 1),
TUEL, esso consiste nel fatto che l’amministratore comunale ricopra,
all’interno dell’associazione, il ruolo di amministratore o di dipendente
con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Ai fini dell’accertamento dell’incompatibilità in argomento in capo ai
consiglieri comunali [4] risulta necessario esaminare se i diversi ruoli
rivestiti dagli stessi all’interno dell’associazione implichino il su indicato requisito soggettivo.
In particolare, quanto al Presidente non sembra dubbia la sua ascrivibilità
tra gli amministratori dell’associazione. [5]
Con riferimento alla figura del segretario e del tesoriere, bisognerà in
primo luogo verificare, alla luce delle previsioni statutarie, se gli stessi
siano, giuridicamente, dipendenti o meno dell’associazione. In caso di
risposta positiva si tratta, in subordine, di valutare se, per lo
svolgimento delle loro mansioni, vi sia esplicazione di poteri di
rappresentanza o di coordinamento in seno all’associazione. Fermo rimanendo
che una tale valutazione potrà compiersi solo alla luce di quanto previsto
nelle clausole statutarie, pare che tanto le funzioni del segretario
[6]
quanto quelle del tesoriere [7] non dovrebbero di norma comportare
l’esplicazione di poteri di rappresentanza né di coordinamento.
[8]
Da ultimo, non si configura la causa di incompatibilità in riferimento avuto
riguardo agli amministratori locali che siano semplici soci di tali
associazioni attesa l’assenza del requisito soggettivo richiesto dalla norma
in commento e consistente nel fatto di essere “amministratori o dipendenti
con poteri di rappresentanza o di coordinamento” di tali soggetti giuridici.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la disposizione di cui
all’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL, nella parte in cui prevede che non
possa ricoprire la carica di amministratore locale “colui che, come
titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
La norma citata potrebbe venire in rilievo qualora il tipo di attività
effettuata dall’associazione -presso cui il consigliere comunale è
amministratore o dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento– possa configurarsi come servizio svolto nell’interesse del comune
[9].
Innanzitutto, come evidenziato in diversi pareri ministeriali, “l’assenza
della finalità di lucro, non è sufficiente ad escludere la sussistenza
dell’indicata incompatibilità. Il comma 2 dell’articolo. 63 ha, infatti,
escluso l’applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno
parte in cooperative sociali, iscritte regolarmente nei registri pubblici,
dal momento che solo tali forme organizzative offrono adeguate garanzie per
evitare il pericolo di deviazioni nell’esercizio del mandato da parte degli
eletti ed il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona
sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l’interesse che deve
tutelare in quanto amministratore dell’ente che gestisce il servizio e
l’interesse che deve tutelare in quanto consigliere del comune che di quel
servizio fruisce” [10].
La norma in esame è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica
rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la
qualità di amministratore di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici
con l’ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all’ente
o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare
l’insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
In particolare, la locuzione “aver parte”, se correlata alla successiva
locuzione “nell’interesse del comune” allude alla contrapposizione tra
interesse “particolare” del soggetto ed interesse del comune,
istituzionalmente “generale”, in relazione alle funzioni attribuitegli, e,
quindi, sottintende alla situazione di potenziale conflitto di interessi, in
cui si trova il predetto soggetto, rispetto all’esercizio imparziale della
carica elettiva.
Inoltre, l’ampia espressione “servizi nell’interesse del comune” suole ricomprendere “qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che a
causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia in
grado di determinare conflitto di interessi” [11]. La giurisprudenza ha,
altresì, specificato che l'ampia espressione di “servizi nell'interesse del
comune” si riferisce “a tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito
dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei poteri normativi
ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie [...]”
[12].
La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto che, rivestito
di una delle predette qualità soggettive, partecipi ad un servizio pubblico,
inteso nell’ampio senso sopra specificato, come portatore di un proprio
specifico interesse, contrapposto a quello generale dell’ente locale e,
quindi, per questo potenzialmente confliggente con l’esercizio imparziale
della carica elettiva.
Qualora un amministratore locale rivestisse una delle qualità soggettive
sopra indicate nell’ambito di un’associazione spetterebbe all'Ente valutare
se la stessa svolga o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione
comunale.
---------------
[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed.
Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. Di Stilo – E. Maggiora,
Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985,
pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità
nell’ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Per quanto riguarda il concetto di facoltatività, si rileva che, secondo
l’orientamento del Ministero dell’Interno (parere del 30.12.2010, prot.
n. 15900/TU/63), la sovvenzione è facoltativa “nel senso e nei limiti in cui
non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge”.
Per completezza
espositiva si segnala, peraltro, anche un diverso orientamento dottrinario
il quale afferma che per determinare l'incompatibilità la sovvenzione non
deve avere il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che “non deve essere
conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un contratto bilaterale,
ma deve rientrare nella discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo
gratuito o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera determinazione
dell'Ente che la accorda” (Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore, 1982, pag. 140.
Nello stesso senso, Enrico Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV.,
'L'ordinamento comunale', Giuffré editore, 2005, pag. 138.
Tale filone
interpretativo è seguito anche dall'ANCI il quale ha affermato che la
facoltatività della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario
dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o da un obbligo
convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e del 28.04.2014).
[4] Non ha alcun rilievo al riguardo il fatto che i consiglieri siano di
maggioranza o di minoranza.
[5] Per completezza espositiva si segnala che, invece, per quanto concerne
l’eventuale ipotesi di consiglieri comunali membri del “Consiglio
direttivo”, si tratterà di verificare se sia possibile ricomprendere gli
stessi nella nozione legislativa di “amministratore” contemplata
dall’articolo 63 del TUEL, in ordine alla quale è prevista la causa di
incompatibilità in argomento. Tale valutazione dovrebbe essere effettuata
considerando la situazione concreta, in relazione a quanto previsto nelle
clausole statutarie dell’associazione: si rileva comunque al riguardo che,
di norma, i membri dell’esecutivo svolgono funzioni sussumibili tra quelle
proprie dell’organo di amministrazione, con conseguente configurarsi
dell’incompatibilità in esame, nella sussistenza degli altri requisiti
richiesti dalla legge.
[6] Tendenzialmente rientrano tra i compiti del segretario dell’associazione
l’estensione, la sottoscrizione e l’eventuale custodia dei verbali
dell’Assemblea dei soci; la tenuta aggiornata del libro soci e di altri
eventuali registri dell’associazione.
[7] In linea di massima è compito del tesoriere tenere, controllare e
aggiornare i libri contabili, conservando la documentazione che ad essi
sottende, curare la gestione della cassa dell’associazione, predisporre i
bilanci.
[8] Per completezza espositiva, si segnala che, per il verificarsi della
causa di incompatibilità in riferimento è richiesto che il dipendente abbia
poteri di rappresentanza o, in alternativa, di coordinamento. Ratio della
norma è evitare che l’amministratore rivesta, al contempo, il ruolo di
controllore e di controllato del proprio operato. Significativa, al
riguardo, è la sentenza della Cassazione civile, sez. I, del 20.11.2004, n. 21942.
Potrebbe, altresì, verificarsi il caso che siano nominati segretario e/o
tesoriere alcuni componenti del consiglio direttivo dell’associazione. In
tal caso, atteso che gli stessi rivestirebbero, nel contempo, il ruolo di
membro del direttivo, valgono le considerazioni che saranno espresse nel
prosieguo in relazione a tale figura.
[9] Si pensi, a titolo di esempio, al caso di un’associazione sportiva che
gestisce la palestra comunale: fattispecie esaminata dal Ministero
dell’Interno il quale nel parere del 29.05.2007 ha ravvisato il
sussistere dell’indicata causa di incompatibilità stante la sussistenza di
tutti i requisiti richiesti dall’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL.
[10] Ministero dell’Interno, pareri del 12.05.2011 e dell’11.01.2011.
[11] Saporito, Pisciotta, Albanese, “Elezioni regionali ed amministrative”,
Bologna, 1990, pag. 115.
[12] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550 (13.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Rinegoziazione
cessione stipendio.
Domanda
È possibile concedere una rinegoziazione di una cessione dello stipendio in
presenza di ritenute per pignoramenti?
Risposta
Si dà per scontato che i pignoramenti, delegazione di pagamento e precedente
cessione sono stati eseguiti nel rispetto dei limiti di legge e che sono
soddisfatti i presupposti generali per la rinegoziazione della cessione ai
sensi dell’art. 39 del DPR 180/1950.
Nella situazione descritta nel quesito si possono verificare due casi:
1) la rinegoziazione della cessione porta ad abbassare oppure a
mantenere invariata la rata mensile di rimborso: in questo caso non c’è
ragione per la quale l’ente debba negare il suo assenso alla
ricontrattazione (mediante estinzione e nuova cessione), dato che questa
operazione non incrementerebbe l’incidenza complessiva del cumulo di
cessione, delegazione e pignoramento sulla retribuzione del dipendente;
2) la rinegoziazione della cessione porta ad incrementare l’importo
della rata mensile di rimborso: in questo caso l’ente non è nelle condizioni
di assentire alla nuova cessione:
• se si supera la soglia di cui all’art. 68,
comma 1, del DPR 180/1950 (“Quando preesistono sequestri o pignoramenti,
la cessione, fermo restando il limite di cui al primo comma dell’art. 5, non
può essere fatta se non limitatamente alla differenza tra i due quinti dello
stipendio o salario valutati al netto delle ritenute e la quota colpita da
sequestri o pignoramenti”);
• se si supera la soglia di cui all’art. 70,
comma 1, del DPR 180/1950 prevista per il cumulo tra delegazione e cessione;
• naturalmente, se si supera la soglia del quinto
della retribuzione per la cessione (12.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
agli amministratori locali.
1) Non sussiste alcun obbligo da parte del
sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo
stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori
dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe,
l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella
sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
2) Il sindaco, al momento della nomina di un assessore esterno deve
verificare che non sussistano nei suoi confronti cause di incandidabilità,
ineleggibilità o incompatibilità, fermo restando che andrà accertato il
permanere dei requisiti anche nel corso del mandato.
3) È inammissibile l’attribuzione di deleghe con rilevanza esterna
ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste, avere solo
rilevanza interna e finalità consultiva. L’ordinamento consente, piuttosto,
l’attribuzione a singoli consiglieri di compiti di collaborazione,
circoscritti all’esame ed alla cura di affari specifici, che non implichi la
possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Il Comune chiede un parere relativamente a diverse questioni riguardanti gli
amministratori locali. In particolare desidera sapere:
1) se sia possibile per il sindaco non attribuire alcuna delega
agli assessori nominati;
2) se sia valida la nomina degli assessori esterni compiuta dal
sindaco, atteso il non avvenuto accertamento dell’inesistenza in capo agli
stessi delle condizioni di eleggibilità, compatibilità e candidabilità;
3) se sia possibile attribuire una delega ad un consigliere
comunale.
Con riferimento alla prima questione posta si osserva che, come rilevato
dall’ANCI in un parere rilasciato sull’argomento
[1]
“il ruolo politico
dell’assessore si esplicita […] in maniera primaria nell’ambito dell’organo
collegiale Giunta” e, solo in via secondaria, la figura dell’assessore è
caratterizzata dalle “deleghe” assegnate dal Sindaco. Si consideri, altresì
che non è dato riscontrare l’esistenza di alcuna norma di legge nel decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, recante “Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali”, che obblighi il sindaco
all’attribuzione di tali deleghe. A ciò si aggiunga la considerazione per
cui lo statuto comunale, all’articolo 17, nel declinare le “attribuzioni di
amministrazione”
[2]
del sindaco prevede, al comma 1, che questi “possa” e
non già “debba” delegare le sue funzioni o parte di esse ai singoli
assessori.
Da tali premesse si ritiene consegua l’insussistenza di un obbligo da parte
del sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo
stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori
dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe,
l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella
sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
Passando a trattare della seconda questione posta, si rileva che l’articolo
24 dello statuto comunale prevede, al comma 2, che: “Gli assessori sono
normalmente scelti tra i consiglieri; possono tuttavia essere nominati anche
assessori esterni al Consiglio, purché dotati dei requisiti di eleggibilità,
compatibilità e candidabilità alla carica di Consigliere Comunale ed in
possesso di particolare competenza tecnica, amministrativa o professionale.
Qualora siano stati nominati assessori esterni, il Consiglio Comunale, nella
prima seduta successiva alla loro nomina, procede ad accertare le condizioni
di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli stessi”.
Con riferimento al caso in esame il Comune, atteso che la prima seduta
consiliare successiva alla nomina degli assessori esterni da parte del
sindaco è andata deserta, chiede se la nomina degli assessori possa dirsi
validamente effettuata.
Ai sensi dell’articolo 46, comma 2, TUEL “il sindaco e il presidente della
provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne
e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della
giunta […]”: l’atto di nomina degli assessori è, dunque, di competenza del
sindaco.
Quanto alla valutazione dei “requisiti di candidabilità, eleggibilità e
compatibilità” si ritiene che la norma statutaria dell’Ente, sopra
riportata, non possa trovare applicazione in quanto non coerente con il
quadro normativo dettato dal TUEL in materia di organi di governo del
comune.
La norma statutaria sopra riportata, nella parte in cui attribuisce al
consiglio comunale l’accertamento delle condizioni di eleggibilità, di
compatibilità e di candidabilità degli assessori esterni demanda, infatti, a
tale organo una competenza che non gli è propria, non essendo l’assessore
esterno componente del consiglio ma solo della giunta comunale.
L’ANCI in un
proprio parere,
[3]
con riferimento all’individuazione dell’organo deputato
alla contestazione di una causa di incompatibilità di un assessore esterno,
ha affermato che “vi siano due possibili strade: la prima è che il
procedimento di contestazione della cause di incompatibilità (che può
sfociare in una pronuncia di decadenza) si svolga ad iniziativa della Giunta
anziché del Consiglio, poiché è questo l’organo collegiale di appartenenza;
l’altra possibilità –preferibile a parere di chi scrive– è che sia il
Sindaco a revocare l’assessore incompatibile. Il testo unico degli enti
locali stabilisce infatti che il Sindaco possa nominare come assessori
esterni solo i cittadini “in possesso dei requisiti di candidabilità,
eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere comunale”: orbene,
se il soggetto nominato come assessore esterno non possiede questi
requisiti, è chiaro che la sua investitura non può ritenersi legittima, per
cui è necessario che il Sindaco proceda alla revoca dell’atto di nomina
stesso.”
Concludendo su tale punto, si ritiene che l’assessore esterno nominato dal
sindaco possa esercitare le prerogative che gli sono proprie in quanto
assessore, sia singolarmente che quale componente dell’organo giuntale di
cui fa parte, fermo restando che andrà verificato il permanere dei requisiti
nel corso del mandato con le modalità ritenute opportune.
[4]
Si ritiene,
altresì, che la valutazione della sussistenza dei requisiti di candidabilità,
eleggibilità e compatibilità alla carica di assessore sia stata compiuta dal
sindaco all’atto della nomina degli stessi.
Passando a trattare dell’ultima questione posta, il Ministero dell’Interno
ha ripetutamente ritenuto inammissibile l’attribuzione di deleghe con
rilevanza esterna ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste,
avere solo rilevanza interna e finalità consultiva, specificando che
l’ordinamento consente, piuttosto, l’attribuzione a singoli consiglieri di
compiti di collaborazione, circoscritti all’esame ed alla cura di affari
specifici, che non implichi la possibilità di assumere atti a rilevanza
esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Per delega interna s’intende l’incarico funzionale affidato dal titolare
dell’organo delegante per lo svolgimento di un’attività ausiliaria di
studio, proposta e vigilanza in determinati settori. Risulta, quindi essere
una misura organizzativa che, pur potendo assumere notevole importanza
pratica e rilevanza politica, non può produrre effetti giuridici.
In particolare, in un recente parere
[5]
il Ministero dell’Interno ha
ribadito che «nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile
la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse
sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su
determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e
alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti
agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di
componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario
dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, partecipando "…alla verifica periodica
dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del Sindaco … e dei
singoli assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne scaturisce
l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di
controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione n.
1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente
la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva
implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione
attiva, tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo al medesimo
soggetto del ruolo di controllore e di controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/11 reso
in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica in quanto l’atto sindacale impugnato, nel
prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava “… una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto
di interesse.”.
---------------
[1] ANCI, parere dell’11.10.2007.
[2] Tale è la rubrica dell’articolo 17 dello statuto comunale.
[3] ANCI, parere dell’08.09.2004.
[4] Con riferimento alla norma di cui all’articolo 24 dello statuto nella
parte in cui attribuisce al consiglio comunale il compito di accertare le
condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli
assessori esterni, per quanto sopra già esposto, si suggerisce all’ente di
provvedere alla sua modifica.
[5] Ministero dell’Interno, parere del 28.10.2019. Nello stesso senso
si vedano, anche i pareri del 12.08.2019 e del 05.01.2018 (11.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI: Competenze
del RUP.
Domanda
Una delle questioni che viene posta con una certa ricorrenza è quella della
competenza del RUP. Semplificando, le domande, relative a questo aspetto,
tendono sempre ad avere un chiarimento se il RUP possa o meno adottare, tra
gli altri, i provvedimenti di esclusione dalla procedura di gara.
Risposta
Effettivamente una delle problematiche, tra le tante, ricorrenti in tema di
procedimento di affidamento è quella dell’esatta collocazione del RUP nel
caso in cui questo non rivesta un ruolo dirigenziale o non sia (come capita,
ad esempio, per i comuni) il responsabile del servizio.
Il fatto che non coincida con questi ruoli, secondo la legge 241/1990,
determina l’impossibilità di adottare atti a valenza esterna (come ad
esempio il provvedimento di esclusione).
Si assiste quindi a dinamiche variegate: stazioni appaltanti in cui il RUP
anche senza poteri dirigenziali adotta il provvedimento; altre circostanza
in cui il provvedimento viene adottato dalla commissione di gara (nel caso
di appalto, evidentemente, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa), infine altre situazioni in cui il
provvedimento viene adottato direttamente dal responsabile del servizio (con
poteri, quindi, dirigenziali) soggetto diverso dal RUP.
Nell’ambito, tra l’altro di questo caso, si assistono a situazioni in cui il
RUP viene coinvolto e certe situazioni in cui (grave errore a parere di chi
scrive anche censurato in giurisprudenza) il RUP viene addirittura
estromesso dai propri compiti istruttori.
In tempi recenti, sul tema, è tornato il Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste,
sez. I, con la recente sentenza del 29.10.2019 n. 450 in cui si legge che “l’attribuzione
al RUP delle competenze afferenti all’adozione dei provvedimenti di
esclusione” trova “piena corrispondenza nel particolare ruolo attribuito
a tale figura, nel contesto della gara, e alle funzioni di garanzia e di
controllo che ad esso sono intestate”.
Questa posizione, come noto, viene confermata nelle linee guida ANAC n.3,
nei bandi tipo, nei quesiti resi dall’autorità ed infine, come visto, nella
stessa giurisprudenza (il giudice veneto chiama a soccorso anche precedenti
del Consiglio di Stato).
Da notare, infine, che la stessa posizione viene espressa dal MIT e anche
dal nuovo schema del regolamento attuativo.
Sotto il profilo pratico operativo, si è già rilevato in altre circostanze,
e ciò emerge anche dalla sentenza del richiamata è possibile, visto che la
competenza del RUP deve essere configurata come “residuale” ovvero
questo la esercita se non risulta espressamente (nella legge di gara, fatti
salvi gli obblighi desumibili da norme) assegnata ad altri soggetti
(responsabile del servizio o commissione di gara.
Pertanto gli enti locali (in particolare i comuni), in cui il RUP non è il
titolare del potere gestionale a valenza esterna, potrebbero veicolare nel
bando/lettera di invito l’attribuzione di tale prerogativa assegnandola, ad
esempio, al responsabile del servizio con proposte redatta dal RUP (11.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI: A
seguito dell'aggiudicazione di un appalto di servizi all'operatore uscente
(rinnovo) l'ufficio gare di questo Ministero ha ricevuto la notifica di
sentenza di annullamento da parte del TAR.
Poiché la sentenza non precisa le modalità operative di attuazione, cioè se
si debba scorrere la graduatoria o se si possa mantenere in essere il
contratto (ormai quasi completamente eseguito), si chiede se occorre
procedere a "ribandire la gara", proseguire con l'attuale aggiudicatario, o
se si debba necessariamente assegnare al secondo in graduatoria?
Sicuramente occorre adottare una decisione, qualunque essa sia.
Infatti la giurisprudenza consolidata ritiene che a seguito
dell'annullamento del provvedimento di aggiudicazione la Stazione appaltante
debba rivalutare la situazione che si è venuta a creare (anche a distanza di
molto tempo dal momento dell'originaria aggiudicazione) e, soppesando gli
interessi pubblici (prioritari) e privati coinvolti (operatore
aggiudicatario originario e primo operatore economico in graduatoria) deve
adottare uno o più atti volti:
• all'eventuale continuazione del rapporto con l'operatore
economico attuale (legittimato dal contratto stipulato che non viene meno a
seguito dell'annullamento giurisdizionale
• all'eventuale risoluzione del contratto, verifica dei requisiti
del nuovo operatore, e conseguente stipula di un nuovo contratto.
E' evidente che in entrambi i casi si potrebbero aprire scenari di
responsabilità (precontrattuale, contrattuale e da risarcimento) che variano
da contesto a contesto anche in relazione alle specificità dei vizi che
hanno portato all'annullamento in sede giurisdizionale.
Come afferma la giurisprudenza infatti "La stazione appaltante, ..., è
tenuta a valutare se, alla luce delle ragioni che hanno determinato
l'annullamento dell'aggiudicazione, permangano o meno le condizioni per la
continuazione del rapporto contrattuale in essere con l'operatore economico
(illegittimo) aggiudicatario, ovvero se non risponda maggiormente
all'interesse pubblico, risolvere il contratto e indire una nuova procedura
di gara, in applicazione del potere riconosciuto ora dall'art. 108, comma 1,
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50".
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 106
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 22.11.2019, n. 7976 - Cons. Stato Sez. V, 15.11.2019, n.
7845 - Cons. Stato Sez. V, 23.08.2019, n. 5803 - Cons. Stato Sez. III,
01.07.2019, n. 4487 - Cons. Stato Sez. III, 18.04.2019, n. 2534 - Cons.
Stato Sez. VI, 27.03.2019, n. 2036 - Cons. Stato Sez. V, 28.01.2019, n. 697
- Cons. Stato Sez. V, 02.07.2018, n. 4041
(11.12.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI SERVIZI: Pubblicazione
dati affidamento servizi legali.
Domanda
L’amministrazione sta procedendo ad un affidamento del servizio di
assistenza legale e vorrei saper quali informazioni vanno pubblicate su
Amministrazione Trasparente e in quale sottosezione è corretto inserirle.
Risposta
Per inquadrare correttamente la fattispecie occorre precisare la tipologia
di servizio legale che si intende affidare. A tal proposito è utile
consultare le Linee Guida n. 12 dell’ANAC, approvate con delibera n. 907 del
24.10.2018 nelle quali si specifica l’ambito di applicazione del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti).
L’affidamento di servizi legali si configura senz’altro come appalto di
servizi nel caso in cui venga affidata la gestione del contenzioso in modo
continuativo o periodico al fornitore nell’unità di tempo considerata. In
tal caso essi rientrano nella categorie di servizi di cui all’Allegato IX
del d.lgs. 50/2016.
Diversamente, qualora venga conferito un incarico ad hoc per la trattazione
di una singola controversia, si configura una ipotesi contratto escluso
dall’applicazione del codice [art. 17, comma 1, lettera d), del d.lgs.
50/2016] ed inquadrabile nella fattispecie di contratto d’opera
professionale.
Le citate Linee Guida, specificano le procedure da seguire e come si
declinano i principi di trasparenza e pubblicità con riferimento ad entrambe
le tipologie di servizi legali.
Conseguentemente, nella prima ipotesi il regime di trasparenza è quello di
cui all’art. 37 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e la sottosezione
di Amministrazione Trasparente su cui pubblicare le informazioni è “Bandi
di gara e contratti”. Nella seconda si rientra nella categoria di “Consulenti
e collaboratori”, di cui all’art. 15 del d.lgs. 33/2013 e la
sottosezione di riferimento è quella con analoga denominazione.
In merito alle informazioni da pubblicare, nel caso di appalto di servizi,
l’art. 37 rinvia agli obblighi già previsti nell’art. 1, comma 32, della
legge del 06.11.2012, n. 190 ed alle disposizioni in materia di trasparenza
contenute nel d.lgs. 50/2016. Pertanto, ai sensi dell’art. 29 di quest’ultimo,
occorre pubblicare tutti gli atti della procedura di affidamento, dalla
programmazione all’esecuzione del contratto. Trattandosi di settori di cui
all’Allegato IX occorre aver riguardo, per il regime della pubblicazione, a
quanto previsto dagli artt. 140 e seguenti del d.lgs. 50/2016.
Nel caso di contratto d’opera professionale rientrante nella tipologia “Consulenti
e collaboratori”, l’art. 15 del d.lgs. 33/2013 specifica al comma 1 le
informazioni da pubblicare, mentre, al comma 2 precisa che tale
pubblicazione rappresenta una condizione di efficacia dell’atto e per la
liquidazione dei relativi compensi. Il comma 3 contempla infine specifiche
sanzioni per l’omessa pubblicazione (10.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
proroga della data di fine lavori e sopravvenute previsioni urbanistiche
(Regione Emilia Romagna,
nota
06.12.2019 n. 894437 di prot.). |
APPALTI: Questa
stazione appaltante (ente strumentale della Regione) si trova spesso di
fronte a certificati camerali che non contengono un riferimento
perfettamente attinente ai requisiti di gara (sia nella descrizione che nei
codici Ateco).
Come procedere?
L’art. 83, comma 1, del Codice degli appalti dispone "Ai fini della
sussistenza dei requisiti di cui al comma 1, lettera a), i concorrenti alle
gare, se cittadini italiani o di altro Stato membro residenti in Italia,
devono essere iscritti nel registro della camera di commercio, industria,
artigianato e agricoltura o nel registro delle commissioni provinciali per
l'artigianato, o presso i competenti ordini professionali".
Siamo pertanto in presenza, secondo la formulazione del Codice, di un
requisito di idoneità professionale e come tale esso rappresenta uno
strumento di selezione e filtraggio dei concorrenti tale da consentire
l’accesso alla procedura ai soli in possesso di requisiti adeguati e
coerenti con gli atti di gara.
In questo contesto la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare come tale
requisito vada interpretato "in senso strumentale e funzionale
all'accertamento del possesso effettivo del requisito soggettivo di
esperienza e fatturato" per cui "eventuali imprecisioni della
descrizione dell'attività risultanti dal certificato camerale non possono
determinare l'esclusione della concorrente che ha dimostrato l'effettivo
possesso dei requisiti soggettivi di esperienza e qualificazione richiesti
dal bando".
Quindi, sebbene la stazione appaltante possa prevedere un oggetto sociale
specifico e puntuale, e quindi escludere le imprese che non dovessero in
alcun modo avere idonei riferimenti nella propria visura camerale (né in
termini descrittivi né in riferimento ai codici Ateco), tuttavia occorre
sempre tener conto del principio di favor partecipationis e
dell’esigenza di valutare i requisiti sostanziali comunque attestabili
dall’operatore economico.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 83
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 15.11.2019, n. 7846 - Cons. Stato Sez. V, 25.09.2019, n.
6431 - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, 15.02.2019, n. 895 - Cons. Stato Sez.
III, 10.11.2017, n. 5186 - Cons. Stato Sez. III, 10.11.2017, n. 5183 - Cons.
Stato, Sez. III, 08.11.2017, n. 5170
(04.12.2019 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Procedura
aperta al mercato e la motivazione dell’invito all’uscente.
Domanda
Nell’avviso finalizzato all’acquisizione di manifestazioni di interesse
senza limitazione del numero degli operatori, di cui alle linee guida n. 4,
è necessario motivare l’invito e l’eventuale aggiudicazione all’operatore
uscente?
In caso di risposta positiva tale motivazione deve risultare nell’avviso
stesso, oppure in altro provvedimento?
Risposta
Le Linee guida n. 4, al paragrafo 3.6 prevedono che “la rotazione non si
applica laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o
comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante, in virtù di
regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla stessa in
caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna
limitazione in ordine al numero degli operatori economici tra i quali
effettuare la selezione”.
Con riferimento al quesito in oggetto si richiamano due interessanti e
recenti pronunce. La prima del TAR Trentino Alto Adige Bolzano del
31.10.2019 n. 263, che a fronte della censura proposta da parte ricorrente
in merito al difetto di motivazione sull’aggiudicazione all’operatore
uscente, ha precisato che “allorquando la stazione appaltante apre al
mercato (nel caso di specie a seguito di avviso di indagine di mercato)
dando possibilità a chiunque di candidarsi a presentare un’offerta senza
determinare limitazioni in ordine al numero di operatori economici ammessi
alla procedura, è rispettato il principio di rotazione, che non significa
escludere chi abbia in precedenza lavorato correttamente con
un’Amministrazione, ma significa non favorirlo”.
Aggiunge inoltre che nessun onere motivazionale è richiesto in relazione
all’invito a partecipare alla procedura negoziata rivolto anche
all’operatore “uscente” o in relazione all’aggiudicazione al medesimo
della commessa, da prevedersi nel solo caso di deroga al principio di
rotazione.
Analoga posizione è stata assunta dalla giustizia amministrativa lombarda
(TAR Brescia, sez. I, sent. n. 993 del 20.10.2019), che ha attribuito al
principio di rotazione la natura di necessario contrappeso alla
discrezionalità riconosciuta alla stazione appaltante nell’individuare gli
operatori in favore dei quali disporre l’affidamento ovvero rivolgere
l’invito, e non un carattere precettivo assoluto.
Nella sentenza si legge inoltre, che una procedura negoziata con
pubblicazione di un avviso finalizzato all’indizione di una gara con invito
rivolto a tutti gli operatori che hanno manifestato interesse senza alcuna
esclusione o vincolo in ordine al numero massimo degli operatori ammessi,
sia da qualificarsi di tipo aperto per la quale non trova applicazione il
principio di rotazione.
Tale carattere è riconosciuto anche qualora per il successivo invito alla
procedura negoziata sia necessaria la registrazione su una piattaforma di
negoziazione (nel caso di specie SINTEL), non essendo tale iscrizione
subordinata ad alcuna forma di selezione da parte della stazione appaltante.
Ribadiscono, inoltre, quanto già affermato nella precedente sentenza
sull’esonero della motivazione in ordine all’invito o all’aggiudicazione
all’operatore uscente, ritenendo che un simile onere rilevi solo nei casi di
deroga al principio di rotazione e non nell’ipotesi di procedura aperta al
mercato.
Pertanto alla stregua delle sopra citate sentenze si ritiene che l’onere
motivazionale sia dovuto solo nel caso di scelta discrezionale degli
operatori da invitare, mediante relazione del RUP da richiamarsi nella
determinazione a contrarre, documento che nel rispetto dell’art. 53 del
codice, sarà presente agli atti dell’Amministrazione e non materialmente
allegato (04.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Attività edilizia – Atto di assenso del confinante - Forma e
contenuto minimo dell’atto – parere (Legali Associati per Celva,
nota
04.12.2019 - tratto da www.celva.it).
---------------
L’Amministrazione comunale di La Salle ha sottoposto alla nostra
attenzione richiesta di parere avente ad oggetto una pluralità di quesiti,
tutti afferenti la corretta individuazione dei requisiti minimi di contenuto
e di forma che deve assumere l’atto di assenso richiesto al confinante, al
fine di derogare alle distanze minime dai fabbricati e dai confini e se tale
atto di assenso debba essere acquisito e ricondotto nella pratica edilizia
per cui è richiesto. (... continua). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mappatura
dei processi a rischio corruzione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 10.000 abitanti ed abbiamo iniziato a lavorare
alla bozza di PTPCT 2020/2022. Ci potete dire qualcosa sulla mappatura dei
processi, anche alla luce delle ultime indicazioni dell’ANAC?
Risposta
L’ANAC ha fornito alcune preziose informazioni sulla “mappatura” dei
processi, da ultimo, all’interno della bozza di PNA 2019, in consultazione
sino al 15.09.2019. In particolare, l’argomento è stato ampiamente trattato
nell’allegato “1” del PNA, recante “Indicazioni metodologiche per la
gestione dei rischi corruttivi”.
Per l’ANAC, la mappatura dei processi, rappresenta l’aspetto centrale (e,
forse più importante) dell’analisi del contesto interno. Essa consiste nella
individuazione e analisi dei processi organizzativi, presenti nell’ente.
L’obiettivo finale che ci si deve prefiggere è che l’intera attività svolta
dall’ente venga gradualmente esaminata, così da identificare aree che, per
ragioni della natura e peculiarità delle stesse, risultino potenzialmente
esposte a rischi corruttivi.
La mappatura dei processi delinea un modo efficace di individuare e
rappresentare le attività dell’amministrazione e il suo effettivo
svolgimento deve risultare, in forma chiara e comprensibile, nel Piano
Triennale Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT).
Per realizzare una buona e utile indagine è necessario mappare i processi e
non i singoli procedimenti amministrativi (che sono ben più numerosi dei
processi). Un “processo” può essere definito come una sequenza di
attività interrelate ed interagenti che trasformano delle risorse in un
output destinato a un soggetto interno o esterno.
La mappatura dei processi si articola in tre fasi:
1. Identificazione;
2. Descrizione;
3. Rappresentazione.
La prima fase (identificazione) consiste nel definire la lista dei processi
che dovranno essere accuratamente esaminati e descritti. Una volta
identificati i processi, è opportuno comprendere le modalità di svolgimento
del processo, attraverso la loro “descrizione” (fase 2). Tale
procedimento è particolarmente rilevante perché consente di identificare le
criticità del processo, in funzione delle sue modalità di svolgimento. Al
riguardo, le indicazioni dell’ANAC, propendono verso la direzione di
giungere ad una descrizione analitica dei processi dell’amministrazione, in
maniera progressiva, nei diversi cicli annuali di gestione del rischio
corruttivo, tenendo conto delle risorse e delle competenze effettivamente
disponibili nell’ente.
L’ultima fase (3) della mappatura dei processi è la rappresentazione degli
elementi descrittivi di ogni specifico processo preso in esame. La forma più
semplice ed immediata di rappresentazione è quella tabellare dove è
possibile inserire i vari elementi a seconda del livello analitico adottato.
Negli enti locali, non di maggiore dimensione (come può essere il comune che
ha posto il quesito), occorre procedere alla mappatura dei processi con la
giusta gradualità provvedendo:
• all’identificazione di tutti i processi, riferiti all’insieme
dell’attività amministrativa;
• alla descrizione, iniziale, dei processi più a rischio, con
ampliamento annuale;
• alla rappresentazione dei processi in formato tabellare, partendo
da alcuni elementi descrittivi strettamente funzionali.
La mappatura dei processi –vissuta con gradualità e secondo livelli
successivi di affinamento degli elementi considerati– rappresenta un
requisito indispensabile per la formulazione di adeguate misure di
prevenzione e incide nella qualità complessiva della gestione del rischio.
Per la mappatura è fondamentale il coinvolgimento dei responsabili apicali
delle strutture organizzative ed, in tal senso, potrebbe essere opportuno
costituire un apposito gruppo di lavoro. L’ANAC, inoltre, suggerisce di
avvalersi di strumenti e soluzioni informatiche idonee a facilitare la
rilevazione e l’elaborazione dei dati e delle informazioni necessarie, anche
sfruttando ogni possibile sinergia con analoghe iniziative relative ad altri
contesti, quali: il servizio di controllo di gestione; la certificazione di
qualità; l’analisi dei carichi di lavoro; il piano della performance.
Un’ultima –importante– osservazione va rivolta alla possibilità di affidare
la mappatura dei processi ad un soggetto esterno. Numerose sentenze
[1], nel corso degli
ultimi anni, hanno stabilito che si determina un danno erariale per l’ente,
qualora il responsabile anticorruzione (o altro soggetto) affidi all’esterno
il servizio di mappatura dei processi o, peggio ancora, la redazione del
Piano triennale, di cui la mappatura è un elemento essenziale di analisi.
In tal senso il portato normativo dell’articolo 1, comma 8, quarto periodo,
della legge 190/2012 [2],
non lascia dubbi di sorta, così come i costanti orientamenti dell’ANAC che,
testualmente prevedono: «non convince l’affermazione della difesa che la
mappatura del rischio sarebbe un elemento prodromico alla redazione del
piano. Infatti, l’analisi dei rischi è un aspetto fondamentale del piano
stesso e ne costituisce una delle componenti più significative, secondo
quanto previsto dall’ANAC nei propri modelli» (delibera ANAC n. 748 del
05.09.2018).
---------------
[1] Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio;
sentenza 04.05.2018; Corte dei conti, sezione giurisdizionale Piemonte,
sentenza n. 253/2019; Delibera ANAC numero 748 del 05.09.2018;
[2] Articolo 1, co. 8, legge 190/2012: “L’attività di elaborazione del piano
non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione” (03.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d'uso.
DOMANDA:
Si chiede di conoscere se per il cambio di destinazione d'uso di un locale
dalla categoria catastale C1 (locali commerciali ed artigianali) alla
categoria C2 (deposito), siano dovuti gli oneri di urbanizzazione a favore
del Comune. Il fabbricato in questione è stato costruito nel 1967.
RISPOSTA:
Con riferimento al quesito posto, si osserva quanto segue.
Preliminarmente, si rileva che la giurisprudenza è costante nell'affermare
che il fondamento degli oneri di urbanizzazione (Legge n. 10/1977) non
consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i
costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti
beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo
modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di
modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico
urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del
pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova
destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste
un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime
contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (tra le tante,
Consiglio di Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; Tar Campania, Napoli, Sez.
VIII, 07.04.2016, n. 1769).
La giurisprudenza, inoltre, nel ribadire che la funzione e la causa
giuridica degli oneri di urbanizzazione sono quelle di contribuire alle
spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione, sicché l'unico criterio per determinare se
gli oneri siano dovuti o meno consiste nel carico urbanistico derivante
dall'attività edilizia, ha precisato che per aumento del carico urbanistico
deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di
urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelli
esistenti (Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2694).
È stato altresì precisato che poiché l'assoggettamento agli oneri di
urbanizzazione trova fondamento nel maggior carico urbanistico generato da
un intervento edilizio, deve escludersi la suddetta imposizione quando
l'intervento consista in un mutamento di destinazione d'uso che avvenga
all'interno della stessa categoria funzionale mentre il pagamento è dovuto
quando il mutamento di destinazione d'uso determini il passaggio ad una
categoria funzionale autonoma avente maggiore carico urbanistico rispetto a
quella pregressa (Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 30.04.2018, n. 368).
Per quanto riguarda l'individuazione delle categorie funzionali, preme
rilevare che il legislatore, con l’art. 17, comma 1, lett. n), D.L.
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n.
164, ha introdotto nel Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia (D.P.R. n. 380/2001) l’art. 23-ter,
rubricato “Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante”, che dispone
quanto segue: “1. Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni
forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa,
da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere
edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o
dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra
quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b)
produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è
quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai princìpi di cui al
presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in
vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni
del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della
destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito”.
L'Allegato A della Deliberazione G.R. Molise 25.03.2019, n. 92 contiene la
seguente definizione di carico urbanistico: “Fabbisogno di dotazioni
territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua
entità e destinazione d'uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico
l'aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all'attuazione di
interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d'uso”.
Tutto ciò premesso, venendo all'esame del caso di specie, si osserva che,
per poter rispondere al quesito posto occorre verificare se il cambio di
destinazione d’uso di un locale dalla categoria catastale C1 (locali
commerciali ed artigianali) alla categoria C2 (deposito) costituisca un
cambio di destinazione d’uso operato tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico e, in caso affermativo, se tale
passaggio avvenga ad una categoria funzionale autonoma avente maggiore
carico urbanistico di quella originaria, oppure costituisca un cambio di
destinazione d'uso operato all'interno della stessa categoria funzionale.
Tra le categorie funzionali previste dal vigente art. 23-ter del D.P.R. n.
380/2001 (che, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, trova
applicazione diretta qualora la Regione interessata –nel caso di specie, la
Regione Molise– non abbia adeguato la propria legislazione ai principi di
cui al suddetto articolo entro il termine di 90 giorni dalla sua entrata in
vigore e che dunque costituisce la norma di riferimento ai fini della
risposta al quesito in oggetto) non si rinviene in maniera espressa la
destinazione a deposito di cui alla categoria catastale C2.
Pertanto, occorre cercare di ricondurre la predetta destinazione a deposito
in una delle categorie previste dalla predetta norma. A tal fine, potrebbe
essere di aiuto la verifica dell’effettiva destinazione urbanistica
dell’area in cui è situato l’immobile da assoggettare al cambio di
destinazione d'uso, che si ritiene dunque opportuno che venga compiuta da
parte di chi ha posto il quesito e che deve essere effettuata, in
particolare, prendendo in esame le previsioni dello strumento urbanistico
comunale vigente, alle quali non viene fatto alcun riferimento nel testo del
quesito.
Considerato che, in linea generale, l'attività di deposito e/o di magazzino
produce ricchezza sul ricovero e sullo spostamento di oggetti/merci e non
sulla loro creazione o produzione, si ritiene che la destinazione a deposito
possa essere ricondotta alla categoria funzionale “commerciale” di
cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Occorrerà poi indagare a quale categoria funzionale corrisponda la
destinazione d'uso “originaria” dell’immobile in questione.
Al riguardo, considerato che il locale presenta una categoria catastale C1
(che corrisponde a “negozi e botteghe”), ferma restando la necessità,
già sopra evidenziata, di verificare la destinazione urbanistica effettiva
dell’area in cui l'immobile ricade, si ritiene che tale destinazione rientri
anch'essa nella categoria funzionale “commerciale” di cui alla
lettera c) del comma 1 dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Pertanto, considerato che, alla luce delle suddette considerazioni, il
cambio di destinazione d'uso prospettato nel quesito, fermi restando gli
opportuni approfondimenti da effettuare in base alle previsioni dello
strumento urbanistico comunale vigente, pare suscettibile di essere
qualificato come cambio di destinazione d'uso all'interno della stessa
categoria funzionale (commerciale), si ritiene di poter affermare, anche
alla luce della giurisprudenza sopra citata, che non siano dovuti gli oneri
di urbanizzazione.
Ad ulteriore sostegno di quanto sopra, si osserva, inoltre, che peraltro il
mutamento di destinazione d'uso da negozio a deposito (o magazzino) non pare
comportare un incremento del carico urbanistico rispetto alla destinazione
originaria
(novembre 2019 - tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Iter
assunzione art. 110.
Domanda
Quale potrebbe essere l’iter per una procedura di assunzione ai sensi
dell’art. 110 del TUEL?
Risposta
Riteniamo che l’iter procedurale da seguire è, in parte, simile a quello
necessario in generale per le assunzioni a tempo indeterminato o a tempo
determinato di altro genere.
L’ente dovrà prevedere, nell’ordine:
1. l’inserimento dell’assunzione a tempo determinato in parola, con
espressa previsione del ricorso all’art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000
(che rileva, com’è noto, per la copertura di posti previsti in dotazione
organica), all’interno del PTFP (Piano Triennale dei Fabbisogni del
Personale), deliberato dalla giunta comunale, o di suo stralcio/modifica
qualora l’azione assunzionale sia stabilita dall’organo politico a
integrazione di un piano già adottato;
2. l’adozione di determina, a cura del responsabile competente, di
avvio del procedimento e di emanazione dell’avviso per la copertura del
posto de quo;
3. la pubblicazione dell’avviso di selezione, senza obbligo di
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma certamente sul sito istituzionale
dell’ente e per il periodo canonico di almeno 30 giorni;
4. l’espletamento della procedura selettiva (sulla quale si tornerà
nel seguito del parere, per tentare di meglio delinearne i contorni);
5. a conclusione della procedura, l’adozione del decreto sindacale
di nomina del candidato prescelto, la stesura del contratto di lavoro a t.d.
e l’immissione in ruolo del candidato selezionato.
La procedura di scelta di un candidato da assumere a tempo determinato ai
sensi dell’art. 110, comma 1, del richiamato TUEL, lungi dal consistere in
una scelta meramente intuitu personae, è stata piuttosto recentemente
inquadrata dal Consiglio di Stato (cfr. la sentenza Sez. V del 29.05.2017),
come procedura avente natura non concorsuale, ma comunque di tipo selettivo:
“L’art. 110, comma 1, t.u.e.l., regolante la procedura, prevede che la
copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di
qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante
contratto a tempo determinato previa selezione pubblica volta ad accertare,
in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza
pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
Per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima
partecipazione e selezione effettiva dei candidati, la procedura in
questione non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente
delle “procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni“.
Il terreno è “scivoloso”, ed occorre che l’ente presti la massima
attenzione nel prevedere forme di garanzia del rispetto dei princìpi di
pubblicità, trasparenza, massima partecipazione e selezione, ma anche che
non strutturi la procedura stessa in forma di pubblico concorso, giacché di
ciò non si tratta: il Consiglio di Stato, nella pronuncia citata, asseriva,
tra l’altro, che proprio perché trattasi non di concorso pubblico, ma,
comunque e in ultimo, di scelta di natura fiduciaria, la competenza
giurisdizionale per eventuali controversie è del giudice del lavoro e non di
quello amministrativo.
Si riporta di seguito un passaggio nodale della sentenza esaminata, che
circoscrive un poco i contorni della “selezione” in argomento: “(…)
Procedura meramente idoneativa deve, ai fini della controversia in esame,
ritenersi quella prevista all’art. 110 del T.U.E.L. per la copertura,
autorizzata dallo statuto dell’ente locale, di ‘posti di responsabili dei
servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione’: la natura di mero ‘incarico a contratto’; la natura
necessariamente temporanea dello stesso; lo scolpito ancoraggio temporale ne
ultra quem al ‘mandato elettivo del sindaco o del presidente della
provincia’; la prefigurata modalità di automatismo risolutorio in caso di
dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie; la
possibilità di formalizzazione, sia pure eccezionalmente e motivatamente, di
contratto propriamente ‘di diritto privato’; la mancata previsione della
nomina di una commissione giudicatrice, del (necessario) svolgimento di
prove e della (correlata) formazione di formali graduatorie concorrono ad
evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà
che caratterizza la procedura in questione, che –per tal via– deve
ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non
concorsuale. (…)” (28.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Composizione della giunta comunale. Quote di genere.
Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a
3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico. L’impossibilità di
rispettare la percentuale di rappresentanza di genere configura una
situazione eccezionale che deve essere adeguatamente provata, con
conseguente necessità di un’accurata e approfondita istruttoria e di
un’altrettanto adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale
di nomina degli assessori che quella percentuale di rappresentanza non
riesca a garantire.
Il Comune chiede un parere in merito alla composizione della giunta
comunale. Più in particolare riferisce che, a seguito delle dimissioni di
una componente dell’organo giuntale, quest’ultimo non è rispettoso delle
quote di genere. Chiede, pertanto, se sia possibile mantenere l’assetto
attuale della giunta attesa la difficoltà di individuazione di un altro
componente di sesso femminile e considerata l’imminenza del rinnovo del
consiglio comunale.
L’articolo 18 dello statuto comunale, al comma 1, prevede che: “La Giunta
Comunale è composta dal Sindaco, che la convoca senza formalità e la
presiede, e da un numero di Assessori non superiore a sei, tra cui un Vice
Sindaco [1].
È nominata dal Sindaco che ne dà comunicazione al Consiglio nella prima
seduta successiva alle elezioni, unitamente alla proposta degli indirizzi
generali di governo.
Il Sindaco può nominare fino ad un massimo di due Assessori non Consiglieri,
senza attribuire loro le funzioni di Vice Sindaco. I due Assessori dovranno
essere individuati all’interno delle liste dei candidati alla carica di
consigliere comunale collegate al Sindaco eletto”.
Attesa la formulazione statutaria che fissa un numero massimo di assessori
nominabili dal sindaco segue che questi potrebbe individuare un numero anche
inferiore rispetto al massimo consentito. Sotto tale profilo giuridico,
pertanto, l’attuale organo giuntale che risulta composto da quattro
assessori più il sindaco potrebbe considerarsi correttamente costituito e
legittimato ad operare.
Le considerazioni di cui sopra devono tuttavia tenere in debito conto anche
il necessario rispetto del principio di parità di genere.
Al riguardo si osserva che l’articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 prevede che: “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore
a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Relativamente al caso in esame, su quattro assessori almeno due dovrebbero
pertanto appartenere al genere meno rappresentato.
Preliminarmente si osserva che la norma citata deve essere applicata non
solo con riguardo alle nomine assessorili effettuate all’indomani delle
elezioni ma anche a quelle adottate in corso di consiliatura. Una diversa
interpretazione, come affermato dal Supremo giudice amministrativo
[2],
“consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione” che
costituisce un “ineludibile parametro di legittimità” di tutti gli atti
adottati nella sua vigenza.
La giurisprudenza ha affrontato, in diverse occasioni, la questione della
valenza da attribuire alla norma sopra citata, e, in particolare, se essa
“abbia o meno un limite intrinseco di operatività e cioè se, in ogni caso e
senza alcuna eccezione , la composizione della giunta debba comunque
assicurare la presenza dei due generi in misura non inferiore al 40% ovvero
se sia astrattamente configurabile (e sistematicamente compatibile con
quella previsione normativa) una situazione, di carattere assolutamente
eccezionale, in cui, la giunta comunale possa ritenersi legittimamente
costituita ed altrettanto legittimamente operante, pur se quella percentuale
non sia stata rispettata” [3].
Il giudice amministrativo [4] nell’osservare che l’applicazione della
prescrizione contenuta nell’articolo 1, comma 137, della legge 56/2014,
volta a garantire la parità tra i sessi e conseguentemente le reciproche
pari opportunità, deve essere contemperata con il principio, anch’esso di
valenza costituzionale, di continuità delle “funzioni
politico-amministrative”, afferma che “il giusto contemperamento dei due
delineati principi costituzionali che vengono in gioco (e cioè il limite
intrinseco, logico-sistematico, di operatività della norma in questione) può
ragionevolmente rintracciarsi nella effettiva impossibilità di assicurare
nella composizione della giunta comunale la presenza dei due generi nella
misura stabilita dalla legge, impossibilità che deve essere adeguatamente
provata e che pertanto si risolve nella necessità di un’accurata e
approfondita istruttoria ed in un’altrettanto adeguata e puntuale
motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella
percentuale di rappresentanza non riesca a rispettare”.
Ancora si è affermato che “l’impossibilità in concreto di rispettare la
percentuale di rappresentanza di genere debba risultare in modo puntuale ed inequivoco e debba avere un carattere tendenzialmente oggettivo”.
Sul fatto che l’impossibilità di rispettare la parità di genere nell’organo
giuntale debba essere adeguatamente provata si è ulteriormente espressa la
giurisprudenza amministrativa rilevando che “il Sindaco ha l’obbligo di
svolgere indagini conoscitive, intese ad individuare, all’interno della
società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento del
Comune, personalità femminili in possesso di quelle qualità–doti
professionali, nonché condivisione dei valori etico-politici propri della
maggioranza uscita vittoriosa alle elezioni, idonee a ricoprire l’incarico
di componente la giunta municipale” [5].
Sempre con riferimento al tipo di prova di cui il sindaco dovrebbe avvalersi
a giustificazione del mancato rispetto del principio di parità di genere
nell’organo giuntale la giurisprudenza [6] ha affermato come si tratti di una
prova “particolarmente ardua, in quanto non possono essere utilizzate
motivazioni di tipo meramente soggettivo (mancanza di conoscenza personale o
di un preesistente rapporto fiduciario) e neppure ragioni di opportunità
collegate agli equilibri tra i gruppi politici di maggioranza”.
Le considerazioni di cui sopra risultano avallate anche dal Ministero
dell’Interno che, in diverse occasioni, nell’affrontare la questione in
riferimento, ha fatto proprie le conclusioni cui era giunta la
giurisprudenza amministrativa [7].
Quanto all’ulteriore questione della validità delle deliberazioni adottate
dalla giunta in caso di mancata osservanza della normativa in materia di
quote di genere, il Ministero dell’Interno [8] ha richiamato le osservazioni
formulate al riguardo dal Consiglio di Stato in sede consultiva
[9] il quale
ha precisato che “vanno considerate due ipotesi. La prima si riferisce al
caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato, mentre è pendente
ricorso giurisdizionale avverso l’irregolare composizione dell’organo. Come
ricordato dalla stessa Amministrazione richiedente, la questione è stata
risolta dalla giurisprudenza amministrativa, che si è espressa nel senso che
l’organo in carica si presume validamente costituito sino al deposito della
sentenza che ne accerta l’illegittima composizione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, 13.01.2012, n. 1). Fino a quel momento la Giunta o il
Consiglio dispongono dei pieni poteri e i relativi atti beneficiano del
principio della continuità degli organi amministrativi. Tale orientamento è
condiviso dalla Sezione.
La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l’atto deliberativo sia
stato adottato da un organo la cui irregolare composizione non sia stata
impugnata. Anche in questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla
validità dell’atto. L’atto, se non impugnato nei termini, è divenuto
inoppugnabile, esso ha acquistato stabilità [10]”.
Concludendo, con riferimento al quesito posto, compete al sindaco valutare
se sussistono motivazioni sufficienti, idonee a comprovare l’impossibilità
di nomina di un ulteriore componente femminile all’interno della giunta
comunale, coerenti con le considerazioni espresse dalla giurisprudenza
sull’argomento e sopra riportate [11]. Atteso che, nel caso in esame, la
mancata rappresentanza di genere nella misura richiesta dalla legge è
sopravvenuta nel corso del mandato, non è dato riscontrare la presenza di un
atto (quale sarebbe il decreto di nomina) nel quale dare conto dell’iter
motivazionale seguito. Quest’ultimo potrebbe, comunque, essere portato a
conoscenza del consiglio comunale da parte del sindaco.
---------------
[1] Per completezza espositiva si segnala che, ai sensi dell’articolo 12,
comma 39, della legge regionale 29.12.2010, n. 22 “Il numero massimo
degli Assessori comunali è determinato, per ciascun comune, in misura pari a
un quarto del numero dei Consiglieri del comune, con arrotondamento
all’unità superiore. Nel calcolo del numero dei Consiglieri comunali si
computa il Sindaco. […]”.
Come precisato anche nella circolare n. 02/EL del
25.03.2019 dell’allora Direzione centrale autonomie locali, sicurezza e
politiche dell’immigrazione “a prescindere dall’effettivo adeguamento
statutario, nell’ipotesi in cui lo statuto dell’Ente preveda la nomina di un
numero di assessori superiore al massimo consentito dalla legge regionale,
il Sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato dalla legge regionale
stessa”.
Atteso che il Comune ha una popolazione compresa tra i 3.001 e i
10.000 abitanti il numero massimo di assessori sarebbe di cinque (più il
sindaco). Nel caso in esame la giunta comunale risultava formata da 5
assessori e, a seguito delle dimissioni di uno di essi, la stessa risulta
attualmente composta da 4 assessori (più il sindaco) di cui uno solo di
sesso femminile.
Si ricorda, inoltre, che con legge regionale 09.08.2018, n. 20 (articolo
10, comma 46, che ha inserito l’articolo 39-bis della legge regionale
22/2010) è stata introdotta la possibilità per il sindaco di nominare,
qualora sussistano particolari esigenze di governo locale anche di natura
transitoria, un ulteriore assessore, oltre il numero massimo previsto.
[2] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 05.10.2015, n. 4626.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 03.02.2016, n. 406.
[4] Consiglio di Stato, sentenza 406/2016, citata in nota 3.
[5] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza del 09.01.2015, n. 1.
Nello stesso senso si veda TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 07.02.2013, n. 289.
[6] TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sentenza del 05.01.2012, n. 1.
[7] Si vedano i pareri del Ministero dell’Interno del 05.01.2018 e del
16.05.2017.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 03.04.2018.
[9] Consiglio di Stato, parere del 19.01.2015, n. 93.
[10] Prosegue l’indicato parere affermando che: “A chiarimento si considera
che il potere amministrativo è conferito dalla legge per la cura di
interessi che non sono propri del soggetto che lo esercita e che richiedono
una situazione di supremazia nell’ordinamento giuridico (principio di
legalità). A detto principio si aggiungono il principio di necessità, cioè
il dovere del soggetto investito del potere di perseguire l’interesse
pubblico sino a quando perduri la situazione che ha originato il potere e
l’esigenza di curare gli interessi per cui è esercitato.
Ne consegue che la stabilità dell’azione amministrativa è premessa e sintesi
dei principi generali ai quali deve ispirarsi l’esercizio del potere
pubblico: economicità, efficacia e non aggravamento, pubblicità e
trasparenza, ragionevolezza e proporzionalità, buona fede e legittimo
affidamento”.
[11] Non pare al riguardo possibile giustificare la mancata nomina del
componente femminile col fatto che è imminente il rinnovo del consiglio
comunale (27.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
obbligatorio inserire l'avviso sull'impugnazione degli atti nelle
comunicazioni di avvio del procedimento o negli altri atti "interni" diversi
dal provvedimento finale?
La questione è frutto di un percorso giurisprudenziale sui cosiddetti "atti
endoprocedimentali" per la quale si richiamano i recenti orientamenti:
• “La regola secondo la quale l'atto endoprocedimentale non è
autonomamente impugnabile, giacché la lesione della sfera giuridica del suo
destinatario è normalmente imputabile all'atto che conclude il procedimento,
è di carattere generale; la possibilità di un'impugnazione anticipata è
invece di carattere eccezionale e riconosciuta solo in rapporto a
fattispecie particolari, ossia ad atti di natura vincolata idonei a
conformare in maniera netta la determinazione conclusiva oppure in ragione
di atti interlocutori che comportino un arresto procedimentale";
• “Il provvedimento di aggiudicazione provvisoria, attualmente
proposta di aggiudicazione, è un atto endoprocedimentale privo di valore
decisorio e che necessita di conferma. Quindi da tale atto non decorre
alcunché anche in termini di piena conoscenza e relativamente al rito "super-accelerato"
di cui all'art. 120, comma 2-bis, D.Lgs. n. 104/2010";
• “Il concorrente che abbia impugnato gli atti della procedura
di gara precedenti l'aggiudicazione - normalmente il provvedimento che ne ha
disposto esclusione - è tenuto ad impugnare anche il provvedimento di
aggiudicazione sopravvenuto nel corso del giudizio a pena di improcedibilità
per sopravvenuta carenza di interesse. Ciò in ragione del carattere
inoppugnabile del provvedimento finale, attributivo dell'utilitas
all'aggiudicatario. Fermo restando, quindi, l'onere di impugnazione
immediata dell'esclusione -quale atto endoprocedimentale di carattere
direttamente ed autonomamente lesivo- rimane fermo l'onere del concorrente
escluso di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del
procedimento avviato con l'indizione della gara, ovverosia l'atto di
approvazione della graduatoria finale";
• “La comunicazione di avvio del procedimento volto ad
identificare il soggetto responsabile del potenziale inquinamento della
matrice ambientale ha natura endoprocedimentale e il contenuto non
immediatamente lesivo dell'atto rendono il medesimo non autonomamente e
immediatamente impugnabile. Solo nell'ipotesi (da dimostrarsi, a cura del
ricorrente) in cui detto atto sia concretamente idoneo ad arrecare lesioni
alla sfera giuridica del destinatario in un momento precedente l'avvio
dell'istruttoria e la conclusione stessa dell'iter procedimentale, potrebbe
ammettersi l'immediata impugnazione del medesimo in via autonoma, anziché
quale atto meramente presupposto rispetto al provvedimento finale che segna
la formale conclusione del procedimento e la manifestazione esterna della
volontà dell'Amministrazione".
Come è possibile notare da questa rassegna se da un lato l'Amministrazione
non ha l'onere di inserire la formula sulla impugnabilità degli atti in
relazione a quelli di natura endoprocedimentale, allo stesso tempo ciò non
esclude che l'interessato possa (ed in taluni casi debba) procedere alla
autonoma impugnazione degli stessi in presenza dei necessari presupposti
normativi.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 3
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III, 02.11.2019, n. 7476 - Cons. Stato Sez. V, 31.07.2019,
n. 5428 - Cons. Stato Sez. III, 18.04.2019, n. 2534 - Cons. Stato Sez. IV,
11.10.2018, n. 5846 - Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2018, n. 5814 (27.11.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI SERVIZI: Adeguamento/revisione
del prezzo di contratto.
Domanda
Nei mesi scorsi, diversi uffici di questo comune hanno provveduto al rinnovo
di contratti di servizi (le clausole risultavano espressamente previste nei
bandi di gara). A fronte di quanto, stiamo ricevendo una serie di diffide
per l’adeguamento del prezzo del contratto. In certi casi si tratta anche di
importi consistenti.
Si chiede di avere chiarimenti su come possiamo procedere e se l’ente è
realmente obbligato a corrispondere gli importi richiesti.
Risposta
La questione della revisione/adeguamento del prezzo di contratto (che
riguarda, in particolar modo, i contratti di servizi) è una questione
estremamente delicata che può implicare danno erariale nel caso in cui
l’adeguamento non sia dovuto.
È altresì noto, che l’attuale codice dei contratti –a differenza di quanto
previsto dal decreto legislativo 163/2006, art. 115- non ha ribadito la
clausola obbligatoria dell’adeguamento/revisione del prezzo del contratto.
La cui funzione era, ed è, quella di evitare uno squilibrio nel sinallagma
contrattuale e che il fornitore/prestatore a fronte di prezzi di mercato
aumentati rispetto all’originaria pattuizione, riduca la “qualità”
delle proprie prestazioni.
Proprio per evitare queste situazioni si suggerisce, in ogni caso, di
prevedere la clausola di revisione (che dovrebbe operare dopo il primo anno
di contratto).
Nel caso di specie, il quesito verte sui rapporti tra adeguamento del prezzo
e rinnovo del contratto.
Il rinnovo, come ribadito anche da recentissima giurisprudenza, non può
essere configurato propriamente come una continuazione del pregresso
contratto. In realtà si tratta di un nuovo contratto (infatti è necessario
un nuovo CIG) fondato su una nuova pattuizione tra le parti con conseguente
nuovo consenso espresso dal fornitore che, legittimamente, non può
pretendere una modifica del prezzo che egli stesso ha accettato.
In questo senso, in tempi recentissimi, il Consiglio di Stato, sez. III,
sentenza n. 7077/2019 che è tornato sulla vicenda ribadendo l’orientamento
ultra consolidato.
In sentenza si legge che, come “affermato di recente dalla Sezione
(24.01.2019, n. 613) –riprendendo peraltro principi dalla stessa già
espressi (27.08.2018, n. 5059)– presupposto per l’applicazione” in tema di
revisione del prezzo (la sentenza si è pronunciata sul pregresso articolo
115 del decreto legislativo 163/2006) “è che vi sia stata mera proroga e non
un rinnovo del rapporto contrattuale:laddove la prima consiste nel solo
effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane
per il resto regolato dall’atto originario”.
Il rinnovo, invece “scaturisce da una nuova negoziazione con il medesimo
soggetto, che può concludersi con l’integrale conferma delle precedenti
condizioni o con la modifica di alcune di esse se non più attuali. Dette
specifiche manifestazioni di volontà danno corso tra le parti a distinti,
nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a
quello originario e ancorché privi di alcuna proposta di modifica del
corrispettivo.
Laddove ricorra l’ipotesi della rinegoziazione, prosegue il giudice, “il
diritto alla revisione non può configurarsi in quanto l’impresa che ha
beneficiato di una speciale disposizione la quale preveda la possibilità di
rinnovo del contratto senza gara a condizione di un prezzo concordato, non
può poi anche pretendere di applicare allo stesso contratto il meccanismo
della revisione dei prezzi (Cons. St., sez. IV, 14.05.2014, n. 2479 e
01.06.2010, n. 3474; id., sez. VI, 25.07.2006, n. 4640).
Nel momento in cui le parti confermano il prezzo originario, ciò non può che
significare che l’originario assetto di interessi ha conservato le
originarie condizioni di equità e sostenibilità economica (su cui non
incide, evidentemente, un maggiore o minore margine di lucro), secondo
l’autonomo e libero apprezzamento degli stessi interessati (Cons. St., sez.
VI, 28.05.2019, n. 3478)”.
Pertanto, alla richiesta di adeguamento, nel caso di rinnovo, il RUP potrà
tranquillamente respingere l’istanza (27.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
immobili abusivi e acquisizione della agibilità
(Regione Emilia Romagna,
nota 26.11.2019 n. 870874 di
prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Pubblicazioni
dati ambientali: nuovi obblighi.
Domanda
In materia di pubblicazione delle informazioni ambientali, di cui all’art.
40, del d.lgs. 33/2013, è cambiato qualcosa ultimamente?
Risposta
Le norme del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd Decreto Trasparenza),
per ciò che concerne l’articolo 40, rubricato “Pubblicazione e accesso
alle informazioni ambientali”, non sono state modificate/integrate da
alcuna norma di legge, per cui gli obblighi restano quelli disciplinati
all’articolo 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 195/2005. Da segnalare,
però, ci sono le novità introdotte dall’articolo 6, del decreto-legge
14.10.2019, n. 111, tutt’ora in fase di conversione.
L’articolo 6, rubricato “Pubblicità dei dati ambientali”, introduce
nuovi obblighi di trasparenza per gli enti pubblici e concessionari di
servizi pubblici, i quali dovranno rendere noti –nell’ambito degli obblighi
di cui all’art. 40, del d.lgs. 33/2013– anche i dati ambientali risultanti
da rilevazioni effettuate dai medesimi soggetti, ai sensi della normativa
vigente.
In applicazione di tale disposizione, entro centottanta giorni dalla data di
entrata in vigore del decreto (quindi, dal 15.04.2020), i gestori di
centraline e di sistemi di rilevamento automatico dell’inquinamento
atmosferico, della qualità dell’aria e di altre forme di inquinamento ed i
gestori del servizio idrico, dovranno pubblicare via web le informazioni sul
funzionamento del dispositivo, sui rilevamenti effettuati e tutti i dati
acquisiti.
Come sempre previsto nelle normative in materia di prevenzione e
trasparenza, anche il comma 3, del citato articolo 6, ci ricorda che le
pubbliche amministrazioni provvedono a svolgere le attività di cui ai commi
1 e 2 con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a
legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Tutti i dati e le informazioni di cui sopra (comma 4) saranno, poi,
acquisiti, con modalità telematica, dall’Istituto superiore per la
protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), il quale provvederà a renderli
pubblici attraverso una sezione dedicata e fruibile nel sito istituzionale
del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare,
denominata “Informambiente”, anche nell’ambito della sezione “Amministrazione
trasparente” (26.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contenuto
avviso selezione art. 110.
Domanda
Rispetto alle caratteristiche specifiche che potrebbe avere un avviso per un
incarico ex art. 110 del d.lgs. 267/2000, quali suggerimenti potete
proporre?
Risposta
A nostro parere, queste le indicazioni specifiche che ci sentiamo di
suggerire.
L’ente dovrà strutturare l’avviso ponendo in evidenza quali sono le
caratteristiche della professionalità che si ricerca, in cosa consiste
l’alta specializzazione che si va a ricoprire e quali sono le
caratteristiche curriculari, esperienziali e formative che i candidati
debbono possedere per rispondere positivamente alla richiesta di cui sopra;
dovrà altresì chiaramente indicare requisiti, termini e modalità di
presentazione delle domande di ammissione, e criteri di attribuzione
dell’idoneità o meno; dovrà chiarire che a procedura è finalizzata
all’individuazione di soggetti idonei e alla successiva scelta di un
soggetto, tra quelli, cui sarà affidato, eventualmente, l’incarico; dovrà
chiarire la durata dell’incarico, che non potrà comunque eccedere la durata
del mandato del sindaco, e modalità ed eventuali ragioni di revoca
anticipata dello stesso.
L’ente dovrà garantire la pubblicazione su sito istituzionale, meglio nella
sezione dell’Amministrazione Trasparente e nella pagina riservata (per mera
analogia e facilità di reperimento da parte dei potenziali interessati) ai
bandi di concorso; non è assolutamente dovuta, attesa la distinzione
tracciata rispetto ai pubblici concorsi, la pubblicazione in G.U., ma ogni
forma ulteriore di pubblicità (invio per la pubblicazione all’albo di enti
limitrofi, nota su giornali locali, etc.) che l’ente voglia prevedere è
certamente nel senso dell’allargamento della partecipazione e della
trasparenza; si dovrà prevedere una comparazione delle candidature che
pervengano, da effettuarsi, appare sensato, a mezzo della valutazione dei
curricula degli eventuali candidati nonché, se lo si ritiene, attraverso un
colloquio conoscitivo; il fine è, come disposto dalla fonte legale “(…)
accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata
esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto
dell’incarico”.
La comparazione di cui sopra, e la conseguente valutazione del candidato
idoneo alla copertura del posto di che trattasi, potrà essere svolta da una
“commissione”, costituita presso l’ente ad hoc; se lo si
ritiene, in analogia (unicamente per ragioni di “operatività”) con
quelle che si costituiscono per i concorsi, secondo le previsioni del
regolamento comunale in materia; nulla vieta, però, che l’ente individui,
motivando il tutto in seno alla relativa determinazione, altre modalità per
la composizione della commissione, stabilendo, ancora a mero titolo di
esempio, che ne facciano parte il segretario generale, il responsabile di
servizio competente, altro responsabile di servizio che abbia attinenza con
la figura che si intende coprire: è essenziale, però, che la composizione
della commissione abbia natura tecnica, evitando, per ovvie ragioni, il
coinvolgimento di organi politici.
La commissione potrà opportunamente redigere un verbale dei propri lavori,
nel quale motivare le valutazioni attribuite ai curricula e ai colloqui, non
pervenendo all’emanazione di una graduatoria, quanto piuttosto a un giudizio
di idoneità o inidoneità all’incarico (non casualmente il supremo giudice
amministrativo si spinge a definire la procedura de qua come procedura
idoneativa): gli idonei potranno essere più d’uno, ma non si potrà in alcun
modo, successivamente, far ricorso a quella “lista” di idonei per
ulteriori assunzioni.
Una volta terminato il proprio compito, stante, per usare l’espressione del
giudice amministrativo, la natura comunque “fiduciaria”
dell’incarico, appare ragionevole che la commissione rassegni gli esiti del
proprio lavoro al sindaco, perché compia la propria scelta in considerazione
degli elementi che la commissione stessa ha potuto porre alla sua
attenzione, effettuando se lo ritiene anche un ulteriore colloquio con
l’interessato o gli interessati, e adottando infine, se lo ritiene, il
decreto di nomina. Nell’avviso sarà utile precisare che il sindaco si
riserva comunque di non scegliere alcuno dei candidati ritenuti idonei, se
non intende farlo per ragioni ulteriori e rimesse alla sua valutazione.
L’iter indicato sopra, che vuole essere un suggerimento per l’ente nel non
semplice tentativo di regolare operativamente un procedimento che è più
facilmente definibile per ciò che non è piuttosto che per ciò che è, sembra
rispettoso, a parere di chi scrive, di quanto evidenziato tanto a livello
normativo che dalla giurisprudenza più recente. Naturalmente, come sempre e
ancor di più, la motivazione posta alla base delle scelte compiute nelle
varie fasi, è fondamento importantissimo per il buon esito dell’intero
procedimento e per prevenire, per quanto possibile, l’insorgenza di
contenziosi (21.11.2019 - tratto da e link a
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APPALTI FORNITURE: Gli
acquisti informatici infra 5.000 deroga alle piattaforme telematiche e al
principio di rotazione?
Domanda
Nel caso di acquisti informatici e di connettività è applicabile l’art. 1,
co. 450, della legge n. 296/2006, come modificato dalla legge 145 del
30.12.2018, che estende a 5.000 euro la soglia di esenzione degli acquisti
tramite il mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero
mediante i sistemi telematici messi a disposizione dalla centrale regionale
di riferimento?
Tale soglia inoltre può essere utilizzata quale deroga al principio di
rotazione nella forma della sintetica motivazione?
Risposta
La norma citata nel quesito, in particolare l’art. 1, co. 450, della l.
296/2006 come modificata dalla legge 145/2018 prevede l’obbligo del ricorso
al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero al sistema
telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per
gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 5.000 euro e
inferiore alla soglia di rilievo comunitario.
Tuttavia per gli acquisti informatici e di connettività è prevista una
disciplina particolare contenuta nell’art. 1, co. 512, della L. 208/2015,
che stabilisce “Al fine di garantire l’ottimizzazione e la
razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi informatici e di
connettività, fermi restando gli obblighi di acquisizione centralizzata
previsti per i beni e servizi dalla normativa vigente, le amministrazioni
pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196,
provvedono ai propri approvvigionamenti esclusivamente tramite gli strumenti
di acquisto e di negoziazione di Consip Spa o dei soggetti aggregatori, ivi
comprese le centrali di committenza regionali, per i beni e i servizi
disponibili presso gli stessi soggetti".
Nel rapporto tra le due norme si ritiene di aderire all’orientamento della
Corte dei Conti Umbria che nella pronuncia n. 52/2016/PAR del 28.04.2016 ha
ritenuto che l’art. 1, co. 512, L. 208/2015, sia norma speciale rispetto
alla disciplina generale contenuta all’art. 1, co. 450, L. 296/2006, e
quindi applicabile anche per importi inferiori.
Sulla base di tali considerazioni nel caso di acquisti di prestazioni
informatiche o di connettività infra 5.000 sarà possibile:
• aderire a Convenzione/Accordo quadro Consip/Soggetto Aggregatore/Centrale
di committenza regionale;
• utilizzare il MePa nella forma dell’ODA, Trattativa Diretta o RDO;
• utilizzare gli strumenti telematici di negoziazione del Soggetto
Aggregatore/Centrale di committenza regionale o di Consip.
L’eventuale deroga è possibile solo nel caso di bene o servizio non
disponibile sulle piattaforme, o non idoneo al soddisfacimento dello
specifico fabbisogno dell’amministrazione, situazione praticamente
impossibile se si tiene conto delle tipologie di prestazioni presenti sul
MePa di Consip, senza considerare le altre piattaforme, ovvero in casi di
necessità ed urgenza comunque funzionali ad assicurare la continuità della
gestione amministrativa.
Ipotesi quest’ultima che può essere soddisfatta mediante il ricorso alla
trattativa diretta, e di fatto incompatibile con la condizione di
legittimità di un acquisto extra-mepa, che prevede l’acquisizione
dell’autorizzazione motivata dell’organo di vertice amministrativo.
Si aggiunga a tale obbligo anche quello di comunicazione all’Autorità
Nazionale Anticorruzione e all’Agid, che si contrappone con il principio di
semplificazione dei microacquisti anche in termini di economia
procedimentale.
Con riferimento all’ultima parte del quesito, ovvero alla possibilità di
ritenere innalzata a infra 5.000 la soglia prevista nelle linee guida n. 4
post sblocca cantieri, nella parte del paragrafo che consente di derogare
all’applicazione del principio di rotazione con scelta sinteticamente
motivata, contenuta nella determinazione a contrarre o in atto equivalente,
si ritiene sostenibile tale posizione, proprio in considerazione del parere
favorevole reso dal Consiglio di Stato n. 1312 dell’11.04.2019 proprio sulla
bozza di aggiornamento alla linee guida n. 4, che prevedeva appunto, alla
luce della modifica legislativa di cui in premessa, l’innalzamento di tale
soglia.
Adeguamento che non ha avuto seguito in applicazione dell’art. 216, co.
27-octies, del codice dei contratti pubblici, secondo cui, nelle more
dell’adozione del regolamento unico, l’ANAC è autorizzata a modificare le
Linee guida n. 4 ai soli fini dell’archiviazione della procedura di
infrazione n. 2018/2273 (20.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Cedere
la propria firma digitale quali reati comporta?
È possibile avere qualche riferimento normativo e
giurisprudenziale nel quale si dispone la sanzione, sia al soggetto che cede
la propria firma digitale, sia al soggetto che impropriamente la usa al
posto del legittimo titolare?
Punto di partenza della riflessione è la norma prevista nel “Codice
dell’Amministrazione digitale” (“Cad”).
L’art. 32, comma 1, del “Cad”, dispone che “il titolare del
certificato di firma è tenuto ad assicurare la custodia del dispositivo di
firma o degli strumenti di autenticazione informatica per l’utilizzo del
dispositivo di firma da remoto, e ad adottare tutte le misure organizzative
e tecniche idonee ad evitare danno ad altri; è altresì tenuto ad utilizzare
personalmente il dispositivo di firma”.
Inoltre, l’art. 21 sempre del “Cad” prevede che “l’utilizzo del
dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume
riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria”.
Dalla lettura di queste disposizioni emerge chiaramente la volontà del
Legislatore di assicurare un uso affidabile del dispositivo di firma
digitale che, a differenza della firma autografa, ha delle debolezze nella
certa riconducibilità al suo titolare. Del resto, l’associazione “titolare/dispositivo
di firma” è “asettica”, basandosi unicamente su un processo di
identificazione significativa a 2 fattori (qualcosa che hai + qualcosa che
conosci), che nella pratica si concretizza in una smart card/dispositivo usb/password
accesso al server di firma remoto più il Pin.
In altre parole, la modalità di identificazione prevista per attivare la
procedura di firma non prevede un riconoscimento biometrico che obblighi la
presenza del titolare.
La mancanza, poi, di qualsiasi elemento grafometrico/biometrico rende
impossibile l’attività del grafologo utile a determinare l’autenticità della
firma in caso di disconoscimento.
L’utilizzo “improprio” della firma digitale, oltre ad essere vietato
dal Legislatore, genera delle conseguenze anche sul piano giuridico
probatorio del documento amministrativo informatico prodotto. In questo
senso la giurisprudenza si è già espressa con alcune Sentenze, di cui si
menzionano degli esempi:
• Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 27.08.2013, n. 35543 e
10.03.2009, n. 16328: “sul piano oggettivo, ai fini della sussistenza del
reato di falso in scrittura privata (art. 485 Cp.), il consenso o
l’acquiescenza della persona di cui sia falsificata la firma, non svolge
alcun rilievo, in quanto la tutela penale ha per oggetto non solo
l’interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma
anche la fede pubblica, la quale è compromessa nel momento in cui l’agente
faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sé un vantaggio o
per arrecare ad altri un danno; pertanto anche l’erroneo convincimento
sull’effetto scriminante del consenso costituisce una inescusabile ignoranza
della legge penale. Sul piano soggettivo, nel delitto in questione, per
l’integrazione del dolo specifico non occorre il perseguimento di finalità
illecite, poiché l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un
vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo”;
• Cassazione penale, Sezione V, Sentenza 05.07.1990: “posto che
il verbale di ricezione di dichiarazione di appello da parte del Cancelliere
costituisce un atto pubblico facente fede fino a querela di falso, sussiste
il reato di falso in atto pubblico anche qualora tale verbale sia stato
redatto e sottoscritto da un coadiutore giudiziario col consenso del
cancelliere, […]”;
• Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 12.07.2011, n. 32856 e
12.05.2011, n. 24917: “in tema di falsità ideologica in atto pubblico
(art. 483 Cp.), ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo è
sufficiente il dolo generico, e cioè la volontarietà e la consapevolezza
della falsa attestazione, mentre non è richiesto l’animus nocendi né
l’animus decipiendi, con la conseguenza che il delitto sussiste non solo
quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere ma anche quando
la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun
danno”.
Inoltre, occorre richiamare anche alcune disposizioni del Codice penale in
merito alla falsità degli atti:
• art. 476 Cp. “Falsità materiale commessa dal pubblico
ufficiale in atti pubblici”: “il ‘Pubblico Ufficiale’, che,
nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso
o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a 6 anni. Se la
falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela
di falso, la reclusione è da 3 a 10 anni”;
• art. 491-bis Cp. “Documenti informatici”: “se alcuna
delle falsità previste dal presente Capo riguarda un documento informatico
pubblico avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del Capo
stesso concernenti gli atti pubblici”;
• art. 493 Cp. “Falsità commesse da pubblici impiegati
incaricati di un servizio pubblico”: “le disposizioni degli articoli
precedenti sulle falsità commesse da Pubblici Ufficiali si applicano altresì
agli impiegati dello Stato, o di un altro Ente pubblico, incaricati di un
pubblico servizio, relativamente agli atti che essi redigono nell’esercizio
delle loro attribuzioni”
(20.11.2019 - tratto da www.entilocali-online.it). |
APPALTI: Si
sente parlare della liberalizzazione del subappalto ma questa stazione
appaltante non ha ricevuto indicazioni operative.
Tale disposizione esiste, è già in vigore ed in quale norma è contenuta?
La questione è complessa in quanto non è frutto di un intervento normativo
in senso proprio. Infatti il comma 2 dell'art. 105 prevede che "Il
subappalto è il contratto con il quale l'appaltatore affida a terzi
l'esecuzione di parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto
di appalto. […] Fatto salvo quanto previsto dal comma 5, l'eventuale
subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo
complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture."
Il limite quantitativo del 30% è stato innalzato al 40% dal D.L. 18.04.2019,
n. 32 (c.d. "sblocca-cantieri"), in sede di conversione con la L.
14.06.2019, n. 55.
Nonostante questo intervento "in extremis" volto a scongiurare una
sentenza sfavorevole della Unione europea la Corte giustizia Unione Europea
Sez. V, 26.09.2019, n. 63/18 ha statuito "La direttiva 2014/24/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti
pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal
regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24.11.2015,
deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come
quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la
parte dell'appalto che l'offerente è autorizzato a subappaltare a terzi".
Tale sentenza sembra preludere ad una "liberalizzazione" del subappalto,
consentendo di superare i limiti previsti dalla disciplina nazionale (la
sentenza si riferisce proprio alla disciplina contenuta nella legislazione
italiana).
Tuttavia sa subito ANAC ha preso posizione verso la permanenza, in assenza
di una disciplina legislativa nazionale, dei limiti citati. Ciò nel
Comunicato 23.10.2019 della Autorità nazionale anticorruzione
"Compatibilità clausole del Bando-tipo n. 1 con il D.Lgs. 19.04.2016, n. 50,
come novellato dal d.l. 18.04.2019 n. 32, convertito in L. 14.06.2019 n.
55".
Successivamente con l'Atto di segnalazione n. 8 del 13.11.2019 ANAC ha
evidenziato al Parlamento ed al Governo le criticità dell'attuale "vuoto
normativo" e della possibilità di un contenzioso a fronte della richiesta
degli operatori economici di dare applicazione ai contenuti della citata
sentenza.
Anac segnala come "secondo la Corte, in sostanza, in virtù dell'art. 71
della Direttiva, ma anche dello stesso art. 105 del Codice, in presenza di
obblighi informativi e di adempimenti procedurali per i quali l'impresa
subappaltatrice può essere assoggettata a controlli analoghi a quelli che
ricadono sull'impresa aggiudicataria, il limite al subappalto non
costituisce lo strumento più efficace e utile per assicurare l'integrità del
mercato dei contratti pubblici" e questo porterebbe ad una immediata
applicazione del subappalto oltre il limite del 40% nel sopra soglia.
Ma precisa ANAC come "non è chiaro se la pronuncia abbia effetto sugli
appalti al di sotto delle soglie di rilevanza comunitaria, tuttavia questo
profilo andrebbe verificato soprattutto in relazione alle procedure di
importo inferiore alle soglie di cui all'art. 35 del Codice che presentano
carattere c.d. "transfrontaliero"".
Alla luce del citato quadro si suggerisce di procedere alla eventuale
individuazione di limiti di subappalto solo previa adeguata puntuale
motivazione, con riferimento a:
- le caratteristiche particolari dell'appalto
- il carattere non transfrontaliero dello stesso
In questo modo si riduce, anche se non si elimina, il rischio di un
potenziale contenzioso in attesa dell'intervento legislativo statale.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 105
Riferimenti di giurisprudenza
Corte giustizia Unione Europea Sez. V, 26.09.2019, n. 63/18
Documenti allegati
ANAC - Comunicato 23.10.2019 - ANAC - Atto di segnalazione 13.11.2019, n. 8
(20.11.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Trattamento
dei dati personali: in cosa consiste?
Domanda
Si parla sempre di “trattamento dei dati personali” che viene
effettuato dalle pubbliche amministrazioni, per esempio, sui procedimenti
avviati con istanza di parte.
In termini pratici, con quali azioni si determina un “trattamento”?
Risposta
L’esatta definizione di cosa sia un trattamento dei dati personali, è data
dall’articolo 4, punto 2, del Regolamento (UE) 2017/679, in materia di
tutela dei dati personali.
Al riguardo, va detto che il Reg. UE è stato approvato il 27.04.2016 ed è in
vigore dal 25 maggio del medesimo anno, essendo stato pubblicato in Gazzetta
Ufficiale Europea il 04.05.2016. Il Regolamento, come da clausola iniziale
già prevista, ha iniziato ad avere piena efficacia, in tutti i 28 paesi
della Unione Europea, solamente dal 25.05.2018, cioè due anni dopo la sua
entrata in vigore.
Chiarito ciò, la definizione letterale di trattamento dei dati personali è
la seguente:
2) «trattamento»: qualsiasi operazione o insieme di
operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e
applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la
registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione,
l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la
comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di
messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la
cancellazione o la distruzione.
La definizione di cosa sia un “dato personale”, invece, è riportata
nel medesimo articolo 4 del Reg. UE, che al punto 1, testualmente recita:
1) «dato personale»: qualsiasi informazione riguardante una
persona fisica identificata o identificabile («interessato»); si considera
identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o
indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il
nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un
identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua
identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o
sociale.
Una volta circoscritto il significato di “dato personale” e di “trattamento
dei dati personali”, non resta che soggiungere che il medesimo
Regolamento (UE) 2016/679 prevede, all’articolo 30, comma 1, l’obbligo per
tutte le pubbliche amministrazioni di formare e tenere aggiornato un
Registro delle attività di trattamento, svolte sotto la responsabilità del
titolare del trattamento (che è l’ente medesimo, in persona del suo legale
rappresentante).
Il Registro dovrà contenere, almeno, le seguenti informazioni:
a) il nome e i dati di contatto dell’ente e del Responsabile
Protezione Dati;
b) le finalità di trattamento;
c) la sintetica descrizione delle categorie di interessati
(cittadini, residenti, utenti, dipendenti, amministratori, altro), e le
categorie dei dati personali (identificativi; genetici; biometrici; salute,
eccetera);
d) le categorie di destinatari a cui i dati personali sono stati o
saranno comunicati;
e) eventuale trasferimento di dati personali verso un paese terzo;
f) il termine ultimo (se stabilito) previsto per la cancellazione
delle diverse categorie di dati;
g) Il richiamo alle misure di sicurezza tecniche e organizzative
adottate per il trattamento.
Il registro deve avere forma scritta, anche elettronica, e deve essere
esibito su richiesta al Garante privacy.
L’articolo 30, comma 2, del citato Reg. UE, inoltre, prevede anche la tenuta
di un ulteriore documento che è il Registro delle categorie di attività,
redatto e aggiornato, in questo caso, dai singoli Responsabili del
trattamento, nominati dal titolare.
Il Registro delle categorie di trattamento, dovrà contenere le seguenti
informazioni:
a) il nome e i dati di contatto del Responsabile del trattamento e
del RPD;
b) le categorie di trattamenti effettuate da ciascun Responsabile:
raccolta; registrazione; organizzazione; strutturazione; conservazione;
adattamento o modifica; estrazione; consultazione; uso; comunicazione;
raffronto; interconnessione; limitazione; cancellazione; distruzione;
c) l’eventuale trasferimento dei dati verso un paese terzo;
d) il richiamo alle misure di sicurezza tecniche e organizzative
adottate per il trattamento.
Per ulteriori informazioni, si consiglia di consultare le FAQ (Frequently
Asked Questions), nel sito web del Garante privacy italiano, al link:
www.garanteprivacy.it/web/guest/faq (19.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Parere in merito alla possibilità di rifondere spese legali ad
un ex amministratore
(Legali Associati per Celva,
nota 18.11.2019 -
tratto da www.celva.it).
---------------
Dalla descrizione fornita dal Comune di Ayas risulta che nei confronti di
un amministratore e di un dipendente dell’Ente veniva instaurato un
procedimento penale per turbativa d’asta e che nel mese di novembre 2011 il
Tribunale di Aosta metteva sentenza di assoluzione degli imputati perché il
fatto non sussiste. (...continua). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indennità
PO e servizi convenzionati.
Domanda
Potete spiegare il funzionamento della retribuzione di posizione in caso di
servizi convenzionati?
Risposta
Con riferimento al quesito posto, va subito fatta una precisazione. Un conto
è l’utilizzo dei dipendenti su due enti, mentre un altro conto è laddove
l’ente ha approvato una convenzione ai sensi dell’art. 30 del TUEL.
Nel primo caso, l’art. 17 del CCNL 21.05.2018, precisa che:
1) L’ente di provenienza del dipendente distaccato ad altri servizi
attribuisce la propria retribuzione di posizione, individuata secondo il
proprio sistema per la pesatura delle posizioni organizzative,
riproporzionandola in ragione delle ore effettivamente rese presso il
medesimo, senza alcuna maggiorazione;
2) gli enti presso il quale il dipendente è distaccato a operare
(leggasi: presso altri servizi, anche in convenzione, rispetto a quello del
comune di provenienza), attribuiscono la propria retribuzione di posizione,
secondo le proprie regole in materia, e “al fine di compensare la
maggiore gravosità della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, (…)
possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione
della retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea,
di importo non superiore al 30% della stessa”.
Laddove invece ci sia, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267,
un unico servizio convenzionato, non ricorre il presupposto per le
maggiorazioni né per le disposizioni di cui alle norme contrattuali citate,
giacché il dipendente non è chiamato ad assumere maggiori carichi e
responsabilità connessi a una prestazione frazionata su più servizi, presso
diversi enti. Il dipendente opera, e assume le proprie responsabilità,
presso l’unico servizio istituito a mezzo di convenzione tra i tre enti.
In questo caso, quindi, l’unica possibilità per il riconoscimento, in favore
del responsabile unico, di un’indennità maggiore, compatibilmente con il
sistema all’uopo definito presso l’ente di appartenenza, è l’individuazione
di una retribuzione di posizione più elevata qualora si valuti che
l’assorbimento in convenzione delle attività prima esplicate separatamente
dagli enti “deleganti” prefiguri una pesatura del servizio,
presidiato dal medesimo responsabile, più alta, pur sempre entro il limite
massimo di cui all’articolo 15, comma 2, del CCNL 21/05/2018 (Euro 16.000,00
annui).
L’ente titolare del rapporto di lavoro, pertanto, potrebbe aumentare
l’indennità di posizione in godimento, e gli enti “deleganti”
rimborsarla pro quota, secondo gli accordi convenzionali.
In tal senso, si precisa che la retribuzione di posizione (e di risultato)
attribuita presso l’ente di appartenenza, anche ove incrementata per effetto
della valutazione di cui sopra, deve essere computata, ai fini del rispetto
dell’articolo 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 (contenimento del salario
accessorio nel limite dell’anno 2016), a carico di ciascuno dei comuni
coinvolti sulla base di idonei criteri di riparto (14.11.2019 - tratto da e link a
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APPALTI: Ancora
in tema di rotazione.
Domanda
Sono piuttosto frequenti i quesiti sulla dibattuta questione della rotazione
soprattutto nel caso in cui il RUP avvii una procedura negoziata “aperta”
alla luce delle sempre non chiarissime indicazioni fornite dalla
giurisprudenza che in certi casi ritiene non necessaria l’applicazione della
rotazione, in altri casi si è ritenuta invece indispensabile (a pena
dell’illegittimità degli atti adottati) che il RUP motivi sempre e a
prescindere gli inviti al pregresso affidatario e ad operatori già invitati
a precedenti procedure negoziate, fino all’estrema e recente sentenza del
Consiglio di Stato (sez. V, del 05.11.2019 n. 7539) in cui, secondo alcune
letture, la procedura negoziata “aperta” non sarebbe sufficiente a
consentire la partecipazione al procedimento al pregresso affidatario stante
l’imperativa esigenza di applicare la rotazione.
Diversi RUP, quindi, chiedono un chiarimento su come ci si debba comportare.
Risposta
Oggettivamente, la questione della rotazione –almeno fino al momento
dell’avvento del regolamento attuativo (previsto dalla recente legislazione
“sblocca cantieri”– appare articolata ed è opportuno che il RUP, nel
frangente della predisposizione degli atti della procedura negoziata (e/o
del affido diretto puro nell’ambito dei 40mila euro), presti grande
attenzione.
La violazione della rotazione e/o una motivazione insufficiente/assente
rende gli atti illegittimi con spese della soccombenza a carico della
stazione appaltante. Pertanto, non si sottovaluti, la violazione della
rotazione è errore di tipo “tecnico” ovvero riconducibile al RUP ed
al responsabile del servizio che potrebbero anche essere chiamati a
risponderne (e non solo oggetto di valutazione negativa in sede di esame sui
risultati/obiettivi raggiunti/performance).
La posizione espressa dal Consiglio di Stato, con la recentissima sentenza
n. 7539/2019, effettivamente appare rigorosa nel momento in cui (sembra)
affermare l’esigenza di una procedura (anche formalmente) aperta per evitare
i vincoli/obblighi della rotazione. Da ciò si dovrebbe dedurre che la
procedura negoziata “aperta” non è sufficiente per “aggirare”
l’obbligo della rotazione.
In realtà dall’epilogo emerge anche in questo caso una carente motivazione
e, testualmente, in sentenza si puntualizza –infine- che “deve
ragionevolmente ammettersi che il fatto oggettivo del precedente affidamento
impedisce alla stazione appaltante di invitare il gestore uscente, salvo che
essa dia adeguata motivazione delle ragioni che hanno indotto, in deroga al
principio generale di rotazione, a rivolgere l’invito anche all’operatore
uscente”.
La stessa sentenza di primo grado (Tar Lazio, sezione staccata di Latina,
Sezione Prima, n. 535/2018) –che in appello, evidentemente, viene
confermata- puntualizzava il fatto che “la giurisprudenza ribadisce che “In
caso di appalto c.d. «sotto soglia», è illegittima l’aggiudicazione, per
violazione del principio di rotazione, in caso di invito alla
partecipazione, senza alcuna specifica motivazione, nei confronti
dell’operatore economico che l’anno precedente era risultato affidatario
dello stesso servizio oggetto della gara (il quale avrebbe dovuto «saltare
il primo affidamento successivo» in ragione della posizione di vantaggio
acquisita rispetto agli altri concorrenti) (TAR Veneto sez. I 21.03.2018 n.
320)”.
Da ciò emerge l’esigenza per i RUP –come anche in altre circostanze
evidenziato– di predisporre l’avviso a manifestare interesse che contenga
anche i motivi per cui non si farà la rotazione. La ragione può consistere
nel fatto che il procedimento è realmente (sostanzialmente) aperto senza
limiti alla partecipazione di ogni operatore interessato (13.11.2019 - tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: La
realizzazione di lavori e di opere pubbliche, ai fini IVA, è assoggettata ad
una peculiare disciplina, prevedente l’applicazione di aliquote agevolate?
In particolare, quale aliquota IVA deve applicarsi in relazione alla
fattispecie di "lavori di nuova costruzione di una caserma dei Carabinieri”?
La realizzazione di lavori e di opere pubbliche non risulta essere
destinataria di un’organica disciplina, in quanto le fonti normative, in
materia di aliquote IVA, sono diverse e disparate.
In linea generale, si può affermare che la legislazione prevede, per talune
categorie di lavori pubblici, aliquote agevolate. Quindi, occorre verificare
l’effettivo oggetto dei lavori da realizzare ed accertare la possibilità di
applicare le aliquote agevolate. In linea di sintesi, è possibile
distinguere le seguenti categorie di lavori pubblici:
1) Cessioni di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. IVA
10% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n.
127-quinquies, 127-sexies). Al riguardo, giova ricordare che, ai sensi
dell’art. 4, L. 29.09.1964, n. 847, come integrata dalla L. 22.10.1971, n.
865, le opere di urbanizzazione vanno distinte in:
- Opere di Urbanizzazione Primaria (a)
strade residenziali, b) spazi di sosta e parcheggio (realizzati ai sensi
della legge Tognoli - art. 11, L. 24.09.1989, n. 122), c) fognature, d) rete
idrica, e) rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, f)
pubblica illuminazione, g) centri sociali e attrezzature culturali e
sanitarie, h) spazi di verde attrezzato, i) gli impianti e le opere
accessorie funzionali a servizi pubblici di radio, televisione e telefonia
(torri, tralicci, ripetitori, stazioni radio-base);
- Opere di Urbanizzazione Secondaria (a)
asili nido e scuole materne, b) scuole dell’obbligo, c) mercati di
quartiere, d) delegazioni comunali, e) chiese ed altri edifici per servizi
religiosi, f) impianti sportivi di quartiere, g) aree verdi di quartiere, h)
centri sociali, i) attrezzature culturali e sanitarie, j) oratori ed edifici
similari).
L’agevolazione compete per tutte le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria realizzate anche fuori dal tessuto urbano. Siffatte opere devono
presentare e conservare la caratteristica di opere al servizio di un tessuto
urbano e devono possedere il requisito essenziale costituito dalla
destinazione ad uso pubblico.
2) Cessioni, da imprese che hanno effettuato interventi di
urbanizzazione primaria e secondaria. IVA 10% (Tabella A, Parte III,
allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 127-quinquiesdecies,
127-terdecies).
3) Prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto,
relativi alla costruzione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria;
impianti di produzione e reti di distribuzione calore-energia ed energia
elettrica da fonte solarefotovoltaica ed eolica; impianti di depurazione
destinati ad essere collegati a reti fognarie e relativi collettori di
adduzione. IVA 10% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n.
633, n. 127-septies).
4) Prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto
relativi alla costruzione di opere direttamente finalizzate al superamento
ed alla eliminazione di barriere architettoniche. IVA 4% (Tabella A, Parte
III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 42-ter). L’agevolazione si
riferisce a prestazione di servizi dipendenti da contratti di appalto
realizzati allo scopo di rendere libertà di accesso e di movimento negli
edifici ai portatori di handicap.
5) Prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto aventi
ad oggetto la realizzazione di interventi di manutenzione straordinaria, di
cui all’art. 31, lett. b), L. 05.08.1978, n. 457 sugli edifici di edilizia
residenziale pubblica. IVA 10% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R.
26.10.1972, n. 633, n. 127-duodecies).
Gli edifici su cui si effettuano gli interventi di manutenzione
straordinaria, per godere dell’agevolazione, devono avere carattere di: -
edifici pubblici, - destinazione abitativa. Per edifici di edilizia
residenziale pubblica si intendono alloggi realizzati dallo Stato, dagli
Enti pubblici territoriali, dagli IACP e loro consorzi. Le unità immobiliari
devono possedere la caratteristica della stabile residenzialità.
Per quanto concerne la costruzione di "caserme”, la vigente
normativa, nel suo complesso, prevede l’aliquota agevolata del 10%. La
ricostruzione normativa dell’agevolazione (sulla base delle diverse fonti
applicabili) risulta essere la seguente:
▪ La parte terza della Tabella allegata al D.P.R. 26.10.1972, n.
633, n. 127-quinquies prevede l'applicazione dell'IVA nella misura del 10
per cento anche agli "edifici di cui all'art. 1, L. 19.07.1961, n. 659,
assimilati ai fabbricati di cui all'art. 13, L. 02.07.1949, n. 408, e
successive modificazioni".
▪ Il successivo numero 127-septies) stabilisce che la medesima
aliquota del 10 per cento si applica anche alle "prestazioni di servizi
dipendenti da contratti di appalto relativi alla costruzione delle opere,
degli impianti e degli edifici di cui al n. 127-quinquies)".
▪ L'art. 1, L. n. 659 del 1961, richiamato dal suddetto n.
127-quinquies), prevede che "le agevolazioni fiscali e tributarie stabilite
per la costruzione di case di abitazione dagli artt. 13, 14, 16 e 18 della
legge 02.07.1949, n. 408, sono estese agli edifici contemplati dall'art. 2,
comma secondo, del regio decreto 21.06.1938, n. 1094, convertito nella legge
05.01.1939, n. 35".
▪ Siffatti ultimi edifici (quelli indicati nel richiamato art. 2,
comma 2, R.D. 21.06.1938, n. 1094) consistono in scuole, caserme, ospedali,
case di cura, ricoveri, colonie climatiche, collegi, educandati, asili
infantili, orfanotrofi e simili.
Orbene, per quanto concerne la nozione di "caserme",
l’Amministrazione finanziaria ha evidenziato quanto segue:
a) Una struttura edilizia è qualificabile unitariamente come "caserma"
quando la stessa costituisce un comprensorio destinato ad attività
addestrative e logistico amministrative nel quadro dello svolgimento delle
funzioni di difesa militare dello Stato (Risoluzione 917/1994).
b) Può qualificarsi "caserma" una costruzione eretta per
l'abitazione, l'istruzione e l'educazione delle truppe in periodi in cui le
stesse non sono direttamente impegnate in attività operative, ma in compiti
di addestramento ed altre mansioni genericamente riconducibili alle finalità
istituzionali delle forze facenti parte dell'apparato militare dello Stato.
c) Un immobile può considerarsi assimilabile ad una caserma quando
presenti caratteristiche strutturali e funzionali analoghe a quelle
descritte e non costituisca, invece, un complesso immobiliare da destinare
ad uffici (Risoluzione 460547/1987).
La Ris. 13.06.2008 n. 243/E, emessa dall’Agenzia delle Entrate, sintetizza
in modo mirabile, le argomentazioni ora illustrate, con applicazione
dell’aliquota agevolata del 10%, ai sensi della Tabella A allegata al D.P.R.
26.10.1972, n. 633, n. 127-septies. Conclusivamente, per la costruzione di
nuovi edifici, presentanti le caratteristiche di "caserma”, come ora
delineata (punti a-b-c), si applica l’aliquota agevolata del 10%.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 26.10.1972, n. 633,
Tabella A - Ris. 13.06.2008 n. 243/E dell’Agenzia delle Entrate
(13.11.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA: Pubblicazione
ordinanze di sospensione lavori.
Domanda
Da sempre, nel nostro ente, abbiamo pubblicato all’albo pretorio on-line il
testo integrale delle ordinanze di sospensione lavori, emesse nei confronti
di cittadini che hanno commesso un abuso edilizio. Il collega del comune
vicino dice che non vanno pubblicate.
Sapete darci qualche informazione al riguardo?
Risposta
In materia di ordinanze comunali, va specificato che nel decreto legislativo
14.03.2013, n. 33 e successive modificazioni ed integrazioni, non compare
mai il termine “ordinanze”, per cui, in assenza di una norma
specifica, occorre rifarsi alle disposizioni di carattere generale, quali
–ad esempio– la deliberazione del Garante privacy italiano, emanata il
15.05.2014, recanti “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”.
Per ciò che concerne, quindi, le ordinanze, sia che siano emanate da
dirigenti (P.O. negli enti senza dirigenza) o dal Sindaco, nella versione
capo dell’amministrazione (art. 50, comma 5, TUEL 267/2000) o come ufficiale
di Governo (art. 54, comma 4, TUEL), la regola generale da rispettare, con
specifica indicazione che sarebbe opportuno inserire nella sezione
Trasparenza del PTPCT, è la seguente:
• vanno pubblicate all’albo pretorio on-line solo le ordinanze
aventi carattere di generalità, rivolte ad una pluralità di soggetti,
altrimenti non facilmente raggiungibili (esempio: chiusura scuole per
maltempo; divieto di utilizzo dell’acqua; disciplina della circolazione e
sosta; divieto di innaffiamento orti e giardini; misure a tutela dell’ordine
e sicurezza pubblica, eccetera);
• vanno “notificate” agli interessati e non pubblicate, le
ordinanze, rivolte a singole persone, in cui gli si ordina di fare o non
fare qualcosa (ordinanze/ingiunzione di pagamento; abusi edilizi;
Trattamento Sanitario Obbligatorio – TSO e Assistenza Sanitaria Obbligatoria
– ASO, eccetera).
Per quanto riguarda lo specifico quesito, occorre rifarsi all’art. 31, comma
7, del Decreto Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, il quale
testualmente recita:
7. Il segretario comunale redige e pubblica mensilmente,
mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle
opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed
agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e
trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al
presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del
governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Come si può notare, la disposizione prevede che vengano pubblicati i dati
relativi agli immobili realizzati abusivamente; l’oggetto dei rapporti della
P.G, e delle relative ordinanze. La norma, dunque, non prevede la
pubblicazione integrale dell’ordinanza, come invece, viene effettuato nel
vostro comune.
Sempre restando al Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001) va ricordato che
anche in altri articoli (cfr. art. 30, comma 7) il legislatore ha sempre
utilizzato l’espressione “notificare” e mai quella di “pubblicare”.
Si ritengono corrette, quindi, le modalità di pubblicazione adottate dal
comune vicino al vostro, che pubblica, all’albo pretorio on-line, la
verifica mensile del segretario comunale in materia di abusi edilizi,
riportando solamente, per quanto riguarda le ordinanze, il loro numero
progressivo, la data di emanazione e l’oggetto della medesima, con
l’accortezza di NON inserire nell’oggetto il nominativo del destinatario a
cui il provvedimento di sospensione è stato notificato (12.11.2019 - tratto da e link a
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta convocazione del consiglio comunale da parte di un quinto dei
consiglieri. Questione pregiudiziale.
1) In caso di convocazione del consiglio
comunale da parte di almeno un quinto dei consiglieri le istanze possono
essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio
comunale o del sindaco soltanto qualora le stesse vertano o su un oggetto
che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del collegio
consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile, non potendo invece
essere sindacate nel merito le richieste avanzate dal prescritto quorum di
consiglieri.
2) L’istituto della questione pregiudiziale deve essere coordinato
con il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la
convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto”
dal legislatore. Sono, pertanto, ammissibili solo quelle questioni
pregiudiziali che impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine
del giorno per ragioni interne e proprie della specifica procedura o per
altre ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto
dell’argomento, con esclusione di questioni strumentalmente dirette a porre
nel nulla la funzione del diritto di iniziativa.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di convocazione del
consiglio comunale formulata ai sensi dell’articolo 39, comma 2, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 [1]
dalla minoranza consiliare e avente ad oggetto la discussione di una mozione
su una pluralità di argomenti afferenti una medesima tematica. Sulla
questione in riferimento si è già pronunciato il segretario comunale che,
quanto ai contenuti della stessa, “inclina fortemente a dubitare che il
suo oggetto sia riconducibile alla competenza consiliare”.
In via preliminare si rileva in generale che, nel caso di richiesta di
convocazione del consiglio comunale da parte di almeno un quinto dei
consiglieri, il sindaco ha l’obbligo di riunire il consiglio in un termine
non superiore ai venti giorni. Entro tale termine si deve provvedere non
solo alla convocazione ma anche alla riunione dell’assemblea consiliare.
[2]
In caso d’inosservanza di tale obbligo soccorre la previsione di cui
all’articolo 26, comma 1, della legge regionale 04.07.1997, n. 23 secondo
cui: “Ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 9/1977 nella
regione Friuli-Venezia Giulia, in caso di inosservanza degli obblighi di
convocazione del Consiglio comunale e provinciale, previa diffida, provvede
l'Assessore regionale per le autonomie locali”.
È, quindi, consentito al soggetto competente alla convocazione del consiglio
di attivarsi anche dopo la scadenza del termine prescritto, fino
all’intervento sostitutivo regionale.
Nella fattispecie prospettata viene in rilevo la problematica
dell’individuazione dei limiti alla sindacabilità da parte del sindaco,
quale presidente del consiglio, delle richieste di convocazione
dell’assemblea da parte dei consiglieri di minoranza nell’ipotesi in cui
sussistano dubbi circa la competenza dell’organo consiliare in ordine agli
argomenti da iscrivere all’ordine del giorno.
Al riguardo sussiste un costante orientamento ministeriale
[3] secondo cui le istanze possono
essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio
comunale o del sindaco soltanto “qualora le richieste stesse vertano o su
un oggetto che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del
collegio consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile”, non
potendo tali soggetti sindacare nel merito le richieste avanzate dal
prescritto quorum di consiglieri.
Al riguardo, il Ministero ha richiamato in più occasioni la giurisprudenza
consolidata secondo cui, di fronte alla richiesta di convocazione, il
presidente del consiglio può soltanto verificare, sotto il profilo formale,
che la stessa provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre
non potrà sindacarne l’oggetto, atteso che spetta al consiglio comunale la
verifica della propria competenza e, quindi, l’ammissibilità delle questioni
da trattare [4].
Di conseguenza, rimane preclusa al presidente del consiglio, destinatario
della richiesta di convocazione, una valutazione di merito circa
l’ammissibilità delle questioni, salvo che non si tratti di oggetto che, in
quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle
competenze del consiglio, in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine
del giorno, neppure su autonoma iniziativa del presidente stesso.
Infatti, la richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto
dei consiglieri rappresenta lo strumento parallelo alla forma ordinaria di
convocazione da parte del suo presidente e risulta, pertanto, collocata su
un piano di parità: la ratio della norma sarebbe travisata qualora alla
richiesta si ponessero dei limiti non previsti per la convocazione da parte
del presidente del consiglio.
Con riferimento alle questioni per le quali la minoranza consiliare ha
richiesto la convocazione del consiglio si rileva che, almeno per una di
esse, il segretario comunale, nel parere rilasciato sull’argomento, ha
affermato che «l’invito “a mettere a disposizione le risorse finanziarie
necessarie per far espletare all’Istituto Comprensivo (…) il bando atto ad
individuare l’operatore economico che si occupa della supervisione degli
alunni durante il pranzo” potrebbe costituire oggetto di disamina consiliare
ove interpretato come una sollecitazione ad adeguare e/o integrare gli
stanziamenti del bilancio comunale».
Si precisa, al riguardo che “nello stabilire se una determinata questione
sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non
solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42
del Testo Unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo articolo 42, con la
possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba
necessariamente sfociare nell’adozione di un provvedimento finale. Il
Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo sull’attività del Comune […]”
[5].
Quanto, poi, alle ulteriori questioni poste, alla luce di quanto sopra
riportato, il sindaco potrebbe dichiarare le stesse improcedibili solo
qualora ritenesse il loro oggetto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze del consiglio.
In caso contrario, dovrebbe riunire il consiglio in un termine non superiore
ai venti giorni e questi dovrebbe effettuarne la trattazione a meno che,
prima dell’inizio della loro discussione, un consigliere ponesse su di esse
la questione pregiudiziale e il Consiglio la approvasse.
A tale riguardo l’articolo 26 del regolamento del consiglio comunale
rubricato “Questioni pregiudiziali e sospensive” recita: “1. Il
Consigliere, prima che abbia inizio la discussione su un argomento
all’ordine del giorno, può porre la questione pregiudiziale, per ottenere
che quell’argomento non si discuta, o la questione sospensiva, per ottenere
che la discussione stessa venga rinviata al verificarsi di determinante
scadenze.
2. La questione sospensiva può essere posta anche nel corso della
discussione.
3. Le questioni sono discusse immediatamente prima che abbia inizio o che
continui la discussione; questa prosegue solo se il Consiglio non le
respinga a maggioranza.
4. Dopo il proponente, sulle questioni possono parlare solo un consigliere a
favore ed uno contro.
5. In caso di contemporanea presentazione di più questioni pregiudiziali o
di più questioni sospensive, si procede, previa unificazione, ad un’unica
discussione, nella quale può intervenire un solo consigliere per gruppo,
compresi i proponenti. Se la questione sospensiva è accolta, il Consiglio
decide sulla scadenza della stessa.
6. Gli interventi sulla questione pregiudiziale e sulla questione sospensiva
non possono eccedere, ciascuno, i cinque minuti. La votazione ha luogo per
alzata di mano.
7. I richiami al regolamento, all’ordine del giorno o all’ordine dei lavori
e le questioni procedurali hanno la precedenza sulle discussioni principali.
In tali casi, possono parlare, dopo il proponente, un consigliere contro ed
uno a favore e per non più di cinque minuti ciascuno.
8. Ove il Consiglio venga, dal Presidente, chiamato a decidere sui richiami
e sulle questioni di cui al precedente comma, la votazione avviene per
alzata di mano”.
Con riferimento alla fattispecie in essere l’istituto della questione
pregiudiziale, quanto ad ambito di ammissibilità, deve essere coordinato con
il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la
convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto”
dal legislatore (artt. 43 e 39, secondo comma, D.Lgs. 18.08.2000 n. 267).
Sui limiti entro cui può essere esercitato dalla maggioranza consiliare il
diritto di disporre questioni pregiudiziali o sospensive si è espressa la
giurisprudenza [6]
la quale ha chiarito che “pare che l’ordinamento abbia voluto fare giusto
bilanciamento fra due principi: da un lato, il principio maggioritario, a
sua volta rafforzato nel sistema elettorale degli Enti locali, quanto al
momento del decidere; dall’altro, il principio del valore della funzione
della minoranza, espressa nel diritto di convocazione dell’assemblea per
decidere su un argomento. Ritiene, pertanto, il Collegio che il
coordinamento fra diritto di iniziativa della minoranza e potere della
maggioranza a porre questioni pregiudiziali, vada risolto nel senso che
l’ordinamento dà prevalenza e garantisce comunque la effettività del primo,
sia nel momento iniziale (convocazione del Consiglio), che nel suo
ineliminabile aspetto funzionale (discussione). Ne consegue, che ogni qual
volta l’ordinamento prevede e garantisce il diritto di iniziativa della
minoranza mediante convocazione dell’assemblea, il potere della maggioranza
di porre questioni pregiudiziali non può che essere inteso in senso
congruente con il diritto di iniziativa. In tale situazione il Collegio
ritiene che siano ammissibili solo quelle questioni pregiudiziali che
impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine del giorno per
ragioni interne e proprie della specifica procedura, con esclusione di
questioni strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del diritto
di iniziativa”.
La medesima sentenza prosegue affermando come sia necessario, altresì,
verificare “se, accanto ed oltre le questioni pregiudiziali connesse con
la specifica procedura della mozione, non possano esistere anche altre
ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto stesso della
mozione così come definito dalla proposta di deliberazione posta quale
conclusione della mozione”.
Calando le sopra riportate considerazioni giurisprudenziali nel caso
concreto potrebbe affermarsi che le questioni poste dalla minoranza
consiliare a base della richiesta di convocazione possano non essere
discusse nel merito dall’organo consiliare qualora questi ritenesse il loro
oggetto manifestamente estraneo alle sue competenze. Verrebbe, in altri
termini, rimesso ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via
pregiudiziale che gli argomenti (tutti o alcuni) in riferimento, inseriti
nell’ordine del giorno, non debbano essere discussi in quanto ritenuti
estranei alle proprie competenze. In conformità a quanto previsto dalla
norma regolamentare il proponente la questione pregiudiziale dovrebbe
motivare la stessa e dopo di lui, “sulle questioni possono parlare solo
un consigliere a favore ed uno contro” (articolo 26, comma 4, del
regolamento del consiglio comunale).
-----------------
[1] Recita l’articolo 39, comma 2, del D.Lgs. 267/2000: “Il presidente
del consiglio comunale o provinciale è tenuto a riunire il consiglio, in un
termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei
consiglieri, o il sindaco o il presidente della provincia, inserendo
all’ordine del giorno le questioni richieste”.
[2] Per completezza espositiva si rileva che, secondo chi scrive, nel caso
in esame deve essere presa in considerazione la disciplina procedurale
relativa alla richiesta di convocazione da parte di almeno un quinto dei
consiglieri e non già quella, contenuta nel regolamento sul funzionamento
del consiglio comunale, relativa all’istituto delle mozioni (il quale
prevede, all’articolo 44, che le stesse “sono svolte all’inizio della seduta
immediatamente successiva alla loro presentazione”).
[3] In questo senso, tra gli altri, si vedano i pareri del Ministero
dell’Interno del 06.04.2017 e del 16.03.2018.
[4] Si veda TAR Piemonte, sez. II, sentenza del 24.04.1996, n. 268.
[5] Così Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. In senso conforme,
Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento, sentenza del 14.01.2010, n.
20.
[6] TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 06.02.2004, n. 1022. Nello
stesso senso, TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 25.07.2001, n. 4278
(08.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Approvazione del verbale della seduta del consiglio comunale. Richiesta di
rettifica del verbale.
Nel verbale della seduta del consiglio comunale non
tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati ma solo
quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono
rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di
verbalizzazione è preposta.
La dottrina prevalente afferma che le frasi offensive o ingiuriose devono
essere omesse dal verbale. Altro orientamento afferma, invece, la
sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in capo al
segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose, salvo che non
gliene sia fatto esplicito obbligo.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di rettifica del
verbale di una seduta del consiglio comunale, nel quale il segretario
comunale non aveva inserito alcune frasi ritenute offensive ed ingiuriose.
Più in particolare riferisce che, nel corso della seduta consiliare
successiva, in relazione al punto dell’ordine del giorno avente ad oggetto “approvazione
verbali seduta precedente”, un gruppo consiliare ha presentato per
iscritto una richiesta di rettifica dello stesso chiedendo l’inserimento di
alcune precisazioni riguardanti una discussione verificatasi tra il sindaco
e un consigliere comunale nel corso della seduta di consiglio, con reciproca
richiesta di verbalizzazione di frasi ritenute sconvenienti ed offensive; in
particolare in tale occasione il consigliere comunale aveva rivolto una
richiesta orale al segretario di verbalizzare l’affermazione pronunciata nei
suoi confronti “per fatto personale ai sensi art. 45 del vigente
Regolamento Consiglio Comunale [1],
trattandosi di una frase offensiva”.
Nel verbale il segretario comunale aveva dato atto che “la finalità del
verbale sia quella di restituire, a futura memoria, i fatti salienti
verificatisi nel corso della seduta, fatti cioè di interesse per la Comunità
di […], e di garantire, nel contempo, il controllo sulla corretta formazione
della volontà collegiale, senza che sussista alcun obbligo, in capo a
costui, di rendere una minuziosa descrizione delle singole attività compiute
o delle singole opinioni espresse e di verbalizzare allusioni ovvero frasi
ritenute sconvenienti o offensive”. In conseguenza di un tanto nel
verbale non erano state riportate le parole oltraggiose pronunciate nel
corso dell’adunanza consiliare.
Di qui la richiesta di rettifica avanzata dal gruppo di minoranza, cui
appartiene il consigliere in riferimento, la quale è stata sottoposta alla
decisione del consiglio comunale il quale ha disposto “il non
accoglimento della richiesta di rettifica/integrazione al verbale presentata
dal Consigliere XX, ritenendo completo ed esaustivo il verbale così come
redatto dal segretario comunale”.
In via preliminare si ricorda che il verbale è un documento dotato di
pubblica fede descrittivo di atti o fatti compiuti alla presenza di un
soggetto verbalizzante appositamente incaricato. [2]
Come affermato da certa dottrina [3]
il verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria»
di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta, affinché i
fatti in essa avvenuti possano essere successivamente documentati”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il
verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di
verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di
permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna
rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole
attività compiute o delle singole opinioni espresse.”
[4]
Pertanto, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente
documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di
ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle
finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Con specifico riferimento all’obbligo o meno del segretario di
verbalizzazione di frasi ingiuriose, si osserva come la dottrina prevalente
[5] afferma che esse
debbano essere omesse dal verbale. In tal senso, in un parere dell’ANCI si
legge che: “Eventuali ingiurie, allusioni o dichiarazioni offensive o
diffamatorie non debbono essere riportate a verbale ed il Segretario
comunale provvede ad escluderle”. [6]
Per completezza espositiva, si segnala l’orientamento di certa dottrina la
quale afferma la sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in
capo al segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose. In tale
senso è stato affermato che “avendo il segretario l’obbligo di inserire a
verbale solo i punti essenziali della discussione, si può ritenere che il
segretario stesso abbia la facoltà di evitarne la riproduzione, salvo che
non gliene sia fatto esplicito obbligo”. [7]
Le considerazioni sopra espresse –anche alla luce della dottrina da ultimo
citata, la quale ritiene che il segretario comunale debba procedere alla
verbalizzazione delle parole offensive “se gliene sia fatto esplicito
obbligo”- devono essere lette alla luce delle previsioni contenute al
riguardo nel regolamento del consiglio comunale.
In particolare, l’articolo 40 dello stesso recita: “1. Dichiarata aperta
la seduta il presidente, a mezzo del Segretario, dà lettura dei verbali
della seduta precedente.
2. Sul processo verbale non è concessa la parola se non a chi vi intende far
inserire una rettifica oppure per fatto personale senza entrare nel merito
della discussione.
3. Si intende per rettifica una richiesta di modifica di una parola o di
brevi concetti che il verbalizzante può avere male interpretato o riportato.
Non è possibile far inserire nuovi concetti che si assume di avere detto se
non previa approvazione mediante votazione del Consiglio Comunale, previa
dettatura da parte del Consigliere interessato del nuovo intervento da
inserire a verbale”.
In via preliminare si ricorda che l’interpretazione delle norme contenute
nel regolamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che
tali norme si è dato; di conseguenza chi scrive esprime in via meramente
collaborativa alcune considerazioni giuridiche che possano essere di ausilio
all’Ente nella soluzione della questione posta, ferma rimanendo l’autonomia
dell’organo consiliare nell’interpretazione delle proprie norme.
Fermo l’orientamento della dottrina che ritiene non si debbano mai riportare
le frasi offensive od oltraggiose, quanto all’ulteriore filone dottrinario,
secondo il quale il segretario sarebbe tenuto alla verbalizzazione delle
frasi offensive qualora sia rinvenibile un espresso obbligo di
verbalizzazione delle stesse, dall’analisi dell’articolo 40, comma 3, del
regolamento sul funzionamento del consiglio parrebbe potersi desumere la
sussistenza di tale obbligo di verbalizzazione qualora il consiglio comunale
deliberi in tal senso.
Nel caso in esame, invece, l’organo consiliare si è espresso in senso
contrario alla rettifica/integrazione al verbale, ritenendo completa ed
esaustiva la sua redazione come effettuata dal segretario comunale.
-----------------
[1] L’articolo 45 del regolamento del consiglio comunale recita: “1. È
fatto personale l’essere intaccato nella propria condotta o il sentirsi
attribuire opinioni contrarie a quelle espresse.
2. Chi chiede la parola del fatto personale, deve indicare in che
cosa questo consista ed il Presidente decide se il richiedente abbia o meno
diritto di parlare”.
[2] Così, R. Nobile, “Verbalizzazione e verbali delle sedute degli organi e
degli organismi collegiali negli enti locali”, in La Gazzetta degli enti
locali, 2015.
[3] I. Tricomi, Prontuario degli Enti Locali, 2003, pag. 380.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello
stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189
e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. In questo senso
si veda, anche il parere del Ministero dell’Interno del 20.01.2015.
[5] Si veda, c. Polidori, “Verbali e organi collegiali nelle pubbliche
amministrazioni”, Trieste, 2012, pag. 195.
[6] ANCI, parere del 18.12.2007.
[7] A.R., “Consiglio comunale – verbale delle adunanze – contenuto –
redazione dei processi verbali”, in L’Amministrazione italiana, n. 11/1999
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Periodo
prova stabilizzazione.
Domanda
Il dipendente assunto con stabilizzazione è soggetto al periodo di prova
previsto dall’art. 20 del CCNL sottoscritto in data 21.05.2018?
Risposta
Ai sensi del citato articolo 20 del contratto del 2018, le eccezioni
all’obbligo di superamento del periodo di prova sono contenute al comma 2
che recita: “Possono essere esonerati dal periodo di prova, con il
consenso dell’interessato, i dipendenti che lo abbiano già superato nella
medesima categoria e profilo professionale oppure in corrispondente profilo
di altra amministrazione pubblica, anche di diverso comparto. Sono, altresì,
esonerati dal periodo di prova, con il consenso degli stessi, i dipendenti
che risultino vincitori di procedure selettive per la progressione tra le
aree o categorie riservate al personale di ruolo, presso la medesima
amministrazione, ai sensi dell’art. 22, comma 15, del D.Lgs. n. 75/2017
[1].”
L’ente, invece, darà applicazione all’art. 20 “Superamento del precariato
nelle pubbliche amministrazioni” del D.Lgs. n. 75/2017, che consente
l’assunzione a tempo indeterminato, nel triennio 2018-2020, dei soggetti in
possesso di tutti i seguenti requisiti:
a) risulti in servizio successivamente alla data di entrata in
vigore della legge n. 124 del 2015 con contratti a tempo determinato presso
l’amministrazione che procede all’assunzione;
b) sia stato reclutato a tempo determinato, in relazione alle
medesime attività svolte, con procedure concorsuali anche espletate presso
amministrazioni pubbliche diverse da quella che procede all’assunzione;
c) abbia maturato, al 31.12.2017, alle dipendenze
dell’amministrazione che procede all’assunzione almeno tre anni di servizio,
anche non continuativi, negli ultimi otto anni.
L’assunzione si concretizzerà con la stipulazione del contratto di lavoro
che dovrà contenere anche l’indicazione del periodo di prova, in questo caso
pari a sei mesi. Il fatto che il lavoratore sia stato in servizio per un
periodo pregresso non esime dal superamento del periodo di prova
contrattualmente stabilito.
Tale posizione trova conferma nella sentenza della Corte di Cassazione,
Sezione lavoro, n. 21376 del 29.08.2018, con riguardo al caso di una
lavoratrice del Comparto Sanità. Si legge nella decisione che “… sia la
legge che il CCNL del Comparto Sanità impongono alle pubbliche
Amministrazioni datrici di lavoro l’espletamento del periodo di prova; la
valutazione espressa in occasione della pregressa esperienza lavorativa era
irrilevante in quanto la datrice di lavoro era tenuta a verificare in
concreto, all’esito del periodo di prova, l’idoneità della lavoratrice allo
svolgimento delle mansioni per le quali era stata assunta con contratto di
lavoro a tempo indeterminato…”.
Le norme che prevedono il superamento del periodo di prova sono richiamate
nella sentenza citata: “Come già affermato da questa Corte nella sentenza
n. 9296/2017, quest’ultima legge art. 70, comma 13, dispone, infatti, che
“in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la
disciplina prevista dal D.P.R. 09.05.1994, n. 487, e successive
modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto
previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in
coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi
ordinamenti”. E l’art. 17 della richiamata fonte normativa (Assunzioni in
servizio), al comma 1, prevede che i candidati dichiarati vincitori sono
assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il
quale risultano vincitori, la durata del periodo di prova è differenziata in
ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste e sarà
definita in sede di contrattazione collettiva, i provvedimenti di nomina in
prova sono immediatamente esecutivi.”
La Corte aggiunge, con riferimento al surrichiamato quadro normativo, che “…
tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono
assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex
lege e non per effetto di patto inserito nel contratto di lavoro
dall’autonomia contrattuale e che l’autonomia contrattuale è abilitata
esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, ma
tale abilitazione è data dalle norme esclusivamente alla contrattazione
collettiva, restando escluso che il contratto individuale possa
discostarsene (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3).”
-----------------
[1] “Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di
valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle
vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le
aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli
di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali
procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli
previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la
relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure
selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati,
la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata
al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle
progressioni tra le aree di cui all’articolo 52 del decreto legislativo n.
165 del 2001. Tali procedure selettive prevedono prove volte ad accertare la
capacità dei candidati di utilizzare e applicare nozioni teoriche per la
soluzione di problemi specifici e casi concreti. La valutazione positiva
conseguita dal dipendente per almeno tre anni, l’attività svolta e i
risultati conseguiti, nonché l’eventuale superamento di precedenti procedure
selettive, costituiscono titoli rilevanti ai fini dell’attribuzione dei
posti riservati per l’accesso all’area superiore” (07.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il CIG e i servizi legali esclusi dall’applicazione del codice.
Domanda
L’ente deve affidare dei servizi legali, è necessario acquisire il CIG?
Risposta
Dalla natura del quesito non è possibile capire a quale fattispecie sia da
ricondurre l’affidamento dei servizi legali, ovvero, se trattasi di servizi
legali esclusi dall’applicazione oggettiva del codice ai sensi dell’art. 17,
co. 1, lett. d), quali ad esempio gli incarichi di patrocinio conferiti in
relazione ad una specifica lite, oppure quei servizi soggetti alla
disciplina alleggerita di cui all’allegato IX del d.lgs. 50/2016, ad esempio
il contenzioso seriale affidato in gestione ad un operatore economico.
Sulla base di tali differenti prestazioni l’Anac, nelle linee guida n. 12,
aderendo all’impostazione del Consiglio di Stato ha qualificato quest’ultima
come appalto di servizi, e contratto d’opera professionale la trattazione
della singola controversia. Sul punto si segnala che alcune posizioni
dottrinarie e giurisprudenziali ritengono che, nel caso di affidamento di un
incarico di patrocinio, anche se escluso dall’applicazione del codice, la
prestazione debba comunque rientrare nella nozione di appalto.
Tuttavia, indipendentemente dalla qualificazione negoziale, alla luce del
nuovo comunicato del Presidente dell’Anac del 16.10.2019, anche per i
servizi legali esclusi dal codice, è necessario acquisire il CIG e versare
il contributo Anac, qualora di valore pari o superiore a € 40.000.
L’Autorità ha ritenuto di dover acquisire dati e informazioni sulle
procedure escluse dall’applicazione del codice dei contratti pubblici e,
nelle more dell’adozione del nuovo regolamento sul funzionamento
dell’Osservatorio ai sensi dell’art. 213, co. 9, ha definito gli obblighi di
acquisizione del CIG e pagamento del contributo in favore dell’Autorità per
alcune tipologie di affidamento, in precedenza non previste, elencate in una
tabella distinta per riferimento normativo, descrizione della prestazione,
obbligo o meno di acquisizione del CIG, nonché di eventuale versamento della
tassa Anac.
La procedura di richiesta dello smartCIG è infatti arricchita, nelle
fattispecie contrattuali, da queste nuove tipologie che al momento non
sembrano essere presenti nel caso di acquisizione del CIG tramite il sistema
SIMOG.
Solo per citarne alcune e più strettamente connesse al quesito:
- SERVIZI DI ARBITRATO E CONCILIAZIONE FINO A 40.000 EURO
- SERVIZI LEGALI FINO A 40.000 EURO
L’autorità inoltre precisa che per quanto attiene alla trasmissione dei dati
all’Osservatorio dei contratti pubblici, che gli obblighi di comunicazione
attualmente in essere per i settori ordinari si intendono estesi a tutte le
altre fattispecie, ivi comprese quelle elencate nella citata tabella, con
decorrenza dal 01.01.2020 (06.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ufficio
tecnico di questo Comune riceve continue richieste di annullamento della
procedura di contestazione di abusi edilizi e ordine di demolizione, fondate
su mancata comunicazione di avvio del procedimento, insufficiente
motivazione, mancata identificazione degli immobili (es. dati catastali)
ecc...
Quali formalità occorre seguire per evitare ricorsi?
L'abusivismo edilizio è una delle "piaghe" nazionali tanto da
costituire una parte cospicua della giurisprudenza amministrativa (in questo
senso i precedenti a disposizione costituiscono una buona base di
riferimento).
Come noto l'art. 31 del Testo Unico D.P.R. 06.06.2001 n. 380 prevede che "Il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal
medesimo ... ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la
rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto ... Se il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione
di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente
al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore
a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire vari aspetti che si sintetizzano
(rinviando per il dettaglio alle massime relative):
- essendo un'attività vincolata non è indispensabile la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento (art. 7, L. 07.08.1990, n. 241), o
meglio la sua mancanza non determina illegittimità del procedimento e del
relativo provvedimento finale;
- è condizione necessaria e sufficiente l'analitica descrizione
delle opere abusivamente realizzate anche in mancanza di una descrizione
dell'immobile sotto il profilo degli estremi catastali o altri riferimenti
(indirizzo e civico);
- allo stesso modo non rileva sotto il profilo della legittimità
l'omessa od imprecisa indicazione dell'area che verrà acquisita di diritto
al patrimonio pubblico;
- non è necessario l'accertamento della responsabilità del
destinatario dell'ingiunzione in quanto l'abuso edilizio rileva ex se, quale
elemento oggettivo;
- il provvedimento conclusivo non richiede motivazione in ordine
alle ragioni di pubblico che ne impongono la rimozione atteso che lo stesso
ha natura vincolata.
Ovviamente si suggerisce, nei limiti del possibile, di procedere a
comunicazione di avvio e fornire adeguata motivazione in relazione ai vari
punti, ricordando comunque che in base alla citata giurisprudenza la loro
carenza (ed in taluni casi omissione) non ha effetto sulla legittimità degli
atti. In questo senso potrà essere data risposta alle richieste di
autotutela degli interessati.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 31
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. II, 21.10.2019, n. 7103 - Cons. Stato Sez. II, 12.09.2019,
n. 6147 - Cons. Stato Sez. IV, 02.09.2019, n. 6055 - Cons. Stato Sez. II,
30.08.2019, n. 6000 - Cons. Stato Sez. VI, 29.08.2019, n. 5938 - Cons. Stato
Sez. VI, 30.07.2019, n. 5388 - Cons. Stato Sez. IV, 15.07.2019, n. 4955 -
Cons. Stato Sez. II, 08.07.2019, n. 4727 - Cons. Stato Sez. II, 05.07.2019,
n. 4662
(06.11.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: costruzione di nuovo fabbricato – presenza di muro di
contenimento – rispetto delle distanze dal confine – modalità di calcolo –
parere
(Legali Associati per Celva,
nota 31.10.2019 -
tratto da www.celva.it).
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Il Comune di Arvier, per il tramite del CELVA, ha richiesto un parere
avente ad oggetto la corretta quantificazione delle distanze da rispettare
nell’ambito dell’attività edificatoria di un nuovo fabbricato monofamiliare,
di civile abitazione, realizzando in Arvier, Fraz. Leverogne, zona
classificata come Ba4 dal vigente P.R.G.C. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PATRIMONIO:
OGGETTO: acquisto di terreno comunale da parte di amministratore del
Comune tramite permuta – sussistenza di un interesse pubblico – divieto di
cui all’art. 1471 c.c. e all’art. 15 del Regolamento comunale –
applicabilità – parere
(Legali Associati per Celva,
nota 29.10.2019 -
tratto da www.celva.it).
---------------
Il Comune di La Thuile ha sottoposto alla nostra attenzione, per il
tramite del CELVA, quesito avente ad oggetto le modalità di applicazione
dell’art. 1471 c.c., recante “Divieti speciali di comprare”, nonché
dell’art. 15 del Regolamento comunale per la disciplina delle alienazioni di
beni immobili. (...continua). |
APPALTI SERVIZI:
Servizio di pulizia degli immobili comunali. Affidamento a cooperativa
sociale volto a garantire l'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
L’art. 5, c. 1, della L. 381/1991 sancisce che gli enti
pubblici, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della
pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative
sociali “di tipo b)” per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli
socio-sanitari ed educativi, qualora l’importo stimato, al netto dell’IVA,
sia inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria in materia di appalti
pubblici e purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di
lavoro per le persone svantaggiate.
Considerando che lo stesso legislatore della L. 381/1991 pone come
facoltativo il ricorso al convenzionamento ivi previsto, si reputa che
l’ente possa scegliere se avvalersi del modulo convenzionale, ovvero se
acquisire il servizio ricorrendo al libero mercato.
Solo nella seconda ipotesi l’ente dovrà sottostare alle regole volte alla
razionalizzazione e al contenimento della spesa pubblica, ivi compreso
l’obbligo di adesione ai contratti quadro stipulati dalla Centrale unica di
committenza della Regione Friuli Venezia Giulia.
Il Comune chiede di conoscere se sia possibile indire una procedura di gara
per l’affidamento del servizio di pulizia delle proprie sedi, riservandone
la partecipazione alle cooperative sociali, al fine di garantire
l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate di cui all’art. 4, comma 1
[1], della legge
08.11.1991, n. 381 e di poter fruire dei fondi regionali a ciò destinati o
se, invece, l’Ente sia tenuto ad acquisire il servizio ricorrendo alla
convenzione che verrà stipulata tra il fornitore e la Centrale unica di
committenza regionale [2],
la cui procedura è stata bandita nel dicembre 2018 ed è in corso di
svolgimento.
Sentiti, per quanto di rispettiva competenza, il Servizio cooperazione
sociale e terzo settore della Direzione centrale salute, politiche sociali e
disabilità ed il Servizio Centrale unica di committenza della Direzione
centrale patrimonio, demanio, servizi generali e sistemi informativi, si
formulano le seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, rilevare che la L. 381/1991 è fatta salva tanto
dall’art. 112, comma 1 [3],
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, quanto dall’art. 40, comma 2
[4], del decreto
legislativo 03.07.2017, n. 117.
L’art. 1, comma 1, della L. 381/1991 sancisce che le cooperative sociali
hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla
promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, attraverso due
distinti ambiti di intervento:
a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi, incluse le
attività di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), b), c), d), l), e p), del
decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112;
b) lo svolgimento di attività diverse –agricole, industriali,
commerciali o di servizi– finalizzate all’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate.
L’art. 4 della L. 381/1991, dopo aver individuato le categorie delle persone
da ritenere svantaggiate (comma 1), alle quali il legislatore accorda una
particolare tutela, stabilisce, tra l’altro, che tali persone devono
costituire almeno il trenta per cento dei lavoratori della cooperativa
(comma 2).
Ciò posto, l’art. 5, comma 1, della L. 381/1991 sancisce che gli enti
pubblici, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della
pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative
sociali “di tipo b)” [5]
per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed
educativi, qualora l’importo stimato, al netto dell’IVA, sia inferiore alle
soglie di rilevanza comunitaria in materia di appalti pubblici e purché tali
convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone
svantaggiate.
Con disposizione relativamente recente [6],
il legislatore statale ha stabilito che la stipula di tali convenzioni deve
avvenire previo svolgimento di procedure selettive, idonee ad assicurare il
rispetto dei princìpi di trasparenza, di non discriminazione e di
efficienza. [7]
La previsione recata dall’art. 5, comma 1, della L. 381/1991, essendo volta
alla promozione e all’integrazione sociale, costituisce concreta attuazione
dell’art. 45, primo comma, della Costituzione, in base al quale «La
Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di
mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e
favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli
opportuni controlli, il carattere e le finalità.».
Ai sensi dell’art. 9 della L. 381/1991 le regioni sono state investite dei
compiti di:
- emanare le norme di attuazione, nonché disposizioni volte alla
promozione, al sostegno e allo sviluppo della cooperazione sociale;
- istituire l’albo regionale delle cooperative sociali;
- adottare convenzioni-tipo per i rapporti tra le cooperative
sociali e le amministrazioni pubbliche.
Con legge regionale 07.02.1992, n. 7, il legislatore del Friuli Venezia
Giulia ha provveduto a disciplinare la cooperazione sociale, ai sensi
dell’art. 9 della L. 381/1991, dichiarando sin dal suo esordio (art. 1,
comma 1) l’intento di voler favorire l’inserimento lavorativo e
l’integrazione sociale delle persone svantaggiate.
Attualmente la disciplina della materia è contenuta nella legge regionale
26.10.2006, n. 20, che ha innovato ed implementato le precedenti
disposizioni ed ha, pertanto, abrogato la L.R. 7/1992.
L’art. 1, comma 3, della L.R. 20/2006 sancisce che, al fine di sostenere la
cooperazione sociale nel perseguimento dell’interesse generale della
comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini,
l’Amministrazione regionale provvede, tra l’altro, a:
- stabilire interventi per l’incentivazione della cooperazione
sociale;
- individuare i contenuti delle convenzioni-tipo tra le cooperative
sociali e i loro consorzi e le amministrazioni pubbliche che operano
nell’ambito della regione;
- fissare i criteri per la selezione delle cooperative sociali con
cui concludere le convenzioni di cui all’art. 5, comma 1, della L. 381/1991.
Ai sensi dell’art. 1, comma 4, della stessa L.R. 20/2006 la Regione
promuove, sostiene e valorizza in particolare le cooperative sociali dotate
di determinate caratteristiche, quali l’orientamento delle attività a favore
delle persone più bisognose di aiuto e di sostegno, la qualità e l’efficacia
dei processi di inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, la
presenza al proprio interno di persone svantaggiate in misura superiore alla
percentuale minima prevista dall’art. 4, comma 2, della L. 381/1991.
L’art. 10, comma 1, della L.R. 20/2006, determinando le funzioni che
spettano alla Regione in materia di interventi per l’incentivazione della
cooperazione sociale, vi include la concessione agli enti pubblici di
finanziamenti finalizzati a favorire la stipulazione delle convenzioni di
cui all’art. 5, comma 1, della L. 381/1991, mediante la copertura di una
quota del loro valore [8].
Dopo aver richiamato le disposizioni normative più rilevanti in materia di
cooperazione sociale, occorre ora esaminare i tratti peculiari della
disciplina recata dall’art. 5 della L. 381/1991, rispetto ai rapporti che si
instaurano nei differenti contesti della contrattualistica pubblica e della
razionalizzazione/del contenimento della spesa.
Questo Ufficio ha già avuto occasione di rilevare –d’intesa con il Servizio
regionale competente in materia di cooperazione sociale– che «La
convenzione di cui trattasi consiste, perciò, in un accordo, derogatorio
rispetto alle ordinarie procedure della contrattualistica pubblica, tra un
ente pubblico e una cooperativa sociale, il cui oggetto è composto
congiuntamente da una prestazione e dall’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate, nell’esecuzione della prestazione stessa. Anzi, va più
precisamente affermato che la finalità principale della convenzione non è la
fornitura (del bene o) del servizio, ma la creazione di opportunità di
lavoro per persone che vivono una condizione di particolare fragilità e che
risultano, perciò, meno “competitive” rispetto alla gran parte dei soggetti
che prestano la propria attività sul libero mercato»
[9].
Al riguardo, anche la dottrina ha avuto modo di affermare che:
- la ratio della legislazione sul convenzionamento con le
cooperative “di tipo b)” «è quella di tutelare e favorire,
primariamente, l’inserimento nel mondo del lavoro di “persone svantaggiate”
ex art. 4 comma 1 l. 381 cit. e quindi perseguire la “promozione umana e
l’integrazione sociale dei cittadini”» [10];
- «il legislatore, attraverso l’art. 5 della legge 381/1991, “ha
pensato ad una fattispecie complessa nella quale sono contenuti sia uno
specifico contratto (di fornitura di beni o di servizi o affidamento di
lavori) che un comportamento pubblicistico” [11]
correlato al “servizio” di inserimento lavorativo», cosicché «Il rapporto
tra Pubblica Amministrazione e cooperativa sociale di tipo B assume in tal
senso il significato di un rapporto complesso non riconducibile ad un
semplice contratto di fornitura» [12];
- «La scelta dell’ente pubblico di avvalersi della facoltà della
deroga prevista dall’art. 5 è quindi conseguente ad una valutazione di
“convenienza” complessiva, attinente la qualità dei servizi forniti, ma
anche e principalmente i risultati “sociali” (ma anche economici, in termini
di riduzione della spesa sociale) legati all’inserimento lavorativo di
persone svantaggiate» [13];
- «In considerazione delle particolari finalità sociali il
modello convenzionale pubblico è considerato di natura “bivalente”, giacché
presenta un oggetto che prevede sia la fornitura di beni e servizi, che la
creazione di nuove opportunità di lavoro per soggetti svantaggiati
riconducibili ad una delle categorie dell’art. 4 della legge n. 381/1991.
Tale doppia finalità della convenzione deve essere tenuta presente nella
definizione della disciplina applicabile, in quanto interpretazioni o
applicazioni dell’istituto che tendessero a fare prevalere uno qualunque dei
due aspetti sull’altro, finirebbero indubbiamente per distorcere il dettato
normativo e l’intento del legislatore» [14].
È stato, inoltre, osservato che per chiarire la ragione per cui il
legislatore della L. 381/1991 abbia utilizzato il termine convenzione in
luogo di quello di contratto occorre considerare che «La giurisprudenza
ritiene la convenzione come un atto complesso nell’ambito degli accordi tra
la Pubblica amministrazione (in particolare gli enti locali) e privati
imprenditori, che contiene o può contenere uno o più contratti o uno o più
provvedimenti amministrativi. È una sorta d’involucro “contenente tutti gli
elementi di una serie di atti (negoziali e/o provvedimentali) con i quali
l’amministrazione pubblica regola complessivamente con un privato il
soddisfacimento integrale di un proprio interesse pubblico”
[15]»
[16].
In tale ottica, pertanto, «gli enti pubblici possono affidare alle
cooperative sociali la fornitura di alcuni beni e servizi, privilegiando al
contempo l’esigenza di creare opportunità di lavoro, stabilendo vincoli di
reinserimento sociale per categorie svantaggiate da privilegiare rispetto a
criteri del maggior vantaggio economico nell’individuazione del prezzo del
servizio» [17].
In linea di continuità con quanto affermato dall’Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP) con
determinazione 01.08.2012, n. 3 [18],
l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), con delibera 20.01.2016, n. 32
[19], ha ribadito
l’importanza del terzo settore, tanto dal punto di vista sociale quanto
occupazionale, ritenendo che la scelta organizzativa cui sempre più
frequentemente ricorrono le pubbliche amministrazioni presenti il «vantaggio
di promuovere un modello economico socialmente responsabile in grado di
conciliare la crescita economica con il raggiungimento di specifici
obiettivi sociali, quali, ad esempio, l’incremento occupazionale e
l’inclusione e integrazione sociale».
Trattando delle convenzioni di cui all’art. 5 della L. 381/1991 l’ANAC
rileva, in particolare, che «Ciò che occorre sottolineare è che l’oggetto
della convenzione non si esaurisce nella mera fornitura di beni e servizi
strumentali, ma è qualificato dal perseguimento di una peculiare finalità di
carattere sociale, consistente nel reinserimento lavorativo di soggetti
svantaggiati».
Alla luce di quanto sin qui rilevato e considerando che lo stesso
legislatore della L. 381/1991 pone come facoltativo il ricorso al
convenzionamento ivi previsto, si reputa che l’ente possa scegliere se
avvalersi del modulo convenzionale, ovvero se acquisire il servizio
ricorrendo al libero mercato.
Solo nella seconda ipotesi l’ente dovrà sottostare alle regole volte alla
razionalizzazione e al contenimento della spesa pubblica, ivi compreso
l’obbligo di adesione ai contratti quadro stipulati dalla Centrale unica di
committenza della Regione Friuli Venezia Giulia.
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[1] «Nelle cooperative che svolgono le attività di cui all’articolo 1,
comma 1, lettera b), si considerano persone svantaggiate gli invalidi
fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di ospedali psichiatrici,
anche giudiziari, i soggetti in trattamento psichiatrico, i
tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni
di difficoltà familiare, le persone detenute o internate negli istituti
penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative
alla detenzione e al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21 della
legge 26.07.1975, n. 354, e successive modificazioni. Si considerano inoltre
persone svantaggiate i soggetti indicati con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, con il
Ministro dell’interno e con il Ministro per gli affari sociali, sentita la
commissione centrale per le cooperative istituita dall’articolo 18 del
citato decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14.12.1947, n.
1577, e successive modificazioni.».
[2] Il servizio di pulizia ricade nell’ambito delle categorie merceologiche
individuate dall’art. 1, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri 11.07.2018, in attuazione delle previsioni contenute nell’art.
9, comma 3, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89.
[3] «Fatte salve le disposizioni vigenti in materia di cooperative sociali e
di imprese sociali, le stazioni appaltanti possono riservare il diritto di
partecipazione alle procedure di appalto e a quelle di concessione o possono
riservarne l’esecuzione ad operatori economici e a cooperative sociali e
loro consorzi il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e
professionale delle persone con disabilità o svantaggiate o possono
riservarne l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando
almeno il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia
composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.».
[4] «Le cooperative sociali e i loro consorzi sono disciplinati dalla legge
08.11.1991, n. 381».
[5] Che, ai sensi del comma 2 della stessa disposizione, devono risultare
iscritte al relativo albo regionale.
[6] Si tratta dell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 5 in esame, aggiunto
dall’art. 1, comma 610, della legge 23.12.2014, n. 190.
[7] Una simile previsione era già stata adottata dal legislatore di questa
Regione, dapprima con l’art. 10, comma 2, della L.R. 7/1992 e poi con il
vigente art. 24, comma 1, della L.R. 20/2006.
[8] V. anche il Titolo VI (artt. 26-30) del decreto del Presidente della
Regione 30.08.2017, n. 0198/Pres.
[9] Parere 27.07.2010, prot. n. 12478.
[10] Russo F., Gli affidamenti in convenzione alle cooperative sociali di
tipo B inferiori alla soglia comunitaria e il principio di rotazione, in
www.diritto24.ilsole24ore.com, 13.03.2018.
[11] L’inciso è attribuito a Mele E., Convenzioni degli enti pubblici con le
cooperative sociali, in Impresa Sociale n. 5/1992 ed Evoluzioni e
prospettive del convenzionamento ad un anno dalla l. n. 381/1991, in Impresa
Sociale n. 9/1993.
[12] Zulian G. (a cura di), L’affidamento pubblico a cooperative sociali di
tipo B. Norme nazionali e regionali, Comunità Edizioni, 2006.
[13] V. nota n. 12.
[14] Policari A., Codice Appalti, Cooperative Sociali: come cambiano le
procedure d’appalto?, in www.leggioggi.it, 12.05.2016.
[15] V. nota n. 11.
[16] Rozzo P. – Celletti W. Guida agli acquisti sociali negli appalti
pubblici, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma,
2013.
[17] V. nota n. 16.
[18] «Linee guida per gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi
dell’art. 5, comma 1, della legge n. 381/1991».
[19] «Determinazione Linee guida per l’affidamento di servizi a enti del
terzo settore e alle cooperative sociali» (21.10.2019 - link a
http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: rispetto delle distanze tra fabbricati siti nel medesimo lotto
ed appartenenti ad unico proprietario – fabbricato parzialmente interrato a
destinazione accessoria- fabbricati privi di finestre e/o vedute - parere
(Legali Associati per Celva,
nota 04.07.2019 -
tratto da www.celva.it).
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Il Comune di Valtournenche ha sottoposto, per il tramite del CELVA, la
seguente questione, inerente l’individuazione della distanza da rispettare
tra due fabbricati appartenenti allo stesso proprietario.
Nel dettaglio, viene specificato che si intende realizzare un fabbricato
seminterrato, costituito da tre lati interrati ed un lato libero destinato
ad autorimessa fronteggiante sul lato libero con un basso fabbricato
completamente fuori terra a destinazione accessoria (centralina
idroelettrica). (...continua). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Convenzioni
accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia e
scomputo del costo di costruzione.
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Edilizia – Oneri di costruzione – Scomputo - Convenzioni accessive a
provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia – esclusione.
Le convenzioni accessive a provvedimenti
amministrativi ampliativi in materia edilizia possono consentire lo scomputo
degli oneri di urbanizzazione, ma non anche del costo di costruzione (1).
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(1) Osserva la Sezione che l’istituto della datio in solutum
consiste nell’accordo negoziale fra creditore e debitore circa
l’effettuazione, con effetto estintivo dell’obbligazione, di una prestazione
diversa da quella originariamente dedotta in contratto: come tale,
l’istituto è espressione della disponibilità del diritto (e del sovrastante
rapporto obbligatorio) di cui, viceversa, l’Amministrazione impositrice, per
le ragioni sopra enucleate, difetta ex lege ab origine.
Di converso, la locuzione “con le modalità e le garanzie stabilite dal
Comune” contenuta nell’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 non
dimostra né sottende un’implicita autorizzazione legislativa a convenire
pattiziamente forme solutorie alternative a quella monetaria.
In disparte il rilievo che un’eccezione di tale portata richiederebbe una
disciplina espressa ed esplicita, è sufficiente considerare che tale
locuzione va letta nell’ambito della generale disciplina apprestata dal
comma in discorso, afferente alla realizzazione diretta, da parte del
privato, delle opere di urbanizzazione: ne consegue che le “modalità”
in questione sono solo quelle strettamente afferenti alla concreta
esecuzione delle opere de quibus (tempistica, modalità costruttive,
qualità dei materiali, et similia).
Peraltro, l’ammissione della negoziabilità delle modalità solutorie delle
obbligazioni tributarie (o, comunque, disciplinate dal diritto pubblico)
cozzerebbe frontalmente con i principi costitutivi su cui si regge il
vigente sistema di contabilità pubblica, fondato sulla generale e rigida
indisponibilità anche per l’Amministrazione, salve specifiche e puntuali
disposizioni legislative, di tutta la disciplina del tributo (o, comunque,
della prestazione patrimoniale imposta) per come delineata dalla legge.
La Sezione esclude anche la possibilità di richiamare l’istituto della
compensazione.
La compensazione è un istituto ontologicamente diverso dall’anelata facoltà
di scomputo cui il presente giudizio inerisce.
Invero, la compensazione (che, peraltro, nel settore tributario opera solo
in base ad espressa previsione normativa – cfr. art. 8, comma 6, l. n. 212
del 2000) valorizza a fini estintivi dell’obbligazione la compresenza, in
capo all’Amministrazione ed al contribuente, di individuate ragioni
contrapposte di credito/debito, laddove lo scomputo del costo di costruzione
derogherebbe, senza alcuna base legislativa, all’ordinaria regula juris
di natura pubblicistica per cui il pagamento dei tributi (e, più in
generale, delle prestazioni di diritto pubblico) si fa in moneta
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.12.2019 n. 8919 -
commento tratto ad e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con ricorso avanti il Tar per la Lombardia – Sede di Milano la società
Al. s.p.a. ha chiesto l’accertamento:
- del proprio diritto allo scomputo (anche) del costo di
costruzione relativo alla realizzazione di una multisala cinematografica,
assentita dal Comune di Milano con il p.d.c. n. 85 dell’11.05.2006,
rilasciato anche sulla scorta della previa convenzione integrativa stipulata
inter partes in forma pubblica in data 12.04.2006;
- dell’insussistenza del credito vantato dal Comune a titolo di
conguaglio per monetizzazione e contributo smaltimento rifiuti, con
conseguente diritto alla ripetizione di quanto già versato a tali fini.
Il Comune di Milano si è costituito in resistenza, formulando sia eccezioni
in rito (assunta inammissibilità del ricorso per tardiva instaurazione del
giudizio), sia difese in merito (infondatezza delle pretese svolte ex
adverso).
2. Con la
sentenza 18.06.2018 n. 1525 il Tribunale - Sez. II, previa
reiezione dell’eccezione di rito sollevata dal Comune, ha, nel merito,
accolto integralmente il ricorso.
3. Il Comune ha interposto appello con riferimento alla sola questione
relativa allo scomputo del costo di costruzione.
...
L’oggetto del presente giudizio, pertanto, si riduce alla sola questione
della possibilità di ammettere lo scomputo anche del costo di costruzione (cfr.,
del resto, la memoria del Comune depositata in data 07.11.2019, pag. 3).
5. Quanto, appunto, a tale questione, il Collegio premette che la
convenzione accessiva al p.d.c. n. 85 stabilisce che Al. possa realizzare
opere di urbanizzazione a scomputo dei soli oneri di urbanizzazione, ma,
poi, individua l’importo scomputabile nella somma di oneri di urbanizzazione
e costo di costruzione: secondo la ricorrente in prime cure (cui si è
conformato il Tribunale) dovrebbe darsi prevalenza al dato numerico, secondo
il Comune, invece, rileverebbe il dato terminologico, tanto più che
l’importo dovuto a titolo di “contributo di costruzione” sarebbe
sempre modificabile dall’Amministrazione (l’Ente cita, in proposito, la
sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio 30.08.2018, n. 12).
Ove, poi, si interpreti la convenzione come anelato da Al., sorge
l’ulteriore, conseguente problematica della possibilità giuridica che
convenzioni accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia
edilizia possano consentire lo scomputo non solo degli oneri di
urbanizzazione, ma anche del costo di costruzione.
Anche su tale questione il Tribunale ha dato una risposta positiva, sia
perché l’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001, nel prevedere la
possibilità dello scomputo degli oneri di urbanizzazione, non vieterebbe
espressamente lo scomputo anche del costo di costruzione, sia perché la
natura tributaria propria del costo di costruzione atterrebbe all’an
ed al quantum, ma non al quomodo, sì che ben potrebbe il
Comune ottenere il pagamento in forma diversa da quella monetaria.
Secondo il Comune appellante, viceversa, da un lato la disposizione
dell’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 avrebbe natura speciale (recte,
eccezionale) rispetto al generale obbligo di corresponsione monetaria del “contributo
di costruzione” e sarebbe, pertanto, da interpretarsi restrittivamente,
dall’altro la natura tributaria del costo di costruzione (che, non essendo “immediatamente
correlato alla realizzazione di opere di urbanizzazione”, differirebbe
nettamente dagli oneri di urbanizzazione) escluderebbe comunque ex se
ogni possibilità per il Comune di esigere il pagamento in forma diversa da
quella prescritta dalla legge (ossia in forma monetaria), pena lo
stravolgimento delle norme di contabilità pubblica.
6. La prospettazione defensionale svolta dall’appellante Comune è fondata,
ai sensi delle considerazioni che seguono.
6.1. E’ necessario prendere le mosse dalla disciplina legislativa dettata
in subiecta materia.
L’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 stabilisce che “La quota di
contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune
all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta
dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della
quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell’articolo 2, comma
5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le
modalità e le garanzie stabilite dal Comune, con conseguente acquisizione
delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del Comune”.
La disposizione, dunque, non menziona il costo di costruzione, ma si
riferisce ai soli oneri di urbanizzazione (analogamente dispone l’art. 45
della l.r. lombarda n. 12 del 2005).
E’ vero che, di converso, la disposizione non vieta espressamente lo
scomputo anche del costo di costruzione: ciò, tuttavia, non assume un
rilievo decisivo.
Anzitutto, allorché il legislatore detta una disciplina per una specifica
fattispecie, ciò conduce implicitamente ad escluderne l’applicazione anche
ad altre e diverse ipotesi non menzionate (è noto il brocardo secondo cui
ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
Pur a voler prescindere da tale considerazione, il Collegio osserva che la
disposizione in esame ha natura derogatoria rispetto a quanto previsto dal
comma che precede, ove è stabilito che “il rilascio del permesso di
costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato
all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
L’espressione “corresponsione” rimanda, con ogni evidenza, ad una
dimensione monetaria del pagamento, che, del resto, costituisce l’ordinaria
forma di riscossione delle entrate dello Stato e degli Enti pubblici (cfr.
articoli 225 e 230 r.d. n. 827 del 1924).
La disposizione in commento delinea, in sostanza, un’eccezione alla
regula juris generale per cui i debiti tributari o, comunque, regolati
da norme di diritto pubblico si estinguono con un pagamento in moneta: in
ragione di tale natura eccezionale, la disposizione non è applicabile oltre
i casi ed i tempi in essa previsti (cfr. art. 14 preleggi), giacché non
riflette né veicola un principio generale, ma, al contrario, vi deroga.
6.2. In una più ampia considerazione sistematica, invero, il Collegio
osserva che il “contributo” di cui all’art. 16, comma 1, d.p.r. n.
380 del 2001, ivi inclusa la parte commisurata al costo di costruzione, ha
natura di corrispettivo di diritto pubblico e configura una prestazione
patrimoniale imposta (cfr. la richiamata sentenza dell’Adunanza Plenaria di
questo Consiglio n. 12 del 30.08.2018).
Ora, i crediti di diritto pubblico sono indisponibili per l’Ente impositore
non solo in ordine all’an ed al quantum (ossia alla fase
genetica), ma anche in ordine al quomodo (ossia alla fase esecutiva
o, che dir si voglia, solutoria).
L’Amministrazione, altrimenti detto, non può, in assenza di una specifica e
puntuale previsione legislativa, accordarsi con il contribuente (o,
comunque, con il debitore di una prestazione di diritto pubblico) circa una
modalità di soluzione diversa dall’adempimento monetario.
Per quanto qui di interesse, dunque, de jure condito il Comune non
può convenire una datio in solutum con il soggetto tenuto a
corrispondere il contributo di costruzione.
Invero, l’istituto della datio in solutum consiste nell’accordo
negoziale fra creditore e debitore circa l’effettuazione, con effetto
estintivo dell’obbligazione, di una prestazione diversa da quella
originariamente dedotta in contratto: come tale, l’istituto è espressione
della disponibilità del diritto (e del sovrastante rapporto obbligatorio) di
cui, viceversa, l’Amministrazione impositrice, per le ragioni sopra
enucleate, difetta ex lege ab origine.
6.3. Di converso, la locuzione “con le modalità e le garanzie stabilite
dal Comune” contenuta nell’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 non
dimostra né sottende un’implicita autorizzazione legislativa a convenire
pattiziamente forme solutorie alternative a quella monetaria.
In disparte il rilievo che un’eccezione di tale portata richiederebbe una
disciplina espressa ed esplicita, è sufficiente considerare che tale
locuzione va letta nell’ambito della generale disciplina apprestata dal
comma in discorso, afferente alla realizzazione diretta, da parte del
privato, delle opere di urbanizzazione: ne consegue che le “modalità”
in questione sono solo quelle strettamente afferenti alla concreta
esecuzione delle opere de quibus (tempistica, modalità costruttive,
qualità dei materiali, et similia).
6.4. Peraltro, osserva in termini ancora più generali il Collegio,
l’ammissione della negoziabilità delle modalità solutorie delle obbligazioni
tributarie (o, comunque, disciplinate dal diritto pubblico) cozzerebbe
frontalmente con i principi costitutivi su cui si regge il vigente sistema
di contabilità pubblica, fondato sulla generale e rigida indisponibilità
anche per l’Amministrazione, salve specifiche e puntuali disposizioni
legislative, di tutta la disciplina del tributo (o, comunque, della
prestazione patrimoniale imposta) per come delineata dalla legge.
6.5. A chiusura sul punto, il Collegio rileva che è inconferente il richiamo
operato da Al. all’istituto della compensazione, “cui”, ad avviso
dell’appellata società, “lo scomputo risulta latamente riconducibile”.
In realtà, osserva il Collegio, la compensazione è un istituto
ontologicamente diverso dall’anelata facoltà di scomputo cui il presente
giudizio inerisce.
Invero, la compensazione (che, peraltro, nel settore tributario opera solo
in base ad espressa previsione normativa – cfr. art. 8, comma 6, l. n. 212
del 2000) valorizza a fini estintivi dell’obbligazione la compresenza, in
capo all’Amministrazione ed al contribuente, di individuate ragioni
contrapposte di credito/debito, laddove lo scomputo del costo di costruzione
derogherebbe, senza alcuna base legislativa, all’ordinaria regula juris
di natura pubblicistica per cui il pagamento dei tributi (e, più in
generale, delle prestazioni di diritto pubblico) si fa in moneta.
7. Le considerazioni che precedono conducono alla corretta interpretazione
da riconoscere alla convenzione accessiva al titolo edilizio: ai sensi
dell’art. 1367 c.c., infatti, in situazioni di dubbio esegetico i contratti
(e, quindi, anche gli accordi di diritto pubblico – cfr. art. 11 l. n. 241
del 1990) devono essere interpretati in modo tale da preservarne la
validità.
Nella specie, l’unica esegesi compatibile con la validità della convenzione
è quella che ascrive rilievo determinante alla lettera della stessa (che
limita lo scomputo ai soli oneri di urbanizzazione), ritenendo, viceversa,
recessivo (e, comunque, non significativo) il difforme dato numerico.
8. Incidentalmente, il Collegio rileva che, sia pure in altra materia,
questo Consiglio ha sancito la prevalenza del valore espresso in lettere
rispetto a quello espresso in cifre (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen.,
10.11.2015, n. 10).
In una più ampia visione di sistema, peraltro, l’ordinamento –in caso di
discordanze– assegna prevalenza alla lettera rispetto al dato numerico sia
nella disciplina dell’assegno bancario (cfr. r.d. n. 1736 del 1933, art. 9),
sia in quella della cambiale (r.d. n. 1669 del 1933, art. 6).
Oltretutto, le norme generali della contabilità pubblica (art. 72 r.d. n.
827 del 1924) stabiliscono che “quando, in un’offerta all’asta, vi sia
discordanza fra il prezzo indicato in lettere e quello indicato in cifre, è
valida l’indicazione più vantaggiosa per l’Amministrazione”: da tale
disposizione può trarsi un principio di tendenziale favor esegetico, in
ipotesi dubbie, per le ragioni erariali (e, più in generale, per le ragioni
delle finanze pubbliche).
9. L’individuazione del corretto significato da attribuire alla convenzione
rende, conseguentemente, ab origine inconferente e, comunque, priva
di pregio la difesa da ultimo svolta da Al., secondo cui la contestazione,
da parte del Comune, dell’interpretazione della convenzione come ammissiva
dello scomputo anche del costo di costruzione avrebbe imposto, a pena di
inammissibilità della censura d’appello, il previo annullamento in
autotutela del titolo edilizio e della connessa convenzione.
10. Per le esposte ragioni, pertanto, il ricorso in appello va accolto: in
parziale riforma della sentenza impugnata, dunque, deve rigettarsi il
ricorso di primo grado nella parte in cui si chiede l’accertamento del
diritto di fruire dello scomputo del costo di costruzione. |
APPALTI: Effetti
sul contratto in caso di annullamento dell’aggiudicazione e ripetizione
della gara.
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● Processo amministrativo - Rito appalti – Annullamento dell’aggiudicazione
– Sorte del contratto - Individuazione.
● Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Offerta –
Omessa indicazione separata degli oneri della sicurezza – Condizione.
●
Ai sensi dell’art. 122 c.p.a. , il giudice può
regolare gli effetti dell’inefficacia del contratto, salvo che
dall’annullamento dell’aggiudicazione derivi la ripetizione della gara; tale
disposizione va però coordinata con l’art. 34 c.p.a., che consente di
adottare le misure necessarie a tutelare le situazioni giuridiche dedotte in
giudizio e che, attesa la sua valenza generale ed atipica, si applica anche
al rito appalti, risolvendosi essa in uno strumento di effettività di tutela
che si affianca armonicamente alla statuizione prevista dall’art. 122 (e
che, a ben vedere, ne integra una ipotesi applicativa tipica) la cui natura
costitutiva ne risulta così ampliata (1).
● Il ricorso al soccorso istruttorio è ammesso se la mancata indicazione
separata nell’offerta degli oneri della sicurezza dipende dalla erronea
qualificazione, nella lex specialis, della natura dell’appalto da parte
della stazione appaltante, che induca ragionevolmente la concorrente a
confidare nella natura solo o prevalentemente intellettuale del servizio
(2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che la fondatezza di entrambi i gravami,
principale e incidentale, comporta l'annullamento dell'aggiudicazione, ma
con l'importante differenza che l'accoglimento del ricorso imponeva la
riedizione della gara ai fini del soccorso istruttorio; mentre, la
fondatezza del ricorso incidentale comportava l'esclusione della ricorrente
principale dalla gara.
Si è così determinato un assetto di interessi nel quale la riedizione del
procedimento derivava dall'annullamento dell'aggiudicazione nel solo
interesse dell'Amministrazione e della controinteressata, unica concorrente
rimasta in gara e già titolare del relativo contratto di appalto, che medio tempore era stato stipulato.
Secondo i consueti principi validi per la giurisprudenza nazionale prima
della richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE, 05.09.2019,
tale condizione non si sarebbe verificata, in quanto il ricorso avrebbe
dovuto essere dichiarato inammissibile per carenza d'interesse -risultando
la ricorrente da escludersi dalla gara- con conseguenza conferma
dell'aggiudicazione impugnata ed intangibilità del contratto di appalto.
A seguito del superamento dell'effetto escludente del ricorso incidentale,
invece, l'annullamento dell'aggiudicazione comportava comunque la
dichiarazione di inefficacia del contratto, con rischio di perdita -nelle
more della riedizione del procedimento- dei finanziamenti e di compromissione degli scopi dell'iniziativa pubblica alla quale l'appalto era
preordinato.
A tale proposito, la disciplina in tema di inefficacia del contratto di cui
all'art. 122 c.p.a. nella parte in cui esclude la possibilità di regolare la
decorrenza dell'inefficacia del contratto per il caso in cui
dall'annullamento dell'aggiudicazione consegua la riedizione del
procedimento, è stata evidentemente ritenuta insufficiente dal giudice
amministrativo in quanto la norma appare pensata per un contesto processuale
nel quale la ripetizione della gara interviene in favore della ricorrente, e
non, come nel caso di specie, della sola controinteressata ricorrente
incidentale.
Il Tar ha dunque ritenuto di modulare l'applicazione dell'art. 122 c.p.a. -che consente al giudice di regolare la decorrenza della dichiarazione di
inefficacia del contratto a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione-
integrandone la fattispecie normativa con la previsione generale di cui
all'art. 34 c.p.a., così da consentire il coordinamento della decorrenza
dell'inefficacia dal contratto con l'esito della ripetizione della gara e
farne salvi gli effetti nelle more.
Si tratta di una soluzione evidentemente rivolta ad assicurare il ripristino
della legalità violata, coniugandola con le esigenze pubbliche di celerità
ed efficienza nell'aggiudicazione degli appalti e con la connessa esigenza
di tutela delle ragioni dell'economia.
La sentenza in commento rappresenta, così, un caso particolare, degno di
nota, in quanto, da un lato, è relativa ad una fattispecie nella quale si
denota la criticità dell'assetto processuale derivante dal superamento
dell'effetto processuale tipico del ricorso incidentale "escludente"; ma
dall'altro evidenzia altresì la duttilità dello strumento processuale
offerto dall'art. 34 c.p.a., il cui ragionevole utilizzo, da parte del
giudice amministrativo, si presta a prevenire contrasti tra legalità ed
efficienza, coniugandoli adeguatamente nel caso concreto.
(2) La Sezione ha riconosciuto che la lex specialis non prevedeva
in alcun modo l'obbligo di indicare i costi di sicurezza e che dubbia era da
ritenersi la stessa qualificazione dell'appalto in termini di servizi a
natura intellettuale (che come tali non richiedono l'indicazione separata
dei costi della sicurezza), con la conseguenza che ha ritenuto
giustificabile l'omissione della concorrente ed applicabile il soccorso
istruttorio, in forza, ancora una volta, dei principi eurounitari e della
giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte giustizia UE, sez. IX , 02.05.2019, n. 309)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 24.12.2019 n. 14851 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Volontà
espressa e non silenzio-assenso per il perfezionamento dell’aggiudicazione.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Soccorso istruttorio – Offerta -
Sottoscrizione - Mancanza di una delle sottoscrizioni dell’offerta –
Sussiste.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Aggiudicazione – Silenzio della
stazione appaltante - Conseguenza – Individuazione.
●
Ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, il difetto parziale
di sottoscrizione deve considerarsi suscettibile di sanatoria mediante
soccorso istruttorio e, come tale, non costituisce causa di immediata
esclusione del concorrente interessato; la vicenda, infatti, non integra
alcune delle ipotesi in cui il soccorso istruttorio è vietato dalla legge e,
in particolare, non quella dei “vizi dell’offerta”, essendo la stessa
compiutamente formulata e sottoscritta da uno degli amministratori della
società, il che è sufficiente a comprovarne la riconducibilità a quest’ultima.
●
Ai sensi del comma 1 dell’art. 33, d.lgs. n. 50 del 2016,
l’inutile decorso del termine di trenta giorni refluisce sulla formazione
del silenzio-assenso sull’approvazione della proposta di aggiudicazione, ma
non sul perfezionamento dell’aggiudicazione, per la quale occorre una
manifestazione di volontà espressa della pubblica amministrazione, mediante
un provvedimento espresso.
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(1) Ha chiarito il Tar che con il principio di invarianza della
soglia di anomalia, di cui all’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
la legge intende evitare che, in un tal caso, la stazione appaltante debba
retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia
delle offerte, cioè della soglia minima di utile al di sotto della quale
l’offerta si presume senz’altro anomala
La cristallizzazione della soglia consegue alla sola adozione del
provvedimento di aggiudicazione definitiva, prima restando integro il potere
della stazione appaltante di rivederla, pur dopo la fase di ammissione degli
operatori economici. Lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, d.lgs.
18.04.2016, n. 50. non si può applicare nel caso in cui il concorrente abbia
tempestivamente impugnato l’atto di ammissione, nelle forme e nei termini di
cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a..
Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di intervento in
autotutela a procedura ancora aperta, da parte dell’amministrazione, e di
esclusione dei concorrenti in qualunque momento della gara (art. 80, comma
6, d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un irrigidimento non conforme ai
principî costituzionali ed europei, prima ancora che alle disposizioni del
codice, determinando una cristallizzazione della soglia insensibile a
qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso di gara persino dalla stessa
stazione appaltante.
I detti principi vanno mantenuti adesso che la nuova normativa c.d. “sblocca
cantieri”, ha abrogato i commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a., posto
che nel caso di specie è intervenuto comunque un contenzioso procedimentale
proprio in merito alla legittimità o meno di un’esclusione incidente sulla
determinazione della soglia di anomalia.
In altri termini, la cristallizzazione non è intervenuta proprio per effetto
di tale contenzioso procedimentale, anteriore alla definitiva aggiudicazione
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.12.2019 n. 3075 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
In disparte gli elementi probatori offerti da quest’ultima, è da ritenere
che (cfr. TAR Cagliari, 22.01.2019 n. 34) appare dirimente il fatto che
–alla stregua dei principi caratterizzanti il procedimento amministrativo di
selezione pubblica– il difetto parziale di sottoscrizione
deve considerarsi suscettibile di sanatoria mediante soccorso istruttorio e,
come tale, non costituisce causa di immediata esclusione del concorrente
interessato.
Giova, al riguardo, richiamare innanzitutto il tenore testuale dell’art. 83,
comma 9, del d.lgs. n. 50/2016, a mente del quale “Le carenze di
qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la
procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare,
in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale
degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all’articolo 85,
con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica e all’offerta
tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non
superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le
dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le
devono rendere. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione,
il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali
non sanabili le carenze della documentazione che non consentono
l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stesse”.
Orbene la vicenda non integra alcune delle ipotesi in cui il soccorso
istruttorio è vietato dalla legge, in particolare:
– non quella dei “vizi dell’offerta”, essendo la stessa
compiutamente formulata e sottoscritta da uno degli amministratori della
società, il che è sufficiente a comprovarne la riconducibilità a quest’ultima;
– non l’ipotesi di vizi inficianti “l’individuazione del
soggetto responsabile”, per la stessa ragione.
A conferma si pone l’orientamento giurisprudenziale -che negli ultimi anni
si è pienamente consolidato e dal quale non vi sono ragioni per discostarsi-
secondo cui l’offerta recante la sottoscrizione di uno solo
degli amministratori deve essere correttamente inquadrata -non già tra le
ipotesi di omessa sottoscrizione in senso proprio, bensì- nella meno grave
fattispecie di “non corretta spendita del potere rappresentativo”, la
quale “opera sul piano della efficacia e non su quello della validità”
(così Consiglio di Stato, sez. III, 05.03.2018 n. 1338); a
ciò consegue, proprio perché si è in presenza di mera incompletezza della
sottoscrizione, che la stessa “non preclude la riconoscibilità della
provenienza dell’offerta e non comporta un’incertezza assoluta sulla stessa
(…), il che induce a ritenere il vizio sanabile mediante il soccorso
istruttorio e non idoneo a cagionare l’immediata ed automatica estromissione
dalla procedura selettiva”
(così TAR Firenze, 31.03.2017 n. 496).
...
Le questioni agitate da parte ricorrente
sono riconducibili, per un verso, alla legittimità di una procedura a
istanza della parte esclusa, volta al riesame della sua corretta esclusione
da una selezione pubblica, in assenza di uno specifico interesse, poiché
dalla sua riammissione, comunque, non potrebbe sortire l’aggiudicazione in
suo favore.
Tale richiesta, quindi, priva di interesse “proprio”, sarebbe
meramente strumentale alla revoca della medesima aggiudicazione provvisoria
già intervenuta in favore della ricorrente, per effetto del ricalcolo della
soglia di anomalia delle offerte, ormai non più praticabile, ai sensi
dell’art. 95, comma 15, del codice dei contratti.
Il Collegio osserva preliminarmente che, come sarà chiarito,
il discrimine per un intervento in autotutela va individuato
nell’aggiudicazione definitiva, momento nel quale si cristallizza comunque
la valutazione dell’offerta.
Ciò premesso, va preliminarmente chiarito se la stessa si sia formata per
silenzio-assenso, posto che tra la comunicazione della proposta di
aggiudicazione e l’aggiudicazione definitiva è trascorso un termine
superiore a trenta giorni, senza alcuna “interruzione” della
procedura per motivi istruttori indirizzata alla destinataria, attuale
ricorrente, della detta proposta.
Il comma 1 dell’art. 33 del Decreto legislativo del 18/04/2016, n. 50,
stabilisce che <1. La proposta di aggiudicazione è soggetta ad
approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione
appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti, decorrenti dal
ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell'organo
competente. In mancanza, il termine è pari a trenta giorni. Il termine è
interrotto dalla richiesta di chiarimenti o documenti e inizia nuovamente a
decorrere da quando i chiarimenti o documenti pervengono all'organo
richiedente. Decorsi tali termini, la proposta di aggiudicazione si intende
approvata>.
Condivide il Collegio la giurisprudenza (cfr. TAR Bari, sez. III,
30/08/2018, n. 1205), secondo la quale già prima
dell'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, la giurisprudenza
aveva ricondotto all'inutile decorso del termine la formazione del silenzio
assenso sull'approvazione dell'aggiudicazione provvisoria (12 del D.lgs.
12.04.2006 n. 163, Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi
e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce), ma non
il perfezionamento dell'aggiudicazione definitiva, per la quale si è sempre
puntualizzato che occorre una manifestazione di volontà espressa della
pubblica amministrazione.
In proposito, consolidato è il principio per cui la
stazione appaltante, pur a fronte dell'approvazione dell'aggiudicazione
provvisoria, conserva comunque il potere discrezionale di procedere o meno
all'aggiudicazione definitiva (ex
multis, TAR Umbria n. 172 del 16.06.2011, TAR Lazio, Sez. I, 28.02.2011,
n. 1809).
L'aggiudicazione provvisoria, infatti, è stata
pacificamente ritenuta quale atto di natura endoprocedimentale, ad effetti
instabili ed interinali, soggetta, ai sensi dell'art. 12 D.lgs. 12.04.2006,
n. 163, all'approvazione dell'organo competente, che non può dubitarsi
essere la stazione appaltante (cfr.,
Cons. Stat, sez. VI, 13/06/2013, n. 3310).
Tale impostazione, fatta propria dalla giurisprudenza nel vigore del vecchio
codice degli appalti, è stata ribadita anche con il nuovo codice dei
contratti pubblici di cui al D.lgs. n. 50/2016 con una disciplina
sostanzialmente simile: l'art. 32, comma 5, prevede che la "stazione
appaltante, previa verifica della proposta di aggiudicazione ai sensi
dell'articolo 33, comma 1, provvede all'aggiudicazione", a cui segue la
previsione di cui all'art. 33, comma 1, sopra richiamata.
La disposizione dimostra che ciò che si forma tacitamente è l'approvazione
della proposta di aggiudicazione, non anche l'aggiudicazione.
Come affermato in una recente pronuncia condivisa dal Collegio "L'art.
33, co. 1, si riferisce solo all'approvazione dell'aggiudicazione
provvisoria, non anche alla formazione (tacita) dell'aggiudicazione
definitiva, che, invece, trova la sua disciplina nell'art. 32, co. 5; norma
che dimostra la necessità che l'aggiudicazione, per i complessi interessi
sottesi e le esigenze che intende soddisfare, non può che rivestire le forme
del provvedimento espresso" (Cfr.
TAR Campania, Salerno, sez. I, sent. n. 1153 del 12.07.2017).
Dal tenore del testo normativo emerge che dalla mera
inerzia della stazione appaltante non può desumersi il perfezionamento
dell'aggiudicazione che richiede comunque una manifestazione di volontà
espressa dell'Amministrazione, ossia un provvedimento, a conclusione
dell'esercizio dei poteri generali di controllo spettanti alla stazione
appaltante.
La "proposta di aggiudicazione" si qualifica come
atto infraprocedimentale, privo della forza di poter ledere le posizioni
giuridiche dei concorrenti e come tale, ritenuto pacificamente non
autonomamente impugnabile (Cfr.
TAR Campania, Salerno, sent. n. 1153/2017, cit.).
Quella che era "aggiudicazione definitiva" è
divenuta tout court "aggiudicazione", atto, invece, da cui può
discendere la lesione degli interessi legittimi delle ditte partecipanti
alla gara.
Occorre rimarcare ancora che, in ogni caso, sia la proposta
di aggiudicazione, che l'aggiudicazione non producono l'effetto di far
insorgere il rapporto obbligatorio tra ente appaltante ed operatore
economico, bensì solo di concludere formalmente la procedura di gara con
l'individuazione del miglior offerente. Il rapporto obbligatorio tra
amministrazione appaltante ed appaltatore nasce solo ed esclusivamente a
seguito della stipulazione del contratto.
Quindi, il silenzio-assenso non definisce l’aggiudicazione
definitiva, essendo necessario un provvedimento espresso, che, sia pure con
criticità e con tempi che avrebbero potuto essere più brevi, è stato emanato
in tempi ragionevoli, tenuto conto che si è proceduto a una fase
istruttoria, che l’Amministrazione avrebbe meglio condotto se avesse
informato la destinataria, attuale ricorrente, della proposta di
aggiudicazione.
In riferimento alla dedotta “stranezza” della provocazione di una
procedura da parte della partecipante esclusa, non destinataria di un
concreto interesse all’aggiudicazione, il Collegio ritiene che, in disparte
l’asserita possibilità di incameramento della cauzione, la circostanza più
rilevante consista nella possibilità di ristabilire (l’interesse per) una
aggiudicazione comunque legittima e sostanzialmente corretta, quale è quella
conseguente alla riammissione di una partecipante illegittimamente esclusa.
In altre parole, tra due principi contrastanti, non può ritenersi recessivo,
rispetto alla immediata stabilizzazione degli effetti ai fini “acceleratori”,
quello alla conclusione di una procedura, con la coerente eventuale
rideterminazione della soglia di anomalia, per effetto della riammissione di
un’offerta di una partecipante, come nel caso di specie, illegittimamente
esclusa.
Se così è, tutta la questione si risolve nella individuazione della
cristallizzazione dell’offerta, in considerazione di quanto previsto dal
comma 15 dell’art. 95 del D.lgs.vo 50/2016.
La norma, in effetti (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 22/01/2019, n. 572),
prevede (che): "Ogni variazione che intervenga anche in
conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini
del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia
di anomalia delle offerte".
La disposizione presenta contenuto analogo all'art. 38, comma 2-bis, d.lgs.
16.04.2006, n. 163 inserita dall'art. 39 del d.l. 24.06.2014 n. 90,
convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114, ed ha la funzione di assicurare
stabilità agli esiti finali della procedura di gara.
La fattispecie definita dalla norma si verifica quando successivamente al
superamento della fase di aggiudicazione del contratto, ovvero anche prima
ove si intenda seguire l'orientamento estensivo che si va qui a ricordare,
la stazione appaltante proceda all'esclusione dell'aggiudicatario (o di
altro concorrente) per mancata dimostrazione dei requisiti dichiarati.
Con il principio di invarianza della soglia di anomalia, la
legge intende evitare che, in un tal caso, la stazione appaltante debba
retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia
delle offerte, cioè della soglia minima di utile al di sotto della quale
l'offerta si presume senz'altro anomala
(cfr. Cons. Stato, III, 12.07.2018, n. 4286; III, 27.04.2018, n. 2579),
con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi
della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche.
5.6. La disposizione è oggetto di interpretazioni divergenti circa il
momento dal quale opera il principio di invarianza della soglia di anomalia.
Secondo un primo e restrittivo orientamento, la cristallizzazione
della soglia conseguirebbe alla sola adozione del provvedimento di
aggiudicazione definitiva, prima restando integro il potere della stazione
appaltante di rivederla, pur dopo la fase di ammissione degli operatori
economici (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giuris., 11.01.2017, n. 14;
22.12.2015, n. 740; Cons. Stato, V, 16.03.2016, n. 1052;); per altro
orientamento, invece, considerato il carattere generale del principio, l'invarianza
dovrebbe seguire già alla proposta di aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, V,
23.02. 2017, n. 847).
Il giudice di seconde cure (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 27.04.2018 n.
2579) ha rilevato che "lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (principio della c.d. invarianza della soglia) non si può
applicare nel caso in cui il concorrente abbia tempestivamente impugnato
l’atto di ammissione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 120, comma
2-bis, c.p.a., in assenza, al momento, di qualsivoglia “cristallizzazione”
della soglia per effetto di una graduatoria formata sulla base di ammissioni
o esclusioni divenute inoppugnabili e immodificabili –per il rapidissimo
susseguirsi degli atti di gara– e, anzi, in pendenza di un subprocedimento
per la verifica dell’anomalia dell’offerta risultata prima graduata ancora
aperto".
Il coordinamento dell’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (che ha
recepito l’analoga previsione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del
2006 introdotta nel 2014) –secondo cui “Ogni variazione che intervenga,
anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla
fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva
ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della
soglia di anomalia delle offerte”– con la disposizione dell’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. esige anzitutto che il concorrente, il quale intenda
contestare l’ammissione (o l’esclusione) di un altro concorrente –laddove
ovviamente, come nel caso di specie, tale interesse sia attuale, immediato e
concreto, per essere stata la determinazione della soglia immediatamente
successiva all’ammissione dei concorrenti– debba farlo immediatamente, a
nulla rilevando la finalità per la quale intenda farlo, come, appunto, per
l’ipotesi in cui egli persegua, così facendo, l’interesse –in sé del tutto
legittimo– di potere incidere sul calcolo delle medie e della soglia di
anomalia, erroneamente determinato sulla base di una ammissione –o di una
esclusione– illegittima.
Anzi, proprio in questa ipotesi, l’immediata impugnativa dell’ammissione
appare necessaria, perché l’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 ha
inteso evitare che, a soglia già cristallizzatasi (c.d. blocco della
graduatoria), un concorrente possa insorgere contro l’ammissione di un altro
non già principaliter per contestarne la legittima ammissione alla
gara, in assenza di un valido requisito, ma solo per rimettere in
discussione il calcolo delle medie e la soglia di anomalia effettuato sulla
platea dei concorrenti, spesso molto ampia, ponendo i risultati della gara
in una situazione di perenne incertezza e determinando, così, la caducazione,
a distanza di molto tempo trascorso e in presenza di molte risorse
impiegate, dell’aggiudicazione già intervenuta.
Proprio per questo l’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, ha
previsto l’immutabilità o invarianza della soglia, una volta
cristallizzatasi, e cioè –al pari del suo diretto antecedente storico,
l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, di cui ricalca la
formulazione– al fine di “scoraggiare impugnazioni sui provvedimenti di
ammissione o esclusione che avessero come obiettivo soltanto quello di
modificare la media delle offerte” (C.g.a. 26.06.2017, n. 316 ma. v.
anche Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 22.12.2015, n. 740 e Cons.
Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 10.07.2015, n. 456).
<... Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di
intervento in autotutela a procedura ancora aperta, da parte
dell’amministrazione, e di esclusione dei concorrenti in qualunque momento
della gara (art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un
irrigidimento non conforme ai principî costituzionali ed europei, prima
ancora che alle disposizioni del codice, determinando una cristallizzazione
della soglia insensibile a qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso
di gara persino dalla stessa stazione appaltante, e, come ogni automatismo
che non consenta alla stessa di valutare in concreto le offerte presentate,
sarebbe “contrario all’interesse stesso delle amministrazioni aggiudicatrici,
in quanto queste ultime non sono in grado di valutare le offerte loro
presentate in condizioni di concorrenza effettiva e quindi di assegnare
l’appalto in applicazione dei criteri, anch’essi stabiliti nell’interesse
pubblico, del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più
vantaggiosa” (Corte Giust. comm.UE 15.05.2008, in C. 147/06, § 29)>.
I detti principi,
ad avviso del Collegio, vanno mantenuti adesso che la nuova
normativa c.d. “sblocca cantieri”, ha abrogato i commi 2-bis e 6-bis
dell’art. 120 c.p.a., posto che nel caso di specie è intervenuto comunque un
contenzioso procedimentale proprio in merito alla legittimità o meno di
un’esclusione incidente sulla determinazione della soglia di anomalia.
In altri termini, la cristallizzazione non è intervenuta proprio per effetto
di tale contenzioso e in considerazione che la stessa, così come già
ritenuto da questa sezione (cfr. TAR Catania, sez. I, 02/05/2018, n. 893 e,
ivi, richiamo a C.G.A.R.S. n. 740/2015 del 22.12.2015) si realizza con la
definitività dell’aggiudicazione.
Il Giudice d’appello siciliano ha confermato la detta impostazione con
sentenza del 19.02.2018, n. 96, riaffermando che <secondo il proprio
uniforme indirizzo, la previsione legislativa (“Ogni variazione che
intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale,
successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle
offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte”) sancisce una
regola di immodificabilità, ai fini del calcolo delle medie e
dell'individuazione della soglia di anomalia, la quale può ritenersi
operativa solo a partire dalla pronuncia di un’aggiudicazione definitiva>.
E, da ultimo, dalla stessa decisione del Giudice di seconde cure invocata da
parte ricorrente nella memoria depositata il 22.10.2919 (cfr. Consiglio di
Stato sez. V, 02/09/2019, n. 6013), emerge <quanto alla
individuazione del momento temporale idoneo a cristallizzare le offerte,
(che) la norma è chiara nell'individuarlo nella definizione, in via
amministrativa, della fase di ammissione (che, naturalmente, riguarda anche
la non ammissione, cioè la esclusione), includendovi, peraltro, anche la
fase di regolarizzazione, che si riferisce alle situazioni in cui sia stato
attivato il soccorso istruttorio>.
Ne discende che, nella logica della norma, la eventuale fase di
regolarizzazione rientra ancora nella fase di ammissione (tanto che
l'offerta ammessa al soccorso istruttorio deve ritenersi ammessa "con
riserva"), di tal che solo modifiche soggettive successive
all'esperimento del soccorso istruttorio sono soggette al canone di
invarianza.
Risulta dunque corretto nel caso di specie l'operato della stazione
appaltante, che ha ritenuto "non conclusa" la fase di ammissione fino
alla definizione del soccorso, con ciò sottraendo la vicenda alla
applicazione della regola in questione.
Del resto, si è più in generale ritenuto che la ridetta
fase non possa ritenersi conclusa "almeno finché non sia spirato il
termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni" e comunque "finché
la stessa stazione appaltante non possa esercitare il proprio potere di
intervento di autotutela ed escludere 'un operatore economico in qualunque
momento della procedura' (art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016) e,
quindi, sino all'aggiudicazione (esclusa, quindi, l'ipotesi di risoluzione
"pubblicistica" di cui all'art. 108, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016,
successiva alla stipula del contratto)"
(cfr. Cons. Stato sez. III, 27.04.2018, n. 2579). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
ordine alla individuazione dei presupposti per l’adozione di provvedimenti contingibili e urgenti, la
giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere necessario il concorso
cumulativo dei seguenti presupposti:
a) un grave pericolo che minaccia
l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana;
b) la contingibilità, intesa
quale situazione imprevedibile ed eccezionale che non può essere
fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall'ordinamento;
c) l'urgenza, causata dall'imminente pericolosità, che impone
l'adozione di un provvedimento straordinario e di durata temporanea in
deroga ai mezzi ordinari previsti dalla normativa vigente.
La sussistenza di tali presupposti deve essere, in ogni caso, suffragata da
un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione.
Sicché, “è illegittima
l'ordinanza contingibile e urgente ove non sussista alcun indizio concreto
in ordine alla pericolosità per l'incolumità pubblica e per la sicurezza
degli abitanti”.
---------------
13. Per quanto invece riguarda il punto n. 1 del dispositivo
dell’ordinanza impugnata, concernente l’ordine di chiusura immediata del
tratto di strada interessato dall’asserito pericolo di dissesto fino ad
avvenuta eliminazione del pericolo stesso, osserva il collegio che è fondato
e assorbente il primo motivo di ricorso.
13.1. Il provvedimento impugnato è stato adottato dal sindaco di Lerma in
espressa applicazione dell’art. 54, comma 4, del D.Lgs. 267 del 18.08.2000, il quale prevede che “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta
con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto
dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
13.2. In ordine alla individuazione dei presupposti per l’adozione di
provvedimenti contingibili e urgenti ai sensi della norma appena citata, la
giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere necessario il concorso
cumulativo dei seguenti presupposti:
a) un grave pericolo che minaccia
l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana;
b) la contingibilità, intesa
quale situazione imprevedibile ed eccezionale che non può essere
fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall'ordinamento;
c) l'urgenza,
causata dall'imminente pericolosità, che impone l'adozione di un
provvedimento straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi
ordinari previsti dalla normativa vigente (TAR Genova, sez. I,
27/01/2016, n. 82; Consiglio di Stato, sez. V, 19/05/2016, n. 2090; TAR
Napoli, sez. V, 06/03/2018, n. 1409; TAR Napoli, sez. V, 23/02/2018, n.
1214).
La sussistenza di tali presupposti deve essere, in ogni caso, suffragata da
un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione (TAR Lazio-Roma,
sez. II, 06/06/2016, n. 6490).
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare che “è illegittima
l'ordinanza contingibile e urgente ove non sussista alcun indizio concreto
in ordine alla pericolosità per l'incolumità pubblica e per la sicurezza
degli abitanti” (TAR Torino, sez. II, 24/08/2017, n. 1027; TAR Torino,
sez. I, 12/08/2016, n. 1113).
13.3. Nel caso di specie, ritiene il collegio che tali presupposti non
ricorressero
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.12.2019 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulle
conseguenze dell'annullamento del permesso di costruire.
L’art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che, “in caso di annullamento del permesso di
costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la
rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in
pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro
parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche
sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione
comunale”.
Come recentemente affermato da questa Sezione, il su indicato art. 38 si ispira ad un principio di tutela
degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio
più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo
successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin
dall’origine in assenza di titolo, per tutelare l’affidamento del privato
nella legittimità del titolo edilizio rilasciato dall’Amministrazione.
In tal senso, l’art. 38 integra la presenza di una “speciale norma di
favore”, che differenzia la posizione di colui che abbia realizzato l’opera
abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno
realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, tutelando
l’affidamento del privato che ha avviato e anche concluso, come nel caso di
specie, i lavori in base a titolo ottenuto.
Come chiarito da questo Consiglio, la ratio del regime sanzionatorio “più mite” riservato dal Legislatore agli
interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo, che solo
successivamente sia stato dichiarato illegittimo, rispetto al trattamento
ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in
originaria assenza del titolo, deve essere rinvenuta nella specifica
considerazione dell’affidamento dell’autore dell’intervento sulla
presunzione di legittimità e, comunque, sull’efficacia del titolo assentito.
A tal fine, all’Amministrazione si impone di verificare se i vizi, formali o
sostanziali, accertati in sede giurisdizionale, siano emendabili; ovvero, se
la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad
altri beni o opere del tutto regolari. In assenza degli anzidetti
presupposti, per convalidare l’atto, la “integrale corresponsione della
sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di
costruire in sanatoria di cui all’articolo 36” del testo unico (art. 38,
comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001).
Una volta identificato nella tutela del legittimo affidamento l’elemento
normativo che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia
realizzato in buona fede l’opera abusiva sulla base di un titolo annullato,
rispetto a quanti abbiano realizzato opere parimenti abusive senza alcun
titolo, ne consegue che il citato art. 38 trova applicazione solo in
presenza di manufatti realizzati conformemente al titolo edilizio assentito,
divenuti abusivi a seguito del sopravvenuto annullamento di quest’ultimo;
laddove, per le ipotesi di abusi formali ab initio privi di valido titolo
abilitativo, trova applicazione il diverso istituto dell’accertamento di
conformità, subordinato al riscontro delle stringenti condizioni di cui
all’art. 36 dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
Può, quindi, affermarsi che, per tenere conto di tale particolare
fattispecie, suscettibile di giustificare un trattamento normativo più
favorevole rispetto all’abusività “originaria”, il Legislatore ha previsto
tre possibili rimedi:
- la “sanatoria” della procedura, nei casi in cui sia possibile la rimozione
dei vizi della procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di
alcuna sanzione edilizia, ricondotta pacificamente dalla giurisprudenza al
caso di vizi formali o procedurali e non all’ipotesi di vizi sostanziali;
- ove non sia possibile la sanatoria, l’obbligo, in capo
all’Amministrazione, di applicare la sanzione di carattere ripristinatorio;
- e, soltanto nel caso in cui non sia possibile l’adozione di tale misura,
in ragione della natura delle opere realizzate, l’applicazione della
sanzione pecuniaria.
Viene, per l’effetto, a configurarsi una graduazione di sanzioni, modulata
alla luce della gravità della violazione della normativa urbanistica.
Il Comune, infatti, può disporre la rimozione dei vizi –in primo luogo–
ove si tratti di vizi formali o procedurali; e può procedervi anche nel caso
di vizi sostanziali, purché si tratti di vizi emendabili; mentre in tutti
gli altri casi, ovvero in presenza di vizi sostanziali insanabili, ricorre
l’obbligo di esercitare il potere repressivo (innanzi tutto, attraverso la rimessione in pristino).
Ne consegue che le opere ritenute “successivamente” abusive sono
suscettibili di demolizione: rimanendo, peraltro, nel perimetro delle
opzioni esercitabili dalla procedente Amministrazione, una eventuale
valutazione motivata (anche veicolata dalle specifiche deduzioni dei
destinatari della misura sanzionatoria) in ordine alla impossibilità
materiale del ripristino.
Più di recente, il concetto di impossibilità di ripristino è stato inteso in
senso più ampio, in quanto riferito:
- non soltanto alla oggettiva impossibilità materiale “tecnica”;
- quanto, piuttosto, alla comparazione dell’interesse pubblico al
recupero della situazione di legalità violata e accertata giudizialmente con
il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole,
che aveva confidato nell’esercizio legittimo del potere amministrativo.
---------------
1.1. Va rammentato, al riguardo, come l’art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disponga che, “in caso di annullamento del permesso di
costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la
rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in
pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro
parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche
sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione
comunale”.
Come recentemente affermato da questa Sezione (cfr. sentenza 23.09.2019, n. 6284), il su indicato art. 38 si ispira ad un principio di tutela
degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio
più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo
successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin
dall’origine in assenza di titolo, per tutelare l’affidamento del privato
nella legittimità del titolo edilizio rilasciato dall’Amministrazione.
In tal senso, l’art. 38 integra la presenza di una “speciale norma di
favore”, che differenzia la posizione di colui che abbia realizzato l’opera
abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno
realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, tutelando
l’affidamento del privato che ha avviato e anche concluso, come nel caso di
specie, i lavori in base a titolo ottenuto (Cons. Stato, Sez. VI, 10.05.2017, n. 2160).
Come chiarito da questo Consiglio (Sez. IV, 26.03.2019, n. 1986), la
ratio del regime sanzionatorio “più mite” riservato dal Legislatore agli
interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo, che solo
successivamente sia stato dichiarato illegittimo, rispetto al trattamento
ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in
originaria assenza del titolo, deve essere rinvenuta nella specifica
considerazione dell’affidamento dell’autore dell’intervento sulla
presunzione di legittimità e, comunque, sull’efficacia del titolo assentito
(cfr., ex multis, Cons, Stato, Sez. VI, 05.10.2018, n. 5723).
A tal fine, all’Amministrazione si impone di verificare se i vizi, formali o
sostanziali, accertati in sede giurisdizionale, siano emendabili; ovvero, se
la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad
altri beni o opere del tutto regolari. In assenza degli anzidetti
presupposti, per convalidare l’atto, la “integrale corresponsione della
sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di
costruire in sanatoria di cui all’articolo 36” del testo unico (art. 38,
comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001).
Una volta identificato nella tutela del legittimo affidamento l’elemento
normativo che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia
realizzato in buona fede l’opera abusiva sulla base di un titolo annullato,
rispetto a quanti abbiano realizzato opere parimenti abusive senza alcun
titolo, ne consegue che il citato art. 38 trova applicazione solo in
presenza di manufatti realizzati conformemente al titolo edilizio assentito,
divenuti abusivi a seguito del sopravvenuto annullamento di quest’ultimo;
laddove, per le ipotesi di abusi formali ab initio privi di valido titolo
abilitativo, trova applicazione il diverso istituto dell’accertamento di
conformità, subordinato al riscontro delle stringenti condizioni di cui
all’art. 36 dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
1.2. Può, quindi, affermarsi che, per tenere conto di tale particolare
fattispecie, suscettibile di giustificare un trattamento normativo più
favorevole rispetto all’abusività “originaria”, il Legislatore ha previsto
tre possibili rimedi:
- la “sanatoria” della procedura, nei casi in cui sia possibile la rimozione
dei vizi della procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di
alcuna sanzione edilizia, ricondotta pacificamente dalla giurisprudenza al
caso di vizi formali o procedurali e non all’ipotesi di vizi sostanziali;
- ove non sia possibile la sanatoria, l’obbligo, in capo
all’Amministrazione, di applicare la sanzione di carattere ripristinatorio;
- e, soltanto nel caso in cui non sia possibile l’adozione di tale misura,
in ragione della natura delle opere realizzate, l’applicazione della
sanzione pecuniaria.
Viene, per l’effetto, a configurarsi una graduazione di sanzioni, modulata
alla luce della gravità della violazione della normativa urbanistica (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2017, n. 5296; Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2017, n. 1909).
Il Comune, infatti, può disporre la rimozione dei vizi –in primo luogo–
ove si tratti di vizi formali o procedurali; e può procedervi anche nel caso
di vizi sostanziali, purché si tratti di vizi emendabili; mentre in tutti
gli altri casi, ovvero in presenza di vizi sostanziali insanabili, ricorre
l’obbligo di esercitare il potere repressivo (innanzi tutto, attraverso la rimessione in pristino).
Ne consegue che le opere ritenute “successivamente” abusive sono
suscettibili di demolizione: rimanendo, peraltro, nel perimetro delle
opzioni esercitabili dalla procedente Amministrazione, una eventuale
valutazione motivata (anche veicolata dalle specifiche deduzioni dei
destinatari della misura sanzionatoria) in ordine alla impossibilità
materiale del ripristino (Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2017, n. 1909 cit.).
Più di recente, il concetto di impossibilità di ripristino è stato inteso in
senso più ampio, in quanto riferito:
- non soltanto alla oggettiva impossibilità materiale “tecnica”;
- quanto, piuttosto, alla comparazione dell’interesse pubblico al
recupero della situazione di legalità violata e accertata giudizialmente con
il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole,
che aveva confidato nell’esercizio legittimo del potere amministrativo (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 28.11.2018, n. 6753; cfr. in tal senso, altresì,
Cons. Stato, sez. VI, 09.04.2018, n. 2155, che fa riferimento anche alla
posizione di eventuali terzi acquirenti di buona fede)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 20.12.2019 n. 8622 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
necessità, o meno, del permesso di costruire per una tensostruttura.
Nel caso d specie si riscontra che la tensostruttura
realizzata determina, per la sua dimensione (450 mq) e ancoramento al suolo
(sistema di ancoraggio eseguito mediante il fissaggio dei pilastri su
blocchi in cemento di cm. 100 x 100 x 50h interrati), la realizzazione di
nuovi volumi.
Invero, l’art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001 ricomprende tra
gli interventi di nuova costruzione sottoposte al regime del permesso di
costruire di cui all’art 10 TUEDIL anche l'installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali
roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad
eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta
e il soggiorno dei turisti; previamente autorizzate sotto il profilo
urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle
normative regionali di settore.
L’art. 6 Tuedil fa, però, rientrare nell’edilizia libera quelle nuove
costruzioni realizzate per esigenze contingenti e temporanee non
oltrepassanti i 90 giorni sì da farla ricondurre di cui al TUedil.
Nella specie la tensostruttura è destinata stabilmente all’attività di
ricevimento/ristorazione ed relativo contatto della sua concessione in
comodato è stato, infatti, stipulato dapprima per 5 mesi con successiva
proroga del termine di restituzione di ulteriori 6 mesi.
Difetta, pertanto, la caratteristica della temporaneità.
A diversa conclusione non può giungersi per effetto delle norme sulla
semplificazione delle attività private in materia di commercio, ambiente ed
edilizia di cui al decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, non essendo
riconducibile l’intervento alle opere del glossario di cui ai punti 50, 51
(Aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza), 52 (Manufatti
leggeri in strutture ricettive) né ai punti 53-58 (Opere contingenti
temporanee), per cui è prevista attività edilizia o Cila difettando, per le
esposte caratteristiche del manufatto e per la sua destinazione tanto natura
pertinenziale quanto quella temporanea.
Deve concludersi, allora, per la necessità del permesso di costruire e per
la conseguente legittimità dell’ordine di demolizione adottato ai sensi
dell’art. 31 Tuedil.
---------------
Rilevato:
- che parte ricorrente ha impugnato, con richiesta di sospensione,
il rigetto della CILA ed i conseguenti provvedimenti con cui sono disposte
la sospensione dei lavori e la demolizione, tutti emessi dal comune di
Lattarico, con riferimento a tensostruttura collocata su proprio terreno;
- che, in particolare, ha dedotto -) violazione degli artt. 3 e 6
dpr n. 380/2001 - degli artt. 1 e 2 d.lgs. n. 222/2016 e del dm 02.03.2018,
in quanto rientrante in attività di edilizia libera di cui al DM 02.03.2018
o al più in opera soggetta a Cila, -) violazione degli artt. 3, 6, 10, 22,
23, 31, 36 e 37 D.P.R. 380/01, dovendosi in ipotesi di ritenuta necessità
della Scia comminare la sanzione pecuniaria e non la demolizione, -)
violazione del R.D.L. n. 3267/1923 e artt. 93 T.U. n. 380/2001 in materia di
vigilanza sulle zone sismiche, -) violazione della legge 02.02.1974, n. 64 e
della l.r. Calabria n. 35/2009;
- che ha resistito al ricorso l’ente locale concludendo per
inammissibilità e rigetto del ricorso;
- che all’udienza camerale del 17.12.2019, ricorrendone i
presupposti, è stato dato avviso di possibile definizione con sentenza in
forma semplificata ex art. 60 c.p.a. e, all’esito della discussione, il
ricorso è stato trattenuto in decisione;
Considerato:
- che, alla luce del contenuto del provvedimento e delle censure
proposte, dirimente risulti l’analisi del profilo del titolo edilizio
occorrente per la realizzata tensostruttura e, in ipotesi di riscontro della
necessità del titolo, della conseguenza del suo difetto se demolitoria o di
sanzione pecuniaria;
- che dall’esame degli atti (v. foto, relazione di parte ed
istruzioni per il montaggio) si riscontra che la tensostruttura determina,
per la sua dimensione (450 mq) e ancoramento al suolo (sistema di ancoraggio
eseguito mediante il fissaggio dei pilastri su blocchi in cemento di cm. 100
x 100 x 50h interrati), la realizzazione di nuovi volumi (cfr. ord. CGA n.
803/2018 e sentenza Tar Catania, 996/2019);
- che l’art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001
ricomprende tra gli interventi di nuova costruzione sottoposte al regime del
permesso di costruire di cui all’art 10 TUEDIL anche l'installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere,
quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati
come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e
simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto
per la sosta e il soggiorno dei turisti; previamente autorizzate sotto il
profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità
alle normative regionali di settore;
- che l’art. 6 Tuedil fa, però, rientrare nell’edilizia libera
quelle nuove costruzioni realizzate per esigenze contingenti e temporanee
non oltrepassanti i 90 giorni sì da farla ricondurre di cui al TUedil;
- che nella specie la tensostruttura è destinata stabilmente
all’attività di ricevimento/ristorazione ed relativo contatto della sua
concessione in comodato è stato, infatti, stipulato dapprima per 5 mesi con
successiva proroga del termine di restituzione di ulteriori 6 mesi;
- che difetta, pertanto, la caratteristica della temporaneità;
- che a diversa conclusione non può giungersi per effetto delle
norme sulla semplificazione delle attività private in materia di commercio,
ambiente ed edilizia di cui al decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, non
essendo riconducibile l’intervento alle opere del glossario di cui ai punti
50, 51 (Aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza), 52
(Manufatti leggeri in strutture ricettive) né ai punti 53-58 (Opere
contingenti temporanee), per cui è prevista attività edilizia o Cila
difettando, per le esposte caratteristiche del manufatto e per la sua
destinazione tanto natura pertinenziale quanto quella temporanea;
- che deve concludersi, allora, per la necessità del permesso di
costruire (v. nello stesso senso Tar Lazio, sentenza 7567/2019 e Cass. Pen.
n. 38473/2019) e per la conseguente legittimità dell’ordine di demolizione
adottato ai sensi dell’art. 31 Tuedil
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 20.12.2019 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Rapporto
tra accesso ordinario, accesso civico e accesso generalizzato.
---------------
Accesso ai documenti – Accesso ordinario – Rapporto con accesso civico e
accesso generalizzato - Individuazione.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli
atti –accesso ordinario, accesso civico e accesso generalizzato- ciascuna
distintamente regolata nei suoi presupposti, porta ad escludere l’esistenza
di un unico e generale diritto del privato ad accedere agli atti
amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso; esistono invece
specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno delle quali, al
venire in essere di determinati presupposti (diversi in ognuna di esse), il
privato assume titolo ad accedere alla documentazione amministrativa, con
limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi (1).
---------------
(1) Il Tar è intervenuto su una questione nella quale l’impresa
ricorrente è proprietaria di un distributore di carburanti e di alcuni
appezzamenti di terreno adiacenti che hanno destinazione agricola. Una
impresa concorrente ottiene il permesso di costruire per realizzare un nuovo
distributore di carburanti a pochi metri di distanza, su un’area confinante
con il terreno della prima avente destinazione agricola; nella relazione
tecnica allegata all’istanza per il rilascio del permesso comunica che le
terre e le rocce da scavo estratte sarebbero state riutilizzate in loco per
reinterri e riempimenti.
La ricorrente presenta allora all’Agenzia Regionale
per la Protezione Ambientale della Toscana-ARPAT un’istanza di accesso, ai
sensi della l. 07.08.1990, n. 241, per ottenere copia della dichiarazione
di utilizzo ex art. 21, d.P.R. 13.06.2017, n. 120 attestante la
sussistenza dei requisiti affinché terra e roccia da scavo siano qualificate
come sottoprodotti, che la controinteressata avrebbe dovuto presentare per
essere abilitata ad effettuare tale attività.
La domanda viene respinta
evidenziando, nella motivazione, che le terre movimentate verranno
depositate su un terreno distante, di proprietà della stessa impresa
concorrente. Il diniego viene impugnato sostenendo che l’ostensione dovrebbe
essere consentita non solo in base alla legge n. 241/1990, ma anche sulla
base di altre normative in materia di accesso e segnatamente da un lato, il d.lgs. 12.05.1995, n. 195 che attribuisce il diritto ad accedere ad atti
aventi rilevanza ambientale a chiunque ne faccia richiesta senza necessità
di motivare il relativo interesse, e dall’altro ai sensi dell’art. 5, d.lgs.
14.03.2013, n. 33 a titolo di accesso civico generalizzato.
Il Tar, accogliendo la tesi difensiva di ARPAT e richiamandosi alla sentenza
del
Consiglio di Stato, sez. V, 02.08.2019, n. 5503, rileva che
l’accesso ai documenti amministrativi è regolamentato da tre sistemi
generali: il tradizionale accesso documentale ex artt. 22 ss., l. n. 241 del
1990; l'accesso civico concesso a “chiunque” per ottenere “documenti,
informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione ex art. 5,
comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, e l’accesso civico generalizzato concesso
“senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva” in
relazione a documenti non assoggettati all’obbligo di pubblicazione, ex art.
5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013.
Sono istituti aventi ciascuno un oggetto
diverso e applicabili, ognuno, a diverse e specifiche fattispecie; perciò il Tar ritiene che ognuno di essi operi nel proprio ambito di azione senza
assorbimento della fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o
implicita ad opera della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito
di applicazione di ciascuno di essi. Laddove quindi il richiedente abbia
espressamente optato per un modello, è precluso all’Amministrazione
qualificare diversamente l’istanza al fine di individuare la disciplina
applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la
propria istanza motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso,
non potrà convertire la stessa in corso di causa poiché questa si radica su
una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa
dell’Amministrazione, che concorrono a formare l’oggetto del contendere.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla richiesta di
riqualificare l’istanza di accesso alla stregua di una domanda di
informazioni ambientali ex d.lgs. n. 195 del 2005, che a sua volta
costituisce un sottosistema normativo disciplinante una fattispecie
specifica di accesso ed opera solo nel proprio ambito.
Inoltre la decisione sulla richiesta di ostensione di un documento deve
essere preceduta da un’attività amministrativa volta a verificare la sua
corrispondenza allo schema normativamente previsto e alla tutela
normativamente stabilita dei contrapposti interessi, in primo luogo quello
alla riservatezza dei soggetti i cui dati sono rappresentati nei documenti
oggetto di domanda: ne segue che ove riqualificasse l’istanza presentata dal
richiedente l’accesso e decidesse in merito, il Giudice si sostituirebbe
inammissibilmente all’Amministrazione in poteri che essa non ha (ancora)
esercitato violando il divieto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a.
Data la premessa, il Tar conclude nel senso che la coesistenza di tre
diverse specie di accesso agli atti, ciascuna distintamente regolata nei
suoi presupposti, induce a ritenere che non esista, nel nostro ordinamento,
un unico e generale diritto del privato ad accedere agli atti amministrativi
che possa farsi valere a titolo diverso. Esistono invece specifiche
situazioni nei rapporti di pubblico all’interno delle quali, al venire in
essere di determinati presupposti (diversi in ognuna di esse), il privato
assume titolo ad accedere alla documentazione amministrativa, con limiti e
modalità diversificate nelle varie ipotesi.
È onere del richiedente
individuare quale sia la sua situazione e, pertanto, quale tipologia di
accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una volta effettuata la
scelta, è su tale rapporto che si incardina la controversia e lo stesso non
può dunque essere riqualificato in sede giudiziaria
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 20.12.2019 n. 1748 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. La domanda di accesso è stata formulata dalla ricorrente ai sensi della
legge n. 241/1990 assumendo di avere un interesse “diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento” richiesto, come prevede l’articolo 22, comma 1,
lett. b), della citata normativa. Nel ricorso chiede però che la sua domanda
venga accolta non solo ai sensi di questa normativa, ma anche a titolo di
accesso civico generalizzato e, inoltre, in quanto avrebbe ad oggetto
informazioni ambientali ai sensi del d.lgs. n. 195/2005.
La difesa di ARPAT replica che tale riqualificazione della domanda di
accesso in sede processuale non sarebbe possibile.
Ai fini della trattazione della controversia occorre quindi, in via
preliminare, stabilire se tale riqualificazione sia legittima ed individuare
dunque se alla fattispecie sia applicabile la sola legge n. 241/1990 o,
invece, anche le altre normative invocate dalla ricorrente. A tal fine il
Collegio reputa di ripercorrere le considerazioni contenute nella sentenza
del Consiglio di Stato, Sez. V, 02.08.2019 n. 5503 la quale, se pure resa
in tema di accesso agli atti di una gara d’appalto, contiene principi
applicabili in via generale e quindi anche al caso di specie.
L’accesso ai documenti amministrativi è oggi regolamentato da tre sistemi
generali, ognuno caratterizzato da propri limiti e presupposti:
a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che
consente ai (soli) soggetti portatori di un “interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di
accedere ai dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque,
detenuti da soggetti pubblici;
b) l'accesso civico, concesso a “chiunque” per ottenere “documenti,
informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente
imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
c) l’accesso civico generalizzato, concesso “senza alcuna limitazione quanto
alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita
“motivazione” giustificativa in relazione a “dati, informazioni o documenti”
ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013).
Si tratta di istituti a carattere generale ma ognuno con oggetto diverso, e
sono applicabili ognuno a diverse e specifiche fattispecie: ne segue che
ognuno di essi opera nel proprio ambito di azione senza assorbimento della
fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera
della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di
ciascuno di essi. Ognuno di questi presenta caratteri di specialità rispetto
all’altro. Di conseguenza, come ritenuto in tale arresto che il Collegio
condivide, laddove il richiedente abbia espressamente optato per un modello
è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza, al fine
di individuare la disciplina applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza
motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà
effettuare una conversione della stessa in corso di causa. Questa infatti si
radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa
dell’Amministrazione che concorrono a formare l’oggetto del contendere. Non
può quindi ammettersi un mutamento del titolo giuridico dell’accesso in
corso di controversia poiché il rapporto tra richiedente ed Amministrazione
(o soggetto equiparato) si è formato non attorno ad un generico (asserito)
diritto del primo di accedere a una determinata documentazione ma su una
richiesta precisamente connotata nei suoi presupposti giuridici e fattuali.
È su questo rapporto che la controversia verte, ed è questo l’oggetto del
contendere.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti, ciascuna
distintamente regolata nei suoi presupposti, induce a ritenere che non
esista, nel nostro ordinamento, un unico e generale diritto del privato ad
accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso.
Esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno
delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in
ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione
amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi. È
onere del richiedente individuare quale sia la sua situazione e, pertanto,
quale tipologia di accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una
volta effettuata la scelta, è su tale rapporto che si incardina la
controversia e lo stesso non può dunque essere riqualificato in sede
giudiziaria.
La richiesta della ricorrente, effettuata ai sensi della legge n. 241/1990,
non può quindi essere (ri)esaminata alla luce del d. lgs. n. 33/2013.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla richiesta
qualificazione dell’istanza di accesso della ricorrente alla stregua di una
domanda di informazioni ambientali ex d.lgs. n. 195/2005, poiché questa a
sua volta costituisce un sottosistema normativo disciplinante una
fattispecie specifica di accesso ed operante solo nel proprio ambito.
Non si tratta di lettura formalistica della normativa, ma di individuare
l’ambito preciso della presente controversia e del rapporto su cui verte.
ARPAT ha fornito risposta negativa ad un’istanza di accesso formulata ai
sensi della legge n. 241/1990 e ove il giudizio venisse esteso alla verifica
della sua fondatezza ai sensi di normative non richiamate nella stessa, e
sulle quali quindi la stessa ARPAT non ha fornito alcuna risposta (e non
doveva farlo), sarebbe violato il divieto a carico di questo Giudice di
pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati
posto dall’articolo 34, comma 2, del codice di rito.
A prescindere dalla
qualificazione della posizione dell’accedente in termini di diritto
soggettivo o di interesse legittimo, questione ancora irrisolta, è certo che
la decisione sulla richiesta di ostensione di un documento deve essere
preceduta da un’attività amministrativa volta a verificare la sua
corrispondenza allo schema normativamente prefigurato e alla tutela
normativamente stabilita dei contrapposti interessi, in primo luogo quello
alla riservatezza dei soggetti i cui dati sono rappresentati nei documenti
oggetto di domanda. Al Giudice, ex art. 34, comma 2, c.p.a. non può quindi
che essere interdetta la riqualificazione dell’istanza presentata dalla
ricorrente poiché si sostituirebbe inammissibilmente all’Amministrazione in
poteri non ancora esercitati.
Sotto tale profilo appare irrilevante il regolamento dell’ARPAT richiamato
dalla ricorrente in memoria, così come irrilevante è la circostanza che le
premesse del provvedimento negativo impugnato contengano un riferimento
all’art. 5, comma 3, del d.lgs. 33/2013 in tema di accesso civico
generalizzato poiché questo appare frutto di refuso e comunque non è
vincolante ai fini del decidere, in base al principio secondo il quale ai
fini della qualificazione della sua natura l'atto amministrativo va
interpretato in base al suo specifico contenuto risalendo al potere
concretamente esercitato dall'amministrazione, prescindendo dal nomen iuris
che gli è stato assegnato (C.d.S. II, 30.09.2019 n. 6534).
L’ARPAT ha
inteso negare l’accesso in base alla legge n. 241/1990 come mostra il
contenuto del dispositivo, nel quale si respinge l’istanza della ricorrente
“ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. 241/1990” poiché essa “non
risulta titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti
richiesti”.
ARPAT ha esaminato e statuito sull’istanza della ricorrente
valutando la sussistenza dei presupposti stabiliti, ai fini dell’accesso,
dalla legge n. 241/1990 e in base a questa sarà deciso la controversia.
Questa si è infatti formata in ordine ad un rapporto giuridico con una sua
precisa qualificazione, attribuita dalla ricorrente stessa alla propria
istanza, ed è su tale tipo di rapporto, con tale specifica qualificazione,
che questo Giudice deve statuire.
3. Venendo quindi alle conclusioni, in applicazione delle coordinate
normative desumibili dalla legge n. 241/1990 ai sensi della quale, si
ripete, l’istanza è stata formulata, il ricorso deve essere respinto. ARPAT
nel provvedimento di diniego ha infatti chiarito che le terre movimentate
dall’impresa Au. vengono depositate su un terreno distante da quello
della ricorrente e, pertanto, in alcun modo potrebbero apportarle danni.
La ricorrente valorizza, a sostegno delle proprie posizioni, il suo
interesse a verificare se i lavori nel fondo confinante avvengano nel
rispetto della normativa ambientale. Una volta però appurato che, con
riferimento alle terre movimentate, alcun danno può derivare al fondo di sua
proprietà, tale interesse legittimo sfuma in interesse di mero fatto poiché
se l’attività della controinteressata non è in grado di incidere in alcun
modo su posizioni giuridicamente tutelate della ricorrente (almeno per
quanto concerne l’oggetto della presente controversia, ovvero le terre di
risulta dei lavori effettuati), ebbene detto interesse in nulla si
differenzia dall’interesse non qualificato né differenziato facente capo al
quivis de populo ad esercitare un controllo generalizzato sulla legittimità
dell’operato amministrativo, e non costituisce pertanto “situazione
giuridicamente tutelata” che legittimi l’accesso alla dichiarazione di
utilizzo delle terre e rocce di scavo inoltrata dalla controinteressata.
Non è conferente il parallelo effettuato della ricorrente con l’accesso alla
documentazione riguardante il rispetto, da parte del confinante, della
normativa edilizia ed urbanistica nell’esecuzione di interventi edificatori
poiché le modalità di questi possono sempre incidere sulle caratteristiche
del fondo confinante e, in particolare, sul suo valore, stante il
collegamento materiale stabile fra i terreni, collegamento che deve comunque
sempre essere oggetto di dimostrazione (C.d.S. V, 27.03.2019 n. 2025).
Il
rispetto della normativa ambientale, una volta appurato che non esiste alcun
collegamento fra il materiale potenzialmente inquinante e il fondo vicino a
quello oggetto di intervento, rappresenta un interesse che non si
differenzia da quello generale, proprio della collettività indifferenziata,
al rispetto della legge da parte della pubblica amministrazione.
Per queste ragioni il ricorso deve essere respinto. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il TAR Milano sospende un bando di un Comune
per l’affidamento di servizi legali.
Il TAR Milano sospende
un bando di un Comune lombardo per
l’affidamento di servizi legali, sulla base
del seguente percorso motivazionale:
- «considerata la natura discriminatoria e irragionevole della
clausola che preclude la partecipazione agli
avvocati che non abbiano avuto in passato
tra i lori clienti Pubbliche
Amministrazioni, ben potendo questi ultimi
aver maturato l’esperienza necessaria a
divenire affidatari della procedura
impugnata, anche difendendo soggetti privati
nei giudizi amministrativi;
- l’indeterminatezza e l’eterogeneità delle prestazioni richieste,
ciò che preclude la possibilità di formulare
un’offerta ponderata;
- la contrarietà della lex specialis alla legge professionale,
nella parte in cui prevede la corresponsione
di un corrispettivo fisso indipendentemente
dal numero dei contenziosi, ciò che pare
violare il principio dell’equo compenso, e
nella parte in cui prevede l’assegnazione di
un punteggio preferenziale in favore degli
avvocati che hanno patrocinato giudizi
conclusi con un esito positivo per le
amministrazioni, considerato che la loro
attività non ha ad oggetto obbligazioni di
risultato»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
ordinanza 20.12.2019 n. 1720 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione
dell'efficacia, dell’avviso, del
disciplinare, e del capitolato, relativi
alla procedura indetta dal Comune di Pieve
Emanuele (MI) per l’affidamento dei servizi
legali CIG Z3D2A103AA, e di ogni atto
presupposto, connesso e conseguente, ivi
espressamente inclusa la determinazione n.
1202 del 21.10.2019, di approvazione della
documentazione concorsuale.
Visti il ricorso ed i relativi allegati;
Vista la domanda di sospensione
dell'esecuzione del provvedimento impugnato,
presentata in via incidentale dalla parte
ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e
competenza;
...
Ritenuto che, ad un sommario esame, il
ricorso sia assistito dal requisito del
fumus boni iuris considerate, in
particolare:
- la natura discriminatoria e irragionevole della clausola che
preclude la partecipazione agli avvocati che
non abbiano avuto in passato tra i lori
clienti Pubbliche Amministrazioni, ben
potendo questi ultimi aver maturato
l’esperienza necessaria a divenire
affidatari della procedura impugnata, anche
difendendo soggetti privati nei giudizi
amministrativi;
- l’indeterminatezza e l’eterogeneità delle prestazioni richieste,
ciò che preclude la possibilità di formulare
un’offerta ponderata;
- la contrarietà della lex specialis alla legge
professionale, nella parte in cui prevede la
corresponsione di un corrispettivo fisso
indipendentemente dal numero dei
contenziosi, ciò che pare violare il
principio dell’equo compenso, e nella parte
in cui prevede l’assegnazione di un
punteggio preferenziale in favore degli
avvocati che hanno patrocinato giudizi
conclusi con un esito positivo per le
amministrazioni, considerato che la loro
attività non ha ad oggetto obbligazioni di
risultato.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia (Sezione Prima), accoglie la
domanda cautelare, e per l'effetto sospende
l’efficacia del provvedimento in epigrafe
impugnato.
Fissa per la trattazione di merito del
ricorso l'udienza pubblica del 10.06.2020. |
EDILIZIA PRIVATA: In
difetto di un espresso provvedimento di decadenza del permesso di costruire
deve ritenersi illegittima l'ordinanza di annullamento del medesimo
permesso.
E’ ben vero che, ai sensi del comma 2 dell’articolo 15 del DPR n. 380 del
2001, decorsi i termini dallo stesso previsti per l’inizio e l’ultimazione
dei lavori “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita”.
Tuttavia, cospicuo orientamento giurisprudenziale ritiene che la perdita di
efficacia di un titolo edilizio per mancato inizio o ultimazione dei lavori
nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale
provvedimento dell’Amministrazione, anche ai fini del necessario
contraddittorio con il privato circa l’esistenza dei presupposti di fatto e
di diritto che legittimano la declaratoria di decadenza.
La valenza meramente dichiarativa del provvedimento di decadenza
(relativamente ad un effetto che consegue ex lege) non esclude in ogni caso
che lo stesso debba essere comunque adottato all’esito di apposito
procedimento, non potendo la situazione di inefficacia essere affermata,
come nella specie, in via meramente incidentale (“Tale titolo…si ritiene
decaduto ope legis…”)
---------------
Evidenzia la Sezione che nella specie il Comune di Nardò non ha
attivato uno specifico procedimento per la declaratoria di decadenza del
suddetto titolo edificatorio.
Invero, la comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 13179/16 del
22.02.2016 viene espressamente qualificata quale “avviso di avvio del
procedimento di annullamento del permesso di costruire” ed il dato è,
altresì, confermato dalla parte finale dello stesso, laddove si precisa che
“Per le motivazioni che hanno portato all’emissione del provvedimento n.
115/2017 (n.d.r., l’ordinanza di sospensione dei lavori) si AVVISA che è
stato attivato il procedimento di annullamento del Permesso di Costruire n.
169/2016”.
Se si esaminano i contenuti della stessa emerge che essa dà per presupposta
l’intervenuta decadenza del titolo abilitativo e, dunque, non attiva un
procedimento volto alla relativa declaratoria.
Ugualmente è a dirsi che l’atto finale impugnato, ordinanza n. 147 del
06.03.2017, non è un provvedimento amministrativo dichiarativo della
decadenza, essendo esso qualificato quale “ordinanza di annullamento del
permesso di costruire in danno di Ma.Fe.” e limitandosi la sua parte
dispositiva a statuire: “ANNULLA il permesso di costruire n. 169/2016
rilasciato a Ma.Fe.…., in autotutela in quanto illegittimo per le
motivazioni sopra esposte….E PER L’EFFETTO ORDINA….di demolire tutte le
opere realizzate abusivamente senza permesso di costruire in forza del
titolo edilizio illegittimo…”.
Dunque, la decadenza dell’originario permesso di costruire n. 521/2011 non è
oggetto della determinazione provvedimentale, ma unicamente un presupposto
sul quale, unitamente ad altri elementi, viene fondata l’illegittimità del
successivo permesso di costruire oggetto di annullamento.
Tanto è confermato dalla parte motiva del provvedimento, laddove l’autorità
amministrativa si limita ad affermare che “tale titolo …si ritiene decaduto ope legis…”.
Orbene, assunto per quanto sopra esposto che difetta un espresso
provvedimento di decadenza del permesso di costruire pronunciato all’esito
di apposito procedimento, deve ritenersi l’illegittimità della conseguente
ordinanza n. 147/2017, la quale si fonda anche sulla predetta situazione di
decadenza, in concreto non dichiarata con specifica determinazione
provvedimentale.
E’ ben vero che, ai sensi del comma 2 dell’articolo 15 del DPR n. 380 del
2001, decorsi i termini dallo stesso previsti per l’inizio e l’ultimazione
dei lavori “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita”.
Tuttavia, cospicuo orientamento giurisprudenziale –che il Collegio
condivide– ritiene che la perdita di efficacia di un titolo edilizio per
mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere
accertata e dichiarata con formale provvedimento dell’Amministrazione, anche
ai fini del necessario contraddittorio con il privato circa l’esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto che legittimano la declaratoria di
decadenza (cfr. Cons. Stato, V, 12.05.2011, n. 2821;IV, 05.07.2017, n. 3283; IV,
15.11.2017, n. 5285).
La valenza meramente dichiarativa del provvedimento di decadenza
(relativamente ad un effetto che consegue ex lege) non esclude in ogni caso
che lo stesso debba essere comunque adottato all’esito di apposito
procedimento, non potendo la situazione di inefficacia essere affermata,
come nella specie, in via meramente incidentale (“Tale titolo…si ritiene
decaduto ope legis…”)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.12.2019 n. 8602 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: All’Adunanza
plenaria la verifica d’ufficio e in sede contenziosa dei presupposti per
l’accesso generalizzato se non sussistono i presupposti per l’accesso
ordinario.
---------------
●
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione –
Concorrente utilmente collocato in graduatoria – Accesso agli atti relativi
alla fase esecutiva delle prestazioni – Interesse – Dubbio in giurisprudenza
- Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
●
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato - Contratti della Pubblica
amministrazione – Concorrente utilmente collocato in graduatoria – Accesso
agli atti relativi alla fase esecutiva delle prestazioni – Interesse –
Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato.
●
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – carenza
dei presupposti per l’accesso ordinario - Esistenza dei presupposti per
l’accesso generalizzato – Verifica in sede amministrativa e contenziosa –
Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato.
●
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se sia
configurabile, o meno, in capo all’operatore economico, utilmente collocato
nella graduatoria dei concorrenti, determinata all’esito della procedura di
evidenza pubblica per la scelta del contraente, la titolarità di un
interesse giuridicamente protetto, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del
1990, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva delle prestazioni, in
vista della eventuale sollecitazione del potere dell’amministrazione di
provocare la risoluzione per inadempimento dell’appaltatore e il conseguente
interpello per il nuovo affidamento del contratto, secondo le regole dello
scorrimento della graduatoria (1).
●
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se la
disciplina dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del
2013, come modificato dal d.lgs. n. 97 del 2016, sia applicabile, in tutto o
in parte, in relazione ai documenti relativi alle attività delle
amministrazioni disciplinate dal codice dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, di inerenti al procedimento di evidenza pubblica e alla
successiva fase esecutiva, ferme restando le limitazioni ed esclusioni
oggettive previste dallo stesso codice (2).
●
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se,
in presenza di un’istanza di accesso ai documenti espressamente motivata con
esclusivo riferimento alla disciplina generale di cui alla l. n. 241 del
1990, o ai suoi elementi sostanziali, l’amministrazione, una volta accertata
la carenza del necessario presupposto legittimante della titolarità di un
interesse differenziato in capo al richiedente, ai sensi dell’art. 22, l. n.
241 del 1990, sia comunque tenuta ad accogliere la richiesta, qualora
sussistano le condizioni dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs.
n. 33 del 2013; se, di conseguenza, il giudice, in sede di esame del ricorso
avverso il diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla
disciplina ordinaria di cui alla l. n. 241 del 1990 o ai suoi presupposti
sostanziali, abbia il potere-dovere di accertare la sussistenza del diritto
del richiedente, secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva
stabiliti dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato (3).
---------------
(1) Ha chiarito la
Sezione che secondo l’interpretazione invalsa in ordine ai presupposti
legittimanti l’accesso ordinario, la situazione giuridica suscettibile di
legittimare l’istanza ostensiva, sia nella sua configurazione “finale”
(nella specie, connessa all’affidamento del servizio a seguito dello
scioglimento del rapporto contrattuale con l’impresa aggiudicataria), sia in
quella “procedimentale” (intesa, nella fattispecie in esame, alla
sollecitazione ed al controllo delle modalità di esercizio da parte della
P.A. del suo potere di risoluzione del contratto con l’aggiudicataria e di
“interpello” della seconda classificata), deve quantomeno correlarsi ad una
attuale e concreta prospettazione dei suoi presupposti costitutivi
(relativi, nella specie, al “grave inadempimento” dell’impresa affidataria):
presupposti che, essendo finalizzati a conferire i necessari requisiti di
“concretezza” ed “attualità” all’interesse legittimante, devono preesistere
all’istanza di accesso (proprio perché si tratta di verificarne, dal punto
di vista dell’Amministrazione destinataria dell’istanza e in via succedanea
nella sede giudiziale, la ammissibilità e fondatezza), e non (eventualmente)
emergere successivamente al soddisfacimento dell’azionato interesse
conoscitivo.
Nella su indicata direzione interpretativa milita il precedente di questo
Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3398 dell’11.06.2012, laddove
statuisce nel senso che “nel caso di specie, l’interesse azionato che
fonderebbe l’accesso non risulta concreto, poiché non ne viene precisata e
specificata la natura; la circostanza di essere il secondo graduato nella
procedura di gara per l’affidamento del contratto, non giustifica certo una
richiesta generalizzata di accesso di tutti gli atti attinenti alla fase
esecutiva (…). Il Collegio deve, conclusivamente, precisare che, con
riferimento agli atti attinenti alla fase esecutiva del rapporto, manca in
radice un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso, come correttamente ha evidenziato il TAR, in palese
assenza di una prospettiva di risoluzione del rapporto e in assenza di un
interesse al subentro, peraltro neppure rappresentabile in termini di
certezza (trattandosi di facoltà discrezionale rimessa alla stazione
appaltante stessa); ciò esclude la configurabilità di un interesse della
seconda classificata a conoscere la correttezza o meno dell'esecuzione
contrattuale da parte dell'aggiudicatario della gara, attesa la sua
estraneità al rapporto contrattuale in essere e ai possibili esiti della sua
esecuzione (ex art. 1372 c.c.)”.
Sull’opposto versante interpretativo, tuttavia, non può farsi a meno di
evidenziare che la seconda classificata, proprio in virtù di tale posizione,
non è assimilabile ad un quisque de populo, ai fini dell’attivazione
dell’iniziativa ostensiva: quella posizione, infatti, funge da presupposto
attributivo di un “fascio” di situazioni giuridiche, di carattere oppositivo
o sollecitatorio, finalizzate alla salvaguardia di un interesse tutt’altro
che emulativo, in quanto radicato sulla valida –anche se non pienamente satisfattiva– partecipazione alla gara.
In siffatto contesto, ed anche in considerazione dell’idoneità dell’accesso
ad integrare un autonomo “bene della vita”, distinto dalle utilità
conseguibili mediante le iniziative attivabili a seguito del suo utile
esperimento, l’interesse dell’impresa seconda classificata ad avere accesso
agli atti della fase esecutiva, in vista della sollecitazione dell’eventuale
potere risolutorio e di quello consequenziale di “interpello” della stazione
appaltante, potrebbe non presentare tratti significativamente divergenti,
anche ai fini della sua giuridica tutelabilità, rispetto all’incontestabile
interesse ostensivo della medesima concorrente a conoscere i documenti
relativi all’offerta presentata dalla aggiudicataria, indipendentemente
dalla già acquisita conoscenza dei vizi del procedimento di gara, in vista
della eventuale impugnazione del provvedimento di aggiudicazione: in
entrambi i casi perseguendosi l’interesse al subentro nella posizione di
affidataria della commessa e distinguendosi essi solo in relazione alla
natura del potere di sostituzione della prima graduata spettante
all’Amministrazione, siccome vincolato in un caso e discrezionale
nell’altro.
(2) Ha chiarito la Sezione che qualora si ritenesse che il
concorrente secondo graduato sia privo di un interesse differenziato che lo
legittima all’esercizio del diritto di accesso ordinario, ai sensi della
legge n. 241/1990, nei riguardi degli atti afferenti alla fase esecutiva
dell’appalto, diventerebbe necessario affrontare una seconda questione,
anch’essa di evidente rilievo generale, concernente l’applicabilità del
nuovo istituto dell’accesso civico generalizzato, disciplinato dall’art. 5,
d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal d.lvo n. 97 del 2016, nella
materia dei contratti pubblici, tanto nella fase di scelta del contraente,
quanto nella successiva fase di esecuzione delle prestazioni.
Il diritto di accesso civico generalizzato, infatti, si caratterizza proprio
perché del tutto sganciato dal collegamento con una posizione giuridica
differenziata. L’operatore economico, al pari di qualsiasi altro soggetto,
potrebbe esercitare tale diritto anche al semplice scopo di verificare la
correttezza dell’operato dell’amministrazione, indipendentemente
dall’esigenza di proteggere una particolare situazione giuridica soggettiva.
La Sezione ha ritenuto necessario chiarire se l’amministrazione prima e il
giudice dopo abbiano il potere, o il dovere, di riqualificare l’istanza di
accesso presentata dal richiedente, secondo i parametri della
indifferenziata legittimazione soggettiva attiva dell’accesso civico.
In punto di fatto, la parte appellante, facendo leva sulla sua qualità
(differenziata) di impresa partecipante alla gara e collocatasi in seconda
posizione nella graduatoria conclusiva, nel perseguimento della su indicata
finalità di subentrare all’impresa aggiudicataria nello svolgimento del
servizio in oggetto, sembra avere inteso (implicitamente) invocare le
pertinenti disposizioni della l. n. 241 del 1990 e non quelle,
caratterizzate dal carattere “adespota” dell’interesse legittimante
l’accesso, regolatrici del accesso civico (esercitabile, come si è visto, da
“chiunque”).
Alla soluzione della questione nel senso del carattere non preclusivo della
qualità “differenziata” spesa dalla richiedente l’accesso, ai fini della
applicazione (in via subordinata) della normativa in tema di accesso civico,
potrebbe indurre, in primo luogo, il rilievo secondo cui compete
all’Amministrazione -ed, in seconda battuta, al giudice- inquadrare sub
specie iuris la domanda del privato, di cui sia univocamente identificabile
il contenuto sostanziale (recte, nella specie, la ragione e l’oggetto della
pretesa ostensiva): sì che, anche la presenza nell’istanza di accesso di
espresse indicazioni normative (nel caso concreto, comunque, assenti) non
potrebbe reputarsi suscettibile di vincolare le sue determinazioni (né, di
riflesso, le valutazioni del giudice), dovendo aversi di mira l’obiettivo
primario di verificare la fondatezza dell’istanza alla luce del complessivo
tessuto ordinamentale, in vista del soddisfacimento dell’interesse ostensivo
finale del richiedente (sempre che, naturalmente, l’istanza non contenga
univoche indicazioni volitive del richiedente nel senso dell’applicazione
dell’una o dell’altra disciplina regolatrice dell’accesso).
Del resto, e con diretto riferimento al caso di specie, la stessa
Amministrazione, esprimendosi –con la nota impugnata in primo grado– in
senso negativo in ordine alla duplice possibile prospettazione della pretesa
ostensiva, ha ritenuto che entrambe fossero enucleabili, senza incorrere in
forzature interpretative o qualificatorie, dall’istanza della parte
appellante. Lo stesso Ente, pertanto, ha attribuito all’oggetto dell’istanza
un contenuto ampio, ovvero comprensivo delle due possibili configurazioni
del diritto di accesso, che non potrebbe essere ricusato in sede giudiziale
dall’Amministrazione appellata, se non incorrendo nel divieto di venire
contra factum proprium (non potendo invece invocarsi in tema di accesso,
almeno qualora si ritenga che venga in rilievo una posizione di diritto
soggettivo del richiedente, l’irretrattabilità del provvedimento, anche in
punto di definizione contenutistica dell’istanza del cittadino, se non nelle
forme dell’autotutela).
Peraltro, in via generale, se una domanda del cittadino difetti di un
requisito per poter trovare soddisfacimento alla stregua di una determinata
fattispecie normativa, o comunque non lo possieda col grado di intensità
all’uopo richiesto, ciò non esclude che essa possa essere esaminata secondo
una diversa fattispecie tipica, che quel requisito non contempli affatto.
In senso opposto, tuttavia, potrebbe sottolinearsi che l’accesso civico è
testualmente finalizzato (cfr. art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, così
come novellato dall'art. 6, comma 1, d.lgs. n. 97 del 25.05.2016) allo “scopo
di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico”: siffatta connotazione finalistica
dell’accesso de quo, quindi, impronterebbe “in positivo” l’istituto,
inducendo ad escluderne l’applicazione ogniqualvolta il promotore
dell’iniziativa ostensiva abbia espressamente fatto valere una
legittimazione di carattere “egoistico” (ovvero dichiarato di agire,
come nella specie, a tutela di un interesse di carattere individuale).
Ha aggiunto la Sezione che tutta la nuova normativa in materia di
trasparenza, del resto, è incentrata sull’idea della massima collaborazione
tra l’amministrazione e i cittadini.
La soluzione formalista, che conduca alla reiezione dell’accesso per il
mancato richiamo alla disciplina dell’accesso civico si porrebbe in totale
contraddizione con questi principi.
D’altro canto, il rigetto non attribuirebbe all’amministrazione alcun
concreto vantaggio, poiché il richiedente potrebbe poi reiterare l’istanza,
fondandola sul decreto n. 22 del 2013. Questa duplicazione di istanze e
procedimenti comporterebbe costi non solo per il privato, ma anche per la
stessa amministrazione.
Si deve aggiungere che la “conversione” dell’istanza non sembra
comportare pregiudizi per i terzi, dal momento che la disciplina del decreto
n. 33 del 2013 risulta, nel suo complesso, decisamente più garantista degli
interessi privati che possono essere posti in pericolo dall’esercizio del
diritto di accesso.
(3) Ha chiarito la Sezione che qualora l’Adunanza Plenaria dovesse
risolvere in senso affermativo il (secondo) quesito sottopostole,
assumerebbe infine rilievo dirimente, ai fini dell’esito della controversia,
la complessa questione interpretativa inerente alla natura del rapporto tra
la disciplina sul accesso civico e la disciplina dell’accesso ordinario,
nella specifica materia dell’accesso agli atti relativi alle procedure di
evidenza pubblica ed alla fase esecutiva del rapporto contrattuale con
l’impresa aggiudicataria.
La giurisprudenza è prevalentemente orientata nel senso di ritenere che i
due sistemi normativi coesistano, nell’attuale complessivo regime della
trasparenza dell’attività amministrativa, siccome finalizzati a regolare due
istituti autonomi, muniti di propri elementi caratterizzanti.
Con recente sentenza (Sez. V, n. 1817 del 20 marzo 2019), il Consiglio di
Stato ha infatti chiarito che “si tratta di istituti che -lungi dal
configurare un unico diritto- concretano un insieme di sistemi di garanzia,
tra loro diversificati, corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di
pretesa alla trasparenza da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5,
comma 11 d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza della
disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime di convivenza di
plurime “forme di accesso”). Onde il “sistema” dell’accesso
alle informazioni pubbliche si presenta articolato e frastagliato, esibendo
una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla presenza di
discipline speciali e settoriali, connotate di proprie peculiarità e
specificità”.
Con il medesimo precedente, è stato altresì evidenziato che l’accesso civico
o generalizzato, a differenza dell’accesso documentale “classico”, “sotto il
profilo oggettivo, realizza il massimo della “estensione” (in quanto
riferito non solo a documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni
informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima l’ostensione di
informazioni che già avrebbero dovuto essere, in quanto tali, pubblicate) e
l’accesso universale (e “totale”, che non soffre di limitazioni
contenutistiche”, mentre “sul piano dell’”intensità”, si tratta –nondimeno– di pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso documentale
(posto che –in presenza di controinteressi rilevanti– lo scrutinio di
necessità e proporzionalità appare orientato dalla massimizzazione della
tutela della riservatezza e della segretezza, in danno della trasparenza)”.
La suddetta impostazione sistematica, va aggiunto, trova il suo avallo
legislativo espresso nel disposto dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33 del
2013, a mente del quale “restano fermi gli obblighi di pubblicazione
previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati
previste dal Capo V della l. 07.08.1990, n. 241”.
Tuttavia, a fronte della su indicata ricostruzione dei rapporti tra le due
discipline
cui deve aggiungersi, per quanto di interesse in relazione allo specifico
oggetto della controversia, quella speciale di cui all’art. 53 del codice n.
50 del 2016), non può omettersi di menzionarne un’altra, di segno
alternativo, secondo la quale il d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal
d.lgs. n. 97 del 2016, avrebbe rivisitato, in chiave liberalizzante,
l’unitaria materia dell’accesso, la quale troverebbe quindi la sua attuale
regolamentazione in un quadro normativo composito, dal punto di vista della
fonte produttiva, che costituirebbe la risultante di un complesso processo
di abrogazione-coordinamento-integrazione, affidato essenzialmente
all’interprete e frutto dell’”atterraggio” (non compiutamente disciplinato
in tutti i suoi risvolti applicativi dal legislatore attraverso appositi
sistemi di raccordo) delle nuove (ed, in certo senso, dirompenti)
disposizioni di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 sul terreno normativo “classico”
di cui alla originaria l. n. 241 del 1990.
Secondo tale diverso approccio sistematico, il d.lgs. n. 33 del 2013 non
avrebbe esautorato del tutto la previgente l. n. 241 del 1990 né espunto
dall’ordinamento le specifiche forme di accesso dalla stessa disciplinate: e
tuttavia queste, unitamente all’istituto di nuovo conio dell’accesso civico,
concorrerebbero alla configurazione di un diritto unitario, pur connotato
dalla molteplicità delle sue concrete manifestazioni attuative, la cui ratio
complessiva ed aggiornata riposerebbe nella necessità di apprestare
strumenti penetrativi differenziati nelle maglie informative della P.A., al
fine di meglio calibrare la forza del principio di trasparenza in ragione
della diversità delle situazioni in cui venga concretamente invocato e della
eterogeneità degli interessi di volta in volta coinvolti.
Ha ancora chiarito la Sezione che Chiarito che -secondo la già più volte
richiamata interpretazione prevalente- l’accesso civico e quello ordinario
coesistono nel nostro ordinamento, al pari delle rispettive disposizioni
regolatrici, l’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, nel suo rinvio
alle “vigenti disposizioni” che presuppongono, ai fini dell’accesso,
il rispetto di “specifiche condizioni, modalità e limiti”, non sembra
poter essere semplicisticamente inteso come affermativo della necessità di
richiedere, ai fini dell’ostensione dei documenti in determinati
ambiti/materie (come, appunto, quella delle procedure di evidenza pubblica e
della relativa fase esecutiva, in cui vige una disposizione che richiama
espressamente la l. n. 241 del 1990), il possesso della situazione
legittimante ex art. 22, l. n. 241 del 1990: tale interpretazione, infatti,
assume a suo presupposto proprio quella che dovrebbe essere, invece, la
conclusione del ragionamento ermeneutico, ovvero la perdurante vigenza,
nella predetta materia e quale esclusiva fonte regolatrice dell’accesso ad
essa relativo, della l. n. 241 del 1990 (dando essa, in altre parole, per
scontato che la suddetta materia, con riferimento all’istituto dell’accesso,
sia rimasta immune dall’avvento innovatore del d.lgs. n. 97 del 2016).
Inoltre, l’impossibilità di istituire un immediato “ponte”
dispositivo tra l’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013 e l’art. 53,
comma 1, scaturisce dalla diversa portata delle due previsioni: l’una intesa
a fare salva la vigenza delle disposizioni che prevedono “specifiche
condizioni, modalità o limiti” all’accesso, l’altra recante un rinvio
generale ed onnicomprensivo alla l. n. 241 del 1990.
Consegue da tale rilievo che disposizioni come l’art. 53, le quali, oltre ad
essere previgenti (al d.lgs. n. 97 del 2016), fanno indistinto riferimento
alle previsioni in tema di accesso di cui alla l. n. 241 del 1990, non
potrebbero essere ricondotte alla clausola di salvezza di cui all’art.
5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, scontrandosi il carattere generale
del primo, siccome riguardante l’intero complesso normativo di cui alla l.
n. 241/1990, ed il carattere analitico del secondo, concernente “specifiche
condizioni, modalità o limiti” previsti dalla vigente disciplina in tema di
accesso.
Né, del resto, sarebbe plausibile ritenere che la clausola di cui all’art.
5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, ed in particolare il rinvio da esso
operato alle “specifiche condizioni, modalità o limiti”, si presti ad
essere intesa ed applicata in modo differenziato: come relativa, cioè,
(anche) alla su indicata limitazione soggettiva, laddove specifiche
discipline (come nella specie, per ipotesi, l’art. 53, comma 1) contengano
un generico richiamo alla l. n. 241 del 1990, ed estranea ad essa, qualora
nessuna previsione vi sia (e si tratti solo di applicare, nel suo proprio
ambito operativo, la disciplina in tema di accesso civico).
In tale seconda ipotesi, infatti, la disposizione non potrebbe sicuramente
essere invocata, come già rilevato, al fine di affermare la vigenza, anche
in riferimento all’accesso civico, di quelle “limitazioni” che, per il loro
carattere tipizzante lo specifico istituto dell’accesso ordinario (come
quella connessa alla necessaria legittimazione soggettiva del richiedente),
non si prestano ad essere trasposte all’altro, a pena di snaturamento dello
stesso.
Per concludere, potrebbe anzi ipotizzarsi –rimettendo all’Adunanza Plenaria
ogni valutazione finale sul punto– che l’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33
del 2013, nel suo rinvio ai “casi in cui l’accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”,
rechi supporto all’interpretazione opposta a quella che lo invoca al fine di
giustificare l’inapplicabilità dell’accesso civico alla materia disciplinata
dal Codice degli Appalti.
Invero, il generico riferimento normativo all’”accesso” –comprensivo
di quello civico e di quello ordinario– sembra deporre nel senso che il
legislatore ha una visione sostanzialmente unitaria dell’istituto
dell’accesso, sebbene disciplinandone in maniera diversa le singole
declinazioni attuative.
Ebbene, se così è (recte, fosse), la disposizione potrebbe essere
invocata proprio al fine di ribadire che le due richiamate discipline in
tema di accesso concorrono in ciascun ambito materiale specifico, ferma
restando la necessità di rispettare quelle “specifiche condizioni,
modalità o limiti” previsti dalla l. n. 241 del 1990: ai quali, però,
non sarebbero riconducibili quelli che, come la necessaria legittimazione
soggettiva del richiedente, non possono essere trasferiti entro il dominio
applicativo dell’accesso civico, senza dare luogo alla radicale negazione
dello stesso
(Consiglio
di Stato, Sez. III,
ordinanza 16.12.2019 n. 8501 -
commento tratto da e ink a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Natura
reale delle obbligazioni derivanti dalle
convenzioni urbanistiche .
La natura reale delle
obbligazioni contenute in una convenzione
urbanistica riguarda i soli contributi di
urbanizzazione e non anche qualsiasi
prestazione in qualche modo connessa alla
stipula di convenzioni di natura urbanistica
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.12.2019 n. 2675 -
commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
8.2. In linea generale, possono mutuarsi le
diffuse argomentazioni del Consiglio di
Stato, Sez. IV, 09.01.2019, n. 199 (riprese
anche dalla giurisprudenza successiva del
Giudice d’appello e della Sezione; cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV,
14.05.2019, n. 3127; TAR per la Lombardia –
sede di Milano, sez. II, 25.11.2019, n.
2495).
Osserva il Consiglio di Stato che “le
convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di
garantire che all'edificazione del
territorio corrisponda non solo
l'approvvigionamento delle dotazioni minime
di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo
equilibrato inserimento in rapporto al
contesto di zona che, nell'insieme,
garantiscano la normale qualità del vivere
in un aggregato urbano discrezionalmente, e
razionalmente, individuato dall'autorità
preposta alla gestione del territorio
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2009, n.
6947)”.
Pertanto, “è in quest’ottica
che devono essere letti ed interpretati gli
obblighi dedotti nelle convenzioni
urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di
cassazione ha sempre affermato che
l'obbligazione assunta di provvedere alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione
da colui che stipula una convenzione
edilizia è di natura propter rem
(cfr. Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n.
10947; nonché Cass. civ., Sez. II,
26.11.1988, n. 6382)”.
La natura reale
dell'obbligazione comporta, dunque, che “all’adempimento
della stessa saranno tenuti non solo i
soggetti che stipulano la convenzione, ma
anche quelli che richiedono la concessione,
quelli che realizzano l'edificazione ed i
loro aventi causa
(cfr. Cass. civ., 15.05.2007, n. 11196;
Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571)”.
Nello stesso senso si esprime la
giurisprudenza amministrativa “secondo la
quale l'assunzione,
all'atto della stipulazione di una
convenzione di lottizzazione, dell'impegno
-per sé, per i propri eredi e per gli altri
aventi causa- di realizzare una serie di
opere di urbanizzazione del territorio e di
costituire su una parte di quelle aree una
servitù di uso pubblico, dà luogo ad una
obbligazione propter rem, che grava quindi
sia sul proprietario del terreno che abbia
stipulato la convenzione di lottizzazione,
sia su coloro che abbiano richiesto il
rilascio della concessione edilizia
nell'ambito della lottizzazione, sia infine
sui successivi proprietari della medesima
res
(Tar Trento, sez. I, 06.11.2014, n. 394; in
senso conforme, Tar Campania, Napoli , sez.
II, 09.01.2017, n. 187; Tar Campania,
Napoli, Sez. VIII, 16.04.2014, n. 2170; Tar
Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n. 467; Tar
Sicilia, Catania, sez. I, 29.10.2004, n.
3011), per cui l'avente
causa del lottizzante assume tutti gli oneri
a carico di quest'ultimo in sede di
convenzione di lottizzazione, compresi
quelli di urbanizzazione ancora dovuti (Tar
Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n.
747), risultando inopponibile
all’Amministrazione qualsiasi previsione
contrattuale dal contenuto opposto e
qualsiasi vicenda di natura civilistica
riguardanti i beni in questione”.
In ultimo, la giurisprudenza precisa come “il
meccanismo dell'ambulatorietà passiva
dell'obbligazione, proprio della natura
propter rem, non trasforma ex se gli aventi
causa dei lottizzanti in “parti” a pieno
titolo del rapporto convenzionale, ma li
rende semplicemente corresponsabili
nell'esecuzione degli impegni presi
(Tar, Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843)”.
8.3. L’orientamento esposto è ancora di
recente affermato dal Consiglio di Stato che
richiama “il consolidato
orientamento giurisprudenziale espresso
dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato,
relativo alla natura reale delle
obbligazioni derivanti dalle convenzioni
urbanistiche, relative alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione, al cui
adempimento sono tenuti non solo i soggetti
che stipulano la convenzione, ma anche
quelli che richiedono i titoli edilizi
nell'ambito della lottizzazione, quelli che
realizzano l'edificazione ed i loro aventi
causa
(Cass. civ., 28.06.2013 n. 16401;
15.05.2007, n. 11196; id 27.08.2002, n.
12571; Cons. Stato Sez. IV, 09.01.2019, n.
199)”.
Tale orientamento, “basato
sulla specifica natura delle convenzione
urbanistiche funzionalizzate non solo alla
realizzazione di interessi privati ma
soprattutto all'interesse pubblico al
corretto assetto del territorio, può essere
riferito anche alla specifica obbligazione
di cessione gratuita delle aree prevista
nella convenzione contestata nel presente
giudizio, in quanto le clausole delle
convenzioni urbanistiche devono essere
interpretate in relazione allo scopo delle
convenzioni stesse, di garantire che
all'edificazione del territorio corrisponda
non solo l'approvvigionamento delle
dotazioni minime di infrastrutture
pubbliche, ma anche il suo equilibrato
inserimento in rapporto al contesto di zona
che, nell'insieme, garantiscano la normale
qualità del vivere in un aggregato urbano
discrezionalmente, e razionalmente,
individuato dall'autorità preposta alla
gestione del territorio; in quest'ottica che
devono essere letti ed interpretati gli
obblighi dedotti nelle convenzioni
urbanistiche
(cfr. Cons. Stato Sez. IV, 09.01.2019, n.
199, cit.)”
(Consiglio di Stato, Sez. II, 23.09.2019, n.
6282).
8.4. Va, comunque,
evidenziato come la natura reale riguardi “i
soli contributi di urbanizzazione e non
anche qualsiasi prestazione in qualche modo
connessa alla stipula di convenzioni di
natura urbanistica”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.02.2019, n.
1177). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Utilizzo
degli algoritmi nel procedimento amministrativo.
---------------
Procedimento amministrativo – Algoritmo – Ammissibilità – Elementi di
garanzia – Individuazione.
●
Il ricorso all’algoritmo nel procedimento amministrativo,
pienamente ammissibile, va correttamente inquadrato in termini di modulo
organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle
verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il
modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle
legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite
all’organo pubblico, titolare del potere. Né vi sono ragioni di principio,
ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa
vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività
autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse (1).
●
Premessa la generale ammissibilità dell’algoritmo nell’esercizio
dell’attività amministrativa, assumono rilievo fondamentale, anche alla luce
della disciplina di origine sovranazionale, due aspetti preminenti, quali
elementi di minima garanzia per ogni ipotesi di utilizzo di algoritmi in
sede decisoria pubblica:
a) la piena conoscibilità a monte del modulo utilizzato e dei criteri
applicati;
b) l’imputabilità della decisione all’organo titolare del potere, il quale
deve poter svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della
scelta e degli esiti affidati all’algoritmo (2).
---------------
(1) Ha premesso la Sezione che anche la pubblica amministrazione
debba poter sfruttare le rilevanti potenzialità della c.d. rivoluzione
digitale.
In tale contesto, il ricorso ad algoritmi informatici per l’assunzione di
decisioni che riguardano la sfera pubblica e privata si fonda sui paventati
guadagni in termini di efficienza e neutralità.
In molti campi gli algoritmi promettono di diventare lo strumento attraverso
il quale correggere le storture e le imperfezioni che caratterizzano
tipicamente i processi cognitivi e le scelte compiute dagli esseri umani,
messi in luce soprattutto negli ultimi anni da un’imponente letteratura di
economia comportamentale e psicologia cognitiva. In tale contesto, le
decisioni prese dall’algoritmo assumono così un’aura di neutralità, frutto
di asettici calcoli razionali basati su dati.
Peraltro, già in tale ottica è emersa altresì una lettura critica del
fenomeno, in quanto l’impiego di tali strumenti comporta in realtà una serie
di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli
predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati,
sistematizzati, ordinati e messi insieme, la loro interpretazione e la
conseguente formulazione di giudizi sono tutte operazioni frutto di precise
scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò ne consegue che tali
strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono
in gran parte dai criteri utilizzati e dai dati di riferimento utilizzati,
in merito ai quali è apparso spesso difficile ottenere la necessaria
trasparenza.
Sempre in linea generale va richiamato quanto già evidenziato dalla sezione
in ordine all’elemento positivo derivante dal nuovo contesto di
digitalizzazione; in proposito, non può essere messo in discussione che un
più elevato livello di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sia
fondamentale per migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini e agli
utenti.
In tale ottica lo stesso Codice dell’amministrazione digitale rappresenta un
approdo decisivo in tale direzione. I diversi interventi di riforma
dell’amministrazione susseguitisi nel corso degli ultimi decenni, fino alla
l. n. 124 del 2015, sono indirizzati a tal fine; nella medesima direzione
sono diretti gli impulsi che provengono dall’ordinamento comunitario.
Ha aggiunto che la Sezione che non si tratta, infatti, di sperimentare forme
diverse di esternazione della volontà dell’amministrazione, come nel caso
dell’atto amministrativo informatico, ovvero di individuare nuovi metodi di
comunicazione tra amministrazione e privati, come nel caso della
partecipazione dei cittadini alle decisioni amministrative attraverso social
network o piattaforme digitali, ovvero di ragionare sulle modalità di
scambio dei dati tra le pubbliche amministrazioni.
Nel caso dell’utilizzo di tali strumenti digitali, come avvenuto nella
fattispecie oggetto della presente controversia, ci si trova dinanzi ad una
situazione che, in sede dottrinaria, è stata efficacemente qualificata con
l’espressione di rivoluzione 4.0 la quale, riferita all’amministrazione
pubblica e alla sua attività, descrive la possibilità che il procedimento di
formazione della decisione amministrativa sia affidato a un software, nel
quale vengono immessi una serie di dati così da giungere, attraverso
l’automazione della procedura, alla decisione finale.
Come già evidenziato nella sentenza n. 2270 del 2019, l’utilità di tale
modalità operativa di gestione dell’interesse pubblico è particolarmente
evidente con riferimento a procedure, come quella oggetto del presente
contenzioso, seriali o standardizzate, implicanti l’elaborazione di ingenti
quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed
oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento
discrezionale.
La piena ammissibilità di tali strumenti risponde ai canoni di efficienza ed
economicità dell’azione amministrativa (art. 1, l. n. 241 del 1990), i
quali, secondo il principio costituzionale di buon andamento dell’azione
amministrativa (art. 97 Cost.), impongono all’amministrazione il
conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse e
attraverso lo snellimento e l’accelerazione dell’iter procedimentale.
Ha ancora chiarito la Sezione che l'utilizzo di procedure informatizzate non
può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro
ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa.
In tale contesto, infatti, il ricorso all’algoritmo va correttamente
inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale
ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento
amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa,
da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle
finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere.
Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo
all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe
espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico
interesse.
In disparte la stessa sostenibilità a monte dell’attualità di una tale
distinzione, atteso che ogni attività autoritativa comporta una fase
quantomeno di accertamento e di verifica della scelta ai fini attribuiti
dalla legge, se il ricorso agli strumenti informatici può apparire di più
semplice utilizzo in relazione alla c.d. attività vincolata, nulla vieta che
i medesimi fini predetti, perseguiti con il ricorso all’algoritmo
informatico, possano perseguirsi anche in relazione ad attività connotata da
ambiti di discrezionalità.
Piuttosto, se nel caso dell’attività vincolata ben più rilevante, sia in
termini quantitativi che qualitativi, potrà essere il ricorso a strumenti di
automazione della raccolta e valutazione dei dati, anche l’esercizio di
attività discrezionale, in specie tecnica, può in astratto beneficiare delle
efficienze e, più in generale, dei vantaggi offerti dagli strumenti stessi.
(2) Ha chiarito la Sezione che sul versante della piena
conoscibilità, rilievo preminente ha il principio della trasparenza, da
intendersi sia per la stessa p.a. titolare del potere per il cui esercizio
viene previsto il ricorso allo strumento dell’algoritmo, sia per i soggetti
incisi e coinvolti dal potere stesso.
In relazione alla stessa p.a., nel precedente richiamato la sezione ha già
chiarito come il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione
robotizzata (ovvero l’algoritmo) debba essere “conoscibile”, secondo
una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche
quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio
differente da quello giuridico.
Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli
aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al
meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella
procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti.
Ciò al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del
procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità
stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale
procedimento e affinché siano chiare –e conseguentemente sindacabili– le
modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato.
In proposito, va ribadito che, la “caratterizzazione multidisciplinare”
dell’algoritmo (costruzione che certo non richiede solo competenze
giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative) non
esime dalla necessità che la “formula tecnica”, che di fatto
rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella
“regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e
comprensibile. Con le già individuate conseguenze in termini di conoscenza e
di sindacabilità (cfr. punto 8.3 della motivazione della sentenza 2270 cit.).
In senso contrario non può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle
imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo
al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne
accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza.
In relazione ai soggetti coinvolti si pone anche un problema di gestione dei
relativi dati. Ad oggi nelle attività di trattamento dei dati personali
possono essere individuate due differenti tipologie di processi decisionali
automatizzati: quelli che contemplano un coinvolgimento umano e quelli che,
al contrario, affidano al solo algoritmo l'intero procedimento.
Il più recente Regolamento europeo in materia (2016/679), concentrandosi su
tali modalità di elaborazione dei dati, integra la disciplina già contenuta
nella Direttiva 95/46/CE con l'intento di arginare il rischio di trattamenti
discriminatori per l'individuo che trovino la propria origine in una cieca
fiducia nell'utilizzo degli algoritmi.
In particolare, in maniera innovativa rispetto al passato, gli articoli 13 e
14 del Regolamento stabiliscono che nell'informativa rivolta all'interessato
venga data notizia dell'eventuale esecuzione di un processo decisionale
automatizzato, sia che la raccolta dei dati venga effettuata direttamente
presso l’interessato sia che venga compiuta in via indiretta.
Una garanzia di particolare rilievo viene riconosciuta allorché il processo
sia interamente automatizzato essendo richiesto, almeno in simili ipotesi,
che il titolare debba fornire “informazioni significative sulla logica
utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale
trattamento per l’interessato”. In questo senso, in dottrina è stato
fatto notare come il legislatore europeo abbia inteso rafforzare il
principio di trasparenza che trova centrale importanza all'interno del
Regolamento.
L’interesse conoscitivo della persona è ulteriormente tutelato dal diritto
di accesso riconosciuto dall'articolo 15 del Regolamento che contempla, a
sua volta, la possibilità di ricevere informazioni relative all'esistenza di
eventuali processi decisionali automatizzati.
Incidentalmente, è stato evidenziato come l’articolo 15, diversamente dagli
articoli 13 e 14, abbia il pregio di prevedere un diritto azionabile
dall'interessato e non un obbligo rivolto al titolare del trattamento, e
permette inoltre di superare i limiti temporali posti dagli articoli 13 e
14, consentendo al soggetto di acquisire informazioni anche qualora il
trattamento abbia avuto inizio, stia trovando esecuzione o abbia addirittura
già prodotto una decisione. Ciò, ai fini in esame, conferma ulteriormente la
rilevanza della trasparenza per i soggetti coinvolti dall’attività
amministrativa informatizzata in termini istruttori e decisori.
Sul versante della verifica degli esiti e della relativa imputabilità, deve
essere garantita la verifica a valle, in termini di logicità e di
correttezza degli esiti. Ciò a garanzia dell’imputabilità della scelta al
titolare del potere autoritativo, individuato in base al principio di
legalità, nonché della verifica circa la conseguente individuazione del
soggetto responsabile, sia nell’interesse della stessa p.a. che dei soggetti
coinvolti ed incisi dall’azione amministrativa affidata all’algoritmo.
In tale contesto, lo stesso Regolamento predetto affianca alle garanzie
conoscitive assicurate attraverso l'informativa e il diritto di accesso, un
espresso limite allo svolgimento di processi decisionali interamente
automatizzati. L'articolo 22, paragrafo 1, riconosce alla persona il diritto
di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un
coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o
incidano in modo analogo sull'individuo. Quindi occorre sempre
l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in
grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata
dall’algoritmo.
In tema di imputabilità occorre richiamare, quale elemento rilevante di
inquadramento del tema, la Carta della Robotica, approvata nel febbraio del
2017 dal Parlamento Europeo. Tale atto esprime in maniera efficace questi
passaggi, laddove afferma che “l’autonomia di un robot può essere
definita come la capacità di prendere decisioni e metterle in atto nel mondo
esterno, indipendentemente da un controllo o un'influenza esterna; (…) tale
autonomia è di natura puramente tecnologica e il suo livello dipende dal
grado di complessità con cui è stata progettata l'interazione di un robot
con l'ambiente; (…) nell'ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni
autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la
responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non
consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la
responsabilità del risarcimento né di esigere da tale soggetto la
riparazione dei danni causati".
Quindi, anche al fine di applicare le norme generali e tradizionali in tema
di imputabilità e responsabilità, occorre garantire la riferibilità della
decisione finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge
attributiva del potere.
A conferma di quanto sin qui rilevato, in termini generali dal diritto
sovranazionale emergono tre principi, da tenere in debita considerazione
nell’esame e nell’utilizzo degli strumenti informatici.
In primo luogo, il principio di conoscibilità, per cui ognuno ha diritto a
conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo
riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla
logica utilizzata.
Il principio, in esame è formulato in maniera generale e, perciò,
applicabile sia a decisioni prese da soggetti privati che da soggetti
pubblici, anche se, nel caso in cui la decisione sia presa da una p.a., la
norma del Regolamento costituisce diretta applicazione specifica dell’art.
42 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (“Right to a good
administration”), laddove afferma che quando la Pubblica Amministrazione
intende adottare una decisione che può avere effetti avversi su di una
persona, essa ha l’obbligo di sentirla prima di agire, di consentirle
l’accesso ai suoi archivi e documenti, ed, infine, ha l’obbligo di “dare
le ragioni della propria decisione”.
Tale diritto alla conoscenza dell’esistenza di decisioni che ci riguardino
prese da algoritmi e, correlativamente, come dovere da parte di chi tratta i
dati in maniera automatizzata, di porre l’interessato a conoscenza, va
accompagnato da meccanismi in grado di decifrarne la logica. In tale ottica,
il principio di conoscibilità si completa con il principio di
comprensibilità, ovverosia la possibilità, per riprendere l’espressione del
Regolamento, di ricevere “informazioni significative sulla logica
utilizzata”.
In secondo luogo, l’altro principio del diritto europeo rilevante in materia
(ma di rilievo anche globale in quanto ad esempio utilizzato nella nota
decisione Loomis vs. Wisconsin), è definibile come il principio di
non esclusività della decisione algoritmica.
Nel caso in cui una decisione automatizzata “produca effetti giuridici
che riguardano o che incidano significativamente su una persona”, questa
ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente
su tale processo automatizzato (art. 22 Reg.). In proposito, deve comunque
esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare,
validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed
informativo il modello viene definito come HITL (human in the loop),
in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina
interagisca con l’essere umano.
In terzo luogo, dal considerando n. 71 del Regolamento 679/2016 il diritto
europeo trae un ulteriore principio fondamentale, di non discriminazione
algoritmica, secondo cui è opportuno che il titolare del trattamento
utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione,
mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di
garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano
inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori e al fine di
garantire la sicurezza dei dati personali, secondo una modalità che tenga
conto dei potenziali rischi esistenti per gli interessi e i diritti
dell'interessato e che impedisca tra l'altro effetti discriminatori nei
confronti di persone fisiche sulla base della razza o dell'origine etnica,
delle opinioni politiche, della religione o delle convinzioni personali,
dell'appartenenza sindacale, dello status genetico, dello stato di salute o
dell'orientamento sessuale, ovvero che comportano misure aventi tali
effetti.
In tale contesto, pur dinanzi ad un algoritmo conoscibile e comprensibile,
non costituente l’unica motivazione della decisione, occorre che lo stesso
non assuma carattere discriminatorio.
In questi casi, come afferma il considerando, occorrerebbe rettificare i
dati in “ingresso” per evitare effetti discriminatori nell’output
decisionale; operazione questa che richiede evidentemente la necessaria
cooperazione di chi istruisce le macchine che producono tali decisioni
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.12.2019 n. 8472 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul piano generale della normativa edilizia, l’art. 32 del
dpr 380/2001 prevede che costituisce variazione
essenziale il mutamento di destinazione d’uso che implichi variazioni degli
standard urbanistici.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che
«anche un mutamento di destinazione d'uso meramente funzionale, ovvero senza
la realizzazione di opere edilizie, può determinare una variazione degli
standard urbanistici ed è in grado di incidere sul tessuto urbanistico della
zona».
---------------
Sul piano specifico del rapporto tra edilizia ed attività religiosa, la
giurisprudenza costituzionale ha affermato che la legislazione, statale e
regionale, nella disciplina dell’assetto del territorio, non deve prevedere
misure che siano in grado di incidere sul principio di laicità dello Stato,
mediante prescrizioni che non assicurino il pluralismo confessionale e
culturale.
In particolare, la Corte costituzionale si è occupata delle
questioni di legittimità costituzionali di leggi regionali che imponevano,
per la costruzione di edifici di culto, il rispetto di requisiti ulteriori
per le confessioni religiose che non avessero stipulato, ai sensi dell’art.
8, comma 3, Cost., un’intesa con lo Stato sulla base di una legge.
La Corte ha chiarito, inoltre, che è legittimo un piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, «alla duplice condizione che essa persegua lo
scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature
religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga
adeguatamente conto della necessità di favorire l'apertura di luoghi di
culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche
agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)».
---------------
Nella fattispecie in esame, la
destinazione dell’area è quella industriale, riconducibile alla categoria
“produttiva e direzionale” e l’amministrazione comunale ha accertato
che «all’interno del capannone si trovavano un centinaio di persone
intente alla preghiera musulmana», aggiungendosi che «il caseggiato
presentava un ambiente unico e le persone erano inginocchiate in preghiera
sui tappetini e da un piccolo palco un uomo con microfono recitava le
preghiere».
La Sezione ritiene che tale accertamento istruttorio abbia un contenuto
univoco nel senso del cambio di destinazione di uso dell’immobile per
finalità di culto che risulta non compatibile con la destinazione legale
dell’area.
---------------
1.˗ Il Comune di Cinisello Balsamo, con ordinanza del 02.07.2014, n. 173,
ha ingiunto alla società Fi.Ev. s.r.l., quale proprietaria, e
all’associazione “Comunità Islamica di Cinisello Balsamo” (d’ora innanzi
solo Associazione) quale locataria, il ripristino dello stato dei luoghi e
della destinazione d’uso assentita, con riguardo ad abusi edilizi che
sarebbero stati commessi sull’immobile, composto da piano terra e rialzato,
sito in via ... n. 11.
In particolare, l’amministrazione comunale aveva
accertato che nel suddetto immobile, collocano in area a destinazione
industriale, era stato accertato lo svolgimento di attività di preghiera non
consentita, aggiungendosi che non sarebbe consentito neanche lo svolgimento
di attività culturale.
2.˗ L’Associazione ha impugnato la suddetta ordinanza innanzi al Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia, che, con sentenza 17.02.2016, n. 3441, ha rigettato il ricorso.
3.˗ La ricorrente in primo grado ha proposto appello.
4.˗ Si è costituito in giudizio il Comune, chiedendo il rigetto
dell’appello.
5.˗ La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 24.10.2019.
6.˗ L’appellante ha prospettato plurimi motivi di ricorso, strettamente
connessi e, in alcuni punti, sovrapponibili, che possono essere sintetizzati
nel modo che segue.
L’ordinanza impugnata sarebbe illegittima e la sentenza impugnata erronea,
in quanto:
i) la ritenuta esistenza di un notevole afflusso presso i locali
dell’Associazione non sarebbe suffragata da una adeguata e congrua verifica
istruttoria, non potendosi ritenere sufficiente la redazione di un solo
verbale di accesso da parte della polizia locale in data 25.04.2014;
ii) l’attività culturale svolta dall’associazione culturale,
unitamente alle eventuali manifestazioni di «momenti di preghiera», deve
essere qualificata legittima e non potrebbe, pertanto, ritenersi idonea a
determinare un cambio di destinazione (si afferma che «i membri
dell’associazione appellante che siano di religione musulmana hanno tutto il
diritto di manifestare la propria religione nei tempi e nei modi prescritti
dai precetti della loro fede, a nulla importando che tali momenti possano
occasionalmente coincidere con la loro presenza all’interno dei locali
associativi»);
iii) i documenti che «raffigurano quaranta persone sedute intente
in attività conviviali, nonché diciannove bambini intenti a seguire un
adulto che illustra l’alfabeto arabo», non potrebbero essere considerati
elementi istruttori adeguati;
iv) non sarebbero stati rinvenuti «arredi e paramenti sacri»,
nonché «l’eventuale accesso, libero ed indiscriminato da parte di ipotetici
fedeli che intendano accostarsi all’attività di culto»;
v) non si comprenderebbe quale sia la correlazione tra l’asserito
mutamento di destinazione d’uso e la contestata «non realizzazione della
rampa interna di accesso al piano rialzato», nonché la realizzazione di
«opere di modifica dei locali dello stesso piano», realizzate prima
dell’insediamento dell’appellante nei locali in esame.
I motivi non sono fondati.
Sul piano generale della normativa edilizia, l’art. 32 del decreto
legislativo 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia) prevede che costituisce variazione
essenziale il mutamento di destinazione d’uso che implichi variazioni degli
standard urbanistici.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che
«anche un mutamento di destinazione d'uso meramente funzionale, ovvero senza
la realizzazione di opere edilizie, può determinare una variazione degli
standard urbanistici ed è in grado di incidere sul tessuto urbanistico della
zona» (Cons. Stato, sez. VI, 18.07.2019, n. 5041).
L'art. 17, comma 1, lett. n), del decreto legge 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha introdotto
l’art. 23-ter del d.lgs. n. 380 del 2001 (la cui rubrica reca «Mutamento
d'uso urbanisticamente rilevante»), il quale, recependo l’indirizzo
interpretativo sopra riportato, ha affermato che «salva diversa
previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante
della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della
singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non
accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d)
rurale».
Sul piano specifico del rapporto tra edilizia ed attività religiosa, la
giurisprudenza costituzionale ha affermato che la legislazione, statale e
regionale, nella disciplina dell’assetto del territorio, non deve prevedere
misure che siano in grado di incidere sul principio di laicità dello Stato,
mediante prescrizioni che non assicurino il pluralismo confessionale e
culturale.
In particolare, la Corte costituzionale si è occupata delle
questioni di legittimità costituzionali di leggi regionali che imponevano,
per la costruzione di edifici di culto, il rispetto di requisiti ulteriori
per le confessioni religiose che non avessero stipulato, ai sensi dell’art.
8, comma 3, Cost., un’intesa con lo Stato sulla base di una legge (Corte
cost. 24.03.2016 n. 63).
La Corte ha chiarito, inoltre, che è legittimo un piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, «alla duplice condizione che essa persegua lo
scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature
religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga
adeguatamente conto della necessità di favorire l'apertura di luoghi di
culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche
agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)»
(Corte cost. 05.12.2019, n. 254).
Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato che la
destinazione dell’area sia quella industriale, riconducibile alla categoria
“produttiva e direzionale”.
L’amministrazione comunale ha accertato, a seguito di un sopralluogo del
25.04.2014, come risulta dal verbale richiamato dal provvedimento impugnato,
che «all’interno del capannone si trovavano un centinaio di persone
intente alla preghiera musulmana», aggiungendosi che «il caseggiato
presentava un ambiente unico e le persone erano inginocchiate in preghiera
sui tappetini e da un piccolo palco un uomo con microfono recitava le
preghiere». Sono state depositate agli atti del processo le relative
foto.
La Sezione ritiene che tale accertamento istruttorio abbia un contenuto
univoco nel senso del cambio di destinazione di uso dell’immobile per
finalità di culto che risulta non compatibile con la destinazione legale
dell’area.
Tale istruttoria non può ritenersi, come sostenuto dall’appellante,
inadeguata. Gli elementi di fatto risultati dall’accertamento dei luoghi
sono sufficienti per ritenere che l’immobile venisse utilizzato per scopi
non compatibili con quelli autorizzati.
Venendo in rilievo un immobile che si trova nella disponibilità
dell’appellante, quest’ultimo avrebbe potuto addurre elementi probatori
idonei a dimostrare che concretamente vi sia un costante impiego
dell’immobile per finalità industriale. Né varrebbe rilevare che si è
trattata di una mera manifestazione di attività culturale, in quanto, per
come essa è stata indicata dallo stesso appellante, non risulta anch’essa
comunque compatibile con la destinazione industriale dell’immobile.
Tale accertamento, disposto dall’amministrazione comunale, non ha in alcun
modo violato il principio costituzionale di laicità dello Stato e di
rispetto della libertà religiosa, in quanto la sanzione imposta prescinde
dalla tipologia di confessione religiosa che viene in rilievo, trattandosi
di un divieto generalizzato di utilizzo di un bene per uno scopo diverso da
quello autorizzato dalla legge.
La motivazione sopra indicata ha valenza assorbente e legittima di per sé il
provvedimento adottato dal Comune.
Non occorre, pertanto, esaminare le ulteriori doglianze dell’appellante, in
quanto esse non sono, comunque, idoneo ad incidere sull’esito della
decisione finale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.12.2019 n. 8454 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Invarianza
della soglia di anomalia dell'offerta.
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Contratti della pubblica amministrazione – Offerte anomale – Invarianza
della soglia di anomalia – Ratio.
Il principio di invarianza della soglia di anomalia
(art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016) ha la funzione di assicurare
stabilità agli esiti finali della procedura di gara; con tale norma la legge
intende evitare che, nel caso di esclusione dell’aggiudicatario o di un
concorrente dalla procedura di gara per mancata dimostrazione dei requisiti
dichiarati, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla
determinazione della soglia di anomalia delle offerte, con l'inconveniente
del conseguente prolungamento dei tempi della gara e del dispendio di
risorse umane ed economiche (1).
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(1) Cons. St., sez. V, 22.01.2019, n. 572.
Ha chiarito il Tar che l’invarianza della soglia, portata alle sue estreme
conseguenze, impedirebbe di fatto, specie in una procedura quale quella in
questione caratterizzata dall’inversione procedimentale e dal ricalcolo
della soglia successivamente al soccorso istruttorio, la valutazione delle
censure relative a “variazioni” intervenute nella fase che precede
l’aggiudicazione aventi ad oggetto proprio le stesse, quasi che il
legislatore abbia inteso cristallizzare (e quindi rendere insindacabile)
ogni attività della stazione appaltante, comprese la contestata attivazione
del soccorso istruttorio e la conseguente esclusione, che incidono, nella
procedura in questione, sul “ricalcolo” della soglia.
La ratio della disposizione legislativa è, però, come sopra chiarito,
del tutto diversa, essendo essa rivolta esclusivamente ad evitare che i
procedimenti per gli affidamenti si protraggano eccessivamente e che i
provvedimenti di aggiudicazione possano venire ‘ribaltati’ più volte
-finanche dopo l’esaurimento della fase preordinata al raggiungimento di un
assetto definitivo- generando incertezza ed inefficienza, con conseguenti
effetti pregiudizievoli per le ditte, per il mercato e per la stessa
collettività.
Il principio dell’invarianza in questione, insomma, non può essere invocato
per cristallizzare soluzioni incoerenti (per non dire illegittime) laddove
venga censurata la sussistenza dei presupposti per l’attivazione del
soccorso, il cui mancato riscontro sia stato determinante ai fini della
rideterminazione della soglia di anomalia, senza che ciò risulti di
oggettivo presidio ad altri e di pari rango valori giuridici, rispetto al
diritto di difesa e al “diritto alla giusta aggiudicazione”.
Precludere il chiesto controllo sulla legittimità (o meno) dell’attivazione
del soccorso istruttorio in nome dell’invarianza della soglia di anomalia
significherebbe, specie nella ipotesi di inversione procedimentale in esame
(caratterizzata dall’esame delle offerte economiche prima della verifica
della documentazione amministrativa) sottrarre al sindacato del giudice
l’azione dell’Amministrazione e la sua conformità (o meno) all’intero
complesso delle norme concernenti i requisiti di ordine generale per la
partecipazione alle gare d’appalto; significherebbe precludere ogni forma di
tutela ripristinatoria e/o reintegratoria a chi ritenga di essere stato leso
da tale attività amministrativa, asseritamente illegittima, che ha portato
al ricalcolo della soglia e, secondo un orientamento giurisdizionale,
financo a precludere, in tali ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria:
il che non appare conforme ai principi costituzionali ed eurounitari, oltre
che alla stessa ratio del detto principio di invarianza, per come sopra
esposto.
Ne consegue che una lettura della norma in esame (art. 95, comma 15, cit.,
coordinata nel caso con l’art. 36, comma 5, cit.) orientata ai suddetti
principi non può condurre a ritenere inammissibile il ricorso laddove esso,
come nel caso, non miri a “variare” la soglia di anomalia e a
procedere ad una sua nuova “determinazione”, quanto piuttosto a
dimostrare che, nella procedura in esame, non sussistevano i presupposti per
il “ricalcolo” della soglia (previsto dall’art. 36 quinto comma del
d.lgs. n. 50 del 2016 illo tempore vigente e dalla lex specialis),
che pertanto doveva rimanere quella iniziale, con conseguente aggiudicazione
in favore della ricorrente.
Ha aggiunto il Tar che in una procedura di gara soggetta alla disciplina
dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 nella vigenza del d.l. n. 32
del 2019, la previsione dell’art. 95, comma 15 cit., laddove fa riferimento
alla controversa “fase amministrativa di prima ammissione” (nella
versione temporaneamente vigente al momento della gara, eliminata dal testo
attuale con la conversione del d.l. n. 32 del 2019 in legge) va coordinata
con la speciale disciplina dell’art. 36 citato e delle norme di gara, le
quali prevedono espressamente il ricalcolo della media all’esito della
verifica dei requisiti.
Pertanto, nella fattispecie, il momento a cui ancorare l’invarianza della
soglia è quello successivo alla verifica con la rideterminazione della
soglia (TAR Catania-Catania, Sez.
I,
sentenza 12.12.2019 n. 2980 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2.1. Ritiene il Collegio che l’eccezione debba essere disattesa nei
termini che seguono.
2.1.1. Innanzitutto, va ritenuto che l’articolo 95, comma 15 cit. -laddove
fa riferimento alla controversa “fase amministrativa di prima ammissione”
(nella versione temporaneamente vigente al momento della gara ed eliminata
dal testo attuale con la conversione del d.l. 32/2019 in legge)-, nel caso
di specie, va coordinato con le previsioni speciali dell’articolo 36 citato
(allora vigente) e delle norme di gara, le quali prevedono espressamente il
ricalcolo della media all’esito della verifica dei requisiti. Pertanto,
nella fattispecie, il momento a cui ancorare l’invarianza della soglia è
quello successivo alla verifica con la rideterminazione della soglia.
Tuttavia, la tesi della controinteressata secondo cui la cristallizzazione
della soglia definitiva renderebbe inammissibile la domanda di parte
ricorrente finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto, nel caso non
convince e ciò per varie ragioni.
2.1.2. Va ricordato, conformemente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza di
appello, che il principio di invarianza della soglia di anomalia ha la
funzione di assicurare stabilità agli esiti finali della procedura di gara.
Con tale norma la legge intende evitare che, nel caso di esclusione
dell’aggiudicatario o di un concorrente dalla procedura di gara per mancata
dimostrazione dei requisiti dichiarati, la stazione appaltante debba
retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia
delle offerte, con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi
della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche (Cons. St., sez.
V, 22.01.2019, n. 572; C.G.A. n. 604/2019).
Orbene, nel caso in questione, parte ricorrente non mira alla
rideterminazione della soglia di anomalia (adducendo un “nuovo”
motivo di esclusione o di illegittima ammissione), ma ritiene che la
cristallizzazione vada riferita alla prima soglia, in base alla quale la
stessa sarebbe risultata aggiudicataria; ritiene in particolare, con il
primo motivo, che il soccorso istruttorio non sia stato legittimamente
attivato e che la mancata integrazione documentale da parte delle imprese
(quantomeno non più interessate alla integrazione una volta noti i ribassi)
non poteva condurre all’esclusione, non venendo in considerazione carenze
essenziali previste dalla legge a pena di esclusione.
Va poi notato che l’invarianza della soglia, portata alle sue estreme
conseguenze, impedirebbe di fatto, specie in una procedura quale quella in
questione caratterizzata dall’inversione procedimentale e dal ricalcolo
della soglia successivamente al soccorso istruttorio, la valutazione delle
censure relative a “variazioni” intervenute nella fase che precede
l’aggiudicazione aventi ad oggetto proprio le stesse, quasi che il
legislatore abbia inteso cristallizzare (e quindi rendere insindacabile)
ogni attività della stazione appaltante, comprese la contestata attivazione
del soccorso istruttorio e la conseguente esclusione, che incidono, nella
procedura in questione, sul “ricalcolo” della soglia.
La ratio della disposizione legislativa è, però, come sopra chiarito,
del tutto diversa, essendo essa rivolta esclusivamente ad evitare che i
procedimenti per gli affidamenti si protraggano eccessivamente e che i
provvedimenti di aggiudicazione possano venire ‘ribaltati’ più volte
-finanche dopo l’esaurimento della fase preordinata al raggiungimento di un
assetto definitivo- generando incertezza ed inefficienza, con conseguenti
effetti pregiudizievoli per le ditte, per il mercato e per la stessa
collettività (così CGARS, 11.01.2017 n. 14 e CGARS n. 230/2018).
Il principio dell’invarianza in questione, insomma, non può essere invocato
per cristallizzare soluzioni incoerenti (per non dire illegittime) laddove
venga censurata la sussistenza dei presupposti per l’attivazione del
soccorso, il cui mancato riscontro sia stato determinante ai fini della
rideterminazione della soglia di anomalia, senza che ciò risulti di
oggettivo presidio ad altri e di pari rango valori giuridici, rispetto al
diritto di difesa e al “diritto alla giusta aggiudicazione” (C.G.A.R.S.
n. 230/2018).
Precludere il chiesto controllo sulla legittimità (o meno) dell’attivazione
del soccorso istruttorio in nome dell’invarianza della soglia di anomalia
significherebbe, specie nella ipotesi di inversione procedimentale in esame
(caratterizzata dall’esame delle offerte economiche prima della verifica
della documentazione amministrativa) sottrarre al sindacato del giudice
l’azione dell’Amministrazione e la sua conformità (o meno) all’intero
complesso delle norme concernenti i requisiti di ordine generale per la
partecipazione alle gare d’appalto; significherebbe precludere ogni forma di
tutela ripristinatoria e/o reintegratoria a chi ritenga di essere stato leso
da tale attività amministrativa, asseritamente illegittima, che ha portato
al ricalcolo della soglia e, secondo un orientamento giurisdizionale,
financo a precludere, in tali ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria
(C.S., sez. V, n. 2609/2015): il che non appare conforme ai principi
costituzionali ed eurounitari, oltre che alla stessa ratio del detto
principio di invarianza, per come sopra esposto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Convenzione derogatoria della distanza tra
fabbricati.
Il TAR Milano, in un
ricorso con il quale parte ricorrente
lamentava la violazione delle distanze
legali non già in relazione all’immobile di
sua proprietà ma in relazione a due diverse
costruzioni, di proprietà di terzi, oggetto,
tra loro, di apposita convenzione
derogatoria, preso atto che nel giudizio non
vengono in evidenza concreti pericoli di
peggioramento sia delle condizioni
igienico-sanitarie nelle abitazioni servite
dalle finestre dei due immobili, sia delle
condizioni igienico-sanitarie dell’immobile
di proprietà ricorrente, precisa che tale
convenzione non può essere considerata
«nulla» in considerazione che le relative
previsioni rientravano nella disponibilità
delle parti, come, peraltro, confermato
dalla eliminazione, in linea di principio,
della inderogabilità delle distanze voluta,
recentemente, dall’art. 2-bis del d.P.R. n.
380 del 2001, in passato affermata da una
parte della giurisprudenza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.12.2019 n. 2652 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1.- Oggetto della domanda di annullamento è
la nota prot. n. 2769 del 10.05.2012 con la
quale il Comune di San Zenone al Lambro ha
comunicato alla ricorrente di aver
autorizzato il sig. Da.Pa.,
controinteressato, alla prosecuzione dei
lavori oggetto di una D.I.A. dallo stesso
presentata in data 05.12.2011 (prot. n.
7250/2011, cfr. produzione di parte
ricorrente) e relativa all’immobile ivi
indicato.
Rispetto a tale D.I.A. parte ricorrente
aveva chiesto l’adozione di misure di
autotutela, volte ad impedire i lavori in
ragione della asserita violazione delle
distanze con l’edificio di proprietà di un
terzo, sig. Po., anch’esso odierno
controinteressato.
2.- Il ricorso si articola in tre motivi di
doglianza con i quali la ricorrente ha
esposto i vizi come di seguito rubricati:
1) Violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968; eccesso di potere
per difetto di istruttoria e travisamento.
Sarebbe errata l’affermazione del Comune
secondo cui al caso di specie non si
applicherebbe la previsione dell’art. 9 del
d.m. n. 1444 del 1968 relativa alle zone B
–quale è quella interessata al procedimento
edilizio– ma quella, nella stessa
disposizione contenuta, relativa alle zone C
in forza della quale in assenza di uno
sviluppo superiore a 12 metri deve, in tesi
di parte pubblica, ritenersi non violata la
disciplina sulle distanze.
Altrettanto errata sarebbe l’affermazione
–anch’essa contenuta nel provvedimento
impugnato– secondo cui non sarebbe da
considerarsi parete finestrata «quella in
cui siano aperte delle semplici luci e non
delle vedute», sul rilievo che sulla
parete dell’edificio di proprietà Po. che
fronteggia la proprietà Pa. risulterebbero
aperte tre finestre;
2) Violazione art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 sotto altro profilo;
eccesso di potere per carenza di
istruttoria; violazione art. 42, c. 9, l.r.
Lomb. n. 12 del 2005. I sigg.ri Pa. e Po.
hanno sottoscritto una scrittura privata «di
diritto di edificazione a confine»,
asseritamente affetta da nullità poiché in
contrasto con le disposizioni del predetto
d.m. n. 1444 del 1968, le quali sarebbero
inderogabili;
3) Violazione dell’art. 11, punti 2, 3, 6 e 9 delle norme tecniche
di attuazione del P.R.G.; eccesso di potere
per difetto di istruttoria e di motivazione
e violazione art. 42, c. 9, l.r. Lomb. n. 12
del 2005. Nel calcolo della superficie
fondiaria, la D.I.A. avrebbe
illegittimamente compreso anche una porzione
di area di proprietà del titolare destinata
dal P.R.G. a sedime stradale con conseguente
–asserita– sovrastima dell’indice di
utilizzazione fondiaria e creazione di un
volume maggiore rispetto a quello
ammissibile.
...
7.- L’interesse fatto valere in giudizio da
parte ricorrente è quello inerente alla
salubrità dei luoghi la quale sarebbe messa
in discussione dalla asserita violazione
delle regole legali sulle distanze in cui
sarebbe incorsa l’Amministrazione: questa
avrebbe, in tesi, dovuto impedire la
realizzazione dei lavori oggetto della DIA.
Sostiene parte ricorrente con il secondo
motivo di ricorso che, nel caso di specie,
poiché viene in rilievo una zona di
completamento B3, avrebbe dovuto rispettarsi
la distanza prevista per le zone B dall’art.
9 d.m. n. 1444 del 1968 in presenza di
finestre che, in tesi, non possono essere
qualificate come luci.
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Deve essere ricordato che nel caso di specie
parte ricorrente lamenta la violazione delle
distanze legali non già in relazione
all’immobile di sua proprietà ma in
relazione a due diverse costruzioni, di
proprietà di terzi, oggetto, tra loro, di
apposita convenzione derogatoria
sottoscritta in data 05.12.2011. Nel
giudizio non vengono in evidenza concreti
pericoli di peggioramento sia delle
condizioni igienico-sanitarie nelle
abitazioni servite dalle finestre dei due
immobili, sia delle condizioni
igienico-sanitarie dell’immobile di
proprietà ricorrente.
Tale convenzione, peraltro, non può essere
considerata «nulla» in considerazione
che le relative previsioni rientravano nella
disponibilità delle parti (in tal senso,
Cons. Stato n. 3543 del 2013), come,
peraltro, confermato dalla eliminazione, in
linea di principio, della inderogabilità
delle distanze voluta, recentemente,
dall’art. 2-bis del d. P.R. n. 380 del 2001,
in passato affermata da una parte della
giurisprudenza.
8.- In relazione all’asserito illegittimo
inserimento nel calcolo della superficie
fondiaria della porzione di area di
proprietà privata destinata dal PRG a sedime
stradale, il motivo si disvela anch’esso
privo di fondatezza poiché, allo stato e
sulla base degli elementi versati in atti,
l’area non può ritenersi integrare le
caratteristiche di opera di urbanizzazione.
9.- Alla luce delle suesposte considerazioni
il ricorso deve essere rigettato. |
APPALTI: Partecipazione
alle commissioni giudicatrici di soggetti
che siano già intervenuti nella procedura
concorsuale.
Il TAR Milano, preso
atto che in una procedura di evidenza
pubblica finalizzata a dare in gestione un
impianto sportivo comunale, il dirigente del
Comune ha sostanzialmente preso parte a
tutti gli atti della procedura, a partire
dalla redazione e adozione del bando fino
alla determina finale di aggiudicazione,
svolgendo finanche le funzioni di
responsabile del procedimento e componente e
presidente della Commissione, ritiene tale
modus operandi non corretto, in quanto si
pone in contrasto con il principio di tutela
dell’imparzialità e dell’oggettività nelle
procedure selettive, il quale mira a
prevenire il pericolo concreto di possibili
effetti distorsivi prodotti dalla
partecipazione alle commissioni giudicatrici
di soggetti (progettisti, dirigenti e così
via) che siano già intervenuti a diverso
titolo nella procedura concorsuale definendo
i contenuti e le regole della procedura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 11.12.2019 n. 2638 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Il ricorso è stato affidato alle seguenti
censure:
...
6) violazione di legge (art. 77, comma 4,
del d.lgs. n. 50/2016) in relazione alla
mancata nomina di soggetti diversi a
presiedere alle varie fasi del procedimento;
violazione delle regole di composizione
della commissione: la dott.ssa La.Ge.,
dirigente del Comune di Vigevano, ha
provveduto ad approvare il bando di
selezione, ha nominato se stessa
responsabile del procedimento, ha presieduto
ed è stata componente continua della
commissione di gara per la valutazione delle
offerte e assegnazione dei punteggi (in
particolare, delle proposte migliorative) e
ha emesso il provvedimento di
aggiudicazione;
...
2.3. È fondato, invece, il sesto motivo.
Nella vicenda di cui è causa, la dirigente
del Comune ha sostanzialmente preso parte a
tutti gli atti della procedura, a partire
dalla redazione e adozione del bando fino
alla determina finale di aggiudicazione,
svolgendo finanche le funzioni di
responsabile del procedimento e componente e
presidente della Commissione.
Tale modus operandi, ad avviso del
Collegio, non può ritenersi corretto, in
quanto si pone in contrasto con il principio
di tutela dell’imparzialità e
dell’oggettività nelle procedure selettive,
il quale mira a prevenire il pericolo
concreto di possibili effetti distorsivi
prodotti dalla partecipazione alle
commissioni giudicatrici di soggetti
(progettisti, dirigenti e così via) che
siano già intervenuti a diverso titolo nella
procedura concorsuale definendo i contenuti
e le regole della procedura (v. TAR
Lazio-Latina, Sez. I, n. 226/2016).
Tale principio ha valenza generale,
rinvenendo le proprie basi nell’art. 97
Cost. e, per tale ragione, trova
applicazione, nella procedura di cui è
causa, indipendentemente dalla circostanza
che l’impianto sportivo in questione possa
essere qualificato o meno come impianto
avente rilevanza economica, e a prescindere,
quindi, dalla disciplina conseguentemente
applicabile alla procedura di affidamento
dello stesso (concessione di servizi o
appalto di servizi).
L’operato della commissione, in quest’ottica,
risulta inficiato nella sua globalità a
causa di un vizio genetico nella
composizione dell’organo, e tanto basta per
ritenere fondato il motivo in esame, che
deve pertanto essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazioni di volumi o murature all’interno di una grotta
naturale – Equiparabilità alla realizzazione di opere al di
sopra della formazione rocciosa – Natura – Nuova
costruzione.
E’ equiparabile, sotto l’aspetto
urbanistico-amministrativo, la realizzazione di volumi o di
murature al di sopra di una formazione rocciosa (i quali
sarebbero senza dubbio ritenuti di nuova costruzione) ovvero
all’interno di una grotta naturale, trattandosi, in entrambi
i casi, di interventi che determinano una trasformazione
permanente del paesaggio esistente.
Non rileva il fatto che,
nel caso della grotta, la porzione di territorio che si
intende tutelare si trovi (non in superficie, bensì)
all’interno della formazione rocciosa, non essendo, questa,
un’opera dell’uomo (la quale presupporrebbe, a sua volta, un
valido titolo abilitativo) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.12.2019 n. 2182 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
alle riproduzioni audio-video delle prove orali di un concorso.
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Accesso ai documenti – Riproduzione audio video – Prove orali di pubblico
concorso – E’ accessibile.
Essendo la prova orale di un concorso certamente
riconducibile al procedimento concorsuale, la sua riproduzione audio video
deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una
pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa
posta in essere, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la
circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato
dalla pubblica amministrazione (1).
---------------
(1) La Sezione II-ter del Tar Lazio ha accolto il ricorso di un
concorrente non classificatosi tra i vincitori ad accedere alle riproduzioni
audio-video delle prove orali dei concorrenti risultati vincitori.
Il Tar ha pertanto affermato che riproduzione audio video di una prova orale
di un concorso deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico
detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività
pubblicistica dalla stessa posta in essere nell’ambito del procedimento
concorsuale, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza
che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla
pubblica amministrazione.
Quanto alla asserita lesione delle riservatezza, ha chiarito il Tar che in
linea di principio sussiste il diritto ad accedere a tutti gli atti della
procedura concorsuale e non vi sono limiti ai documenti ostensibili, essendo
noto che le domande e i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le
schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico
costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice
l'esigenza di riservatezza e tutela dei terzi, posto che i concorrenti,
prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una
competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce
l'essenza della valutazione (Tar Lazio, sez. III, 10.09.2013, n. 8199).
In ogni caso, la sentenza ha rilevato che, attesa la specifica natura dei
documenti in questione (registrazioni audio-video delle prove orali),
qualora dovesse profilarsi un contrasto tra esigenze di privacy dei terzi e
il diritto di accesso, trattandosi di accesso per fini di necessità
difensive, queste ultime dovrebbe comunque ritenersi prevalenti.
Tuttavia, l’amministrazione potrà adottare accorgimenti tecnici idonei a
contemperare l’interesse all’accesso e quello alla riservatezza dei terzi
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 10.12.2019 14140 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Nel merito, il ricorso è fondato e va accolto.
Va in primo rilevato che la nozione di documento amministrativo, ai sensi
dell’art. 22 della l. 241/1990, certamente ricomprende anche le riproduzioni
audio o audiovideo di una prova orale di un pubblico concorso, ove siano
state effettuate.
Infatti, l’art. 22 così recita: “si intende “per "documento
amministrativo", ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche
interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro
disciplina sostanziale”.
Ora, appare evidente che essendo la prova orale di un concorso certamente
riconducibile al procedimento concorsuale, la sua riproduzione deve
ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una
pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa
posta in essere, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la
circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato
dalla pubblica amministrazione. La norma infatti è assolutamente chiara nel
riferirsi ad atti anche solo “detenuti” e non formati dalla pubblica
amministrazione. Inoltre, come si è detto, le prove concorsuali orali sono
certamente atti del procedimento concorsuale al pari delle prove scritte.
Pertanto, così come è consentito l’accesso alle prove scritte allo stesso
modo deve esserlo anche a quelle orali, ove esse siano state registrate o
videoregistrate.
A tal fine, è ininfluente la circostanza che la Commissione di esame non si
sia poi avvalsa di tali registrazioni, in quanto tale aspetto è meramente
estrinseco ed accidentale ma non incide sulla riferibilità dei suddetti
documenti al procedimento.
Infine, non possono assumere rilevanza ragioni di riservatezza dei terzi.
In primo luogo, va sul punto rilevato che in linea di principio sussiste il
diritto ad accedere a tutti gli atti della procedura concorsuale e non vi
sono limiti ai documenti ostensibili, essendo noto che le domande e i
documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli
stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai
quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza e tutela dei
terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno
acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei
valori di ciascuno costituisce l'essenza della valutazione (TAR Roma,
(Lazio) sez. III, 10/09/2013, n. 8199).
Inoltre, in ogni caso, qualora, attesa la specifica natura dei documenti in
questione (registrazioni audio-video delle prove orali), dovesse profilarsi
un contrasto tra esigenze di privacy dei terzi e il diritto di accesso,
trattandosi di accesso per fini di necessità difensive, queste ultime
dovrebbe comunque ritenersi prevalenti. |
APPALTI:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Tutela
giurisdizionale del diritto di accesso civico –
Legittimazione a ricorrere – Quisque de populo –
Esclusione – Azione popolar ecorrettiva – inconfigurabilità.
La tutela giurisdizionale del diritto di
accesso c.d. civico non configura un’azione popolare, per
cui la legittimazione a ricorrere non spetta al quisque de
populo, ma solo a colui che ha avanzato la richiesta di
accesso, rimasta priva di riscontro
(cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I n. 9076/2017).
La disciplina dell’accesso civico con la
previsione della legittimazione del “chiunque” a conoscere,
non può estendersi, infatti, fino al punto di consentire,
nel silenzio della norma, di attivare una sorta di azione
popolare “correttiva” in esito all’accesso ottenuto, per
cui, ai fini della eventuale impugnativa degli atti adottati
dall’Amministrazione e conosciuti in sede di accesso
generalizzato la ricorrente potrà agire in giudizio secondo
le ordinarie regole processuali e far valere in quella sede
la sua legittimazione a ricorrere.
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Disciplina in tema
di accesso ai documenti – Disciplina in tema di accesso
generalizzato – Caratteri.
La disciplina in tema di accesso ai
documenti soggiace a finalità e presupposti diversi da
quelli in tema di trasparenza e di accesso generalizzato: il
primo è strumentale alla tutela degli interessi
individuali di un soggetto che si trova in una posizione
differenziata rispetto agli altri cittadini, in ragione
della quale ha il diritto di conoscere e di avere copia di
un determinato documento amministrativo; il secondo
è, invece, azionabile da chiunque, senza la previa
dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e
concreto, per la tutela di situazioni rilevanti, senza dover
motivare la richiesta e con la sola finalità di consentire
una pubblicità diffusa e integrale dei dati, dei documenti e
delle informazioni che sono considerati come pubblici e,
quindi, conoscibili.
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Materia dei
contratti pubblici – Sottrazione alla conoscenza diffusa di
cui al d.lgs. n. 33/2013 – Esclusione – Strumento di
prevenzione e contrasto alla corruzione.
Non tutta la “materia” dei contratti
pubblici deve essere sottratta alla “conoscenza diffusa” di
cui al d.lgs. 33/2013 e ciò per una considerazione di ordine
sistematico e teleologico: se la materia degli appalti
pubblici è una di quelle dove è più elevato il rischio
corruzione (ricompresa tra le aree più a rischio di cui
all’art. 1, co. 16, della legge n. 190/2012) e sulla quale,
in misura maggiore, si è appuntata l’attenzione della
disciplina anticorruzione (anche nell’ambito dei vari piani
nazionali anticorruzione) e dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione, sarebbe incomprensibile o, quanto meno,
irragionevole ritenere che il legislatore abbia voluto
sottrarre alla disciplina sulla trasparenza, e quindi
all’accesso del quisque de populo, proprio la materia degli
appalti.
A rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico,
vi è un’esigenza specifica e più volte riaffermata
nell’ordinamento statale ed europeo, e cioè il perseguimento
di procedure di appalto trasparenti anche come strumento di
prevenzione e contrasto della corruzione
(cfr. Cons. Stato n. 3780/2019).
Inoltre, proprio con riferimento alle
procedure di appalti, la possibilità di accesso civico, una
volta che la gara sia conclusa e venuta, perciò, meno
l’esigenza di tutelare la “par condicio” dei concorrenti,
risponde proprio ai canoni generali di “controllo diffuso
sul perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche” di cui all’art. 5, co. 2, del
d.lgs. 33/2013 (cfr.
Cons. Stato 3780/2019).
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Art. 5-bis, c. 3,
del d.lgs. n. 33/2013 – Rinvio alle condizioni, alle
modalità e ai limiti fissati dalla normativa in materia di
accesso documentale – Puntuali limitazioni di cui all’art.
53 d.lgs. n. 50/2016 – Conclusione della gara – Offerta
dell’aggiudicataria – Accesso civico.
Il rinvio operato dall’art. 5-bis, comma
3, del d.lgs. n. 33/2013 comporta l’applicabilità
all’accesso civico delle, le puntuali limitazioni di cui
all’art. 53 del codice degli appalti, poste a tutela della
gara stessa e dei partecipanti (che rappresentano i limiti
assoluti).
Una volta, però, che la gara si è conclusa, l’offerta
dell’aggiudicataria potrà essere oggetto di accesso civico
generalizzato perché essa rappresenta la “scelta”
dell’amministrazione, diventando quell’offerta di interesse
generale e appuntandosi su di essa la finalità della
disciplina sulla trasparenza.
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Limiti della
conoscenza generalizzata – Test del “pregiudizio concreto”.
Il test del pregiudizio concreto, da
applicare per delimitare la conoscenza generalizzata di cui
all’art. 5-bis, co. 2, del decreto trasparenza, impone che
il pregiudizio non deve essere solo affermato ma anche
dimostrato.
Il test del pregiudizio concreto impone che il nesso di
causalità che lega questo alla divulgazione deve superare la
soglia del “meramente ipotetico” per emergere quale
“probabile”, sebbene futuro; così l’Amministrazione, nel
rigettare una richiesta di ostensione, deve dimostrare che
la stessa pregiudicherebbe l’interesse da tutelare ovvero
che ciò sarebbe “molto probabile”.
La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiarito sul
punto che l’Amministrazione deve valutare che il pregiudizio
conseguente alla disclosure sia un evento altamente
probabile e non solo possibile
(cfr. Delibera Anac n. 1309/2016) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 10.12.2019 n. 5837 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Accesso
generalizzato all'offerta dell'aggiudicatario.
---------------
●
Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Contratti della Pubblica
amministrazione - Offerta dell’aggiudicataria – E’ accessibile.
●
Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Contratti della Pubblica
amministrazione – Limiti – Individuazione.
●
Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Limiti - Test del pregiudizio
concreto – Operatività – Condizioni.
●
Non tutta la materia dei contratti pubblici può essere sottratta alla
“conoscenza diffusa” di cui al d.lgs. n. 33 del 2013 in quanto materia nella
quale è più elevato il rischio corruzione (ricompresa tra le aree più a
rischio di cui all’art. 1, comma 16, l. n. 190 del 2012); pertanto,
allorquando la gara si è conclusa (e non si ravvisino ragioni di
riservatezza in ragione del tipo di appalto o con riguardo ad alcune parti
dell’offerta tecnica), l’offerta dell’aggiudicataria, benché proveniente dal
privato, rappresenta la “scelta” in concreto operata dall’amministrazione e
l’accesso generalizzato costituisce lo strumento da assicurare in generale
ai cittadini per conoscere e apprezzare appieno la “bontà” della scelta
effettuata inclusi naturalmente e a fortiori i partecipanti alla gara
(allorquando non possono più vantare un interesse “qualificato”) nonché i
soggetti in senso lato interessati alla gara, che avranno le cognizioni e le
competenze per effettuare un vero “controllo” esterno e generalizzato sulle
scelte effettuate dall’amministrazione; l’offerta selezionata diventa, così,
la “decisione amministrativa” controllabile da parte dei cittadini.
●
All’accesso civico generalizzato si applicano, in ragione del rinvio operato
dall’art. 5–bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, solo le puntuali
limitazioni di cui all’art. 53, d.lgs. n. 50 del 2016 poste a tutela della
gara stessa e dei partecipanti (c.d. limiti assoluti) (1).
●
Il test del pregiudizio concreto, da applicare per delimitare la
conoscenza generalizzata di cui all’art. 5-bis comma 2, d.lgs. n. 33 del
2013, impone che il pregiudizio non deve essere solo affermato, ma anche
dimostrato; inoltre, il test del pregiudizio concreto impone che il nesso di
causalità che lega questo alla divulgazione deve superare la soglia del
“meramente ipotetico” per emergere quale “probabile”, sebbene futuro;
pertanto, l’Amministrazione, nel rigettare una richiesta di ostensione, deve
dimostrare che la stessa pregiudicherebbe l’interesse da tutelare ovvero che
ciò sarebbe “molto probabile” (2).
---------------
(1) Con riguardo all’interpretazione dell’art. 5-bis, comma 3,
d.lgs. n. 33 del 2013, e cioè se attraverso questo richiamo il legislatore
abbia voluto introdurre un limite assoluto a conoscere gli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, si sono
registrati due diversi orientamenti culminati in due pronunce del Consiglio
di Stato che si sono susseguite negli ultimi mesi.
Da una parte si registra un orientamento di maggiore “apertura” verso
la conoscenza dei detti atti che si rinviene nella sentenza della III sez.,
n. 3780 del 05.06.2019, la quale, muovendo proprio dall’interpretazione
dell’art. 5-bis, comma 3, chiarisce che ”tale ultima prescrizione fa
riferimento, nel limitare tale diritto, a “specifiche condizioni, modalità e
limiti” non ad intere “materie”. Diversamente interpretando,
significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da
una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a
garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di
trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione.
Entrambe le discipline, contenute nel d.lgs. n. 50 del 2016 e nel d.lgs. n.
33 del 2013, mirano all’attuazione dello stesso, identico principio e non si
vedrebbe per quale ragione, la disciplina dell’accesso civico dovrebbe
essere esclusa dalla disciplina dei contratti pubblici.
D’altro canto, il richiamo contenuto nel primo comma, del citato art. 53
Codice dei contratti, alla disciplina del c.d. accesso “ordinario” di
cui agli artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 è spiegabile alla luce del fatto
che il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 è anteriore al d.lgs. 25.05.2016, n. 67
modificativo del d.lgs. n. 33 del 2013…… dal medesimo principio –ricavabile
dalla testuale interpretazione dell’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del
2013 come novellato– discende la regola, ben chiara ad avviso del Collegio,
per cui, ove non si ricada in una “materia” esplicitamente sottratta,
possono esservi solo “casi” in cui il legislatore pone specifiche
limitazioni, modalità o limiti.
Non ritiene il Collegio che il richiamo, ritenuto decisivo dal primo
giudice, all’art. 53 del “Codice dei contratti” nella parte in cui
esso rinvia alla disciplina degli artt. 22 e seguenti della l. 241 del 1990,
possa condurre alla generale esclusione dell’accesso civico della materia
degli appalti pubblici….. Proprio con riferimento alle procedure di appalto,
la possibilità di accesso civico, una volta che la gara sia conclusa e viene
perciò meno la tutela della “par condicio” dei concorrenti, non
risponde soltanto ai canoni generali di “controllo diffuso sul
perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche” (art. 5, comma 2, cit. d.lgs. n. 33).
"Vi è infatti, a rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico,
una esigenza specifica e più volte riaffermata nell’ordinamento statale ed
europeo, e cioè il perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche
come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione….”.
Un diverso orientamento si rinviene nella sentenza del Consiglio di Stato,
sez. V, n. 5503 del 02.08.2019, la quale -nel negare l’accesso generalizzato
agli atti di gara- ha affermato che “La previsione dell’art. 5-bis, comma
3 si distingue da quella dei comma 1 e 2,….perché è disposizione volta a
fissare, non i limiti relativi all’accesso generalizzato consentito a
“chiunque”, bensì le eccezioni assolute, a fronte delle quali la trasparenza
recede. Anche la tecnica redazionale del comma si distingue da quella dei
comma precedenti, poiché se è vero che l’art. 5-bis, comma 3, non sottrae al
bilanciamento materie direttamente individuate dalla norma medesima (a
differenza degli interessi, pubblici e privati, che sono individuati dal
primo e dal secondo comma), resta che utilizza l’espressione generica di
casi, che fanno eccezione assoluta, in modo da rinviare, per la loro
individuazione, ad altre disposizioni di legge, direttamente o
indirettamente, richiamate dallo stesso comma 3 (sicché l’ampiezza
dell’eccezione dipende dalla portata della normativa cui l’art. 5-bis, comma
3, rinvia).
In particolare, sono sottratti al bilanciamento ed esclusi senz’altro
dall’accesso generalizzato: i casi di segreto di Stato ed i casi di divieti
di accesso o di divulgazione previsti dalla legge, i casi elencati nell’art.
24, comma 1, l. n. 241 del 1990 (che, al suo interno, ricomprende intere
materie), i casi in cui “l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”…. la previsione in
questione assume significato autonomo e decisivo se riferita alle discipline
speciali vigenti in tema di accesso e, per quanto qui rileva, al primo
inciso del primo comma dell’art. 53. Ne consegue che il richiamo testuale
alla disciplina degli artt. 22 e ss., l. 07.08.1990 n. 241 va inteso come
rinvio alle condizioni, modalità e limiti fissati dalla normativa in tema di
accesso documentale, che devono sussistere ed operare perché possa essere
esercitato il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e
di esecuzione dei contratti pubblici”.
Nella pronuncia da ultimo richiamata si fa poi riferimento alla circostanza
che l’accesso generalizzato non sarebbe stato introdotto, nell’ambito del
codice dei contratti pubblici, nemmeno in sede di correttivo di cui al
d.lgs. n. 56 del 2017, come segno evidente della volontà del legislatore di
non consentire l’accesso generalizzato in detta materia; inoltre, la
sentenza considera che quelli della procedura di gara sono “atti formati
e depositati nell’ambito di procedimenti assoggettati, per intero, ad una
disciplina speciale ed a sé stante. Questa disciplina attua specifiche
direttive europee di settore che, tra l’altro, si preoccupano già di
assicurare la trasparenza e la pubblicità negli affidamenti pubblici, nel
rispetto di altri principi di rilevanza euro unitaria, in primo luogo il
principio di concorrenza, oltre che di economicità, efficacia ed
imparzialità. …..”.
(2) La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiarito sul
punto che l’Amministrazione deve valutare che il pregiudizio conseguente
alla disclosure sia un evento altamente probabile e non solo
possibile (cfr. Delibera Anac n. 1309 del 2016)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 10.12.2019 n. 5837 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Rilevanza
del contenuto della procura speciale alle liti.
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Processo amministrativo – Procura alle liti - Mancanza dei requisiti di
specialità – Presunzione di riferibilità – Presupposti – Individuazione.
Ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.P.C.M. 16.02.2016,
la procura alle liti si considera apposta in calce, e perciò dotata dei
requisiti della specialità, quando è depositata con modalità telematiche,
unitamente all’atto cui si riferisce; tuttavia, se la procura è priva in
concreto degli elementi di specialità di cui all’art. 40 c.p.a. che
consentano l’immediata riconducibilità all’oggetto del ricorso, la
presunzione di riferibilità viene meno nel caso in cui sussista nella
procura un elemento incompatibile con il ricorso; tale ipotesi si verifica
quando la data della procura sia antecedente a quella della sottoscrizione
del ricorso (1).
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(1) Quanto al contenuto della procura speciale la giurisprudenza (Cons.
St., sez. VI, 05.10.2018, n. 5723) ha precisato che deve
indicare l'oggetto del ricorso, delle parti contendenti, dell'autorità
davanti alla quale il ricorso deve essere proposto ed ogni altro elemento
utile alla individuazione della controversia.
Le modalità di conferimento della procura sono disciplinate dall’art. 83
c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno
di cui all'art. 39 c.p.a., che prevede che la procura speciale possa essere
apposta a margine o in calce al ricorso, con certificazione dell’autografia
della sottoscrizione da parte del difensore, e che la procura “si considera
apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però
congiunto materialmente all'atto cui si riferisce o su documento informatico
separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si
riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto
del Ministero della giustizia”; fermo restando che se “la procura alle liti
è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce
attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica
autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche
regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione
dei documenti informatici e trasmessi in via telematica”.
A sua volta l’art. 8, d.P.C.M. 16.02.2016, recante le regole
tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico,
stabilisce che “1. La procura alle liti è autenticata dal difensore, nei
casi in cui è il medesimo a provvedervi, mediante apposizione della firma
digitale.
2. Nei casi in cui la procura è conferita su supporto cartaceo, il difensore
procede al deposito telematico della copia per immagine su supporto
informatico, compiendo l'asseverazione prevista dall'art. 22, comma 2, del
CAD con l'inserimento della relativa dichiarazione nel medesimo o in un
distinto documento sottoscritto con firma digitale.
3. La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si
riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato
depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce;
b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia
informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche
unitamente all'atto a cui si riferisce.
4. In caso di ricorso collettivo, ove le procure siano conferite su supporti
cartacei, il difensore inserisce in un unico file copia per immagine di
tutte le procure”
(TAR Molise,
sentenza 10.12.2019 n. 437 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Variante
al PGT confermativa.
Si è al cospetto di un
atto meramente confermativo, che non risulta
idoneo a riaprire i termini di impugnazione,
in presenza di una controdeduzione alle
osservazioni ad una variante parziale del
PGT con la quale l’Amministrazione non
provvede a riesaminare la disciplina
urbanistica riservata alle aree di proprietà
degli istanti o ad effettuare una rinnovata
valutazione dell’interesse pubblico inerente
alle stesse, ma si limita semplicemente a
confermare la pregressa destinazione
impressa e a ribadirne la coerenza con gli
orientamenti espressi nella precedente
variante generale di riferimento, senza
procedere ad alcuna ulteriore comparazione
con le risultanze del procedimento di
variante parziale, oggetto di esame in quel
frangente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.12.2019 n. 2628 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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4. La parte del gravame con cui si
contestano le deliberazioni consiliari 14.12.2017, n. 91, e 28.05.2018, n.
40, recanti, rispettivamente, l’adozione e
l’approvazione della Variante di adeguamento
al Documento di piano è inammissibile per
assenza di concreta lesività.
5. Va premesso che la predetta Variante ha
avuto ad oggetto la disciplina di Ambiti di
trasformazione diversi da quelli di
interesse per le parti ricorrenti, visto che
ha riguardato soltanto gli Ambiti AT-02A,
AT-02B e ATS-02 (cfr. all. 4 al ricorso).
Tuttavia, le parti ricorrenti hanno
presentato, nel corso del procedimento di
approvazione della Variante, una
osservazione con cui hanno chiesto il
riconoscimento, ai sensi dell’art. 11, comma
2, delle N.T.A. del P.d.S., di una capacità
volumetrica per l’area di proprietà sita in
Viale Lombardia/Via Offelera, da
realizzare in altra sede oppure costituendo
un nuovo Ambito di trasformazione con
relativa scheda urbanistica, denominato
AT-08 (all. 17 al ricorso).
In sede di controdeduzione, è stato dato
esito negativo alla richiamata istanza,
sottolineando che «verificata la
richiesta, già oggetto di non accoglimento
in sede di osservazione alla variante
generale al PGT, si ritiene di confermare la
determinazione approvata con delibera di
Consiglio Comunale n. 52 del 09/06/2016
relativa alla variante generale al PGT che
risulta orientata alla diminuzione del
consumo di suolo e coerente con le
indicazioni delle Linee di indirizzo per la
stesura della Variante Generale al Piano di
Governo del Territorio “Progettare nella
Città, progettare per la Città” e con lo
scenario strategico di riferimento adottato»
(all. 18 al ricorso).
Come emerge in maniera chiara dal tenore
della controdeduzione, l’Amministrazione non
ha provveduto a riesaminare la disciplina
urbanistica riservata alle aree di proprietà
delle ricorrenti o ad effettuare una
rinnovata valutazione dell’interesse
pubblico inerente alle stesse, ma si è
limitata semplicemente a confermare la
pregressa destinazione impressa e a
ribadirne la coerenza con gli orientamenti
espressi nella Variante generale di
riferimento, approvata nel 2016, senza
procedere ad alcuna ulteriore comparazione
con le risultanze del procedimento di
Variante parziale, oggetto di esame in quel
frangente.
Quindi, si è al cospetto di un atto
meramente confermativo, che non risulta
idoneo a riaprire i termini di impugnazione;
del resto, secondo la consolidata
giurisprudenza, “allo scopo di stabilire
se un atto amministrativo sia meramente
confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi,
autonomamente lesivo e da impugnarsi nei
termini), occorre verificare se l’atto
successivo sia stato adottato o meno senza
una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi. In
particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente
l’atto la cui adozione sia stata preceduta
da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento,
giacché solo l’esperimento di un ulteriore
adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e
un nuovo esame degli elementi di fatto e di
diritto che caratterizzano la fattispecie
considerata, può condurre a un atto
propriamente confermativo in grado, come
tale, di dare vita ad un provvedimento
diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione. Ricorre invece
l’atto meramente confermativo quando
l’Amministrazione si limita a dichiarare
l’esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione”
(Consiglio di Stato, IV, 27.01.2017, n. 357;
altresì, 12.10.2016, n. 4214; 12.02.2015, n.
758; TAR Lombardia, Milano, II, 10.05.2018,
n. 1242; 10.02.2017, n. 339).
6. A ciò consegue la declaratoria di
inammissibilità del ricorso nella parte in
cui si censura, tra l’altro, l’approvazione
della Variante di adeguamento al Documento
di piano avvenuta nel mese di maggio 2018.
7. In conclusione, il ricorso deve essere
dichiarato in parte irricevibile e in parte
inammissibile. |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi – Costruzione, in zona sismica ed in assenza
dei necessari titoli abilitativi – Responsabilità del
coniuge per il fatto materialmente commesso dall’altro –
Elementi oggettivi di valutazione – Applicazione della pena
ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen..
In tema di reati edilizi la
responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente
commesso dall’altro può essere rilevata sulla base di
oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse
all’edificazione, il regime di comunione dei beni,
l’acquiescenza all’esecuzione dell’intervento, la presenza
sul luogo di esecuzione dei lavori, l’espletamento di
attività di controllo sull’esecuzione dei lavori, la
presentazione di istanze o richieste concernenti l’immobile
o l’esecuzione di attività indicative di una partecipazione
all’attività illecita.
...
Reati urbanistici – Responsabilità per abuso edilizio e
rapporto di coniugio – Elementi indizianti – Mera qualità di
comproprietario – Insufficiente – Giurisprudenza.
In tema di responsabilità per abuso
edilizio con specifico riferimento al rapporto di coniugio,
si è osservato che la compartecipazione di un coniuge nel
reato materialmente commesso dall’altro non può essere
desunta dalla mera qualità di comproprietario. Ma devono
essere individuati, uno o più elementi indizianti, quali ad
esempio:
- il fatto che entrambi i coniugi siano proprietari del suolo su
cui è stato realizzato l’edificio abusivo e che entrambi
abbiano interesse alla violazione dei sigilli per completare
l’opera al fine di trasferire la loro residenza
(Sez. 3 n. 28526 del 30/05/2007, Mele);
- l’abitare nel luogo ove si è
svolta l’attività illecita di costruzione; l’assenza di
manifestazioni di dissenso; il comune interesse alla
realizzazione dell’opera (fattispecie relativa ad imputata
la quale, benché formalmente residente in altro comune,
conviveva con il marito, era con il predetto in regime di
comunione di beni e ne condivideva anche le iniziative
patrimoniali, tanto da rimanere coinvolta, in un precedente
giudizio, unitamente al coniuge, in altri illeciti edilizi:
Sez. 3 n. 23074 del 16/04/2008, Di Meglio);
- il regime patrimoniale dei
coniugi (comunione dei beni); lo svolgimento di attività di
vigilanza dell’esecuzione dei lavori; la richiesta di
provvedimenti abilitativi in sanatoria e la presenza in loco
all’atto dell’accertamento
(Sez. 3 n. 40014 del 18/09/2008, Mangione).
...
Responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o
comproprietario) dell’area, non formalmente committente –
Opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua
volontà – Presenza di indizi e presunzioni gravi, precisi e
concordanti – Onere della prova – Testo Unico Edilizia –
Artt. 44, 93, 94, 95 D.P.R. n. 380/2001.
In tema di responsabilità per abuso
edilizio del proprietario (o comproprietario) dell’area, non
formalmente committente, si richiedono la presenza di indizi
e presunzioni gravi, precisi e concordanti che sono stati
individuati, ad esempio,
- nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie
edificata e dell’interesse specifico ad effettuare la nuova
costruzione (principio del “cui prodest“);
- nei rapporti di parentela o di affinità tra l’esecutore
dell’opera abusiva ed il proprietario; nell’eventuale
presenza “in loco” del proprietario dell’area durante
l’effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di
materiale vigilanza sull’esecuzione dei lavori; nella
richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria;
- nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari;
- nella fruizione dell’opera secondo le norme civilistiche
dell’accessione ed in tutte quelle situazioni e quei
comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi
elementi integrativi della colpa e prove circa la
compartecipazione, anche morale, all’esecuzione delle opere,
tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull’interessato l’onere di allegare
circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie,
si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e
senza la sua volontà (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.12.2019 n. 49719 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Responsabilità – Responsabilità della p.A. – violazione del termine finale
del procedimento - concessione del contributo del Fondo di Solidarietà
Nazionale della Pesca e dell’Acquacoltura - art. 14 del d.lgs. n. 154 del
2004 – danno da ritardo ex se – configurabilità – non sussiste.
Dalla semplice violazione del termine per la conclusione
di un procedimento amministrativo, che non abbia natura perentoria, non
discende ex se la responsabilità della pubblica Amministrazione per danno da
ritardo, secondo una nozione meramente calendaristica e formale dei tempi
procedimentali, perché occorre che tale danno sia imputabile alla pubblica
Amministrazione in forma di inerzia immotivata e/o di inescusabile
negligenza.
In particolare (come nel caso di specie) ove i tempi procedimentali abbiano
subito un sensibile allungamento per la complessità procedurale dell’iter
accertativo relativamente all’evento rilevante, considerando l’elevato
numero di passaggi amministrativi cadenzati dalla normativa primaria e
secondaria (la quale prevede una fase di verifica delle precondizioni per
gli interventi, di cui all’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 154 del 2004, e
in particolare per l’attivazione del procedimento, di cui ora all’art. 4 del
D.M. 08.01.2008) la successiva fase istruttoria, con l’acquisizione e la
verifica di copiosa documentazione, con il parere obbligatorio di organi
consultivi (che si sono dovuti pronunciare sul riconoscimento dell’evento
eccezionale) i supplementi istruttori resi necessari dagli approfondimenti e
dalle verifiche opportune, le richieste di integrazioni documentali motivate
da carenza imputabili anche alla domanda che ha dato impulso alla procedura
nonché i tempi dei controlli contabili (massima free
tratta da www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.12.2019 n. 8337 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Convenzione
urbanistica per l’edificazione di un edificio da adibire a Centro di cultura
islamico.
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Urbanistica – Convenzione urbanistica – Per edificazione centro cultura
islamico - Risoluzione - Per inadempimento all'obbligo di pagare opere di
urbanizzazione – Omesso bilanciamento contrapposti interessi -
Illegittimità.
E’ illegittima la risoluzione di una convenzione
urbanistica per l’edificazione di un edificio da adibire a Centro di cultura
islamico che sia stata disposta per mancanza di bilanciamento tra la gravità
dell'inadempimento all'obbligo di pagare una certa somma per opere di
urbanizzazione e la finalità della convenzione di garantire il libero
esercizio del culto (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che il Comune, sito nella regione
Lombardia, ha dichiarato risolta (o decaduta) la convenzione a causa di un
oggettivo inadempimento del Centro all'obbligo di pagare una certa somma per
opere di urbanizzazione.
La Sezione ha annullato il provvedimento comunale in quanto non preceduto da
un attento bilanciamento tra la gravità dell'inadempimento e la finalità
della convenzione di garantire il libero esercizio del culto. Ha richiamato
la sentenza della Corte costituzionale n 63 del 2016 relativa alla legge
regionale lombarda n. 2 del 2015 sulle attrezzature religiose.
Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata, la Corte ha precisato che «La convenzione prevista dalla
disposizione in esame, necessaria nella fase di applicazione della normativa
in questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla finalità,
tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico
dei centri abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le
conseguenze che potranno determinarsi nel caso in cui l'ente che l'ha
sottoscritta non ne rispetti le stipulazioni, graduando l'effetto delle
violazioni in base alla loro entità. La disposizione impugnata consente di
annoverare tra queste conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la
possibilità di risoluzione o di revoca della convenzione.
Si tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi, da attivarsi in assenza di
alternative meno severe. Nell'applicare in concreto le previsioni della
convenzione, il Comune dovrà in ogni caso specificamente considerare se, tra
gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a disposizione per simili
evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a salvaguardare gli
interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la libertà di
culto, il cui esercizio, come si è detto, trova nella disponibilità di
luoghi dedicati una condizione essenziale. Il difetto della ponderazione di
tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti,
con lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli interessi attinenti
alla libertà religiosa.
La disposizione in questione, così interpretata, si presta a soddisfare il
principio e il test di proporzionalità, che impongono di valutare se la
norma oggetto di scrutinio, potenzialmente limitativa di un diritto
fondamentale, qual è la libertà di culto, sia necessaria e idonea al
conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più
misure appropriate, prescriva di applicare sempre quella meno restrittiva
dei diritti individuali e imponga sacrifici non eccedenti quanto necessario
per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi contrapposti».
In altri termini, l’Ente locale non può interpretare le convenzioni ex art.
70, comma 2-ter, come se si trattasse di una qualunque convenzione
urbanistica, ma -come detto- deve valutare, e di conseguenza motivare, se
gli inadempimenti addotti debbano necessariamente comportare la risoluzione,
la revoca o la decadenza o se non siano utilizzabili diversi strumenti, meno
lesivi per la libertà di culto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.12.2019 n. 8328 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
12. Con il primo motivo dell’appello, il Comune contesta il ruolo
determinante che, nell’economia della decisione, il TAR avrebbe assegnato
all’interesse, di rilievo costituzionale, a poter realizzare le strutture
necessarie per poter praticare il culto religioso di appartenenza.
La censura non tiene conto della ricostruzione del sistema in termini
conformi a Costituzione che la Corte costituzionale ha fornito con la
richiamata sentenza n. 16/1963.
In quella sede veniva in questione, tra l’altro, la legittimità
costituzionale del comma 2-ter dell'art. 70 della legge regionale lombarda
n. 12/2005 [introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera b), della legge
regionale n. 2/2015], il quale prevede che gli enti delle confessioni
religiose diverse dalla Chiesa cattolica, di cui ai commi 2 e 2-bis, «devono
stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato»
e che tali convenzioni devono prevedere espressamente «la possibilità
della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del
comune di attività non previste nella convenzione».
Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata, la Corte ha precisato che: «La convenzione prevista dalla
disposizione in esame, necessaria nella fase di applicazione della normativa
in questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla finalità,
tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico
dei centri abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le
conseguenze che potranno determinarsi nel caso in cui l'ente che l'ha
sottoscritta non ne rispetti le stipulazioni, graduando l'effetto delle
violazioni in base alla loro entità.
La disposizione impugnata consente di annoverare tra queste conseguenze, a
fronte di comportamenti abnormi, la possibilità di risoluzione o di revoca
della convenzione. Si tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi, da
attivarsi in assenza di alternative meno severe. Nell'applicare in concreto
le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in ogni caso specificamente
considerare se, tra gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a
disposizione per simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei
a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli
per la libertà di culto, il cui esercizio, come si è detto, trova nella
disponibilità di luoghi dedicati una condizione essenziale. Il difetto della
ponderazione di tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle
sedi competenti, con lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli
interessi attinenti alla libertà religiosa.
La disposizione in questione, così interpretata, si presta a soddisfare il
principio e il test di proporzionalità, che impongono di valutare se la
norma oggetto di scrutinio, potenzialmente limitativa di un diritto
fondamentale, qual è la libertà di culto, sia necessaria e idonea al
conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più
misure appropriate, prescriva di applicare sempre quella meno restrittiva
dei diritti individuali e imponga sacrifici non eccedenti quanto necessario
per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi contrapposti».
In altri termini, l’Ente locale non può interpretare le convenzioni ex art.
70, comma 2-ter, come se si trattasse di una qualunque convenzione
urbanistica, ma -come detto- deve valutare, e di conseguenza motivare, se
gli inadempimenti addotti debbano necessariamente comportare la risoluzione,
la revoca o la decadenza o se non siano utilizzabili diversi strumenti, meno
lesivi per la libertà di culto.
A questo proposito, l’Ente sostiene [diffusamente sub A e specificamente sub
A4)] che gli atti impugnati varrebbero come implicita rimeditazione
dell’interesse pubblico originariamente individuato, cioè quello a praticare
il culto religioso. Tuttavia, in disparte ogni altra considerazione, il
rilievo non è risolutivo, perché ciò che è mancato nella vicenda è appunto
una valutazione complessiva -necessariamente espressa e motivata- degli
interessi coinvolti secondo la direttrice tracciata dalla ricordata
decisione.
La sentenza impugnata si muove esattamente nel solco tracciato dalla Corte
costituzionale e il motivo sub A è perciò da respingere globalmente, con
conferma della declaratoria di illegittimità degli atti oggetto del ricorso. |
APPALTI: Avvalimento
infragruppo.
In tema di avvalimento,
la mera appartenenza al medesimo gruppo
imprenditoriale non può certo esonerare
l’ausiliaria dall’obbligo di porre a
disposizione dell’ausiliata le specifiche
risorse necessarie per l’esecuzione
dell’appalto.
Ricorda il TAR che nel caso di avvalimento
“infragruppo” la giurisprudenza
amministrativa afferma che l’onere di prova
documentale del rapporto tra concorrente e
ausiliaria é semplificato, nel senso che per
esso non è richiesta la stipula di un
contratto, essendo sufficiente una
dichiarazione unilaterale attestante tale l’avvalimento.
Per contro, questa modalità semplificata di
prova del fatto costitutivo su cui si fonda
il rapporto tra concorrente e ausiliario non
si riverbera sul piano sostanziale dei
contenuti dell’avvalimento; essa in
particolare non semplifica gli obblighi di
indicare in modo quanto meno determinabile
gli obblighi assunti dall’ausiliario
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.12.2019 n. 2598 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Sul punto giova premettere che, per pacifica
giurisprudenza, l’avvalimento si distingue
in avvalimento di garanzia, concernente i
requisiti di capacità economica e
finanziaria ed avvalimento operativo, che
concerne invece i requisiti di capacità
tecnica.
Se nel primo caso l’impresa ausiliaria
svolge un ruolo di garante dell’impresa
ausiliata partecipante alla gara, nel
secondo caso devono essere messe a
disposizione di quest’ultima le effettive
risorse umane e materiali necessarie per lo
svolgimento del singolo appalto (sulla
distinzione fra le due forme di avvalimento,
si veda, fra le tante, Consiglio di Stato,
sez. VI, 03.08.2018, n. 4798).
Nel caso di specie nessun dubbio sussiste
che si tratti di avvalimento operativo, data
la chiara dizione del contratto di
avvalimento (cfr. il doc. 77 della
ricorrente), nel quale la società esponente
dichiara espressamente di essere priva dei
requisiti di capacità tecnica richiesti dal
bando (cfr. pag. II del contratto di
avvalimento, lettera “j”).
Trattandosi di avvalimento operativo, appare
necessario che il contratto ed in ogni caso
i documenti probatori dell’avvalimento
indichino in maniera specifica le risorse
umane e materiali messe a disposizione,
necessarie per l’esecuzione della
prestazione oggetto dell’appalto o della
concessione.
In mancanza di tale specifica indicazione il
rapporto negoziale di avvalimento deve
reputarsi nullo e l’impresa ausiliata non
può partecipare alla gara, non essendovi
prova della sua idoneità all’adempimento
delle prestazioni oggetto dell’appalto (cfr.
da ultimo, fra le tante, Consiglio di Stato,
sez. V, 05.04.2019, n. 2243, che ha ribadito
«l'esigenza, riconosciuta dalla
consolidata giurisprudenza al fine di
evitare che il rapporto di avvalimento si
trasformi in una sorta di "scatola vuota",
che l'ausilio contrattualmente programmato e
prefigurato sia effettivo e concreto,
essendo inidonei impegni del tutto generici,
che svuoterebbero di significato l'essenza
dell'istituto», oltre ad affermare che:
«L'indicazione puntuale dei mezzi, del
personale, del know-how, della prassi e di
tutti gli altri elementi aziendali
qualificanti in relazione all'oggetto
dell'appalto e ai requisiti per esso
richiesti dalla stazione appaltante sono
indispensabili per rendere determinato
l'impegno dell'ausiliario tanto nei
confronti di quest'ultima che del
concorrente aggiudicatario»).
Le conclusioni sopra riportate debbono
valere anche nel caso di avvalimento c.d.
infragruppo, vale a dire l’avvalimento nei
confronti di una impresa che appartiene al
medesimo gruppo, come nel caso di specie,
nel quale l’ausiliaria controlla interamente
la società partecipante alla procedura.
Per tale ipotesi, infatti, l’art. 49, comma
2, lettera “g” del D.Lgs. 163/2006 consente
di non presentare alla stazione appaltante
il vero e proprio contratto di avvalimento
di cui alla pregressa lettera “f”, ma solo
una dichiarazione sostitutiva attestante il
legame giuridico ed economico esistente nel
gruppo.
Restano però salve le previsioni ulteriori
del comma 2 dell’art. 49, che impongono la
puntuale indicazione dei requisiti (si
vedano lettere “a”, “c” e “d” del comma
citato).
D’altronde la mera appartenenza al medesimo
gruppo imprenditoriale non può certo
esonerare l’ausiliaria dall’obbligo di porre
a disposizione dell’ausiliata le specifiche
risorse necessarie per l’esecuzione
dell’appalto; si veda sul punto Consiglio di
Stato, sez. V, 30.10.2017, n. 4973, per cui:
«Tuttavia, nel caso di avvalimento
“infragruppo” la giurisprudenza
amministrativa afferma che l’onere di prova
documentale del rapporto tra concorrente ed
ausiliaria é semplificato, nel senso che per
esso non è richiesta la stipula di un
contratto, essendo sufficiente una
dichiarazione unilaterale attestante tale l’avvalimento
(cfr. da ultimo: Cons. Stato, III,
13.09.2017, n. 4336).
Per contro, questa modalità semplificata di
prova del fatto costitutivo su cui si fonda
il rapporto tra concorrente ed ausiliario
non si riverbera sul piano sostanziale dei
contenuti dell’avvalimento. Essa in
particolare non semplifica gli obblighi di
indicare in modo quanto meno determinabile
gli obblighi assunti dall’ausiliario». |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzione
pecuniaria per mancata ottemperanza ad ordine
di demolizione.
Ciò che viene sanzionato
in via pecuniaria dall'art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è
la realizzazione dell'abuso edilizio in sé
considerato, bensì la mancata spontanea
ottemperanza all'ordine di demolizione
legittimamente impartito dalla P.A. per
opere abusivamente realizzate: il disvalore
(ex se rilevante) colpito è l'inottemperanza
all'ingiunzione di ripristino.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che
l’abuso fosse stato realizzato prima
dell’entrata in vigore della norma, giacché
la mancata esecuzione dell’ordinanza di
demolizione, proseguita dopo l’entrata in
vigore della menzionato comma 4-bis, impone
l’applicazione della sanzione da quest’ultimo
prevista, senza che ciò implichi violazione
del principio di irretroattività delle norme
che introducono misure sanzionatorie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.12.2019 n. 2588 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Il primo motivo di ricorso è
infondato.
In merito la giurisprudenza di questa
Sezione (da ultimo TAR Lombardia-Milano,
Sez. II, sentenza 20.08.2019 n. 1909; TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza
01.10.2019 n. 2088) ha chiarito che ciò che
viene sanzionato -nella misura massima di €
20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del
D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la
realizzazione dell'abuso edilizio in sé
considerato, bensì la mancata spontanea
ottemperanza all'ordine di demolizione
legittimamente impartito dalla P.A. per
opere abusivamente realizzate: il disvalore
(ex se rilevante) "colpito" è
l'inottemperanza all'ingiunzione di
ripristino.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che
l’abuso fosse stato realizzato prima
dell’entrata in vigore della norma, giacché
la mancata esecuzione dell’ordinanza di
demolizione, proseguita dopo l’entrata in
vigore della menzionato comma 4-bis, “imponeva
l’applicazione della sanzione da quest’ultimo
prevista, senza che ciò implicasse
violazione dell’invocato principio di
irretroattività delle norme che introducono
misure sanzionatorie” (Consiglio di
Stato, VI, 16.04.2019, n. 2484; altresì
24.07.2019, n. 5242).
Il carattere permanente dell’illecito
giustifica inoltre l’applicazione della
disciplina esistente al momento dell’ultimo
accertamento di inottemperanza, con la
conseguenza che risulta applicabile, ai fini
della quantificazione della sanzione, la
Determinazione dirigenziale n. 212/2017.
L’abuso contestato non rientra però tra
quelli soggetti alla sanzione minima di €
2000,00 prevista per le contestazioni di
mancata ottemperanza all’ordinanza di
demolizione accertate tra l’entrata in
vigore della L. 11.11.2014 n. 164 e
l’esecutività della determinazione stessa,
in quanto il sopralluogo avvenuto in data
13/03/2018, all’esito del quale è stata
definitivamente appurata l’omessa rimozione
delle opere abusive e irrogata la sanzione
pecuniaria, si colloca in un periodo
successivo. |
EDILIZIA PRIVATA: La
mancata indicazione nell’ordine di
demolizione della sanzione prevista
dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380
del 2001 non ne preclude l’applicazione in
quanto si tratta di sanzione introdotta da
una legge successiva e comunque la norma non
prevede che la sua applicabilità sia
condizionata al preventivo ammonimento
contenuto nella diffida a demolire.
Infatti il comma 4-bis stabilisce che
“L'autorità competente, constatata
l'inottemperanza, irroga una sanzione
amministrativa pecuniaria di importo
compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva
l'applicazione di altre misure e sanzioni
previste da norme vigenti”, escludendo
quindi che la consapevolezza ab initio delle
conseguenze giuridiche dell’inottemperanza
sia elemento costitutivo dell’elemento
soggettivo della colpa necessario per
l’applicazione della sanzione, purché
l’inottemperanza sia proseguita sotto il
nuovo regime normativo e sia quindi la
stessa interessata dalle misure
sanzionatorie proprie di tale fase
temporale.
A ciò si aggiunge che la norma fa salva
l’applicazione “di altre misure e sanzioni
previste da norme vigenti”, con la
conseguenza che l’ammonimento circa
l’applicabilità di altre sanzioni non
costituisce un autovincolo idoneo ad
escludere l’applicazione della sanzione in
parola.
In merito è stato chiarito che “la sanzione
pecuniaria di cui al comma 4-bis debba
applicarsi cumulativamente (per le sanzioni
si è in presenza, quindi, di un concorso
reale) a tutte le altre sanzioni e misure
eventualmente previste per lo stesso
“fatto”, come sopra definito, con la sola
eccezione delle eventuali previsioni che
dovessero comminare una sanzione pecuniaria
del tutto analoga a quella di cui al ridetto
comma 4-bis, giacché in tale residuale
ipotesi (la cui configurabilità logica è
giustificata dal termine “altre” contenuto
nell’inciso normativo) tornerebbe a valere
il principio di specialità, qualora ne
ricorressero in concreto i presupposti di
operatività”.
---------------
2. Anche il secondo motivo di ricorso
è infondato.
La mancata indicazione nell’ordine di
demolizione della sanzione prevista
dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380
del 2001 non ne preclude l’applicazione in
quanto si tratta di sanzione introdotta da
una legge successiva e comunque la norma non
prevede che la sua applicabilità sia
condizionata al preventivo ammonimento
contenuto nella diffida a demolire.
Infatti il comma 4-bis stabilisce che “L'autorità
competente, constatata l'inottemperanza,
irroga una sanzione amministrativa
pecuniaria di importo compreso tra 2.000
euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di
altre misure e sanzioni previste da norme
vigenti”, escludendo quindi che la
consapevolezza ab initio delle
conseguenze giuridiche dell’inottemperanza
sia elemento costitutivo dell’elemento
soggettivo della colpa necessario per
l’applicazione della sanzione, purché
l’inottemperanza sia proseguita sotto il
nuovo regime normativo e sia quindi la
stessa interessata dalle misure
sanzionatorie proprie di tale fase
temporale.
A ciò si aggiunge che la norma fa salva
l’applicazione “di altre misure e
sanzioni previste da norme vigenti”, con
la conseguenza che l’ammonimento circa
l’applicabilità di altre sanzioni non
costituisce un autovincolo idoneo ad
escludere l’applicazione della sanzione in
parola.
In merito è stato chiarito (C.G.A.R.S.,
parere 15.04.2015 n. 322) che “la
sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis
debba applicarsi cumulativamente (per le
sanzioni si è in presenza, quindi, di un
concorso reale) a tutte le altre sanzioni e
misure eventualmente previste per lo stesso
“fatto”, come sopra definito, con la sola
eccezione delle eventuali previsioni che
dovessero comminare una sanzione pecuniaria
del tutto analoga a quella di cui al ridetto
comma 4-bis, giacché in tale residuale
ipotesi (la cui configurabilità logica è
giustificata dal termine “altre” contenuto
nell’inciso normativo) tornerebbe a valere
il principio di specialità, qualora ne
ricorressero in concreto i presupposti di
operatività” (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 04.12.2019 n. 2588 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Fallimento
della società che ha affittato il ramo di azienda.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Clausole a
pena di esclusione – Applicabilità.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara –
Fallimento società affittante ramo di azienda – Conseguenza.
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara –
Fallimento società affittante ramo di azienda – Recesso condizionato –
Conseguenza.
●
La previsione del bando di gara che sanzioni un obbligo dichiarativo con
l’esclusione, non può valere a escludere la disciplina del soccorso
istruttorio che, sancito dall’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016,
costituisce attuazione dei principi di concorrenza, del favor
partecipationis e di proporzionalità (1).
●
Qualora l’impresa partecipante a una gara d’appalto affitti un ramo di
un’altra azienda onde raggiungere il requisito del fatturato minimo, il
fallimento della società affittante non rileva quale causa di esclusione
dell’affittuaria; l’art. 105, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti,
prevede che tale conseguenza operi solo nei rapporti tra subappaltatore e
appaltatore e non è possibile adottare un’interpretazione che estenda
l’operatività dell’esclusione a ipotesi non espressamente previste in quanto
la cause di esclusione sono soggette al principio di tassatività (art. 83,
comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016,) e di stretta interpretazione (2).
●
Il negozio unilaterale di recesso dal contratto di affitto di
azienda effettuato dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 79, r.d. n.
16.03.1942, n. 267 (l. fall.), qualora operato in modo tale da garantire
all’affittuaria che stia partecipando a una gara d’appalto tanto la costante
disponibilità del compendio aziendale quanto la possibilità di presentare
un’offerta di acquisto del ramo di azienda nell’ambito della procedura
fallimentare, deve ritenersi condizionato sospensivamente alla mancata
formulazione dell’offerta di acquisto da parte dell’affittuaria e, poi, al
mancato perfezionamento dell’acquisto medesimo; conseguentemente,
l’esercizio del diritto di recesso, in tal modo condizionato, non determina
il venir meno del requisito di partecipazione in capo all’impresa che, al
fine di ottenere il requisito medesimo, si sia giovata dell’affitto del ramo
di un’azienda poi fallita, che abbia conservato la piena disponibilità del
ramo di azienda senza soluzione di continuità e che sia in procinto di
acquistarlo nell’ambito della procedura fallimentare (3).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che ragionare diversamente equivale a
rendere facoltativa, per le stazioni appaltanti, l’applicazione del soccorso
istruttorio che potrebbe essere evitata semplicemente munendo gli obblighi
dichiarativi della sanzione dell’esclusione nell’ambito della documentazione
di gara, il che costituisce un esito non accettabile sul piano
interpretativo; l’obbligo del soccorso istruttorio, infatti, deriva
direttamente dalla legge e costituisce attuazione dei principi di
concorrenza, del favor partecipationis e di proporzionalità.
La disciplina è, ormai, orientata nel senso che, qualora siano posseduti i
requisiti sostanziali per partecipare alla gara e sempre che le mancanze non
riguardino l’offerta, le omissioni dichiarative, anche essenziali, possano
essere sanate.
(2) Ad avviso del Tar la disciplina è, anzi, orientata nel senso di
salvaguardare la possibilità di impiego del compendio aziendale anche nel
settore delle gare pubbliche mediante istituti quali l’autorizzazione al
curatore per l’esercizio dell’impresa (onde proseguire l’esecuzione della
prestazione, art. 110, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016) e la possibilità di
partecipazione dell’impresa che sia ammessa al concordato preventivo (artt.
110, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016; 161 e 186 bis, r.d. n. 16.03.1942, n.
267, l. fall.).
(3) Giova rammentare che il recesso è un atto negoziale unilaterale
che non sfugge alle regole di interpretazione del contratto, pur nei limiti
della compatibilità (artt. 1324 e 1362 e ss. c.c.); ebbene, l’indagine sulla
effettiva volontà del recedente (art. 1362 c.c.), l’interpretazione
complessiva delle espressioni utilizzate nella nota con cui si è esercitato
il recesso (art. 1363 c.c.) nonché lo stesso principio di interpretazione
secondo buona fede (art. 1366 c.c.) inducono, appunto, a concludere che il
recesso non fosse immediatamente operativo, ma, piuttosto, condizionato
all’eventuale formulazione e, poi, al perfezionamento dell’acquisto
dell’azienda.
Nello stesso senso, è l’indagine della causa del negozio (unilaterale) di
recesso; essa va intesa quale “causa concreta” e, quindi, non tipica
e immutabile, ma da collegarsi alla concreta finalità posta in essere dal
recedente che, nel caso di specie, è senz’altro quella di consentire e,
anzi, di favorire il consolidamento della detenzione del compendio aziendale
e la sua trasformazione in possesso (cd. traditio brevi manu). Anche
da questo punto di vista, quindi, il recesso è da intendersi condizionato
sospensivamente al perfezionamento della vendita del compendio aziendale
all’affittuaria
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 03.12.2019 n. 5684 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Ambito di operatività articolo 21-octies,
comma 2, l. 241/1990.
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L’istituto del preavviso
di rigetto di cui all'art. 10-bis l.
241/1990 si applica anche nei procedimenti
di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve essere ritenuto
illegittimo il provvedimento di diniego
dell’istanza presentata dall’interessato che
non sia stato preceduto dall’invio della
comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento, in quanto in mancanza di
tale preavviso al soggetto interessato
risulta preclusa la piena partecipazione al
procedimento e dunque la possibilità di un
apporto collaborativo.
Altresì, “l'istituto del preavviso di
rigetto, stante la sua portata generale,
trova applicazione anche nei procedimenti di
sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve ritenersi illegittimo
il provvedimento di diniego dell'istanza di
permesso in sanatoria che non sia stato
preceduto dall'invio della comunicazione di
cui al citato art. 10-bis in quanto
preclusivo per il soggetto interessato della
piena partecipazione al procedimento e
dunque della possibilità di uno apporto
collaborativo, capace di condurre ad una
diversa conclusione della vicenda”.
---------------
Le due previsioni racchiuse all’interno
dell’articolo 21-octies, comma 2, della l.
241/1990 presentano elementi strutturali
distinti che ne consentano la contestuale
operatività ove si consideri che:
a) la disposizione del secondo periodo contiene un elemento
aggiuntivo rispetto a quella del primo
periodo (consistente nella ricomprensione
nella propria area operativa dei
provvedimenti a natura non vincolata) e un
elemento specializzante (consistente nel
riferimento alla sola violazione delle
regola sulla comunicazione di avvio del
procedimento);
b) sussiste, pertanto, una specialità unilaterale per aggiunta e
per specificazione della disposizione del
secondo periodo rispetto a quella contenuta
nel primo periodo;
c) le due fattispecie affidano, però, la declaratoria di non
annullabilità a meccanismi distinti che le
connotano in termini di specialità reciproca
per aggiunta consistenti, nel primo caso,
nell’evidenza della inidoneità
dell'intervento dei soggetti ai quali è
riconosciuto un interesse ad interferire sul
contenuto del provvedimento e, nel secondo
caso, alla prova da parte
dell'Amministrazione che il provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso anche in
caso di intervento di detti interessati;
d) la reciproca eterogeneità del meccanismo di non invalidazione
del provvedimento comporta l’interferenza
delle due previsioni rispetto ad un’unica
fattispecie potendosi, quindi, non
invalidare un provvedimento di natura
discrezionale nel caso in cui
l'amministrazione dimostri in giudizio che
il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato anche in caso di violazione delle
norme sulla partecipazione al procedimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.12.2019 n. 2566 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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9.1. I ricorrenti deducono la violazione
della previsione di cui all’articolo 10-bis
della L. 241 del 1990 in ragione dell’omesso
invio di una comunicazione dei motivi
ostativi all’accoglimento dell’istanza.
9.2. Osserva il Collegio come, secondo la
recente giurisprudenza, “l’istituto del
preavviso di rigetto di cui al succitato
art. 10-bis si appli[chi] anche nei
procedimenti di sanatoria o di condono
edilizio, con la conseguenza che deve essere
ritenuto illegittimo il provvedimento di
diniego dell’istanza presentata
dall’interessato che non sia stato preceduto
dall’invio della comunicazione dei motivi
ostativi all’accoglimento, in quanto in
mancanza di tale preavviso al soggetto
interessato risulta preclusa la piena
partecipazione al procedimento e dunque la
possibilità di un apporto collaborativo (ex
multis, Consiglio di Stato, sez. VI,
02.05.2018, n. 2615; id., 01.03.2018, n.
1269; TAR Sardegna, sez. II, 20.09.2018, n.
797; TAR Sicilia, Palermo, sez. I,
08.09.2017, n. 2137)” (TAR per la
Lombardia – sede di Brescia, sez. II,
04.05.2019, n. 434).
Dello stesso avviso si mostra il Giudice
d’appello secondo cui “l'istituto del
preavviso di rigetto, stante la sua portata
generale, trova applicazione anche nei
procedimenti di sanatoria o di condono
edilizio, con la conseguenza che deve
ritenersi illegittimo il provvedimento di
diniego dell'istanza di permesso in
sanatoria che non sia stato preceduto
dall'invio della comunicazione di cui al
citato art. 10-bis in quanto preclusivo per
il soggetto interessato della piena
partecipazione al procedimento e dunque
della possibilità di uno apporto
collaborativo, capace di condurre ad una
diversa conclusione della vicenda”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 18.01.2019, n.
484; cfr., inoltre, nella giurisprudenza
della Sezione, TAR per la Lombardia – sede
di Milano, sez. II, 22.01.2019, n. 123).
9.3. Nel caso di specie, non risulta neppure
invocabile la previsione di cui all’articolo
21-octies della L. 241 del 1990, secondo la
quale “non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti
qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento
qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato”.
9.4. Come spiegato da questa Sezione, le due
previsioni racchiuse all’interno
dell’articolo 21-octies, comma 2, della l.
241/1990 presentano elementi strutturali
distinti che ne consentano la contestuale
operatività ove si consideri che:
a) la disposizione del secondo periodo contiene un elemento
aggiuntivo rispetto a quella del primo
periodo (consistente nella ricomprensione
nella propria area operativa dei
provvedimenti a natura non vincolata) e un
elemento specializzante (consistente nel
riferimento alla sola violazione delle
regola sulla comunicazione di avvio del
procedimento);
b) sussiste, pertanto, una specialità unilaterale per aggiunta e
per specificazione della disposizione del
secondo periodo rispetto a quella contenuta
nel primo periodo;
c) le due fattispecie affidano, però, la declaratoria di non
annullabilità a meccanismi distinti che le
connotano in termini di specialità reciproca
per aggiunta consistenti, nel primo caso,
nell’evidenza della inidoneità
dell'intervento dei soggetti ai quali è
riconosciuto un interesse ad interferire sul
contenuto del provvedimento, e, nel secondo
caso, alla prova da parte
dell'Amministrazione che il provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso anche in
caso di intervento di detti interessati (cfr.,
Cassazione, sezioni unite, 05.04.2012, n.
5445);
d) la reciproca eterogeneità del meccanismo di non invalidazione
del provvedimento comporta l’interferenza
delle due previsioni rispetto ad un’unica
fattispecie potendosi, quindi, non
invalidare un provvedimento di natura
discrezionale nel caso in cui
l'amministrazione dimostri in giudizio che
il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato anche in caso di violazione delle
norme sulla partecipazione al procedimento
(TAR per la Lombardia – sezione II,
30.11.2018, n. 2706; Id., 26.03.2019, n.
660). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Edilizia ed Urbanistica - pertinenze - impianti tecnologici - immobili
già esistenti- immobili sottoposti a vincoli paesaggistici e ambientali -
permesso di costruire pertinenze - è necessario.
2. Edilizia e Urbanistica - provvedimento di demolizione di un
immobile abusivo - natura vincolata - ricorrenza dei presupposti in fatto e in
diritto - motivazione delle ragioni di pubblico interesse - non sono
necessarie.
1. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 7,
comma 2, del decreto legge 23.01.1982, n. 9, convertito con modificazioni
con legge 25.03.1982, n. 94, le opere costituenti pertinenze od impianti
tecnologici al servizio di edifici già esistenti sono anch’esse assoggettate
a permesso di costruire nel caso in cui le opere stesse ricadano in zone
soggette a vincoli paesaggistici e ambientali, atteso che la presenza di
tali vincoli comporta, di per sé, uno specifico carico urbanistico
determinato dall’alterazione, anche se non vulnerante, dello specifico
contesto.
2. Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo,
per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino (massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
1. In primo luogo, la ricorrente sostiene che i lavori oggetto
dell’ordinanza di demolizione impugnata consisterebbero in mere opere
interne eseguite in un manufatto già esistente. E tuttavia tale assunto non
trova riscontro nel Verbale n. 6243/2007 del 23.04.2007, redatto dalla
Polizia Municipale del Comune di Frascati e dei relativi allegati, atto che
fa piena prova di quanto ivi affermato fino a querela di falso e nel quale
si parla di un volume realizzato ex novo in prossimità del muro di
contenimento e di confine.
2. In secondo luogo, l’opera, in ragione delle sue dimensioni, non può
essere considerata un volume tecnico: il manufatto risulta avere misure
planimetriche di ml. 9,30 x 3,50 (esterne) con altezze al colmo di ml. 2,60
e all’imposta di ml. 2,10 (misure interne).
Come noto, infatti, la giurisprudenza, sul punto, è ferma nel ritenere che “Rientrano
nella nozione di pertinenza, sotto il profilo urbanistico, solo quei
manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto all'edificio a cui sono
annessi, mentre non può essere permessa la costruzione di opere di rilevante
importanza soltanto perchè destinate al servizio ed all'ornamento del bene
principale; è perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione di
opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico, sono da considerarsi
come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano aree e volumi
diversi” (si legga, tra le molte, Cons. Stato, Sez. V, 30.11.2000, n.
6358).
Inoltre, ai sensi di quanto previsto dall’art. 7, comma 2, del decreto legge
23.01.1982, n. 9, convertito con modificazioni con legge 25.03.1982, n. 94,
le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di
edifici già esistenti sono anch’esse assoggettate a permesso di costruire
nel caso in cui le opere stesse ricadano in zone soggette a vincoli
paesaggistici e ambientali, atteso che la presenza di tali vincoli comporta,
di per sé, uno specifico carico urbanistico determinato dall’alterazione,
anche se non vulnerante, dello specifico contesto (Consiglio di Stato, Sez.
V – Sentenza 13.05.2002 n. 2575), per cui nel caso di specie, essendo l’area
oggetto di due vincoli, sarebbe stato comunque necessario l’ottenimento del
permesso del costruire.
3. La ricorrente solleva il vizio di difetto di motivazione del
provvedimento impugnato.
Come è noto, in relazione alla motivazione dell’ordinanza di demolizione
(sulla quale peraltro già esisteva una copiosa giurisprudenza nei termini
della doverosità dell’ordinanza demolitoria) è intervenuta la sentenza n.
9/17 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha affermato il
principio di diritto per cui: “il provvedimento con cui viene ingiunta,
sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai
assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non
richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse
da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”, per cui il vizio è destituito di fondamento
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 02.12.2019 n. 13763 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 4 della legge n. 13 del 1989, gli interventi volti ad
eliminare le barriere architettoniche previste dall’art. 2 della stessa
legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone
svantaggiate, dovendosi intendere come tali non solo quelle portatrici di
disabilità, ma anche le persone che soffrono di disagi fisici e difficoltà
motorie, possono essere effettuati anche su edifici sottoposti a vincolo
come beni culturali, sicché l'autorizzazione può essere negata solo ove non
sia possibile realizzare le opere senza pregiudizio del bene tutelato.
---------------
Considerato in diritto che:
- l’appello è prima facie infondato, con conseguente
applicabilità dell’art. 74 cod. proc. amm.;
- sotto il primo profilo dedotto, il diniego opposto
all’istanza dell’odierno appellante costituisce una adeguata esplicazione
delle ragioni sottese all’insussistenza dei profili dedotti;
- al riguardo l’amministrazione ha motivato il proprio diniego
sulla base di un duplice richiamo, per un verso, alle consulenze tecniche di
ufficio acquisite all’esito del giudizio civile pendente fra le parti
private e, per un altro verso, alla relazione istruttoria prot. n. 106/UTC
del 19.03.2007, resa da tecnici incaricati del procedimento amministrativo;
- per ciò che concerne le consulenze tecniche, depositate la prima
il 15.12.2005 e la seconda il 18.09.2006, esse risultano all’evidenza
preminenti rispetto a quella invocata da parte appellante, risalente al
31.10.2001 e quindi anteriore;
- orbene, dinanzi a tali elementi, il vizio dedotto in appello
risulta destituito di fondamento, in quanto, limitandosi a contestare la
sufficienza di tali elementi, nulla deduce di specifico in senso contrario,
al fine di evidenziare le solo genericamente lamentate difformità;
- sotto il secondo profilo, valgono considerazioni analoghe
a quelle sopra svolte in merito alle risultanze degli approfondimenti
tecnici svolti in sede giurisdizionale, nonché alla genericità delle
deduzioni di parte appellante, prive di concreti elementi in base ai quali
anche solo ipotizzare le misure invocate e quelle contestate;
- al riguardo, assume rilievo dirimente l’esito del giudizio civile
conclusosi con la sentenza n. 9101 del 2018 della Cassazione, depositata nel
giudizio ed al cui contenuto si rinvia;
- invero, relativamente alla natura delle opere in contestazione,
la rilevanza del tema è nota anche alla giurisprudenza di questo Consiglio,
come emerge, a titolo esemplificativo, dall’orientamento secondo il quale (cfr.
ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 18.10.2017, n. 4824), ai sensi dell’art.
4 della legge n. 13 del 1989, gli interventi volti ad eliminare le barriere
architettoniche previste dall’art. 2 della stessa legge, ovvero quelli volti
a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate, dovendosi
intendere come tali non solo quelle portatrici di disabilità, ma anche le
persone che soffrono di disagi fisici e difficoltà motorie, possono essere
effettuati anche su edifici sottoposti a vincolo come beni culturali, sicché
l'autorizzazione può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le
opere senza pregiudizio del bene tutelato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.12.2019 n. 8225 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria
relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di
servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa
distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96,
lett. f), r.d. 523/1904, ha carattere assoluto ed inderogabile.
Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto
dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione
pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle
acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque
scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere
legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale
divieto non sono suscettibili di sanatoria.
---------------
6. L’appello è infondato.
6.1 Quanto al supposto condono tacito, va ribadito che, ai sensi degli artt.
31 e 33 l. 47/1985, non sono suscettibili di sanatoria le opere edilizie
realizzate in contrasto con i vincoli imposti da leggi statali.
I manufatti realizzati sul terreno di proprietà del ricorrente ricadono
nella fascia di rispetto lungo l’argine di un corso d’acqua (Torrente
Baganza), area soggetta al vincolo di inedificabilità assoluta ex art. 96,
lett. f), regio decreto 523/1904.
Testualmente l’art. 96 r.d. 523/1904, a prescindere dalla disciplina vigente
nelle diverse località, include (sotto la dizione onnicomprensiva “fabbriche”)
gli interventi edilizi che comportino alterazioni o modificazioni dello
stato dei luoghi della fascia di rispetto.
Il divieto obbedisce ad interessi pubblici di rango primario quali la tutela
delle acque e la sicurezza dei luoghi sì da non consentire di dare rilievo
alla conformazione del corpo superficiario, e cioè al fatto che esso si
presenti con argini o sponde.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già da tempo affermato, del
tutto condivisibilmente, che è legittimo il diniego di rilascio di
concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato
all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di
costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali,
imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 523/1904, ha carattere assoluto ed
inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in
contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 47/1985 sul
condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità,
includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di
edificare in determinate aree (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 26.03.2009 n.
1814).
Come è chiarito costantemente dalla giurisprudenza, il divieto di
costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera
f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di
assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma
anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi,
torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., sez. un., 30.07.2009
n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere
costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art.
33 l. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr., per
tutte, Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2011 n. 3781 e 12.02.2010 n. 772, Id.
sez. V, 26.03.2009 n. 1814).
6.2 Quanto al rilievo della disciplina urbanistica dell’area e al dato
testuale contenuto nella lettera f) dell'art. 96 r.d. cit. –laddove
commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti
nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla
distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del
terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi"– va qui
riaffermato il carattere eccezionale di detta normativa.
Per prevalere sulla norma generale, la disciplina locale deve avere
carattere specifico, ossia compendiarsi in una normativa espressamente
dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza
dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola
generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle
acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di
stabilirvi l'eventuale deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di
uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma
occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla
regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in
eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell'art. 96, in
relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr.,
in tal senso, Cass. civ., Sez. un., 18.07.2008 n. 19813 e Cons. Stato, Sez.
IV, 29.04.2011 n. 2544).
In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G., deve
ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella
generale, alla quale dunque occorre fare riferimento.
Nel caso di specie, tuttavia, non vi è notizia di alcuna previsione
urbanistica ovvero di alcuna normazione locale che abbia disciplinato
l’ampiezza del vincolo in questione, con la conseguenza che l’ampiezza dello
stesso ricade nella previsione generale dei dieci metri, contenuta nella
fonte legislativa più volte sopra citata.
6.3 Quanto al rilievo di fatto sull’ individuazione dell’argine del torrente
Baganza, ossia della coincidenza o meno con il piede dell’argine dal quale
misurare la distanza sono dirimenti i rilievi eseguiti dall’Agenzia
regionale per la Sicurezza Territoriale e la Protezione Civile.
L’Agenzia classifica le arginature esistenti lungo le sponde del torrente
Baganza quali opere idrauliche di terza categoria ai sensi degli artt. 7-8 e
ss. del r.d. 523/1904: ha chiarito che, in presenza di manufatto arginale,
il punto di demarcazione deve identificarsi con il piede lato campagna,
ovvero quello più distante dal corso d’acqua, mentre in caso di sponda
naturale deve ritenersi identificato con il ciglio della stessa.
6.4 Senza che in contrario rilevi se la costruzione dell’argine sia pubblica
o eseguita a cura di privati: dirimente è il rispetto della distanza di 10
metri misurati dal lato esterno rispetto al corso del fiume dell’argine, sia
esso pubblico o privato.
6.5 La generica contestazione del ricorrente non supplisce all’onere
probatorio gravante su di esso di fornire la prova sulle condizioni e sulla
consistenza dell'abuso, spettando invece all’amministrazione il compito di
controllare i dati forniti che, se non assistiti da attendibile consistenza,
implicano la reiezione della relativa istanza (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 14.12.2018 n. 7042).
Nel caso procedimento di condono edilizio, infatti, non è onere
dell’amministrazione comprovare le circostanze richieste dalla legge per il
condono, spettando all’interessato la rigorosa prova delle stesse (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2018 n. 1837). Ciò in quanto è il richiedente
che versa in una situazione di illecito e che, se intende riportare alla
“liceità” quanto abusivamente realizzato per il tramite dell'adozione da
parte della pubblica amministrazione di una concessione edilizia in
sanatoria, ha l’onere di provare la sussistenza dei presupposti e requisiti
normativamente previsti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.08.2017 n. 4060).
7. Conclusivamente l’appello deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2019 n. 8184 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono
collegati a presupposti diversi, non sovrapponibili fra loro, in quanto il
certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile sia
stato realizzato secondo le norme tecniche vigenti in materia di sicurezza,
salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti,
mentre il titolo edilizio è finalizzato all'accertamento del rispetto delle
norme edilizie ed urbanistiche.
Il rilascio del certificato di abitabilità (o di agibilità) non preclude
quindi agli uffici comunali la possibilità di contestare successivamente la
presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, né costituisce rinuncia
implicita a esigere il pagamento dell'oblazione per il caso di sanatoria, in
quanto il certificato svolge una diversa funzione, ossia garantisce che
l'edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili.
---------------
8.2 Analogamente, non può invocarsi una deroga a fronte dell’ottenimento di
un titolo, la licenza di abitabilità, avente fini diversi.
A quest’ultimo riguardo, il permesso di costruire ed il certificato di
agibilità sono collegati a presupposti diversi, non sovrapponibili fra loro,
in quanto il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che
l'immobile sia stato realizzato secondo le norme tecniche vigenti in materia
di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli
impianti, mentre il titolo edilizio è finalizzato all'accertamento del
rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche.
Il rilascio del certificato di abitabilità (o di agibilità) non preclude
quindi agli uffici comunali la possibilità di contestare successivamente la
presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, né costituisce rinuncia
implicita a esigere il pagamento dell'oblazione per il caso di sanatoria, in
quanto il certificato svolge una diversa funzione, ossia garantisce che
l'edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2019 n. 8180 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere
“legittimo” in capo al proprietario
dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole,
idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata, come accade
nella diversa ipotesi della autotutela decisoria su titoli edilizi
illegittimamente rilasciati.
A quest’ultimo riguardo, gli oneri motivazionali, applicabili nel diverso
ambito dell’autotutela decisoria, non valgono per l’ordine di demolizione il
quale deve ritenersi adeguatamente motivato in forza del richiamo al
comprovato carattere abusivo dell’intervento.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato
(dovendo essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività
dell’intervento) e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né
una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al
mantenimento in loco dell’immobile, essendo la relativa ponderazione compiuta a monte dallo stesso
legislatore nel senso della doverosità della demolizione (cfr. art. 31,
comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
Ciò in generale in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare e, in particolare, a
fronte di attività abusiva in zona vincolata, oggetto di specifica e ancor
più severa disciplina di tutela.
Né il principio della Plenaria risulta limitato o limitabile all’ipotesi
dell’assenza di titolo in quanto anche la difformità, nella specie
oltretutto qualificabile come variazione essenziale in zona vincolata,
mantiene la qualifica generale di abuso, concetto unitario ai fini in esame.
Ciò sia per mancata espressa limitazione formale, non ricavabile infatti
dalle norme né dal diritto vivente sancito dal Supremo Consesso, sia per la
piena applicabilità logico giuridica degli argomenti predetti ad entrambe le
ipotesi.
Anzi, la parziale difformità, meno evidente rispetto all’abuso totale, si
rende meno percepibile dagli organi deputati alla vigilanza, senza quindi
che possa sorgere alcun affidamento il quale, negli eccezionali limiti
ammissibili, presuppone comunque una piena conoscenza dell’abuso in capo
alla stessa p.a..
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8.3 Sempre in termini generali, l’inerzia non può certamente radicare un
affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario
dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole,
idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata, come accade
nella diversa ipotesi della autotutela decisoria su titoli edilizi
illegittimamente rilasciati.
A quest’ultimo riguardo, gli oneri motivazionali, applicabili nel diverso
ambito dell’autotutela decisoria, non valgono per l’ordine di demolizione il
quale deve ritenersi adeguatamente motivato in forza del richiamo al
comprovato carattere abusivo dell’intervento.
8.4 L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato
(dovendo essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività
dell’intervento) e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né
una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al
mantenimento in loco dell’immobile (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21.03.2017,
n. 1267), essendo la relativa ponderazione compiuta a monte dallo stesso
legislatore nel senso della doverosità della demolizione (cfr. art. 31,
comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
Ciò in generale in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare e, in particolare, a
fronte di attività abusiva in zona vincolata, oggetto di specifica e ancor
più severa disciplina di tutela.
8.5 Né il principio della Plenaria risulta limitato o limitabile all’ipotesi
dell’assenza di titolo in quanto anche la difformità, nella specie
oltretutto qualificabile come variazione essenziale in zona vincolata,
mantiene la qualifica generale di abuso, concetto unitario ai fini in esame.
Ciò sia per mancata espressa limitazione formale, non ricavabile infatti
dalle norme né dal diritto vivente sancito dal Supremo Consesso, sia per la
piena applicabilità logico giuridica degli argomenti predetti ad entrambe le
ipotesi.
Anzi, la parziale difformità, meno evidente rispetto all’abuso totale, si
rende meno percepibile dagli organi deputati alla vigilanza, senza quindi
che possa sorgere alcun affidamento il quale, negli eccezionali limiti
ammissibili, presuppone comunque una piena conoscenza dell’abuso in capo
alla stessa p.a.
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2019 n. 8180 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso
spese legali sostenute dal pubblico dipendente per la difesa in giudizio per
fatti attinenti il proprio lavoro.
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Pubblico impiego privatizzato – Spese legali – Rimborso – Presupposti -
Individuazione
Presupposti per il rimborso delle spese legali
sostenute dal pubblico dipendente per la difesa in giudizio per fatti
attinenti il proprio lavoro sono la pronuncia di una sentenza o di un
provvedimento definitivo del giudice, che abbia escluso definitivamente la
responsabilità del dipendente e la sussistenza di una connessione tra i
fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e
l’assolvimento degli obblighi istituzionali (1).
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(1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 18 sopra riportato
attribuisce un peculiare potere valutativo all’Amministrazione con
riferimento all’an ed al quantum, poiché essa deve verificare
se sussistano in concreto i presupposti per disporre il rimborso delle spese
di giudizio sostenute dal dipendente, nonché –quando sussistano tali
presupposti- se siano congrue le spese di cui sia chiesto il rimborso – con
l’ausilio della Avvocatura dello Stato, il cui parere di congruità ha natura
obbligatoria e vincolante (Cons. St., sez. II, 31.05.2017, n. 1266; id.,
sez. IV, 08.07.2013, n. 3593).
Di per sé il parere –per la sua natura tecnico-discrezionale– non deve
attenersi all’importo preteso dal difensore (Cons. St., sez. II, 20.10.2011,
n. 2054/2012), o a quello liquidato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati
per quanto rileva nei rapporti tra il difensore e l’assistito (Cons. St.,
sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. VI, 08.10.2013, n. 4942), ma deve
valutare quali siano state le effettive necessità difensive (Cass. civ., S.U.,
06.07.2015, n. 13861; Cons. St., sez. IV, 07.10.2019, n. 6736; Sez. II,
31.05.2017, n. 1266; Sez. II, 20.10.2011, n. 2054/12) ed è sindacabile in
sede di giurisdizione di legittimità per errore di fatto, illogicità,
carenza di motivazione, incoerenza, irrazionalità o per violazione delle
norme di settore (Cons. St., sez. II, 30.06.2015, n. 7722).
Qualora il diniego (totale o parziale) di rimborso risulti illegittimo, il
suo annullamento non comporta di per sé l’accertamento della spettanza del
beneficio, dovendosi comunque pronunciare sulla questione l’Amministrazione,
in sede di emanazione degli atti ulteriori.
Presupposti per il rimborso sono: a) la pronuncia di una sentenza o di un
provvedimento definitivo del giudice, che abbia escluso definitivamente la
responsabilità del dipendente; b) la sussistenza di una connessione tra i
fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e
l’assolvimento degli obblighi istituzionali.
Quanto alla pronuncia definitiva sull’esclusione della responsabilità del
dipendente, qualora si tratti di una sentenza penale si deve trattare di un
accertamento della assenza di responsabilità, anche quando –in assenza di
ulteriori specificazioni contenute nell’art. 18- sia stato applicato l’art.
530, comma 2, del codice di procedura penale (Cons. St., sez. IV,
04.09.2017, n. 4176; id., A.G., 29.11.2012, n. 20/13; id., sez. IV,
21.01.2011, n. 1713).
L’art. 18, invece, non può essere invocato quando il proscioglimento sia
dipeso da una ragione diversa dalla assenza della responsabilità, cioè
quando sia stato disposto a seguito dell’estinzione del reato, ad esempio
per prescrizione, o quando vi sia stato un proscioglimento per ragioni
processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di
procedibilità dell’azione (Cons. St., sez. IV, 04.09.2017, n. 4176).
Oltre alla pronuncia del giudice che espressamente abbia escluso la
responsabilità del dipendente, l’art. 18 ha disciplinato un ulteriore
presupposto per la spettanza del beneficio, e cioè la sussistenza di una
connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del
servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali: l’art. 18 si applica
a favore del dipendente che abbia agito in nome e per conto, oltre che
nell’interesse della Amministrazione (e cioè quando per la condotta oggetto
del giudizio sia ravvisabile il ‘nesso di immedesimazione organica’).
Tale connessione sussiste –sia pure in modo peculiare- qualora sia stata
contestata al dipendente la violazione dei doveri di istituto e, all’esito
del procedimento, il giudice abbia constatato non solo l’assenza della
responsabilità, ma che esso sia sorto in esclusiva conseguenza di condotte
illecite di terzi, di natura diffamatoria o calunniosa, oppure qualificabili
come un millantato credito (si pensi al funzionario, al dirigente o al
magistrato accusato di corruzione, ma in realtà del tutto estraneo ai fatti,
perché vittima di una orchestrata attività calunniosa o di un millantato
credito emerso dopo l’attivazione del procedimento penale).
Sotto tale profilo, l’art. 18 tutela senz’altro –col rimborso delle spese
sostenute- il dipendente statale che sia stato costretto a difendersi, pur
innocente, nel corso del procedimento penale nel quale –esclusivamente in
ragione del suo status e non per l’aver posto in essere specifici atti- sia
stato coinvolto nel procedimento penale perché sostanzialmente vittima di
illecite condotte altrui, che per un qualsiasi motivo illecito hanno
coinvolto il dipendente, a maggior ragione se è stato designato come vittima
proprio quale appartenente alle Istituzioni e per il servizio prestato.
Qualora in tali casi il giudice penale disponga il proscioglimento del
dipendente statale, non rileva pertanto la natura attiva od omissiva della
condotta oggetto della contestazione, perché ciò che conta è l’accertamento
da parte del giudice penale dell’estraneità del dipendente ai fatti
contestati, nonché il carattere diffamatorio o calunnioso delle
dichiarazioni altrui
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2019 n. 8137 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione
di un parere vincolante.
Non può affermarsi, in via generale,
che un parere vincolante, una volta
espresso, possa (anzi debba) essere oggetto
di immediata e autonoma impugnazione entro
il termine decadenziale previsto per il
ricorso giurisdizionale; affermare il
contrario significherebbe:
- in primo luogo,
negare la distinzione tra funzione di
amministrazione attiva e funzione
consultiva, pur mantenuta dalla norma;
- in
secondo luogo, determinerebbe un
"trasferimento" di potestà provvedimentale
che, per un verso, annullerebbe la
categoria stessa dei pareri vincolanti
(rendendo questi atti sostanziale
espressione di amministrazione attiva);
-
per altro verso, svuoterebbe
programmaticamente di contenuto il potere
provvedimentale, di fatto trasferendolo in
capo ad organi diversi da quelli individuati
dalla legge, in evidente contraddizione con
il principio di legalità in senso formale
(fattispecie in tema di parere della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio reso in un procedimento di
richiesta di compatibilità paesaggistica)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.11.2019 n. 2545 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. L’eccezione di irricevibilità per
tardività dell’impugnazione del parere della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio Prot. 25066 P.G.
779614/2012 del 29.11.2012, nella parte in
cui esprime, ai sensi dell’art. 167, c. 5,
del D.Lgs. 42/2004, parere contrario alla
formazione della copertura vetrata, di cui
alla richiesta di compatibilità
paesaggistica P.G. 583051/2012 del
19/09/2012, sollevata dal Comune, è
infondata.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez.
IV, 28.03.2012, n. 1829) ha
condivisibilmente sostenuto che affermare,
in via generale, che un parere vincolante,
una volta espresso, possa (anzi debba)
essere oggetto di immediata ed autonoma
impugnazione entro il termine decadenziale
previsto per il ricorso giurisdizionale: in
primo luogo, nega la distinzione tra
funzione di amministrazione attiva e
funzione consultiva, pur mantenuta dalla
norma; in secondo luogo, determina un "trasferimento"
di potestà provvedimentale che, per un
verso, annulla la categoria stessa dei
pareri vincolanti (rendendo questi atti
sostanziale espressione di amministrazione
attiva); per altro verso, svuota
programmaticamente di contenuto il potere
provvedimentale, di fatto trasferendolo in
capo ad organi diversi da quelli individuati
dalla legge, in evidente contraddizione con
il principio di legalità (in senso formale).
2. In ogni caso l’impugnazione del
provvedimento datato 29.07.2014 PG
487938/2014, con cui il Direttore del
Settore Sportello Unico per l'Edilizia,
Ufficio Tutela del Paesaggio, ha respinto la
richiesta di accertamento di compatibilità
paesaggistica è irricevibile per tardività
in quanto l’atto è stato spedito dal Comune
in data 26.08.2014 e la notifica si è
perfezionata per compiuta giacenza.
3. L’impugnazione del provvedimento del
Comune di Milano, P.G. 27.11.2014, spedito
alla Società in data 22.04.2015, con cui il
Comune ha ordinato il ripristino dello stato
dei luoghi ai sensi dell'art. 167 del D.lgs.
n. 42/2004 è inammissibile nella parte in
cui contesta fatti già accertati con i
precedenti provvedimenti, quali il valore
paesistico della facciata e la lesività
delle opere nei confronti dei beni giuridici
protetti, in quanto accertati con i
provvedimenti non impugnati nei termini. |
APPALTI: Limiti
quantitativi al subappalto: incompatibilità con il diritto europeo estesa
alla riduzione dei prezzi applicabili dall’affidatario al subappaltatore.
La Corte di giustizia ha riaffermato la non conformità alla direttiva n.
2004/18/CE di una disciplina nazionale (nel caso di specie contenuta
nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006) nella parte in cui prevede il
limite quantitativo del trenta per cento alle prestazioni subappaltabili,
poiché quest’ultimo è ex se inidoneo al raggiungimento dello scopo di
contrastare le infiltrazioni criminali nel sistema degli appalti pubblici.
Ha, altresì, dichiarato l’illegittimità della predetta disciplina nella
parte in cui vieta che i prezzi applicabili alle prestazioni affidate in
subappalto siano ridotti di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti
dall’aggiudicazione in quanto si tratta di strumento che eccede rispetto
alla necessità di assicurare la tutela salariale dei lavoratori impiegati
nel subappalto.
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Contratti pubblici – Subappalto –
Limiti alla quota sub appaltabile e ai prezzi applicabili alle prestazioni
affidate in sub appalto – Automaticità – Esclusione
La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
dev’essere interpretata nel senso che:
– essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del
procedimento principale, che limita al 30% la quota parte dell’appalto che
l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi;
– essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del
procedimento principale, che limita la possibilità di ribassare i prezzi
applicabili alle prestazioni subappaltate di oltre il 20% rispetto ai prezzi
risultanti dall’aggiudicazione. (1)
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(1) I. – Ha affermato la sentenza in rassegna che la direttiva n.
2004/18/CE, in materia di appalti pubblici, deve essere interpretata nel
senso che essa osta a una normativa nazionale che limita al trenta per cento
la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi e
al venti per cento la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle
prestazioni subappaltate rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
II. – Il rinvio pregiudiziale era stato disposto da
Cons. Stato, sezione VI, ordinanza 11.06.2018, n. 3553 (in Guida
al dir., 2018, 29, 84, con nota di TOMASSETTI; Riv. trim. appalti, 2018,
871, con nota di FEDRIZZI e oggetto della
News US in data 15.06.2018), nell’ambito di una vicenda
contenziosa inerente all’affidamento di un appalto per il servizio di
pulizia mediante il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa e
per un importo superiore alla soglia comunitaria.
La Corte di giustizia si è limitata a scrutinare la conformità
all’ordinamento UE dell’(ormai) abrogato art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006,
benché il perimetro delle questioni pregiudiziali ricomprendesse l’omologo
art. 105 del d.lgs. n. 50 del 2016, disposizione, quest’ultima, già oggetto
di altro rinvio ex art. 267 Trattato FUE disposto da
Tar per la Lombardia, sez. I, ordinanza 19.01.2018, n. 148 (in
Riv. trim. appalti, 2018, 871, con nota di FEDRIZZI, nonché oggetto della
News US, in data 06.02.2018), recentemente definito con sentenza
della
Corte di giustizia UE, 26.09.2019, C-63/18, Vitali s.p.a.
(oggetto della
News US in data 14.10.2019 alla quale si rinvia per ogni
ulteriore approfondimento). In punto di disciplina applicabile alla vicenda
procedimentale oggetto del giudizio principale, la Corte ha evidenziato che:
a) la direttiva applicabile è, in linea di
principio, quella in vigore alla data in cui l’amministrazione
aggiudicatrice sceglie il tipo di procedura da seguire e sono, al contrario,
inapplicabili le disposizioni di una direttiva il cui termine di recepimento
sia scaduto dopo tale data (Corte di giustizia UE, sez. II, 10.07.2014,
C-213/13, Impresa Pizzarotti, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, in Guida
al dir., 2014, 31, 80, con nota di CASTELLANETA; Corriere trib., 2014, 3172,
con nota di ROMANO, CONTI; Dir. comunitario scambi internaz., 2014, 393, con
nota di STILE; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2014, 1055, con nota di
FERRARO; Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2014, 1960, con nota di SCIALLA;
Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2014, 2026, con nota di MERCURI; Giornale
dir. amm., 2015, 53, con nota di GALLI; Riv. it. dir. pubbl. comunitario,
2015, 917, con nota di FIGLIOLIA; Riv. dir. proc., 2016, 508, con nota di
CORDOPATRI);
b) nel caso di specie risultava applicabile la
direttiva n. 2004/18/CE, abrogata dalla direttiva n. 2014/24/UE con effetto
dal 18.04.2016 (termine ultimo per il suo recepimento), poiché il bando di
gara era stato emanato anteriormente a tale data (ossia il 24.12.2015);
Il presupposto di fondo dal quale muoveva il rinvio pregiudiziale - in
relazione alla previgente direttiva “appalti” e ai parametri degli
articoli 49 e 56 Trattato FUE - era dato dall’ammissibilità e sostenibilità
di un’offerta risultata aggiudicataria, il cui forte ribasso, che ha
consentito l’aggiudicazione, è stato ottenuto attraverso un meccanismo che
ha comportato la previsione di affidamento in subappalto di prestazioni
superiori al limite del trenta per cento, con riconoscimento in favore delle
imprese subappaltatrici di un compenso inferiore di oltre il venti per cento
rispetto a quanto praticato in base all’offerta.
Il Consiglio di Stato aveva evidenziato, anche sulla base di propri
precedenti pronunciamenti in sede consultiva (cfr. Cons. Stato, Adunanza
della Commissione speciale, parere, 30.03.2017, n. 782, in Foro amm., 2017,
614 e Cons. Stato, Adunanza della Commissione speciale, parere
dell’10.04.2016, n. 855, in Merito extra, n. 2016.715.1), che:
c) le disposizioni nazionali rilevanti nel caso
di specie sono contenute nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006, che al
comma secondo prevede(va) che la quota subappaltabile non può essere
superiore al trenta per cento dell’importo complessivo del contratto, mentre
al comma quarto stabilisce che l'affidatario deve praticare, per le
prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti
dall'aggiudicazione, con ribasso non superiore al venti per cento;
d) le suddette limitazioni quantitative al
subappalto sono state introdotte per la prima volta nell’ordinamento
dall’art. 18 della legge n. 55 del 1990 e sono poi confluite nelle varie
leggi che si sono succedute in materia di appalti pubblici;
e) si tratta di disciplina di particolare rigore
che trova origine nella consapevolezza che il subappalto, soprattutto
laddove resti confinato alla fase esecutiva dell’appalto e sfugga a ogni
controllo amministrativo, può ben prestarsi ad essere utilizzato
fraudolentemente, per eludere le regole di gara e acquisire commesse
pubbliche indebitamente, nell’ambito di contesti criminali;
f) nel diritto UE le previsioni espresse in
materia di subappalto sono contenute nell’art. 71 della direttiva n.
2014/24/UE, la quale non contempla alcun limite quantitativo al subappalto,
e nella previgente analoga disciplina dell’art. 25 della direttiva n.
2004/18/CE; ma risultano rilevanti, in termini più generali, anche gli artt.
49 e 56 Trattato FUE sulla libertà di stabilimento e la libera prestazione
dei servizi all’interno dell’Unione europea.
III. – La Corte di giustizia -dopo aver esaminato la normativa
interna ed europea di riferimento e dichiarato ricevibili le questioni ad
essa sottoposte in considerazione della rilevanza delle stesse e
dell’avvenuta corretta definizione, ad opera del giudice del rinvio, della
domanda di pronuncia pregiudiziale (Corte di giustizia UE, 28.03.2019,
C-101/18, Idi, punto 28 e giurisprudenza ivi citata)- ha concluso per la
non conformità della disciplina nazionale alla direttiva n. 2004/18/CE sulla
base delle seguenti considerazioni:
g) sul limite del trenta per cento della quota
parte dell’appalto che l’operatore economico è autorizzato a subappaltare a
terzi:
g1) obiettivo dell’ordinamento
UE in materia di appalti pubblici è quello di garantire nelle procedure di
affidamento l’apertura alla concorrenza, la libera circolazione delle merci,
la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, nonché i
principi che ne derivano, quali, in particolare, quello di parità di
trattamento, di non discriminazione, proporzionalità e trasparenza;
g2) la direttiva n. 2004/18/CE
sancisce la facoltà, per l’operatore economico, di ricorrere al subappalto
(v. Corte di giustizia UE, sez. III, 14.07.2016, C-406/14, Wrocław –
Miasto na prawach powiatu, punti da 31 a 33, in Foro it.,
2016, IV, 389) nonché la facoltà dell’amministrazione aggiudicatrice di
richiedere ai partecipanti alla gara di esplicitare tale volontà
nell’offerta con indicazione delle imprese subappaltatrici proposte;
g3) ai sensi dell’art. 25,
primo comma, della direttiva n. 2004/18/CE, l’amministrazione aggiudicatrice
può vietare il ricorso a subappaltatori dei quali essa non sia stata in
grado di verificare le capacità nella procedura di gara;
g4) la lettura di siffatta
disciplina eurounitaria deve essere improntata a canoni interpretativi di
massima partecipazione (a vantaggio non solo degli operatori economici ma
anche delle amministrazioni aggiudicatrici) e di garanzia di un più facile
accesso delle piccole e medie imprese alle procedure (Corte di giustizia UE,
sez. V, 10.10.2013, Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino, C-94/12,
punto 34, in Guida al dir., 2013, 43, 94, con nota di MASARACCHIA; Foro amm.-Cons.
Stato, 2013, 2630; Appalti & Contratti, 2013, 11, 84 (m), con nota di
TRAMONTANA; Urbanistica e appalti, 2014, 147, con nota di CARANTA);
g5) siffatta impostazione è in
linea (id est: non trova un ostacolo) nelle finalità della –ampiamente
restrittiva– disciplina italiana sul subappalto la cui ratio, sin
dall’origine, è quella di contrastare i tentativi dell’infiltrazione
criminale, in considerazione che:
I) la direttiva n. 2004/18/CE salvaguarda
le esigenze di tutela dell’ordine, della moralità e della sicurezza pubblici
ed impedisce (considerando 43) l’affidamento delle commesse a operatori
economici che hanno partecipato a un’organizzazione criminale;
II) la
disciplina eurounitaria riconosce agli Stati membri un certo potere
discrezionale nell’adozione di misure destinate a garantire il rispetto
dell’obbligo di trasparenza (Corte di giustizia UE, sez. X, 22.10.2015,
C-425/14, Impresa Edilux e SICEF, punti 27 e 28 (in Appalti & Contratti,
2015, 12, 90, con nota di CANAPARO; Giur. it., 2016, 1459, con nota di
CRAVERO; Giornale dir. amm., 2016, 318, con nota di VINTI);
g6) ove pure si ritenesse che
una “restrizione quantitativa” al ricorso al subappalto possa essere
considerata idonea a contrastare le infiltrazioni della criminalità
organizzata, una limitazione come quella imposta dall’art. 118 del d.lgs.
n. 163 del 2006 “eccede quanto necessario al raggiungimento di tale
obiettivo” (punto 45) in considerazione che l’amministrazione è comunque in
grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati, da indicarsi
nella documentazione di gara;
h) sulla remunerazione delle prestazioni
subappaltate con un ribasso superiore al venti per cento rispetto ai prezzi
risultanti dall’aggiudicazione:
h1) la disciplina nazionale
impone il limite del venti per cento in modo imperativo, a pena di
esclusione, indipendentemente da qualsiasi verifica della sua diretta
correlazione con lo scopo di assicurare ai lavoratori dell’impresa
subappaltatrice una tutela salariale minima;
h2) tale limite rende meno
allettante la possibilità di ricorrere al subappalto dal momento che limita
l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi per il personale
delle imprese subappaltatrici;
h3) ciò contrasta con i
principi di concorrenza e massima partecipazione e con lo scopo di agevolare
l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici;
h4) pur potendosi affermare che
l’obiettivo della tutela dei lavoratori impiegati nel subappalto può, in
linea di principio, giustificare talune limitazioni al ricorso a tale modulo
contrattuale (Corte di giustizia UE, sez. IX, 18.09.2014, C-549/13, Bundesdruckerei, punto 31, in Urbanistica e appalti, 2015, 520, con nota di
BARBERIS; Riv. giur. lav., 2015, II, 33, con nota di GUADAGNO; Riv. it. dir.
lav., 2015, II, 550, con nota di FORLIVESI), non si può ritenere che la
disciplina italiana riconosca ai lavoratori una tutela tale da giustificare
tale limite del venti per cento;
h5) quest’ultimo eccede quanto
necessario per assicurare ai lavoratori impiegati nell’ambito del subappalto
la tutela salariale in quanto:
I) detto limite non “lascia spazio ad una
valutazione caso per caso da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dal
momento che si applica indipendentemente da qualsiasi presa in
considerazione della tutela sociale garantita dalle leggi, dai regolamenti e
dai contratti collettivi applicabili ai lavoratori interessati” (punto 65);
II) non tiene conto che l’impresa subappaltatrice, così come quella
aggiudicataria, è tenuta ad applicare ne confronti dei propri dipendenti i
contratti collettivi nazionali e territoriali di lavoro;
III)
l’aggiudicatario è responsabile in solido del rispetto delle regole
salariali;
h6) il limite del venti per
cento non può essere giustificato neppure dall’obiettivo di garantire la
redditività dell’offerta e la corretta esecuzione dell’appalto in quanto:
I)
tale limite è sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito in
considerazione delle misure alternative perseguibili in tal senso (Corte di
giustizia UE, sez. 05.04.2017, sez. V, C-298/15, Borta, punto 54 e
giurisprudenza ivi citata, in Appalti & Contratti, 2017, 9, 76);
II) la
possibilità offerta all’aggiudicatario di limitare i propri costi nel
rapporto con le imprese subappaltatrici “contribuisce piuttosto a una
concorrenza rafforzata e quindi all’obiettivo perseguito dalle direttive
adottate in materia di appalti pubblici” (punto 74).
IV. – Si segnala per completezza quanto segue:
i) sui principi di parità di trattamento,
trasparenza e proporzionalità nell’affidamento degli appalti pubblici: tra
le altre, Corte di giustizia UE, sez. IV, 23.12.2009, C-376/08, Serrantoni e Consorzio stabile edili, punto 23 (in Arch. giur. oo. pp.,
2010, 217);
j) sul subappalto in generale:
j1) con riferimento alla
disciplina di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006 si vedano: N.
CENTOFANTI, M. FAVAGROSSA e P. CENTOFANTI, Il subappalto, Padova, 2012; A.
GUARNIERI, D. TESSERA, commento all’art. 118, in Commentario al codice dei
contratti pubblici, a cura di G. F. FERRARI, G. MORBIDELLI, Milano, 2013; A.
DI RUZZA, C. LINDA, commento all’art. 118, in Codice dell'appalto pubblico,
a cura di S. BACCARINI, G. CHINÈ, R. PROIETTI, Milano, 2015, 1366 ss.; C.
SADILE, Il subappalto dei lavori pubblici, Milano, 2014; D. GALLI e C.
GUCCIONE, Contratti pubblici: «avvalimento» e subappalto in Giornale dir.
amm., 2015, 127;
j2) con riferimento alla
disciplina di cui all’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 si vedano: MANCINI G.,
Brevi note sui limiti di ammissibilità del subappalto ai sensi dell'art. 105
del nuovo codice degli appalti in Riv. trim. appalti, 2016, 711; M. GENTILE,
Il subappalto nel «nuovo» codice: aumentano limiti, vincoli e dubbi
applicativi in Appalti & Contratti, 2016, 6, 43; R. DE NICTOLIS, I nuovi
appalti pubblici, Bologna, 2017, 1488 ss.;
j3) con riferimento alla
disciplina successiva al correttivo al Codice dei contratti pubblici si
vedano: GENTILE M., Il correttivo allarga <con moderazione> le maglie del
subappalto in Appalti & Contratti, 2017, 7, 15; G. BALOCCO, La riforma del
subappalto e principio di concorrenza in Urbanistica e appalti, 2017, 621;
G.A. GIUFFRE’, Le novità in tema di subappalto in Il correttivo al Codice
dei contratti pubblici, a cura di M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI,
Milano, 2017, p. 331; M. CERUTI, Alcune brevi riflessioni in tema di
subappalto fra tutela della concorrenza e prevenzione dell'illegalità, in
Contratti Stato e enti pubbl., 2018, 3, pp. 39-52; D. PONTE, Subappalto: al
50% il limite dell'importo e abolita la terna (D.L. 18.04.2019 n. 32),
in Guida al dir., 2019, 85-87;
j4) sulla nuova disciplina del
d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni urgenti per
il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli
interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a
seguito di eventi sismici” (cd. “Sblocca cantieri”), convertito
con modificazioni in l. 14.06.2019, n. 55 (oggetto della
News normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per
approfondimenti) si veda, in particolare, il contributo di DE NICTOLIS, Le
novità sui contratti pubblici recate dal d.l. n. 32/2019, ivi richiamato:
I) il d.l. n. 32 del 2019 recava nella versione originaria un parziale
adeguamento dell’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 ai rilievi della Commissione
europea in quanto modificava il limite generale del subappalto, innalzandolo
dal trenta al cinquanta per cento dell’importo contrattuale;
II) non veniva accolto, invece, il rilievo della Commissione europea
relativo al limite del subappalto per le opere di cui all’art. 89, comma 11
(art. 105, comma 5), ritenendosi tale limite giustificato dalla particolare
natura delle prestazioni (secondo la Commissione europea sono consentiti
limiti quantitativi del subappalto giustificati dalla particolare natura
della prestazione);
III) tali previsioni non sono state convertite in legge ma in sede di
conversione, la l. n. 55 del 2019 ha operato sul subappalto un intervento
transitorio, senza novellare il codice e limitandosi a sospendere
l’efficacia di alcune norme e a derogarne altre, con conseguente
individuazione del limite quantitativo del subappalto fissato nel quaranta
per cento dell’importo complessivo del contratto fino al 31.12.2020;
k) sulla compatibilità con il diritto europeo dei
limiti al subappalto posti dalla legislazione italiana:
k1) in dottrina spunti
specifici sul tema sono offerti da M. MARTINELLI, La capacità economica e
finanziaria, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici a cura di R.
GAROFOLI, M.A. SANDULLI, Milano, 2005, 633 (ove si evidenzia che “la
giurisprudenza comunitaria appare orientata a riconoscere la possibilità di
ricorrere al subappalto oltre i limiti eventualmente stabiliti dalla
normativa interna, allorché i requisiti di capacità del terzo subappaltatore
siano stati valutati in corso di gara dall’amministrazione aggiudicatrice…in
tal caso, infatti, vi sono tutte le garanzie che l’appalto venga
effettivamente eseguito da soggetti dotati di adeguata qualificazione”),
M. E. COMBA, L'esecuzione delle opere pubbliche - Con cenni di diritto
comparato, Torino, 2011, 61 ss., R. CARANTA, I contratti pubblici, Torino,
2012, 364, che, evidenziati i limiti al subappalto della legislazione
italiana, stigmatizza che “si tratta di limiti tout court in contrasto con
il diritto europeo”;
k2) il tema è anche affrontato
nell’ambito dei menzionati pareri resi dal Consiglio di Stato sul nuovo
Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) e sul “correttivo”
allo stesso (d.lgs. n. 56 del 2017): nel parere n. 855 del 2016, cit., il
Consiglio di Stato aveva osservato, in relazione all’art. 105, che il
legislatore nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di
maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non costituirebbero un
ingiustificato goldplating, ma sarebbero giustificati da pregnanti ragioni
di
ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro; nel
parere n. 782 del 2017, cit., il Consiglio di Stato, conclude nel senso che
“la complessiva disciplina delle nuove direttive, più attente, in tema di
subappalto, ai temi della trasparenza e della tutela del lavoro, in una con
l’ulteriore obiettivo, complessivamente perseguito dalle direttive, della
tutela delle micro, piccole e medie imprese, può indurre alla ragionevole
interpretazione che le limitazioni quantitative al subappalto, previste da
legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il diritto
europeo”;
k3) quanto alla giurisprudenza
europea si ricordano i seguenti pronunciamenti:
I) Corte di giustizia UE, sez. V, C- 63/18, cit., secondo cui la normativa
europea in materia di appalti pubblici deve essere interpretata nel senso
che essa osta a una normativa nazionale che limita al trenta per cento la
parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi;
II) sez. V, 05.04.2017, C-298/2015, Borta UAB, secondo cui “per gli
appalti pubblici di rilievo transfrontaliero, anche se sotto la soglia di
applicazione delle direttive europee, è interesse dell'Unione che l'apertura
della procedura alla concorrenza sia la più ampia possibile, e il ricorso al
subappalto, che può favorire l'accesso delle piccole e medie imprese agli
appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo. Pertanto,
una disposizione nazionale, che preveda che in caso di ricorso a
subappaltatori per eseguire un appalto pubblico di lavori, l'aggiudicatario
sia tenuto a realizzare l'opera principale, come descritta
dall'amministrazione aggiudicatrice, costituisce una restrizione alla
libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi”;
III)
sez. IV, 27.10.2016, C-292/15, GmbH (oggetto della
News US in data 08.11.2016), secondo la quale “l’articolo 5,
paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 23.10.2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di
passeggeri su strada e per ferrovia, deve essere interpretato nel senso che,
nel corso di una procedura di aggiudicazione di un appalto di servizio
pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, l’articolo 4, paragrafo 7,
di tale regolamento -che prevede la limitazione del ricorso al subappalto
(commisurata in funzione dei chilometri tabellari)– deve ritenersi
applicabile a tale appalto. L’articolo 4, paragrafo 7, del regolamento n.
1370/2007, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che
l’amministrazione aggiudicatrice stabilisca nella misura del 70% la quota di
fornitura diretta da parte dell’operatore a cui è affidata la gestione e la
prestazione di un servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus,
come quello oggetto del procedimento principale”;
IV) sez. III, 14.07.2016, C-406/14, cit., secondo cui “la direttiva
2004/18/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 31.03.2004,
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal
regolamento (Ce) 2083/2005 della commissione, del 19.12.2005, deve
essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è
autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un
appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una
determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di
risorse proprie”;
V) sez. X, 22.10.2015, C-425/2014, cit., secondo cui “le norme
fondamentali e i principi generali del Tfue, segnatamente i principi di
parità di trattamento e di non discriminazione nonché l'obbligo di
trasparenza che ne deriva, devono essere interpretati nel senso che essi non
ostano a una disposizione di diritto nazionale in forza della quale
un'amministrazione aggiudicatrice possa prevedere che un candidato o un
offerente sia escluso automaticamente da una procedura di gara relativa a un
appalto pubblico per non aver depositato, unitamente alla sua offerta,
un'accettazione scritta degli impegni e delle dichiarazioni contenuti in un
protocollo di legalità, come quello di cui trattasi nel procedimento
principale, finalizzato a contrastare le infiltrazioni della criminalità
organizzata nel settore degli appalti pubblici; tuttavia, nei limiti in cui
tale protocollo preveda dichiarazioni secondo le quali il candidato o
l'offerente non si trovi in situazioni di controllo o di collegamento con
altri candidati o offerenti, non si sia accordato e non si accorderà con
altri partecipanti alla gara e non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad
altre imprese partecipanti alla medesima procedura, l'assenza di siffatte
dichiarazioni non può comportare l'esclusione automatica del candidato o
dell'offerente da detta procedura”;
l) sul “subappalto necessario”, cfr. Cons.
Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 (in Foro it., 2016, III, 65, con
nota di CONDORELLI; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con
nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO,
LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365, con nota di GALLI, CAVINA;
Nuovo dir. amm., 2016, 3, 53, con nota di NARDOCCI), che ha inteso risolvere
il contrasto giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, escludendo
dunque l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappaltatore
già in sede di presentazione dell'offerta, anche “nell'ipotesi in cui il
concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili”
previste dall'art. 107, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, che disciplina i
requisiti di partecipazione alla gara; cfr. anche A. SENATORE, Il subappalto
necessario nella prospettiva evolutiva del d.leg. n. 50/2016 in Urbanistica
e appalti, 2017, 456;
m) sul riparto della competenza legislativa fra Stato e regioni specie avuto
riguardo al subappalto, Corte cost., 17.12.2008, n. 411 (in Foro amm.
CDS 2009, 5, 1192 con nota di CASALINI; Corriere giur., 2009, 640, con nota
di MUSOLINO; Urbanistica e appalti, 2009, 301, con nota di CONTESSA);
n) sulla responsabilità solidale nell’ambito del
subappalto: I. ALVINO, Il regime delle responsabilità negli appalti, in
Giornale dir. lav. relazioni ind., 2007, 115, 507-538; L. IMBERTI, La
responsabilità solidale negli appalti. alla ricerca di un'adeguata tutela
delle posizioni creditorie dei lavoratori, in Argomenti dir. lav., 2008, 2,
2, 523-545; A. MINEO, Aspetti critici in tema di responsabilità solidale
negli appalti e subappalti per le obbligazioni contributive, in Informaz.
prev., 2008, 4, 905-934; A. GIGANTE, Orientamenti in tema di responsabilità
sociale d'impresa nell'Unione europea: il regime della responsabilità
solidale dei subappalti, in Dir. relazioni ind., 2009, 2, 485-489; P.
GIANFORTE, La responsabilità solidale negli appalti pubblici e privati, in
Appalti & contratti, 2017, 5, 51-57; V. TONNICCHI, Osservazioni sulla
disciplina della responsabilità solidale tra committente ed appaltatore.
Suoi riflessi nella disciplina dei contratti pubblici, in Riv. trim.
appalti, 2018, 2, 623-632;
o) sull’estensione della responsabilità solidale
del committente privato a soggetti diversi dai dipendenti dell’appaltatore o
del subappaltatore, si veda Corte cost., 13.12.2017, n. 254 (in Lavoro giur.,
2018, 259, con nota di SITZIA; Argomenti dir. lav., 2018, 582, con nota di
TAGLIENTE; Giur. cost., 2017, 2704, con nota di PRINCIPATO; Riv. it. dir.
lav., 2018, II, 237, con nota di ALVINO; Guida al lav., 2018, 1, 62, con
nota di ZAMBELLI; Dir. relazioni ind., 2018, 611, con nota di DEL FRATE; Riv.
giur. lav., 2018, II, 298, con nota di CALVELLINI);
p) sul tema dell’interpretazione del diritto
dell’Unione e sul rinvio pregiudiziale:
p1) sulle finalità del rinvio
pregiudiziale: Corte di giustizia UE, 05.07.2018, C-544/16, Marcandi Lmd (in
Foro it., IV, 544), secondo cui “l’articolo 267 TFUE istituisce un
meccanismo di rinvio pregiudiziale volto a prevenire divergenze
interpretative del diritto dell’Unione che i giudici nazionali devono
applicare”;
p2) sul riparto di competenza
tra giudice interno e giudice comunitario nel procedimento di rinvio: tra le
diverse, Corte di giustizia UE, sez. III, 29.10.2009, C-63/08, Pontin, punto
38 e giurisprudenza ivi citata (in Mass. giur. lav., 2010, 172, con nota di
RATTI; Riv. it. dir. lav., 2010, II, 462, con nota di DE FALCO; Dir.
relazioni ind., 2010, 279, con nota di MONACO; Famiglia e dir., 2011, 221,
con nota di NUNIN), secondo cui “la Corte deve prendere in
considerazione, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i
giudici comunitari e i giudici nazionali, il contesto fattuale e normativo
nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali, come definito dal
giudice del rinvio”;
p3) sull’obbligo di rinvio del
Giudice d’appello in ipotesi di mancata condivisione di un principio
espresso dall’Adunanza plenaria, si vedano:
Cons. Stato, Ad. plen., 27.07.2016, n. 19 (in Foro it., 2017, III,
309, con nota di GAMBINO, nonché oggetto della
News US, in data 01.08.2016, cui si rinvia per ogni riferimento
di dottrina e giurisprudenza;
Corte di giustizia UE, 05.04.2016, C-689/13 (in Giornale dir.
amm., 2016, 5, 650, con nota di SCHNEIDER; in Foro it., 2016, IV, 325 con
nota critica di SIGISMONDI, nonché oggetto della
News US, in data 07.04.2016);
p4) sull’obbligo di rinvio in
caso di precedenti contrasti interpretativi: Corte di giustizia UE,
09.09.2015, C-160/14, João Filipe Ferreira da Silva (in Riv. it. dir. lav.,
2016, II, 232, con nota di LOZITO; Dir. relazioni ind., 2016, 888 (m), con
nota di CAVALLINI);
p5) sull’obbligo di rinvio
qualora altro giudice abbia sollevato questioni interpretative analoghe
dinanzi alla Corte di giustizia UE ed il giudizio dinanzi alla stessa sia
pendente: Corte di giustizia UE, 09.09.2015, C-72/14 e C-197/14;
p6) sul rapporto tra questioni sollevate dalle parti e definizione dei
quesiti ad opera del giudice: Corte giustizia UE, 21.07.2011, C-104/10,
Kelly, in Giurisdiz. amm., 2011, III, 723;
p7) sul rapporto fra ruolo
nomofilattico assegnato alle Corti supreme italiane e obbligo di sollevare
questione pregiudiziale di interpretazione innanzi alla Corte del
Lussemburgo, v., oltre alla già menzionata Plenaria n. 19 del 2016:
Cons. Stato, sez. V, 17.03.2016, n. 1090 (oggetto della
News US in data 18.03.2016 cui si rinvia per i riferimenti alla
giurisdizione ordinaria e contabile); Corte giustizia UE, 05.04.2016,
C-689/13, Puligienica, cit.;
p8) sull’obbligo di motivazione
del rifiuto del rinvio: Corte eur. dir. uomo, grande camera 21.07.2015,
Schipani et al. c. Italia (in Giur. it., 2015, 10, 2055-2061); id.,
08.04.2014, Dhahbi c. Italia (in Foro it., 2014, IV, 289, con nota di D’ALESSANDRO),
secondo cui “quando un giudice nazionale di ultima istanza disattenda la
richiesta di parte di effettuare un rinvio pregiudiziale interpretativo alla
Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del trattato Fue, è tenuto a motivare il proprio rifiuto, sussistendo in caso contrario
una violazione dell’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali”;
p9) sul tema dei rapporti fra
giudizi (aventi identità di oggetto e soggetti) pendenti innanzi al G.A.
italiano ed al giudice europeo Cons. Stato, sez. III, ord. 21.01.2016, n.
195 (in Foro it., 2016, III, 129, con nota di LAGHEZZA – PALMIERI ivi gli
ulteriori riferimenti anche a ulteriori pronunce);
p10) sulle ipotesi di ipotesi
di deroga all’obbligo di rinvio, ex art. 267 FUE, individuate dalla
giurisprudenza della Corte del Lussemburgo: fra le tante, Corte giustizia
UE, 09.09.2015, C-160/14, cit.; 06.10.1982, C-283/81, Cilfit (in Foro it.,
1983, IV, 63, con note di TIZZANO e CAPOTORTI; Giust. civ., 1983, I, 3, con
nota di CATALANO; Giur. it., 1983, I, 1, 1008, con nota di
CAPOTORTI; Rass. avv. Stato, 1983, I, 47, con nota di LAPORTA), e da quella
nazionale (cfr. fra le tante, Corte cost., 15 giugno 2015, n. 110, in Foro
it., 2015, I, 2618 con nota di ROMBOLI);
p11) in dottrina: S. LA CHINA,
Rapporti tra Corte di giustizia delle Comunità europee e giudice italiano,
in Riv. Trim dir. proc., 1963, 1508 ss.; E. RUSSO, L'interpretazione dei
testi normativi comunitari, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano 2008, p. 263 ss.;
V. SCALISI, Interpretazione e teoria delle fonti nel diritto privato
europeo, Riv. dir. civ., 2009, 4, 413; E. D’ALESSANDRO, Il procedimento
pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di Giustizia, 3-90, Torino,
2012; P. BIAVATI, Diritto processuale dell’Unione Europea, Milano, 2015; B.
MAMELI, Giudicato esterno amministrativo - gli strumenti processuali del
diritto nazionale dinnanzi al primato del diritto europeo, Giur. it., 2015,
1, 192; A. BRIGUGLIO, Pregiudiziale comunitaria e processo civile, Padova,
2015, 74 ss. (Corte
di giustizia dell’Unione europea, Sez. V,
sentenza 27.11.2019 C-402/18 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Preavviso
di diniego.
L’art. 10-bis della
legge n. 241/1990 esprime un principio di
carattere generale, applicabile a tutti i
procedimenti ad istanza di parte, avendo
l'istituto del c.d. preavviso di rigetto lo
scopo di far conoscere alle Amministrazioni
le ragioni fattuali e giuridiche
dell'interessato che ben potrebbero
contribuire a far assumere agli organi
competenti una diversa determinazione
finale.
Si tratta, quindi, di istituto applicabile
alla generalità dei procedimenti ad istanza
di parte, salvo espressa eccezione, e non
rileva affatto, ai fini dell’esclusione
della previa comunicazione dei motivi
ostativi, il carattere vincolante del
provvedimento da assumere (nella fattispecie
parere idraulico in una procedura di
sdemanializzazione)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.11.2019 n. 2475 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
11.1) In relazione al primo motivo, il
Collegio osserva quanto segue.
Si tratta di motivo che, facendo leva
sull'omissione del preavviso di rigetto,
assume portata assorbente ed impedisce al
Collegio l'esame degli ulteriori profili di
illegittimità dedotti con il ricorso (Cons.
St., sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; id.,
14.01.2003, n. 98; id., 17.09.2001, n. 4877; id.,
01.09.2000, n.
4649).
La necessità per il giudicante di ritenere
concluso il proprio sindacato dopo la
positiva definizione della censura che fa
leva sulla violazione dell’art. 10-bis della
legge n. 241/1990 «va rinvenuta nel fatto
che un esame degli ulteriori motivi di
ricorso, individuando profili di legittimità
o di illegittimità del provvedimento
impugnato, finirebbe per vanificare
l'obbligo, incombente jussu iudicis
sull'Amministrazione, di reiterare il
procedimento consentendo, questa volta, al
privato interessato di parteciparvi per
tentare, con le proprie argomentazioni, di
indurre l'Amministrazione a mutare avviso» (Cons.
Stato, Sez. III, Sent., 15.10.2019, n.
7019).
11.2) Per il resto, va notato come l’Agenzia
del Demanio sia pervenuta alla comunicazione
del 04.04.2014, di improcedibilità della
domanda di sdemanializzazione, facendo leva
sul decreto n. 2011 del 2014 della Regione
Lombardia, recante parere negativo
vincolante ai fini della summenzionata
istanza di sdemanializzazione. Ciò, senza
che né la Regione né l’Agenzia abbiano,
«prima della formale adozione di un
provvedimento negativo», comunicato
all’istante, ex art. 10-bis L. 07/08/1990,
n. 241, i motivi che ostano all'accoglimento
della domanda di sdemanializzazione.
Sennonché, la norma da ultimo citata esprime
un principio di carattere generale,
applicabile a tutti i procedimenti ad
istanza di parte, avendo l'istituto del c.d.
preavviso di rigetto lo scopo di far
conoscere alle Amministrazioni le ragioni
fattuali e giuridiche dell'interessato che
ben potrebbero contribuire a far assumere
agli organi competenti una diversa
determinazione finale (cfr., ex multis,
TAR Campania, Salerno Sez. I, Sent.
24.07.2019, n. 1399).
Si tratta, quindi, di
istituto applicabile alla generalità dei
procedimenti ad istanza di parte, salvo
espressa eccezione (TAR Umbria, sez. I,
12/06/2014, n. 322), nella specie non
rinvenibile. Va, anzi, chiarito come –contrariamente alla tesi regionale- non
rilevi affatto, ai fini dell’esclusione
della previa comunicazione dei motivi
ostativi, il carattere vincolante del parere
idraulico, atteso che, la partecipazione a
presidio della quale è prevista la
comunicazione di cui all’art. 10-bis ben
avrebbe potuto e dovuto esplicarsi in
relazione al predetto parere, stante la
complessità degli accertamenti fattuali da
esso implicati.
Come chiarito da tempo dalla giurisprudenza,
infatti, non assume carattere dirimente,
rispetto all’obbligo di comunicazione ex
art. 10-bis, l’eventuale natura di atto
vincolato del diniego, atteso che: «La
regola di cui all'art. 10-bis, L. n. 241 del
1990 deve trovare applicazione anche ai
provvedimenti che siano preceduti da un
parere vincolante, determinandosi altrimenti
una disparità di trattamento affatto
irragionevole, poiché fondata sul modello
procedimentale seguito per la formazione
degli atti e non sulla loro natura; in
simili situazioni è dunque onere delle
Amministrazioni interessate di comunicare
agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della loro domanda,
applicando procedure tali da consentire di
riconsiderare poi eventualmente, sulla base
dell'apporto degli interessati, le proprie
determinazioni prima che queste divengano
definitive» (TAR Veneto, Sez. II,
03/08/2009, n. 2253; TAR Campania,
Salerno, Sez. II, Sent. 05.11.2018, n.
1541, TAR, Veneto, sez. II, sentenza
06/11/2006, n. 3674; TAR Campania,
Salerno, Sez. II, Sent., 22.08.2019, n.
1478).
Va, pertanto, ribadita la fondatezza del
suesposto motivo, da cui consegue, sul piano
conformativo, la necessità che il
procedimento sia riattivato da parte
dell'Amministrazione, a partire dal momento
in cui, «prima della formale adozione di un
provvedimento negativo», ex art. 10-bis
legge n. 241/1990, è necessario comunicare i
motivi che ostano all'accoglimento della
domanda.
11.3) L’accoglimento del primo motivo dà
luogo all’assorbimento di tutti i restanti
motivi, per le ragioni sopra specificate sub
n. 11.1.
12) Conclusivamente, quindi, il ricorso va
accolto, limitatamente al primo motivo, con
assorbimento di tutti i restanti; per
l’effetto, vanno annullati i decreti
impugnati, essendo l’Amministrazione tenuta
a riattivare il procedimento in modo da
garantire la partecipazione ad esso
dell’istante. |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è concorde nel ritenere che allo stesso regime giuridico dei
parcheggi –esenti dal contributo– non possono che essere assoggettati anche
i relativi spazi di manovra e di accesso ai garage, secondo i normali canoni
di interpretazione logica e teleologica (e niente affatto estensiva), per la
semplice ragione che senza i corselli di accesso le autorimesse non sarebbe
tali.
Questo stesso Tribunale, peraltro, di recente ha avuto modo di ribadire che
”Dal calcolo dei predetti oneri vanno esclusi anche gli spazi destinati
all'accesso e alla manovra dei veicoli, in quanto tecnicamente e logicamente
imprescindibili per l'utilizzazione dei parcheggi in relazione alla loro
funzione”.
---------------
La domanda di annullamento, parimenti proposta dalla ricorrente ed avente ad
oggetto i provvedimenti comunali del 27.02.2017, prot. nn. 989 e 988, è
invece fondata e va accolta per le ragioni di seguito precisate.
Sotto un primo profilo, parte ricorrente sostiene che i calcoli contenuti
nei suddetti provvedimenti sarebbero errati in quanto non sarebbero stati
considerati –ai fini dello scomputo di superficie- la rampa del tunnel e lo
spazio di manovra per accedere ai parcheggi. Tale circostanza non è
contestata tra le parti, atteso che la stessa difesa dell’Amministrazione
Comunale precisa che la sentenza n. 1309/2015 fa riferimento esclusivamente
ai parcheggi, senza menzionare i relativi spazi di manovra.
Ebbene, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che allo stesso regime
giuridico dei parcheggi –esenti dal contributo– non possono che essere
assoggettati anche i relativi spazi di manovra e di accesso ai garage,
secondo i normali canoni di interpretazione logica e teleologica (e niente
affatto estensiva), per la semplice ragione che senza i corselli di accesso
le autorimesse non sarebbe tali (TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I,
11.07.2014, n. 47).
Questo stesso Tribunale, peraltro, di recente (TAR Lombardia, Brescia, sez.
I, 11.09.2017, n. 1087) ha avuto modo di ribadire che ”Dal calcolo dei
predetti oneri vanno esclusi anche gli spazi destinati all'accesso e alla
manovra dei veicoli, in quanto tecnicamente e logicamente imprescindibili
per l'utilizzazione dei parcheggi in relazione alla loro funzione (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 16.04.2015, n. 1957; TAR Emilia Romagna, Bologna, I,
13.07.2017, n. 545; TAR Lombardia , Milano, II, 21.07.2016, n. 1480)”.
Non vi è ragione per discostarsi dal suddetto orientamento, che appare del
tutto logico e ragionevole, per cui sotto tale profilo risultano fondate le
doglianze di parte ricorrente con conseguente illegittimità degli atti
comunali impugnati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 22.11.2019 n. 1002 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti aventi natura di “atto
vincolato” (come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti
dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge
07.08.1990, n. 241 non essendo prevista per l’amministrazione la
possibilità di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla
conservazione del bene.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva
delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un
atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art.
7 L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto
a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di
fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a
conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
---------------
Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un
manufatto, neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra
l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione
dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento
solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole
mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria
attività del privato "contra legem".
Sul punto, occorre richiamare i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato con sentenza n. 9 del 17.10.2017: “Nel caso di
tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la
mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un
potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine
titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non
può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al
proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo
favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
[…] Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la
demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per
la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche
nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell'onere di ripristino”
---------------
5. Il ricorso è infondato alla luce del pacifico orientamento
giurisprudenziale, condiviso anche da questa Sezione (v. sentenza n.
222/2018), secondo il quale i provvedimenti aventi natura di “atto
vincolato” (come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti
dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge
07.08.1990, n. 241 non essendo prevista per l’amministrazione la
possibilità di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla
conservazione del bene.
“L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva
delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un
atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art.
7 L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto
a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di
fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a
conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo” (Tar Lazio, Sez. II-quater, sentenza n. 5355 del 14.05.2018; Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza n. 2681 del 05.06.2017; Sez. V, sentenza n. 2194 del 28.04.2014).
5.1. Nel caso concreto, peraltro, l’apporto partecipativo del ricorrente,
nei termini dallo stesso prospettati in ricorso, non sarebbe stato nemmeno
decisivo e tale da indurre ad una rivalutazione dell’accertata abusività
delle opere, non potendo al riguardo ritenersi sufficiente, in mancanza di
ulteriori riscontri documentali, la sola allegazione di una dichiarazione
sostitutiva di atto notorietà al fine di provare che le opere di che
trattasi sarebbero state realizzate prima della costruzione del fabbricato,
regolarmente assentito, cui le stesse accedono.
6. La natura vincolata del provvedimento impugnato comporta, inoltre, il
rigetto della censura afferente ad una pretesa carenza di motivazione per
omessa indicazione delle ragioni di interesse pubblico sottese all’ordine
demolitorio, tenuto conto dell’epoca di realizzazione del fabbricato nonché
della entità dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un
manufatto, neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra
l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione
dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento
solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole
mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria
attività del privato "contra legem" (Consiglio di Stato sez. VI 03.10.2017 n. 4580).
Sul punto, occorre richiamare i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato con sentenza n. 9 del 17.10.2017: “Nel caso di
tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la
mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un
potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine
titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non
può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al
proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo
favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
[…] Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la
demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per
la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche
nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell'onere di ripristino”
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 22.11.2019 n. 677 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
1.- Appalti pubblici – bando di gara – clausole escludenti –identificazione.
Si qualificano come clausole escludenti, in quanto tali
immediatamente impugnabili, quelle che prescrivono il possesso di requisiti
di ammissione o di partecipazione alla gara, ovvero quelle che impongono
oneri incomprensibili o sproporzionati, che rendano la partecipazione alla
gara incongruamente difficoltosa, che precludano una valutazione di
convenienza economica, come pure sono impugnabili i bandi che presentino
gravi carenze nell’indicazione dei dati essenziali necessari per la
formulazione dell’offerta.
In altri termini, ai fini della perimetrazione del concetto di “clausola
escludente”, occorre considerare che è suscettibile di assumere tale
connotazione qualunque disposizione, contenuta nella lex specialis di gara,
che, a prescindere dal suo contenuto (e cioè indipendentemente dal fatto che
abbia ad oggetto un requisito soggettivo od un adempimento da assolvere
contestualmente alla presentazione della domanda di partecipazione) e della
fase di concreta operatività, sia tale da precludere la partecipazione
dell’impresa interessata conseguentemente a contestarla, o comunque da
giustificare una prognosi, avente carattere di ragionevole certezza, di
esito infausto della sua eventuale partecipazione: è infatti evidente che,
ricorrendo tale ipotesi, da un lato, l’impugnazione del provvedimento
che sancisca formalmente l’esclusione o la mancata aggiudicazione sarebbe
tardiva, essendo ormai cristallizzate le relative vincolanti premesse nell’inoppugnata
(ed inoppugnabile) lex specialis, dall’altro lato, la presentazione
della domanda di partecipazione rappresenterebbe un adempimento superfluo,
se non contraddittorio (con l’affermata inutilità della partecipazione), non
presentando alcuna funzionalità rispetto al soddisfacimento dell’interesse
perseguito (alla partecipazione e/o aggiudicazione della gara), il quale non
potrebbe che avvenire, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso, mediante la
rinnovazione ab imis dell’iter procedimentale (massima free
tratta da www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.11.2019 n. 7978 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
Il motivo è infondato.
La giurisprudenza costante qualifica come clausole escludenti, in quanto
tali immediatamente impugnabili, quelle che prescrivono il possesso di
requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara (Cons. Stato, V, 12.04.2019, n. 2387), ovvero quelle che impongono oneri incomprensibili o
sproporzionati, che rendano la partecipazione alla gara incongruamente
difficoltosa, che precludano una valutazione di convenienza economica, come
pure sono impugnabili i bandi che presentino gravi carenze nell’indicazione
dei dati essenziali necessari per la formulazione dell’offerta (in termini
Cons. Stato, III, 05.12.2016, n. 5113; Ad. plen., 07.04.2011, n. 4;
Ad. plen., 29.01.2003, n. 1; Ad. plen., 26.04.2018, n. 4).
In altre parole, ai fini della perimetrazione del concetto di “clausola
escludente”, occorre considerare che è suscettibile di assumere tale
connotazione qualunque disposizione, contenuta nella lex specialis di gara,
che, a prescindere dal suo contenuto (e cioè indipendentemente dal fatto che
abbia ad oggetto un requisito soggettivo od un adempimento da assolvere
contestualmente alla presentazione della domanda di partecipazione) e della
fase di concreta operatività, sia tale da precludere la partecipazione
dell’impresa interessata conseguentemente a contestarla, o comunque da
giustificare una prognosi, avente carattere di ragionevole certezza, di
esito infausto della sua eventuale partecipazione; è infatti evidente che,
ricorrendo tale ipotesi, da un lato, l’impugnazione del provvedimento che
sancisca formalmente l’esclusione o la mancata aggiudicazione sarebbe
tardiva, essendo ormai cristallizzate le relative vincolanti premesse nell’inoppugnata
(ed inoppugnabile) lex specialis, dall’altro lato, la presentazione della
domanda di partecipazione rappresenterebbe un adempimento superfluo, se non
contraddittorio (con l’affermata inutilità della partecipazione), non
presentando alcuna funzionalità rispetto al soddisfacimento dell’interesse
perseguito (alla partecipazione e/o aggiudicazione della gara), il quale non
potrebbe che avvenire, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso, mediante la
rinnovazione ab imis dell’iter procedimentale (così Cons. Stato, III, 21.01.2019, n. 513).
In tale cornice sistematica di inquadramento non appare al Collegio
configurabile, nella fattispecie controversa, una lex specialis con clausole
escludenti, legittimante la sua immediata impugnativa, e, in relazione
biunivoca, la mancata presentazione la domanda di partecipazione, altrimenti
costituente il presupposto della situazione differenziata che, per regola
generale, integra il requisito della condizione dell’azione (della
legittimazione al ricorso).
Con la conseguenza che chi volontariamente e
liberamente si è astenuto dal partecipare ad una selezione, non è
legittimato a chiedere l’annullamento della gara, ancorché possa vantare un
interesse di fatto a che la competizione, per lui res inter alios acta,
venga nuovamente bandita. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Urbanizzazione
a scomputo è opera pubblica, ok revoca della convenzione per interdittiva
antimafia.
Con la
sentenza
21.11.2019 n. 7947, la Sezione III
del Consiglio di Stato ha
affermato che gli atti convenzionali che prevedono l'obbligo per il privato
di
realizzare opere di urbanizzazione a scomputo possono (rectius, debbono)
essere revocati dal Comune in presenza di una interdittiva antimafia che
vada a colpire il soggetto attuatore.
Il Consiglio di Stato giunge a tale
conclusione muovendo dalla considerazione per cui gli interventi di
urbanizzazione posti a carico del privato costituiscono un'opera pubblica e,
dunque, soggiacciono anch'essi alla disciplina di cui agli articoli 83 e 94
del DLgs n. 159/2011 (Codice antimafia) che prevedono l'obbligo
dell'Amministrazione di acquisire l'informazione antimafia prima della
sottoscrizione del contratto ovvero l'obbligo di revoca del contratto
qualora
successivamente il soggetto privato risulti destinatario di interdittiva
antimafia.
La sentenza del Consiglio di Stato riforma la sentenza di primo
grado con la quale il Tar Parma aveva ritenuto illegittima la revoca della
convenzione urbanistica disposta dal Comune in base ad una interpretazione
letterale del Codice antimafia. In particolare, ad avviso del Giudice di
prime
cure, gli articoli 83 e 94 del Codice antimafia:
- fanno esclusivo
riferimento agli appalti pubblici e, segnatamente, ai
contratti di lavori, servizi e forniture;
- non fanno alcun riferimento alle
convenzioni urbanistiche aventi ad oggetto
l'esecuzione da parte dell'attuatore di opere di urbanizzazione;
- pertanto,
non legittimano la revoca della
convenzione urbanistica in presenza di una interdittiva antimafia
intervenuta successivamente alla stipula della
convenzione urbanistica. Dunque, ad avviso del Giudice di prime cure, la
materia delle convenzioni urbanistiche
sarebbe avulsa dalla disciplina degli articoli 83 e 94 del Codice antimafia.
La decisione
Nel riformare la suddetta
decisione, il Consiglio di Stato ha invece affermato che il Codice antimafia
costituisce un apparato normativo «del
tutto idoneo a legittimare l'esercizio del potere di autotutela su atti
convenzionali implicanti l'obbligo di realizzazione
di opere di urbanizzazione a scomputo».
Il Giudice di appello giunge a tale
affermazione in ragione:
- della natura di
opera pubblica degli interventi di urbanizzazione posti a carico del
privato a) in quanto funzionali al conseguimento
di esigenze non limitate al semplice insediamento individuale, b) la cui
realizzazione è demandata al soggetto
attuatore in forza di un mandato espresso conferitogli dall'Amministrazione;
- del carattere oneroso della clausola
della convenzione urbanistica che prevede lo scomputo degli oneri di
urbanizzazione da quelli di concessione
poiché comporta da parte dell'Amministrazione la rinuncia, totale o
parziale, ai contributi concessori;
- della
definizione di cui all'articolo 32, comma 1, lett. g), del Dlgs n. 163/2006
oggi riprodotto dal vigente articolo 1, comma
2, lett. e) del Dlgs n. 50/2016 - in base al quale soggiacciono alla
disciplina dei contratti pubblici, anche i «lavori
pubblici da realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di permesso
di costruire, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di
urbanizzazione a scomputo totale o parziale
del contributo previsto per il rilascio del permesso ()».
Pertanto, la
natura delle opere di urbanizzazione a scomputo
non sfugge alla disciplina del Codice antimafia (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
13.12.2019).
---------------
SENTENZA
2.3. Il Collegio ritiene fondato il motivo dell’appello principale.
2.4. In merito alla natura della convenzione accessoria al piano di
lottizzazione, o ad altro strumento urbanistico attuativo, contemplante
l'esecuzione di opere di urbanizzazione da parte del privato con scomputo
dei relativi costi da quelli di concessione - si è da tempo consolidato un
indirizzo interpretativo secondo il quale:
i) gli interventi di urbanizzazione posti a carico del privato -essendo
funzionali al conseguimento di esigenze non limitate al semplice
insediamento individuale- danno luogo ad un'opera pubblica, la cui
realizzazione è demandata al soggetto attuatore in virtù di un mandato
espresso conferitogli dall'amministrazione (cfr. Corte Cost. n. 129/2006 e
n. 269/2007);
ii) la clausola che preveda lo scomputo dei relativi oneri da quelli di
concessione conferisce al rapporto carattere di onerosità, poiché comporta
da parte dell’amministrazione la rinuncia, totale o parziale, ai contributi
concessori (cfr. Corte di Giustizia UE, sez. VI, n. 399/2011);
iii) ne consegue che l'affidamento di tali lavori integra un appalto
pubblico nella lata accezione recepita nelle direttive comunitarie e poi
trasfusa normativamente nell'articolo 32, comma 1, lettera g), del d.lgs.
163/2006 (disposizione applicabile anche per le opere sotto soglia, ai sensi
dell'articolo 122, comma 8, del d.lgs. 163/2006; cfr. ex multis,
Cass. civ., sez. II, n. 8798/2018 e sez. I, n. 15340/2016).
2.5. Le conclusioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza trovano piena
rispondenza nelle determinazioni ANAC (ex AVCP) n. 4/2008 del 02.04.2008
e n. 7 del 16.07.2009, altrettanto univoche nel segnalare che "la
realizzazione di opere prevista dalle convenzioni urbanistiche rientra nella
nozione di appalto pubblico di lavori" (determinazione n. 4/2008); e che
"l'articolo 32, comma 1, lett. g), primo periodo, del Codice configura una
titolarità "diretta", ex lege, della funzione di stazione appaltante in capo
al privato titolare del permesso di costruire (ovvero titolare del piano di
lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo contemplante
l'esecuzione di opere di urbanizzazione) che in quanto "altro soggetto
aggiudicatore" è tenuto ad appaltare le opere di urbanizzazione a terzi nel
rispetto della disciplina prevista dal Codice e, in qualità di stazione
appaltante, è esclusivo responsabile dell'attività di progettazione,
affidamento e di esecuzione delle opere di urbanizzazione primarie e
secondarie, ferma restando la vigilanza da parte dell'amministrazione
consistente, tra l'altro, nell'approvazione del progetto e di eventuali
varianti" (determinazione n. 7/2009).
2.6. A ciò aggiungasi che gli artt. 83 e 94 d.lgs. n. 159/2011 delineano una
nozione di “contratto relativo a lavori pubblici” del tutto compatibile con
quella poc’anzi tratteggiata. Di più, è la stessa parte appellante a
sostenere che l’art. 83 d.lgs. 159/2011 è da intendersi riferito ai
“contratti pubblici” che trovano la propria disciplina nel d.lgs. n.
163/2006 e, oggi, nel d.lgs. n. 50/2016.
2.7. Alla luce delle premesse sin qui svolte, si può quindi ritenere che il
codice antimafia appresti un apparato normativo del tutto idoneo a
legittimare l’esercizio del potere di autotutela su atti convenzionali
implicanti l’obbligo di realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo. |
URBANISTICA: Notifica
del ricorso avverso il PGT alla Regione e
alla Provincia.
Va respinta l’eccezione
di inammissibilità formulata
dall’Amministrazione comunale con la quale
si eccepisce che il ricorso avvero il PGT
non sia stato notificato né alla Regione né
alla Provincia, atteso che il ricorso non
investe, in alcun modo, atti o singole
prescrizioni dettate da tali Amministrazioni
ma, esclusivamente, la legittimità
dell’operato comunale.
Né tali Amministrazioni assumono la
qualifica di controinteressate non essendo
predicabile in capo alle stesse un interesse
speculare a quello fatto valere in giudizio
dalla parte ricorrente e non essendo,
comunque, ravvisabile la sussistenza di
controinteressati in relazione ad un atto di
pianificazione generale del territorio.
---------------
7. Preliminarmente occorre esaminare
l’eccezione di inammissibilità formulata
dall’Amministrazione comunale che osserva
come il ricorso non sia notificato né alla
Regione Lombardia né alla Provincia di
Milano “al cui PTCP il PGT del Comune di
Vittuone deve conformarsi ed attuare in
ambito territoriale locale”.
7.1. L’eccezione è priva di fondamento
atteso che il ricorso non investe, in alcun
modo, atti o singole prescrizioni dettate da
tali Amministrazione ma, esclusivamente, la
legittimità dell’operato comunale. Né tali
Amministrazioni assumono la qualifica di
controinteressate non essendo predicabile in
capo alle stesse un interesse speculare a
quello fatto valere in giudizio dalla parte
ricorrente e non essendo, comunque,
ravvisabile la sussistenza di
controinteressati in relazione ad un atto di
pianificazione generale del territorio (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez.
II, 20.06.2019, n. 4225; Consiglio di Stato,
sez. V, 10.04.2018, n. 2164; Consiglio di
Stato, sez. VI, 03.03.2004, n. 1052;
Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n.
7813; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
21.07.1997, n. 14; Consiglio di Stato,
Adunanza plenaria, 08.05.1996, n. 2). (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.11.2019 n. 2458 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La
pianificazione urbanistica implica
valutazioni di opportunità sulla scorta di
valutazioni comparative degli interessi
pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato
di legittimità del giudice amministrativo, a
meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o
irragionevolezze.
Tale potere non è limitato
solo alla disciplina coordinata
dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo
della disciplina dell'utilizzo delle aree, è
finalizzato a realizzare anche sviluppi
economici e sociali della comunità locale
nel suo complesso con riflessi qualvolta
limitativi agli interessi dei singoli
proprietari di aree. Quindi le scelte in
concreto, effettuate con i detti obiettivi
ed interessi pubblici agli stessi immanenti,
devono corrispondere agli scopi prefissati
nelle linee programmatiche per la gestione
urbanistica del territorio.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute
dalle autorità preposte alla pianificazione
territoriale rappresentino scelte di merito,
che non possono essere sindacate dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà od
irragionevolezza manifeste ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare”.
In sostanza, la giurisprudenza consente il
controllo giurisdizionale dell’operato
dell’Amministrazione avendo riguardo, ex
aliis, alla coerenza della disciplina con
gli “scopi prefissati nelle linee
programmatiche per la gestione urbanistica
del territorio”, alla ragionevolezza e non
arbitrarietà delle scelte, e, in ultimo
(seppur costituisca, invero, il primum
movens di ogni valutazione discrezionale),
alla corretta disamina e verifica della
situazione di fatto correlata alle esigenze
che l’Amministrazione intende perseguire.
---------------
8. Entrando in
medias res, può procedersi ad
esaminare congiuntamente il primo ed
il secondo motivo di ricorso in
quanto sostanzialmente connessi.
8.1. In linea generale va premesso che “la
pianificazione urbanistica implica
valutazioni di opportunità sulla scorta di
valutazioni comparative degli interessi
pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato
di legittimità del giudice amministrativo, a
meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o
irragionevolezze. Tale potere non è limitato
solo alla disciplina coordinata
dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo
della disciplina dell'utilizzo delle aree, è
finalizzato a realizzare anche sviluppi
economici e sociali della comunità locale
nel suo complesso con riflessi qualvolta
limitativi agli interessi dei singoli
proprietari di aree. Quindi le scelte in
concreto, effettuate con i detti obiettivi
ed interessi pubblici agli stessi immanenti,
devono corrispondere agli scopi prefissati
nelle linee programmatiche per la gestione
urbanistica del territorio” (Consiglio
di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283/2015).
Negli stessi termini si esprime la
giurisprudenza dell’intestato Tribunale
secondo cui “le scelte urbanistiche
compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale rappresentino
scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà od
irragionevolezza manifeste ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare” (TAR per la Lombardia – sede
di Milano, sez. II, 09.12.2016, n. 2328; cfr.,
inoltre, TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. II, 03.12.2018, n. 2715; Id.,
03.12.2018, n. 2718; Id., 21.01.2019, n.
119; Id., 05.07.2019, n. 1557; Id.,
16.10.2019, n. 2176).
8.2. In sostanza, la giurisprudenza consente
il controllo giurisdizionale dell’operato
dell’Amministrazione avendo riguardo, ex
aliis, alla coerenza della disciplina
con gli “scopi prefissati nelle linee
programmatiche per la gestione urbanistica
del territorio”, alla ragionevolezza e
non arbitrarietà delle scelte, e, in ultimo
(seppur costituisca, invero, il primum
movens di ogni valutazione
discrezionale), alla corretta disamina e
verifica della situazione di fatto correlata
alle esigenze che l’Amministrazione intende
perseguire
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.11.2019 n. 2458 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo l’univoco orientamento della
Sezione, il termine per l'approvazione del
P.G.T. stabilito dall'articolo 13, comma 7
(e 7-bis), della L.R. n. 12 del 2005 ha
carattere ordinatorio e non perentorio e
che, conseguentemente, il superamento di
tale scadenza non determina il venir meno
degli atti della procedura pianificatoria.
La Sezione rileva che “della disposizione di
legge regionale sopra richiamata deve darsi
necessariamente un'interpretazione
costituzionalmente orientata, volta a
garantire l'osservanza dei principi di
ragionevolezza, proporzionalità e buon
andamento della pubblica amministrazione (artt.
3 e 97 della Costituzione), nonché ad
assicurare l'esigenza che la legge regionale
si attenga ai principi fondamentali
desumibili dalla legge statale (articolo
117, terzo comma, della Costituzione), la
quale stabilisce l'efficacia a tempo
indeterminato della delibera di adozione del
piano, fissando unicamente i termini di
efficacia delle correlate misure di
salvaguardia, peraltro di durata pluriennale
(art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni,
consentite dal tenore letterale della
previsione normativa, deve privilegiarsi
quella che attribuisce al termine per
l'approvazione finale del piano natura
ordinatoria, ponendo la sanzione
dell'inefficacia in correlazione con la
mancata valutazione delle osservazioni
pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa
cui la Sezione [aderisce], [evidenzia]che la
previsione dell'inefficacia degli atti
assunti è collocata incidentalmente nel
testo dell'articolo 13, comma 7, della L.R.
n. 12 del 2005, il quale prevede che entro
novanta giorni dalla scadenza del termine
per la presentazione delle osservazioni, a
pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse,
apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle
osservazioni".
Ciò consente di riferire la sanzione
dell'inefficacia all'inosservanza non del
termine di novanta giorni, previsto nella
prima parte della disposizione, ma alla
violazione dell'obbligo, stabilito nella
seconda parte della previsione normativa, di
decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del P.G.T. le conseguenti
modificazioni.
---------------
13. Con il
settimo motivo la ricorrente osserva
come il P.G.T. sia posto in pubblicazione
per un numero totale di giorni pari a 55 (e,
precisamente, dal 04.08.2010 al 28.09.2010),
con termine per la presentazione delle
osservazioni di 31 giorni (dal 29.09.2010 al
30.10.2010), risultando approvato dal
Consiglio Comunale oltre i termini di cui
all’articolo 13, comma 4, della L.r.
12/2005.
13.1. Il motivo è infondato.
13.2. La previsione invocata dalla parte
ricorrente dispone testualmente: “Entro
novanta giorni dall’adozione, gli atti di
PGT sono depositati, a pena di inefficacia
degli stessi, nella segreteria comunale per
un periodo continuativo di trenta giorni, ai
fini della presentazione di osservazioni nei
successivi trenta giorni. Gli atti sono
altresì pubblicati nel sito informatico
dell’amministrazione comunale. Del deposito
degli atti e della pubblicazione nel sito
informatico dell’amministrazione comunale è
fatta, a cura del comune, pubblicità sul
Bollettino ufficiale della Regione e su
almeno un quotidiano o periodico a
diffusione locale”.
13.3. L’approvazione del P.G.T. è regolata
dalla previsione contenuta all’interno
dell’articolo 13, comma 7, della L.r. n.
12/2005 che testualmente dispone: “Entro
novanta giorni dalla scadenza del termine
per la presentazione delle osservazioni, a
pena di inefficacia degli atti assunti, il
Consiglio comunale decide sulle stesse,
apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle
osservazioni. Contestualmente, a pena
d’inefficacia degli atti assunti, provvede
all’adeguamento del documento di piano
adottato, nel caso in cui la provincia abbia
ravvisato elementi di incompatibilità con le
previsioni prevalenti del proprio piano
territoriale, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere
le definitive determinazioni qualora le
osservazioni provinciali riguardino
previsioni di carattere orientativo”.
13.4. In relazione a tale disposizione va
richiamato “l’univoco orientamento della
Sezione, secondo il quale il termine per
l'approvazione del P.G.T. stabilito
dall'articolo 13, comma 7 (e 7-bis), della
L.R. n. 12 del 2005 ha carattere ordinatorio
e non perentorio e che, conseguentemente, il
superamento di tale scadenza non determina
il venir meno degli atti della procedura
pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II,
30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097;
15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764;
24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765;
11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614;
10.12.2010, n. 7508)” (TAR per la
Lombardia – sede di Milano – sez. II,
22.01.2019, n. 122).
La Sezione rileva che “della disposizione
di legge regionale sopra richiamata deve
darsi necessariamente un'interpretazione
costituzionalmente orientata, volta a
garantire l'osservanza dei principi di
ragionevolezza, proporzionalità e buon
andamento della pubblica amministrazione (artt.
3 e 97 della Costituzione), nonché ad
assicurare l'esigenza che la legge regionale
si attenga ai principi fondamentali
desumibili dalla legge statale (articolo
117, terzo comma, della Costituzione), la
quale stabilisce l'efficacia a tempo
indeterminato della delibera di adozione del
piano, fissando unicamente i termini di
efficacia delle correlate misure di
salvaguardia, peraltro di durata pluriennale
(art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni,
consentite dal tenore letterale della
previsione normativa, deve privilegiarsi
quella che attribuisce al termine per
l'approvazione finale del piano natura
ordinatoria, ponendo la sanzione
dell'inefficacia in correlazione con la
mancata valutazione delle osservazioni
pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa
cui la Sezione [aderisce], [evidenzia]che la
previsione dell'inefficacia degli atti
assunti è collocata incidentalmente nel
testo dell'articolo 13, comma 7, della L.R.
n. 12 del 2005, il quale prevede che entro
novanta giorni dalla scadenza del termine
per la presentazione delle osservazioni, a
pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse,
apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle
osservazioni". Ciò consente di riferire la
sanzione dell'inefficacia all'inosservanza
non del termine di novanta giorni, previsto
nella prima parte della disposizione, ma
alla violazione dell'obbligo, stabilito
nella seconda parte della previsione
normativa, di decidere sulle osservazioni e
di apportare agli atti del P.G.T. le
conseguenti modificazioni (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 10.02.2017, n. 572; TAR
Lombardia, Milano, II, 10.12.2018, n. 2761;
30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097)”
(TAR per la Lombardia – sede di Milano –
sez. II, 22.01.2019, n. 122).
13.5. Il motivo è, pertanto, infondato e
meritevole di reiezione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.11.2019 n. 2458 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Sull'obbligo,
o meno, dell'Amministrazione Comunale ad agire nel caso di presentazione da
parte dei privati di una proposta di modifica degli strumenti urbanistici
vigenti.
L’istanza formulata dalla ricorrente di modifica del
P.E.C. (Piano Esecutivo
Convenzionato) e della relativa convenzione si
atteggia necessariamente e pregiudizialmente come istanza di modifica del
PRGC.
L’Amministrazione non ha dato riscontro a tale istanza in maniera legittima
laddove, secondo consolidati principi giurisprudenziali, non aveva alcun
obbligo di farlo.
La giurisprudenza ritiene infatti inammissibile il rimedio dell’azione sul
silenzio per reagire all’inerzia della P.A. a fronte di istanze di modifiche
degli atti di pianificazione.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che “In caso di presentazione da
parte dei privati di una proposta di modifica degli strumenti urbanistici
vigenti, l'Amministrazione non è tenuta ad attivare la relativa procedura in
quanto l'interesse particolare del singolo ad ottenere una variante
urbanistica di un piano urbanistico approvato, valido ed efficace è di mero
fatto e, come tale, non riceve tutela giurisdizionale”.
Analogamente, è stato affermato che “Agli atti di pianificazione del
territorio, proprio perché atti amministrativi generali, si applica il
principio enunciato con riferimento agli atti regolamentari, in relazione ai
quali è esclusa l'ammissibilità dello speciale rimedio processuale avverso
il silenzio-inadempimento della p.a., in quanto strettamente circoscritto
alla sola attività amministrativa di natura provvedimentale; è, pertanto,
inammissibile il ricorso avverso il silenzio serbato sulla richiesta di
modifica della destinazione urbanistica dei terreni, a suo tempo impressa
dal Consiglio comunale con la delibera di approvazione dello strumento
urbanistico generale, avverso la quale gli interessati non avevano proposto
rituale ricorso".
---------------
1. Con ricorso ex art. 31 c.p.a. notificato a mezzo posta in data
8-13.05.2019 e depositato il 20 maggio successivo, la società Fr. s.r.l. a
socio unico ha premesso quanto segue:
- la società ricorrente è subentrata nel 2010 in un P.E.C. (Piano
Esecutivo Convenzionato) approvato dal Comune di Predosa nel novembre del
2009 e nella relativa convenzione attuativa stipulata il 09.04.2010 per la
realizzazione su aree di proprietà privata, di circa 32.000 mq, di quattro
fabbricati produttivi e delle relative opere di urbanizzazione, in
conformità al P.R.G. vigente;
- la convenzione prevede, tra l’altro, la realizzazione a carico
del soggetto attuatore, in un arco temporale di dieci anni, di un raccordo
ferroviario privato ad uso esclusivo dell’insediamento produttivo, così come
previsto dall’art. 27 comma 5 allegato A) delle N.T.A. del P.R.G.C. del
Comune di Predosa;
- allo stato, sono stati assentiti e realizzati due dei quattro
capannoni produttivi previsti dal P.E.C.;
- con nota del 26.07.2018, la società ricorrente ha chiesto al
sindaco la disponibilità dell’amministrazione ad una modifica della
convenzione urbanistica, segnalando in particolare l’impossibilità per la
società ricorrente di realizzare il raccordo ferroviario, anche in ragione
del fatto che Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. avrebbe posto quale
condizione per l’assenso all’esercizio del medesimo un numero minimo di
passaggi/carro per anno economicamente insostenibile nelle attuali
condizioni di mercato e di crisi economica;
- il Sindaco ha risposto il 12.09.2018 evidenziando le ragioni di
carattere ambientale che hanno indotto la Regione all’inserimento di tale
vincolo in sede di approvazione della variante generale al PRGC, in
considerazione dell’impatto ambientale negativo correlato al trasporto delle
merci su gomma; ma nel contempo ha manifestato la disponibilità
dell’amministrazione a rinunciare al raccordo ferroviario a fronte di opere
compensative volte a migliorare i servizi comunali e il bilancio ambientale
del territorio;
- il 17.12.2018 la società ricorrente ha formulato una nuova
istanza al Comune, chiedendo l’approvazione di una variante di PEC “intesa
ad eliminare, previa o contestuale variante al PRGC (art. 27 D. di A.), la
previsione del raccordo ferroviario”, con oneri economici interamente a
carico della richiedente; nell’istanza la richiedente ha evidenziato, in
particolare, l’esigenza di provvedere all’approvvigionamento della centrale
a biomasse (realizzata in attuazione del PEC) in un raggio di non oltre 70
km, come da autorizzazione provinciale, raggio all’interno del quale
sarebbero pochissimi i punti di raccordo ferroviario attrezzati, per
accedere ai quali i mezzi su gomma della ricorrente dovrebbero percorrere un
chilometraggio ancora maggiore di quello che percorrerebbero accedendo
direttamente alla centrale produttiva, e quindi con un maggiore impatto
ambientale;
- ha esposto la ricorrente che, a distanza di circa 5 mesi dalla
predetta istanza, il Comune non ha ancora dato alcun riscontro, né ha
comunicato l’avvio del procedimento e il nome del relativo responsabile,
nonostante due solleciti della richiedente.
2. Ciò premesso, la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 40 e 43
della L.R. n. 56/1977 in forza dei quali sulle istanze di modifica di piani
esecutivi convenzionati il Comune deve deliberare entro 90 giorni dalla
presentazione della domanda; ha chiesto, pertanto, che il TAR accerti
l’illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione comunale e la condanni a
provvedere entro breve prefiggendo termine, con riserva di separata azione
per il risarcimento dei danni.
...
7. Il ricorso è inammissibile.
7.1. L’area produttiva oggetto del presente giudizio è inclusa nella
nell’area “D3” del P.R.G. del Comune di Predosa, approvato con D.G.R. n.
26-10731 del 09.02.2009.
L’area D3 del PRGC è disciplinata dall’art. 27, comma 5, delle NTA, il quale
prevede, tra l’altro, che “(…) l’attuazione dell’area D3, ubicata a
ridosso della linea ferroviaria Ovada-Alessandria è subordinata alla
realizzazione di un raccordo ferroviario al servizio dell’area stessa (…)”.
Tale prescrizione è stata richiamata sia nel P.E.C. del 2009 -lettera d)
delle Premesse e Tavola III del PEC– sia nella Convenzione attuativa del
2010 (art. 3 lett. b).
Il PEC è ancora in corso di validità (scadrà nell’aprile 2020) ed è stato
attuato per circa la metà.
7.2. In tale contesto, l’istanza formulata dalla ricorrente in data
17.12.2018 di modifica del PEC e della relativa convenzione, si atteggia
necessariamente e pregiudizialmente come istanza di modifica del PRGC (e
difatti la ricorrente l’ha chiesta espressamente nella propria istanza del
17.12.2018).
7.3. L’Amministrazione non ha dato riscontro a tale istanza; peraltro,
secondo consolidati principi giurisprudenziali, non aveva alcun obbligo di
farlo.
La giurisprudenza ritiene infatti inammissibile il rimedio dell’azione sul
silenzio per reagire all’inerzia della P.A. a fronte di istanze di modifiche
degli atti di pianificazione.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che “In caso di presentazione da
parte dei privati di una proposta di modifica degli strumenti urbanistici
vigenti, l'Amministrazione non è tenuta ad attivare la relativa procedura in
quanto l'interesse particolare del singolo ad ottenere una variante
urbanistica di un piano urbanistico approvato, valido ed efficace è di mero
fatto e, come tale, non riceve tutela giurisdizionale” (Consiglio di
Stato, sez. IV, 05.03.2013 n. 1349).
Analogamente, è stato affermato che “Agli atti di pianificazione del
territorio, proprio perché atti amministrativi generali, si applica il
principio enunciato con riferimento agli atti regolamentari, in relazione ai
quali è esclusa l'ammissibilità dello speciale rimedio processuale avverso
il silenzio-inadempimento della p.a., in quanto strettamente circoscritto
alla sola attività amministrativa di natura provvedimentale; è, pertanto,
inammissibile il ricorso avverso il silenzio serbato sulla richiesta di
modifica della destinazione urbanistica dei terreni, a suo tempo impressa
dal Consiglio comunale con la delibera di approvazione dello strumento
urbanistico generale, avverso la quale gli interessati non avevano proposto
rituale ricorso" (TAR Cagliari , sez. II, 21/11/2018, n. 985).
7.4. In definitiva, la società ricorrente è subentrata in un P.E.C. e nella
relativa convenzione attuativa, entrambi a loro volta attuativi di una
previsione del PRGC, ed è vincolata a rispettarli.
7.5. Peraltro, alla luce di quanto esposto dal segretario comunale nella
propria relazione sui fatti di causa, l’efficacia del P.E.C. è prossima a
scadenza (scadrà nell’aprile 2020) e a quella data l’amministrazione
valuterà se mantenere ferme le previsioni del vigente art. 27, comma 5,
N.T.A del PRGC, oppure verificare la fattibilità di una variante dello
strumento urbanistico secondo quanto prospettato da Fr., nel caso in cui
emergessero soluzioni alternative al raccordo ferroviario, conseguenti
all’eventuale decisione di consentire il non completamento della zona D3 per
le parti non attuate.
7.5. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va dichiarato
inammissibile, dal momento che la proponibilità dell’azione sul silenzio di
cui all’art. 31 c.p.a. è subordinata all’esistenza di un obbligo
dell’amministrazione di provvedere, che nel caso di specie non sussiste
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.11.2019 n. 1160 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Regola della pubblicità della gara – Apertura delle buste –
Obbligo di portare preventivamente a conoscenza dei
concorrenti la data e il luogo della seduta – Possibilità
effettiva di presenziare alle operazioni.
La regola generale della pubblicità
della gara, segnatamente con riguardo al momento
dell’apertura delle buste contenenti le offerte
(economiche), implica l’obbligo di portare preventivamente a
conoscenza dei concorrenti il giorno, l’ora e il luogo della
seduta della commissione di gara, in modo da garantire loro
l’effettiva possibilità di presenziare allo svolgimento
delle operazioni di apertura dei plichi pervenuti alla
stazione appaltante
(cfr. TAR Puglia–Bari, Sez. II, n. 294/2018; TAR
Puglia–Lecce, Sez. II, 4 n. 1434/2017; C.d.S., Sez. V, n.
3911/2016; id., n. 3471/2004) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.11.2019 n. 2450 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Obbligo
di informazione sul momento di apertura
delle buste economiche.
La regola generale della
pubblicità della gara, segnatamente con
riguardo al momento dell’apertura delle
buste contenenti le offerte (economiche),
implica l’obbligo di portare preventivamente
a conoscenza dei concorrenti il giorno,
l’ora e il luogo della seduta della
commissione di gara, in modo da garantire
loro l’effettiva possibilità di presenziare
allo svolgimento delle operazioni di
apertura dei plichi pervenuti alla stazione
appaltante
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.11.2019 n. 2450 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2.2.3. Nel merito, il secondo motivo
del ricorso principale è fondato.
È pacifico che la ricorrente non è stata
convocata alla seduta pubblica del
19.03.2019 relativa al lotto n. 4 e che,
pertanto, non ha potuto presenziare alla
stessa.
Nella fattispecie, quindi, risulta
sicuramente violata una delle regole di
pubblicità che informano le procedure ad
evidenza pubblica propedeutiche
all’affidamento di contratti di appalto.
Al riguardo, il Collegio ritiene
condivisibile l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale la regola
generale della pubblicità della gara,
segnatamente con riguardo al momento
dell’apertura delle buste contenenti le
offerte (economiche), implica l’obbligo, in
specie inadempiuto, di portare
preventivamente a conoscenza dei concorrenti
il giorno, l’ora e il luogo della seduta
della commissione di gara, in modo da
garantire loro l’effettiva possibilità di
presenziare allo svolgimento delle
operazioni di apertura dei plichi pervenuti
alla stazione appaltante (cfr. TAR
Puglia-Bari, Sez. II, n. 294/2018; TAR
Puglia-Lecce, Sez. II, 4 n. 1434/2017; C.d.S.,
Sez. V, n. 3911/2016; id., n. 3471/2004).
Il motivo, pertanto, va accolto, in disparte
ogni altra considerazione. |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra costruzioni: la Cassazione sulla possibilità di deroghe locali. La
legittimità della deroga è strettamente connessa al governo del territorio e
non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi.
In tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla
disciplina stabilita dalla normativa statale, da parte degli strumenti
urbanistici regionali deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad
una pluralità di fabbricati ("gruppi di edifici") che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni
planovolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i
rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni,
considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a
conformare un assetto complessivo di determinate zone.
Ciò in quanto la legittimità di tale deroga è strettamente connessa al
governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti
isolatamente intesi.
---------------
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa
applicazione dell'art. 9 d.m. 1444/1968 nonché degli articoli 17 e 34 delle
N.T.A. del PRG del Comune di Pianoro nonché della legge regionale n. 47/1978
e particolarmente degli articoli 8,24, 25,39 nonché l'omessa ed
insufficiente motivazione.
1.1. In particolare si contesta la legittimità della tesi sostenuta nella
pronuncia gravata secondo cui il piano particolareggiato e la lottizzazione
convenzionata esauriscono la gamma degli strumenti urbanistici nell'ambito
dei quali è consentita la deroga alla previsione della distanza minima di
metri 10 tra edifici con pareti finestrate prevista dall'art. 9 secondo
comma d.m. 1444/1968.
Al contrario, sostiene il ricorrente, la corte distrettuale avrebbe dovuto
considerare lo strumento urbanistico di dettaglio utilizzato nel caso di
specie, e cioè il progetto unitario e, in base al raffronto con la
previsione dell'art. 17 e 34 delle NTA, ricondurre la fattispecie concreta a
quella assimilabile alla tipologia di interventi che consentono la
richiamata deroga dal rispetto delle distanze.
1.2. La censura è infondata.
1.3. Premesso che l'articolo 9 ultimo comma d.m. 1444/1968 prevede che "Qualora
le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori
all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino
a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi
di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche", l'interpretazione
operata dalla corte bolognese è conforme a legge.
1.4. Come, infatti, chiarito anche dalla Corte costituzionale nella sentenza
6/2013 avente ad oggetto la legittimità costituzionale della legge Regione
Marche n. 31/1979, gli strumenti urbanistici che consentono la deroga
prevista dall'art. 9, ultimo comma, d.m. 1444/1968 sono tipici, giacché il
regime delle distanze fra costruzioni nei rapporti tra privati appartiene
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, cui le Regioni possono
derogare solo con previsioni più rigorose, funzionali all'assetto
urbanistico del territorio (cfr. nello stesso senso Cass. 18588/2018; id.
26518/2018).
1.5. Al di fuori di tale bilanciamento di interessi, è stato chiarito che in
tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla disciplina stabilita dalla
normativa statale, da parte degli strumenti urbanistici regionali deve
ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati
("gruppi di edifici") che siano oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche che evidenzino
una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e
architettonici delle varie costruzioni, considerate come fossero un edificio
unitario, e siano finalizzate a conformare un assetto complessivo di
determinate zone; ciò in quanto la legittimità di tale deroga è strettamente
connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici
confinanti isolatamente intesi (cfr. Cass. 27638/2018).
1.6. La conclusione della corte bolognese si inscrive in questa
ricostruzione ermeneutica e correttamente ha ritenuto che lo strumento del
piano unitario, non finalizzato a considerare interessi superindividuali
rispetto a quelle dei due privati che l'hanno presentato, non è equiparabile
ad un piano particolareggiato e ad una lottizzazione convenzionata,
risolvendosi, come è stato osservato, in una istanza congiunta di
concessione edilizia relativa a singole costruzioni e non concernente in
alcun modo l'assetto urbanistico di un'intera area del territorio comunale (cfr.
Cass. 3803/2014, in tema di strumento urbanistico definito Studio Unitario
d'Ambito previsto dalla Legge Urbanistica Piemontese n. 56/1977).
1.7. La natura pubblicistica degli interessi che possono giustificare la
deroga alla disciplina sulle distanze fra edifici comporta che in difetto di
ciò, il preventivo assenso alla sopraelevazione attestato dalla firma
congiunta non possa, nel caso di specie, esonerare l'opera di
sopraelevazione posta in essere dal ricorrente dal rispetto di quelle
distanze
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
18.11.2019 n. 29867). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, le “tettoie”, nel senso comune del termine ovvero
quali strutture aperte, hanno natura pertinenziale e sono sottratte al
regime del permesso di costruire, ove la loro conformazione e le ridotte
dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e
di riparo e protezione dell'immobile cui accedono.
---------------
Per costante giurisprudenza, infatti, le “tettoie”, nel senso comune
del termine ovvero quali strutture aperte, hanno natura pertinenziale e sono
sottratte al regime del permesso di costruire, ove la loro conformazione e
le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di
mero arredo e di riparo e protezione dell'immobile cui accedono (Consiglio
di Stato, Sez. V, 13.03.2014 n. 1272; Sez. VI, 04.03.2019, n. 1480)
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 18.11.2019 n. 7864 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini
urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di
modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale, quali ad esempio
i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, ma non
anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si
caratterizzino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta
principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti
possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
Ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è
non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul “carico urbanistico” mediante la
creazione di un “nuovo volume”; manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una
qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
“La pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle dimensioni ridotte e
modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui non può
essere considerata tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la
realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che modifica l’assetto del
territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis,
indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di
essa”.
---------------
Per la giurisprudenza di questo
Consiglio, infatti, la nozione civilistica di pertinenza differisce da
quella a fini urbanistico/edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di
modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale, quali ad esempio
i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, ma non
anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si
caratterizzino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta
principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti
possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
Ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è
non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul “carico urbanistico” mediante la
creazione di un “nuovo volume”; manca la natura pertinenziale quando
sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una
qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.01.2018, n. 24; 02.02.2017, n. 694; Sez. IV,
04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 11.03.2014, n. 3952).
“La pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle dimensioni ridotte e
modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui non può
essere considerata tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la
realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che modifica l’assetto del
territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis,
indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa”
(Consiglio di Stato Sez. IV, 26.03.2013, n. 1709, con specifico riferimento
alla nozione di pertinenza indicata dalla legge regionale della Valle
d’Aosta n. 1 del 2004 e alla delibera della Giunta regionale sopra citata
per l’ammissibilità del condono edilizio in caso di aumento di volume)
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 18.11.2019 n. 7864 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce
attività per sua natura di carattere urgente
e natura vincolata che non richiede l’invio
di comunicazione di avvio del procedimento,
non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell’atto.
L’omissione di tale adempimento non
assume del resto nella specie alcuna
efficacia invalidante ove si consideri il
disposto dell’articolo 21-octies della legge
241 del 1990, che prevede la non
annullabilità del provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento
qualora, per la sua natura vincolata, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
---------------
3. La prima censura stigmatizza l’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento,
da cui il ricorrente inferisce
l’illegittimità dell’atto conclusivo del
procedimento.
3.1. La doglianza non ha pregio.
3.2. L’esercizio del potere repressivo degli
abusi edilizi costituisce -infatti- attività
per sua natura di carattere urgente e natura
vincolata che non richiede l’invio di
comunicazione di avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto (ex multis TAR
Lazio, Roma, sez. II-bis, 29.03.2019, n.
4211).
3.3. L’omissione di tale adempimento non
assume del resto nella specie alcuna
efficacia invalidante ove si consideri il
disposto dell’articolo 21-octies della legge
241 del 1990, che prevede la non
annullabilità del provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento
qualora, per la sua natura vincolata, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.11.2019 n.
990 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di opera precaria con riferimento a un
dehors.
La facile amovibilità
nonché la mancanza di impianto di
riscaldamento non costituiscono elementi
idonei a conferire a un dehors le
caratteristiche di un'opera precaria, ove
tale struttura non abbia un utilizzo
contingente e limitato nel tempo, ma sia
destinata a soddisfare bisogni duraturi e
non provvisori attraverso la permanenza nel
tempo della sua funzione.
Va esclusa, inoltre, l’asserita valenza
puramente pertinenziale del manufatto, in
relazione al suo stretto collegamento con
l’edificio principale, atteso che, per il
suo impatto volumetrico, la veranda
attrezzata nella fattispecie esaminata
incide significativamente e in modo
permanente sull'assetto edilizio
dell’enoteca a cui è asservita, del quale
amplia la superficie e la volumetria utile,
così creando un autonomo organismo edilizio
di rilevanti dimensioni, stabilmente
destinato ad estensione, in ogni periodo
dell’anno, del locale interno, e pertanto,
per consistenza e funzione, deve essere
qualificato come nuova opera, comportando
una rilevante trasformazione edilizia del
territorio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.11.2019 n.
990 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3.4. Con la seconda censura il ricorrente
deduce che l’ordinanza impugnata è
illegittima perché il manufatto realizzato
non necessiterebbe di titolo edilizio.
3.5. L’argomento non è condivisibile.
3.6. In merito alla dedotta precarietà del
manufatto, l'asserita "facile amovibilità"
nonché la mancanza di impianto di
riscaldamento non costituiscono elementi
idonei a conferire al dehors le
caratteristiche di un'opera precaria, atteso
che tale struttura non ha un utilizzo
contingente e limitato nel tempo, ma è
destinata a soddisfare bisogni duraturi e
non provvisori attraverso la permanenza nel
tempo della sua funzione, come è dimostrato
nei fatti dalla circostanza che lo stesso
viene mantenuto in loco e viene utilizzato
da più di 7 anni (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
3.7. Va esclusa, inoltre, l’asserita valenza
puramente pertinenziale del manufatto, in
relazione al suo stretto collegamento con
l’edificio principale, atteso che, per il
suo impatto volumetrico, la veranda
attrezzata incide significativamente e in
modo permanente sull'assetto edilizio
dell’enoteca, del quale amplia la superficie
e la volumetria utile. Il ricorrente ha
creato un autonomo organismo edilizio di
rilevanti dimensioni, stabilmente destinato
ad estensione, in ogni periodo dell’anno,
del locale interno, e pertanto, per
consistenza e funzione, deve essere
qualificato come nuova opera, comportando
una rilevante trasformazione edilizia del
territorio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. I,
06.05.2013, n. 1193).
3.8. Per le considerazioni esposte
l’ordinanza gravata risulta immune dai
denunciati vizi di legittimità, donde
l’infondatezza del ricorso principale. |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa il diniego di
rilascio del permesso di costruire in
sanatoria, va evidenziata la
fondatezza della censura relativa alla
violazione dell’articolo 10-bis della legge
241 del 1990, per omissione del preavviso di
rigetto.
Detta violazione procedimentale,
che preclude al soggetto interessato la
piena partecipazione al procedimento,
invalida infatti il provvedimento finale di
diniego, in quanto, dato il suo carattere
non vincolato, non risulta applicabile la
sanatoria processuale ex articolo 21-octies,
comma 2, della legge 241/1990.
---------------
Merita accoglimento anche la censura di
difetto di motivazione dell’avversato
diniego, atteso che la determinazione
avversata è totalmente priva
dell’indicazione dei presupposti in fatto e
delle ragioni giuridiche che precludono il
rilascio di un titolo edilizio in sanatoria,
non rendendo palese al destinatario
dell’atto l’iter logico-giuridico seguito
dall’Amministrazione procedente.
Infatti costituisce ius receptum che
“il provvedimento di diniego del rilascio
della concessione di costruzione in
sanatoria deve compiutamente motivare
l’effettivo contrasto tra l’opera realizzata
e gli strumenti urbanistici e tale contrasto
deve essere evidenziato in maniera
intelligibile, così da consentire al
soggetto interessato di impugnare l’atto
davanti al G.A., denunziando non solo i vizi
propri della motivazione, ma anche le errate
interpretazioni delle norme urbanistiche
valutate col giudizio di non conformità.
---------------
4. I motivi aggiunti, diretti a censurare il
diniego di rilascio del permesso di
costruire in sanatoria, meritano invece
accoglimento.
4.1. In primo luogo va evidenziata la
fondatezza della censura relativa alla
violazione dell’articolo 10-bis della legge
241 del 1990, per omissione del preavviso di
rigetto. Detta violazione procedimentale,
che preclude al soggetto interessato la
piena partecipazione al procedimento,
invalida infatti il provvedimento finale di
diniego, in quanto, dato il suo carattere
non vincolato, non risulta applicabile la
sanatoria processuale ex articolo 21-octies,
comma 2, della legge 241/1990.
4.2. Merita accoglimento anche la censura di
difetto di motivazione dell’avversato
diniego, atteso che la determinazione
avversata è totalmente priva
dell’indicazione dei presupposti in fatto e
delle ragioni giuridiche che precludono il
rilascio di un titolo edilizio in sanatoria,
non rendendo palese al destinatario
dell’atto l’iter logico-giuridico seguito
dall’Amministrazione procedente.
4.3 Infatti costituisce ius receptum che
“il provvedimento di diniego del rilascio
della concessione di costruzione in
sanatoria deve compiutamente motivare
l’effettivo contrasto tra l’opera realizzata
e gli strumenti urbanistici e tale contrasto
deve essere evidenziato in maniera
intelligibile, così da consentire al
soggetto interessato di impugnare l’atto
davanti al G.A., denunziando non solo i vizi
propri della motivazione, ma anche le
errate interpretazioni delle norme
urbanistiche valutate col giudizio di non
conformità (cfr. ex multis TAR Lazio Roma,
sez. II, 19.07.2005 , n. 5736)” (TAR
Campania, Napoli, Sezione IV, 23.03.2010,
n. 1578).
4.4. All’accoglimento dei motivi aggiunti
consegue la pronuncia di annullamento del
diniego di sanatoria, con conseguente
obbligo per l’amministrazione di
rideterminarsi sulla corrispondente istanza,
nel rispetto dell’effetto conformativo
proprio della presente pronuncia
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.11.2019 n.
990 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisdizione sulla ordinanza-ingiunzione relativa agli oneri di urbanizzazione ed al
contributo sul costo di costruzione appartiene al giudice amministrativo,
anche quando tale atto sia emesso nella forma disciplinata dall’art. 2 r.d.
14.04.1910 n. 639.
Si tratta infatti di materia relativa alle entrate patrimoniali dello Stato,
per la quale l’art. 3 r.d. n. 639/1910 non reca deroghe alle norme
regolatrici della giurisdizione, in base alle quali la materia dell’edilizia
ed urbanistica è attribuita nella sua interezza alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo.
L’art. 133, lett. f), c.p.a. recita infatti che “Le controversie aventi ad
oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in
materia urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del
territorio” sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, senza prevedere alcuna esclusione, come invece preteso da
parte appellante, tra fase di accertamento degli oneri concessori e fase
della ingiunzione di pagamento.
---------------
Secondo l’orientamento giurisprudenziale
condivisibile, i riti
speciali delineati dal d.lgs. n. 150/2011 trovano applicazione solo davanti
al giudice ordinario.
Le azioni aventi ad oggetto la contestazione degli
oneri di urbanizzazione attengono a posizioni di diritto soggettivo
azionabili dinanzi al giudice amministrativo in sede esclusiva e, pertanto,
non sono sottoposte ad alcun termine decadenziale potendo essere proposte
entro l’ordinario termine di prescrizione decennale.
---------------
La determinazione degli oneri di urbanizzazione non
richiede una particolare motivazione o una puntuale verifica delle opere di
urbanizzazione realizzate o realizzande: essi prescindono dall'esistenza o
meno delle opere di urbanizzazione e vengono quantificati indipendentemente
sia dall'utilità che il privato ritrae dal titolo edilizio rilasciatogli,
sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare le suddette opere.
Infatti, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del d.p.r. n.
380/2001 gli oneri di urbanizzazione sono stabiliti dal Comune in base a
tabelle parametriche predefinite e sono quindi espressione di attività
amministrativa vincolata: il computo degli oneri di urbanizzazione
costituisce provvedimento di per sé vincolato, che va emesso sulla base di
parametri prestabiliti e che pertanto non richiede una specifica motivazione
sulla determinazione delle relative somme.
---------------
6. Deve osservarsi, preliminarmente, che la giurisdizione
sulla ordinanza-ingiunzione relativa agli oneri di urbanizzazione ed al
contributo sul costo di costruzione appartiene al giudice amministrativo,
anche quando tale atto sia emesso nella forma disciplinata dall’art. 2 r.d.
14.04.1910 n. 639.
Si tratta infatti di materia relativa alle entrate patrimoniali dello Stato,
per la quale l’art. 3 r.d. n. 639/1910 non reca deroghe alle norme
regolatrici della giurisdizione, in base alle quali la materia dell’edilizia
ed urbanistica è attribuita nella sua interezza alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo.
L’art. 133, lett. f), c.p.a. recita infatti che “Le controversie aventi ad
oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in
materia urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del
territorio” sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, senza prevedere alcuna esclusione, come invece preteso da
parte appellante, tra fase di accertamento degli oneri concessori e fase
della ingiunzione di pagamento.
7. Sempre in via preliminare, rileva il Collegio l’infondatezza
dell’eccezione sollevata dal Comune resistente, secondo cui le censure mosse
avverso la fondatezza della pretesa creditoria avrebbero dovuto essere
proposte in sede di opposizione all’ordinanza-ingiunzione, nei trenta giorni
dalla notifica della stessa ai sensi degli artt. 6, co. 6, e 32 del d.lgs.
n. 150/2011.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide, i riti
speciali delineati dal d.lgs. n. 150/2011 trovano applicazione solo davanti
al giudice ordinario. Le azioni aventi ad oggetto la contestazione degli
oneri di urbanizzazione attengono a posizioni di diritto soggettivo
azionabili dinanzi al giudice amministrativo in sede esclusiva e, pertanto,
non sono sottoposte ad alcun termine decadenziale potendo essere proposte
entro l’ordinario termine di prescrizione decennale (cfr. CGA sentenza n.
334 del 17.04.2019 e giurisprudenza ivi richiamata).
8. Nel merito il ricorso è infondato.
8.1. Secondo un costante orientamento giurisprudenziale dal quale non vi è
ragione di discostarsi, “la determinazione degli oneri di urbanizzazione non
richiede una particolare motivazione o una puntuale verifica delle opere di
urbanizzazione realizzate o realizzande: essi prescindono dall'esistenza o
meno delle opere di urbanizzazione e vengono quantificati indipendentemente
sia dall'utilità che il privato ritrae dal titolo edilizio rilasciatogli,
sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare le suddette opere (Cons.
Stato, n. 462/1977). Infatti, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del d.p.r. n.
380/2001 gli oneri di urbanizzazione sono stabiliti dal Comune in base a
tabelle parametriche predefinite e sono quindi espressione di attività
amministrativa vincolata (TAR Toscana, III, 14.09.2004, n. 3782): il computo
degli oneri di urbanizzazione costituisce provvedimento di per sé vincolato,
che va emesso sulla base di parametri prestabiliti e che pertanto non
richiede una specifica motivazione sulla determinazione delle relative somme
(Cons. Stato, V, 22.01.2015, n. 251)” (TAR Firenze, sez. III, sentenza n.
1043 del 05.06.201908/07/2019).
8.2. Né le spese per le opere che la società asserisce di aver dovuto
eseguire “al fine di realizzare l’impianto fognario a servizio del
fabbricato” possono essere scomputate dagli oneri di urbanizzazione.
Sebbene sia consolidato, infatti, l’orientamento giurisprudenziale secondo
cui dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione possa derivare il
diritto del concessionario allo scomputo dei relativi oneri anche quando,
come nel caso in esame, non vi sia stato un accordo preventivo con il Comune
sulle modalità e le garanzie delle opere stesse, occorre, tuttavia che, in
tal caso, il privato dimostri l’utilizzazione pubblica di quanto realizzato.
Al contrario, nella fattispecie in esame, non solo non è dimostrata
l’utilizzabilità pubblica delle opere e la natura non esclusivamente privata
delle stesse, ma è la stessa società ricorrente a chiarire di aver dovuto
sostenere un “notevole esborso economico, al fine di realizzare
l’impianto fognario a servizio del fabbricato”
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 18.11.2019 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In linea di diritto,
se, da un lato, l'art. 27 d.p.r. n. 380 del 2001 prevede l'azionabilità del
procedimento sanzionatorio edilizio anche sulla scorta di denunzia di
soggetti privati, dall'altro lato, la giurisprudenza ha avuto modo di
ribadire che il proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera
giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori
e repressivi da parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare
di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può pretendere, se
non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi
esplicitamente le ragioni, con la definitiva conseguenza che il silenzio
serbato sull'istanza e sulla successiva diffida dell'interessato integra gli
estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede giurisdizionale quanto al
mancato adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente.
---------------
Diversamente, con riguardo al primo punto della diffida come sopra
ricordato, è pacifico che il Comune resistente non abbia dato seguito alle
richieste di vigilanza formulate dai ricorrenti.
Ai sensi dell’art. 27, d.p.r. n. 380 del 2001, <<1. Il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le
modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli
abilitativi.
2. Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o
l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi
statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a
vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad
interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i
casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato
dei luoghi..
3... Ferma rimanendo l'ipotesi prevista dal precedente comma 2,
qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d’ufficio o su
denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità
di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, ordina
l'immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e
notificare entro quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei
lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il
responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al
sequestro del cantiere….>>.
La doverosità del procedere alla vigilanza e ai controlli, in particolar
modo qualora ciò sia richiesto da una istanza del privato cittadino,
titolare di un interesse qualificato a che il Comune provveda agli
accertamenti del caso, impone che il Comune proceda ai controlli medesimi e
concluda il procedimento mediante l’adozione delle determinazioni
conseguenti, sia che risulti accertata l’inosservanza delle prescrizioni
edilizie o urbanistiche, sia che non sia emersa alcuna irregolarità.
L’intestato Tar ha già avuto modo di sottolineare che <<in linea di diritto,
se, da un lato, l'art. 27 d.p.r. n. 380 del 2001 prevede l'azionabilità del
procedimento sanzionatorio edilizio anche sulla scorta di denunzia di
soggetti privati, dall'altro lato, la giurisprudenza ha avuto modo di
ribadire che il proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera
giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori
e repressivi da parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare
di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può pretendere, se
non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi
esplicitamente le ragioni, con la definitiva conseguenza che il silenzio
serbato sull'istanza e sulla successiva diffida dell'interessato integra gli
estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede giurisdizionale quanto al
mancato adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente (cfr. ad es.
TAR Liguria sez. I n. 804 del 2005 e Consiglio Stato, sez. V, 07.11.2003, n. 7132)>> (TAR Liguria, sez. I, 17/06/2005, n. 922).
Nel caso di specie, poiché, come detto, l'amministrazione non risulta aver
concluso l'avviato procedimento, in contrasto con il dovere sopra
richiamato, il ricorso in parte qua deve essere accolto, disponendo che il
Comune resistente provveda a concludere il procedimento adottando un
provvedimento in ordine all’istanza presentata dai ricorrenti con la diffida
per la quale è causa
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 16.11.2019 n. 862 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Gravi
illeciti professionali in sede di gara pubblica.
---------------
Contratti della pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara -
Provvedimenti interdittivi amministrativi – Periodo – Massimo tre anni.
In sede di gara pubblica, ai provvedimenti
interdittivi amministrativi, salvo che essi rechino una maggiore durata
della inibizione a contrarre, può riconoscersi valenza ostativa per un
periodo in ogni caso non superiore a tre anni, “decorrenti dalla data del
suo accertamento definitivo” (1).
---------------
(1) L’art. 80, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016, delimita e
circoscrive l’efficacia temporale della valenza ostativa delle sentenze di
condanna e degli atti di “accertamento definitivo”; si è in presenza, in
questi casi, del fenomeno, ben noto alla teoria generale, della cd.
digressione dell’atto in fatto: la sentenza o il provvedimento
amministrativo di accertamento della violazione sono presi in considerazione
da altra norma, e ad altri fini, per inferirne un giudizio normativo di
“incapacità” o di “inaffidabilità” per un determinato periodo temporale.
Di talché, ai provvedimenti interdittivi amministrativi, salvo che essi
rechino una maggiore durata della inibizione a contrarre, può riconoscersi
valenza ostativa per un periodo in ogni caso non superiore a tre anni,
“decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo”. In questo caso la
potenziale rilevanza di tali provvedimenti, ai fini dell’esercizio della
discrezionale potestas di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50
del 2016, è effettuata in via generale ed astratta dalla norma ed è,
pertanto, pienamente percepibile e conoscibile dall’operatore professionale;
di qui la esigibilità del relativo obbligo dichiarativo.
Al di fuori delle dette circostanze –tipizzate dalla legge in quanto
irrimediabilmente ostative, ovvero potenzialmente rilevanti ai fini della
valutazione discrezionale circa la esistenza di gravi illeciti professionali- la chiara delimitazione delle ulteriori informazioni necessarie alla
formulazione del giudizio di piena “affidabilità” ed “integrità” del
partecipante non può che essere effettuata dalla medesima stazione
appaltante con la legge di gara, in guisa:
– da preventivamente apprestare, secondo la qualificata diligenza
esigibile anche dalla Amministrazione ed in ossequio al principio di
autoresponsabilità, i “mezzi adeguati” per acquisire un compiuto patrimonio
informativo;
– poter consapevolmente ed effettivamente assolvere all’onere, in
capo ad essa Amministrazione gravante, di dimostrare la esistenza di quelle
gravi violazioni professionali, idonee ad incrinare il giudizio di
affidabilità ed integrità della impresa;
– consentire a tutti i concorrenti di percepire, ex ante e secondo
la professionale diligenza da loro esigibile, la effettiva portata degli
obblighi di informazione “ulteriori” di cui la stazione appaltante abbisogna
(ulteriori rispetto a quelli naturaliter discendenti dalle prescrizioni di
legge ed afferenti alle circostanze che ex se valgono ad integrare i motivi
di esclusione tipizzati all’art. 80 del d.lgs. 50/2016).
Le informazioni da fornire alla stazione appaltante –ed i correlati
obblighi gravanti in capo ai concorrenti- sono quelle che, anche solo in
linea di principio, l’Amministrazione dovrebbe ottenere per poter esplicare
appieno, plena cognitio, la propria potestas di conduzione
della gara e di aggiudicazione della pubblica commessa all’offerente
“migliore”, anche perché pienamente affidabile sotto il profilo della
onorabilità e professionalità.
In questa ottica l’art. 80, comma 5, lett.
f-bis), d.lgs. n. 50 del 2016 munisce di espressa sanctio iuris, il
generale obbligo di clare loqui –a sua volta espressione dei canoni
fondamentali di buona fede e correttezza che devono sempre e comunque
informare i rapporti tra le parti, sin dal momento del loro primo
“contatto”- allo scopo di rendere effettivo il flusso di informazioni che
deve pervenire alla stazione appaltante ad opera dei partecipanti, sancendo
l’autonoma rilevanza escludente della veridicità delle dichiarazioni rese
nella domanda di partecipazione.
La natura “non veritiera” o “falsa” di una dichiarazione rilevante ex art.
80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. n. 50 del 2016 può realizzarsi anche
attraverso la omissione o la incompletezza (reticenza) delle informazioni
fornite, quando l’informazione omessa o resa in modo parziale o incompleto
attribuisce al tenore della dichiarazione un senso diverso, così che
l’enunciato descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un significato
contrario al vero o negativo dell’esistenza di fatti rilevanti”; e tuttavia
ciò presuppone la esistenza:
– a latere oggettivo, di un obbligo di informazione e di
dichiarazione, sufficientemente specifico e determinato, e relativo a fatti
(e non già a giudizi o “qualificazioni”);
– a latere soggettivo, della coscienza e volontà di rendere una
dichiarazione falsa e, dunque, il dolo generico dell’agente e non già il
dolo specifico, irrilevanti essendo le concrete intenzioni dell’agente, non
essendo richiesto l’animus nocendi o decipiendi;
Gli obblighi di collaborazione (e di dichiarazione) del partecipante alla
gara non possono che attestarsi alle soglie della ragionevole “esigibilità”
del contegno, da escludersi in nuce nel caso in cui la esistenza stessa
dell’obbligo sia oggettivamente non percepibile, in quanto non discendente
dalle norme né, tampoco, individuata o lumeggiata nella lex specialis.
Oltrepassata tale soglia, invero, si entra nel terreno:
– della scusabilità della condotta, in quanto indotta dalla scarsa
chiarezza ovvero dalla equivocità delle prescrizioni di gara, suscettibili
di diversa significanza e interpretazione;
– del potere-dovere per la stazione appaltante di consentire ai
partecipanti –indotti in incolpevole errore dalla equivocità delle
prescrizioni- di “presentare, integrare, chiarire, o completare le
informazioni o la documentazione asseritamente incomplete, errate o mancanti
entro un termine adeguato” (CGUE, 02.05.2019, C-309/18, cit., § 23, con
il pregnante richiamo ivi contenuto all’art. 56, par. 3, della direttiva
2014/24/UE) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza 15.11.2019 n. 2421 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il ricorso, i cui plurimi motivi ben sono suscettibili di congiunta
disamina, è fondato.
2. Va in via liminare rilevato che il contegno ascritto all’Ati ricorrente –e che ha giustificato il “ritiro” della aggiudicazione definitiva già
disposta in suo favore- è stato dalla stazione appaltante sussunto nel
paradigma normativo di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs.
50/2016, a tenore del quale “Le stazioni appaltanti escludono dalla
partecipazione alla procedura d’appalto (…) l’operatore economico che
presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti
documentazioni o dichiarazioni non veritiere”.
2.1. La stazione appaltante, indi, ha:
- qualificato il contegno omissivo tenuto dalla ricorrente nei termini di
cui all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. 50/2016 (dichiarazioni non
veritiere); e ciò per avere reso “false dichiarazioni in merito a
circostanze utili” ai fini di una corretta e consapevole valutazione della
stazione appaltante circa la sussistenza:
i) per quanto attiene ai
provvedimenti a carico della mandante Research (provvedimento di sospensione
di due mesi; esclusione da una gara d’appalto per violazione del divieto di
partecipazione simultanea di consorzio stabile e consorziata) dei
presupposti per l’esercizio della potestà discrezionale di esclusione ex
art. art. 80, comma 5, lett. c) (eventuale idoneità dei fatti “celati” ad
integrare un “grave illecito professionale” idoneo ad incidere sulla
affidabilità ed integrità della impresa);
ii) per quanto concerne il
provvedimento interdittivo a carico della consorziata Kairos, della causa
ostativa ex lege contemplata all’art. 80, comma 5, lett. f) (provvedimento
di interdizione a contrarre e a partecipare a gare pubbliche), oltre che
della “possibile” causa di esclusione di cui alla lett. c);
- da siffatta qualificazione ha fatto discendere –quale portato di un’actio
vincolata- la esclusione dell’Ati dalla gara; e ciò in quanto “La
disposizione della lettera f-bis) non consente, in caso di omessa o falsa
dichiarazione alcuna valutazione discrezionale da parte della stazione
appaltante, e si riferisce sia alle informazioni false o fuorvianti che
all’omissione di informazioni dovute (cfr. Cons. Stato, V, n. 6576/2018)” (CdS,
III, 22.05.2019, n. 3331; Id., id, 23.08.2018, n. 5040; CdS, parere
2042/2017).
2.2. La norma applicata da En.RE, introdotta dall’art. 49, comma 1, lett.
d), del d.lgs. 56/2017 (cd. correttivo al codice degli appalti):
- munisce di espressa sanctio iuris, il generale obbligo di clare loqui –a
sua volta espressione dei canoni fondamentali di buona fede e correttezza
che devono sempre e comunque informare i rapporti tra le parti, sin dal
momento del loro primo “contatto”- allo scopo di rendere effettivo il flusso
di informazioni che deve pervenire alla stazione appaltante ad opra dei
partecipanti, sancendo l’autonoma rilevanza della veridicità delle
dichiarazioni rese nella domanda di partecipazione;
- riecheggia in parte la disposizione dell’art. 57, paragrafo 4, lett. h),
della direttiva 2014/24/UE, che attribuisce alle amministrazioni
aggiudicatrici la potestà di esclusione del partecipante alla gara che “si è
reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire le informazioni
richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione o il rispetto dei
criteri di selezione, non ha trasmesso tali informazioni o non è stato in
grado di presentare i documenti complementari di cui all’articolo 59”.
2.3. Orbene, lo scrutinio della legittimità dell’operato della intimata
società –e, segnatamente, della qualificazione della condotta tenuta dalla
ricorrente- non può che prendere le mosse dalla retta individuazione e
delimitazione dell’obbligo dichiarativo (asseritamente infranto) gravante in
capo ai partecipanti alla procedura.
2.3.1. E’ evidente, invero, la necessità di circoscrivere la effettiva
latitudine dell’obbligo di dichiarazione de quo agitur, con riferimento a
tutti i fatti e le circostanze che anche solo in abstracto siano
suscettibili di incidere sul processo decisionale della stazione appaltante,
e ciò al fine:
- a latere oggettivo, di “causalmente orientare” e, per così dire, di
selezionare le informazioni in abstracto suscettibili di arrecare una
propria utilitas all’azione della Amministrazione, scongiurando il rischio
di un profluvio di informazioni inidonee alla bisogna (plasticamente
rappresentato dalla massima di comune esperienza, per cui “troppe
informazioni, nessuna informazione”);
- a latere soggettivo, di puntualmente individuare il contegno
ragionevolmente esigibile in capo all’operatore che partecipa alla gara, pur
tenendo conto della soglia di diligenza particolarmente elevata che ne deve
informare l’agere (art. 1176, comma 2, c.c.).
2.3.2. A tal fine, non possono non venire in rilievo, in limine, le ipotesi
suscettibili di determinare la esclusione del partecipante dalla gara:
necessarie, ed esigibili dal partecipante alla gara, sono tutte le
informazioni utili all’esercizio, da parte della stazione appaltante, di
tale indefettibile munus di esclusione “in qualunque momento della
procedura” dell’operatore economico che “si trova, a causa di atti compiuti
o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui
ai commi 1, 2, 4 e 5” (art. 80, comma 6).
2.3.3. La natura ancillare e strumentale dell’obbligo di informazione,
rispetto alle ipotesi legittimanti la esclusione, vale dunque a disvelarne
l’effettivo contenuto.
Le informazioni da fornire alla stazione appaltante –ed i correlati obblighi
gravanti in capo ai concorrenti- sono quelle che, anche solo in linea di
principio, la Amministrazione dovrebbe ottenere per poter esplicare appieno,
plena cognitio, la propria potestas di conduzione della gara e di
aggiudicazione della pubblica commessa all’offerente “migliore”, anche perché pienamente affidabile sotto il profilo della onorabilità e
professionalità.
2.4. Nulla quaestio, in proposito, sulle cause di esclusione tipicamente
contemplate dalla legge, laddove viene assegnata normativa rilevanza ex se
(senza che residui alcun margine di discrezionalità in capo alla stazione
appaltante) a provvedimenti pel tramite dei quali è stata accertata da
Autorità “altre” (rispetto alla stazione appaltante) la violazione di
precetti penalmente rilevanti (sentenze di condanna penale) ovvero la
commissione di illeciti amministrativi (ad opra delle competenti Autorità
amministrative).
2.4.1. Anche lo spatium temporis di durata della “valenza” inibitoria è
puntualmente individuato:
- dallo stesso provvedimento giurisdizionale (durata della pena accessoria
della incapacità a contrattare) ovvero dal provvedimento amministrativo
(durata del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione discendente
dai provvedimenti interdittivi, compreso quello ex art. 14 d.lgs. 81/08 che
qui viene in rilievo);
- ovvero, dallo stesso art. 80 del d.lgs. 50/2016, che al comma 10 (siccome
modificato con il d.lgs. 56/2017), puntualmente delimita e circoscrive la
efficacia temporale della valenza ostativa delle sentenze di condanna e
degli atti di “accertamento definitivo”; si è in presenza, in questi casi,
del fenomeno, ben noto alla teoria generale, della cd. digressione dell’atto
in fatto: la sentenza o il provvedimento amministrativo di accertamento
della violazione sono presi in considerazione da altra norma, e ad altri
fini, per inferirne un giudizio normativo di “incapacità” o di
“inaffidabilità” per un determinato periodo temporale.
Tale limitazione temporale, per vero, risulta chiaramente contenuta all’art.
57, § 7, della direttiva 2014/24/UE, al fine attuata con il decreto
“correttivo” n. 56/17 e le modifiche all’uopo apportate all’art. 80, comma
10, del codice.
2.4.2. Di talché, per quel che qui viene in rilievo, ai provvedimenti
interdittivi amministrativi, salvo che essi rechino una maggiore durata
della inibizione a contrarre, può riconoscersi valenza ostativa per un
periodo in ogni caso non superiore a tre anni, “decorrenti dalla data del
suo accertamento definitivo” (art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016).
Siccome da
ultimo affermato in una pronunzia puntualmente richiamata da parte
ricorrente, “La giurisprudenza amministrativa ha, invero, ritenuto
contrastante con il principio di proporzionalità una esclusione che trovi
fondamento in una risoluzione in danno dell’impresa adottata più di tre anni
prima della pubblicazione del bando di gara, ed ha individuato nel lasso
temporale triennale un limite coerente con l’applicazione di tale principio
di derivazione eurounitaria (Tar Lombardia, sez. IV, 23.03.2017, n. 705)”
(CdS, V, 06.05.2019, n. 2895; TAR Toscana, III, 26.06.2019, n. 955).
2.4.3. E’ questa la tesi che si reputa preferibile (contra, CdS, V, 1644/2019; Id., id. 6530/2018), volta a legare indissolubilmente il limite temporale di
cui all’art. 80, comma 10 (e all’art. 57, par. 7) anche alla potestà
discrezionale di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), in
conformità:
- del dettato sovranazionale, atteso che l’art. 80, comma 10, costituisce
attuazione dell’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24, che demanda
giustappunto agli Stati membri la fissazione del “periodo massimo di
esclusione”, con omnicomprensivo riferimento a tutte le cause di esclusione
contemplate “dal presente articolo”, sia quelle “obbligatorie” che quelle
“facoltative”, demandate cioè alla discrezionale valutazione
dell’amministrazione aggiudicatrice;
- delle statuizioni da ultimo rese dai Giudici dell’Unione, secondo cui il
periodo massimo di tre anni entro cui la stazione appaltante può
–nell’esercizio della sua discrezionalità- escludere da una gara il
partecipante che si sia reso “colpevole” di violazioni del diritto della
concorrenza, è da rinvenire nel momento di adozione del provvedimento sanzionatorio da parte della competente Autorità (CGUE, 24.10.2018,
causa C-124/17);
- di qui la rilevanza del limite temporale anche per le ipotesi di
“esclusione facoltativa” (rimessa alla autonoma valutazione della stazione
appaltante), nel novero delle quali indubitabilmente rientrano quelle
afferenti agli illeciti “anticoncorrenziali”, come ancora da ultimo chiarito
dalla Corte di Lussemburgo, per cui “una decisione di un’autorità nazionale
garante della concorrenza, che accerta una violazione delle norme in materia
di concorrenza, non può comportare l’esclusione automatica di un operatore
economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
Infatti, conformemente al principio di proporzionalità, l’accertamento della
sussistenza di un ‘errore grave’ necessita, in linea di principio, dello
svolgimento di una valutazione specifica e concreta del comportamento
dell’operatore economico interessato (v., in tal senso, sentenza del 13.12.2012, Forposta e ABC Direct Contact, C-465/11, EU:C:2012:801, punto
31)” (CGUE, 04.06.2019, causa C-425/18, § 34).
2.4.4. Trattasi di ipotesi in cui il divisamento degli interessi, e la
valutazione di “inaffidabilità” (o di carenza dei requisiti di
“onorabilità”), ovvero la valutazione di potenziale rilevanza delle
informazioni ai fini dell’esercizio della discrezionale potestas di cui
all’art. 80, comma 5, d.lgs. 50/2016, è effettuata in via generale ed astratta
dalla norma ed è, pertanto, pienamente percepibile e conoscibile
dall’operatore professionale; di qui la esigibilità del relativo obbligo
dichiarativo.
La tipicità delle cause di esclusione e della rilevanza giuridica assegnata
a determinati fatti per un certo arco temporale (ai fini della autonoma e
discrezionale valutazione della P.A. sulla esistenza di gravi illeciti
professionali), depone per la chiarezza ed intellegibilità dei relativi
precetti, e non consente di nutrire dubbi di sorta sulla:
- effettiva esistenza dell’obbligo “dichiarativo” gravante in capo al
concorrente, che non potrà non estendersi a tutte le situazioni ostative
ovvero a quelle tipicamente rilevanti ai fini della valutazione
discrezionale di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 50/2016
(sentenze penali di condanna, provvedimenti amministrativi di accertamento
di violazioni tributarie o previdenziali, ovvero della normativa in tema di
tutela della concorrenza; provvedimenti interdittivi della capacità di
contrattare e di partecipare a gare indette dalla P.A.), fintantoché tali
situazioni perdurino nella loro giuridica rilevanza, avuto riguardo anche
allo spatium temporis siccome delimitato in via residuale dalla clausola di
“chiusura” di cui all’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016 (in ossequio all’art.
57, par. 7, della direttiva);
- piena percepibilità della esistenza di tali obblighi informativi in capo
alla impresa partecipante e, dunque, sulla piena esigibilità di una condotta
improntata alla massima trasparenza su tutti profili astrattamente idonei ad
essere sussunti nelle suddette cause di esclusione, ex lege divisate ovvero
demandate al munus delibativo e decisorio della Autorità aggiudicatrice.
2.5. Più problematica, d’altra parte, si appalesa la individuazione del
contenuto dell’obbligo dichiarativo in relazione alla atipica e residuale
clausola di esclusione contemplata all’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs.
50/2016, nella sua omnicomprensiva formulazione ratione temporis applicabile (id
est, prima delle modifiche intervenute per effetto del d.l. 135/2018, conv. in
l. 12/2019).
2.5.1. La norma in esame, invero, attribuisce alla Amministrazione
aggiudicatrice la potestà di regolazione e di divisamento degli interessi, e
dunque di disposizione dell’effetto giuridico, stabilendo che ad essa
compete la esclusione dalla gara allorquando sia data dimostrazione con
mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi
illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità.
2.5.2. All’uopo, vengono enumerate una serie di condotte che la stazione
appaltante, nell’esercizio della propria discrezionalità, può sussumere
nella nozione di “gravi illeciti professionali” incidenti sulla affidabilità
ed “onorabilità” del partecipante:
- risoluzione di un precedente contratto di appalto per carenze nella
esecuzione, al di là ed a prescindere dalla pendenza di un giudizio, siccome
chiarito da ultimo dalla CGUE (sentenza 19.06.2019, causa C-41/18), per
cui la “contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto
di appalto pubblico, assunta da un’amministrazione aggiudicatrice per via di
significative carenze verificatesi nella sua esecuzione” non vale a
precludere alla stazione appaltante in altra gara, di valutare i fatti cui
detta risoluzione afferisce al fine di formulare un compiuto giudizio circa
la affidabilità dell’operatore ai sensi dell’art. 57, par. 4, lett. c) e g)
della direttiva 2014/24/UE;
- tentativo di influenzare il processo decisionale della Amministrazione, o
di ottenere informazioni riservate;
- trasmissione, anche per negligenza, di informazioni false o fuorvianti
suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o
l’aggiudicazione, ovvero omessa dichiarazione delle informazioni dovute ai
fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
2.5.3. Trattasi di una elencazione meramente esemplificativa, potendo la
stazione appaltante desumere il compimento di gravi illeciti da ogni altra
vicenda pregressa dell’attività professionale dell’operatore economico.
Ciò che rileva, invero, è la idoneità delle condotte poste in essere in
passato dalla impresa a minare o a mettere in dubbio la sua “integrità ed
affidabilità” (CdS, V, 12.04.2019, n. 2407; Id., id., 586/2019; Id. id.,
72/2019; CdS, III, 7231/2018).
2.5.4. Già in relazione alla previgente direttiva, i Giudici dell’Unione
hanno chiarito, invero, che la nozione di “errore nell’esercizio della
propria attività professionale comprende qualsiasi comportamento scorretto
che incide sulla credibilità professionale dell’operatore economico di cui
trattasi (sentenza del 13.12.2012, Forposta e ABC Direct Contact,
C-465/11; EU:C:2012:801, punto 27), la sua integrità o affidabilità” (CGUE,
04.06.2019, C-425/18).
2.5.5. E’ in tale discrezionale valutazione che risiede l’ubi consistam del
delicato officium demandato alla stazione appaltante nel rapporto con i
partecipanti alla procedura, al fine di:
- valutarne, in via autonoma, la affidabilità sulla quale poter fondare la
fiducia che deve necessariamente riporsi nel soggetto di poi chiamato a
realizzare i lavori o servizi pubblici, in ossequio altresì al dettato della
direttiva (art. 57, par. 4, direttiva 2014/24);
- agire in ossequio al principio di proporzionalità che, secondo il
considerando 101 della direttiva 2014/24, “implica in particolare che, prima
di decidere di escludere un operatore economico, una simile amministrazione aggiudicatrice prenda in considerazione il carattere lieve delle
irregolarità commesse o la ripetizione di lievi irregolarità”; e, invero, se
anche nell’esercizio di tale discrezionale potestà “un’amministrazione aggiudicatrice dovesse essere automaticamente vincolata da una valutazione
effettuata da un terzo, le sarebbe probabilmente difficile accordare
un’attenzione particolare al principio di proporzionalità al momento
dell’applicazione dei motivi facoltativi di esclusione” (CGUE, 19.06.2019, cit., § 32).
2.5.6. La elasticità della norma di attribuzione e la ampiezza della
discrezionalità all’uopo demandata alla stazione appaltante -prestando
“particolare attenzione” all’esercizio della proporzionalità, coerentemente
ad una valutazione effettuata “caso per caso” dalla Amministrazione, e non
già “una tantum” dal legislatore- non possono non riverberarsi sulla
latitudine dell’obbligo di dichiarazione e di informazione gravante in capo
al partecipante alla procedura.
In altre parole, la latitudine dell’obbligo dichiarativo è specularmente
legata a quella della cause di esclusione, ovvero di “potenziale” esclusione
(cfr., CdS, V, 05.05.2016, n. 1812).
Così che, la natura atipica della causa di esclusione in esame –avente ad
oggetto tutte le condotte astrattamente idonee ad incidere sul ridetto
giudizio di affidabilità- rende meno agevole, già sul piano oggettivo:
- la individuazione dell’effettivo contenuto del correlato obbligo
informativo gravante in capo al partecipante alla gara; non è chi non veda,
invero, che si verte in tema non già di fatti e/o circostanze empiricamente
percepibili, bensì di qualificazioni giuridiche (“illeciti professionali”) e
in giudizi di (dis)valore (“gravi”);
- la selezione delle informazioni effettivamente dovute alla stazione
appaltante, al fine di consentirle l’esplicazione del proprio officium di
valutazione discrezionale.
2.5.7. Orbene, assumono rilievo le circostanze in appresso:
- l’onere di provare la esistenza di situazioni idonee a minare la
“affidabilità” ovvero ad incrinare o a mettere in dubbio la affidabilità del
partecipante incombe in capo alla Amministrazione attributaria della potestà
di esclusione; sul punto la dictio legis, in conformità delle prescrizioni
sovranazionali, è inequivocabile nel condizionare l’esercizio di detta
potestà alla dimostrazione con mezzi adeguati del grave illecito, lesivo
della onorabilità (“se l’amministrazione può dimostrare con mezzi adeguati”:
art. 57, par. 4, lett. c) direttiva; “qualora (…) la stazione appaltante
dimostri con mezzi adeguati”);
- i reciproci obblighi di buona fede, correttezza e solidarietà (artt. 2 e
97 Cost., art. 1175 c.c.) connotanti il rapporto tra consociati dal momento
del loro primo contatto sociale qualificato (Cass., I, 12.07.2016, n.
14188; TAR Lombardia, I, 06.11.2018, n. 2501), all’istesso modo ed a fortiori caratterizzano il rapporto tra la stazione appaltante e gli
aspiranti aggiudicatari, sin dal momento della emanazione del bando e della
presentazione della domanda;
- la tutela dell’affidamento legittimo, su cui fonda il diritto dell’Unione,
parimenti deve improntare l’azione amministrativa (art. 1, l. 241/1990; cfr.,
nella giurisprudenza dei Giudici di Lussemburgo, CGUE 03.05.1978,
C-12/77, Topfer; da ultimo, sulla valenza di regola generale, fondante il
diritto dell’Unione, da attribuire al principio della tutela
dell’affidamento, CGUE, 20.12.2017, C-322/16, Global Starnet; cfr.,
CGUE 14.03.2013 C-545/11, Agrargenossenschaft Neuzelle) in vista –con la
predisposizione della legge di gara- e nel corso della procedura di evidenza
pubblica;
- il principio della parità di trattamento, in virtù del quale gli operatori
partecipanti (o che intendono partecipare) ad una pubblica gara devono
disporre delle stesse opportunità ed essere messi nelle condizioni di
conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere assicurati del fatto
che gli stessi requisiti valgono per tutti (CGUE, IV, 14.12.2016,
causa C-171-15);
- il principio di trasparenza, che implica che “tutte le condizioni e le
modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera
chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, così
da permettere a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente
diligenti di comprenderne l’esatta portata e di interpretarle allo stesso
modo” (CGUE, 14.12.2016, cit.), sì da eliminare in nuce “i rischi di
favoritismo e di arbitrio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice” (CGUE,
02.05.2019, causa C-309/18);
- l’inveterato insegnamento dei Giudici di Lussemburgo, a mente del quale
“il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza devono
essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un operatore
economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a
seguito del mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che
non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal
diritto nazionale vigente” (CGUE, 02.05.2019, cit.).
2.5.8. Di talché, salvo quanto sopra esposto in relazione alle circostanze
irrimediabilmente ostative tipizzate in via generale ed astratta dalla
legge, ovvero a quelle giuridicamente rilevanti ai fini della valutazione
discrezionale circa la sussistenza degli illeciti professionali (fin quando
perduri la loro rilevanza giuridica, a’ sensi dell’art. 80, comma 10) –in
relazione alle quali non possono residuare dubbi sulla esistenza
dell’obbligo dichiarativo, e sulla sua percepibilità in capo all’operatore
professionale- la chiara delimitazione delle ulteriori informazioni
necessarie alla formulazione del giudizio di piena “affidabilità” ed
“integrità” non può che essere effettuata dalla medesima stazione appaltante
con la legge di gara, in guisa:
- da preventivamente apprestare, secondo la qualificata diligenza esigibile
anche dalla Amministrazione, i “mezzi adeguati” (è questa la nozione
foggiata dal diritto dell’Unione e pedissequamente recepita nel nostro
ordinamento) per acquisire un compiuto patrimonio informativo, al di là ed a
prescindere dalla possibilità di officiosamente avvalersi delle informazioni
contenute nel casellario tenuto dall’Anac;
- poter consapevolmente ed effettivamente assolvere all’onere, in capo ad
essa Amministrazione gravante, di dimostrare la esistenza di quelle gravi
violazioni professionali, idonee ad incrinare il giudizio di affidabilità ed
integrità della impresa;
- consentire a tutti i concorrenti di percepire, ex ante e secondo la
professionale diligenza da loro esigibile, la effettiva portata degli
obblighi di informazione “ulteriori” di cui la stazione appaltante abbisogna
(ulteriori rispetto a quelli naturaliter discendenti dalle prescrizioni di
legge ed afferenti alle circostanze che ex se valgono ad integrare i motivi
di esclusione tipizzati all’art. 80 del d.lgs. 50/2016).
E ciò in coerenza con l’insegnamento giurisprudenziale per cui, a mente dei
principi del diritto dell’Unione, il concorrente può legittimamente essere
escluso dalla gara anche per “una lacuna di carattere formale e
dichiarativo” sempre che la relativa prescrizione –fonte dell’obbligo
inadempiuto- sia percepibile e conoscibile ex ante da un soggetto
professionalmente qualificato, secondo la diligenza da lui normativamente
esigibile (CGUE, 06.11.2014, C-42/13, Cartiera dell’Adda).
2.5.9. Di qui l’onere per la stazione appaltante di chiarire nella
disciplina di gara la effettiva portata e natura delle informazioni all’uopo
richieste, che possono anche variare a seconda della natura dell’appalto,
del contesto economico e sociale di riferimento, della presumibile
composizione della platea degli aspiranti aggiudicatari, delle stesse
valutazioni di opportunità ex ante formulate dalla Amministrazione. E ciò
anche in ossequio al principio di auto responsabilità, precipitato degli
obblighi di buona fede e correttezza che reciprocamente gravano sulle parti
del rapporto o del contatto.
2.6. Orbene, nella fattispecie in esame, all’art. 15, parte III, del bando
di gara (pag. 20) è testualmente dato leggere che il “concorrente deve
dichiarare di non trovarsi in una delle condizioni ostative previste
dall’art. 80 del d.lgs. 50/2016 o dalle ulteriori disposizioni normative che
precludono soggettivamente gli affidamenti pubblici”, nel mentre nella parte
V si dispone che “il possesso dei requisiti di cui all’art. 80 del d.lgs.
50/2016 deve essere dichiarato dal legale rappresentante/procuratore
dell’operatore economico che presenta il DGUE con riferimento a tutti i
soggetti indicati al comma 3 del medesimo art. 80”.
E’ evidente, indi, che
la lex specialis ribadisce il contenuto di un obbligo dichiarativo già
discendente dalle previsioni di legge, in quanto limitato ai fatti e alle
circostanze qualificate dalla norma come irrimediabilmente ostative, senza
veruna richiesta di informazioni ulteriori e/o aggiuntive.
2.6.1. Ora, le informazioni la cui “omissione” è stata ascritta da Enpam RE
all’Ati ricorrente –cui si imputa, in forza di tale omissione, un contegno
mendace a’ sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. 50/2016-
afferiscono a fatti che pacificamente, ciò che non è contestato ed è anzi
apertamente riconosciuto dalla stazione appaltante:
- non costituiscono oggetto di specifici obblighi dichiarativi foggiati
dalla stazione appaltante, e di poi trasfusi nella lex specialis, nonché nei
moduli predisposti per la partecipazione alla gara;
- non rientrano nelle ipotesi ostative contemplate dalla legge.
Sotto tale ultimo profilo, invero, va rilevato che le circostanze non
dichiarate dalla ricorrente si concretano:
a) in un provvedimento inibitorio non più esistente, in quanto caducato dal
Giudice amministrativo già nel 2009;
b) in un provvedimento di esclusione da una gara, parimenti risalente al
2009, per un fatto che da lungo tempo ormai non è più considerato
antigiuridico (partecipazione contestuale alla gara di consorzio e
consorziata non designata);
c) in un provvedimento interdittivo della durata di 8 giorni, adottato ex
art. 14 d.lgs. 81/2008 dal Ministero delle infrastrutture in data 08.07.2014 (annotato in data
07.02.2015), comunicato in data 15.07.2014 e la cui
efficacia è cessata, pertanto, in data 23.07.2014.
2.6.2. In particolare, anche tale ultimo provvedimento elencato sub lett.
c), invero, non mai varrebbe ad integrare una ipotesi di esclusione dalla
partecipazione a gare, stante:
- la durata assai esigua dello spatium temporis (di appena 8 giorni, spirato
in data 23.07.2014) di “interdizione” dalla contrattazione e dalla
partecipazione a procedure di evidenza pubblica recato da tale
provvedimento; di qui la inesistenza della causa di esclusione di cui
all’art. 80, comma 5, lett. f), al momento della indizione della gara e
della presentazione della domanda da parte della ricorrente;
- il chiaro disposto dell’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/16 che –siccome sopra
ampiamente esposto e conformemente a quanto statuito dall’art. 57, comma 7,
della direttiva 2014/24/UE- fissa nel periodo massimo di tre anni la
(possibile) valenza ostativa riveniente dall’accertamento definitivo, “nei
casi di cui commi 4 e 5 ove non sia intervenuta sentenza di condanna”, e,
dunque, anche per il provvedimento adottato nei confronti della consorziata Ka.Re. (interdizione ex art. 14 d.lgs. 81/2008) rientrante appieno
nella previsione di cui all’art. 80, comma 5, lett. f), d.lgs. 50/2016.
E, invero, il decorso del triennio vale a deprivare ex se di rilevanza
giuridica il fatto oggetto dell’accertamento definitivo, la cui conoscenza è
in nuce non utile per la stazione appaltante, giammai potendo rientrare nel
processo decisionale prodromico alla esclusione ex art. 80, comma 5, lett.
c).
2.6.3. Ne discende la inesistenza del presupposto stesso su cui si fonda la
qualificazione di “falsità” attribuita dalla stazione appaltante alle
dichiarazioni “omesse” dall’Ati ricorrente, id est l’essere le stesse
riferite (pag. 3, provvedimento di revoca) a “circostanze utili… ai fini di
una corretta e consapevole valutazione”, vale a dire “quelle prescritte”:
- “dall’art. 80, comma 5, lett. c)”, stante la inesistenza del fatto
(sospensione di due mesi di Research, annullata in sede giurisdizionale), la
attuale mancanza di antigiuridicità del fatto (in ogni caso assai risalente)
cagionante la esclusione da un appalto di Re., il decorso di oltre un
triennio dall’adozione del provvedimento interdittivo a carico di Ka.;
- “dall’art. 80, comma 5, lett. f)”, atteso che il provvedimento interdittivo a carico di Ka. (della durata di soli 8 giorni) ha
compiutamente dispiegato la sua efficacia già nel luglio 2014.
Né, tampoco la dichiarazione di tali circostanze è stata espressamente
imposta dalla lex specialis, che ben poteva all’uopo partitamente ed
inequivocabilmente indicare i fatti e le informazioni all’uopo reputate
necessarie (con una prescrizione, ad esempio e per quel che qui rileva, che
obbligasse apertis verbis i partecipanti della procedura a dichiarare tutti
i provvedimenti sanzionatori amministratori applicati nei loro confronti in
un più o meno ampio lasso temporale).
2.6.4. Né può assumere alcun rilievo la circostanza –che pure è valorizzata
nel provvedimento di revoca della aggiudicazione e nelle stesse difese di
En.RE- per cui i fatti de quibus fossero annotati nel casellario
informatico Anac, ciò che avrebbe determinato ex se un obbligo dichiarativo
in capo all’operatore.
E, invero:
- le annotazioni di fatti e circostanze nel casellario Anac –e la loro
perduranza nel tempo- non mai possono valere di per sé sole ad integrare un
obbligo di dichiarazione in capo al partecipante, astretto esclusivamente
alle disposizioni di legge nonché alle prescrizioni di gara; ciò che solo
assume rilevanza, ai fini che ci occupano, è la valenza intrinseca delle
informazioni, anche solo potenzialmente “incidente” sul processo decisionale
della stazione appaltante, e non già la circostanza estrinseca della loro
annotazione nel casellario;
- in ogni caso, se la stazione appaltante avesse davvero inteso assegnare
rilevanza a tale dato estrinseco ben avrebbe potuto e dovuto chiaramente
estrinsecarlo nella lex specialis.
E ciò anche a voler obnubilare ogni considerazione circa la dubbia
ragionevolezza di una previsione siffatta che –in quanto volta ad addossare
in capo ai concorrenti obblighi dichiarativi di fatti che agevolmente
possono essere acquisiti dalla stazione appaltante, mercé la mera
consultazione della banca dati- avrebbero invero potuto assumere
connotazioni altresì violative del principio di proporzionalità.
2.7. Di talché, la omissione di comunicazione ascritta all’Ati ricorrente
-proprio perché avente ad oggetto circostanze non mai integranti ipotesi
ostative e, dunque, non mai rientranti nel contenuto dell’obbligo di
informazione e dichiarazione gravante in capo ai concorrenti ai sensi della
legge ovvero delle specifiche prescrizioni contenute nel bando di gara- non
può assumere valenza:
- di omissione giuridicamente rilevante, in assenza del correlato obbligo,
sia esso nascente dalla legge ovvero dalle regole speciali che governano la
procedura;
- men che mai, di contegno mendace, siccome di contro reputato dalla
stazione appaltante.
2.7.1. E’ ben vero, infatti, che la natura “non veritiera” o “falsa” di una
dichiarazione può realizzarsi anche attraverso la omissione o la
incompletezza (reticenza) delle informazioni fornite, quando la informazione
omessa o resa in modo parziale o incompleto attribuisce al tenore della
dichiarazione un senso diverso, così che “l’enunciato descrittivo venga ad
assumere nel suo complesso un significato contrario al vero o negativo
dell’esistenza di fatti rilevanti” (tra le tante, Cass. Pen. V, 04.11.2014,
n. 48755; in senso diverso sembra andare CdS, V, 12.04.2019, n. 2407,
che distingue tra dichiarazione omessa e reticente e dichiarazione falsa, quest’ultima consistente in una
immutatio veri e ricorrente solo nel caso in
cui “l’operatore rappresenta una circostanza di fatto diversa dal vero”).
2.7.2. E, tuttavia, già in base alle generali categorie penalistiche che non
possono non venire in rilievo anche in subiecta materia, la “non veridicità”
delle dichiarazioni fornite dalla impresa alla stazione appaltante
presuppone la esistenza:
- a latere oggettivo, di un obbligo di informazione e di dichiarazione,
sufficientemente specifico e determinato, e relativo a fatti (e non già a
giudizi o “qualificazioni”);
- a latere soggettivo, nella coscienza e volontà di rendere una
dichiarazione falsa e, dunque, il dolo generico dell’agente e non già il
dolo specifico, irrilevanti essendo le concrete intenzioni dell’agente, non
essendo richiesto l’animus nocendi o decipiendi; di guisa che non potrà
parlarsi di contegno mendace in caso di mera negligenza, leggerezza o
disattenzione, essendo sconosciuta al nostro ordinamento la figura del falso
documentale colposo.
2.7.3. Nella fattispecie che ne occupa, mancano entrambi gli elementi sopra
individuati, stante:
- la oggettiva inesistenza dell’obbligo di dichiarare i fatti e le
circostanze de quibus, in quanto non qualificabili come ostativi alla
partecipazione, né rilevanti ai fini del giudizio ex art. 80, comma 5, lett.
c), né tampoco oggetto di una specifica richiesta all’uopo contenuta nelle
prescrizioni della lex specialis, siccome sopra argomentato;
- in ogni caso, la assenza dell’elemento soggettivo in capo all’Ati
ricorrente che, ragionevolmente confidando sulla univoca significanza delle
previsioni del bando (che imponeva l’obbligo dichiarativo relativo alla
eventuale sussistenza delle tipiche “condizioni ostative previste dall’art.
80 d.lgs. 50/2016 o dalle ulteriori disposizioni normative che precludono
soggettivamente gli affidamenti pubblici”) non ha provveduto a fare menzione
di fatti e circostanze: i) non più esistenti, perché travolte da un
giudicato di annullamento; ii) risalenti nel tempo, ben oltre il triennio
contemplato all’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016, oltre che deprivate di
valenza antigiuridica.
3. Questo TAR non ignora la esistenza di statuizioni giurisdizionali, in
forza delle quali i concorrenti “devono dichiarare ogni episodio della vita
professionale astrattamente rilevante ai fini della esclusione, pena la
impossibilità per la stazione appaltante di verificare l’effettiva rilevanza
di tali episodi sul piano della ‘integrità professionale’ dell’operatore
economico” (CdS, III, 22.05.2019, n. 3331; CdS, V, 24.01.2019, n.
591; Id. id., 03.09.2018, n. 5142); di talché “non è configurabile in
capo all’impresa alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da
dichiarare, sussistendo l’obbligo della onnicomprensività della
dichiarazione, in modo da permettere alla stazione appaltante di espletare,
con piena cognizione di causa, le valutazioni di sua competenza (cfr. Cons.
Stato, V, n. 4532/2018; n. 3592/2018; n. 6530/2018); vale a dire, non è
possibile che la relativa valutazione sia eseguita, a monte, dalla
concorrente la quale autonomamente giudichi irrilevanti i propri precedenti
negativi, omettendo di segnalarli con la prescritta dichiarazione (cfr.
Cons. Stato, V, n. 1935/2018), così da nascondere alla stazione appaltante
situazioni pregiudizievoli, rendendo false o incomplete dichiarazioni al
fine di evitare possibili esclusioni dalla gara (cfr. Cons. Stato, III, n.
4192/2017; n. 6787/2018); al contrario, affinché la valutazione della
stazione appaltante possa essere effettiva è necessario che essa abbia a
disposizioni quante più informazioni possibili, e di ciò deve farsi carico
l’operatore economico, il quale se si rende mancante in tale onere può
incorrere in un grave errore professionale endoprocedurale” (cfr. Cons.
Stato, V, n. 5142/2018).
Né può non rammentarsi la corrente giurisprudenziale favorevole alla
inapplicabilità del limite temporale di cui all’art. 80, comma 10, d.lgs.
50/2016 ai fini dell’obbligo dichiarativo strumentale alla valutazione sulla
esistenza di illeciti professionali (CdS, V, 1644/2019; Id., id. 6530/2018).
3.1. E, tuttavia, la latitudine ed intensità degli obblighi di
collaborazione del partecipante alla gara -funzionali pur sempre a
consentire l’esercizio della potestà discrezionale di esclusione,
condizionato alla prova di gravi illeciti professionali pur sempre gravante
in capo alla stazione appaltante- e che si inscrivono nell’alveo dei
generali principi di buona fede, correttezza, lealtà e trasparenza, non può
che attestarsi alle soglie:
- della ragionevole “esigibilità” del contegno, da escludersi in nuce nel
caso in cui la esistenza stessa dell’obbligo sia oggettivamente non
percepibile, in quanto non discendente dalle norme né, tampoco, individuata
o lumeggiata nella lex specialis.
3.2. Oltrepassata tale soglia, invero, si entra nel terreno:
- della scusabilità della condotta, in quanto indotta dalla scarsa chiarezza
ovvero dalla equivocità delle prescrizioni di gara, suscettibili di diversa
significanza e interpretazione;
- del potere-dovere per la stazione appaltante di consentire ai partecipanti
–indotti in incolpevole errore dalla equivocità delle prescrizioni- di
“presentare, integrare, chiarire, o completare le informazioni o la
documentazione asseritamente incomplete, errate o mancanti entro un termine
adeguato” (CGUE, 02.05.2019, C-309/18, cit., § 23, con il pregnante
richiamo ivi contenuto all’art. 56, par. 3, della direttiva 2014/24/UE)).
3.3. Soccorre, in proposito, anche la disamina delle dichiarazioni rese
dalla Ati ricorrente nel DGUE, atteso che dalla compilazione del modello
emerge:
- la risposta affermativa alla domanda relativa alla sussistenza “di gravi
illeciti professionali di cui all’artt. 80, comma 5, lett. c), del codice”
con la indicazione della risoluzione di un contratto di appalto e delle
susseguenti misure di autodisciplina e di prevenzione adottate; la piena
informazione quivi resa dalla Ati, ben si giustifica in ragione della chiara
riconducibilità della vicenda risolutoria nel novero degli exempla di gravi
illeciti professionali indicate dalla norma nazionale (cfr., altresì, art.
57 della direttiva); ragionevole, per contro e in ogni caso “scusabile”, si appalesa la scelta della Ati ricorrente di non indicare, invece, fatti non
più esistenti (contraddetti da un giudicato amministrativo) ovvero risalenti
al 2009 e da anni non più considerati quali illecito (partecipazione
contestuale a gare da parte di consorzio e consorziata non designata);
- la risposta negativa fornita al quesito posto nel riquadro “D1” del DGUE,
relativo alla esistenza di sanzioni comportanti “il divieto di contrarre con
la pubblica amministrazione, compresi i provvedimenti interdittivi di cui
all’art. 14 d.lgs. 81/2008 [art. 80, comma 5, lett. f)]”; e, invero, trattasi
di un quesito che ragionevolmente può essere interpretato, ed in concreto in
tal guisa è stato interpretato, nel senso di acquisire contezza circa la
esistenza della causa “tipizzata” di esclusione (ostativa ex lege)
contemplata all’art. 80, comma 5, lett. f), essendo peraltro contenuto nel
riquadro D del modello, che fa espresso riferimento ai “motivi di esclusione
previsti esclusivamente dalla legislazione nazionale [art. 80, comma 2 e
comma 5, lett. f), f-bis), f-ter), g), h), i), l), m) del Codice e art. 53,
comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001]”; e nella fattispecie non è dubbio che non
ricorre la causa di esclusione di cui alla lett. f), attesa la cessazione di
efficacia del provvedimento interdittivo (peraltro pari a soli 8 giorni) a
far data dal 23.07.2014; né la circostanza poteva assumere rilievo ai
fini della valutazione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), stante il
decorso anche del triennio di giuridica rilevanza normativamente contemplato
al comma 10 (oltre che all’art. 57, par. 7, della direttiva); di talché la
negativa risposta ivi fornita ben può intendersi come riferita alla
inesistenza di cause di esclusione (tenuto, altresì, conto, che lo stesso
art. 15 del bando di gara, parte III, correla le dichiarazioni alle
esistenza di cause ostative ex lege) id est alla inesistenza di un
provvedimento sanzionatorio (accertamento definitivo risalente al luglio
2014) assumente valenza ostativa, ovvero alla inesistenza di fatti
potenzialmente rilevanti ai fini della valutazione della esistenza di
illeciti professionali gravi, stante in ogni caso il decorso del triennio
contemplato all’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016.
E, invero –anche in ragione dei cennati orientamenti giurisprudenziali non
univoci sulla effettiva portata della limitazione temporale di cui al citato
art. 80, comma 10- in mancanza di espresse indicazioni contenute nella legge
di gara (le cui prescrizioni, anzi, potevano essere lette in tutt’altro
modo, come sopra esposto) il contegno dell’Ati ricorrente è quanto meno
incolpevole, riposando su di una lettura del quadro normativo:
- affatto ragionevole; siccome sopra argomentato, la norma in esame (in
ossequio all’art. 57, par. 7) nel disciplinare il divieto legale di
contrarre (incapacità giuridica) –circoscrivendone lo spatium temporis, in
mancanza di limiti temporali discendenti dalle sentenze o dai provvedimenti
amministrativi- vale, altresì, a delimitare nel tempo la rilevanza giuridica
dei fatti oggetto di quelle sentenze di condanna o di accertamento
amministrativo;
- avente una sua propria dignità, in quanto adottata anche in
giurisprudenza, e peraltro maggiormente aderente alle prescrizioni della
direttiva 2014/24/UE, siccome interpretati dalla Corte di Giustizia
(sentenza 24.10.2018, C-124/17 e 04.06.2019, C-425/18, citt.).
3.4. Anche sotto il profilo soggettivo, pertanto, non può imputarsi all’Ati
ricorrente la presentazione di dichiarazioni non veritiere o false, atteso
che il carattere equivoco ed oggettivamente opinabile della stessa
formulazione dei quesiti siccome riprodotti nel modello di DGUE, e le
peculiari modalità attraverso cui è possibile fornirvi risposta, vale ad
escludere a carico della ricorrente il giudizio di colpevolezza (sub specie
di dolo generico, dovendo necessariamente rientrare nel “fuoco” della
volontà dell’agente il carattere non veritiero e falso della dichiarazione)
e di riprovevolezza, immancabilmente sotteso alla causa di esclusione di cui
all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), del d.lgs. 50/2016.
3.4.1. Ciò che, peraltro, è confermato dalle stesse affermazioni di parte
resistente circa la “incertezza del dato normativo e dell’interpretazione
giurisprudenziale” (pag. 5, memoria di replica, En.RE).
3.4.2. D’altra parte, non può non rimarcarsi che una forma di condotta
decettiva del partecipante alla gara è testualmente contemplata anche
all’art. 80, comma 5, lett. c), tra le ipotesi suscettibili di integrare
illecito professionale: “fornire, anche per negligenza, informazioni false o
fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni …ovvero l’omettere le
informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di
selezione”.
3.4.3. Di talché, è già il criterio ermeneutico della “coerenza intrinseca”
al medesimo testo normativo, secondo cui il significato delle scelte e delle
proposizioni normative va desunto anche alla luce delle altre scelte e
disposizioni del medesimo e unitario “complesso normativo”, a militare nel
senso della distinzione tra le due ipotesi:
- la prima, relativa al contegno consistente anche solo nell’“omettere le
informazioni dovute” ai fini del corretto svolgimento della procedura, anche
solo per negligenza (oltre che a fornire informazioni false o fuorvianti
suscettibili di incidere sulle decisioni della stazione appaltante);
- la seconda, nel mendacio tout court, che implica la sussistenza del dolo
generico.
3.4.4. In tal senso conduce anche il criterio interpretativo per cui magis
ut valeat quam ut pereat e, dunque, che nel dubbio, l’interpretazione di una
proposizione normativa –promani essa da una fonte eteronoma ovvero pattizia
e negoziale- deve operarsi nel senso in cui essa assuma una sua propria
significanza ed efficacia, piuttosto che in quello che la deprivi di
efficacia, rendendola inutiliter data (imponendosi all'interprete “di
attribuire un senso a tutti gli enunciati del precetto legislativo”; Cass. SS.UU., 29.04.2009, n. 9941; TAR Lombardia, I, 13.05.2019, n.
1067).
3.4.5. E’ evidente, indi, che la condotta di cui alla lett. f-bis)
costituisce un quid pluris rispetto a quella contemplata all’art. 80, comma
5, lett. c) e, in quanto connotata da maggior grado di disvalore:
- determinante la esclusione ex lege;
- implicante la segnalazione all’Anac, che valuterà poi il dolo o la colpa
grave ai fini dell’annotazione nel casellario informatico (art. 80, comma
12; CdS, III, 7173/2018);
- avente carattere, per così dire residuale, limitata ai “soli casi di
mancata rappresentazione di circostanze specifiche, facilmente e
oggettivamente individuabili e direttamente qualificabili come [possibili]
cause di esclusione” (CdS, III, 23.08.2018, n. 5040, cit.).
3.4.6. Di qui la illegittimità dell’azione della stazione appaltante che su
tale norma, residuale e di chiusura, ha fondato il gravato provvedimento
vincolato di esclusione (recte, di revoca della aggiudicazione).
3.5. Infine, non senza rilievo è il fatto che, nel caso di specie, si verte
in tema di revoca della aggiudicazione, dapprincipio disposta in favore
della ricorrente.
Ciò che ha consentito anche il dispiegarsi di una previa interlocuzione
procedimentale, all’esito della quale, anche a voler tenere in non cale
quanto sopra esposto in punto di inesistenza ex se dell’obbligo dichiarativo
che si assume infranto, l’Ati ricorrente aveva in ogni caso formulato
deduzioni idonee:
- quantomeno a lumeggiare la “incolpevolezza” ovvero la “scusabilità” del
contegno asseritamente mendace o non veritiero;
- ad escludere in nuce, indi, anche per tale esclusivo aspetto, il giudizio
di grave disvalore correlato all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs.
50/2016, e al necessitato provvedimento di esclusione ivi contenuto, volto a
sanzionare il contegno mendace tenuto dal partecipante alla gara.
3.6. Non possono non venire in rilievo, al fine, i principi di trasparenza,
ragionevole affidamento, certezza del diritto, parità di trattamento e
proporzionalità, come elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
(CGUE, 02.06.2016, Pizzo, C-27/15; CGUE 02.05.2019, C-309/18), in
ossequio ai quali, in mancanza di espresse e inequivoche disposizioni della
lex specialis:
- l’offerente deve poter essere messo nelle condizioni di chiarire la
propria posizione in sede procedimentale;
- la stazione appaltante ha l’obbligo di valutare i chiarimenti all’uopo
forniti dall’operatore, al di là di qualsivoglia automatismo “espulsivo”, in
ossequio altresì al principio di proporzionalità, che costituisce un
principio generale del diritto dell’Unione e che dunque milita nel senso per
cui la normativa nazionale finalizzata a garantire la parità di trattamento
“non deve eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo conseguito
(v. in tal senso, sentenza dell’08.02.2018, Lloyd’s of London,
C-144/17, EU:C:2018:78, punto 32 e giurisprudenza ivi citata)” (CGUE, 02.05.2019, C-309/18, cit.).
3.7. Tale opzione esegetica, peraltro, appare essere stata da ultimo fatta
propria dal Supremo Consesso nella (per certi versi simile a quella che ci
occupa) vexata quaestio afferente alla effettiva latitudine e valenza degli
obblighi dichiarativi dei costi della manodopera e degli oneri di sicurezza
(CdS, V, 6688/2019) per cui:
- si sono valorizzate le stesse osservazioni effettuate dalla Adunanza
plenaria nella ordinanza n. 3/2019, da cui è scaturita la più volte citata
sentenza della Corte di Giustizia del 02.05.2019;
- si è ribadita la cogenza del principio in fora del quale “in caso di
equivocità delle disposizioni, deve essere preferita l’interpretazione che,
in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti eccessivi
formalismi e illegittime restrizioni alla partecipazione” (secondo
l’orientamento già assunto da certa parte della giurisprudenza: CdS, III,
2554/18; CdS, V, 2064/13; TAR Lombardia, I, 10.09.2018, n. 2056; TAR
Lombardia, I, 07.05.2018, n. 1223). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI
– Tutela del paesaggio – Principio fondamentale della
Costituzione – Previsione degli strumenti urbanistici –
Coordinamento con le norme sottese alla difesa dei valori
paesaggistici.
La tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico
è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha
carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici
che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal
che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono
necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa
di tali valori.
...
BENI CULTURALI E AMBIENTALI
– Difesa del paesaggio ed esigenze legate allo sviluppo
edilizio del territorio – Disciplina urbanistica –
Contemperamento.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di
misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela
di un territorio qualificato è quella che garantisce la
conservazione dei suoi tratti, impedendo o riducendo al
massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del
territorio propedeutiche all’attività edilizia; non par
dubbio che gli interventi di antropizzazione connessi alla
trasformazione territoriale con finalità residenziali,
finiscono per alterare la percezione visiva dei tratti
tipici dei luoghi, incidendo sul loro aspetto esteriore e
sulla godibilità del paesaggio nel suo insieme.
Tali
esigenze di tipo conservativo devono naturalmente
contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente,
con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio
che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con
le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano
legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E’
proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali
contrapposti interessi che l’autorità preposta alla tutela
del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la
disciplina urbanistica consenta l’esercizio dello ius
aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o
denegare il necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio; vicendevolmente, il potere di pianificazione
urbanistica, via via evoluto in senso propulsivo di
miglioramento della vivibilità del suolo (si pensi alla
tutela dei centri storici e, più settorialmente ma in
maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di
legge speciale che hanno valorizzato il potere di limitare
in senso qualitativo gli insediamenti, anche commerciali,
per migliorare il “decoro” e la vivibilità delle città) può
rafforzare i limiti, anche conservativi, ampliando la soglia
della tutela, ma mai prescinderne, condizionandola.
...
BENI CULTURALI E AMBIENTALI
– Bellezze naturali, artistiche o storiche – Piano
regolatore – Vincoli conservativi – Competenze statali e
regionali – Valutazione autonoma dell’autorità titolare del
potere di pianificazione, nel rispetto dei vincoli posti
dalle autorità competenti.
L’art. 1 della l. 19.11.1968, n. 1187, modificando
l’art. 7 della l. n. 1150/1942, ha esteso il contenuto del
piano regolatore generale anche all’indicazione dei vincoli
da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e
paesistico, con ciò assurgendo al rango di norma primaria su
tale possibile intersecarsi di tutele, alla scopo di
enfatizzarne gli effetti di ordinato sviluppo del
territorio.
Si è cioè espressamente legittimata l’autorità
titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare
autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già
esistenti posti dalle amministrazioni competenti alla
relativa tutela, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni.
Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e
regionali in materia di bellezze naturali o artistiche o
storiche non esclude che la tutela di questi stessi beni sia
perseguita anche in sede di adozione e approvazione dello
strumento urbanistico comunale (v. Cons. Stato, sez. IV,
05.10.1995, n. 781).
Parimenti, il piano regolatore
generale, nell’indicare i limiti da osservare per
l’edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e
paesistico, può disporre che determinate aree siano
sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da
quelli imposti dalle autorità istituzionalmente preposte
alla salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico
o ambientale (Cons. Stato, sez. IV, 14.02.1990, n. 78,
e 24.04.2013, n. 2265) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 14.11.2019 n. 7839 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Urbanistica e poteri
pianificatori – Funzione di sviluppo complessivo e armonico
– Compenetrazione di vincoli – Protezione e valorizzazione
del bene tutelato.
Il potere di pianificazione urbanistica non è limitato
all’individuazione delle destinazioni delle zone del
territorio comunale, e in specie alle potenzialità
edificatorie delle stesse e ai limiti che incontrano tali
potenzialità.
Al contrario, tale potere di pianificazione
deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di
urbanistica che non sia limitato solo alla disciplina
coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai
tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo
della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche
finalità economico-sociali della comunità locale, non in
contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato, nel quadro del rispetto e dell’attuazione di valori
costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, nella
stesura dell’art. 117 della Costituzione conseguita alla
riforma del 2001 si è inteso sostituire il termine
“urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di
“governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione sottese
alla relativa attività programmatoria degli enti
territoriali.
In definitiva, l’urbanistica ed il correlativo
esercizio del potere di pianificazione non sono intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone un’inaccettabile visione minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
Per tale ragione è
possibile una compenetrazione di vincoli che, senza
esautorare lo Stato dai compiti di tutela che gli sono
propri, ne rafforzi le finalità ed estenda la portata in una
visione di valorizzazione, oltre che di protezione del bene
tutelato.
...
BENI CULTURALI E AMBIENTALI
– Modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio
dall’amministrazione regionale – Modifiche obbligatorie,
facoltative e concordate – Obbligo di ripubblicazione –
Mutamento delle caratteristiche essenziali.
Le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio
dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della
tutela del paesaggio e dell’ambiente, non comportano la
necessità per il Comune interessato di riavviare il
procedimento di approvazione dello strumento, con
conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali
modifiche –in conformità a quanto stabilito dall’art. 10,
secondo comma, lettera c), della legge n. 1150/1942 e
dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980– nell’ambito di un unico procedimento di formazione
progressiva del disegno relativo alla programmazione
generale del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
05.03.2008, n. 927; id., 30.09.2002, n. 4984; 05.09.2003, nn. 2977 e 4984).
Occorre, in merito, distinguere tra
modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici, l’adozione di standard
urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in
innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate”
(conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al
piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche
“facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di
rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste
l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune,
diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo
non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
La necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene
ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della
procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una
sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la
più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n.
6484).
Deve escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons.
Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra);
in
altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui
le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (cfr.
TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 14.11.2019 n. 7839 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Tutela
del paesaggio e del patrimonio storico e previsioni degli strumenti
urbanistici.
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Urbanistica – Piano regolatore – Rapporto con la tutela paesaggio e del
patrimonio storico e artistico – Individuazione.
La tutela del paesaggio e del patrimonio storico e
artistico è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha
carattere di preminenza rispetto alla tutela degli altri beni giuridici che
vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le
previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi
con quelle sottese alla difesa di tali valori.
E' dunque possibile l’intersecarsi dei livelli di tutela, purché nel
rispetto della ripartizione delle competenze sancito dalla Costituzione,
rafforzando con misure in materia di edificabilità dei suoli il regime
vincolistico “puntiforme” (1).
---------------
(1) La Sezione affronta il problema del rapporto tra vincoli
imposti ai sensi della normativa nazionale (nel caso di specie, la l. n.
1089 del 1939) e vincoli urbanistici, ribadendo la possibilità attraverso
questi ultimi di rafforzare e coordinare la tutela del territorio attraverso
misure di edificabilità del suolo.
In particolare, spetta allo strumento urbanistico trovare il difficile punto
di equilibrio tra l’interesse alla tutela del territorio e l’esercizio dello
ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare
il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio. Ove tale
competenza non potesse arricchirsi dei richiamati elementi contenutistici
che le sono propri, purché nel rispetto della sfera delle competenze
costituzionalmente declinate, essa finirebbe per essere svuotata della sua
essenza più tipica, ovvero la regolazione del regime di edificabilità dei
suoli (anche) in relazione al vincolo riscontrato.
Ha aggiunto la Sezione che la conclusione alla quale è pervenuta risponde
all’evoluzione del concetto di urbanistica verso la più ampia nozione di “governo
del territorio” introdotta con la riforma del Titolo V della
Costituzione, anche con l’obiettivo di consentire attraverso gli strumenti
di pianificazione rimessi alla competenza degli Enti territoriali una
sintesi delle tutele attribuite allo Stato e delle esigenze di miglioramento
della qualità del territorio. La funzione di tutela e la funzione di
valorizzazione appaiono, infatti, appaiono autonome, ancorché complementari.
Il “governo del territorio”, infatti, è nozione più ampia dell’“urbanistica”
e risponde anche all’esigenza propulsiva di miglioramento della vivibilità
del suolo (si pensi alla tutela dei centri storici e, più settorialmente ma
in maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di legge speciale
che hanno valorizzato il potere di limitare in senso qualitativo gli
insediamenti, anche commerciali, per migliorare il “decoro” e la
vivibilità delle città).
In tale contesto la previsione contenuta nella legge urbanistica
fondamentale 17.08.1942, n. 1150, che impone alle Regioni di intervenire sui
Piani regolatori per finalità di tutela dell’ambiente e del patrimonio
artistico non può essere letta in senso riduttivo, ma implica sia la
ricognizione del vincolo che il rafforzamento della relativa tutela con le
misure limitative dell’edificabilità dei suoli che gli sono consoni. La
natura necessitata dell’esercizio di tale potere (anche) rafforzativo
implica che non occorre procedere a nuova pubblicazione del piano regolatore
generale che sia stato integrato, senza stravolgerne il contenuto
complessivo, con indicazioni procedurali funzionali ad estendere la zona di
rispetto al fine di tutelare il complesso nel quale si trova il singolo
bene.
Per tale ragione l’intervento della Regione nel procedimento di approvazione
dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le
fasce di rispetto estendendo l’area degli effetti della tutela “puntiforme”
del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del
territorio, non comporta l’obbligo dell’ente locale di ripubblicare il Piano
regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né
implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati
interessati.
Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce
risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento
urbanistico introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini
specifici della tutela del paesaggio e dell’ambiente, non comportano la
necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di
approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso,
inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall’art. 10,
comma 2, lett. c), l. n. 1150 del 1942- nell’ambito di un unico procedimento
di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale
del territorio (Cons. St., sez. IV,
05.03.2008, n. 927; id.
30.09.2002, n. 4984)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 14.11.2019 n. 7839 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9. La quaestio iuris sottesa all’odierna controversia attiene
all’esatta estensione del potere pianificatorio degli Enti territoriali
avuto riguardo alla tutela degli interessi paesaggistici, storici e
ambientali che la Costituzione assegna allo Stato. In sintesi, occorre
scrutinare da un lato l’estensione del potere vincolistico riconosciuto agli
stessi, senza invadere competenze statali; dall’altro, al suo interno, le
ricadute delle scelte regionali sulla discrezionalità decisionale del Comune
e le garanzie procedurali funzionali a garantire il rispetto delle relative
prerogative.
10. Al fine dunque di correttamente perimetrare i confini della vicenda,
occorre chiarire la natura del vincolo imposto sui beni di proprietà dei
ricorrenti, in quanto potenzialmente esteso oltre quello caratterizzante il
fabbricato ottocentesco, a tutela del “complesso” rappresentato dal
contesto globale nel quale esso si inserisce. In ragione, cioè,
dell’insistenza sul terreno di un bene (“villa Boccuzzi”) individuato
come di interesse storico architettonico ex art. 16/r delle N.T.A. del P.R.G.,
l’intera zona nella quale esso si colloca è assoggettata ad un particolare
regime edificatorio, mirato a tutelarne la riconosciuta valenza di pregio.
11. Giova premettere che la tutela del paesaggio e del
patrimonio storico e artistico è principio fondamentale della Costituzione
(art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici
che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le
previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi
con quelle sottese alla difesa di tali valori.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di
misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un
territorio qualificato è quella che garantisce la conservazione dei suoi
tratti, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché
irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia; non par
dubbio che gli interventi di antropizzazione connessi alla trasformazione
territoriale con finalità residenziali, soprattutto quando siano
particolarmente consistenti per tipologia e volumi edilizi da realizzare,
finiscono per alterare la percezione visiva dei tratti tipici dei luoghi,
incidendo (quasi sempre negativamente) sul loro aspetto esteriore e sulla
godibilità del paesaggio nel suo insieme. Tali esigenze di tipo conservativo
devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere
completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che
sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei
proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le
potenzialità edificatorie.
E’ proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali
contrapposti interessi che l’autorità preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica
consenta l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento
nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio; vicendevolmente, il potere di pianificazione urbanistica,
via via evoluto in senso propulsivo di miglioramento della vivibilità del
suolo (si pensi alla tutela dei centri storici e, più settorialmente ma in
maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di legge speciale che
hanno valorizzato il potere di limitare in senso qualitativo gli
insediamenti, anche commerciali, per migliorare il “decoro” e la
vivibilità delle città) può rafforzare i limiti, anche conservativi,
ampliando la soglia della tutela, ma mai prescinderne, condizionandola.
Da qui l’affermazione
del giudice di prime cure per cui la tutela ex l. n.
1089/1939, vigente ratione temporis, riguarda il singolo bene (tutela
“puntiforme”), laddove quella del luogo nel quale esso si inserisce
può essere estesa in sede di pianificazione urbanistica al complesso che da
quel singolo bene trae la sua esigenza di conservazione, ovvero di sviluppo
controllato.
11.1. Costituisce peraltro ius receptum in
giurisprudenza il principio secondo cui il potere di pianificazione
urbanistica non è limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone
del territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle
stesse e ai limiti che incontrano tali potenzialità.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia
limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al
massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo
della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità
economico-sociali della comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in
armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali,
regionali e dello Stato, nel quadro del rispetto e dell’attuazione di valori
costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, nella stesura dell’art. 117 della
Costituzione conseguita alla riforma del 2001 si è inteso sostituire il
termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo
del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle
finalità di pianificazione sottese alla relativa attività programmatoria
degli enti territoriali.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, tuttavia,
già trovavano consacrazione nei principi generali della cosiddetta legge
urbanistica fondamentale, ovvero la legge 17.08.1942, n. 1150, laddove essa
individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi”
(art. 1), non solo nell’“assetto ed incremento edilizio”
dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non sono mai stati intesi, sul piano giuridico,
solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone un’inaccettabile visione minimale, ma
devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul
proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del
medesimo. Per tale ragione è possibile una compenetrazione di vincoli che,
senza esautorare lo Stato dai compiti di tutela che gli sono propri, ne
rafforzi le finalità ed estenda la portata in una visione di valorizzazione,
oltre che di protezione del bene tutelato.
Nel caso in esame peraltro il vincolo che riguarda il “villino” di
proprietà delle ricorrenti -così come quello imposto sugli altri immobili
ritenuti di particolare pregio storico-architettonico, in maniera
generalizzata ed uniforme, tale pertanto da scongiurare qualsiasi ipotesi di
disparità di trattamento- non comporta effetti di natura espropriativa, ma
si limita a prevedere che gli interventi edilizi concernenti tali immobili
vengano realizzati nel rispetto della specifica disciplina di tutela dettata
dallo strumento generale di governo del territorio.
12. Per costante orientamento giurisprudenziale, ormai risalente nel tempo,
l’art. 1 della l. 19.11.1968, n. 1187, modificando l’art. 7 della l.
n. 1150/1942, ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche
all’indicazione dei vincoli da osservare nelle zone a carattere storico,
ambientale e paesistico, con ciò assurgendo al rango di norma primaria su
tale possibile intersecarsi di tutele, alla scopo di enfatizzarne gli
effetti di ordinato sviluppo del territorio. Si è cioè espressamente
legittimata l’autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a
valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già
esistenti posti dalle amministrazioni competenti alla relativa tutela, ad
imporre nuove e ulteriori limitazioni.
Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia
di bellezze naturali o artistiche o storiche non esclude che la tutela di
questi stessi beni sia perseguita anche in sede di adozione e approvazione
dello strumento urbanistico comunale
(v. Cons. Stato, sez. IV, 05.10.1995, n. 781).
Si è del pari ritenuto che il piano regolatore generale,
nell’indicare i limiti da osservare per l’edificazione nelle zone a
carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate
aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli
imposti dalle autorità istituzionalmente preposte alla salvaguardia delle
cose di interesse storico, artistico o ambientale
(Cons. Stato, sez. IV, 14.02.1990, n. 78, e 24.04.2013, n. 2265).
13. Ove tale competenza non potesse arricchirsi dei
richiamati elementi contenutistici che le sono propri, purché nel rispetto
della sfera delle competenze costituzionalmente declinate, essa finirebbe
per essere svuotata della sua essenza più tipica, ovvero la regolazione del
regime di edificabilità dei suoli (anche) in relazione al vincolo
riscontrato.
14. Appare cioè indubbio che “tutela” e “valorizzazione”
esprimano -per esplicito dettato costituzionale e, in epoca più recente, per
disposizione del Codice dei beni culturali (artt. 3 e 6, secondo anche
quanto riconosciuto sin dalle sentenze n. 26 e n. 9 del 2004 della Corte
costituzionale)- aree di intervento diversificate. E che, rispetto ad esse,
è necessario che restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini
della tutela, la disciplina e l’esercizio unitario delle funzioni destinate
alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale, storico o
artistico nonché alla loro protezione e conservazione; mentre alle Regioni,
ai fini della valorizzazione, spettino la disciplina e l’esercizio delle
funzioni dirette alla migliore conoscenza, utilizzazione e fruizione di quel
patrimonio (sentenza n. 194 del
2013 della Corte costituzionale), ivi compresa la loro
inclusione nelle previsioni urbanistiche locali.
Tuttavia, nonostante tale diversificazione, l’ontologica e
teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale
dinamica della produzione legislativa, la possibilità
(come nella specie) che alla predisposizione di strumenti
concreti di tutela del patrimonio storico o artistico si accompagnino
contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla
valorizzazione dello stesso; ciò comportando una situazione di concreto
concorso della competenza esclusiva dello Stato con quella concorrente dello
Stato e delle Regioni. |
URBANISTICA:
Le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio
dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio
e dell’ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di
riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente
ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a
quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n.
1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980-
nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno
relativo alla programmazione generale del territorio.
Proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a
seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che
occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli
impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard
urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non
sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e
“concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune,
diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché
proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo
l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte
pianificatorie operate in sede regionale e comunale.
La necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene
ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che
porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che alla sua impostazione presiedono.
Altresì, la necessità di ripubblicazione si impone
allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano
intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione.
Infine, deve escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree; in
altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole
aree o gruppi di aree.
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15. Gli appellanti lamentano dunque un utilizzo anomalo dei propri poteri da
parte della Regione, cui avrebbe fatto da contraltare l’indebita
acquiescenza del Comune alla proposta di vincolo riveniente da una delibera
regionale, senza una oggettiva valutazione in concreto del pregio
dell’edificio destinato ad attrarre nel suo regime di limitata edificabilità
anche le aree a contorno.
15.1. La tesi non è condivisibile.
Una corretta lettura del combinato disposto degli artt. 7 e 10 della l. n.
1150/1942, da un lato, e degli artt. 14 e 16 della L.R. n. 56/1980
confermano sia il dovere della Regione di intervenire per esigenze di
salvaguardia dei beni storici e artistici e del paesaggio, sia l’innesto di
tali esigenze nel contenuto della pianificazione urbanistica. Ed è proprio
la doverosità della disciplina, pur discrezionale nei suoi contenuti
concreti, che ne implica l’innesto
nelle scelte pianificatorie originarie del Comune, ovviamente coinvolto nel
procedimento, senza necessità di un azzeramento della procedura con
conseguente nuova pubblicazione del Piano.
16. Ciò posto, il Collegio è dell’avviso che vada confermato il principio
correttamente posto a base di pronunce risalenti del Consiglio di Stato
(concernenti pure altre analoghe vicende svoltesi nella Regione Puglia)
secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio
dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio
e dell’ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di
riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente
ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a
quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n.
1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980-
nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno
relativo alla programmazione generale del territorio (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 05.03.2008, n. 927; id., 30.09.2002, n. 4984; 05.09.2003, nn. 2977 e
4984).
Proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a
seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre
distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili
per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di
coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici
minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non
sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento
di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste
l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le
modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il
carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie
operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella
fattispecie in esame.
16.1. La necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta
sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla
sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id.,
25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV,
19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure,
secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra
la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti
tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali
del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex
plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
16.2. Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit.
supra); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso
in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose
sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880).
Il che è quanto accaduto nel caso di specie, che ha riguardato, come già
precisato, le aree a contorno di ville storiche disseminate nel territorio
comunale.
A ciò si aggiunga che al riguardo la parte ricorrente si è limitata a
contestare la indebita natura di variante generale delle modifiche apportate
al P.R.G. in recepimento della delibera di G.R. n. 7557/1996, senza
tuttavia dimostrare che vi sia stata una rielaborazione complessiva del
piano adottato dal Comune, id est un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono. Anche a prescindere, pertanto, dall’avvenuta accettazione
formale delle indicazioni regionali da parte del Comune, il motivo è privo
di base (Consiglio di Stato, Sez.
II,
sentenza 14.11.2019 n. 7839 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La disposizione dell’art. 13 della L. n. 47 del 1985 (riprodotta dal
successivo art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) attribuisce sì significato provvedimentale di rigetto al silenzio serbato dall’Amministrazione
sull’istanza di accertamento di conformità (secondo la corretta
prospettazione di parte ricorrente e correlata infondatezza dell’eccezione
in rito formulata dall’amministrazione comunale), ma non dispone
espressamente che il decorso del termine ivi indicato rappresenti, sul piano
procedimentale, la chiusura del procedimento e specularmente determini, sul
piano sostanziale, la definitiva consumazione del potere, con conseguente
cristallizzazione della natura abusiva delle opere.
Per vero, la previsione in subiecta materia di un’ipotesi di silenzio-significativo è stata dettata nell’interesse precipuo del privato, cui è
stata in tal modo consentita una sollecita tutela giurisdizionale; peraltro,
come nella specie, il successivo, eventuale atto espresso di diniego non è inutiliter dato, posto che il relativo (e doveroso) corredo motivazionale
individua le ragioni della decisione amministrativa e consente di meglio
calibrare le difese dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse
alla regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì sine titulo ma
comunque nel rispetto della disciplina urbanistica –cd. abusività formale–.
La condivisibile giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito che il
provvedimento adottato dall’amministrazione successivamente al silenzio-rigetto formatosi sull’istanza di sanatoria presentata ai sensi dell’art. 36
del d.P.R. n. 380/2001 non può assumere le caratteristiche dell’atto
meramente confermativo del precedente silenzio con valore legalmente tipico
di diniego ovvero di precedenti determinazioni amministrative quando si
innesti su di un mutato scenario effettuale, ma costituisce atto di conferma
in senso proprio a carattere rinnovativo, il quale –per la sua idoneità ad
incidere sulla realtà giuridica, modificandola– non potrà che riaprire i
termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale da parte di quanti
ne vogliano contestare la legittimità.
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Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che seguono,
risultando condivisibile ed assorbente il dedotto vizio di difetto di
istruttoria in relazione alla contestata legittimazione procedimentale.
La disposizione dell’art. 13 della L. n. 47 del 1985 (riprodotta dal
successivo art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) attribuisce sì significato provvedimentale di rigetto al silenzio serbato dall’Amministrazione
sull’istanza di accertamento di conformità (secondo la corretta
prospettazione di parte ricorrente e correlata infondatezza dell’eccezione
in rito formulata dall’amministrazione comunale), ma non dispone
espressamente che il decorso del termine ivi indicato rappresenti, sul piano
procedimentale, la chiusura del procedimento e specularmente determini, sul
piano sostanziale, la definitiva consumazione del potere, con conseguente
cristallizzazione della natura abusiva delle opere (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII, 17.05.2018, n. 3249).
Per vero, la previsione in subiecta materia di un’ipotesi di silenzio-significativo è stata dettata nell’interesse precipuo del privato, cui è
stata in tal modo consentita una sollecita tutela giurisdizionale; peraltro,
come nella specie, il successivo, eventuale atto espresso di diniego non è
inutiliter dato, posto che il relativo (e doveroso) corredo motivazionale
individua le ragioni della decisione amministrativa e consente di meglio
calibrare le difese dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse
alla regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì sine titulo ma
comunque nel rispetto della disciplina urbanistica –cd. abusività formale–
(cfr. Cons. Stato Sez. IV, 02.10.2017, n. 4574).
La condivisibile giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito che il
provvedimento adottato dall’amministrazione successivamente al silenzio-rigetto formatosi sull’istanza di sanatoria presentata ai sensi dell’art. 36
del d.P.R. n. 380/2001 non può assumere le caratteristiche dell’atto
meramente confermativo del precedente silenzio con valore legalmente tipico
di diniego ovvero di precedenti determinazioni amministrative quando si
innesti su di un mutato scenario effettuale, ma costituisce atto di conferma
in senso proprio a carattere rinnovativo, il quale –per la sua idoneità ad
incidere sulla realtà giuridica, modificandola– non potrà che riaprire i
termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale da parte di quanti
ne vogliano contestare la legittimità (TAR Lazio, Latina, 02.07.2012, n
528).
Ciò –in tal guisa superandosi il rilievo di cui all’avviso ex art. 73 c.p.a.– appare tanto più rilevante nel caso di specie a fronte dei rilevi
sopravvenuti rappresentati dall’odierna parte ricorrente all’amministrazione
in correlazione al superamento dei dubbi sulla proprietà del mappale 1546
per effetto della prodotta sentenza 287/2008 emessa dal Tribunale di
Vicenza, passata in giudicato, (ns. doc. 7) e dell’ivi richiamato atto di
permuta.
Da ciò consegue la fondatezza della censura di difetto di istruttoria non
avendo il comune valutato e posto a fondamento della propria determinazione
tale elemento giuridico-fattuale portato alla sua attenzione
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 14.11.2019 n. 1230 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In giurisprudenza è pacifico che, dalla lettura delle richiamate
norme contenute negli art. 11, comma 1, e 36 DPR 380/2001, nell’ottica della
necessaria conformità degli interventi edilizi alla disciplina urbanistica,
nell’esclusivo interesse pubblico ad una programmata e disciplinata
trasformazione del territorio, l’impulso ad effettuare tale trasformazione
debba provenire da un soggetto, che si trovi in posizione di detenzione
qualificata del bene, anche nell’ambito di un rapporto di locazione.
Quanto alla necessità che sia chiara e incontestabile la proprietà
dell’immobile sul quale è stato realizzato l’abuso, sembra opportuno
sottolineare che il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa
comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce, pertanto,
nell’assetto dei rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per
l’Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice
civilistica, per la realizzazione dell’intervento edilizio da assentire.
Non appare casuale, tuttavia, che in materia di sanatoria la normativa di
riferimento (art. 36 T.U. cit.) ammetta la proposizione dell’istanza da
parte non solo del proprietario, ma anche del “responsabile dell’abuso”,
tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la
disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva
(ivi compresi, evidentemente, concessionari o conduttori dell’area
interessata, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi –oltre che dei proprietari–
nei confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base dei rapporti
interni intercorsi).
La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la
sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte
giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile –ove coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive–
l’utilizzo di uno strumento giudiziario utile al fine di evitare le
conseguenze penali dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei
diritti di terzi.
Con la formula utilizzata nella redazione dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 il
legislatore ha voluto ricomprendere la legittimazione a chiedere la
sanatoria in capo a più soggetti che, astrattamente, possono aver concorso a
realizzare l’abuso, fermo restando che non tutti, indifferenziatamente,
possono richiedere, senza il consenso dell’effettivo titolare del bene sul
quale insistono le opere (il quale potrebbe essere completamente estraneo
all’abuso ed avere anzi un interesse contrario alla sua sanatoria), una
concessione che potrebbe risolversi in danno dello stesso.
---------------
Nel caso di specie inoltre il Collegio rileva, quanto al successivo seguito
conformativo, che, per un verso, dalla lettura degli atti emerge che, in
seguito al rigetto della prima istanza di accertamento in conformità ed
all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, è stato depositato in data 09/11/10 ricorso innanzi a questo Tar con RG 1892/10 ancora pendente e,
diversamente da quanto dedotto dall’amministrazione resistente, non
dichiarato perento; per altro verso, che, sotto il profilo legislativo e
con riferimento alla legittimazione a chiedere il rilascio di un titolo
abilitante alla realizzazione di un intervento edilizio, l’art. 11, comma 1,
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo”; quanto poi alla sanatoria di un abuso edilizio il successivo
art. 36 del medesimo testo unico prevede che l’accertamento di conformità –da rapportare sia al momento di realizzazione delle opere che a quello di
presentazione della domanda– possa essere richiesto dal “responsabile
dell’abuso”, o da “l’attuale proprietario dell’immobile”.
In giurisprudenza è, quindi, pacifico che, dalla lettura delle richiamate
norme contenute negli art. 11, comma 1, e 36 DPR 380/2001, nell’ottica della
necessaria conformità degli interventi edilizi alla disciplina urbanistica,
nell’esclusivo interesse pubblico ad una programmata e disciplinata
trasformazione del territorio, l’impulso ad effettuare tale trasformazione
debba provenire da un soggetto, che si trovi in posizione di detenzione
qualificata del bene, anche nell’ambito di un rapporto di locazione (cfr.,
tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 26.01.2015 n. 316).
Quanto alla necessità che sia chiara e incontestabile la proprietà
dell’immobile sul quale è stato realizzato l’abuso, sembra opportuno
sottolineare che il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa
comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce, pertanto,
nell’assetto dei rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per
l’Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice
civilistica, per la realizzazione dell’intervento edilizio da assentire (cfr.
in tal senso, per il principio, Cons. Stato, Sez. IV, 05.06.2012 n. 3300,
04.04.2012 n. 1990, 16.03.2012 n. 1488).
Non appare casuale, tuttavia, che in materia di sanatoria la normativa di
riferimento (art. 36 T.U. cit.) ammetta la proposizione dell’istanza da
parte non solo del proprietario, ma anche del “responsabile dell’abuso”,
tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la
disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva
(ivi compresi, evidentemente, concessionari o conduttori dell’area
interessata, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi –oltre che dei proprietari– nei confronti degli esecutori materiali delle
opere, sulla base dei rapporti interni intercorsi: cfr. anche, per il
principio, mai più messo in discussione, Cons. Stato, Sez. V, 08.06.1994
n. 614 e Cons. giust. amm. Sic. 29.07.1992 n. 229).
La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la
sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte
giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile –ove coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive– l’utilizzo
di uno strumento giudiziario utile al fine di evitare le conseguenze penali
dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi (cfr.,
ancora sulla sussistenza della legittimazione a presentare la domanda di
sanatoria in capo all’autore dell’abuso, Cons. Stato, Sez. IV, 08.09.2015 n. 4176).
Con la formula utilizzata nella redazione dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 il
legislatore ha voluto ricomprendere la legittimazione a chiedere la
sanatoria in capo a più soggetti che, astrattamente, possono aver concorso a
realizzare l’abuso, fermo restando che non tutti, indifferenziatamente,
possono richiedere, senza il consenso dell’effettivo titolare del bene sul
quale insistono le opere (il quale potrebbe essere completamente estraneo
all’abuso ed avere anzi un interesse contrario alla sua sanatoria), una
concessione che potrebbe risolversi in danno dello stesso
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 14.11.2019 n. 1230 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
opera di carattere precario deve intendersi quella, agevolmente rimuovibile,
funzionale a soddisfare un’esigenza fisiologicamente e oggettivamente
temporanea (es. baracca o pista di cantiere, manufatto per una
manifestazione ecc.) destinata a cessare dopo il tempo, normalmente breve,
entro cui si realizza l'interesse finale che la medesima era destinata a
soddisfare.
E’ stato, inoltre, chiarito che il suddetto carattere deve essere escluso
allorquando vi sia un'oggettiva idoneità del manufatto a incidere
stabilmente sullo stato dei luoghi, essendo l'opera destinata a dare
un'utilità prolungata nel tempo, ancorché a termine, in relazione
all'obiettiva e intrinseca natura della costruzione.
Da ciò discende, pure, che la natura precaria di un’opera non può essere
desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente assegnatagli
dal costruttore, rilevando piuttosto la sua oggettiva idoneità a soddisfare
un bisogno non provvisorio attraverso la perpetuità della funzione.
---------------
In base ad una pacifica giurisprudenza, per opera di carattere precario deve
intendersi quella, agevolmente rimuovibile, funzionale a soddisfare
un’esigenza fisiologicamente e oggettivamente temporanea (es. baracca o
pista di cantiere, manufatto per una manifestazione ecc.) destinata a
cessare dopo il tempo, normalmente breve, entro cui si realizza l'interesse
finale che la medesima era destinata a soddisfare (cfr. Cons. Stato, Sez.
VI, 11/01/2018, n. 150; Sez. V, 25/05/2017, n. 2464).
E’ stato, inoltre, chiarito che il suddetto carattere deve essere escluso
allorquando vi sia un'oggettiva idoneità del manufatto a incidere
stabilmente sullo stato dei luoghi, essendo l'opera destinata a dare
un'utilità prolungata nel tempo, ancorché a termine, in relazione
all'obiettiva e intrinseca natura della costruzione (Cons. Stato, Sez. IV,
07/12/2017, n. 5762).
Da ciò discende, pure, che la natura precaria di un’opera non può essere
desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente assegnatagli
dal costruttore, rilevando piuttosto la sua oggettiva idoneità a soddisfare
un bisogno non provvisorio attraverso la perpetuità della funzione (Cass.
Pen., Sez. III, 08/02/2007 n. 5350)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.11.2019 n. 7792 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività di repressione degli abusi edilizi tramite
l'emissione dell'ordinanza di demolizione ha natura vincolata e, pertanto,
non è assistita da particolari garanzie partecipative, non essendo dunque
necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all'
art. 7 e ss. della L. n. 241/1990.
L'art. 27, co. 2, del d.lgs. n. 380/2001 (secondo cui “Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di
opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali,
regionali …, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi") neppure distingue tra opera edilizia eseguita in
difformità o in assenza di titolo edilizio ai fini dell’applicazione della
sanzione demolitoria, ritenendo quest’ultima sempre doverosa, allorché sia
incontestato che gli interventi siano stati effettuati senza aver ottenuto
alcun titolo edilizio ovvero in difformità dallo stesso.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “In base all'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 quando i lavori riguardino un'opera diversa
da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione,
strutturazione, destinazione, ubicazione sussiste un ipotesi di difformità
totale del manufatto o di variazioni essenziali, per la quale è prevista la
sanzione della demolizione, sussistendo invece una difformità parziale
quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali
della costruzione"
---------------
L'attività della P.A. inerente la repressione degli abusi edilizi consiste
in attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o
di prescrizione, potendo infatti la misura repressiva intervenire in ogni
tempo, anche a notevole intervallo dall'epoca della commissione dell'abuso.
---------------
Il ricorso è infondato.
1. – Imprendendo l’esame dalla dedotta violazione delle garanzie
partecipative è sufficiente far richiamo alla giurisprudenza consolidata
secondo cui “L'attività di repressione degli abusi edilizi tramite
l'emissione dell'ordinanza di demolizione ha natura vincolata e, pertanto,
non è assistita da particolari garanzie partecipative, non essendo dunque
necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all'
art. 7 e ss. della L. n. 241/1990” (Consiglio di Stato, sez. II , 13/06/2019
, n. 3968).
Visto l’art. 27, co. 2, del d.lgs. n. 380/2001 intitolato “Vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia e responsabilità edilizia” secondo cui
“Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di
opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali,
regionali …, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi".
La su estesa disposizione neppure distingue tra opera edilizia eseguita in
difformità o in assenza di titolo edilizio ai fini dell’applicazione della
sanzione demolitoria, ritenendo quest’ultima sempre doverosa, allorché sia
incontestato che gli interventi siano stati effettuati senza aver ottenuto
alcun titolo edilizio ovvero in difformità dallo stesso.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “In base all'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 quando i lavori riguardino un'opera diversa
da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione,
strutturazione, destinazione, ubicazione sussiste un ipotesi di difformità
totale del manufatto o di variazioni essenziali, per la quale è prevista la
sanzione della demolizione, sussistendo invece una difformità parziale
quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali
della costruzione" (TAR, Milano, sez. II, 08/07/2019, n. 1572).
Dalla relazione di sopralluogo emerge inequivocabilmente che il fabbricato
realizzato risulta in totale difformità rispetto a quanto assentito; nello
specifico dalla comparazione della consistenza e della destinazione (variata
da non residenziale a residenziale) emerge che il piano terra -che nelle
previsioni del progetto doveva essere interrato per tre lati- risulta
invece totalmente “fuori terra”, con sagoma di ingombro maggiorata.
Ne consegue che anche la seconda censura deve essere parimenti respinta.
Analogamente priva di pregio deve ritenersi l’ulteriore censura a mezzo
della quale parte ricorrente adombra il ritardo da parte dell’autorità di
vigilanza nel riscontrare l’abuso, tenuto conto del carattere permanente
dell’illecito edilizio. L'attività della P.A. inerente la repressione degli
abusi edilizi consiste in attività strettamente vincolata e non soggetta a
termini di decadenza o di prescrizione, potendo infatti la misura repressiva
intervenire in ogni tempo, anche a notevole intervallo dall'epoca della
commissione dell'abuso (TAR Campania Napoli Sez. III, 26/01/2018, n.
594).
In conclusione il ricorso deve essere respinto
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 13.11.2019 n. 676 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione dell’ordine di
demolizione – Alienazione del manufatto abusivo a terzi –
Accertata edificazione in violazione di norme urbanistiche –
Rapporto con il bene a prescindere dagli atti traslativi
intercorsi – Diritto di rivalsa dell’acquirente estraneo
all’abuso – Giurisprudenza.
In materia edilizia, l’esecuzione dell’ordine di
demolizione, impartito dal giudice a seguito dell’accertata
edificazione in violazione di norme urbanistiche, non è
escluso dall’alienazione del manufatto abusivo a terzi,
anche se intervenuta anteriormente all’ordine medesimo, ciò
in quanto tale ordine, avendo carattere reale, ricade
direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene a
prescindere dagli atti traslativi intercorsi, con la sola
conseguenza che l’acquirente, se estraneo all’abuso, potrà
rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell’avvenuta demolizione (così Sez. 3, n. 16035 del
26/02/2014, Attardi Conf. Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015,
Curcio; Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni; Sez. 3,
n. 39322 del 13/07/2009, Berardi e altri; Sez. 3, n. 22853
del 29/03/2007, Coluzzi; Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005,
Morelli).
...
Reati urbanistici – Opere
destinate alla demolizione – Domanda di sanatoria – Condono
edilizio – Poteri del giudice dell’esecuzione – Ampio
potere-dovere di controllo sulla legittimità dell’atto concessorio – Verifica dei possibili esiti e dei tempi di
definizione della procedura – Requisiti di forma e di
sostanza richiesti dalla legge – Fattispecie.
In materia urbanistica, è riconoscita al giudice
dell’esecuzione in presenza di una domanda di sanatoria, un
ampio potere-dovere di controllo sulla legittimità dell’atto
concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei
presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e
di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio
del potere di rilascio.
Inoltre, è anche attribuita al
giudice dell’esecuzione, con riferimento alla mera pendenza
di una richiesta di sanatoria, la verifica dei possibili
esiti e dei tempi di definizione della procedura.
Tali
principi sono stati ribaditi anche recentemente, affermando
che il giudice dell’esecuzione, in presenza di una domanda
di sanatoria, non deve limitarsi a prenderne atto ai fini
della sospensione o revoca dell’ordine di demolizione
impartito con la sentenza di condanna, ma deve esercitare il
potere-dovere di verifica della validità ed efficacia del
titolo abilitativo, valutando la sussistenza dei presupposti
per l’emanazione dello stesso e dei requisiti di forma e di
sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del
potere di rilascio oltre, ovviamente, alla rispondenza di
quanto autorizzato con le opere destinate alla demolizione.
Fattispecie: assenza di una effettiva corrispondenza tra
l’immobile da demolire e quello oggetto della richiesta di
condono edilizio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.11.2019 n. 45848 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deve ribadirsi il principio, più recentemente affermato,
secondo
cui, essendo illegittimi i provvedimenti di sanatoria "atipica" che
prescindano dal
requisito della doppia conformità, il giudice penale non può attribuire ad
essi
alcun effetto, non soltanto con riguardo all'estinzione del reato
urbanistico, ma
pure rispetto alla non irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera
abusiva
previsto dall'art. 31, comma 9, T.U.E., ovvero alla revoca dello stesso
qualora il provvedimento amministrativo contra legem sia eventualmente stato
emanato
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza.
---------------
2.2.1. Ciò premesso, va innanzitutto osservato come sia
del tutto generica,
e concerna comunque un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede,
la doglianza secondo cui l'opera abusiva oggetto dell'ordine di demolizione
non
avrebbe ecceduto la volumetria consentita all'epoca della sua edificazione
nell'anno 2004.
2.2.2. Quanto alla deduzione -che, peraltro, sconfessa quella poco sopra
riportata- secondo cui, effettivamente, anche il consulente della difesa
aveva
rilevato un'eccedenza della volumetria destinata ad uso residenziale anche
al
momento della richiesta di sanatoria a cui, tuttavia, si sarebbe potuto
ovviare
con una modifica di destinazione d'uso (in tesi, par di capire, connessa
alla
richiesta integrazione di documentazione da parte del Comune), rileva il
Collegio
come il ricorrente evochi, sul punto, il possibile rilascio di un
provvedimento di
sanatoria c.d. "atipico", che sancisca la compatibilità ex post con le
previsioni
urbanistiche di un manufatto che non era invece conforme alla disciplina
vigente
al momento della sua realizzazione.
Benché la legittimità di tali
provvedimenti
sia stata in passato affermata dalla giurisprudenza amministrativa, sì che
questa
Corte -sia pur non attribuendo loro effetti estintivi del reato urbanistico
per la
mancanza del requisito della doppia conformità richiesto dal combinato
disposto
di cui agli artt. 36 e 45, comma 3, T.U.E.- ne aveva affermato la rilevanza
ai fini
di escludere l'adozione (o l'esecuzione) dell'ordine di demolizione previsto
dall'art. 31, comma 9, T.U.E. (cfr. Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008, Iacono
Ciulla, Rv. 239708; Sez. 3, n. 40969 del 27/10/2005, Olimpio, Rv. 232371),
l'orientamento in parola può dirsi oggi certamente superato.
2.2.3. Ed invero, proprio con riguardo al problema in esame, postosi in sede
di giudizio di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo
impartito con la sentenza di condanna, questa Corte ha già affermato che
la
sanatoria, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento
edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano
tutte le
condizioni espressamente indicate dall'art. 36 T.U.E. e, precisamente, la
doppia
conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento
della
realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della
domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una
legittimazione postuma di
opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione
della
cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute
conformi
alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez.
3, n.
47402 del 21/10/2014, Chisci e a., Rv. 260973).
Nella motivazione della richiamata decisione si pone in luce come,
a far
tempo dalla seconda metà del decennio scorso, la giurisprudenza
amministrativa
(si cita Cons. St. Sez. 4, n. 4838 del 17.09.2007) abbia escluso
l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale sul presupposto che la sua
applicazione contrasta con il principio di legalità, dal momento che non vi
è stata
alcuna espressa previsione di tale istituto allorquando l'art. 36 T.U.E. ha
riproposto la corrispondente disciplina contenuta nella I. 47/1985, avendo
il
legislatore delegato, nella redazione del d.P.R. 380/2001, disatteso il
parere del
29.03.2001 con cui l'Adunanza generale del Consiglio di Stato ne aveva
sollecitato l'introduzione nell'emanando testo unico in materia edilizia.
Lo
stesso
giudice amministrativo -si rimarca, citando Cons. St. Sez. 4, n. 6784 del 02.11.2009- ha poi ritenuto che
l'art. 36 T.U.E., in quanto norma
derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono
sottoposti
alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile
di
applicazione analogica né di interpretazione riduttiva e (cfr. Cons. St.
Sez. 5, n.
3220 del 11.06.2013) che la sanatoria giurisprudenziale non può
ritenersi
applicabile in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali,
al di
fuori di qualsiasi previsione normativa non potendosi ritenere ammessi
nell'ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dall'Amministrazione,
secondo il principio di nominatività, poteri non previsti dalla legge e non
surrogabili in via giudiziaria.
Ancora, la citata decisione di questa Corte
osservava come il Consiglio di Stato avesse ulteriormente confermato la
propria
posizione in tema d'illegittimità della sanatoria giurisprudenziale sul
rilievo che il
divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria anche quando dopo la
commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento
urbanistico sia giustificato della necessità di «evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex
post (e
non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)» oltre che dall'esigenza
di
«disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un
abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque
disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica
favorevole
dello strumento urbanistico» (Cons. St. Sez. 5, n. 1324 del 17.03.2014; conf.
Cons. St. Sez. 5, n. 2755 del 27.05.2014).
Si rilevava -da ultimo- come questo consolidato orientamento del giudice
amministrativo avesse trovato conferma nella decisione con cui la Corte
Costituzionale (sent. 22-29/05/2013, n. 101), esaminando la compatibilità
costituzionale della legislazione adottata dalla Regione Toscana in materia
di
governo del territorio e rischio sismico, aveva affermato che
il principio
fondamentale della legislazione statale in materia di provvedimento di
sanatoria
delle opere abusive ricavabile dall'art. 36 T.U.E., che esige il rispetto
del
requisito della doppia conformità, «risulta finalizzato a garantire
l'assoluto
rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco
temporale
compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza
volta ad
ottenere l'accertamento di conformità» (Corte cost., sent. n. 101/2013).
Richiamando l'orientamento del giudice amministrativo che esclude la
legittimità
di provvedimenti atipici di sanatoria che prescindano da tale doppia
conformità,
nella citata decisione la Corte costituzionale ha ulteriormente osservato
che,
diversamente dal condono, la sanatoria ordinaria «è stata deliberatamente
circoscritta dal legislatore ai soli abusi "formali", ossia dovuti alla
carenza del
titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della
previsione della
sanatoria in esame, "anche di natura preventiva e deterrente", finalizzata a
frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture "sostanzialiste"
della
norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con
la
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro
realizzazione, ma
con essa conformi solo al momento della presentazione dell'istanza per
l'accertamento di conformità» (Corte cost., sent. n. 101/2013).
2.2.4. Queste argomentazioni e conclusioni -con cui il ricorrente in alcun
modo si confronta- sono integralmente condivise dal Collegio, dovendosi
inoltre
osservare come il citato orientamento del giudice amministrativo abbia
trovato in
questi ultimi anni ulteriori, ripetute, conferme tanto da potersi oramai
considerare ius receptum nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr.,
da
ultimo: Sez. IV, sent. n. 1874 del 21.03.2019; Sez. VI, sent. n. 5319 del
11.09.2018; Sez. VI, sent. n. 2496 del 24.04.2018; Sez. VI, sent. n.
1087 del 20.02.2018; Sez. VI, sent. n. 3018 del 21.06.2017; Sez.
VI,
sent. n. 3194 del 18.07.2016).
Superandosi definitivamente il contrario precedente indirizzo di questa
Corte, deve, pertanto, ribadirsi il principio, più recentemente affermato,
secondo
cui, essendo illegittimi i provvedimenti di sanatoria "atipica" che
prescindano dal
requisito della doppia conformità, il giudice penale non può attribuire ad
essi
alcun effetto, non soltanto con riguardo all'estinzione del reato
urbanistico, ma
pure rispetto alla non irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera
abusiva
previsto dall'art. 31, comma 9, T.U.E., ovvero alla revoca dello stesso
qualora il provvedimento amministrativo contra legem sia eventualmente stato
emanato
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.11.2019 n. 45845). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Reati edilizi – Competenze professionali – Architetti,
Ingegneri, Geometri – Limiti di competenze del geometra –
Progettazione e direzione dei lavori di costruzioni civili –
Opere in cemento armato – Opere eccezionalmente progettabili
dai geometri – R.D. 274/1929 e Legge 1086/1971 – Legge n.
64/1974 – Giurisprudenza.
La disposizione secondo la quale i
geometri non siano abilitati a redigere “progetti di
massima” ove riguardanti, fuori dalle ipotesi
eccezionalmente consentite dalla lett. l), dell’art. 16, del
R.D. 274/1929, costruzioni richiedenti l’impiego di
strutture in cemento armato, risponde ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di
pubblico interesse, che lascia all’interprete ristretti
margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei
requisiti della modestia della costruzione, della non
necessità di complesse operazioni di calcolo e dell’assenza
di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece
un preciso requisito, e cioè la natura di annesso agricolo
dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai
geometri anche nei casi di impiego di cemento armato.
Inoltre, deve ritenersi inammissibile l’interpretazione
estensiva ed evolutiva della previsione sub lett. m),
dell’art. 16, del R.D. 274/1929, che, in quanto norma
eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non
potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in
virtù delle norme –articolo 2 della legge n. 1086/1971 ed
articolo 17 della legge n. 64/1974– che disciplinano le
costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in
quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze
professionali stabiliti per i geometri dalla vigente
normativa professionale
(Cass. 1157/1996; id. 3046/1999; id. 3021/200; id.
27441/2006; id. 19292/2009).
...
Contratti d’opera professionale stipulati anteriormente
all’abrogazione dell’art. 1 del R.D. 2229/1939 – Legge del
tempo e conclusione del contratto – Abrogazione successiva –
Effetti retroattivi – Esclusione.
Nonostante l’art. 1 del R.D. 2229/1939
tratti di disposizione abrogata ad opera del d.lgs. n. 212
del 2010, per i contratti stipulati da un geometra
anteriormente all’abrogazione non viene meno la nullità per
contrarietà a norme imperative perché l’introduzione di una
disciplina innovativa e non già interpretativa della
normativa vigente non produce effetti retroattivi idonei ad
incidere sulla qualificazione degli atti compiuti prima
della sua entrata in vigore e non influisce, dunque, sulla
invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in
cui lo stesso è stato concluso
(Cass. 19989/2013; id. 6402/2011).
...
Progettazione di costruzione civile “modesta” –
Criteri di accertamento e criterio distintivo – Violazione
di norme imperative – Nullità del contratto d’opera
professionale – Intervento nella fase esecutiva o di
direzione dei lavori di professionista abilitato –
Insanabilità del vizio.
Il criterio, contenuto alla lett. m)
dell’art. 16, del R.D. 274/1929, per accertare se una
costruzione civile sia da considerare “modesta” consiste nel
valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e
l’esecuzione dell’opera comportano e le attività occorrenti
per superarle, precisando che assume significativa
rilevanza, secondo il criterio tecnico-qualitativo fondato
sulla valutazione della struttura dell’edificio e delle
relative modalità costruttive, la circostanza che la
costruzione sorga in zona sismica, con conseguente
assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla legge n. 64/1974, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei
geometri (Cass.
8543/2009).
Sicché, la pregnanza di tale criterio
distintivo comporta che neppure l’eventuale intervento nella
fase esecutiva o di direzione dei lavori di un
professionista di categoria a ciò abilitato può sanare la
nullità, per violazione di norme imperative, del contratto
d’opera professionale di progettazione sottoscritto da un
geometra al di fuori dei casi di sua competenza
(cfr. Cass. 19292/2009; id. 17028/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 12.11.2019 n. 29227 - link a www.ambientediritto.it).
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SENTENZA
- con il primo motivo il ricorrente denuncia la
violazione e/o
falsa applicazione dell'art. 16, lett. l) ed m), r.d. 274/1929 per
avere la corte territoriale interpretato la norma in esame
nel
senso di escludere la legittimazione dei geometri alla
progettazione, direzione e vigilanza di costruzioni civili
in
cemento armato;
- si censura che tale legittimazione sia stata ammessa
limitatamente all'ipotesi contemplata nell'art.
16, lett. l), r.d.
274/1929, secondo un'interpretazione restrittiva della
previsione normativa in collegamento alla lettera m), che
ricomprende nell'oggetto e nei limiti dell'esercizio
professionale
del geometra "il progetto, la direzione e vigilanza di
modeste
costruzioni civili" senza alcun riferimento al cemento
armato;
- tale mancato riferimento avallerebbe, secondo il ricorrente, la
tesi secondo la quale il geometra potrebbe progettare e
dirigere costruzioni civili in cemento armato purché
"modeste",
concentrandosi solo su tale limite la definizione del
perimetro
delle sue competenze e non anche sulla natura "civile" delle
stesse;
- in tale prospettiva interpretativa, il ricorrente censura poi
l'interpretazione di "modesta costruzione civile" come
intesa
nella pronuncia gravata, e cioè secondo un criterio
quantitativo piuttosto che secondo un criterio
tecnico-qualitativo,
ed in ogni caso denuncia la mancata valutazione
della circostanza che il ricorso al cemento armato era
limitato
alle cordonature perimetrali dei solai;
- il motivo non merita accoglimento;
- l'ermeneutica alternativa proposta dal ricorrente si fonda su
una lettura della disciplina normativa contenuta nel r.d.
724/1929 in materia di competenze professionali dei geometri
contraria alla sua ratio così come sistematicamente
ricostruita
dalla giurisprudenza e puntualmente richiamata dal giudice
d'appello;
- appare opportuno ricordare che l'oggetto ed i limiti
dell'esercizio professionale di geometra sono regolati
dall'art.
16, che all'attività di progettazione, direzione e vigilanza
(o
sorveglianza) dedica le lettere l) ed m), rispettivamente
riconprendendovi:
● alla lett.
l) l'attività di progetto,
direzione, sorveglianza e
liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso di
industrie
agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria,
comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato,
che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per
la loro
destinazione non possono comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone; nonché piccole opere inerenti alle
aziende agrarie, come strade vicinali senza rilevanti opere
d'arte, lavori di irrigazione di bonifica (omissis) esclusa,
comunque, la redazione di prospetti generali di bonifica
idraulica ed agraria e relativa direzione;
● alla lett. m) l'attività di progetto, direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili;
- occorre, altresì, richiamare per completezza le norme
disciplinanti l'esecuzione delle opere di conglomerato
cementizio semplice od armato di cui al r.d. 2229 del 1939,
il
cui articolo 1 prevedeva che ogni opera in conglomerato
semplice od armato, la cui stabilità potesse comunque
interessare l'incolumità delle persone, dovesse essere
costruita
in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere
ovvero da un architetto iscritto nell'albo nei limiti delle
rispettive attribuzioni;
- va chiarito poi che, benché si tratti di disposizione abrogata ad
opera del d.lgs. n. 212 del 2010, per i contratti stipulati
da un
geometra anteriormente all'abrogazione non viene meno la
nullità per contrarietà a norme imperative perché, come
ritenuto da questa Corte, l'introduzione di una disciplina
innovativa e non già interpretativa della normativa vigente
non
produce effetti retroattivi idonei ad incidere sulla
qualificazione
degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non
influisce, dunque, sulla invalidità del contratto, regolata
dalla
legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso (cfr.
Cass.
19989/2013; id. 6402/2011);
- nell'ambito del quadro normativo in cui si inserisce la
questione posta dal ricorrente, rientra anche la disciplina
delle
opere di conglomerato cementizio armato, normale e
precompresso ed a struttura metallica, contenuta nella
successiva legge n. 1086/1971, che all'articolo 2, intitolato
"Progettazione, direzione ed esecuzione", stabilisce -per
quanto qui di interesse- che la costruzione ed esecuzione
delle opere deve avvenire in base ad un progetto esecutivo
redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito
industriale edile iscritti nel relativo albo, nei limiti
delle
rispettive competenze;
- inoltre, l'art. 17 della legge 64/1974, in relazione alle
costruzioni nelle zone sismiche, dispone che chi intenda
procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è
tenuto
a darne preavviso (omissis) e che alla domanda deve essere
unito il progetto, in doppio esemplare e debitamente firmato
da
un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto
nell'albo, nei limiti delle rispettive competenze, nonché
dal
direttore dei lavori;
- ebbene, ritiene il collegio che il complessivo quadro
regolamentare frutto del coordinamento delle sin qui
descritte
disposizioni normative delinei un sistema coerente la cui
consolidata interpretazione debba essere qui ribadita,
mentre
l'interpretazione alternativa proposta dal ricorrente si
fonda, a
fronte del mancato riferimento per le costruzioni civili di
cui
alla lett. m) al cemento armato, su una conclusione
interpretativa estensiva del silenzio normativo che non
trova
conferma né nella disposizione originaria del r.d. 274 del
1929
né nei successivi interventi legislativi;
- la disposizione secondo la quale i geometri non siano abilitati
a redigere "progetti di massima" ove riguardanti, fuori
dalle
ipotesi eccezionalmente consentite dalla lett. l),
costruzioni
richiedenti l'impiego di strutture in cemento armato (cfr.
Cass.
19292/2009; id. 17028/2006) risponde ad una scelta
inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di
pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti
margini di
discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti
della
modestia della costruzione, della non necessità di complesse
operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la
pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito,
e
cioè la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le
opere
eccezionalmente progettabili dai geometri anche nei casi di
impiego di cemento armato;
- ne consegue l'inammissibilità di un'interpretazione estensiva
ed evolutiva della previsione sub lett. m), che, in quanto
norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica,
non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure
in
virtù delle norme -articolo 2 della legge n. 1086/1971 ed
articolo 17 della legge n. 64/1974- che disciplinano le
costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in
quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze
professionali stabiliti per i geometri dalla vigente
normativa
professionale (cfr. Cass. 1157/1996; id. 3046/1999;
id. 3021/200; id. 27441/2006; id. 19292/2009);
- sempre con riguardo alla lett. m), si è ritenuto che il criterio
per accertare se una costruzione civile sia da considerare
"modesta" consiste nel valutare le difficoltà tecniche che
la
progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le
attività
occorrenti per superarle, precisando che assume
significativa
rilevanza, secondo il criterio tecnico-qualitativo fondato
sulla
valutazione della struttura dell'edificio e delle relative
modalità
costruttive, la circostanza che la costruzione sorga in zona
sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento
edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64/1974, la
quale
impone calcoli complessi che esulano dalle competenze
professionali dei geometri (cfr. Cass. 8543/2009);
- la pregnanza di tale criterio distintivo comporta per la
giurisprudenza di legittimità che neppure l'eventuale
intervento nella fase esecutiva o di direzione dei lavori di
un
professionista di categoria a ciò abilitato può sanare la
nullità,
per violazione di norme imperative, del contratto d'opera
professionale di progettazione sottoscritto da un geometra
al di
fuori dei casi di sua competenza (cfr. Cass. 19292/2009; id.
17028/2006);
- risulta altresì assorbita la contestazione riguardante il
requisito della modesta costruzione civile, dal momento che
la
valutazione presuppone che non ci sia impiego di cemento
armato, giacché la sua presenza esclude ipso facto la
competenza del geometra;
- nel caso di specie, il geometra aveva sostenuto che l'impiego
del cemento armato era limitato alle cordonature perimetrali
dei solai e che le iniezioni di cemento liquido servivano
solo a
ricostituire l'eventuale malta tra i conci carenti di
legante;
- tuttavia, tale prospettazione non era stata ritenuta dalla corte
territoriale idonea ad escludere l'incidenza sulla struttura
portante dell'edificio sicché le verifiche statiche dovevano
essere effettuate da un tecnico abilitato (cfr. pag. 11
della
sentenza) ;
- si tratta di interpretazione delle circostanze di fatto coerente
con i principi giurisprudenziali vigenti e, pertanto, esente
dalla
censura mossa (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 12.11.2019 n. 29227). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Legittimazione
ad impugnare la proroga dello scioglimento del Consiglio comunale.
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Processo amministrativo – Legittimazione – Attiva - Proroga scioglimento
Consiglio comunale – Impugnazione – Singolo elettore – Inammissibilità.
L’impugnazione dello scioglimento dell’organo
consiliare ai sensi dell’art. 143 del T.U.E.L., come anche della sua
proroga, non è annoverabile tra le azioni proponibili dai singoli elettori
ai sensi dell’art. 9 del T.U.E.L., e ciò in quanto la misura dissolutoria di
cui all’art. 143, mentre incide sulle situazioni soggettive dei componenti
degli organi elettivi che, per effetto di essa, vengono a subire una perdita
di status, non altrettanto incide su quella dell’ente locale, titolare di
posizioni autonome e distinte, che, anzi, nella misura vede uno strumento di
tutela e di garanzia della pubblica amministrazione (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che è inammissibile per difetto di
legittimazione l’azione popolare proposta per impugnare lo scioglimento del
consiglio comunale e la nomina di una commissione straordinaria per la
provvisoria gestione del medesimo, perché lo strumento offerto dall’art. 9
del T.U.E.L. non può essere utilizzato per far valere azioni che non sono di
spettanza dell’ente locale nell’interesse del quale si dichiara di agire.
Il provvedimento di proroga è, sì, contestabile in sede giurisdizionale
avanti al giudice amministrativo da parte dei componenti del disciolto
organo consiliare, ma solo se e nella misura in cui tale contestazione, per
vizi propri del medesimo provvedimento –ad esempio per la sua tardività– o
per vizî derivati dallo scioglimento medesimo, possa condurre al
reinsediamento dei soggetti eletti, risultato da escludersi, nella vicenda
esaminata, per l’accertata definitiva legittimità del predetto scioglimento,
e non già al fine di ottenere la fissazione di nuove, più ravvicinate nel
tempo, elezioni.
Non sussiste dunque legittimazione dei componenti della disciolta
amministrazione comunale, nemmeno quali cittadini-elettori, ad impugnare il
provvedimento di proroga per far valere un siffatto interesse.
Il presupposto dell’eccezionalità, previsto dall’art. 143, comma 10,
T.U.E.L., atto a giustificare la proroga dello scioglimento del consiglio
comunale per infiltrazione mafiosa si lega all’eccezionalità della
situazione che ha determinato lo scioglimento del consiglio comunale, non
dovendo ipotizzarsi una c.d. doppia eccezionalità, la prima, tale da
determinare la misura dissolutoria, e la seconda, del tutto diversa dalla
prima, tale da giustificarne la proroga.
È insita nella stessa natura della proroga, infatti, l’esigenza di
proseguire gli effetti dell’originario provvedimento al fine di consentire
che questo possa continuare ad esplicare la propria efficacia per tutte le
ragioni che ne hanno giustificato l’iniziale adozione e non è logicamente
sostenibile che i motivi della prolungata efficacia debbano essere del tutto
diversi e avulsi rispetto a quelle originarie ragioni al cospetto di una
misura, come quella straordinaria dello scioglimento del consiglio comunale,
adottata proprio al fine di contrastare l’infiltrazione mafiosa negli organi
politici e amministrativi dell’ente locale.
La proroga non è, cioè, una misura straordinaria che si assomma ad una
misura straordinaria, ma la mera prosecuzione temporale dell’unica misura
straordinaria in presenza di stringenti ragioni finalizzate al regolare
funzionamento dei servizi affidati alle pubbliche amministrazioni
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.11.2019 n. 7762 -
tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Attività di
certificazione delle SOA – Accessibilità – Fondamento.
Le SOA, pur avendo natura giuridica di società per azioni di
diritto speciale, svolgono una funzione pubblicistica di
certificazione, che sfocia nel rilascio di un’attestazione
con valore di atto pubblico, sicché la loro attività
configura un “esercizio privato di pubblica funzione” (Cons.
Stato, sez. VI, 02.03.2004, n. 991; id. 02.03.2004, n.
993; id. 30.03.2004, n. 2124) e le attestazioni di
qualificazione, risultato dell’attività di certificazione
delle SOA, sono peculiari atti pubblici, destinati ad avere
una specifica efficacia probatoria. Ne discende che gli atti
posti in essere nell’ambito della suddetta attività sono
certamente accessibili (TAR
Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 11.11.2019 n. 12937 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Accesso agli atti
amministrativi – Autonomia della legittimazione all’accesso
rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa
dell’atto.
La disciplina dell’accesso agli atti amministrativi non
condiziona l’esercizio del relativo diritto alla titolarità
di una posizione giuridica tutelata in modo pieno, essendo
sufficiente il collegamento con una situazione
giuridicamente riconosciuta anche in misura attenuata.
La
legittimazione all’accesso va quindi riconosciuta a chiunque
possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto
dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare
effetti diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica,
stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come
interesse ad un bene della vita, distinto rispetto alla
situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
L’actio
ad exhibendum prescinde comunque dalla lesione in atto di
una posizione giuridica, che non compete al giudice
dell’accesso accertare verificando la meritevolezza del
relativo interesse, stante la sopradetta autonomia del
diritto di accesso rispetto alla situazione legittimante
all’impugnativa dell’atto (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 19.02.2016, n. 696; TAR Lazio, Roma, Sez. III-bis,
11.10.2019, n. 11793) (TAR
Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 11.11.2019 n. 12937 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Risulta
dirimente, ai fini della infondatezza della censura sollevata, il
riferimento alla natura assoluta del divieto di costruzione previsto
dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523 del 1904.
La norma così dispone: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle
acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti:…f) le piantagioni
di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a
distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di
quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in
mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le
piantagioni e smovimento di terreno e di metri dieci per le fabbriche e per
gli scavi”.
Dunque, in mancanza di diverse prescrizioni da parte dei regolamenti locali,
vi è divieto di realizzare fabbriche e scavi a distanza inferiore di dieci
metri dal piede degli argini, espressamente sancendo la norma che tale
divieto ha carattere “assoluto”.
Pertanto, una deroga a tale limite normativo è consentita solo da differenti
prescrizioni dei regolamenti locali, non potendo la stessa essere rimessa
alla determinazione individuale dell’autorità amministrativa.
Orbene, la giurisprudenza costantemente ritiene che il
divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d’acqua, previsto
dall’articolo 96, lett. f), del T.U. 25.07.1904, n. 523, ha carattere
legale, assoluto ed inderogabile.
Si afferma, in proposito, che tale vincolo di inedificabilità è diretto al
fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, ma anche il libero deflusso delle stesse, garantendo le
operazioni di ripulitura e manutenzione ed impedendo le esondazioni delle
acque.
Dunque, la ratio della disposizione va individuata nella finalità di
scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo
idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione
preventiva rispetto ai rischi per le persone e per le cose che potrebbero
derivare da esondazioni.
Ciò posto, dal carattere assoluto del richiamato
vincolo di inedificabilità discende la natura vincolata (in termini
repressivi) dell’azione amministrativa conseguente all’accertamento della
violazione della distanza legale.
A tanto consegue che una eventuale mancata repressione di altra opera
realizzata a distanza inferiore ovvero, a maggior ragione, l’avvenuta
autorizzazione della stessa pur in mancanza della distanza di 10 metri
prevista dalla norma, dando luogo a condotte contra legem, costituiscono
elementi che non possono in alcun modo fondare l’illegittimità di una
sanzione demolitoria irrogata in presenza di violazione della distanza
legale.
---------------
La sopravvenuta circostanza
della copertura del torrente e dell’incanalamento delle relative acque non
appare elemento dirimente per ritenere che l’ordine di demolizione non possa
essere emesso, per essere i manufatti non violativi della normativa in
materia di distanze.
Deve, in proposito, in primo luogo essere evidenziato che la copertura del
corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono
meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo
di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero, affermato che i
vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi
d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere
riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi
d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie
attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.
---------------
Il
divieto recato dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904 concerne,
per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e
“scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come
tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la
fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del
divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di
ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia
idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei
necessari lavori di manutenzione.
Invero, la fascia di rispetto non è finalizzata
esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le
normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento
sormontato da inferriata costituisce certamente opera rientrante nel concetto di
“fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e,
dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente (sia pur
tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le
operazioni di pulitura e manutenzione.
---------------
Viene, invero, lamentata l’intima contraddizione del comportamento
della Regione, la quale, da una parte ha ingiunto la demolizione delle opere
realizzate dal privato a distanza inferiore a 10 metri, mentre dall’altra ha
consentito la completa sistemazione dell’area da parte del Comune attraverso
la canalizzazione del ruscello tramite tubi in cemento armato, la
sistemazione della strada interpoderale (sita al lato opposto del ruscello
rispetto alla proprietà Gi.) e la realizzazione sulla stessa di opere di
messa in sicurezza quali guard rail.
La doglianza non è meritevole di favorevole considerazione, non risultando
assolutamente comparabili le situazioni messe a raffronto dall’appellante
per dedurre la contraddittorietà e l’illogicità dell’azione amministrativa.
Invero, a differenza dei manufatti realizzati dalla signora Gi., gli
interventi eseguiti dal Comune ed autorizzati dalla Regione risultano essere
opere pubbliche e di interesse pubblico, delle quali è stata previamente
verificata, da parte dell’autorità competente, la compatibilità con le
esigenze di tutela della risorsa idrica.
Va, inoltre, considerato che la strada era preesistente e, dunque, per
quanto emerge dalle stesse affermazioni dell’appellante, si è trattato di
sistemazione di un’opera che già insisteva al margine del torrente Mandrelle.
In disparte a quanto sopra rilevato, risulta, poi, dirimente, ai fini della
infondatezza della censura sollevata, il riferimento alla natura assoluta
del divieto di costruzione previsto dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n.
523 del 1904.
La norma così dispone: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle
acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti:…f) le piantagioni
di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a
distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di
quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in
mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le
piantagioni e smovimento di terreno e di metri dieci per le fabbriche e per
gli scavi”.
Dunque, in mancanza di diverse prescrizioni da parte dei regolamenti locali,
vi è divieto di realizzare fabbriche e scavi a distanza inferiore di dieci
metri dal piede degli argini, espressamente sancendo la norma che tale
divieto ha carattere “assoluto”.
Pertanto, una deroga a tale limite normativo è consentita solo da differenti
prescrizioni dei regolamenti locali, non potendo la stessa essere rimessa
alla determinazione individuale dell’autorità amministrativa.
Orbene, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 22.06.2011 n.
3781; Trib. sup. acque, 24.06.2010, n. 104) costantemente ritiene che il
divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d’acqua, previsto
dall’articolo 96, lett. f), del T.U. 25.07.1904, n. 523, ha carattere
legale, assoluto ed inderogabile.
Si afferma, in proposito, che tale vincolo di inedificabilità è diretto al
fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, ma anche il libero deflusso delle stesse, garantendo le
operazioni di ripulitura e manutenzione ed impedendo le esondazioni delle
acque.
Dunque, la ratio della disposizione va individuata nella finalità di
scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo
idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione
preventiva rispetto ai rischi per le persone e per le cose che potrebbero
derivare da esondazioni.
Ciò posto, osserva il Collegio che dal carattere assoluto del richiamato
vincolo di inedificabilità discende la natura vincolata (in termini
repressivi) dell’azione amministrativa conseguente all’accertamento della
violazione della distanza legale.
A tanto consegue che una eventuale mancata repressione di altra opera
realizzata a distanza inferiore ovvero, a maggior ragione, l’avvenuta
autorizzazione della stessa pur in mancanza della distanza di 10 metri
prevista dalla norma, dando luogo a condotte contra legem, costituiscono
elementi che non possono in alcun modo fondare l’illegittimità di una
sanzione demolitoria irrogata in presenza di violazione della distanza
legale.
Per le ragioni sopra esposte, dunque, non è configurabile il lamentato vizio
di contraddittorietà dell’azione amministrativa.
...
Osserva,
di poi, la Sezione, in disparte a quanto sopra rilevato, che in ogni caso la
sopravvenuta circostanza della copertura del torrente e dell’incanalamento
delle relative acque non appare, allo stato degli atti, elemento dirimente
per ritenere che l’ordine di demolizione non dovesse essere emesso, per
essere i manufatti non violativi della normativa in materia di distanze.
Deve, in proposito, in primo luogo essere evidenziato che la copertura del
corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono
meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo
di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero affermato (cfr. Trib. sup. acque, 18.02.2014, n. 44) che i
vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi
d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere
riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi
d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie
attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.
...
Osserva
il Collegio che il divieto recato dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n.
523/1904 concerne, per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e
“scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come
tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la
fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del
divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di
ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia
idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei
necessari lavori di manutenzione.
Invero, come sopra già esposto, la fascia di rispetto non è finalizzata
esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le
normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento
sormontato da inferriata (quale evincibile dalla documentazione fotografica
versata in atti) costituisce certamente opera rientrante nel concetto di
“fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e,
dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente Mandrelle (sia pur
tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le
operazioni di pulitura e manutenzione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.11.2019 n. 7695 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
“piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di
un titolo edilizio rilasciato a terzi, viene individuata nel momento in cui
i lavori hanno avuto inizio nel caso si contesti in radice l’edificabilità
dell’area, mentre per le altre censure con la conoscenza cartolare del
titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento
dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche
essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla
disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del
terzo.
Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far
presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che
venga fornita la prova di una conoscenza anticipata.
Peraltro, tali affermazioni vengono anche contemperate con la tutela delle
esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere
considerato libero di decidere, se e quando accedere agli atti. La
giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi
di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio
tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi
ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in
cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo
scostamento dal paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento
dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio
d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo
stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una
possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere
di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare
la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività
realizzativa.
Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera
omettendo di esercitare il diritto di accesso. Nel sistema delle tutele, il
diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una
completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori
che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in
relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento
al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e
satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni
giuridiche e legittimo affidamento dall’altra.
Infatti, il principio di trasparenza, sostanzia e rende effettiva la tutela
del terzo attraverso il diritto alla piena conoscenza della documentazione
amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere
di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che
l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia
sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non
conosciuto sufficientemente.
Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di
principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla
portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle
situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non
si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio
nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole
misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in
un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex
post, potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento
edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere
salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che
l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non
irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli
evidenziati principi ordinamentali.
La giurisprudenza ha, quindi, individuato una serie di fattispecie in cui,
in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell’intervento
edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o
giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il
titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle
attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extraprocessuale,
non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare
l’interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei
relativi lavori.
In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine
per la impugnazione di un titolo edilizio viene individuata nell’inizio dei
lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato
sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), al
completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi,
nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione,
consistenza, finalità, del manufatto in costruzione; mentre la vicinitas di
un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate, oltre ad
incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia
potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della
conclusione dei lavori e comunque chi intende contestare adeguatamente un
titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso
documentale.
---------------
In base alla consolidata giurisprudenza, la “piena conoscenza”, ai
fini della decorrenza del termine di impugnazione di un titolo edilizio
rilasciato a terzi, viene individuata nel momento in cui i lavori hanno
avuto inizio nel caso si contesti in radice l’edificabilità dell’area,
mentre per le altre censure con la conoscenza cartolare del titolo e dei
suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori,
che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali
dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina
urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo (cfr.
Cons. Stato, Ad. Plen. 29.07.2011, n. 15; Sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; Sez.
V n. 3777 del 27.06.2012; Sez. IV, 10.06.2014, n. 2959).
Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far
presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che
venga fornita la prova di una conoscenza anticipata (Cons. Stato, Sez. VI,
10.12.2010, n. 8705; Cons. Stato, Sez. IV, 20.01.2014, n. 264).
Peraltro, tali affermazioni vengono anche contemperate con la tutela delle
esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere
considerato libero di decidere, se e quando accedere agli atti. La
giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi
di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio
tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi
ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al
momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente
apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento
dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio
d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo
stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una
possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere
di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare
la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività
realizzativa.
Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera
omettendo di esercitare il diritto di accesso. Nel sistema delle tutele, il
diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una
completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori
che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in
relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento
al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e
satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni
giuridiche e legittimo affidamento dall’altra.
Infatti, il principio di trasparenza, sostanzia e rende effettiva la tutela
del terzo attraverso il diritto alla piena conoscenza della documentazione
amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere
di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che
l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia
sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non
conosciuto sufficientemente (Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013, n. 322).
Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di
principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla
portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle
situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non
si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio
nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole
misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in
un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex
post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (Cons. Stato, IV Sez.,
28.10.2015, n. 4909).
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede
giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio
ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di
detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o
colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza
delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi
ordinamentali.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, quindi, individuato una serie di
fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei
confronti dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla
conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle
censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle
conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale
o comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli
motivi che possano legittimare l’interessato ad una impugnazione differita
dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori (Cons. Stato, Sez. VI,
18.07.2016, n. 3191).
In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del
termine per la impugnazione di un titolo edilizio viene individuata
nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva
essere edificato sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze,
consistenza ecc.), al completamento dei lavori o, in relazione al grado di
sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta
dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione (Cons.
Stato, Sez. II, 12.08.2019, n. 5664; Sez. IV, 26.07.2018, n. 4583; id.,
23.05.2018, n. 3075); mentre la vicinitas di un soggetto rispetto
all’area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse
ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente
conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori e
comunque chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere
di esercitare sollecitamente l’accesso documentale (Cons. Stato, Sez. II,
26.06.2019, n. 4390).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie non può che
essere confermata la sentenza di primo grado che ha dichiarato la
irricevibilità del ricorso straordinario notificato il 09.06.1992 avverso la
concessione edilizia rilasciata il 20.07.1990 e la successiva variante del
20.12.1991.
Infatti, anche a prescindere dalla prova di una conoscenza anteriore degli
interventi edilizi censurati, dagli atti di causa risulta, comunque, che i
lavori relativi almeno al titolo edilizio del 20.07.1990 siano stati
completati almeno nel dicembre 1991, essendo stato rilasciato il certificato
di abitabilità il 23.12.1991. Tale certificato dà espressamente atto della
conclusione dei lavori il 23.12.1991. Inoltre, in base alla relazione di
sopralluogo del 01.02.1992 ed alla conseguente ordinanza di sospensione dei
lavori, a tale data risulta realizzato anche il muretto di recinzione (se
anche in difformità dalla concessione).
Infatti sia la relazione di sopralluogo che l’ordinanza di sospensione fanno
riferimento all’“innalzamento della quota di imposta del fabbricato di
metri 1,60” e alla “sopraelevazione del muro di confine” di circa
1 metro. Ne deriva che il 23.12.1991, o al più tardi il 01.02.1992, come
correttamente rilevato dal giudice di primo grado, era perfettamente
percepibile dal vicino interessato la lamentata violazione delle distanze e
delle altezze, con conseguente tardività del ricorso straordinario
notificato il 09.06.1992.
Rispetto a tali circostanze di fatto, è irrilevante quanto sostenuto
dall’appellante con riferimento alla mancata conoscenza della relazione di
sopralluogo del 01.02.1992; questa, infatti, anche se non ancora conosciuta
dall’appellante, dà atto che a quella data erano stati realizzati
l’innalzamento del terreno e il muretto di recinzione sopraelevato rispetto
al progetto approvato. Il vicino era quindi in grado di percepire l’avvenuta
realizzazione delle opere.
Sostiene poi l’appellante che nella relazione del coordinatore dell’ufficio
tecnico del 19.05.1992 sarebbe attestata la prosecuzione dei lavori ancora a
tale data. Tale circostanza è irrilevante rispetto alla tardività della
impugnazione dei titoli edilizi, in quanto la relazione del 19.05.1992, si
riferisce a lavori in difformità dai titoli edilizi, che non possono dunque
rilevare rispetto alla impugnazione dei titoli stessi.
Né può rilevare la relazione del tecnico di fiducia della parte ricorrente
del 02.04.1992, trattandosi di un incarico peritale affidato privatamente
dalla parte, che avrebbe avuto l’onere comunque di impugnare nel termine di
sessanta giorni dalla “piena conoscenza” interpretata secondo la
giurisprudenza sopra citata, dunque eventualmente esercitando
tempestivamente l’accesso agli atti o comunque facendo nei termini esaminare
i progetti al proprio tecnico di fiducia, circostanza che non giustifica,
quindi, il ritardo nella presentazione del ricorso straordinario.
Il ricorso straordinario non può, dunque, che essere considerato
irricevibile per tardività con conferma della sentenza appellata sul punto (cfr. Cass. civ., Sez. III, 12.07.2019, n. 18745)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 11.11.2019 n. 7692 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Curatela
fallimentare e disciplina dell’accesso agli
atti.
Il curatore fallimentare
è sì un pubblico ufficiale, ai sensi
dell’art. 30 del R.D. 16/03/1942, n. 267, ma
ciò non fa di lui un soggetto privato
esercente una funzione di pubblico interesse
assimilabile ad una pubblica amministrazione
e non soggiace pertanto alla disciplina
prevista dagli artt. 22 e seguenti della
legge n. 241/1990 in materia di accesso agli
atti, trattandosi piuttosto di un ausiliario
del giudice, nominato con la sentenza di
fallimento o con decreto del Tribunale, che
amministra il patrimonio del fallito
nell’ambito di una procedura concorsuale
disciplinata dalla legge, sotto la vigilanza
del giudice delegato.
La stessa legge fallimentare, del resto,
disciplina specificatamente l’accesso da
parte dei terzi, agli atti e ai documenti
per i quali sussiste un loro specifico e
attuale interesse, prevedendo all’uopo la
previa autorizzazione del giudice delegato,
sentito il curatore
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 11.11.2019 n. 2374 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
È utile rammentare che, ai sensi dell’art.
22 della legge n. 241 del 1990:
- per «documento amministrativo» s’intende «ogni
rappresentazione grafica fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie
del contenuto di atti, anche interni o non
relativi ad uno specifico procedimento,
detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina
sostanziale»;
- per «pubblica amministrazione» s’intendono «tutti i
soggetti di diritto pubblico e i soggetti di
diritto privato limitatamente alla loro
attività di pubblico interesse disciplinata
dal diritto nazionale o comunitario».
Ciò posto, reputa il Collegio che
l’Amministrazione Provinciale, non soltanto,
non è tenuta ad esibire documenti da essa
non detenuti, ma, neppure essa è tenuta
–come adombra la difesa ricorrente- a
trasmettere l’istanza di accesso a soggetti
terzi, ad essa estranei, quali le curatele
fallimentari di AF. S.p.a. e Do. S.r.l.,
allo scopo di richiedere ad esse i documenti
non detenuti.
Ciò, poiché, contrariamente all’assunto di
parte ricorrente, dal riconoscimento dello
status di pubblico ufficiale al curatore
fallimentare non discende affatto
l’assimilazione del curatore stesso ad una «pubblica
amministrazione», sia pure intesa nei
sensi di cui all’art. 22, co. 1, lett. e)
legge n. 241/1990.
Il curatore fallimentare, a ben vedere, è sì
un pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 30
del R.D. 16/03/1942, n. 267, ma ciò non fa
di lui «un soggetto privato esercente una
funzione di pubblico interesse… assimilabile
ad una pubblica amministrazione, di talché
soggiace alla disciplina prevista dagli artt.
22 e seguenti della Legge n. 241/1990 in
materia di accesso agli atti» (pagina 8
su 9 della memoria di replica di parte
ricorrente), trattandosi piuttosto di un
ausiliario del giudice, nominato con la
sentenza di fallimento o con decreto del
Tribunale (art. 27 R.D. 267/1942), che
amministra il patrimonio del fallito
nell’ambito di una procedura concorsuale
disciplinata dalla legge, sotto la vigilanza
del giudice delegato (art. 31 R.D.
267/1942).
La stessa legge fallimentare, del resto,
disciplina specificatamente l’accesso da
parte dei «terzi», agli atti e ai
documenti «per i quali sussiste un loro
specifico ed attuale interesse» prevedendo
all’uopo la «previa autorizzazione del
giudice delegato, sentito il curatore»
(art. 90, u.co., R.D. cit.).
Per il resto, osserva il Collegio come le
censure di eccesso di potere svolte
dall’esponente siano inammissibili,
trascendendo il piano dell’accesso ed
appuntandosi sull’operato
dell’Amministrazione nel procedimento ex
art. 244 TUA, tuttora in itinere.
Conclusivamente, quindi, il ricorso come in
epigrafe proposto va respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: In pendenza di domande di condono l'Amministrazione non può
adottare provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi prima di aver definito,
con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in
sanatoria.
Invero,
una volta presentata un'istanza di concessione in sanatoria o di condono
edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima e in
pendenza del relativo procedimento, è preclusa l'adozione di provvedimenti
sanzionatori dell'abuso che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo
abilitativo in sanatoria.
---------------
10. Con riferimento al contestato mutamento della destinazione d’uso da
garage a cantina, deve ritenersi fondato il rilievo secondo il quale
l’omessa definizione della pratica di condono edilizio presentata
dall’originario proprietario ai sensi dell'art. 39, comma 4, l. 23.12.1994 n. 724 determina l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione nella
parte che riguarda tali opere.
In pendenza di domande di condono, infatti, l'Amministrazione non può
adottare provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi prima di aver definito,
con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in
sanatoria (TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.02.2018, n. 1581).
Invero,
una volta presentata un'istanza di concessione in sanatoria o di condono
edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima e in
pendenza del relativo procedimento, è preclusa l'adozione di provvedimenti
sanzionatori dell'abuso che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo
abilitativo in sanatoria (ex plurimis: TAR Lazio, Roma, Sezione II-bis, 11.01.2018, n. 333;
06.12.2017, n. 12038; 24.11.2017, n. 11667; 02.03.2017, n. 3060; Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.10.2013 n. 5090;
TAR Campania, 14.01.2016, n. 176; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 18.02.2014 n. 2012; TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
05.03.2014 n. 13)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività
di repressione degli abusi edilizi, tramite l'emissione dell'ordine di
demolizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, costituisce attività
di natura vincolata e, pertanto, la stessa non è assistita da particolari
garanzie partecipative, tanto da non ritenersi necessaria la previa
comunicazione di avvio del procedimento di cui agli articoli 7 e seguenti
della legge n. 241 del 1990 agli interessati.
In tale
contesto, deve parimenti escludersi che ai destinatari del provvedimento
recante l'ordine di demolizione, debbano essere riconosciute le prerogative
connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di presentare
osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di prenderle in
considerazione prima di assumere la decisione finale.
---------------
Il potere comunale di
sanzionare gli interventi eseguiti in contrasto con la normativa urbanistica
ed edilizia, oltre ad essere doveroso e rigorosamente vincolato, è esercitabile
dal comune in ogni tempo.
È,
invece, l’intervento sostitutivo delle Regioni che può essere esercitato
entro cinque anni dalla dichiarazione di agibilità dell’intervento, come
previsto, dall’art. 40 del DPR 380/2001.
---------------
La mera inerzia da parte dell'amministrazione,
nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico, non è idonea a far divenire legittima
un’edificazione sine titulo sin dall'origine illegittima.
Pertanto, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento tutelabile
in capo al proprietario dell'immobile abusivo che, per altro, nel caso di
specie, non è mai stato destinatario di un atto amministrativo favorevole
idoneo ad ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
In
circostanze quali quelle all’esame è, infine, del tutto congruo che l'ordine
di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato ed
evidente carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto
ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria.
---------------
4.1. Quanto alla censurata violazione del diritto della ricorrente
di partecipare al procedimento, costante giurisprudenza amministrativa (da
ultimo Consiglio di Stato sezione II 13.06.2019 n. 3791) evidenzia come
l'attività di repressione degli abusi edilizi, tramite l'emissione
dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001,
costituisce attività di natura vincolata e, pertanto, la stessa non è
assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi
necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui agli
articoli 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990 agli interessati.
In tale
contesto, deve parimenti escludersi che ai destinatari del provvedimento
recante l'ordine di demolizione, debbano essere riconosciute le prerogative
connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di presentare
osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di prenderle in
considerazione prima di assumere la decisione finale.
...
4.3. Anche il motivo di ricorso afferente la ritenuta prescrizione
dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 40 del
DPR 380/2001, non coglie nel segno.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla
difesa della ricorrente, infatti, il potere comunale di sanzionare gli
interventi eseguiti in contrasto con la normativa urbanistica ed edilizia,
oltre ad essere doveroso e rigorosamente vincolato, è esercitabile dal
comune in ogni tempo (in termini TAR Liguria 09.04.2013 n. 611).
È,
invece, l’intervento sostitutivo delle Regioni che può essere esercitato
entro cinque anni dalla dichiarazione di agibilità dell’intervento, come
previsto, dall’art. 40 del DPR 380/2001.
4.4. Quanto, da ultimo, all’affidamento che la ricorrente avrebbe tratto
dalla mancata contestazione dell’abuso ed al contestato difetto di
motivazione del provvedimento gravato, va osservato che la mera inerzia da
parte dell'amministrazione, nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato
alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico, non è idonea a far
divenire legittima un’edificazione sine titulo sin dall'origine illegittima
(in termini, Consiglio di Stato sez. VI, 05.09.2018, n. 5204).
Pertanto, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento tutelabile
in capo al proprietario dell'immobile abusivo che, per altro, nel caso di
specie, non è mai stato destinatario di un atto amministrativo favorevole
idoneo ad ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. In
circostanze quali quelle all’esame è, infine, del tutto congruo che l'ordine
di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato ed
evidente carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto
ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.11.2019 n. 643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Divieto
in Liguria ai comuni di apportare varianti ai PRG ultradecennali fino
all’approvazione del nuovo strumento di governo del territorio PUC.
---------------
Urbanistica – Piano regolatore – Ultradecennale – Liguria – L.reg. n. 36
del 1997 – Fino all’approvazione del nuovo strumento di governo del
territorio PUC - Manifesta infondatezza.
E’ manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale della l.reg. Liguria n. 36 del 1997, che ha
vietato ai comuni di apportare varianti ai Piani regolatori generali
ultradecennali fino a che non si approva il nuovo strumento di governo del
territorio PUC (1).
---------------
(1) La Sezione ha ritenuto non rilevante, ai fini della
declaratoria di non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale della l.reg. Liguria n. 36 del 1997, la sentenza della Corte
cost. n. 179 del 2019, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di
una legge regionale Lombardia secondo cui i comuni non potevano apportare
varianti ai piani sino alla approvazione del nuovo piano territoriale
regionale.
La sezione ha rilevato la profonda differenza dei due casi: in Lombardia la
potestà dei comuni era paralizzata fino a un termine indefinito e nelle mani
potestative della Regione stessa; in Liguria, invece i comuni, approvando il
puc, potevano agevolmente rimuovere il divieto.
In sintesi, mentre nel caso della norma regionale lombarda veniva rimesso
integralmente alla potestà regionale di allungare illimitatamente il termine
di durata della compressione della potestà di pianificazione dei comuni,
senza che nulla questi ultimi potessero fare per disinnescare la
disposizione transitoria, la norma regionale ligure attribuisce proprio ai
singoli comuni la responsabilità di far cessare l’efficacia del divieto di
ius variandi, adottando i nuovi strumenti urbanistici comunali
previsti dall’art. 5, l.reg. n. 36 del 1997, da sottoporre alla approvazione
regionale nei termini previsti dall’art. 38 della medesima legge
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.11.2019 n. 7667 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
3.1 Con il secondo motivo, l’appellante censura la decisione
impugnata proponendo un’interpretazione sistematica e teleologica della
disciplina contenuta nella novella regionale, secondo la quale la
limitazione alla potestà di pianificazione dei comuni liguri non
attingerebbe le varianti “riduttive” del consumo di risorse
paesistico-ambientali e quelle precauzionali rispetto a pregiudizi
ambientali.
A tale conclusione condurrebbero i principi informatori della
pianificazione scolpiti nell’art. 2 della legge regionale n. 36 del 1997,
come il canone del minimo consumo di risorse territoriali e paesistico-ambientali disponibili, con particolare riguardo a quelle
irriproducibili, i principi di matrice europea di precauzione ed azione
preventiva, nonché il principio di interpretazione costituzionalmente
orientata che imporrebbe di accedere ad una lettura restrittiva della
novella regionale, nel senso che essa incide sulle potestà comunali di
pianificazione, ma non le annulla e svuota completamente.
Secondo l’appellante, sulla base della suggerita lettura del dato normativo
il TAR avrebbe dovuto accertare la piena legittimità della variante
impugnata dall’appellato, in quanto variante riduttiva della potestà
edificatoria del titolare del diritto dominicale ed avente finalità di
riduzione del consumo del suolo e di tutela del paesaggio.
3.2 In primo luogo, non appare corretto il riferimento dell’appellante ai
principi informatori della pianificazione quali recepiti nell’art. 2 della
legge urbanistica regionale della Liguria, in quanto in seguito alla novella
introdotta con la l.r. 18.11.2016, n. 29, la lettera a) del comma 3 del
citato art. 2 è stata modificata, eliminando ogni richiamo al canone del
“minimo consumo di risorse territoriali e paesistico-ambientali
disponibili”, sostituito con il principio “della conservazione e della
valorizzazione delle risorse ambientali e paesaggistiche disponibili”.
3.3 In secondo luogo, l’appellante, articolando il motivo in esame,
patrocina una interpretazione “creativa” degli artt. 47-bis e 47-ter,
introducendo una distinzione, sul piano degli effetti prodotti, tra varianti
riduttive del consumo di risorse paesistico-ambientali e, pertanto,
legittime e varianti ampliative della potestà edificatorie dei privati, come
tali vietate dalla norma regionale. Ma di questa distinzione non vi è
traccia nella lettera degli articoli di legge citati, ed anzi essa sembra
difficilmente coniugabile con la già evidenziata ratio acceleratoria della
novella legislativa.
3.4 Sebbene per giurisprudenza costante, anche della Sezione (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 30.06.2016, n. 3233), l’art. 12 delle Preleggi, laddove
stabilisce che nell’applicare la legge non si può attribuire alla stessa
altro significato che quello fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del Legislatore, non
privilegia il criterio letterale ma pone un dualismo tra lettera e spirito o
ratio della norma, non può certamente consentirsi all’interprete di
pervenire ad una correzione della disposizione normativa nel significato
tecnico delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che,
in assenza di correzione, la disposizione non coglierebbe le finalità per le
quali è stata forgiata (cfr. Cass. 04.10.2018, n. 24265; Id. 14.10.2006, n. 20808).
E proprio questo sembra essere il tentativo dell’appellante nel caso di
specie, giacché:
- la lettera degli artt. 47-bis e 47-ter, come si è evidenziato, limita la
potestà di pianificazione dei comuni, senza distinguere sul piano oggettivo
tra varianti riduttive e varianti ampliative del consumo di territorio e
paesaggio;
- la ratio dei citati articoli non è quella di ridurre il consumo di
territorio o paesaggio, bensì di indurre i comuni a dotarsi quanto prima dei
nuovi strumenti urbanistici territoriali (P.U.C.);
- i principi informatori della pianificazione regionale ligure, come
enunciati nell’art. 2 della legge n. 36 del 1997, non possono integrare e
correggere l’ambito applicativo degli artt. 47-bis e 47-ter nel senso
patrocinato dall’appellante, in quanto essi “ispirano” la pianificazione
territoriale (cfr. art. 2, comma 3), pertanto di essi dovrà anzitutto
tenersi conto in sede di predisposizione dei nuovi P.U.C. di cui all’art. 5
della citata legge urbanistica regionale.
3.4 Anche il secondo motivo si palesa pertanto infondato.
4.1 Con il terzo ed ultimo motivo, proposto in via subordinata per l’ipotesi
di reiezione dei primi due motivi, il Comune appellante eccepisce
l’incostituzionalità degli artt. 47-bis e 47-ter della l.r. n. 36 del 1997
per violazione delle norme e dei principi in materia di prerogative
pianificatorie comunali, di violazione del canone di sussidiarietà verticale
di cui agli artt. 5 e 118 della Costituzione e di violazione del principio
di leale collaborazione tra amministrazioni.
Secondo la prospettazione dell’appellante, la questione sarebbe del tutto
analoga a quella già delibata positivamente dalla Sezione con la sentenza
non definitiva n. 5711 del 04.12.2017, che ha devoluto alla Corte
costituzionale la verifica di costituzionalità, tra l’altro, dell’art. 5,
comma 4, ultimo periodo, della legge regionale Lombardia n. 31 del 2014.
In pendenza del giudizio di appello, l’appellante, in data 05.09.2019,
ha prodotto la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 22.07.2019, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’ultimo
periodo dell’art. 5, comma 4, della l.r. Lombardia 28.11.2014, n. 31
(Disposizioni per la riduzione del consumo del suolo e per la
riqualificazione del suolo degradato), nel testo precedente alle modifiche
apportate dalla legge della Regione Lombardia 26.05.2017, n. 16, recante
“Modifiche all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31”,
nella parte in cui non consente ai comuni di apportare varianti che riducono
le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente.
4.2 Lo scrutinio dell’eccezione di incostituzionalità proposta
dall’appellante deve necessariamente prendere le mosse dall’esame della
pronuncia della Consulta n. 179 del 2019, con cui è stata dichiarata
l’incostituzionalità dell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della l.r.
Lombardia 28.11.2014, n. 31, per violazione del combinato disposto
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla
competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali, e degli artt. 5 e
118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio di
sussidiarietà verticale.
Con la predetta norma regionale lombarda dichiarata incostituzionale, era
stata introdotta una disciplina transitoria nel periodo occorrente alla
integrazione dei contenuti del Piano Territoriale Regionale (PTR) e al
successivo adeguamento dei Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale (PTCP)
e dei Piani di Governo del Territorio (PGT), per rendere i citati piani
coerenti con i nuovi principi in materia di governo del territorio e di
riduzione del consumo di suolo e di paesaggio introdotti dalla l.r.
Lombardia n. 31 del 2014.
In particolare, dopo aver precisato che
“successivamente all’integrazione del PTR e all’adeguamento dei PTCP e degli
strumenti di pianificazione territoriale della città metropolitana, di cui
ai commi 1 e 2, e in coerenza con i contenuti dei medesimi, i comuni
adeguano, in occasione della prima scadenza del documento di piano, i PGT
alle disposizioni della presente legge” (art. 5, comma 3), la legge
regionale lombarda stabiliva che “Fino a detto adeguamento sono comunque
mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano
vigente” (art. 5, comma 4, ultimo periodo).
In sintesi, la legge regionale lombarda aveva introdotto un divieto di ius
variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano sino
alla conclusione del processo di adeguamento degli strumenti urbanistici
regionale, provinciali e comunali ai principi introdotti dalla medesima
legge. Tale divieto, come sottolineato dalla Consulta, era stato
“effettivamente declinato secondo due distinte scadenze temporali: la prima
prevista dal comma 6 assegnando ai privati il termine di trenta mesi per la
presentazione delle istanze di attuazione del programma edificatorio; la
seconda stabilita dal comma 9 per le ipotesi di cui a) entro il termine di
trenta mesi non siano stati presentati progetti da parte dei soggetti
interessati alla realizzazione di un piano attuativo ovvero b) se
presentati, non sia stata stipulata la relativa convenzione entro dodici
mesi dall’approvazione. Anche in queste ultime due ipotesi, comunque, il
Comune è vincolato al vigente documento di piano sino all’esito del
procedimento di adeguamento di cui al comma 3” (cfr. C. Cost. n. 179 del
2019, 12.2).
4.3 Prendendo le mosse dal principio secondo cui la competenza concorrente
in materia di governo del territorio abilita fisiologicamente la
legislazione regionale a intervenire nell’ambito di disciplina della
pianificazione urbanistica, la Consulta afferma che, nel rispetto
dell’autonomia dei comuni nella materia urbanistica (riconosciuta dall’art.
14, comma 27, lettera d), del decreto legge n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni dalla legge n. 122 del 2010), è richiesto uno scrutinio
particolarmente rigoroso laddove “la normativa regionale non si limiti a
conformare, mediante previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a
uniformarsi, le previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza
concorrente in tema di governo del territorio, quanto piuttosto comprima
l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie,
paralizzandola per un periodo temporale” (cfr. C. cost. n. 179 del 2019,
12.5).
In tali casi, costatato che “il punto di equilibrio tra regionalismo
e municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato
impianto del Titolo V della Costituzione”, secondo la Consulta il giudizio
di verifica della legittimità costituzionale dell’intervento regionale non
passa tanto su di una valutazione in astratto, quanto sulla valutazione in
concreto in ordine all’esistenza di esigenze generali che possano
ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle
funzioni già assegnate agli enti locali.
Segnatamente, occorrerà valutare,
nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., “quanto la legge regionale
toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali
interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni
procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone”.
Si
tratta di un giudizio di proporzionalità, da svolgersi “dapprima in astratto
sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale,
successivamente in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza ed
al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti” (cfr. C. Cost. n. 179
del 2019, 12.5).
4.4 All’esito del giudizio di proporzionalità compiuto in astratto, la Corte
enuncia il principio che il livello di intervento regionale “è
strutturalmente quello più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di
suolo, perché in grado di porre limiti ab externo e generali alla
pianificazione urbanistica locale”, di talché “lo scopo perseguito dal
legislatore regionale rientra, senza dubbio, nell’ambito del legittimo
esercizio della competenza regionale e di per sé appare compatibile con la
pianificazione urbanistica locale”.
Passando al giudizio di proporzionalità compiuto in concreto, la Corte
evidenzia che il divieto di ius variandi, come introdotto dalla norma
regionale lombarda, da un lato, paralizza la potestà di pianificazione
comunale anche quando i comuni intendessero esercitarla nella stessa
direzione dei principi di coordinamento enunciati dal legislatore regionale,
dall’altro non reca alcun termine certo e congruo per limitarne l’effetto,
giacché - in ultima analisi - rimette la delimitazione del periodo di
sottrazione della potestà di pianificazione comunale alla discrezionalità
della regione nell’approvare l’adeguamento al Piano Territoriale Regionale.
Di qui la conclusione che “la norma impugnata non supera, ai sensi del
legittimo esercizio del principio di sussidiarietà verticale, il test di
proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della
limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione
amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato
fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr. C. Cost. n. 179 del 2019, 12.7).
4.5 Facendo applicazione dei suesposti principi enunciati dal Giudice delle
leggi all’odierno gravame, l’eccezione di legittimità costituzionale
proposta dall’appellante si palesa manifestamente infondata.
Ed invero, la norma contenuta negli artt. 47-bis e 47-ter della l.r. Liguria
n. 36 del 1997 introduce, fino all’approvazione dei nuovi P.U.C., un divieto
di ius variandi per i comuni dotati di strumento urbanistico generale
vigente da oltre un decennio, disciplinando specifiche e ben limitate
ipotesi derogatorie.
Tale limitazione alla potestà di pianificazione dei
comuni liguri, come già sopra evidenziato, trova ratio nell’esigenza
avvertita dal legislatore regionale di accelerare il processo di
sostituzione dei vecchi strumenti urbanistici territoriali con i nuovi
modelli di pianificazione (P.U.C.), da predisporsi a cura dei comuni in
attuazione degli innovativi principi informatori scolpiti negli artt. 2 e 5
della citata legge urbanistica regionale. Si tratta di uno scopo pienamente
legittimo alla luce delle funzioni di programmazione e di coordinamento
spettanti alla regione nelle materie di cui all’articolo 117, terzo e quarto
comma, della Costituzione.
Focalizzando l’attenzione sul profilo della durata della predetta
sottrazione di potestas variandi, rilevante per il giudizio di
proporzionalità “in concreto” nei termini indicati dalla Consulta, la norma
contenuta negli artt. 47-bis e 47-ter paralizza lo ius variandi dei comuni
“fino all’approvazione del PUC”, cosi introducendo un termine finale di
efficacia della misura che dipende in larga parte dalle scelte di ciascun
comune. Ne discende che, a differenza della norma regionale lombarda
dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 179 del 2019 –che faceva
dipendere l’efficacia della limitazione della potestà comunale di
pianificazione anzitutto dalla scelta regionale di approvare o meno il nuovo
Piano Territoriale Regionale– la norma della l.r. n. 36 del 1997, al
contrario, rimette sostanzialmente a ciascun comune interessato di
predisporre ed adottare il nuovo P.U.C. e, per tale via, di determinare la
cessazione dell’efficacia della misura limitativa.
In sintesi, mentre nel
caso della norma regionale lombarda, veniva rimesso integralmente alla
potestà regionale di allungare illimitatamente il termine di durata della
compressione della potestà di pianificazione dei comuni, senza che nulla
questi ultimi potessero fare per disinnescare la disposizione transitoria,
la norma regionale ligure attribuisce proprio ai singoli comuni la
responsabilità di far cessare l’efficacia del divieto di ius variandi,
adottando i nuovi strumenti urbanistici comunali previsti dall’art. 5 della
l.r. n. 36 del 1997, da sottoporre alla approvazione regionale nei termini
previsti dall’art. 38 della medesima legge.
L’assenza di margini di discrezionalità in capo alla Regione Liguria con
possibili ricadute sul termine di durata della misura limitativa
transitoria, ed anzi l’aver rimesso la cessazione della misura ad una scelta
di ogni singolo comune avente uno strumento generale di pianificazione
ultradecennale, evidenzia come nella specie i comuni non sono soggetti
passivi di una valutazione rimessa al livello di governo superiore, bensì
principali responsabili dell’ambito temporale di applicazione della
disposizione.
Ne consegue, secondo le direttrici indicate dalla Consulta con la sentenza
n. 179 del 2019, lo scrutinio positivo in termini di piena proporzionalità
della misura rispetto al tipo di interessi coinvolti ed alle finalità
perseguite dalla legge regionale in esame.
4.6 In conclusione, l’eccezione di incostituzionalità degli artt. 47-bis e
47-ter della l.r. n. 36 del 1997, come formulata con il terzo motivo di
appello, si palesa manifestamente infondata.
5. L’accertata infondatezza di tutti i motivi di appello, impone la
reiezione del gravame. |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Inoltre, “Ai fini della
legittimità dell'ingiunzione demolitoria è necessaria l'affermazione della
accertata abusività dell'opera, mediante la descrizione della stessa, la
constatazione dell'esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo e
l'individuazione della norma applicata”.
L’individuazione delle opere ben può essere effettuata attraverso i
riferimenti catastali, di cui vi è menzione nell’impugnata ordinanza, la
quale inoltre contiene una precisa descrizione delle opere sanzionate nelle
loro caratteristiche dimensionali.
---------------
I provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti
dei proprietari catastali degli immobili, dovendosi prescindere dagli
eventuali rapporti interprivati tra gli autori degli abusi e i proprietari;
l'ordine di demolizione è legittimamente notificato al proprietario
catastale dell'area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno
corresponsabile dell’abuso.
---------------
Il presupposto per
l’adozione di un’ordinanza di ripristino non è l'accertamento di
responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a
eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in virtù del diritto dominicale il
proprietario– che il responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione
reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi all’impugnazione
della sanzione.
D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici
attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente
proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia
del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio
di proprietà.
---------------
13.1. Non risulta fondato il primo motivo d’appello, in quanto
l’ordinanza demolitoria impugnata è ampiamente suffragata dal verbale di
sopralluogo con il quale le opere abusive sono state accertate, tanto più
che i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia non richiedono alcun
apprezzamento in punto di interesse pubblico.
Infatti, come rilevato di recente da questo Consiglio “L’ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”
(cfr. sentenza, sez. II, 19.06.2019, n. 4184; v. anche sez. VI, 15.10.2018,
n. 5915).
Inoltre, come pure è stato osservato di recente, “Ai fini della
legittimità dell'ingiunzione demolitoria è necessaria l'affermazione della
accertata abusività dell'opera, mediante la descrizione della stessa, la
constatazione dell'esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo e
l'individuazione della norma applicata” (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
06.02.2019, n. 903).
L’individuazione delle opere ben può essere effettuata attraverso i
riferimenti catastali, di cui vi è menzione nell’impugnata ordinanza, la
quale inoltre contiene una precisa descrizione delle opere sanzionate nelle
loro caratteristiche dimensionali.
13.2. Infondato è il secondo motivo, in quanto la legittimazione
passiva all’ordine di demolizione si radica anche sulla mera disponibilità
materiale e giuridica delle opere.
Questo Consiglio ha infatti affermato che
“I provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti
dei proprietari catastali degli immobili, dovendosi prescindere dagli
eventuali rapporti interprivati tra gli autori degli abusi e i proprietari;
l'ordine di demolizione è legittimamente notificato al proprietario
catastale dell'area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno
corresponsabile dell’abuso” (cfr. Cons Stato, sez. IV, 02.10.2017, n.
4571).
...
13.4. E’ infondato anche il quarto mezzo, in quanto, fermo restando
che la mancata pronuncia su una o più domande non comporta la rimessione
della causa al primo giudice, non è ravvisabile il lamentato difetto di
istruttoria, non avendo l’Amministrazione l’onere di accertare chi sia il
responsabile delle opere abusive accertate.
Questo Consiglio ha infatti di recente ribadito che “Il presupposto per
l’adozione di un’ordinanza di ripristino non è l'accertamento di
responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a
eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in virtù del diritto dominicale il
proprietario– che il responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione
reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi all’impugnazione
della sanzione. D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del
sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici
attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente
proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia
del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio
di proprietà” (sez. VI, 11.12.2018, n. 6983).
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 07.11.2019 n. 7616 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se in astratto l’installazione dell’antenna di un impianto
radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli
effetti delle leggi urbanistiche, la realizzazione di simili manufatti va
però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva
consistenza degli impianti, richiedendosi il rilascio del titolo edilizio in
caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con
annessi altri manufatti accessori.
Nel caso di specie, le caratteristiche dimensionali dell’opus, ed in
particolare la sua rilevante altezza (circa 12/13 ml), consentono quindi di
ritenerlo attratto al regime concessorio.
Del resto, la qualificazione di opere edilizie quali “nuove costruzioni”
discende dalla legge statale e segnatamente dall’art. 3, lett. e.4), del
d.P.R. n. 380 del 2001, laddove si è riferito alla “installazione di
torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i
servizi di telecomunicazione”.
Anche a voler ritenere tale disciplina
implicitamente abrogata dall’entrata in vigore del Codice delle
comunicazione elettroniche, gli artt. 87 e ss. di tale compendio normativo
richiedono comunque la presentazione di un’istanza (o di una Scia per gli
impianti di potenza fino a 20 Watt) agli organi comunali competenti, che
quindi esclude che possano essere realizzati in assenza di qualsiasi vaglio
degli uffici preposti al rilascio dei titoli edilizi.
---------------
13.3. Infondato è il terzo mezzo, in quanto la disciplina in materia
di comunicazioni elettroniche non esclude la necessità di conseguire i
titoli edilizi e ambientali.
Come affermato dalla condivisibile
giurisprudenza, se in astratto l’installazione dell’antenna di un impianto
radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli
effetti delle leggi urbanistiche, la realizzazione di simili manufatti va
però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva
consistenza degli impianti, richiedendosi il rilascio del titolo edilizio in
caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con
annessi altri manufatti accessori (Cons. Stato, sez. V, 28.12.2007, n. 6714;
Cons. Stato, sez. III, 26.02.2019, n. 1326).
Le anzidette caratteristiche dimensionali dell’opus, ed in
particolare la sua rilevante altezza (circa 12/13 ml), consentono quindi di
ritenerlo attratto al regime concessorio.
Del resto, la qualificazione di opere edilizie quali “nuove costruzioni”
discende dalla legge statale e segnatamente dall’art. 3, lett. e.4), del
d.P.R. n. 380 del 2001, laddove si è riferito alla “installazione di
torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i
servizi di telecomunicazione”. Anche a voler ritenere tale disciplina
implicitamente abrogata dall’entrata in vigore del Codice delle
comunicazione elettroniche, gli artt. 87 e ss. di tale compendio normativo
richiedono comunque la presentazione di un’istanza (o di una Scia per gli
impianti di potenza fino a 20 Watt) agli organi comunali competenti, che
quindi esclude che possano essere realizzati in assenza di qualsiasi vaglio
degli uffici preposti al rilascio dei titoli edilizi
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 07.11.2019 n. 7616 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel processo amministrativo la
regolazione delle spese giudiziali non richiede, in via generale, una ampia
motivazione, posto che esse, per principio generale, seguono la soccombenza
(art. 91 c.p.c.), ovvero si tratta di evenienza emergente dalla stessa
sentenza (soccombenza reciproca trattata, mutamento della giurisprudenza),
ponendosi invece un onere di più specifica motivazione laddove la
regolazione delle spese prescinda dalla vittoria in giudizio e risponda ad
esigenze differenti (art. 92 comma 1, c.p.c.).
Comunque resta fermo che, in
sede di regolazione delle spese, il giudice è attributario di ampia
discrezionalità, da esercitarsi nella considerazione, oltre che della
intervenuta soccombenza, degli ulteriori elementi indicati dagli artt. 91 ss.,
c.p.c., cui rinviano gli artt. 26, 39 e 88 c.p.a.
---------------
13.5. Infondato è, infine, l’ultimo mezzo laddove si contesta il capo
della sentenza relativo alle spese di giudizio, in quanto le relative
statuizioni sono frutto di valutazioni discrezionali del giudice di primo
grado.
Ha infatti rilevato questo Consiglio che “Nel processo amministrativo la
regolazione delle spese giudiziali non richiede, in via generale, una ampia
motivazione, posto che esse, per principio generale, seguono la soccombenza
(art. 91 c.p.c.), ovvero si tratta di evenienza emergente dalla stessa
sentenza (soccombenza reciproca trattata, mutamento della giurisprudenza),
ponendosi invece un onere di più specifica motivazione laddove la
regolazione delle spese prescinda dalla vittoria in giudizio e risponda ad
esigenze differenti (art. 92 comma 1, c.p.c.); comunque resta fermo che, in
sede di regolazione delle spese, il giudice è attributario di ampia
discrezionalità, da esercitarsi nella considerazione, oltre che della
intervenuta soccombenza, degli ulteriori elementi indicati dagli artt. 91 ss.,
c.p.c., cui rinviano gli artt. 26, 39 e 88 c.p.a.” (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 28.07.2016, n. 3430)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 07.11.2019 n. 7616 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull’illegittimità
dell’ordine demolitorio di una "pergotenda" in quanto non necessitante di alcuna
preventiva autorizzazione né di natura urbanistico-edilizia né di natura
paesaggistico-ambientale.
La copertura di cui si discute è costituita dai seguenti
elementi:
- una tenda flessibile sorretta da profili longitudinali in profilo di
alluminio elettrocolorato bianco che consentono l’impacchettamento della
stessa durante la sua chiusura;
- n. 4 elementi binari obliqui in profilato metallico elettrocolorato
bianco, che hanno la funzione di far scorrere la tenda, per tutta la sua
superficie;
- n. 6 pilastrini di cm. 10 x 10 di larghezza, in profilato metallico
elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di sostenere le travi orizzontali di
spess. cm. 10 x 10 ed i binari obliqui sopra descritti. Tali travi
orizzontali hanno il duplice scopo di far poggiare il cassonetto per lo
scorrimento delle tende laterali verticali del registro superiore nonché di
essere elemento su cui sono fissate le tende perimetrali verticali del
registro inferiore;
- n. 2 pilastrini di cm. 3 x 10, fissati al muro perimetrale di divisione
con lo spazio interno, di altezza pari a mt. 3,70, in profilato metallico
elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di essere guida per le tende
perimetrali verticali del registro inferiore.
Orbene, l’opera de qua è qualificabile in termini di “pergotenda” in quanto opera
“precaria”, sia dal punto di vista costruttivo –tanto da essere facilmente
rimuovibile- che funzionale.
Siffatta opera è, inoltre, caratterizzata
dalla inequivocabile prevalenza dell’elemento “tenda” -peraltro
perfettamente retraibile e, quindi, priva di elementi di fissità, stabilità
e permanenza- rispetto alla “servente” struttura metallica di sostegno; una
struttura che, a ben vedere, risulta quasi mimetizzata dalla preesistente
balaustra metallica condominiale, con conseguente esclusione di
significative alterazioni dei prospetti e della sagoma dell’edificio.
Quanto sopra trova conforto in quel consolidato orientamento del
Consiglio di Stato, pienamente condiviso dal Collegio, secondo cui “Per
configurare una c.d. "pergotenda", in quanto tale non necessitante di titolo
abilitativo, occorre che l'opera principale sia costituita non dalla
struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o
dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve
qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all'estensione della tenda; non è invece configurabile una pergotenda se
la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da
determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio”.
Ed ancora: “L'installazione sul terrazzo di un'unità abitativa proprietaria
-non soggetta a vincolo paesaggistico- di una struttura realizzata con
teli facilmente amovibili in materiale plastico, utilizzati sia per la
copertura che per le chiusure laterali, sostenuta da elementi leggeri in
alluminio anodizzato ancorati al muro e destinata a rendere meglio vivibile
lo spazio esterno in cui è collocata, costituisce una "pergotenda", ovvero
un'opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur
non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessita di
titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della sua funzione. L'opera principale non è,
infatti, l'intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal
sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l'intelaiatura
medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al
sostegno e all'estensione della tenda. Quest'ultima, poi, integrata alla
struttura portante, non può considerarsi una "nuova costruzione", anche
laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che
essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche
tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante
trasformazione del territorio"..
La piena qualificabilità dell’intervento in questione in termini di
“pergotenda” determina, innanzitutto, la riconducibilità dello stesso
nell’ambito della cd. attività edilizia di cui all’art. 6, comma 1, lett.
e-quinquies), D.P.R. n. 380/2001 e all’all. 1 del D.M. 02.03.2018, la cui
realizzazione non necessita del preventivo rilascio di un provvedimento abilitativo di natura urbanistico-edilizia, attesa l’assenza di qualsivoglia
alterazione dell’assetto del territorio, considerata la mancata creazione di
nuovi volumi ovvero superfici.
Inoltre, siffatta pergotenda, la cui struttura di sostegno è priva di
parti in muratura nonché di stabili fissaggi al pavimento (“non si
riscontrano viti e/o bulloni di fissaggio al pavimento” afferma il
verificatore), giusta il disposto di cui al comma 1, lett. a), dell’art. 149 D.lgs. n. 42/2004, non necessita nemmeno del preventivo assenso
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, in
quanto opera “di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che”, per come sopra chiarito, “non
altera lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici”.
Ed invero, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 31/2017 che richiama
l’allegato A del medesimo decreto -avente natura regolamentare attuativa
della disposizione primaria di cui al sopra citato art. 149 D.lgs. n.
42/2004- non sono soggette ad autorizzazione paesaggistica le
“installazioni esterne poste a corredo di attività economiche quali esercizi
di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, costituite da elementi
facilmente amovibili quali tende, pedane, paratie laterali frangivento,
manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di
copertura, e prive di parti in muratura o strutture stabilmente ancorate al
suolo”.
---------------
1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato, la
società ricorrente, quale proprietaria di un ristobar sito alla via
..., n. 4/A del Comune di Salerno, in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico ambientale, ove la stessa esercita l’attività di
somministrazione di bevande e alimenti, ha impugnato l’ordinanza n. 64 del 07.12.2017, con cui il Comune di Salerno, ai sensi dell’art. 27, comma 2,
D.P.R. n. 380/2001, le ha ingiunto la demolizione di una struttura in P.V.C.,
bullonata a terra alla ringhiera ed al muro, con tenda di tipo elettrico con
chiusura ad impacchettamento e pannelli di pellicola trasparenti a caduta di
tipo "cristal", avente dimensioni di base mt. 10.80 X 6.20 ed altezza
variabile da mt. 2.60 a mt. 3.70 circa, realizzata sul terrazzo a livello
del fronte est del fabbricato.
2. Il gravame risulta affidato ai motivi di diritto appresso sintetizzati e
raggruppati per censure omogenee.
...
L’intervento edilizio oggetto di demolizione sarebbe qualificabile in
termini di “pergotenda” e, come tale, rientrerebbe nell’ambito di
operatività dell’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), D.P.R. n. 380/2001 (cd.
attività edilizia libera) e dell’allegato A al D.M. 02.03.2018, per la cui
realizzazione non sarebbe necessario nessun provvedimento abilitativo di
natura urbanistico-edilizia, attesa l’assenza di qualsivoglia alterazione
dell’assetto del territorio.
Inoltre, siffatta pergotenda non necessiterebbe del preventivo assenso
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, in
quanto opera “di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che non altera lo stato dei luoghi e
l'aspetto esteriore degli edifici” ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.lgs. n. 42/2004 e dell’art. 2 D.P.R. n. 31/2017 e relativo allegato A, sub
A.17.
...
6. Il ricorso è fondato.
7. L’intervento edilizio oggetto di causa è stato posto in essere dalla
ricorrente nel terrazzo esterno all’unità immobiliare ove quest’ultima
esercita l’attività di somministrazione di bevande e alimenti.
7.1 Siffatto terrazzo, per come ictu oculi evincibile dalla stessa
documentazione fotografica ritraente lo stato di fatto preesistente, risulta
ex se delimitato da una balaustra condominiale (cfr. foto n. 4 allegata alla
relazione di verificazione depositata in data 06.06.2018), costituita da una
struttura metallica di colore grigio che funge da ringhiera, fissata al
pavimento per il mezzo di piastre metalliche bullonate, la cui altezza è di
poco inferiore alla linea di gronda dell’opera oggetto di causa (cfr.
verificazione e fotografie allegate nr. 11 e 13).
7.2 Ciò premesso, per come accertato dal Verificatore, l’intervento edilizio
in questione, realizzato nel contesto sopra descritto, è costituito da una
tenda che copre l’intero spazio esterno, composta da un telo flessibile in
materiale plastico di colore bianco che, mediante un sistema elettrificato,
scorre in binari laterali (cfr. foto 8, 9 e 10) poggianti sulle travi
perimetrali in profilo metallico elettrocolorato bianco (cfr. foto 6 e 9),
quest’ultime collegate ai pilastrini (cfr. foto 11), anch’essi in profilo
metallico di colore bianco.
7.3 Più precisamente, la copertura di cui si discute è costituita dai
seguenti elementi:
- una tenda flessibile sorretta da profili longitudinali in profilo di
alluminio elettrocolorato bianco che consentono l’impacchettamento della
stessa durante la sua chiusura;
- n. 4 elementi binari obliqui in profilato metallico elettrocolorato
bianco, che hanno la funzione di far scorrere la tenda, per tutta la sua
superficie;
- n. 6 pilastrini di cm. 10 x 10 di larghezza, in profilato metallico
elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di sostenere le travi orizzontali di
spess. cm. 10 x 10 ed i binari obliqui sopra descritti. Tali travi
orizzontali hanno il duplice scopo di far poggiare il cassonetto per lo
scorrimento delle tende laterali verticali del registro superiore nonché di
essere elemento su cui sono fissate le tende perimetrali verticali del
registro inferiore;
- n. 2 pilastrini di cm. 3 x 10, fissati al muro perimetrale di divisione
con lo spazio interno, di altezza pari a mt. 3,70, in profilato metallico
elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di essere guida per le tende
perimetrali verticali del registro inferiore.
8. Orbene, l’opera de qua, per come dedotto dal ricorrente con i motivi di
gravame sub I, II e VII, il cui accoglimento determina l’assorbimento di
tutti gli altri, è qualificabile in termini di “pergotenda” in quanto opera
“precaria”, sia dal punto di vista costruttivo –tanto da essere facilmente
rimuovibile- che funzionale.
Siffatta opera è, inoltre, caratterizzata
dalla inequivocabile prevalenza dell’elemento “tenda” -peraltro
perfettamente retraibile e, quindi, priva di elementi di fissità, stabilità
e permanenza- rispetto alla “servente” struttura metallica di sostegno; una
struttura che, a ben vedere, risulta quasi mimetizzata dalla preesistente
balaustra metallica condominiale, con conseguente esclusione di
significative alterazioni dei prospetti e della sagoma dell’edificio.
8.1 Quanto sopra trova conforto in quel consolidato orientamento del
Consiglio di Stato, pienamente condiviso dal Collegio, secondo cui “Per
configurare una c.d. "pergotenda", in quanto tale non necessitante di titolo
abilitativo, occorre che l'opera principale sia costituita non dalla
struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o
dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve
qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all'estensione della tenda; non è invece configurabile una pergotenda se
la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da
determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio”
(così Consiglio di Stato sez. IV, 01/07/2019, n. 4472).
Ed ancora: “L'installazione sul terrazzo di un'unità abitativa proprietaria
-non soggetta a vincolo paesaggistico- di una struttura realizzata con
teli facilmente amovibili in materiale plastico, utilizzati sia per la
copertura che per le chiusure laterali, sostenuta da elementi leggeri in
alluminio anodizzato ancorati al muro e destinata a rendere meglio vivibile
lo spazio esterno in cui è collocata, costituisce una "pergotenda", ovvero
un'opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur
non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessita di
titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della sua funzione. L'opera principale non è,
infatti, l'intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal
sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l'intelaiatura
medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al
sostegno e all'estensione della tenda. Quest'ultima, poi, integrata alla
struttura portante, non può considerarsi una "nuova costruzione", anche
laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che
essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche
tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante
trasformazione del territorio” (così Consiglio di Stato sez. VI, 03/04/2019,
n. 2206; in termini, Consiglio di Stato sez. VI, 09/07/2018, n. 4177; Cons.
Stato, Sez. VI, 25.12.2017 n. 306, Id., Sez. VI, 27.04.2016 n.
1619).
9. La piena qualificabilità dell’intervento in questione in termini di
“pergotenda” determina, innanzitutto, la riconducibilità dello stesso
nell’ambito della cd. attività edilizia di cui all’art. 6, comma 1, lett.
e-quinquies), D.P.R. n. 380/2001 e all’all. 1 del D.M. 02.03.2018, la cui
realizzazione non necessita del preventivo rilascio di un provvedimento abilitativo di natura urbanistico-edilizia, attesa l’assenza di qualsivoglia
alterazione dell’assetto del territorio, considerata la mancata creazione di
nuovi volumi ovvero superfici.
9.1 Inoltre, siffatta pergotenda, la cui struttura di sostegno è priva di
parti in muratura nonché di stabili fissaggi al pavimento (“non si
riscontrano viti e/o bulloni di fissaggio al pavimento” afferma il
verificatore), giusta il disposto di cui al comma 1, lett. a) dell’art. 149 D.lgs. n. 42/2004, non necessita nemmeno del preventivo assenso
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, in
quanto opera “di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che”, per come sopra chiarito, “non
altera lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici”.
9.2 Ed invero, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 31/2017 che richiama
l’allegato A del medesimo decreto -avente natura regolamentare attuativa
della disposizione primaria di cui al sopra citato art. 149 D.lgs. n.
42/2004- non sono soggette ad autorizzazione paesaggistica le
“installazioni esterne poste a corredo di attività economiche quali esercizi
di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, costituite da elementi
facilmente amovibili quali tende, pedane, paratie laterali frangivento,
manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di
copertura, e prive di parti in muratura o strutture stabilmente ancorate al
suolo”.
10. Da quanto sopra consegue l’illegittimità dell’ordine demolitorio
ingiunto dal Comune di Salerno, sull’erroneo presupposto del carattere
abusivo dell’intervento in questione che, invece, si appalesa legittimo, per
come dedotto dalla ricorrente, in quanto non necessitante di alcuna
preventiva autorizzazione né di natura urbanistico-edilizia né di natura
paesaggistico-ambientale.
11. In conclusione, il ricorso è fondato e, per l’effetto, deve essere
accolto, con conseguente annullamento dell’ordinanza n. 64 del 7.12.2017
adottata dal Comune di Salerno
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 07.11.2019 n. 1934 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di opere precarie – Installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni,
tettoie – Disciplina autorizzatoria – Fattispecie: gazebo
aperto, facilmente smontabili su ruote e carattere non
precario del manufatto – Ordine di demolizione – Artt. 3,
6-bis, 64 e 71, 65 e 72, 93 e 95 d.P.R. n. 380/2001 –
Giurisprudenza.
Al fine di farle rientrare, un manufatto
nella nozione di edilizia libera, di cui all’art. 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le opere di cui si
tratta non solo siano comunque realizzate in conformità con
i vigenti strumenti urbanistici (cfr., infatti, l’art. 6 del
d.P.R. n. 380 cit. in principio), ma è anche necessario che
esse consistano in sole opere destinate a soddisfare
esigenze temporanee e contingenti e suscettibili di essere
rimosse al cessare della necessità che le ha determinate
(Cass. Sez. 3, n. 27528 del 08/03/2019, Serio; cfr. in tema
di affermata precarietà del manufatto, Sez. 3, n. 36107 del
30/06/2016, Arrigoni e altro).
Sicché, tra gli interventi di nuova
costruzione rientrano i manufatti non precari, ma funzionali
a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come
idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro
incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il
manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è
deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato
ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo
(in specie in quanto stagionale, così Cons. Stato Sez. VI n.
2842 del 03/06/2014).
In definitiva quindi la precarietà non può
essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale
dell’opera ad un uso realmente precario e temporaneo per
fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con
conseguente possibilità di successiva e sollecita
eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua
rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.11.2019 n. 44955 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di nuova costruzione – Nozione di costruzione –
Destinazione del bene ad essere utilizzato come bene
immobile – Permesso di costruire – Assenza degli elementi di
assoluta precarietà.
Sono da considerare interventi di nuova
costruzione, quindi soggetti a permesso di costruire, tutte
le strutture, di qualsiasi genere, tra le quali quelle
elencate a titolo di esempio, dall’art. 3, alla lettera e5)
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che siano destinate ad una
stabile utilizzazione, non meramente transitoria.
L’esplicita menzione di detta tipologia di interventi ha
così codificato la figura giuridica di “costruzione”, nella
quale rientrano tutti quei manufatti che, comportando una
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio
comunale, modificano lo stato dei luoghi, in quanto,
difettando obiettivamente del carattere di assoluta
precarietà, sono destinati almeno potenzialmente a perdurare
nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a riguardo la
distinzione tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo
tecnico con cui sia assicurata la stabilità del manufatto al
suolo (o al muro perimetrale di quello esistente), in quanto
la stabilità non va confusa con l’irrevocabilità della
struttura, o con la perpetuità della funzione ad essa
assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell’oggettiva
destinazione dell’opera a soddisfare un bisogno non
temporaneo.
Né risulta determinante l’incorporazione nel suolo
indispensabile per identificare il bene immobile, essendo
sufficiente la destinazione del bene ad essere utilizzato
come bene immobile (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.11.2019 n. 44955 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Sul
ricorso dell'A.C. dove si richiede l’accertamento del diritto della stessa
Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della convenzione
urbanistica affinché il sottoscrittore sia condannato ad adempiere alle obbligazioni rimaste inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le
opere di urbanizzazione rimaste incompiute.
Con riferimento a detta azione di accertamento va
confermata la giurisdizione del G.A. in ossequio ad un costante orientamento
giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove
ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in
un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche
tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò,
considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di ottenere
l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve
ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non
seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla
quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la
costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia
in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere
ex lege”.
Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la
giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo,
eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione
edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di
regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la
conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in
controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.
Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è
utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione
discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi
titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n.
1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di
un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del
proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini
prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione secondaria).
---------------
Di recente si avuto modo di confermare che, in caso di mancata esecuzioni di
lavori inerenti la realizzazione di un piano di lottizzazione di iniziativa
privata, l'Amministrazione può agire dinanzi al Giudice amministrativo,
competente in via esclusiva per la materia (atteso che agli accordi
amministrativi de quo si applicano le disposizioni civilistiche in materia
di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932 c.c. onde accertare
l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il trasferimento delle aree
destinate a cessione gratuita.
E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è
legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative,
costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa
sostanziale dedotta in giudizio.
---------------
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte
del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della
L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente
alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n. 847 del 1967-
che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la
cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le
opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della L.
29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di urbanizzazione si
registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la
conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del
T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della
relativa proprietà”.
Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato
la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di
concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della
proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico
territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio
indisponibile (art. 16, comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e, ciò, ad ulteriore
riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica.
In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una
presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che
per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non
può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà.
---------------
1. Il ricorso è da accogliere.
1.1 In primo luogo è necessario precisare come il ricorso di cui si tratta
vede quale parte attrice l’Amministrazione comunale, nell’ambito di un
giudizio c.d. a parti invertite, dove si richiede l’accertamento del diritto
della stessa Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della
Convenzione del 2009 sottoscritta con la società Ca. del Po., affinché quest’ultima sia condannata ad adempiere alle obbligazioni rimaste
inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le
opere di urbanizzazione rimaste incompiute entro il 10.12.2013.
1.2 Con riferimento a detta azione di accertamento va confermata la
Giurisdizione di questo Tribunale, in ossequio ad un costante orientamento
giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove
ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in
un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche
tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò,
considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di
ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto,
deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare
non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla
quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la
costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia
in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere
ex lege (Cass. n. 6792 del 08/08/1987; Cass. n. 7157 del 15/04/2004; Cass.
n. 13403 del 23/05/2008)”.
1.3 Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la
giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo,
eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione
edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di
regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la
conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in
controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Cass. civ., Sez.
Un., 12.11.2001, n. 14031; 29.01.2001, n. 29; 20.04.2007, n. 9360)”.
1.4 Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è
utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione
discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi
titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n.
1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di
un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del
proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini
prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione secondaria).
1.5 Anche questo Tribunale di recente ha avuto modo di confermare che, in
caso di mancata esecuzioni di lavori inerenti la realizzazione di un piano
di lottizzazione di iniziativa privata, l'Amministrazione può agire dinanzi
al Giudice amministrativo, competente in via esclusiva per la materia
(atteso che agli accordi amministrativi de quo si applicano le disposizioni
civilistiche in materia di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932
c.c. onde accertare l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il
trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita (TAR Toscana Firenze
Sez. III, 17/01/2018, n. 68).
1.6 E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è
legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative,
costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa
sostanziale dedotta in giudizio.
1.7 Applicando detti principi è evidente la fondatezza dell’attuale ricorso.
E’ dirimente constatare che l’art. 1 della convenzione del 2009 impegnava la
società lottizzante a realizzare le previsioni del piano attuativo approvato
con deliberazione del Consiglio Comunale n. 12 del 20/03/2002 e, quindi, a
eseguire le opere di urbanizzazione primaria e secondaria e, da ultimo a
cedere gratuitamente entro il 20/12/2013 le aree destinate alla
realizzazione delle onere di urbanizzazione e secondaria.
1.8 Si consideri, inoltre, che il Comune, con sopralluogo tecnico del
15.04.2010, aveva avuto modo di verificare l’effettiva realizzazione del
primo stralcio delle opere di urbanizzazione primaria, oggetto della prima
concessione edilizia n. 15 del 2004, svincolando parzialmente la garanzia
fideiussoria.
1.9 L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da
parte del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28
della L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo
conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n.
847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare,
comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo
4 della L. 29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione
l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di
urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà
pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata
in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai
privati della relativa proprietà (TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n.
2815; TAR Calabria Catanzaro, Sezione I, 09.03.2012 n. 245)”.
2. Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha
confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal
contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al
passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo
all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza
nel patrimonio indisponibile (art. 16 comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e,
ciò, ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione
pubblica.
2.1 In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una
presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la
conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del
T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della
relativa proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.11.2019 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Sanzioni penali.
Si è soliti identificare due distinte
fattispecie di lottizzazione:
- la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste
“materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla
trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata
in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e
dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare
globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto,
di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione;
devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R.
n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di
salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di
controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del
corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa
in rapporto agli standards apprestabili;
- l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “cartolare”
quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e
la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e
alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in
rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II,
20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una
lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro
del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta
anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti;
- va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per
configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di
buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato
oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del
territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri
danti causa;
- è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie.
---------------
Quanto all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli
immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che
l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale
rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante
può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex
ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia
successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria.
Su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva
tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente,
non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente
lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione
allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo
complesso.
---------------
Ritenuto in diritto che:
- la sentenza di primo grado deve essere confermata;
- § in termini generali, l’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, in
applicazione del quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, prevedono che
si abbia «lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando
vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia
dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale
trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o
atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche
quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la
eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi
riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio»;
- a partire da tale disposizione si è soliti identificare due distinte
fattispecie di lottizzazione;
- la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste
“materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla
trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata
in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e
dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare
globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto,
di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione;
devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R.
n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di
salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di
controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del
corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa
in rapporto agli standards apprestabili (Consiglio di Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416);
- l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “cartolare”
quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e
la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e
alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in
rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II,
20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una
lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro
del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta
anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti. (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108);
- va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per configurare
la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala
fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo
dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio,
fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa
(Consiglio Stato, sez. IV, 08.01.2016 n. 26);
- è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie (Consiglio di Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196);
- § applicando le coordinate ermeneutiche appena passate in rassegna, nel
caso di specie deve ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione
abusiva materiale in relazione alle circostanze di fatto, desumibili da
tutti gli accertamenti effettuati, e segnatamente: il numero dei fabbricati;
il frazionamento della gran parte di essi in separate unità immobiliari;
l’insistenza in loco di due locali a vocazione commerciale;
- tali elementi, letti unitariamente, dimostrano la trasformazione del
terreno a fini residenziali, in contrasto con la normativa urbanistica;
- § l’imputabilità della suddetta lottizzazione materiale realizzata in via
... in capo al Ca. è stata poi correttamente desunta dalla
seguenti evidenze:
i) in primo luogo il signor Ca.Sa. risultava sempre presente nel
terreno oggetto dell’intervento edilizio (quando in data 23.04.2007
operanti di P.G. accertavano l’esecuzione di opere edilizie tali da
determinare la trasformazione urbanistica del terreno a fini residenziali;
quando in data 18.05.2007, alla presenza del Ca., si svolgeva un
sopralluogo, all’esito del quale emergeva la presenza, in totale, di 11
fabbricati, ospitanti 29 alloggi e 2 locali commerciali, analiticamente
descritti);
ii) il sig. Ca.Sa. risultava altresì destinatario di ogni atto per la
sospensione dei lavori emesse dal Comune di Cerveteri già a partire dal
1995;
iii) le richieste del titolo abilitativo in sanatoria del 25.03.2005, 09.09.2004 e del 10.12.2004 risultano sempre presentate dal Sig.
Ca.Sa. e dalla Sig.ra An.Ka.;
- a confermare il diretto coinvolgimento quale autore del Sig. Ca.Sa.
nell’abusiva attività edilizia sanzionata è poi dirimente la circostanza che
il giorno 18 maggio lo stesso –titolare fin dal 2003 di procura
irrevocabile a vendere avente ad oggetto il terreno, rilasciatagli dai
proprietari Ce. e Ma.– lo alienava, in nome e per conto di questi
ultimi, alla s.r.l. con unico socio So.ag.fo. La Ti.
de. Ma., anch’essa costituita quello stesso giorno dall’Anello, che
interveniva nell’atto quale rappresentante legale dell’acquirente;
- § sotto altro profilo, essendo stato il signor Ca. identificato anche
quale responsabile materiale degli abusi in questione (come tale
autonomamente soggetto all’ordine di sospensione dei lavori), non coglie nel
segno il motivo di impugnazione incentrato sulla mancata notificazione
dell’ordinanza ai proprietari Ce. e Ma.;
- l’ulteriore obiezione relativa alla mancata realizzazione delle opere di
urbanizzazione è anch’essa priva di fondamento, giacché la mancata
esecuzione delle opere di urbanizzazione non vale ad elidere l’illecito
contestato;
- § quanto poi all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli
immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che
l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale
rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante
può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex
ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia
successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115);
- su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva
tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente,
non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente
lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione
allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo
complesso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381;
Consiglio di Stato sez. II, 07.08.2019, n. 5607);
- a ciò si aggiunge che, come già affermato dal giudice di prime cure, la
censura è stata dedotta genericamente in quanto non accompagnata
dall’identificazione degli immobili che sarebbero stati “sanati”;
- § per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 04.11.2019 n. 7530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
deve comportarsi l'amministrazione in caso di interventi edilizi realizzati
sulla base di un permesso di costruire poi annullato?
Circa la corretta interpretazione dell’art. 38 d.P.R. n.
380/2001 si è statuito che:
- secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa, la disciplina dettata dall’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 si
ispira a un principio di tutela degli interessi del privato, prevedendo un
regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi a un titolo
abilitativo successivamente rimosso, rispetto agli altri interventi abusivi
eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo (o in parziale difformità) e
al trattamento ordinariamente previsto per tali ipotesi (dagli artt. 31,
comma 2, 33 e 34 d.P.R. n. 380/2001), per tutelare un certo affidamento del
privato basato sulla presunzione di legittimità ed efficacia del titolo
assentito;
- a tal fine, l’amministrazione è tenuta a verificare se i vizi formali o
sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente
possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari,
e, in presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l’atto, la
disposizione all’esame (art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001) prevede che
«l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i
medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo
36»;
- la richiamata disciplina prevede dunque i seguenti possibili rimedi:
i) la
sanatoria della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei
vizi della procedura amministrativa, con la conseguenza che, in tal caso,
non si applica alcuna sanzione edilizia;
ii) nei casi in cui non sia
possibile la sanatoria mediante la rimozione di vizi di natura
procedimentale, in quanto ricorrono vizi di natura sostanziale,
l’amministrazione è, in linea di principio, bensì tenuta ad applicare la
sanzione ripristinatoria, ma, «qualora [questa] non sia possibile, in base a
motivata valutazione […], applica una sanzione pecuniaria pari al valore
venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite [ossia, eseguite sulla
base del titolo annullato; n.d.e.], valutato dall’agenzia del territorio»;
- secondo l’interpretazione della norma, coerente alla ricordata ratio, il
concetto di impossibilità di ripristino non va inteso esclusivamente come
impossibilità tecnica –ciò, a differenza dalla previsione del precedente
art. 34, comma 2, laddove è espressamente specificato che l’impossibilità
della demolizione ricorre solo qualora questa non possa avvenire «senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità», prevedendo dunque
un’ipotesi di esclusiva impossibilità tecnica–, ma involge anche una
componente valutativa di opportunità/equità, improntata al bilanciamento
dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata con le
posizioni giuridiche soggettive del privato che incolpevolmente abbia
confidato nella legittimità dell’esercizio del potere amministrativo;
- deve dunque ritenersi che la scelta di escludere la sanzione demolitoria,
laddove adeguatamente motivata e aderente, in termini di coerenza, alle
indicazioni contenute nella pronuncia di annullamento (onde non incorrere
nella violazione dei principi della separazione dei poteri e di effettività
della tutela giurisdizionale dei ricorrenti vittoriosi), appare in astratto
–laddove possibile– quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi
coinvolti nella singola controversia e del principio di proporzionalità
dell’azione amministrativa, di diretta derivazione eurounitaria, e che
quindi, nel caso di opere realizzate sulla base di un titolo edilizio
annullato, la loro demolizione deve essere considerata quale extrema ratio.
---------------
1. Con la sentenza in epigrafe, il Tar per il Veneto respingeva il
ricorso n. 1877 del 2013, proposto dagli odierni appellanti –nella loro
qualità di proprietari, nel Comune di Malcesine, di immobili situati in riva
al Lago di Garda, posti a confine, sul lato nord e sud, con l’Hotel Ve.
di proprietà del controinteressato Ma.Da., all’interno della fascia
compresa fra la sponda del lago e viale Roma– avverso il provvedimento n.
14870 del 17.10.2013, con il quale il Comune di Malcesine aveva
applicato al controinteressato la sanzione pecuniaria amministrativa di euro
143.035,00 ai sensi dell’art. 38 d.P.R. n. 380/2001, in luogo della
demolizione, e il provvedimento successivo n. 16317 del 20.11.2013,
con il quale lo stesso Comune aveva dato atto del pagamento di tale sanzione
e dichiarato «ad ogni effetto sanata» la corrispondente opera, realizzata
sulla base di permesso di costruire annullato in sede giudiziale.
1.1. In precedenza, nel dicembre del 2011, l’amministrazione comunale aveva
rilasciato al controinteressato il permesso di costruire n. 84/2011, sulla
cui base erano stati realizzati una serie di interventi di ristrutturazione
e ampliamento dell’albergo (sulla base della c.d. legge casa della Regione
Veneto), sia sul fronte lago che lungo i lati confinanti con le proprietà
degli odierni appellanti.
1.2. Su ricorso proposto da questi ultimi avverso il menzionato permesso di
costruire, il Tar per il Veneto con la sentenza n. 642/2012, confermata
in sede di appello dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 5620/2012,
aveva annullato il premesso di costruire.
Nelle more del giudizio di primo grado i lavori erano stati ultimati (agli
inizi del 2012).
1.3. L’amministrazione comunale dava esecuzione alle sentenze di
annullamento del titolo edilizio, intimando con atto del 27.12.2012 la
riduzione in pristino dell’ampliamento realizzato con il permesso di
costruire annullato entro il termine di 90 giorni, salva, in caso di
inottemperanza, l’acquisizione gratuita dell’immobile.
1.4. Sopravveniva, tuttavia, la richiesta del proprietario dell’Hotel
Venezia di applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38
d.P.R. 380/2001, in quanto l’esecuzione dell’ordine di demolizione delle
opere realizzate in forza del titolo annullato avrebbe compromesso la
porzione dell’edificio preesistente.
A suffragio di tale istanza veniva presentata una perizia di parte, redatta
dall’ing. Du..
Gli odierni appellanti, informati dell’istanza, provvedevano a loro volta a
presentare all’amministrazione una perizia, redatta dalla prof.ssa Mu.,
con la quale veniva contestata l’impossibilità di dare esecuzione all’ordine
di ripristino senza compromettere la parte preesistente all’intervento.
Il Comune di Malcesine dava quindi incarico a un perito terzo (il prof.
Mo.), affinché venisse valutato lo stato delle opere realizzate e al fine
di verificare le risultanze della perizia depositata a sostegno della
richiesta di applicazione della sanzione pecuniaria, richiedendo altresì
all’Agenzia delle Entrate di provvedere alla stima del valore delle opere
realizzate in base al permesso annullato.
All’esito degli accertamenti effettuati, il Comune si determinava in termini
favorevoli alla richiesta del proprietario, dichiarando che la demolizione
delle opere realizzate in forza del permesso di costruire annullato avrebbe
potuto compromettere la porzione dell’edificio alberghiero precedentemente
realizzata.
Conseguentemente, con provvedimento del 17.10.2013 veniva calcolata la
sanzione pecuniaria da corrispondere ai sensi dell’art. 38, nell’ammontare
di euro 143.035,00.
Quindi, dato atto del versamento effettuato dall’interessato, con
provvedimento del 20.11.2013 il Comune dichiarava sanato ad ogni
effetto l’intervento edilizio realizzato.
...
5. L’appello è infondato.
5.1. In reiezione del primo motivo d’appello, si osserva che l’impugnata
sentenza poggia su una corretta interpretazione dell’art. 38 d.P.R. n.
380/2001, in quanto:
- secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa (v.,
da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 28.11.2018, n. 6753; id., 09.04.2018, n. 2155), la disciplina dettata dall’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 si
ispira a un principio di tutela degli interessi del privato, prevedendo un
regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi a un titolo
abilitativo successivamente rimosso, rispetto agli altri interventi abusivi
eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo (o in parziale difformità) e
al trattamento ordinariamente previsto per tali ipotesi (dagli artt. 31,
comma 2, 33 e 34 d.P.R. n. 380/2001), per tutelare un certo affidamento del
privato basato sulla presunzione di legittimità ed efficacia del titolo
assentito;
- a tal fine, l’amministrazione è tenuta a verificare se i vizi formali o
sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente
possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari,
e, in presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l’atto, la
disposizione all’esame (art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001) prevede che
«l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i
medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo
36»;
- la richiamata disciplina prevede dunque i seguenti possibili rimedi:
i) la
sanatoria della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei
vizi della procedura amministrativa, con la conseguenza che, in tal caso,
non si applica alcuna sanzione edilizia;
ii) nei casi in cui non sia
possibile la sanatoria mediante la rimozione di vizi di natura
procedimentale, in quanto ricorrono vizi di natura sostanziale,
l’amministrazione è, in linea di principio, bensì tenuta ad applicare la
sanzione ripristinatoria, ma, «qualora [questa] non sia possibile, in base a
motivata valutazione […], applica una sanzione pecuniaria pari al valore
venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite [ossia, eseguite sulla
base del titolo annullato; n.d.e.], valutato dall’agenzia del territorio»;
- secondo l’interpretazione della norma, coerente alla ricordata ratio, il
concetto di impossibilità di ripristino non va inteso esclusivamente come
impossibilità tecnica –ciò, a differenza dalla previsione del precedente
art. 34, comma 2, laddove è espressamente specificato che l’impossibilità
della demolizione ricorre solo qualora questa non possa avvenire «senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità», prevedendo dunque
un’ipotesi di esclusiva impossibilità tecnica–, ma involge anche una
componente valutativa di opportunità/equità, improntata al bilanciamento
dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata con le
posizioni giuridiche soggettive del privato che incolpevolmente abbia
confidato nella legittimità dell’esercizio del potere amministrativo;
- deve dunque ritenersi che la scelta di escludere la sanzione demolitoria,
laddove adeguatamente motivata e aderente, in termini di coerenza, alle
indicazioni contenute nella pronuncia di annullamento (onde non incorrere
nella violazione dei principi della separazione dei poteri e di effettività
della tutela giurisdizionale dei ricorrenti vittoriosi), appare in astratto
–laddove possibile– quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi
coinvolti nella singola controversia e del principio di proporzionalità
dell’azione amministrativa, di diretta derivazione eurounitaria, e che
quindi, nel caso di opere realizzate sulla base di un titolo edilizio
annullato, la loro demolizione deve essere considerata quale extrema ratio.
5.2. Posta con ciò la corretta interpretazione, nell’impugnata sentenza,
della previsione normativa di cui all’art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001,
si osserva che destituiti di fondamento sono anche i motivi d’appello sub
2.b) e 2.c), tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente, avendo
l’amministrazione comunale fatto corretta applicazione delle sopra enunciate
coordinate ermeneutiche alla fattispecie sub iudice, non incorrendo nei
dedotti vizi di difetto d’istruttoria e di travisamento dei fatti,
correttamente esclusi dal Tar.
Infatti, nel caso di specie il Comune nell’atto gravato del 17.10.2013,
per un verso ha richiamato la motivazione posta a base del rilascio
provvisorio del certificato di agibilità, in attesa della definizione del
procedimento ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 di ‘conversione’ della sanzione ripristinatoria in sanzione pecuniaria avviato su istanza del proprietario
dell’Hotel Ve. –motivazione, per cui l’opera non era difforme dal
progetto autorizzato, «l’antigiuridicità del costruito deriva[va]
dall’annullamento in sede giurisdizionale del titolo autorizzatorio», ed era
stata offerta «garanzia del mantenimento dell’offerta turistica e dei
livelli occupazionali»–, e, per altro verso, ha richiamato le conclusioni
cui era pervenuta la relazione tecnica conclusiva del prof. Mo., svolta
in contraddittorio con i periti di parte ing. Du. (incaricato dal signor
Ma.) e prof.ssa Mu. (incaricata dai signori Za.), del seguente
tenore: «Il quesito rivoltomi era se nel caso sia possibile la demolizione
delle opere realizzate in forza del permesso di costruire annullato senza
pregiudizio della preesistente parte conforme. Anche dopo aver letto la
perizia della prof. Mu. confermo che, a mio giudizio, l’intervento di
demolizione della parte costruita in virtù del rilasciato permesso di
costruzione poi annullato senza un complesso intervento di modifica
strutturale dell’edificio preesistente la cui struttura è stata modificata
dai nuovi lavori, potrebbe provocare crolli nella parte preesistente».
Ebbene, ritiene il Collegio che il provvedimento comunale di applicazione
delle sanzioni pecuniarie ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 si basa su una
motivazione che prende in debita considerazione tutti gli interessi
coinvolti, rilevanti ai fini della decisione sulla ‘conversione’ della
sanzione demolitoria in sanzione pecuniaria e, al contempo, si basa su
un’approfondita istruttoria, in particolare sulla perizia del prof. Mo.
svolta in contraddittorio con i consulenti di parte e le cui conclusioni si
muovono nel rispetto dei limiti dell’attendibilità tecnico-scientifica del
settore dell’ingegneristica civile che qui viene in rilievo, non
ulteriormente sindacabili nel merito, con la conseguente superfluità di
disporre una consulenza tecnica d’ufficio nella presente sede giudiziale (la
quale equivarrebbe a una sostanziale duplicazione dell’istruttoria
procedimentale e, attraverso la ‘trasposizione’ del merito amministrativo
alla sede processuale, all’inammissibile sostituzione dell’organo
giurisdizionale, tramite l’ausiliario tecnico, all’amministrazione nel
compimento delle valutazioni discrezionali riservate a quest’ultima, le
quali peraltro, come innanzi esposto, nel caso specie sono di tipo misto e
non di mera natura tecnica).
Infatti, ritiene il Collegio che le censure
degli odierni appellanti involgano non già una mera contestazione di fatti
materiali –che, in tesi, potrebbe (e dovrebbe, a garanzia dell’effettività
del diritto di azione) essere risolta attraverso il ricorso ai mezzi di
prova ammessi nel processo amministrativo–, bensì una contestazione della
‘correttezza tecnica’ delle valutazioni peritali poste a base della
determinazione del Comune, sindacabile sub specie di eventuale violazione
dei limiti di attendibilità tecnico-scientifica, nella specie per le sopra
esposte ragioni da escludere; valutazioni tecniche, alle quali si aggiungono
le valutazioni discrezionali amministrative immanenti al giudizio di
‘conversione’ della sanzione ripristinatoria in una sanzione pecuniaria ai
sensi dell’art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, che per definizione sono
sottratte a un diretto sindacato di merito.
A ciò si aggiunge che, come correttamente dato atto nell’appellata sentenza,
alla luce della documentazione fotografica prodotta in giudizio
dall’originario controinteressato deve ritenersi comprovato che gli
interventi di ampliamento eseguiti sul fronte lago (attuati mediante
l’utilizzazione delle logge esistenti nella facciata dell’albergo e il
prolungamento dell’aggetto dei poggioli esistenti) siano stati
effettivamente ridotti allo stato pristino, con la conseguente infondatezza
del correlativo profilo di censura dedotto nell’ambito del terzo motivo
d’appello.
5.3. Per le considerazioni tutte sopra svolte, in reiezione dell’appello
s’impone la conferma dell’impugnata sentenza, con assorbimento di ogni altra
questione, ormai irrilevante ai fini decisori
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.11.2019 n. 7508 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratto di appalto.
Nella peculiare ipotesi di avvalimento "ad abundantiam" l'eventuale
inadeguatezza o invalidità dell'avvalimento -dichiarato in sede di gara-
non configura un mutamento della domanda di partecipazione, né
un'inammissibile contraddizione con quanto dichiarato nell'istanza, nel
momento in cui il concorrente prova di essere comunque in possesso dei
requisiti in relazione ai quali aveva dichiarato di far ricorso all'avvalimento.
---------------
Questa Sezione ha avuto modo di rilevare con la sentenza n. 4301 del 12.09.2017 richiamata dalle difese dell’Acquedotto Pugliese che “nella
peculiare ipotesi di avvalimento "ad abundantiam" l’eventuale inadeguatezza
o invalidità dell'avvalimento –dichiarato in sede di gara- non configura
un mutamento della domanda di partecipazione, né un'inammissibile
contraddizione con quanto dichiarato nell'istanza, nel momento in cui il
concorrente prova di essere comunque in possesso dei requisiti in relazione
ai quali aveva dichiarato di far ricorso all’avvalimento.”
Dunque la fattispecie non può essere configurata all’interno dei canoni
legislativi vigenti all’epoca dell’indizione della gara e quindi
nell’impossibilità di sostituire un’impresa ausiliaria cui era sopraggiunta
la perdita di uno o più requisiti di qualificazione, con la conseguenza
pressoché automatica dell’esclusione dell’offerta complessiva: l’avvalimento
era sotto il previgente codice dei contratti pubblici e tale è rimasto con
il d.lgs. 50 del 2016, un rinforzo o meglio ancora un’integrazione di
determinate capacità finanziarie o tecniche di un’impresa che intende
concorrere ad una pubblica gara e l’autonomia dei requisiti dell’ausiliato
rende inequivocabilmente irrilevante, anzi ininfluente volendo adottare
proprio i termini dell’appellante, la sussistenza di un avvalimento
dichiarato in offerta in aggiunta alle proprie capacità, di per sé
sufficienti rispetto a quanto richiesto dalle norme di gara.
Il fatto che il venire a mancare dei requisiti necessari dell’ausiliare in
corso di gara non può portare a differenti conclusioni, poiché i requisiti
sufficienti del concorrente o dei concorrenti riuniti in a.t.i. restano
sempre e comunque adeguati a quanto richiesto dal bando senza che le
modificazioni in peius vengano a portare conseguenze deteriori per il
concorrente.
Né a differenti conclusioni può giungersi sulla base dell’art. 37, comma 19,
del d.lgs. 163 del 2006 ed indicato proprio dall’appellante Bastone, per il
quale “In caso di fallimento di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti
di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione
o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa
antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico
subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è
tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché
questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o
forniture ancora da eseguire”
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 04.11.2019 n. 7498 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione
di un certificato di destinazione
urbanistica.
Secondo una consolidata
giurisprudenza, il
certificato di destinazione urbanistica, di
cui all’art. 30, commi 2 e ss., del D.P.R.
n. 380 del 2001, si configura come una
certificazione redatta da un pubblico
ufficiale, avente carattere meramente
dichiarativo e non costitutivo degli effetti
giuridici che dallo stesso risultano, visto
che la situazione giuridica attestata nel
predetto certificato è la conseguenza di
altri precedenti provvedimenti che hanno
provveduto a determinarla.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di
efficacia provvedimentale, non ha alcuna
concreta lesività, il che rende impossibile
la sua autonoma impugnazione; gli eventuali
errori in esso contenuti potranno essere
corretti dalla stessa Amministrazione, su
istanza del privato, oppure quest’ultimo
potrà impugnare davanti al giudice
amministrativo gli eventuali successivi
provvedimenti concretamente lesivi, adottati
sulla base dell’erroneo certificato di
destinazione urbanistica.
Altresì, eventuali danni discendenti
dall’erroneo contenuto del certificato
possono essere risarciti adendo il giudice
ordinario, munito di giurisdizione sulla
materia
(TAR Lombardia- Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2019 n. 2296 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
1.1. Secondo una consolidata giurisprudenza,
condivisa dal Collegio, il certificato di
destinazione urbanistica, di cui all’art.
30, commi 2 e ss., del D.P.R. n. 380 del
2001, si configura come una certificazione
redatta da un pubblico ufficiale, avente
carattere meramente dichiarativo e non
costitutivo degli effetti giuridici che
dallo stesso risultano, visto che la
situazione giuridica attestata nel predetto
certificato è la conseguenza di altri
precedenti provvedimenti che hanno
provveduto a determinarla.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di
efficacia provvedimentale, non ha alcuna
concreta lesività, il che rende impossibile
la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali
errori in esso contenuti potranno essere
corretti dalla stessa Amministrazione, su
istanza del privato, oppure quest’ultimo
potrà impugnare davanti al giudice
amministrativo gli eventuali successivi
provvedimenti concretamente lesivi, adottati
sulla base dell’erroneo certificato di
destinazione urbanistica (ex multis,
Consiglio di Stato, IV, 04.02.2014, n. 505;
TAR Sicilia, Catania, II, 03.07.2019, n.
1696; TAR Lombardia, Milano, I, 24.03.2016,
n. 586; TAR Lombardia, Brescia, I,
24.04.2012, n. 687; 21.12.2011, n. 1779; TAR
Lombardia, Milano, II, 14.03.2011, n. 729;
IV, 06.10.2010, n. 6863).
Va precisato che eventuali danni discendenti
dall’erroneo contenuto del certificato –di
cui, come già evidenziato in precedenza, la
parte privata può chiedere la rettifica (TAR
Toscana, I, 21.07.2017, n. 946)– possono
essere risarciti adendo il giudice
ordinario, munito di giurisdizione sulla
materia (cfr. Cass. civ., III, 05.07.2017,
n. 16496; Consiglio di Stato, IV,
04.02.2014, n. 505).
1.2. Alla stregua delle suesposte
considerazioni, il ricorso deve essere
dichiarato inammissibile. |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di demolizione deve ritenersi adeguatamente motivata con l’indicazione delle
opere abusive realizzate (v. giurisprudenza consolidata sul carattere
vincolato dell’ordine di demolizione emanato in mera dipendenza
dall'accertamento di un abuso edilizio che non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione delle opere
abusive).
Va, poi, ricordato che, conformemente alla prevalente giurisprudenza, i
provvedimenti repressivi, quale è quello in questione, non necessitano di
particolare motivazione, né della previa comunicazione di avvio di
procedimento in quanto atti vincolati che non potrebbero avere un contenuto
diverso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un
manufatto, anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca
della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco
di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato
“contra legem”.
Ne consegue che il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e non assistito da alcun
titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in
ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al
ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso,
con la precisazione che il principio in questione non ammette deroghe
neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a
distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso.
---------------
6.1. Non merita accoglimento il motivo del ricorso concernente il
presunto difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata (anche con
riferimento al richiamo ritenuto generico al d.p.r. n. 380/2001 e alla legge
n. 47/1985) poiché essa risulta adeguatamente motivata con l’indicazione delle
opere abusive realizzate (v. giurisprudenza consolidata sul carattere
vincolato dell’ordine di demolizione emanato in mera dipendenza
dall'accertamento di un abuso edilizio che non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione delle opere
abusive, cfr., tra le tante, Cons. Stato Sez. IV, 01.08.2017, n. 3840; 28.02.2017, n. 908; Sez. VI,
06.09.2017, n. 4243 e 23.10.2015,
n. 4880; C.G.A., 17.06.2014, n. 1173; 08.05.2014, n. 243; 08.04.2014, n. 788; TAR Catania sez. II 23.03.2018, n. 599).
Le opere abusive, in particolare, risultano descritte, localizzate e
riprodotte nei rilievi planimetrici e fotografici prodotti in allegato al
verbale di sopralluogo (dell’01.02.2013), che, contrariamente a quanto
sostenuto dal ricorrente, risulta depositato dall’amministrazione (in data
18.03.2013).
Va, poi, ricordato che, conformemente alla prevalente giurisprudenza, i
provvedimenti repressivi, quale è quello in questione, non necessitano di
particolare motivazione, né della previa comunicazione di avvio di
procedimento in quanto atti vincolati che non potrebbero avere un contenuto
diverso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un
manufatto, anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca
della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco
di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato
“contra legem”.
Ne consegue che il provvedimento con cui viene ingiunta, sia
pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e non assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al
ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle
inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell'abuso, con la precisazione che il principio in questione non ammette
deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga
a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso (cfr., da ultimo, TAR
Campania Napoli Sez. III, 06.09.2018, n. 5406)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.11.2019 n. 631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il soggetto che
contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione di un manufatto
abusivo ha l’onere di fornire perlomeno un principio di prova … in ordine al
tempo dell’ultimazione di quest’ultimo ove asserisca che esso è stato
realizzato prima dell’entrata in vigore della Legge 06.08.1967 n. 765,
ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza
edilizia.
In merito, la perizia tecnica (perizia giurata) costituisce un documento proveniente dalla
parte e, in quanto tale, inidonea a dimostrare da sola la preesistenza
delle opere nella loro interezza, essendo, per giunta, qui smentita anche
dalle dichiarazioni testimoniali assunte nel processo civile.
Nessuna rilevanza probatoria possono poi assumere le fotografie prodotte
laddove prive di riferimenti temporali
certi.
---------------
Secondo affermata giurisprudenza, “i provvedimenti aventi natura di atto vincolato
(come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, non essendo prevista per l’amministrazione la possibilità di
effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del
bene”.
Tra l’altro “il procedimento finalizzato ad ottenere la sanatoria degli
abusi edilizi, essendo avviato ad istanza di parte, non necessita della
comunicazione di avvio del procedimento essendone la parte già a conoscenza, in qualità di autore materiale
nell’illecito, ragionevolmente non può che considerarsi rientrante nella sua
sfera di controllo”.
Dalla natura vincolata del provvedimento di riduzione in pristino discende,
poi, il
rigetto della censura afferente ad una pretesa carenza di motivazione per
omessa indicazione delle ragioni di interesse pubblico sottese all’ordine demolitorio.
Al Collegio appare sufficiente richiamare il principio per cui “Non
sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto,
neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della
commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di
demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco
di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato contra legem”, principio
vieppiù consolidato dalla sentenza n. 9 del 17.10.2017 dell’Adunanza
Plenaria che, come noto, ha chiarito che “Nel caso di tardiva adozione del
provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte
dell’Amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla
tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far
divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine
illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un
affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso,
giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole, idoneo a
ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata”.
Per le ragioni su esposte, la natura permanente di tale illecito ammette
l’esercizio del potere repressivo della P.A. anche a distanza di molto
tempo, non derivando dal suo decorso né una sanatoria dell’opera né un
affidamento legittimo in capo all’autore dell’abuso, integrando quest’ultimo
il presupposto indispensabile e sufficiente che legittima l’ingiunzione alla
demolizione, presente in re ipsa nella motivazione del provvedimento
medesimo.
---------------
10. Non è innanzitutto condivisibile la doglianza articolata con il
primo motivo di ricorso, in quanto l’affermazione secondo la quale per i
manufatti della cui abusività si discute non troverebbe applicazione l’art.
7 della L. n. 47/1985, data la loro anteriorità rispetto al 01.09.1967 allorquando non era necessario alcun titolo abilitativo, è rimasta
indimostrata.
A nulla vale la prova di tale anteriorità tramite perizia giurata di parte,
allegata al ricorso e però puntualmente contestata dall’Amministrazione
resistente.
Invero, per costante giurisprudenza anche di questo TAR: “il soggetto che
contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione di un manufatto
abusivo ha l’onere di fornire perlomeno un principio di prova … in ordine al
tempo dell’ultimazione di quest’ultimo ove asserisca che esso è stato
realizzato prima dell’entrata in vigore della Legge 06.08.1967 n. 765,
ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza
edilizia” (cfr. TAR Catanzaro, 19.01.2016, n. 102; TAR Reggio
Calabria, 29.01.2019, n. 56).
Tuttavia, la perizia tecnica costituisce un documento proveniente dalla
parte e, in quanto tale, inidonea a dimostrare da sola la preesistenza
delle opere nella loro interezza, essendo, per giunta, qui smentita anche
dalle dichiarazioni testimoniali assunte nel processo civile.
Nessuna rilevanza probatoria possono poi assumere le fotografie prodotte
all’allegato n. 4 del ricorso, in quanto prive di riferimenti temporali
certi.
Poiché la ricorrente non ha provato che l’edificazione dei manufatti per cui
è causa è avvenuta in epoca antecedente al 1967, il motivo va respinto.
11. Non merita apprezzamento nemmeno la doglianza relativa alla mancata
comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. n.
241/1990.
Ed invero, secondo affermata giurisprudenza dalla quale questo Collegio non
ha ragione di discostarsi: “i provvedimenti aventi natura di atto vincolato
(come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, non essendo prevista per l’amministrazione la possibilità di
effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del
bene” (cfr. TAR Reggio Calabria n. 376/2019 e n. 222/2018).
Tra l’altro “il procedimento finalizzato ad ottenere la sanatoria degli
abusi edilizi, essendo avviato ad istanza di parte, non necessita della
comunicazione di avvio del procedimento (TAR Lazio sez. II, 17.10.18 n.
10055) essendone la parte già a conoscenza, in qualità di autore materiale
nell’illecito, ragionevolmente non può che considerarsi rientrante nella sua
sfera di controllo” (cfr. TAR Reggio Calabria 24.08.2019 n. 511).
12. Dalla natura vincolata del provvedimento impugnato, discende poi il
rigetto della censura afferente ad una pretesa carenza di motivazione per
omessa indicazione delle ragioni di interesse pubblico sottese all’ordine
demolitorio.
Al Collegio appare sufficiente richiamare il principio per cui “Non
sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto,
neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della
commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di
demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco
di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato contra legem” (cfr. Cons. Stato sez. VI
03.10.2017 n. 4580), principio
vieppiù consolidato dalla sentenza n. 9 del 17.10.2017 dell’Adunanza
Plenaria che, come noto, ha chiarito che “Nel caso di tardiva adozione del
provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte
dell’Amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla
tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far
divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine
illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un
affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso,
giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole, idoneo a
ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata”.
Per le ragioni su esposte, la natura permanente di tale illecito ammette
l’esercizio del potere repressivo della P.A. anche a distanza di molto
tempo, non derivando dal suo decorso né una sanatoria dell’opera né un
affidamento legittimo in capo all’autore dell’abuso, integrando quest’ultimo
il presupposto indispensabile e sufficiente che legittima l’ingiunzione alla
demolizione, presente in re ipsa nella motivazione del provvedimento
medesimo
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.11.2019 n. 630 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia con ampliamento di volumetria –
Ristrutturazione c.d. “pesante” – Ipotesi di totale
difformità cd. “qualitativa” – Reati di pericolo –
Trasformazioni del territorio – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI
– Zona sottoposta a vincolo paesistico ambientale –
Ristrutturazione edilizia con ampliamento di preesistente
fabbricato dichiarato bene storico-culturale – Artt. 2, 3,
10, 31, 32, 44 T.U.E. – Art. 10 L.R. Veneto n. 14/2009 –
Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Nei casi in cui sia stato rilasciato un
permesso di costruire per un intervento di ristrutturazione
edilizia con ampliamento di volumetria, non è consentita –
ed integra l’ipotesi di reato di costruzione in totale
difformità dal permesso – l’integrale demolizione e
ricostruzione dell’edificio.
Ricorre, in particolare, l’ipotesi della totale difformità
cd. “qualitativa” di cui all’art. 31, comma 1, prima parte,
T.U.E., per essere stato realizzato un «organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche…da
quello oggetto del permesso stesso».
Di fatti, quando si tratti di intervento edilizio che abbia
ad oggetto l’esecuzione di opere su un preesistente
manufatto, la difformità “tipologica” tra l’opera consentita
e quella di fatto realizzata va in primo luogo apprezzata
rispetto alle categorie edilizie definite ex lege dall’art.
3 T.U.E.
Del resto, essendo le contravvenzioni previste dall’art. 44,
comma 1, T.U.E. reati di pericolo rispetto al bene tutelato
–ravvisabile nell’esigenza di impedire trasformazioni del
territorio in contrasto con la disciplina
urbanistico-edilizia– è evidente che l’ottenimento di un
permesso di costruire per ristrutturazione edilizia in
ampliamento, che non preveda, non essendo ciò consentito
dalla legge, la totale demolizione e ricostruzione del
manufatto, non legittima che si proceda in tal modo (per di
più, come nella specie, su un immobile tutelato in quanto
bene storico-culturale), realizzando una nuova costruzione
che integralmente si sostituisca all’edificio storico che si
sarebbe invece dovuto strutturalmente, quantomeno in parte,
conservare (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.10.2019 n. 44523 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Intervento di totale demolizione e ricostruzione –
Ampliamento di volume – Qualificazione come intervento di “nuova
costruzione” – Trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio – Giurisprudenza.
Un intervento di totale demolizione e
ricostruzione di un edificio con ampliamento di volume non è
riconducibile alla categoria della ristrutturazione
edilizia, vale a dire all’opera oggetto del permesso
rilasciato. Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), T.U.E.,
pertanto, «nell’ambito degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di
quello preesistente».
Laddove tale ultimo requisito non sia soddisfatto, la
demolizione e ricostruzione di un manufatto è riconducibile
alla categoria degli interventi di nuova costruzione ai
sensi della lett. e) del T.U.E., la cui generale definizione
–che, quanto agli interventi su edifici esistenti, ha
carattere residuale– abbraccia «quelli di trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle
categorie definite alle lettere precedenti».
Inoltre, le definizioni degli interventi edilizi di cui
all’art. 3 T.U.E. rientrano tra i principi fondamentali
della legislazione statale che vincolano il legislatore
regionale ai sensi dell’art. 2 T.U.E.
(cfr., ex multis, proprio con riguardo alla definizione di
ristrutturazione edilizia, Corte cost. n. 309 del
18/10/2011) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.10.2019 n. 44523 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Deposito incontrollato e abbandono di rifiuti –
Differenza – Natura permanente e natura istantanea –
Rilevanza della condotta – Artt. 183, 256, c. 2, d.lgs. n.
152/2006 – Testo Unico Ambientale.
Il reato di deposito incontrollato ha
natura permanente se l’attività illecita è prodromica al
successivo recupero o smaltimento delle cose abbandonate e,
quindi, la condotta cessa soltanto con il compimento delle
fasi ulteriori rispetto a quella del rilascio, mentre
l’abbandono, propriamente detto, ha natura istantanea con
effetti eventualmente permanenti se l’attività illecita si
connota per una volontà esclusivamente dismissiva dei
rifiuti, che, per la sua episodicità, esaurisce gli effetti
della condotta fin dal momento dell’abbandono e non
presuppone una successiva attività gestoria volta al
recupero o allo smaltimento.
...
RIFIUTI – Abbandono, discarica abusiva ed immissione –
Elementi sintomatici e differenze – Condotta abituale –
Quantità di rifiuti – Unicità della condotta di abbandono –
Mera occasionalità – Rilascio episodico di rifiuti (solidi o
liquidi) in acque superficiali e sotterranee.
L’abbandono, si distingue dalla
discarica abusiva, in quanto, è caratterizzato dalla “mera
occasionalità” desumibile da elementi sintomatici quali le
modalità della condotta (ad es. la sua estemporaneità o il
mero collocamento dei rifiuti in un determinato luogo in
assenza di attività prodromiche o successive al
conferimento), la quantità di rifiuti abbandonata, l’unicità
della condotta di abbandono.
Mentre, la discarica richiede una condotta abituale, come
nel caso di plurimi conferimenti, ovvero un’unica azione ma
strutturata, anche se in modo grossolano e chiaramente
finalizzata alla definitiva collocazione dei rifiuti in
loco.
Infine, l’immissione, definita come il rilascio episodico di
rifiuti (solidi o liquidi) in acque superficiali e
sotterranee. Elemento distintivo specifico dell’immissione è
il luogo di destinazione del rifiuto e le caratteristiche
tipiche dell’azione dell’immetterlo nelle acque superficiali
(che si differenzia, a sua volta, dallo scarico come
definito nella Parte Terza del d.lgs. 152/2006) e che ne
evidenzia la occasionalità, comune, quindi all’abbandono.
...
RIFIUTI – Deposito temporaneo – Deposito preliminare – Messa
in riserva – Abbandono – Discarica abusiva – Momento
consumativo del reato – Riferimento alle condotte accertate
in concreto.
Il deposito temporaneo, in difetto anche
di uno dei requisiti normativi, non può ritenersi tale ma
deve essere qualificato, a seconda dei casi, come “deposito
preliminare” se il collocamento di rifiuti è prodromico ad
un’operazione di smaltimento, come “messa in riserva” se il
materiale è in attesa di un’operazione di recupero, come
“abbandono” quando i rifiuti non sono destinati ad
operazioni di smaltimento o recupero o come “discarica
abusiva” nell’ipotesi di abbandono reiterato nel tempo e
rilevante in termini spaziali e quantitativi, dovendosi,
anche in questo caso, determinare il momento consumativo con
riferimento alle condotte accertate in concreto.
...
RIFIUTI – Ignoranza inevitabile della legge penale –
Esclusione della colpevolezza – Corretta applicazione
dell’art. 5 cod. pen. - Criterio dell’ordinaria diligenza –
Svolgimento di determinata attività professionali – Obbligo
di informarsi con diligenza sulla normativa esistente.
L’ignoranza inevitabile della legge
penale che esclude la colpevolezza per il comune cittadino
sussiste, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio
dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di
informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile
accertamento, per conseguire la conoscenza della
legislazione vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che
svolgono professionalmente una determinata attività, i quali
rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis”
nello svolgimento dell’indagine giuridica.
Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza,
occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi
amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento
giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento
della correttezza dell’interpretazione normativa e,
conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.
Tali principi sono stati affermati anche con riferimento
specifico alla gestione di rifiuti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.10.2019 n. 44516 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE –
Circolare interpretativa – Natura di atto interno – Effetti
e limiti.
In linea generale, la natura di atto
interno alla pubblica amministrazione della circolare
interpretativa, la quale si risolve in un mero ausilio e non
esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice
penale, ma anche per gli stessi destinatari poiché non può
comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato
normativo (v. Sez.
3, n. 6619 del 07/02/2012, Zampano, Rv. 252541; Sez. 3, n.
19330 del 27/04/2011, Santoriello, con riferimento alla
circolare ministeriale n. 2699 del 07.12.2005 in materia di
condono edilizio; Sez. U, n. 10424 del 18/01/2018, Del Fabro
in tema di contributi previdenziali).
Tali principi devono ribadirsi, a maggior
ragione, per ciò che concerne le “circolari” diffuse da una
associazione di categoria, mero soggetto privato, peraltro
volto unicamente a rappresentare e tutelare gli interessi
degli appartenenti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.10.2019 n. 44516 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di reati edilizi, la natura precaria delle opere di chiusura e di
copertura di spazi e superfici va intesa secondo un criterio strutturale,
ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale,
ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché
tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di
fuori dei casi ivi espressamente previsti.
---------------
Quanto ai reati in materia antisismica, secondo il
consolidato orientamento, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in
zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e
per le quali si rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte
della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative
strutture, nonché, addirittura, dalla natura precaria o permanente
dell'intervento.
---------------
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
3.1. Quanto al reato urbanistico, la sentenza
ha fatto corretta applicazione del consolidato principio secondo cui, in tema di reati
edilizi, la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi
e superfici per le quali l'art. 20
della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o
autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale,
ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale,
ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché
tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di
fuori dei casi ivi espressamente previsti
(Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi e a., Rv. 261156, fattispecie in
cui è stata esclusa la natura precaria della chiusura di due verande
mediante mattoni forati legati da malta cementizia, caso simile a quello qui
in esame; Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771; Sez. 3, n.
35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237533).
3.2. Quanto ai reati in materia antisismica, secondo il
consolidato orientamento, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in
zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e
per le quali si rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte
della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative
strutture, nonché, addirittura, dalla natura precaria o permanente
dell'intervento (Sez. 3, n. 9126
del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti, Rv. 269303; Sez. 3, n. 48950 del
04/11/2015, Baio, Rv. 266033; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011, dep. 2012,
D'Onofrio, Rv. 252441).
A fronte della descrizione del manufatto effettuata dai giudici di merito,
non è pertanto dato comprendere perché, secondo la ricorrente, nel caso di
specie tale disciplina non dovesse essere seguita, non potendo certo
richiamarsi una mera disposizione di servizio dell'autorità amministrativa
(Capo del Genio civile di Messina), peraltro avente ad oggetto pergolati o
gazebo, vale a dire opere ben diverse da quella in esame.
La sentenza impugnata dà inoltre atto che una nota del Genio civile
acquisita al fascicolo processuale ha confermato che le caratteristiche
dell'opera in esame la rendevano senz'altro soggetta al rispetto della
normativa in parola.
3.3. Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, la sentenza impugnata
(pag. 5) reca non illogica motivazione, valorizzando il fatto che l'imputata
realizzò opere ben diverse da quelle precarie oggetto del progetto
presentato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
31.10.2019 n. 44510). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di abusi edilizi, grava sul ricorrente che intende retrodatare la data di prescrizione
l'onere di fornire prova dell'ultimazione del manufatto.
Invero, per consolidato
orientamento, ai fini del decorso del termine di prescrizione, l'ultimazione
dei lavori che segna il dies a quo coincide proprio con la
conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, che comprendono
anche gli intonaci.
---------------
4. Il quarto motivo è generico e manifestamente infondato: la
sentenza impugnata è del 10.10.2018 e risulta la sospensione del corso della
prescrizione per 129 giorni, sicché, il reato sarebbe stato in allora
prescritto se commesso anteriormente ai primi giorni di giugno 2013.
Trattandosi di reato accertato il 15.05.2014 ed avendo il tecnico comunale
riferito che l'opera "era di recentissima fattura", la conclusione
circa la non prescrizione del reato al momento del giudizio d'appello è
corretta e logicamente argomentata.
Grava, di fatti, sul ricorrente che intende retrodatare la data di prescrizione
l'onere di fornire prova dell'ultimazione del manufatto
(Sez. 3, n. 27061 del 05/03/2014, Laiso, Rv. 259181; Sez. 3, n. 19082 del
24/03/2009, Cusati, Rv. 243765), e la deduzione fatta in ricorso è del tutto
generica e non viene evidenziato il travisamento della prova.
Anzi, la stessa ricorrente -pur escludendo di aver effettuato modifiche
strutturali dopo l'anno 2011- riconosce di aver successivamente realizzato "piccoli
interventi estetici (pitturazione, intonaci)".
Osserva, al proposito, il Collegio che, per consolidato
orientamento, ai fini del decorso del termine di prescrizione, l'ultimazione
dei lavori che segna il dies a quo coincide proprio con la
conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, che comprendono
anche gli intonaci (Sez. 3, n.
46215 del 03/07/2018, n., Rv. 274201; Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011,
Ventura, Rv. 251424; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
31.10.2019 n. 44510). |
EDILIZIA PRIVATA: Con
riguardo alla modifica delle aperture sulla parete esterna dell'edificio,
l'intervento non è riconducibile né alla categoria della manutenzione
straordinaria, né a quelle del restauro o risanamento conservativo, dovendo
invece essere qualificato come ristrutturazione edilizia c.d. "pesante",
per la quale è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire a
norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E., che detto titolo prevede
anche quando le opere portino ad un organismo edilizio in parte diverso da
quello precedente perché comportante la modifica dei prospetti.
Si tratta, del
resto, di interpretazione consolidata nella giurisprudenza
di questa Corte
essendosi affermato che
l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio,
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato
previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un
intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile
come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale,
quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività.
---------------
2.1. Quanto al permesso di costruire -in disparte il fatto che la ricorrente
è stata condannata per il reato urbanistico anche in relazione alle altre
opere abusive di cui al capo 1 d'imputazione, essendo al proposito
intervenuta sentenza di improcedibilità per estinzione soltanto con riguardo
al reato paesaggistico di cui al capo 2- quel titolo era necessario anche con riguardo alla modifica delle aperture effettuata sulla parete
esterna dell'edificio, sul lato
est.
Diversamente da quel che sostiene la ricorrente, di fatti,
l'intervento non è riconducibile né alla categoria della manutenzione
straordinaria, né a quelle del restauro o risanamento conservativo, dovendo
invece essere qualificato come ristrutturazione edilizia c.d. "pesante",
per la quale è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire a
norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E., che detto titolo prevede
anche quando le opere portino ad un organismo edilizio in parte diverso da
quello precedente perché comportante la modifica dei prospetti.
Si tratta, del
resto, di interpretazione consolidata nella giurisprudenza
di questa Corte -con cui la
ricorrente non si confronta- essendosi affermato che
l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio,
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato
previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un
intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile
come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale,
quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività
(Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, Rv. 259905; Sez. 3, n. 38338 del
21/05/2013, Cataldo, Rv. 256381; Sez. 3, n. 834 del 04/12/2008, dep. 2009,
Rv. 242160).
2.2. Oltre ad essere certamente soggetta al rilascio del permesso di
costruire, stante il pacifico vincolo paesaggistico, l'intervento richiedeva
anche il previo rilascio della relativa autorizzazione (Corte di cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 31.10.2019 n. 44503). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' noto che l'illecito di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del
2004, trattandosi di reato di pericolo, non richiede ai fini della sua
configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente
l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che
siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, tali certamente
essendo gli interventi che incidano sull'aspetto esteriore degli edifici..
Va peraltro osservato come la qualificazione
dell'intervento quale ristrutturazione edilizia non solo esclude
l'applicabilità dell'art. 149 d.lgs. 42 del 2004
ma proprio tale disposizione -nel prevedere che non è richiesta
l'autorizzazione paesaggistica per gli «interventi di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro
conversativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore
degli edifici»- conferma l'assoggettabilità al procedimento di
valutazione della compatibilità paesaggistica di qualsiasi opera che appunto
incida sull'estetica dei fabbricati.
---------------
E' noto che l'illecito di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del
2004, trattandosi di reato di pericolo, non richiede ai fini della sua
configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente
l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che
siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato
(Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289; Sez. 3, n. 6299 del
15/01/2013, Simeon e a., Rv. 254493), tali certamente
essendo gli interventi che incidano sull'aspetto esteriore degli edifici (Sez.
3, del 21/06/2011, Fanciulli, Rv. 251244).
Va peraltro osservato come la qualificazione
dell'intervento quale ristrutturazione edilizia non solo esclude
l'applicabilità dell'art. 149 d.lgs. 42 del 2004,
che la ricorrente invoca con evidente riferimento alla lett. a), ma proprio tale disposizione -nel prevedere che non è richiesta
l'autorizzazione paesaggistica per gli «interventi di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro
conversativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore
degli edifici»- conferma l'assoggettabilità al procedimento di
valutazione della compatibilità paesaggistica di qualsiasi opera che appunto
incida sull'estetica dei fabbricati.
Del tutto generico, poi, è il riferimento al disposto di cui all'art. 2
d.P.R. 13.02.2017, n. 31 ("Regolamento recante individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata"), che, avendo natura secondaria,
è peraltro subordinato al rispetto della legislazione primaria più sopra
richiamata (Corte di cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 31.10.2019 n. 44503). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'individuazione del proprietario non committente quale soggetto
responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di
natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione
del manufatto, ricavabili dalla presentazione della domanda di sanatoria,
dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse
specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o
affinità tra il materiale responsabile dell'abuso ed il proprietario.
---------------
3. Manifestamente infondato è anche il quarto motivo di ricorso.
La sentenza impugnata -come già quella, conforme, di primo grado- argomenta
le ragioni a sostegno del riconosciuto concorso della ricorrente nella
commissione del reato e la decisione non è manifestamente illogica ed è
conforme ai principi di diritto applicabili in materia.
Quanto a questi ultimi, va ribadito che l'individuazione
del proprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso
edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della
compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto,
ricavabili dalla presentazione della domanda di sanatoria, dalla piena
disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad
edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra il
materiale responsabile dell'abuso ed il proprietario
(Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a., Rv. 261522; Sez. 3, n.
25669 del 30/05/2012, Zeno e a., Rv. 253065).
Nel caso di specie -dopo aver rilevato l'inverosimiglianza delle
dichiarazioni al proposito rese dal padre dell'imputata, che, non già nella
fase delle indagini preliminari, ma soltanto nel corso del giudizio si era
assunto la responsabilità dell'abuso sostenendo che la figlia non ne fosse
partecipe- la sentenza impugnata ha ritenuto che l'imputata, avendo piena
disponibilità giuridica e di fatto dell'immobile ed avendo mostrato
interesse alla conservazione delle opere abusive presentando plurime istanze
di sanatoria, era da ritenersi corresponsabile dell'abuso quantomeno a
titolo di concorso morale.
Si tratta di valutazione di merito non manifestamente illogica e qui non
sindacabile, in assenza, peraltro, di specifica deduzione del motivo di cui
all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. (Corte di cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 31.10.2019 n. 44503). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9, comma 2, del DPR n. 380/2001 è norma generale ed imperativa in materia di
governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi diretti
costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore generale
richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio,
sicché, in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il
rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano
attuativo, non è consentito superare questa prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa né surrogare
l’assenza del piano attuativo con l’imposizione di opere di urbanizzazione
all'atto del rilascio del titolo edilizio.
L’obbligo dell’interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, infatti, è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e
materiale di tali opere, ma non è in grado di colmare l’assenza dello
strumento esecutivo.
Pertanto l’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo impedisce
che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate
indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare,
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile
approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall’interessato con gli
strumenti consentiti dal sistema.
---------------
12. Attraverso il quinto motivo, gli appellanti hanno sostenuto che
il piano esecutivo, quale presupposto per il rilascio della concessione
edilizia, sarebbe necessario soltanto qualora si tratti di asservire per la
prima volta un’area non ancora urbanizzata ad insediamento edilizio, mentre
il lotto di terreno su cui insiste il fabbricato oggetto di causa sarebbe
ubicato in una zona dotata di infrastrutture e servizi ed inserita in un
contesto di totale urbanizzazione, in cui già al momento del rilascio del
permesso di costruire vi erano di tutte le opere di urbanizzazione primaria
e necessaria, con un’ampiezza tale da rendere non necessario il preventivo
piano attuativo di zona, con conseguente legittimità del titolo edilizio.
Siffatto motivo è infondato, poiché non vi è stata dimostrazione che le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria siano qualitativamente e
quantitativamente sufficienti a soddisfare le esigenze della comunità
locale.
In ogni caso, il Collegio rileva che l’art. 9, comma 2, del decreto del
Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 è norma generale ed imperativa
in materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi
diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore
generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di
dettaglio, sicché, in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona
l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione
della zona stessa né surrogare l’assenza del piano attuativo con
l’imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; l’obbligo dell’interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, infatti, è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e
materiale di tali opere, ma non è in grado di colmare l’assenza dello
strumento esecutivo.
Pertanto l’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo impedisce
che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate
indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare,
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile
approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall’interessato con gli
strumenti consentiti dal sistema.
Neppure gli appellanti hanno dimostrato di trovarsi nella condizione c.d. di
“interclusione del lotto”, che è l’unica, secondo la condivisibile
giurisprudenza amministrativa, che potrebbe legittimare un penetrante
sindacato giudiziale sulla scelta programmatoria di imporre l’adozione del
c.d. piano attuativo (ex aliis TAR per la Sicilia, sede di Catania,
sez. IV, 18/01/2019, n. 64)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 31.10.2019 n. 7463 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 380 del 2001, il regolamento
edilizio “deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con
particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche,
igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle
pertinenze degli stessi”.
La giurisprudenza si è già espressa nel senso che anche
in relazione all’ampio contenuto del citato art. 4 non sussista una netta e
radicale distinzione tra le disposizioni del regolamento edilizio e le N.T.A. al P.R.G., in quanto
l’uno, di natura normativo-regolamentare, le
altre, di carattere programmatorio-pianificatorio, recano prescrizioni
destinate a integrarsi reciprocamente.
---------------
In entrambi i giudizi, con il primo motivo di appello, si sostiene l’errore
del giudice di primo grado nel ritenere l’intervento realizzato in contrasto
con l’art. 58 del Regolamento edilizio, in quanto le disposizioni del
regolamento edilizio sarebbero rivolte solo a disciplinare il cd. “ornato”
degli edifici ovvero l’aspetto estetico degli stessi e non potrebbero
incidere sullo ius aedificandi.
Il Collegio non condivide tale ricostruzione difensiva.
Ai sensi dell’art. 58 del Regolamento edilizio, rubricato “Terrazzi,
casotti, accessori e sovrastrutture di servizio (volumi tecnici)”, “Quando
un fabbricato è coperto a terrazzo sopra il lastrico solare non sarà
consentita nessuna costruzione o impianto. Quando la copertura a terrazzo è
visibile da strade o altri luoghi pubblici sovrastanti da una distanza
inferiore a mt. 60 il lastrico solare e tutti gli elementi soprastanti
dovranno essere sistemati in modo decoroso ed in armonia con l’insieme
architettonico. Potranno essere previsti giardini pensili, tratti e
fioriere, pavimentazioni con ciottoli a mosaico o mattoni”.
In base al dato testuale, tale disposizione restringe le facoltà di
sopraelevazione in presenza di un lastrico solare, né può essere
interpretata diversamente essendo inequivocabile il riferimento contenuto
nella disposizione alle “nuove costruzioni”, riferimento che
l’interpretazione degli appellanti elide dalla disposizione ritenendola
riferita solo agli impianti.
La circostanza che tale disposizione sia contenuta nel Regolamento edilizio
non ne diminuisce la rilevanza, in quanto, pur essendo dettata in funzione
dell’ordinato assetto esteriore della edificazione comunale, costituisce,
comunque, espressione del potere comunale di disciplina del territorio
comunale attribuito in relazione ad un interesse ritenuto meritevole di
tutela dalla norma primaria.
Infatti, ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 380 del 2001, il regolamento
edilizio “deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con
particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche,
igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle
pertinenze degli stessi”.
La giurisprudenza di questo Consiglio si è già espressa nel senso che anche
in relazione all’ampio contenuto del citato art. 4 non sussista una netta e
radicale distinzione tra le disposizioni del regolamento edilizio e le
N.T.A. al P.R.G., in quanto l’uno, di natura normativo-regolamentare,
le
altre, di carattere programmatorio-pianificatorio, recano prescrizioni
destinate a integrarsi reciprocamente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
17.02.2014, n. 747).
Nel caso di specie, inoltre, il Regolamento edilizio era stato emanato in
base all’art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, che tra i
contenuti del regolamento edilizio prevedeva: “4) l’altezza minima e
quella massima dei fabbricati secondo le zone;
8) l’aspetto dei fabbricati e il decorso dei servizi ed impianti che
interessano l’estetica dell’edilizia urbana, tabelle stradali, mostre e
affissi pubblicitari, impianti igienici di uso pubblico ecc.;
10) le particolari prescrizioni costruttive da osservare in determinati
quartieri cittadini o lungo determinate vie o piazze”;
Ne deriva che la prescrizione contenuta nell’art. 58 del Regolamento non può
avere altro significato che la limitazione della facoltà di sopraelevazione
sul lastrico solare.
Né può rilevare la eventuale prassi applicativa differente del Comune che
oltre che non provata sarebbe comunque illegittima
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.10.2019 n. 7457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: È
integrato il reato di falso materiale o ideologico in atto pubblico nel caso
in cui le false attestazioni siano state effettuate “ora per allora”.
Il reato di falso consiste nell'indicazione di una data
di emissione delle autorizzazioni e delle attestazioni di conformità,
diversa da quella reale della formazione del documento.
Il rilievo dell'immutazione della realtà, per la precisione della risalenza
temporale ad un'epoca
non rispondente al vero, tale, peraltro, da giustificare la condotta del
soggetto interessato, in
questo caso l'odierno ricorrente, fa sì che si ravvisi il falso, penalmente
rilevante,
esclusivamente su tale riscontro fattuale.
In giurisprudenza il suddetto principio trova conferma.
Ed invero, secondo un orientamento specifico, ben può ben essere ipotizzato
il delitto di falso
materiale o ideologico in atto pubblico nel caso in cui le false
attestazioni siano state effettuate
"ora per allora".
A ciò si aggiunga, a titolo confermativo, che la giurisprudenza di
legittimità, in materia di
falso documentale riguardante il registro di protocollo, ha ribadito la
sussistenza dell'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, mediante
l'apposizione del timbro, della data
di ricezione del documento, oltre che della numerazione attribuita in tal
modo. Ogni elemento
strutturale dell'atto pubblico, compresa la data di ricezione, è
suscettibile di una falsità punibile
ex art. 476 c.p., il che, pur prescindendosi nella fattispecie in esame da
un falso in protocollo,
avvalora ulteriormente il principio sopra enunciato.
----------------
La formazione, ex novo, di una copia autentica, sia pure di un atto
inesistente, utilizzata
come un originale, non può che essere ricondotta alla diversa fattispecie di
reato, ex art. 476-482 c.p., trattandosi di atto provvisto di fede privilegiata.
Segnatamente, secondo la giurisprudenza di legittimità, l'alterazione della
copia autentica di
un atto non rientra nella previsione di cui all'art. 478 cod. pen. (falsità
materiale commessa da
un pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in
attestati del contenuto di
atti), che punisce la formazione di copie false, ma integra il reato di cui
all'art. 476 cod. pen. in
relazione all'art. 482 dello stesso codice (falsità materiale commessa dal
privato in atto
pubblico), poiché tale norma, pur non applicabile agli atti derivativi,
comprende certamente
l'alterazione della copia dopo il rilascio della stessa in forma legale,
atteso che questa incide
sull'autenticazione, che è atto pubblico originale -(fattispecie relativa ad
alterazione,
commessa da un privato, di copia notarile di un contratto)-.
---------------
Alla stessa conclusione si deve pervenire sulle censure, relative al
travisamento di prova
connesso all'accertamento dell'esistenza di un protocollo cartaceo e alle
considerazioni
giuridiche relative all'inconfigurabilità del falso.
Anche ammessa la validità della tesi sostenuta dall'odierno ricorrente,
circa l'autenticità delle
sottoscrizioni di provenienza apparente del prof. St., comunque
l'apposizione della firma,
in data successiva a quelle apparenti, renderebbe falsa l'attestazione sulla
data, emergente dal
documento, come formato all'epoca di svolgimento delle prestazioni
professionali oggetto di
verifica, costituendo atto di fede privilegiata l'attestazione stessa
relativa alla formazione
temporale del documento.
Tale conclusione è resa necessitata dall'attestazione, resa dal pubblico
ufficiale, mediante
l'apposizione del timbro del protocollo, dell'avvenuta ricezione del
documento, nella data
indicata, secondo la numerazione progressiva che compare sul documento, in
un contesto
denotante necessariamente l'unitarietà dell'operazione.
Va enunciato, a questo proposito, il principio generale, affermato dalla
giurisprudenza,
secondo il quale il reato di falso consiste, per l'appunto, nell'indicazione
di una data di
emissione delle autorizzazioni e delle attestazioni di conformità, diversa
da quella reale della
formazione del documento.
Il rilievo dell'immutazione della realtà, per la precisione della risalenza
temporale ad un'epoca
non rispondente al vero, tale, peraltro, da giustificare la condotta del
soggetto interessato, in
questo caso l'odierno ricorrente, fa sì che si ravvisi il falso, penalmente
rilevante,
esclusivamente su tale riscontro fattuale.
In giurisprudenza il suddetto principio trova conferma.
Ed invero, secondo un orientamento specifico, ben può ben essere ipotizzato
il delitto di falso
materiale o ideologico in atto pubblico nel caso in cui le false
attestazioni siano state effettuate
"ora per allora" (Sez. 5, n. 6685 del 14/04/1992 - dep. 04/06/1992, P.M. in proc. Martinelli ed
altri, Rv. 190512).
A ciò si aggiunga, a titolo confermativo, che la giurisprudenza di
legittimità, in materia di
falso documentale riguardante il registro di protocollo, ha ribadito la
sussistenza dell'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, mediante
l'apposizione del timbro, della data
di ricezione del documento, oltre che della numerazione attribuita in tal
modo. Ogni elemento
strutturale dell'atto pubblico, compresa la data di ricezione, è
suscettibile di una falsità punibile
ex art. 476 c.p., il che, pur prescindendosi nella fattispecie in esame da
un falso in protocollo,
avvalora ulteriormente il principio sopra enunciato.
L'infondatezza dei motivi va quindi affermata anche su tali profili di
natura giuridica.
4.. Altrettanto infondata è l'ulteriore tesi, prospettata da parte
ricorrente, circa la qualificazione
giuridica del fatto, secondo lo schema di cui agli art. 478 e 482 c.p.,
pertinente alla falsità in
copie, commessa da privati.
La formazione, ex novo, di una copia autentica, sia pure di un atto
inesistente, utilizzata
come un originale, non può che essere ricondotta alla diversa fattispecie di
reato, ex art. 476-482 c.p., trattandosi di atto provvisto di fede privilegiata.
Segnatamente, secondo la giurisprudenza di legittimità, l'alterazione della
copia autentica di
un atto non rientra nella previsione di cui all'art. 478 cod. pen. (falsità
materiale commessa da
un pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in
attestati del contenuto di
atti), che punisce la formazione di copie false, ma integra il reato di cui
all'art. 476 cod. pen. in
relazione all'art. 482 dello stesso codice (falsità materiale commessa dal
privato in atto
pubblico), poiché tale norma, pur non applicabile agli atti derivativi,
comprende certamente
l'alterazione della copia dopo il rilascio della stessa in forma legale,
atteso che questa incide
sull'autenticazione, che è atto pubblico originale -(fattispecie relativa ad
alterazione,
commessa da un privato, di copia notarile di un contratto)- (Sez. 5, n.
12731 del 06/11/2000
- dep. 06/12/2000, Ninivaggi P., Rv. 218117).
Tale orientamento giurisprudenziale è stato richiamato dalla Corte
territoriale nella sentenza
impugnata.
Non vale, al riguardo, osservare che il caso esaminato riguarda
l'alterazione di una copia
effettivamente rilasciata, mentre nella fattispecie, oggetto di disamina, la
copia autentica è
stata integralmente falsificata.
Ciò che va desunto dall'orientamento sopra riportato è l'incidenza della
copia conforme
sull'autenticazione dell'atto pubblico, non riconducibile sic et simpliciter
al disposto dell'art. 478
c.p., riguardante l'alterazione e la falsificazione di copie semplici, pena
un'inammissibile
interpretazione analogica del disposto penale.
Se poi si considera, come sopra argomentato, che costituisce falso punibile
anche la
formazione ex novo di un atto, va confermata la qualificazione giuridica,
adottata dalla Corte
territoriale, in relazione alle copie conformi, prodotte dall'odierno
ricorrente alla Guardia di
Finanza.
A ciò si aggiunga, a livello soggettivo, che, mentre, nell'ipotesi prevista
dall'art. 478 c.p., è
espressamente previsto il rilascio di copie ("conformi") di atti supposti come
esistenti, nella
fattispecie in esame le autorizzazioni sono state falsificate, con le
modalità sopra indicate,
simulandosi, non già una "copia", ma un "originale".
Emerge così la differenziazione, anche a livello soggettivo, rispetto alla
qualificazione
giuridica indicata da parte ricorrente, ricorrendo, nel caso in esame, il
dolo, tipico del delitto di
falso in atto pubblico, commesso da privato, ex art. 476, 482 c.p. (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 30.10.2019 n.
44300). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
affermato dalla condivisibile giurisprudenza, se in astratto l’installazione
dell’antenna di un impianto radiofonico non costituisce trasformazione del
territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, la realizzazione
di simili manufatti va però considerata anche in concreto ed in relazione
alla obiettiva consistenza degli impianti, richiedendosi la concessione
edilizia in caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli
dimensioni, con annessi altri manufatti accessori.
Sicché, la realizzazione di un traliccio metallico dell’altezza di
circa 30 metri con alla base un box metallico di mt. 1,50 x 1,50 ed h. 2,20
è da ritenersi attratta al regine concessorio.
---------------
1. Con ricorso n. 9 del 2006, proposto innanzi al Tar per il Friuli Venezia
Giulia, la s.p.a. El. chiedeva l’annullamento del provvedimento del Sindaco
del Comune di Bordano (UD), del 14.10.2005, con cui era stata negata
l’autorizzazione, ex art. 87 d.lgs. n. 259 del 2003, per l’installazione di
un impianto di radiodiffusione su un traliccio preesistente di proprietà di
terzi, nonché l’ingiunzione a demolire, citata nel predetto provvedimento e
meglio specificata al capo che segue, relativa al medesimo traliccio.
2. Con ricorso n. 10 del 2006, proposto innanzi al Tar per il Friuli Venezia
Giulia, la ditta Me.Pu. di Ca.An. e la s.r.l. Da.Pr. chiedevano
l’annullamento dell’ingiunzione a demolire del 30.09.2005, emessa dal
medesimo Comune, riguardante un traliccio metallico con base triangolare di
cm. 30 per lato ed altezza di circa ml. 20, nonché una porzione di traliccio
di mt. 3 per ospitare un impianto radio base.
...
10.1. Infondato è il primo motivo
di gravame, col quale si insiste nel contestare la riconducibilità
dell’intervento alla disciplina rilevante ratione temporis sulla
necessità del rilascio di una concessione edilizia, in quanto trattasi della
realizzazione di un traliccio metallico dell’altezza di circa 30 metri con
alla base un box metallico di mt. 1,50 x 1,50 ed h. 2,20.
Orbene, come affermato dalla condivisibile giurisprudenza, se in astratto
l’installazione dell’antenna di un impianto radiofonico non costituisce
trasformazione del territorio comunale agli effetti delle leggi
urbanistiche, la realizzazione di simili manufatti va però considerata anche
in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli impianti,
richiedendosi la concessione edilizia in caso di installazione di tralicci o
antenne di notevoli dimensioni, con annessi altri manufatti accessori (Cons.
Stato, sez. V, 28.12.2007, n. 6714; Cons. Stato, sez. III, 26.02.2019, n.
1326).
Le anzidette caratteristiche dimensionali dell’opus, ed in
particolare la sua rilevante altezza, consentono quindi di ritenerlo
attratto al regime concessorio (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 30.10.2019 n. 7422 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di
ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di
un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle
componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e
copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a
farlo giudicare presente nella realtà materiale.
Con la conseguenza che la ricostruzione di ruderi, vale a dire residui
edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, deve
essere ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in
contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche
all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come
tale.
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata
all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal ricordato d.l. n. 69/2013, giacché,
per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti
della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da
consentire di determinarne l’effettiva consistenza.
---------------
2.1.1. L’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 definisce
interventi di ristrutturazione edilizia quelli “rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente”, e, nel testo modificato dal d.l. n. 69/2013, vi include il
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza e, per gli immobili sottoposti a vincoli,
all’ulteriore condizione che sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente.
Correlativamente, la legge regionale toscana qualifica oggi come interventi
di “ristrutturazione edilizia ricostruttiva” quelli
consistenti nel “ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o
demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione”,
dai quali distingue “il ripristino di edifici, o parti di essi, crollati
o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e
configurazione, attraverso interventi di ricostruzione comportanti modifiche
della sagoma originaria, laddove si tratti di immobili sottoposti ai vincoli
di cui al Codice” (art. 134, co. 1, lett. h), n. 4 e lett. i) l.r. n.
65/2014).
Secondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la
nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla
preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato
di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali
e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a
farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la
ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare
i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo
della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di
risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza
di un manufatto oramai non più esistente come tale (fra le moltissime, cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2016, n. 5106, e i numerosi precedenti ivi
citati; id., sez. V, 21.10.2014, n. 5174 id., sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata
all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal ricordato d.l. n. 69/2013, giacché,
per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti
della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da
consentire di determinarne l’effettiva consistenza (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 19.03.2018, n. 1725; id., sez. V, 15.03.2016, n. 1025; TAR Toscana, sez.
III, 22.02.2019, n. 286)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 30.10.2019 n. 1457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo
l’espletamento a porte chiuse della prova
orale di un concorso pubblico.
L'’espletamento a porte
chiuse della prova si pone in aperto in
contrasto con la regola generale, immanente
a qualunque procedura concorsuale, della
pubblicità della prova orale e, quindi, con
i principi di trasparenza e imparzialità, di
cui all’art. 97 Cost..
Affinché un'aula o sala sia aperta al
pubblico, occorre che durante le prove orali
del concorso sia assicurato il libero
ingresso al locale ove esse si tengono a
chiunque voglia assistervi e, quindi, anche
ai candidati che abbiano già sostenuto il
colloquio o che non vi siano stati ancora
sottoposti, atteso che ogni candidato è
titolare di un interesse qualificato a
presenziare alle prove degli altri, onde
verificare di persona il corretto operare
della Commissione esaminatrice.
Il concetto di garanzia
della "pubblicità" della seduta deve
necessariamente estendersi (soprattutto) a
"tutti" i soggetti che hanno un reale
interesse ad assistere alle prove, primi fra
tutti i partecipanti alla selezione, sia che
abbiano già sostenuto il colloquio sia che
ancora lo debbano compiere. Il tutto al fine
di permettere la verifica, di persona, del
corretto svolgimento delle prove orali degli
altri partecipanti, nel rispetto dei
principi di trasparenza e imparzialità.
Valori essenziali garantiti dall'ordinamento
tramite la fissazione di regole e di norme
di garanzia "preventiva".
In caso di omesso rispetto di tali
imprescindibili principi risulterebbe
frustrata anche la sfera di possibile tutela
dei partecipanti, i quali hanno la
possibilità concreta di formulare eventuali
contestazioni solo tramite la (previa)
attribuzione della facoltà di poter
assistere alla fase sostanziale e finale
della procedura selettiva di assunzione.
---------------
MASSIMA
21.4) Quanto ai restanti due motivi di
ricorso, riguardanti entrambi la prova
orale, il Collegio ritiene, sotto un profilo
logico, prioritario e assorbente lo
scrutinio dell’ultimo, il quinto, che è
quello con cui si denuncia il vizio più
grave, derivante dallo svolgimento della
predetta prova a porte chiuse anziché, come
riportato nel relativo verbale, a porte
aperte.
Il motivo è fondato.
Con sentenza n. 712/2017, del 23/12/2017, in
atti, il Tribunale di Lecco ha accertato la
falsità del verbale della commissione del
concorso per cui è causa, «nella parte in
cui attesta la presenza dei candidati nel
locale d’esame durante lo svolgimento delle
prove orali».
Sennonché, l’espletamento a porte chiuse
della prova si pone in aperto in contrasto
con la regola generale, immanente a
qualunque procedura concorsuale, della
pubblicità della prova orale e, quindi, con
i principi di trasparenza e imparzialità, di
cui all’art. 97 Cost.
La giurisprudenza ha già avuto modo di
affermare, secondo argomenti del tutto
condivisi dal Collegio, che, affinché
un'aula o sala sia aperta al pubblico,
occorre che durante le prove orali del
concorso sia assicurato il libero ingresso
al locale ove esse si tengono a chiunque
voglia assistervi e, quindi, anche ai
candidati che abbiano già sostenuto il
colloquio o che non vi siano stati ancora
sottoposti, atteso che ogni candidato è
titolare di un interesse qualificato a
presenziare alle prove degli altri, onde
verificare di persona il corretto operare
della Commissione esaminatrice (TAR
Lombardia, Milano, III, 05.04.2019, n.
759, TAR Toscana, Firenze, I, 05.05.2016, n. 805; Consiglio di Stato, Sez. III,
07.04.2014, n. 1622).
Il concetto di garanzia della "pubblicità"
della seduta deve necessariamente estendersi
(soprattutto) a "tutti" i soggetti che hanno
un reale interesse ad assistere alle prove,
primi fra tutti i partecipanti alla
selezione, sia che abbiano già sostenuto il
colloquio sia che ancora lo debbano
compiere. Il tutto al fine di permettere la
verifica, di persona, del corretto
svolgimento delle prove orali degli altri
partecipanti, nel rispetto dei principi di
trasparenza e imparzialità. Valori
essenziali garantiti dall'ordinamento
tramite la fissazione di regole e di norme
di garanzia "preventiva". In caso di omesso
rispetto di tali imprescindibili principi
risulterebbe frustrata anche la sfera di
possibile tutela dei partecipanti, i quali
hanno la possibilità concreta di formulare
eventuali contestazioni solo tramite la
(previa) attribuzione della facoltà di poter
assistere alla fase sostanziale e finale
della procedura selettiva di assunzione (TAR
Cagliari sez. II 13.03.2019, n. 227).
Nella fattispecie in esame, la "speciale"
modalità ideata dalla Commissione per lo
svolgimento delle prove orali, di sottoporre
ai candidati la stessa domanda, ha
indubbiamente violato le basilari regole di
trasparenza, imparzialità e buon andamento,
creando anomalie lesive della posizione dei
concorrenti non ammessi ad assistere.
22) L’illegittimità delle modalità di
svolgimento del colloquio travolge
irrimediabilmente le ulteriori fasi del
procedimento concorsuale, ed in particolare
la graduatoria finale di merito, e la
relativa approvazione.
22.1) Dall’annullamento consegue l’obbligo
dell’Amministrazione di procedere alla
rinnovazione del segmento procedimentale
della fase della prova orale, che dovrà
essere svolta davanti ad una Commissione in
diversa composizione con il pieno rispetto
della regola della pubblicità della prova
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 29.10.2019 n. 2272 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cartello di cantiere – Obbligo di apposizione o mancata
esposizione – Lavori sospesi o cantiere inoperante –
Responsabilità del titolare del permesso a costruire,
committente, costruttore o direttore dei lavori – Artt. 27,
36, 44, 45, 70, 83, 93, 95 d.P.R. n. 380/2001 ( T.U.E.) e
181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004.
In costanza d’efficacia del titolo,
l’obbligo di apposizione del cartello perdura sino
all’ultimazione dei lavori, anche se gli stessi siano stati
momentaneamente sospesi o il cantiere sia inoperante.
Sicché, la violazione dell’obbligo di esposizione del
cartello (così come quello, parimenti previsto dalla norma,
di esibire il titolo edilizio) è penalmente sanzionata a
condizione che quegli obblighi risultino espressamente
previsti anche dai regolamenti edilizi o dal titolo
(Cass. Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, Aramini e a.).
Principio, recente riaffermato con la
precisazione che la violazione dell’obbligo di esporre il
cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo,
qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo
medesimo, è tuttora punita dall’art. 44, lett. a) del d.P.R.
n. 380 del 2001 se commessa dal titolare del permesso a
costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore
dei lavori (Sez.
3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini e aa.),
essendo detti soggetti responsabili, giusta il
principio ricavabile dall’art. 29, comma 1, T.U.E., di
conformarsi alle previsioni urbanistiche ed esecutive
risultanti dalla normativa, dalla pianificazione, dal titolo
edilizio.
...
Attività di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia –
Violazione sull’obbligo di affiggere il cartello di cantiere
– Contravvenzione di omessa affissione del cartello di
cantiere.
L’attività di vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia di cui all’art. 27 T.U.E., concerne
tutte le opere che ancora non siano state ultimate, ben
potendo l’attività costruttiva riprendere in qualsiasi
momento prima che sia stata formalmente comunicata la
dichiarazione di conclusione dei lavori perdurando
l’eventuale consumazione degli illeciti sino all’ultimazione
delle opere.
Pertanto, rispondono della contravvenzione in parola, sia il
titolare del permesso a costruire, il committente, il
costruttore o direttore dei lavori, posto che la violazione
penale sussiste ogni qual volta il regolamento edilizio
preveda l’apposizione del cartello, anche se il titolo
rilasciato non sia il permesso di costruire.
Di fatti, soltanto le ipotesi di reato contenute nell’art.
44, comma 1, lett. b) e c), T.U.E. –salva la diversa
fattispecie di lottizzazione abusiva prevista da tale ultima
disposizione– si riferiscono esclusivamente allo svolgimento
di lavori in assenza o in totale difformità o variazione
essenziale dal permesso di costruire e, nel caso di opere
assoggettate al regime della s.c.i.a., sono state a quelle
parificate nei limiti in cui si tratti di titolo alternativo
al permesso ai sensi dell’art. 23, comma 01, T.U.E. (cfr.
art. 44, comma 2, T.U.E.).
Ulteriori informazioni da contenersi nel cartello di
cantiere riguardano, poi, la diversa materia del rispetto
delle prescrizioni sulla sicurezza del lavoro nei cantieri
edili (si pensi all’indicazione del “Coordinatore della
sicurezza in fase di progettazione e Coordinatore della
sicurezza in fase di escuzione” e agli “estremi della
notifica preliminare”).
La violazione sull’obbligo di affiggere il cartello di
cantiere, dunque, riguarda beni giuridici diversi (e
ulteriori) rispetto a quello, tipico delle contravvenzioni
urbanistiche, della mera conformità dell’opera alle
previsioni di piano e agli standards urbanistici, sicché la
contravvenzione non può dirsi sanata nel caso di rilascio
del permesso di costruire in sanatoria. La riprova della
correttezza di tale conclusione si ha constatando che la
contravvenzione di regola sussiste indipendentemente
dall’esistenza di una delle “classiche” ipotesi di illecito
urbanistico che sono sanate dal rilascio del permesso di
costruire in sanatoria.
Ed invero, nel caso di abuso c.d. “totale”, vale a dire
allorquando si è posto mano alla modifica del territorio
assoggettata al rilascio del permesso di costruire senza
richiede alcun titolo abilitativo, l’unico reato
configurabile è quello di costruzione in assenza di
permesso, posto che la contravvenzione di omessa affissione
del cartello di cantiere presuppone che un titolo edilizio
sia stato rilasciato e che ci si trovi di fronte ad un iter
amministrativo quantomeno ab origine regolare; se, d’altro
canto, la contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett.
a), T.U.E. riguardi –come si è visto essere ben possibile–
un intervento non assoggettato a permesso di costruire,
sarebbe irrazionale legare la possibilità di estinguere il
reato al rilascio di un provvedimento che non sarebbe
possibile né richiedere, né ottenere. In sostanza,
l’inosservanza di cui qui si discute si muove su un piano
diverso da quello della mera compatibilità urbanistica tra
pianificazione ed opera eseguita sul quale invece opera
l’accertamento di conformità di cui all’art. 36 T.U.E. che
produce effetti estintivi a norma del successivo art. 45,
comma 3, del testo unico.
Nel caso di specie, peraltro, da un lato non risultava che
la previsione del regolamento edilizio comunale non si
riferiva pure a detto titolo semplificato e, d’altro lato,
la sentenza impugnata attestava che il titolo rilasciato era
una s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire, sicché
nessun dubbio poteva porsi sulla sussistenza della
contravvenzione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.10.2019 n. 43698 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio in sanatoria del permesso di costruire – Effetti
sui reati – Disciplina urbanistica ed edilizia –
Inosservanze della normativa antisismica – Rispetto della
normativa tecnica in tema di costruzioni – Tutela della
pubblica incolumità – Giurisprudenza.
In materia di urbanistica ed edilizia,
per il combinato disposto di cui agli artt. 36 e 45, comma
3, T.U.E., il rilascio in sanatoria del permesso di
costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti.
L’ambito di applicazione della speciale causa di estinzione
del reato dipende, in primo luogo, dalla tipologia di
accertamento di conformità che la disposizione richiama (che
si limita alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al
momento della realizzazione dell’opera ed al momento di
presentazione della domanda in sanatoria: cfr. art. 36,
comma 1, T.U.E.), sicché, ad es., lo stesso non spiega
ovviamente alcun effetto con riguardo ai reati paesaggistici
previsti dall’art. 181 d.lgs. 42 del 2004
(Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017, dep. 2018, Franchino e aa.6;
Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015, Casalanguida e a.).
D’altro canto, per espressa previsione
normativa, la sanatoria opera soltanto per le
contravvenzioni urbanistiche e non anche per quelle
edilizie, sicché, il conseguimento del permesso di costruire
in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 non comporta l’estinzione dei reati previsti, dallo
stesso testo unico, con riguardo alle inosservanze della
normativa antisismica e di quelle sulle opere di
conglomerato cementizio
(Sez. 3, n. 19196 del 26/02/2019, Greco; Sez. 3, n. 54707
del 13/11/2018, Cardella; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017,
Rizzo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.10.2019 n. 43698 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività edificatoria unitara – Individuazione del regime
abilitativo applicabile – Valutazione delle opere nel suo
complesso – Lavori eseguiti in difformità – Area vincolata
in zona sismica – Autorizzazione paesaggistica.
I lavori connessi nell’ambito
dell’unico, complessivo, intervento per cui era stata
rilasciata la s.c.i.a. (peraltro eseguiti in difformità dal
titolo) non sono certo suscettibili di separata valutazione,
sicché, la valutazione dell’opera, ai fini della
individuazione del regime abilitativo applicabile, deve
riguardare il risultato dell’attività edificatoria nella sua
unitarietà, senza che sia consentito considerare
separatamente i singoli componenti, salvo che questi siano
lecitamente determinati, in tempi successivi, ad eseguire
singole opere, non programmate sin dall’inizio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.10.2019 n. 43698 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: E' legittima l’esclusione dalla gara, ai sensi dell’art. 95, comma 10, del
D.Lgs. n. 50/2016, dell’impresa che non abbia indicato nell’offerta
economica i costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti
l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi
di lavoro.
---------------
Il ricorso è fondato.
La ricorrente deduce che l’aggiudicataria non ha indicato all’interno della
busta relativa all’offerta economica i costi della manodopera e del
personale.
Per l’art. 95, comma 10, codice dei contratti pubblici “nell’offerta
economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli
oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza
posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai
sensi dell’articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti,
relativamente ai costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono
a verificare il rispetto di quanto previsto all’articolo 97, comma 5,
lettera d)”, e per l’art. 83, comma 9, il soccorso istruttorio è escluso
per le carenze dichiarative relative all’offerta economica e all’offerta
tecnica.
L’Adunanza Plenaria, nel rimettere la questione alla Corte di giustizia UE,
ha precisato “che il pertinente quadro giuridico nazionale imponga di
aderire alla tesi secondo cui, nelle circostanze rilevanti ai fini del
decidere, la mancata puntuale indicazione in sede di offerta dei costi della
manodopera comporti necessariamente l'esclusione dalla gara e che tale
lacuna non sia colmabile attraverso il soccorso istruttorio” e che “ai
sensi del diritto nazionale, siccome l'obbligo di separata indicazione di
tali costi è contenuto in disposizioni di legge dal carattere
sufficientemente chiaro per gli operatori professionali, la mancata
riproduzione di tale obbligo nel bando e nel capitolato della gara non
potrebbe comunque giovare a tali operatori in termini di scusabilità
dell'errore”, ritenendosi poi “l'esclusione del concorrente che non
abbia ottemperato all'obbligo legale di indicare separatamente i costi della
manodopera e della sicurezza dei lavoratori, senza che possa essere invocato
il beneficio del c.d. soccorso istruttorio” (Ad. Pl., 24.01.2019, n. 3).
La sentenza citata evidenzia inoltre che, stante la chiara previsione delle
disposizioni citate, “nessun argomento sembra sostenere la tesi secondo
cui una clausola escludente potrebbe operare solo se espressamente
richiamata dal bando o dal capitolato e non anche direttamente in base alla
forza di una legge adeguatamente chiara, come l’articolo 95 comma 10, citato”,
in quanto “se si aderisse a tale impostazione) si determinerebbe
l’effetto, evidentemente contrario al generale principio di legalità, per
cui sarebbe la stazione appaltante a scegliere quali disposizioni imperative
di legge rendere in concreto operanti e quali no, semplicemente
richiamandole ovvero non richiamandole nei bandi e nei capitolati”.
È poi da rilevare che, sulla questione in esame, la Corte di Giustizia si è
già pronunciata (Corte di Giustizia UE del 02.05.2019, n. 309/2018)
statuendo che “i principi della certezza del diritto, della parità di
trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti
pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati
nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale secondo la quale la
mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un'offerta
economica presentata nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico, comporta l'esclusione della medesima offerta senza
possibilità di soccorso istruttorio, anche nell'ipotesi in cui l'obbligo di
indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella
documentazione della gara d'appalto, sempre che tale condizione e tale
possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa
nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente
richiamata in detta documentazione”.
Posti questi principi, il ricorso deve essere accolto stante la mancata
indicazione, da parte dell’aggiudicataria, dei costi della manodopera e del
personale
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 25.10.2019 n. 12323
- link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia – Modifiche volumetriche –
Apprezzabilità o meno dell’aumento o diminuzione di
volumetria – Criteri – Norma statale inderogabile dalla
normativa regionale – Zona sismica – Disciplina applicabile
– BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Immobili vincolati o
assoggettati al vincolo paesaggistico – Autorizzazione
paesaggistica – Necessità – Artt. 10, 32, 44, 94, 95 d.P.R.
n. 380/2001 – Artt. 135, 143, 149, 156, 181 d.lgs. n.
42/2004.
In materia edilizia, le “modifiche
volumetriche” previste dall’art. 10 del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 per le attività di ristrutturazione edilizia
(assentibili, a scelta dell’interessato, o con permesso di
costruire o con DIA) devono consistere in diminuzioni o
trasformazioni dei volumi preesistenti ovvero in incrementi
volumetrici modesti, tali da non configurare apprezzabili
aumenti di volumetria, perché altrimenti verrebbe meno la
linea di distinzione tra la ristrutturazione edilizia e la
nuova costruzione
(Cass., Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Soldano).
Nel caso in cui i lavori abbiano ad oggetto
immobili vincolati (nella specie assoggettati al vincolo
paesaggistico per essere nel centro storico della
cittadina), si applica l’art. 32, comma 3, d.P.R. n.
380/2001, che esclude che le opere possano considerarsi
delle variazioni non essenziali. Tale norma statale non è
derogata né è derogabile dalla normativa regionale.
Nella specie, l’art. 17 della L.regionale Lazio n. 15/2008
che reca la nozione di variazioni essenziali si riferisce ad
ipotesi aggiuntive, ma non sostitutive, e comunque in parte
sovrapponibili a quelle della norma statale.
Inoltre, nell’ipotesi in esame la ristrutturazione
abbisognava anche dell’autorizzazione paesaggistica.
Trattandosi di opere in zona sismica è integrato anche il
reato relativo alla violazione degli art. 94 e 95 d.P.R. n.
380/2001.
...
Rifacimento di una copertura – Definizioni degli interventi
edilizi – Titolo abilitativo – Aumento delle altezze interne
– Difformità delle opere.
L’intervento di rifacimento di una
copertura di un edificio non può qualificarsi come
manutenzione ordinaria, rientrando piuttosto nella nozione
di manutenzione straordinaria, di cui all’art. 3 d.P.R. n.
380/2001.
Nella specie, in ogni caso lo stato dei luoghi è stato
certamente alterato rispetto a quello originario, essendo
aumentate le altezze interne (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.10.2019 n. 43530 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
SENTENZA
3. I ricorsi sono manifestamente infondati.
I Giudici di merito hanno accertato che gli imputati, nel
ristrutturare il
fabbricato di loro proprietà nel centro storico di Pico,
avevano sostituito gli
elementi portanti della copertura con una quota al colmo di
m 2,37 in luogo di m
2,20 ed ai lati di m 1,15 e di m 1,20. Si tratta di opere in
difformità di quelle
assentite perché la sostituzione degli elementi portanti
della copertura non era
prevista del progetto, vi era stato un aumento dell'altezza
di cm 17 e non era
possibile valutare le altre altezze siccome nel progetto non
erano state riportate
le misure ante operam.
Gli imputati ritengono che non sussistono i reati contestati
perché si
trattava di un intervento che non necessitava di permesso a
costruire e perché le
variazioni non erano state essenziali.
L'assunto difensivo è in contrasto con il dato normativo
come interpretato
dalla giurisprudenza.
Innanzi tutto, vi è stata una modifica volumetrica, sia pure
senza modifica
della sagoma esterna del fabbricato.
Questa Sezione ha
affermato che in materia
edilizia, le "modifiche volumetriche" previste dall'art. 10
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per le attività di ristrutturazione edilizia
(assentibili, a scelta
dell'interessato, o con permesso di costruire o con DIA)
devono consistere in
diminuzioni o trasformazioni dei volumi preesistenti ovvero
in incrementi
volumetrici modesti, tali da non configurare apprezzabili
aumenti di volumetria,
perché altrimenti verrebbe meno la linea di distinzione tra
la ristrutturazione
edilizia e la nuova costruzione (Cass., Sez. 3, n. 47046 del
26/10/2007, Soldano,
Rv. 238462).
Nella specie la modifica, da considerarsi non irrilevante, è
avvenuta in
difformità dalla DIA.
In secondo luogo, nel caso in cui i lavori abbiano ad
oggetto immobili
vincolati (nella specie assoggettati al vincolo
paesaggistico per essere nel centro
storico della cittadina), si applica l'art. 32, comma 3,
d.P.R. n. 380/2001, che
esclude che le opere possano considerarsi delle variazioni
non essenziali.
Tale norma statale non è derogata né è derogabile dalla
normativa
regionale.
Pertanto l'art. 17 della L. regionale n. 15/2008 che reca la
nozione di
variazioni essenziali si riferisce ad ipotesi aggiuntive, ma
non sostitutive, e
comunque in parte sovrapponibili a quelle della norma
statale.
Gli imputati ritengono inoltre che l'immobile, sebbene
vincolato, non
necessitava dell'autorizzazione paesaggistica sulla base
dell'art. 11 del piano
paesistico territoriale della Regione Lazio che esclude la
richiesta di
autorizzazione per gli interventi di manutenzione ordinaria
e consolidamento
statico che non alterino lo stato dei luoghi ed il prospetto
degli edifici.
Sennonché nella specie, non pare possa qualificarsi
l'intervento di
rifacimento della copertura come manutenzione ordinaria,
rientrando piuttosto
nella nozione di manutenzione straordinaria di cui all'art.
3 d.P.R. n. 380/2001
ed in ogni caso lo stato dei luoghi è stato certamente
alterato rispetto a quello
originario, essendo aumentate le altezze interne.
Pertanto, nell'ipotesi in esame la ristrutturazione
abbisognava anche
dell'autorizzazione paesaggistica (Cass., Sez. 3, n. 8739
del 21/01/2010, Perna,
Rv. 246218 e n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto, Rv. 267190).
Trattandosi di opere in zona sismica è integrato anche il
reato relativo alla
violazione degli art. 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
Corretta è l'esclusione della causa di non punibilità
dell'art. 131-bis cod.
pen. per la violazione della norma antisismica perché tale
violazione si iscrive in
un contesto illecito più ampio per il collegamento con gli
altri reati.
D'altra parte i ricorrenti non hanno dedotto alcun utile
elemento a loro
favore se non quello della modestia dell'illecito commesso,
che tale non è alla
luce di tutti gli elementi di fatto adeguatamente apprezzati
dai Giudici di merito.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte
ritiene pertanto
che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con
conseguente onere per i
ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di
sostenere le spese del
procedimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.10.2019 n. 43530). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
permesso di costruire in deroga.
Sulla scorta di quanto affermato dalla costante giurisprudenza:
a) il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (rubricato “Permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici”) è un istituto di carattere eccezionale rispetto
all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un potere
ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura
urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa
delibera del Consiglio comunale;
b) in particolare, in tale procedimento il Consiglio comunale è
chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto
della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse
costruttivo;
c) peraltro, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione
di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle
previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell'ampia
discrezionalità tecnica di cui l'Amministrazione dispone in materia e dalla
quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei
ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall’evidente
travisamento dei fatti;
d) invero, la eventuale sussistenza dei presupposti di cui all'art.
14, commi 1-bis, 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001 per il rilascio dei permessi
di costruire in deroga costituisce condizione minima necessaria, ma non
sufficiente, per l’assentibilità dell'intervento, permanendo in capo
all'Amministrazione un’ampia discrezionalità circa l'an e il quomodo
dell'eventuale assenso.
Nell’ambito del procedimento
per l’adozione del permesso di costruire in deroga, deve pertanto essere
distinta la competenza del Consiglio comunale, che è soggetto chiamato ad
operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della
pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse
costruttivo, e la competenza degli uffici tecnici, che devono invece
istruire la pratica.
In conclusione, ferma l’insindacabilità nel merito della decisione del
Consiglio comunale, risulta condivisibile la tesi (già affermata dal primo
giudice) secondo cui la valutazione della compatibilità con gli strumenti
urbanistici, ai fini del rilascio del permesso in deroga, rientra nella
competenza dell’ufficio tecnico, il quale, nell’esercizio della propria
verifica in ordine alla fattibilità tecnica dell’opera, non è pertanto
vincolato dalla precedente delibera del Consiglio comunale, espressosi nei
limiti della valutazione della sussistenza dell’interesse pubblico
dell’intervento.
---------------
Ai sensi del comma 5 dell’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la deroga,
nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare
esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi, nonché, nei casi di cui al comma 1-bis, le
destinazioni d'uso, fermo restando in ogni caso il rispetto delle
disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale
02.04.1968, n. 1444.”.
Ne consegue che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, il perimetro
della nozione di permesso di costruire in deroga viene circoscritto
esclusivamente ai limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi.
Peraltro, con riferimento alle destinazioni d'uso, l’ammissibilità della
deroga è limitata, fermo il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli
7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, ai soli casi di cui
al comma 1-bis del medesimo art. 14, secondo cui “Per gli interventi di
ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è
ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle
destinazioni d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne
attesta l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione
d'uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell'intervento
di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali,
quanto disposto dall'articolo 31, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n.
201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e
successive modificazioni”.
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6.2. Occorre infatti considerare, sulla scorta di quanto affermato dalla
costante giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
07.09.2018, n. 5277; id., 26.07.2017, n. 3680), che:
a) il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (rubricato “Permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici”) è un istituto di carattere eccezionale rispetto
all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un potere
ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura
urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa
delibera del Consiglio comunale;
b) in particolare, in tale procedimento il Consiglio comunale è
chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto
della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse
costruttivo;
c) peraltro, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione
di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle
previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell'ampia
discrezionalità tecnica di cui l'Amministrazione dispone in materia e dalla
quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei
ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall’evidente
travisamento dei fatti;
d) invero, la eventuale sussistenza dei presupposti di cui all'art.
14, commi 1-bis, 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001 per il rilascio dei permessi
di costruire in deroga costituisce condizione minima necessaria, ma non
sufficiente, per l’assentibilità dell'intervento, permanendo in capo
all'Amministrazione un’ampia discrezionalità circa l'an e il
quomodo dell'eventuale assenso.
6.3. Nell’ambito del procedimento per l’adozione del permesso di costruire
in deroga, deve pertanto essere distinta la competenza del Consiglio
comunale, che è soggetto chiamato ad operare una comparazione tra
l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello
del privato ad attuare l'interesse costruttivo, e la competenza degli uffici
tecnici, che devono invece istruire la pratica.
In conclusione, con riferimento al caso in esame, ferma l’insindacabilità
nel merito della decisione del Consiglio comunale del Comune di San Nicola
Arcella, risulta condivisibile la tesi (già affermata dal primo giudice)
secondo cui la valutazione della compatibilità con gli strumenti
urbanistici, ai fini del rilascio del permesso in deroga, rientra nella
competenza dell’ufficio tecnico, il quale, nell’esercizio della propria
verifica in ordine alla fattibilità tecnica dell’opera, non è pertanto
vincolato dalla precedente delibera del Consiglio comunale, espressosi nei
limiti della valutazione della sussistenza dell’interesse pubblico
dell’intervento.
7. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso, sviluppato nei
termini anzidetti.
7.1. Al riguardo, il Collegio rileva in primo luogo che, ai sensi del comma
5 dell’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la deroga, nel rispetto
delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare
esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi, nonché, nei casi di cui al comma 1-bis, le
destinazioni d'uso, fermo restando in ogni caso il rispetto delle
disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale
02.04.1968, n. 1444.”.
Ne consegue che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, il perimetro
della nozione di permesso di costruire in deroga viene circoscritto
esclusivamente ai limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi.
Peraltro, con riferimento alle destinazioni d'uso, l’ammissibilità della
deroga è limitata, fermo il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli
7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, ai soli casi di cui
al comma 1-bis del medesimo art. 14, secondo cui “Per gli interventi di
ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è
ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle
destinazioni d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne
attesta l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione
d'uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell'intervento
di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali,
quanto disposto dall'articolo 31, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n.
201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e
successive modificazioni”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.10.2019 n. 7228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
jus receptum il principio generale a mente del quale in materia edilizia la
vicinitas, ossia l’esistenza di uno stabile collegamento con il terreno
interessato dall’intervento edilizio, è circostanza sufficiente a comprovare
la sussistenza sia della legittimazione che dell’interesse a ricorrere,
senza che sia necessario al ricorrente allegare e provare di subire uno
specifico pregiudizio per effetto dell’attività edificatoria intrapresa sul
suolo limitrofo.
---------------
Preliminarmente il Collegio deve farsi carico dell’eccezione di
inammissibilità del ricorso per carenza di interesse sollevata dalla difesa
del controinteressato.
L’eccezione è infondata.
Invero, «costituisce jus receptum il principio generale a mente del quale
in materia edilizia, la vicinitas, ossia l’esistenza di uno stabile
collegamento con il terreno interessato dall’intervento edilizio, è
circostanza sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione
che dell’interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente
allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto
dell’attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. ex multis
Consiglio di Stato, sez. VI, 10/09/2018, n. 5307)» (così, testualmente,
C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 3386/2019).
Il ricorrente è proprietario dell’appartamento sottostante a quello ove è
stato effettuato l’intervento edilizio abusivo e come tale ha, quindi,
interesse e legittimazione a ricorrere avverso il provvedimento che ha
sanato il predetto abuso
(TAR Lombardia-Miulano, Sez. IV,
sentenza 24.10.2019 n. 2221 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cessione di cubatura tra fondi non contigui – Edificio in
zona agricola vincolata in assenza di permesso di costruire
ed autorizzazione paesaggistica – Responsabilità del
proprietario/committente e del progettista/direttore dei
lavori.
La legittimità della cessione di
cubatura tra fondi non contigui deve escludersi, oltre che
nei casi in cui gli stessi siano lontani, oppure esprimano
diversi indici di fabbricabilità quando più elevato sia
quello del fondo cedente, ovvero abbiano diversa
destinazione urbanistica, anche laddove l’atto negoziale
abbia consentito di realizzare una assai maggiore volumetria
in un terreno paesaggisticamente vincolato.
Quest’ultimo elemento –che per quanto detto incide sulla
valutazione circa la legittimità della cessione di cubatura
ai fini urbanistici e, dunque, sulla legittimità del
permesso di costruire che sia ciò nondimeno stato
rilasciato– consente di comprendere come risulti certamente
compromessa anche la legittimità dell’accertamento di
compatibilità paesaggistica laddove, ciò che nella specie è
avvenuto, lo stesso sia espresso sull’errato presupposto del
rispetto degli standards urbanistici di zona quanto alla
volumetria legittimamente edificabile.
...
Cessione di cubatura – Indice di edificabilità – Elusione
dei vincoli – Requisito della reciproca prossimità – Assenza
del necessario requisito della “contiguità” dei fondi
– Effettiva e significativa vicinanza.
La cessione di cubatura è un istituto di
fonte negoziale, in forza del quale è consentita, a
prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la
“cessione” della cubatura edificabile propria di un fondo in
favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura
complessiva risultante, il fondo cessionario sarà
caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a
quello originariamente goduto.
Onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla
realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta
gestione del territorio, il legittimo ricorso a tale
meccanismo è tuttavia soggetto a determinate condizioni, una
delle quali è costituita dall’essere i terreni in questione,
se non precisamente contermini, quanto meno dotati del
requisito della reciproca prossimità, perché altrimenti,
attraverso l’utilizzazione di tale strumento, astrattamente
legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto
estranei ed, anzi, contrastanti con le esigenze di corretta
pianificazione del territorio.
Laddove si ritenesse legittima la “cessione di cubature” fra
terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso,
di una situazione di “affollamento edilizio” in determinate
zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di
carenza in altre (ove sono situati i terreni cedenti), con
evidente pregiudizio per l’attuazione dei complessivi
criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti
urbanistici.
Pur essendo spesso stata detta ratio decidendi associata
all’ulteriore rilievo –ritenuto parimenti ostativo ad una
legittima cessione di cubatura– dell’essere i terreni
caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi
si è ritenuto che anche in ipotesi di aree entrambe
tipizzate come zona agricola ed aventi il medesimo indice di
fabbricabilità non può essere esclusa la illegalità
dell’operazione effettuata.
Sicché, l’assenza del necessario requisito della
“contiguità” dei fondi, intesa nel senso che gli stessi,
anche in assenza di continuità fisica tra tutte le
particelle catastali interessate dalla nuova costruzione,
devono pur sempre essere caratterizzati da una effettiva e
significativa vicinanza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.10.2019 n. 43253 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati urbanistici e
paesaggistici – Opere edilizie – Manufatti completamente
diversi da quelli eseguibili – Vocazione agricola (e non
residenziale) dell’area paesaggisticamente vincolata –
Assenza di validi titoli autorizzativi – Requisito della
c.d. doppia conformità – Configurabilità dei reati – Art.
181 d.lgs. n. 42/2004 – Art. 44, D.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato previsto dall’art. 44
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 la realizzazione di un
immobile in assenza di valido permesso di costruire, perché
ottenuto mediante illegittima cessione di cubatura a scopo
edificatorio tra terreni non reciprocamente prossimi, aventi
un indice di fabbricabilità differente o una diversa
destinazione urbanistica.
Quanto alla sussistenza dell’illecito paesaggistico, il
reato di cui all’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, giusta
la chiara formulazione del precetto contenuta nel primo
comma della disposizione, si configura rispetto a lavori di
qualsiasi genere eseguiti sui beni muniti di tutela
paesaggistica, in assenza della prescritta autorizzazione o
in difformità da essa, senza che assuma rilievo la
distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale
rilevante invece nella disciplina urbanistica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.10.2019 n. 43253 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante orientamento della giurisprudenza, il ricupero o la ricostruzione
di un rudere è riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia
qualora sia possibile accertarne la preesistente consistenza, ovvero, in
mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell’edificio da ricuperare, in quello della nuova
costruzione.
In nessun caso, pertanto, la ricostruzione di un rudere può rientrare nella
categoria del restauro e risanamento conservativo.
Come più volte precisato dalla giurisprudenza, la mancata conservazione
delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente, tra cui la
sagoma, comporta che l’intervento fuoriesca dalla categoria della
ristrutturazione edilizia, configurando una nuova costruzione.
---------------
Infatti, pur in assenza di puntuali descrizioni dell’edificio preesistente e
di rappresentazioni fotografiche che consentano di apprezzarne la
consistenza, è agevole ritenere che si trattasse di una costruzione in
rovina, ossia di rudere, come comprovato:
(i) dall’affermazione, contenuta alla pag. 2 del ricorso, secondo
cui esso era “in gran parte coperto dalle serre agricole presenti sul
terreno”;
(ii) dalla definizione di “edificio fatiscente” contenuta
alla pag. 1 della memoria difensiva datata 18.10.2007;
(III) dal verbale di sopralluogo del 02.07.2007, in atti, nel quale
si afferma che “non è possibile determinare l’altezza del fabbricato
preesistente”.
Per costante orientamento della giurisprudenza, il ricupero o la
ricostruzione di un rudere è riconducibile nell’alveo della
ristrutturazione edilizia, qualora sia possibile accertarne la
preesistente consistenza (TAR Campania, Napoli, sez. III, 11.06.2019, n.
3162), ovvero, in mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da ricuperare, in quello della
nuova costruzione (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 26.09.2017, n.
1167).
In nessun caso, pertanto, la ricostruzione di un rudere può rientrare nella
categoria del restauro e risanamento conservativo (TAR Toscana, Firenze,
sez. I, 16.05.2017, n. 692; TAR Campania, Salerno, sez. I, 28.07.2015, n.
1764).
Va soggiunto che, pur in assenza di aumenti volumetrici, le opere oggetto
dell’istanza di sanatoria hanno sicuramente comportato incisive modifiche
della sagoma dell’edificio, in ragione della modifica della copertura nonché
della sopraelevazione dell’intero corpo di fabbrica.
Come più volte precisato dalla giurisprudenza, la mancata conservazione
delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente, tra cui la
sagoma, comporta che l’intervento fuoriesca dalla categoria della
ristrutturazione edilizia, configurando una nuova costruzione (cfr.,
fra le ultime, Cons. Stato, sez. II, 12.08.2019, n. 5663)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.10.2019 n. 782 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
necessità del permesso di costruire la giurisprudenza, tra l'altro, ha così
statuito:
a) costituisce
trasformazione soggetta a permesso di costruire la realizzazione di piste
all’esito di ripetuti passaggi con mezzi meccanici, nonché per quanto attiene al
previsto ampliamento della stradella;
b) in materia edilizia sono esenti dal regime del permesso di
costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia
permanente, bensì costituiscano manufatti di precaria installazione e di
immediata asportazione -quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche,
sorrette da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno- in
quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi
alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà), per quanto
attiene alla recinzione formata da un muretto in cemento armato;
c) ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una
costruzione, si deve valutare l'opera medesima alla luce della sua obiettiva
ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella
nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione
edilizia, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel
suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in
modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale), per quanto attiene
ai due box prefabbricati (uno dei quali, tra l’altro, destinato a servizio
WC con allaccio alla pubblica fognatura) e per quanto attiene ai macchinari,
anche tenuto conto che il progetto contemplava la realizzazione di idonee
opere di fondazione per il posizionamento delle attrezzature necessarie per
lo svolgimento dell’attività, costituite da piastre di fondazione in cemento
armato e massetto debolmente armato.
---------------
Non può condividersi la tesi di parte ricorrente secondo cui
l’impianto di betonaggio sarebbe stato realizzato tramite mera collocazione
sul suolo di macchinari e senza esecuzione di lavori comportanti
trasformazioni permanenti del suolo stesso.
Come risulta dal progetto dell’intervento versato in atti
dall’Amministrazione resistente (allegato 005 alla memoria di costituzione
del 03.03.2019), la ditta ricorrente, al fine di realizzare il previsto
impianto di betonaggio, intendeva, tra l’altro, effettuare le seguenti
opere:
- “sistemazione del terreno, mediante la realizzazione di
terrazzamenti, disposti secondo l’andamento naturale dello stesso e la
realizzazione di idonee opere di mitigazione e consolidamento per l’impianto
di betonaggio”;
- “rinterri effettuati mediante il riutilizzo della terra
naturale proveniente dai modesti scavi di sbancamento in loco per la
realizzazione dei terrazzamenti previsti in progetto, per le opere di
fondazione, per l’ampliamento della stradella di accesso e per la
collocazione della cisterna totalmente interrata in cemento armato”;
- “completamento della recinzione esistente, formata da muretto in cemento
armato, con sovrastante paletti e rete metallici”;
- “realizzazione di idonee
opere di fondazione per il posizionamento delle attrezzature necessarie per
lo svolgimento dell’attività, costituite da piastre di fondazione in cemento
armato, massetto debolmente armato e per la successiva collocazione di due
piccoli box prefabbricati da destinare rispettivamente a ufficio e locale
WC”;
- realizzazione di uno “scarico per il servizio igienico” che sarebbe
“stato recapitato direttamente nella fognatura pubblica, servita da appositi
pozzetti di ispezione”.
Nel suo complesso si tratta chiaramente di un intervento per il quale
risultava necessario il permesso di costruire.
Al riguardo è sufficiente citare le seguenti pronunce (in parte menzionate
anche dall’Amministrazione resistente nella propria memoria):
a) TAR
Lazio, Roma, II-quater, n. 10017/2018 (in cui si afferma che costituisce
trasformazione soggetta a permesso di costruire la realizzazione di piste
all’esito di ripetuti passaggi con mezzi meccanici), per quanto attiene al
previsto ampliamento della stradella);
b) TAR Bari, III, n. 714/2013 e
Consiglio di Stato, VI, n. 5380/2019 (nella quale ultima decisione si
precisa che in materia edilizia sono esenti dal regime del permesso di
costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia
permanente, bensì costituiscano manufatti di precaria installazione e di
immediata asportazione -quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche,
sorrette da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno- in
quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi
alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà), per quanto
attiene alla recinzione formata da un muretto in cemento armato;
c) TAR
Firenze, III, n. 481/2002, TAR Torino, I, n. 1143/2013 e TAR Campania,
Napoli, III, n. 3863/2008 (nella quale ultima decisione si afferma che, ai
fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, si
deve valutare l'opera medesima alla luce della sua obiettiva ed intrinseca
destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia,
tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e
pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente occasionale), per quanto attiene ai due
box prefabbricati (uno dei quali, tra l’altro, destinato a servizio WC con
allaccio alla pubblica fognatura) e per quanto attiene ai macchinari, anche
tenuto conto che il progetto contemplava la realizzazione di idonee opere di
fondazione per il posizionamento delle attrezzature necessarie per lo
svolgimento dell’attività, costituite da piastre di fondazione in cemento
armato e massetto debolmente armato
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 18.10.2019 n. 2438 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE: Forniture
di beni e necessità che gli stessi abbiano
già in sede di offerta le caratteristiche
essenziali per il loro utilizzo.
Appare rispondente ad
un’appropriata gestione delle modalità di
scelta del contraente privato pretendere che
un bene abbia già in sede di offerta tutte
le caratteristiche essenziali per il suo
utilizzo (nella fattispecie il requisito
della registrazione nel «Repertorio dei
dispositivi medici» di determinate protesi),
posto che, da un lato, i principi di
imparzialità e buon andamento dell’azione
amministrativa e di libertà di iniziativa
economica e di concorrenza impongono la
parità di trattamento fra i concorrenti in
gara, e quindi la necessità che tutti i
prodotti offerti siano contestualmente
valutati secondo le caratteristiche e i
requisiti posseduti e attestati
dall’offerente al medesimo momento di
presentazione dell’offerta, e che,
dall’altro lato, è financo legittimo
dubitare che l’immissione in commercio di un
prodotto coincida con la sottoscrizione del
contratto per la fornitura dello stesso, per
potersi invece ragionevolmente sostenere che
l’offerta di un prodotto in una pubblica
gara costituisca un’ipotesi di
commercializzazione, intesa come
presentazione al mercato di un bene avente
tutte le caratteristiche essenziali per il
suo utilizzo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.10.2019 n. 2191 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
- che è pur vero che
l’immissione in commercio potrebbe anche
farsi coincidere con la fase di esecuzione
del rapporto negoziale, e quindi con il
successivo momento della stipulazione del
contratto, sennonché appare rispondente ad
un’appropriata gestione delle modalità di
scelta del contraente privato pretendere che
il requisito sia già presente al momento
dell’offerta al potenziale acquirente, posto
che, da un lato, i principi di imparzialità
e buon andamento dell’azione amministrativa
e di libertà di iniziativa economica e di
concorrenza impongono la parità di
trattamento fra i concorrenti in gara, e
quindi la necessità che tutti i prodotti
offerti siano contestualmente valutati
secondo le caratteristiche ed i requisiti
posseduti ed attestati dall’offerente al
medesimo momento di presentazione
dell’offerta (v. Cons. Stato, Sez. III,
03.10.2019 n. 6658), e che, dall’altro lato,
è financo legittimo dubitare che
l’immissione in commercio di un prodotto
coincida con la sottoscrizione del contratto
per la fornitura dello stesso, per potersi
invece ragionevolmente sostenere che
l’offerta di un prodotto in una pubblica
gara costituisca un’ipotesi di
commercializzazione, intesa come
presentazione al mercato di un bene avente
tutte le caratteristiche essenziali per il
suo utilizzo (v. TAR Lombardia, Milano, Sez.
IV, 14.01.2019 n. 52); |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività
di spargimento di ghiaia deve ritenersi riconducibile alla categoria degli
interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma 1,
lett. b), d.p.r. n. 380/2001, da realizzarsi unicamente previo rilascio, ad
opera del Comune, di un obbligatorio permesso di costruire ai sensi
dell'art. 33 del richiamato d.p.r. 380/2001.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, anche il mero
spargimento di ghiaia senza titolo edilizio, su un’area che in precedenza ne
era priva, può essere oggetto dell'ordine di reintegrare il pregresso stato
dei luoghi, allorché sia preordinato alla modifica della precedente
destinazione d'uso. Non ha rilievo la circostanza che la ricorrente non
abbia realizzato alcuna opera di impermeabilizzazione definitiva del fondo
agricolo in oggetto, in quanto lo spargimento di uno strato di ghiaia
produce di fatto l’isolamento del suolo.
Occorre, pertanto, il permesso di costruire anche a fronte della
modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo -pur in
assenza di opere di muratura e di infrastrutture- per adattarlo ad un
impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione
naturale ed alla sua originaria qualificazione.
---------------
6. Con riferimento alla consistenza dell’intervento, lo stesso è descritto
dall’amministrazione come “posa di nuova e spessa pavimentazione,
composta da ghiaia e petrisco, di spessore di circa 40-50 cm, con lunghezza
di mt. 21 circa e larghezza di mt. 3,00. Pavimentazione (…) posata e rullata
direttamente sul terreno”.
7. Al fine di individuarne il regime edilizio va richiamato l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui “L'attività di spargimento di ghiaia deve
ritenersi riconducibile alla categoria degli interventi di
ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma 1, lett. b), d.p.r.
n. 380/2001, da realizzarsi unicamente previo rilascio, ad opera del Comune
procedente, di un obbligatorio permesso di costruire, ai sensi dell'art. 33
del richiamato d.p.r. 380/2001.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, anche il mero
spargimento di ghiaia senza titolo edilizio, su un’area che in precedenza ne
era priva, può essere oggetto dell'ordine di reintegrare il pregresso stato
dei luoghi, allorché sia preordinato alla modifica della precedente
destinazione d'uso. Non ha rilievo la circostanza che la ricorrente non
abbia realizzato alcuna opera di impermeabilizzazione definitiva del fondo
agricolo in oggetto, in quanto lo spargimento di uno strato di ghiaia
produce di fatto l’isolamento del suolo (in questo senso, Cons. Stato, sez.
V, 27.04.2012, n. 2450).
Occorre, pertanto, il permesso di costruire anche a fronte della
modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo -pur in
assenza di opere di muratura e di infrastrutture (Cons. Stato, sez. V,
21.10.2003, n. 6519)- per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli
è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua originaria
qualificazione (cfr: Cons. Stato n. 2450/2012, n. 6756/2008; n. 7343/2005;
n. 7324/2004; 6519/2003; TAR Lombardia, Milano, n. 2086/2012; TAR Toscana,
Firenze, n. 6437/2010)” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 27.07.2015, n.
3948).
8. Nella specie l’intervento contestato, sottraendo una porzione di terreno
alla sua vocazione agricola per destinarlo al transito dei mezzi, richiedeva
un idoneo titolo edilizio, rilasciato sulla base di un documentato titolo di
disponibilità dell’area
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.10.2019 n. 902 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Assenza del permesso di costruire e dell’autorizzazione
ambientale – Responsabilità del direttore dei lavori in
concorso con il proprietario – Subordinazione della
sospensione condizionale della pena alla demolizione – Artt.
29, 31, 44 d.P.R. n. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati edilizi, è legittima la
sentenza con cui il giudice subordina la concessione della
sospensione condizionale della pena all’eliminazione delle
conseguenze dannose del reato mediante demolizione
dell’opera abusiva, senza procedere a specifica motivazione
sul punto, essendo questa implicita nell’emanazione
dell’ordine di demolizione disposto con la sentenza, che, in
quanto accessorio alla condanna del responsabile, è emesso
sulla base dell’accertamento della persistente offensività
dell’opera stessa nei confronti dell’interesse protetto.
Deve aggiungersi che la subordinazione della sospensione
condizionale della pena all’ordine di demolizione, sebbene
in sé legittima, tuttavia richiede la condizione che
l’eliminazione delle opere abusive sia esigibile da parte
del condannato, ovvero che questi abbia la disponibilità
giuridica del bene da demolire.
...
Reati edilizi ed urbanistici – Direttore dei lavori –
Responsabilità per l’attività edificatoria non conforme –
Vigilanza irregolare sull’esecuzione delle opere edilizie –
Responsabilità tecnica – Esonero.
In tema di reati edilizi ed urbanistici,
il direttore dei lavori è penalmente responsabile, per
l’attività edificatoria non conforme alle prescrizioni del
permesso di costruire in caso di irregolare vigilanza
sull’esecuzione delle opere edilizie, in quanto questi deve
sovrintendere con continuità alle opere della cui esecuzione
ha assunto la responsabilità tecnica, fatta salva l’ipotesi
di esonero prevista dall’art. 29, comma 2, del d.P.R. n. 380
del 2001.
Tuttavia, il giudice, nel disporre la condanna
dell’esecutore dei lavori e/o del direttore dei lavori per
il reato ex art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non può
subordinare il beneficio della sospensione condizionale
della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive,
in quanto solo il proprietario, ai sensi dell’art. 31 del
d.P.R. prima citato, può ritenersi soggetto passivamente
legittimato rispetto all’ordine di demolizione.
Nel caso in specie, l’ipotesi di esonero di responsabilità
non era ravvisabile, non essendo emerso che il direttore dei
lavori abbia contestato al committente e al costruttore le
violazioni edilizie in corso o, in mancanza di ciò, abbia
rinunciato all’incarico una volta venuto a conoscenza della
tipologia dei lavori da lui seguiti, lavori la cui natura
abusiva non poteva certo essere ignorata da una persona di
qualificata esperienza professionale
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.10.2019 n. 42566 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di volumi tecnici – Esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti – Rapporto di strumentalità
necessaria con l’utilizzo della costruzione.
In tema di reati edilizi, sono “volumi
tecnici” quelli strettamente necessari a contenere e
consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della
costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori,
vani di espansione dell’impianto termico, canne fumarie e di
ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda),
che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche
di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell’edificio
realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.10.2019 n. 42566 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Revoca implicita di una variante
urbanistica.
Dall’atto con cui il
Comune dichiara di adottare il nuovo
progetto di variante urbanistica senza,
tuttavia, né rispettare le previsioni della
legge da un punto di vista sia
procedimentale sia contenutistico, né in
alcun modo manifestare espressamente
l’intenzione di revocare precedenti
decisioni, non può trarsi l’implicita
volontà di privare di efficacia pregresse
deliberazioni formalmente assunte.
Invero, la revoca della deliberazione di
adozione della variante generale consegue
esclusivamente:
- o alla legittima adozione di una nuova variante generale, giacché
la disciplina della stessa materia (la
pianificazione del territorio comunale) non
può che trovare un’unica sedes materiae;
- o all’espressa e formale manifestazione della volontà consiliare,
esternata con una apposita deliberazione di
voler privare di efficacia la precedente
deliberazione di adozione della variante
generale.
Invero, mentre con la prima evenienza il
Comune sostanzialmente determina l’inizio di
un nuovo procedimento pianificatorio, nella
seconda, al contrario, il Comune chiude il
procedimento a suo tempo iniziato con la
deliberazione revocata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.10.2019 n. 7051 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
5.1. Va premesso che, in linea di principio,
il consiglio comunale con una successiva
delibera può implicitamente revocare una sua
precedente delibera, quando il contenuto
dispositivo e motivazionale del secondo
provvedimento contrasti con il contenuto
dell’atto precedente.
In passato, alcune disposizioni dei testi
unici sugli enti locali affermavano il
principio opposto.
L’art. 303 del testo unico sugli enti locali
approvato col regio decreto del 04.02.1915,
n. 148 (riproduttivo dell’art. 291 del testo
unico approvato col regio del 21.02.1908, n.
269) disponeva infatti che “le
deliberazioni dei consigli, importanti
modificazioni o revoca di deliberazioni
esecutorie, si hanno come non avvenute, ove
esse non facciano espressa e chiara menzione
della revoca e della modificazione”.
Tale disposizione (a sua volta trasfusa con
modifiche lessicali nell’art. 282 del testo
unico approvato con il regio decreto
03.03.1934, n. 383) è stata più volte
interpretata da questo Consiglio nel senso
che la revoca poteva essere disposta anche
in assenza di ‘formule sacramentali’
e senza menzionare la parola ‘revoca’
nella delibera successiva, purché risultasse
del tutto chiara la determinazione del
Comune ‘di sostituire l’una all’altra
deliberazione’ (Sez. IV, 27.05.1977, n.
533, riguardante la modifica di uno
strumento urbanistico; Sez. V, 28.09.1973,
n. 656).
Entrambe tali disposizioni, poi, sono state
abrogate dall’art. 64 della legge n. 142 del
1990, con la conseguente affermazione della
regola generale per la quale una delibera
comunale può essere revocata implicitamente
da una successiva delibera avente un
contenuto incompatibile.
5.2. Pur se la revoca può essere disposta
con un successivo provvedimento
incompatibile, in materia urbanistica
continuano, comunque, ad avere un rilievo
centrale le esigenze di certezza e di
chiarezza, già sottolineate da questo
Consiglio.
Invero, la materia urbanistica,
strutturalmente connotata dalla contestuale
compresenza di plurimi interessi, pubblici e
privati, spesso in conflitto tra loro, si
caratterizza, tra l’altro, per due tratti
fondamentali: l’ampia discrezionalità
riconosciuta all’Autorità titolare del
potere di pianificazione (specie con
riferimento alle scelte di massima) ed il
vincolo procedimentale e, più in generale,
formale che avvince l’operato
dell’Amministrazione, per evidenti ragioni
di certezza.
In particolare, lo strumento più importante
della pianificazione urbanistica a livello
comunale, ossia il PRG (o il diverso atto
previsto dalla legislazione regionale), è
l’esito di una serie rigidamente
procedimentalizzata di atti, in cui
intervengono, a vario titolo ed in momenti
diversi, i singoli cittadini, gli uffici
comunali, le Amministrazioni competenti a
dare i pareri e gli assensi eventualmente
necessari nonché, in sede di approvazione
finale, la Regione.
E’ certamente vero, come sostiene il Tar che
il Comune riveste “centralità sostanziale”
nel procedimento che conduce alla
formulazione del PRG e delle relative
varianti, posto che al Comune sono riservate
l’iniziativa e la formulazione delle scelte
di merito.
E’, inoltre, altrettanto vero che il potere
pianificatorio può essere esercitato anche
incidendo negativamente sull’affidamento dei
privati al mantenimento delle pregresse
previsioni urbanistiche.
Ciononostante, tale “centralità
sostanziale” e tale prevalenza sui
contrapposti affidamenti dei privati si
svolgono e si esprimono esclusivamente
nell’ambito delle forme previste dalla
legge: la tipicità del potere, del resto, si
manifesta anche e soprattutto con la
tipicità delle forme di esteriorizzazione
del potere e, a monte, dei propedeutici
procedimenti.
La rigida procedimentalizzazione vigente
in subiecta materia –la cui rilevanza e
la cui specialità sono evidenziate
dall’esclusione dell’applicazione degli
istituti apprestati dalla legge generale sul
procedimento amministrativo– e le esigenze
di certezza e stabilità che la pervadono
impongono di ascrivere rilievo giuridico
alle sole manifestazioni del potere svolte
secondo le forme, i tempi ed i modi previsti
dalla legge.
Ne consegue, per quanto qui di interesse,
che dall’atto con cui il Comune dichiari di
adottare il nuovo progetto di variante
urbanistica senza, tuttavia, né rispettare
le previsioni della legge da un punto di
vista sia procedimentale sia contenutistico
(questione, questa, passata in giudicato,
stante l’assenza di impugnazione comunale
sul punto), né in alcun modo manifestare
espressamente l’intenzione di revocare
precedenti decisioni, non può trarsi
l’implicita volontà di privare di efficacia
pregresse deliberazioni formalmente assunte.
Invero, la revoca della deliberazione di
adozione della variante generale consegue
esclusivamente:
- o alla legittima adozione di una nuova variante generale, giacché
la disciplina della stessa materia (la
pianificazione del territorio comunale) non
può che trovare un’unica sedes materiae;
- o all’espressa e formale manifestazione della volontà consiliare,
esternata con una apposita deliberazione,
emanata prima dell’esercizio del potere
della Regione ed a questa tempestivamente
comunicata, di voler privare di efficacia la
precedente deliberazione di adozione della
variante generale.
Si osserva, in proposito, che mentre con la
prima evenienza il Comune sostanzialmente
determina l’inizio di un nuovo procedimento
pianificatorio, nella seconda, al contrario,
il Comune chiude il procedimento a suo tempo
iniziato con la deliberazione revocata. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di annullamento in autotutela della CILA è illegittimo perché
il Comune non dispone del potere di annullamento di una comunicazione
relativa ad attività di edilizia libera, ma può unicamente verificare che
tale attività sia conforme alle prescrizioni urbanistiche ed agire di
conseguenza.
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Va premesso che il provvedimento gravato è composto da due distinte parti
dispositive: sotto un primo profilo, è disposto l’annullamento in autotutela
della CILA n. 578/2017 per cambio di destinazione d’uso per false
dichiarazioni e falsa rappresentazione dello stato dei luoghi; sotto
distinto profilo, è ordinato il ripristino dello stato dei luoghi come
rappresentato nella PE 578/2017, comprensivo della destinazione urbanistica
originaria (negozio).
Ebbene, il Collegio ritiene (aderendo all’orientamento espresso da ultimo da
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 29.11.2018, n. 2052) che il provvedimento
di annullamento in autotutela della CILA -in disparte il difetto di
motivazione e la incertezza sui presupposti di assunzione connessi alle
asserite false rappresentazioni ed a prescindere da ogni altra
considerazione– sia illegittimo perché il Comune non dispone del potere di
annullamento di una comunicazione relativa ad attività di edilizia libera,
ma può unicamente verificare che tale attività sia conforme alle
prescrizioni urbanistiche ed agire di conseguenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 17.10.2019 n. 895 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione di un edificio in parte
diruto.
Perché un intervento
possa essere qualificato di ristrutturazione
edilizia occorre che sussista la possibilità
di procedere, con sufficiente grado di
certezza, alla ricognizione degli elementi
strutturali dell'edificio, in modo tale che,
seppur in parte diruto, ovvero non “abitato”
o “abitabile”, esso possa essere comunque
individuato nei suoi connotati essenziali,
come identità strutturale in relazione anche
alla sua destinazione.
Ne consegue che un fabbricato, seppur in
precarie condizioni, identificabile nella
sua struttura originaria e nel suo volume,
essendo presenti le mura su tre lati e parte
della volta di copertura non può
considerarsi un rudere privo di sostanziale
identità, con conseguente possibilità di
procedere ad un intervento di
ristrutturazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.10.2019 n. 7046 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
Con un unico motivo di gravame la
parte appellante deduce l’errore in cui
sarebbe incorso il Tribunale nel ritenere
che, malgrado il precario stato manutentivo,
il fabbricato mostrasse “intatta la sua
struttura originaria ed il suo volume”
mantenendo “le mura sui tre lati
perimetrali e parte della volta di copertura”.
E invero, diversamente da quanto opinato dal
giudice di prime cure l’immobile di che
trattasi avrebbe le caratteristiche di un
rudere privo di sostanziale identità,
essendo costituito da semplici brandelli
delle mura perimetrali relative a tre lati
(semisepolti da folata vegetazione), dalla
totale assenza della muratura del lato sud e
dalla sostanziale mancanza della copertura.
Il motivo è infondato.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale che il Collegio condivide
e che trae conforto dall’art. 3, comma 1,
lett. d), del D.P.R. 06/06/2001, n. 380, la
ristrutturazione edilizia presuppone, come
elemento indispensabile, la preesistenza di
un fabbricato ben identificabile nella sua
consistenza e nelle sue caratteristiche
planivolumetriche e architettoniche.
Perché un intervento possa essere
qualificato di ristrutturazione edilizia
occorre, dunque, che sussista la possibilità
di procedere, con sufficiente grado di
certezza, alla ricognizione degli elementi
strutturali dell'edificio, in modo tale che,
seppur in parte diruto, ovvero non “abitato”
o “abitabile”, esso possa essere
comunque individuato nei suoi connotati
essenziali, come identità strutturale in
relazione anche alla sua destinazione (Cons.
Stato, Sez. VI, 05/12/2016, n. 5106;
12/04/2013, n. 1995; Sez. IV, 19/03/2018, n.
1725).
Nel caso di specie, il manufatto del sig. Di
Crescenzo presentava le caratteristiche
essenziali minime per poter essere oggetto
di un intervento di ristrutturazione.
Infatti, come si ricava
incontrovertibilmente dagli allegati
fotografici depositati in giudizio (si fa
riferimento alle foto. nn. 4, 5, 6, 7, 8, 9,
10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19
depositate nel giudizio di primo grado), su
cui si è basato anche l’iter motivazionale
del primo giudice, il fabbricato, seppur in
precarie condizioni, era perfettamente
identificabile nella sua struttura
originaria e nel suo volume, essendo
presenti le mura su tre lati e parte della
volta di copertura, con conseguente
qualificazione dell’intervento come di mero
recupero.
L’appello va, pertanto, respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: Ricorso
incidentale di una Comunità Montana in un
giudizio promosso da un privato avverso
un'ordinanza comunale di demolizione.
Deve escludersi
che la Comunità Montana, essendo portatrice
di interessi diversi da quelli
urbanistico/edilizi, possa rivestire la
posizione di controinteressato
all’impugnazione dell’ordine di demolizione
emesso da parte di un Comune appartenente a
detta Comunità e, in assenza di impugnazione
di provvedimenti emanati dall’Ente Montano,
nemmeno quella di parte resistente.
Deve quindi concludersi che la Comunità
Montana possa assumere nel giudizio
esclusivamente la posizione di interveniente
e proprio per tale posizione processuale
deve escludersi che la Comunità Montana
possa proporre ricorso incidentale (nella
fattispecie la Comunità Montana aveva
impugnato una autorizzazione paesaggistica
rilasciata dal Comune che aveva emesso
l’ordine di demolizione oggetto di gravame).
L'intervento nel processo amministrativo, a
differenza di quello regolato dalla
disciplina processualcivilistica, può
infatti essere spiegato unicamente a
sostegno delle ragioni di una o di altra
parte (adesivo dipendente), e non per far
valere un interesse proprio nei confronti di
tutte le parti (intervento principale) o di
una di esse (intervento litisconsortile
autonomo)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.10.2019 n. 2171 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. In secondo luogo deve dichiararsi
inammissibile il ricorso incidentale
proposto dalla Comunità Montana Valli del
Lario e del Ceresio.
Ai sensi dell’art. 42, c. 1, del c.p.a. solo
le parti resistenti e i controinteressati
possono proporre domande il cui interesse
sorge in dipendenza della domanda proposta
in via principale, a mezzo di ricorso
incidentale.
In merito bisogna precisare che, non essendo
stati impugnati provvedimenti emanati dalla
Comunità Montana, deve ritenersi che tale
ente non possa assumere la posizione di
resistente, nonostante spesso nelle memorie
insista sulla mancata formazione dei titoli
paesaggistici e di tipo ambientale.
Inoltre la Comunità Montana non può
rivestire la posizione di controinteressato
all’impugnazione dell’ordine di demolizione.
Infatti, per giurisprudenza consolidata, la
individuazione dei controinteressati nel
processo amministrativo deriva dalla
simultanea compresenza di un presupposto
formale, consistente nella indicazione
nominativa del soggetto nel provvedimento
impugnato, e di un elemento sostanziale,
derivante dall'esistenza in capo a tale
soggetto di un interesse qualificato,
giuridicamente rilevante, di carattere
uguale e contrario rispetto a quello fatto
valere con l'azione impugnatoria, al fine di
mantenere la regolazione degli interessi
prodotta dall’atto contestato dal ricorrente
(cfr. Cons. St., sez. IV, 01/08/2018, n.
4736; TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.12.2018 n. 7333).
Nel caso di specie la Comunità Montana è
citata nell’ordine di sospensione e
demolizione n. 1/2018 del Comune di Carlazzo
in quanto autore di un atto di opposizione
emesso in qualità di terzo estraneo al
procedimento, sebbene parte di procedimenti
connessi, e quindi non può assumere la
posizione di controinteressato (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 04/09/2017 n. 4174).
Né tanto meno la Comunità Montana può essere
controinteressata nell’azione di
accertamento della formazione del titolo
edilizio per silenzio assenso, essendo
portatrice di interessi diversi da quelli
urbanistico/edilizi tutelati con la
procedura in esame.
Deve quindi concludersi che la Comunità
Montana possa assumere nel giudizio
esclusivamente la posizione di
interveniente.
È pacifico in giurisprudenza (da ultimo TAR
Campania, Salerno, 29/03/2019 n. 500) che
l'intervento nel processo amministrativo, a
differenza di quello regolato dalla
disciplina processualcivilistica, può essere
spiegato unicamente a sostegno delle ragioni
di una o di altra parte (adesivo
dipendente), e non per far valere un
interesse proprio nei confronti di tutte le
parti (intervento principale) o di una di
esse (intervento litisconsortile autonomo).
Nel caso di specie l’intervento deve
ritenersi ad adiuvandum del Comune, come
confermato dalla memoria del Comune, nella
quale si afferma, a giustificazione del
conferimento dell’incarico defensionale dei
due enti ai medesimi avvocati, che “nessun
conflitto d’interesse sussiste fra i due
enti pubblici, ma anzi una piena unità
d’intenti”. In data 9.06.2018 è stata poi
depositata memoria congiunta del Comune di Carlazzo e della Comunità Montana.
Proprio per tale posizione processuale, deve
escludersi che la Comunità Montana possa
proporre ricorso incidentale.
Ne consegue che la Comunità Montana non è
legittimata ad impugnare gli atti emessi dal
Comune, per farne accertare l’illegittimità,
in quanto, così facendo, assume una
posizione contraria a quella del Comune,
addirittura di interessato all’eliminazione
degli atti emessi dal suddetto ente, del
tutto incompatibile con quella di
interventore ad adiuvandum.
L’accoglimento di questa eccezione rende
superfluo l’esame delle eccezioni di
tardività dell’impugnazione
dell'autorizzazione paesaggistica (P.E.
138/2015) rilasciata dal Comune di Carlazzo
in data 22.04.2016.
In definitiva quindi il ricorso incidentale
dev’essere dichiarato inammissibile. |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire, silenzio-assenso e
autorizzazione paesistica.
Con sentenza 16.10.2019, n. 2171, il TAR
Milano fissa il principio secondo cui
il permesso di costruire
su’un area soggetta a vincolo paesistico che
è anche sito di interesse comunitario (SIC)
può costituirsi mediante silenzio-assenso.
Nel caso di specie, i ricorrenti avevano
presentato domanda di permesso di costruire,
previa acquisizione dell’autorizzazione
paesistica dall’Amministrazione Comunale la
quale conteneva anche la presa d’atto
dell’autorizzazione da parte della Comunità
Montana ente gestore del SIC.
Il TAR chiarisce che, in questo caso, per la
valutazione paesistica è sufficiente
l’autorizzazione acquisita dal Comune,
potendosi dunque escludere l’applicazione
delle disposizioni previste dall’art. 14
della l. 241/1990 sulla conferenza dei
servizi che impone la conclusione dell’iter
procedimentale necessariamente con
provvedimento espresso
nella fattispecie specifica la mancanza
della necessità di altri pareri ed
autorizzazioni di altri enti giustifica
l’applicazione della normativa in materia di
silenzio assenso.
Altresì, una volta che l’Amministrazione
abbia preso conoscenza della formazione del
silenzio-assenso, con la pubblicazione
sull’albo comunale della dichiarazione dei
ricorrenti in merito all’avvenuta formazione
del permesso di costruire, tale
pubblicazione soddisfa la disposizione di
cui all’art. 20, co. 6, DPR 380/2001:
deve infatti ritenersi che tale
pubblicazione sia stata effettuata per
assegnare ad essa il significato di presa
d’atto della formazione del titolo edilizio.
Ciò comporta che l’Amministrazione se vuole
incidere sull’efficacia del titolo edilizio
formatosi tacitamente può farlo solo
attraverso l’esercizio dei poteri di
autotutela ai sensi dell’art 20, co. 3, l.
241/1990 (commento tratto da e link a https://studiospallino.blogspot.com)
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SENTENZA
3.
Venendo all’esame del primo motivo del
ricorso principale, esso è fondato.
3.1 Dall’esame degli atti risulta che il
Comune non ha mai concluso il procedimento
per il rilascio del permesso di costruire
con provvedimento espresso.
Ciò comporta la necessità di verificare in
primo luogo se la domanda di rilascio del
permesso di costruire oggetto del ricorso
sia soggetta alla disciplina in materia di
silenzio assenso.
In merito occorre precisare che secondo il
comma 8 dell’art. 20 del DPR 380/2001 (L)
Decorso inutilmente il termine per
l’adozione del provvedimento conclusivo, ove
il dirigente o il responsabile dell’ufficio
non abbia opposto motivato diniego, sulla
domanda di permesso di costruire si intende
formato il silenzio-assenso, fatti salvi i
casi in cui sussistano vincoli relativi
all’assetto idrogeologico, ambientali,
paesaggistici o culturali, per i quali si
applicano le disposizioni di cui agli
articoli da 14 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241.
Come chiarito dalla giurisprudenza (da
ultimo TAR Calabria, Reggio Calabria,
24/05/2019 n. 361) l’art. 20, comma 8,
d.P.R. n. 380/2001, infatti, nell’escludere
dalla formazione del silenzio assenso gli
atti ed i procedimenti riguardanti il
patrimonio culturale e paesaggistico, ovvero
ove sussistano vincoli (tra gli altri)
culturali e/o paesaggistici (tra cui si
intendono ovviamente compresi anche i
vincoli archeologici ai sensi del D.Lgs. n.
42/2004), rinvia alle disposizioni dell’art.
14 della L. n. 241/1990 sulla conferenza dei
servizi, rimandando così ad un più
articolato iter procedimentale ed alla sua
conclusione con un provvedimento espresso.
Nel caso di specie la domanda di permesso di
costruire dei ricorrenti, benché avente ad
oggetto un’area soggetta a vincolo
paesistico che è anche Sito di interesse
comunitario (area SIC), è stata presentata
il 09.08.2016 dopo aver acquisito dal
Comune di Carlazzo il 21.04.2016
l’autorizzazione paesistica P.E. n. 138/2015
che contiene anche la presa d’atto
dell’acquisizione dell’autorizzazione della
Comunità Montana ente gestore del SIC.
Ne consegue che nella fattispecie specifica
la mancanza della necessità di altri pareri
ed autorizzazioni di altri enti giustifica
l’applicazione della normativa in materia di
silenzio-assenso.
Né in contrario può valere l’eccezione
sollevata dalla difesa della Comunità
Montana con la memoria in data 20.05.2019, sostenuta anche dal Comune, secondo la
quale il silenzio assenso non si sarebbe
formato in quanto al parere della Comunità
Montana non si applicherebbe il comma 4
dell'art 17-bis legge 241/1990, anche per
essere mancata l’allegazione dello studio di
incidenza sul maneggio con conseguente
impedimento alla conclusione
dell’istruttoria. Tale circostanza, infatti,
può incidere semmai sulla legittimità
dell’autorizzazione paesistica ma non sulla
sua esistenza.
Né d’altro canto può assumere rilievo il
successivo parere negativo assunto dalla
Comunità Montana in data 25 agosto 2016 in
quanto espresso su diversa e successiva
istanza che non ha comportato l’annullamento
della precedente autorizzazione paesistica.
A sua volta la domanda di annullamento
dell’autorizzazione paesistica comunale da
parte della Comunità Montana è inammissibile
in questo giudizio, per la posizione
processuale assunta dalla Comunità, come
sopra statuito.
3.2 Accertata quindi l’esistenza dei
presupposti per la formazione del silenzio-assenso, cioè di un procedimento per il
quale non sia necessaria per la sua
conclusione una decisione in conferenza dei
servizi, occorre ora affrontare il primo
motivo di ricorso, che è diretto nei
confronti dell’ordine di demolizione, in
quanto adottato senza il previo annullamento
del permesso di costruire formatosi
tacitamente.
In merito il Collegio ritiene che
l’amministrazione abbia preso atto della
formazione del silenzio-assenso, sia con la
pubblicazione all’albo comunale della
dichiarazione del procuratore della parte
ricorrente in merito all’avvenuta formazione
del permesso di costruire per silenzio
assenso, accompagnata dalla dicitura “formazione
di silenzio assenso”, sia citando la
suddetta circostanza nell’ordinanza di
demolizione n. 1/2018 successivamente
emanata.
La pubblicazione con la sopradetta dicitura,
infatti, soddisfa la previsione dell’art.
20, c. 6, del DPR 380/2001 secondo la quale
dell’avvenuto rilascio del permesso di
costruire è data notizia al pubblico
mediante affissione all’albo pretorio.
La norma prevedendo l’obbligo di
pubblicazione dei titoli edilizi permette di
attribuire un significato pregnante al
comportamento dell’amministrazione. Deve
infatti ritenersi che tale pubblicazione sia
stata effettuata per assegnare ad essa il
significato di presa d’atto della formazione
del titolo edilizio, al pari dei titoli
edilizi rilasciati in forma espressa.
La citazione della pubblicazione
nell’ordinanza di demolizione, sebbene priva
di alcuna valutazione sul significato che
l’amministrazione ha assegnato a tale fatto,
a sua volta conferma che tale pubblicazione
non costituisce un fatto irrilevante avente
per oggetto “una nota privata”, come
affermato dalla Comunità Montana nella
memoria del 20.05.2019, bensì un elemento
costitutivo del procedimento di rilascio del
permesso a costruire da parte
dell’amministrazione.
E’ chiaro quindi l’eccesso di potere per
contraddittorietà in cui è incorsa
l’amministrazione la quale, prima ha
considerato rilevante la dichiarazione di
parte dell’avvenuta formazione del silenzio-assenso, tanto da farne oggetto di
pubblicazione in deroga all’obbligo di
segreto d’ufficio previsto dall’art. 15 del
testo unico di cui al d.P.R. 10.01.1957, n. 3, così come modificato dall’art.
28 della L. 241/1990, e poi ha ritenuto, con
l’ordinanza di demolizione impugnata, che il
procedimento di formazione del silenzio-assenso non fosse ancora concluso, senza
fornire alcuna motivazione in proposito.
Né tanto meno può ritenersi che alla
formazione del titolo per silenzio-assenso
possano ostare le opposizioni proposte dalla
Comunità Montana con nota prot. 9414 del
03.11.2017 e da Legambiente con nota prot.
9685 del 09.11.2017. Infatti si tratta di
soggetti che sono intervenuti i qualità di
terzi nel procedimento amministrativo in
questione e, di conseguenza, essi non sono
forniti di alcun potere di opporsi alla
realizzazione delle opere, come invece ha
riconosciuto loro il Comune con il preavviso
di diniego prot. 10130 del 20.11.2017.
Infatti ai sensi dell’art. 10 della L.
241/1990 le osservazioni proposte da coloro
che partecipano al procedimento sono
interventi di tipo collaborativo che debbono
formare oggetto di valutazione
dell’amministrazione ove siano presentate da
soggetti che hanno titolo a partecipare al
procedimento e siano pertinenti all’oggetto
del procedimento, mentre nel caso di specie
nessuna valutazione è stata fatta dal Comune
e neppure le motivazioni delle opposizioni
sono state riportate nel preavviso di
diniego.
Una volta riconosciuta la formazione del
silenzio-assenso, l’amministrazione può
incidere sulle attività di esecuzione del
titolo tacito solo previo esercizio dei
poteri di autotutela ai sensi dell’art. 20,
c. 3, della L. 241/1990 secondo il quale “Nei
casi in cui il silenzio dell'amministrazione
equivale ad accoglimento della domanda,
l'amministrazione competente può assumere
determinazioni in via di autotutela, ai
sensi degli articoli 21-quinquies e
21-nonies”.
Ne consegue che l’adesione tardiva e
immotivata alle osservazioni presentate dai
terzi non può giustificare il cambio di
prospettiva del Comune il quale, dopo aver
preso atto della formazione del silenzio
assenso, ha poi ritenuto tale fatto del
tutto irrilevante senza esercitare il potere
di autotutela ed ha esercitato il potere
sanzionatorio sul presupposto erroneo che il
titolo non si fosse ancora formato.
Il primo motivo di ricorso va quindi accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.10.2019 n. 2171 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il Comune non risponde dei danni da diffida informale.
Una diffida informale proveniente dagli uffici del Comune è, come tale,
posta in essere in violazione del principio di legalità che porta la Pa ad
agire solo con atti tipici e nominati. Questa diffida è quindi un «non-atto»
che si colloca nella sfera del giuridicamente inesistente. Di conseguenza
qualsivoglia danno subito dal cittadino per essersi conformato alla stessa
non è imputabile al Comune ma al cittadino stesso. Ciò è tanto più vero per
il fatto che il danno per essere imputabile a un ente pubblico deve essere
comprovato, effettivo e reale.
A volte il danno può essere persino futuro, se vi sia ragionevole
possibilità del suo realizzarsi, ma mai può essere astratto ovvero
potenziale o persino addirittura «sperato», come ha asserito il TAR
Puglia-Lecce, Sez. II, nella
sentenza
16.10.2019 n. 1602 che traccia
nuove sfumature del «danno da ritardo» del Comune nel portare avanti i
procedimenti avviati su richiesta di cittadini e utenti.
La vicenda
I titolari di una struttura sportiva hanno chiesto al Tar il risarcimento
del danno subito in conseguenza della tardiva adozione del provvedimento di
autorizzazione al mantenimento degli spogliatoi e dei locali
tecnici/igienici funzionali ai campi da calcetto di loro proprietà.
L'autorizzazione alla costruzione degli impianti sportivi prevedeva che gli
spogliatoi e i servizi igienici fossero amovibili e temporanei, aggiungendo
che allo scadere dell'autorizzazione i titolari dovevano provvedere alla
rimozione. I titolari avevano dunque chiesto e ottenuto ogni anno il rinnovo
dell'autorizzazione al mantenimento degli spogliatoi.
Alla presentazione
dell'ultima istanza annuale il Comune è rimasto a lungo inerte, per poi
trasmettere un preavviso di rigetto. Nelle more, secondo il ricorso, ai
titolari della struttura era pervenuta una «diffida informale» del Comune a
rimuovere i manufatti, diffida alla quale hanno ottemperato. Dopodiché
l'istruttoria si è conclusa favorevolmente con il rilascio
dell'autorizzazione.
La decisione
Il giudice ha valutato il comportamento complessivo delle parti e ha escluso
il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria
diligenza anche attraverso gli strumenti di tutela previsti. Il Tar ha
seguito la logica che vede l'omessa impugnazione non come preclusione
processuale, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del
giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
A seguito dell'istanza volta al rinnovo dell'autorizzazione al mantenimento
degli spogliatoi e dei servizi, il Comune è rimasto inerte. Ma i titolari in
presenza di questa inerzia, ai sensi della vigente normativa processuale
amministrativa, avrebbero dovuto proporre ricorso contro il «silenzio».
Sarebbe stato un rimedio snello, poco costoso e dunque giuridicamente
«esigibile».
Va aggiunto che l'ampiezza del generale riferimento ai mezzi di
tutela e al comportamento complessivo delle parti, consente di valutare
«esigibile» non solo la mancata impugnazione del dannoso silenzio del
Comune, ma anche l'omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei
a evitare il danno, quali la via dei ricorsi amministrativi e l'assunzione
di atti di iniziativa finalizzati anche solo alla stimolazione dell'autotutela
amministrativa (il cosiddetto «invito all'autotutela»).
Invece i ricorrenti hanno tenuto una condotta che si colloca al di fuori di
qualsivoglia schema giuridico, smontando la struttura in pendenza del
procedimento volto rinnovo dell'autorizzazione. E ciò, nonostante avessero
pieno titolo a mantenerla sino alla concreta conclusione del procedimento
istruttorio.
A ben vedere i titolari della struttura hanno fatto ciò non già in virtù di
un atto tipico e nominato proveniente da parte del Comune ma in quanto
(secondo ricorso) «informalmente diffidati». In assenza di qualsivoglia
presupposto logico, prima ancora che giuridico, i ricorrenti non possono che
imputare a sé stessi l'asserito danno subito per aver smontato le strutture (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
12.12.2019).
---------------
SENTENZA
2. Il ricorso è infondato.
2.2. Premette anzitutto il Collegio che, per condivisa giurisprudenza
amministrativa, “Anche se l'art. 2-bis l. 07.08.1990 n. 241 rafforza la
tutela risarcitoria del privato nei confronti dei ritardi delle Pubbliche
amministrazioni, stabilendo che esse sono tenute al risarcimento del danno
ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento, la domanda deve essere comunque
ricondotta nell'alveo dell'art. 2043 c.c., per l'identificazione degli
elementi costitutivi della responsabilità; di conseguenza l'ingiustizia e la
sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi
“iuris tantum”, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio
nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve, ex
art. 2697 c.c., provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi
della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere
oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso,
nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del
danneggiante)” (C.d.S, V, 09.03.2015, n. 1182).
In particolare, in punto di condotta del danneggiato nella causazione del
danno, si è condivisibilmente chiarito che: “Anche in tema di danno da
ritardo è necessario valutare il comportamento dell'Amministrazione
unitamente alla condotta dell'istante, il quale riveste il ruolo di parte
essenziale e attiva del procedimento e in tale veste dispone di poteri
idonei a incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento stesso,
attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e giurisdizionali
riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra cui il rito del silenzio che
deve essere attivato con tempestività rilevando, in difetto, come
comportamento causalmente orientato ai sensi dell'art. 1227 c.c. (art. 30
c.p.a.) in ordine all'accertamento della spettanza del risarcimento nonché
alla quantificazione del danno risarcibile” (TAR Liguria, II,
08.01.2016, n.
4. Cfr, altresì, per un esame approfondito della tematica del concorso di
colpa del danneggiato nella causazione del danno, C.d.S, AP n. 3/11).
In uno al fatto ingiusto e alla colpa (di apparato) dell’Amministrazione,
occorre infine che il danneggiato fornisca prova del danno subito: danno che
deve essere effettivo e reale (ancorché futuro, qualora vi sia una
ragionevole chance di conseguimento), e non, invece, meramente astratto e/o
potenziale, ovvero, addirittura, sperato.
3. Ciò premesso, e venendo ora al caso di specie, emerge dalla narrazione
dei fatti esposta dai ricorrenti che, a seguito dell’istanza 21.2.2017,
volta al rinnovo dell’autorizzazione al mantenimento degli spogliatoi e
servizi tecnici/igienici, il Comune si è mostrato inerte.
Orbene, in presenza di tale inerzia da parte del civico ente, incombeva sui
ricorrenti, ai sensi degli artt. 30 c.p.a. e 1227 c.c, proporre ricorso
avverso il silenzio (artt. 31-117 c.p.a.), trattandosi di rimedio snello,
non implicante costi eccessivi, e dunque giuridicamente esigibile.
In tal senso i ricorrenti non hanno operato, sicché è evidente, sotto tale
profilo, la loro esclusiva responsabilità nella produzione dell’asserito
danno.
4. Né ciò basta.
Avendo proposto in termini istanza di rinnovo del suddetto titolo
autorizzatorio, i ricorrenti erano per ciò solo legittimati al mantenimento
delle strutture sin quando il Comune non si fosse pronunciato, non potendo
certamente la durata del relativo procedimento andare a loro detrimento. Il
tutto senza sottacere che essi si erano visti rinnovare ininterrottamente il
titolo autorizzatorio per circa un decennio (e segnatamente, dal 2007 al
2016), sicché in assenza di qualsivoglia mutamento del quadro fattuale e
normativo di riferimento (mutamento in alcun modo emergente dagli atti di
causa), essi potevano senz’altro vantare una ragionevole aspettativa di
mantenimento delle strutture in questione anche nell’anno 2017.
Invece, con condotta che si colloca al di fuori di qualsivoglia schema
giuridico, i ricorrenti hanno smontato la struttura in pendenza del
procedimento volto al rilascio del titolo autorizzatorio –nonostante, si
ribadisce, essi avessero pieno titolo a mantenerla sino alla conclusione
dello stesso– e ciò hanno fatto non già in virtù di un atto tipico e
nominato da parte dell’Amministrazione, ma in quanto “diffidati
informalmente” (cfr. ricorso, p. 4) da quest’ultima.
In sostanza, un non-atto da parte della p.a. (tale dovendosi qualificare una
“diffida informale”), e in particolare una condotta che si colloca nella
sfera del giuridicamente inesistente –in quanto posta in essere in
violazione del basilare principio di legalità, che porta la p.a. ad agire
solo con atti tipici e nominati– ha costituito la causa esclusiva dello
smontaggio delle strutture da parte dei ricorrenti. Ricorrenti che invece,
nel decennio precedente, si erano visti puntualmente assentire il rilascio
del suddetto titolo autorizzatorio.
È evidente, allora, che i ricorrenti non potranno che imputare a sé stessi
l’asserito danno da loro subito, avendo smontato la struttura in esame in
assenza di qualsivoglia presupposto logico, prima ancora che giuridico.
5. In definitiva, e concludendo sul punto:
a) la mancata attivazione del rimedio del silenzio avverso l’inerzia del
Comune, nonché
b) la scelta di smontaggio della struttura in pendenza del procedimento
volto al rilascio del titolo autorizzatorio, e in assenza di qualsivoglia
atto tipico e nominato da parte dell’Amministrazione, la quale nel decennio
precedente aveva sempre provveduto al rinnovo del chiesto titolo,
costituiscono elementi che depongono nel senso della responsabilità
esclusiva dei ricorrenti nella causazione del danno in esame.
Per tali ragioni, va escluso il chiesto passaggio di riparazione ad
equivalente monetario.
6. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è infondato.
Ne consegue il suo rigetto. |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la compatibilità paesaggistica di un abuso edilizio soggetto a condono, per
quanto riguarda l’effettuata schermatura con siepi e piante rampicanti, la
giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di statuire che non rileva la
circostanza che l'opera non sia percepibile da uno spazio pubblico o che
l’opera sia in gran parte occultata alla vista, poiché "la finalità del
vincolo paesaggistico è quella di apprestare una tutela che non può
ritenersi limitata al mero aspetto esteriore, o immediatamente visibile
dell'area vincolata.
Pertanto è soggetta alle prescrizioni imposte dal
vincolo qualsiasi modificazione dell'assetto del territorio, anche se non è
visibile dalla strada pubblica.
---------------
La società Im.Ge. di Ma.Si. & c. s.a.s., proprietaria di un edificio e
dell’annesso giardino ricadente in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
vi realizzò alcune opere abusive, tra cui un magazzino per ricovero di
attrezzi agricoli (m. 8,40 X 9,20, per un totale di mq. 77,28); essa, in
data 26.09.1986, presentò domanda di condono ai sensi dell’art. 31 della
legge n. 47/1985 avente ad oggetto anche il suddetto manufatto.
La Commissione edilizia integrata del Comune di Firenze, in data 22.09.2003,
espresse parere contrario in ordine alla regolarizzazione del citato
magazzino, sull’assunto che il medesimo era fonte di alterazione dello stato
dei luoghi.
Il Comune recepì tale parere (confermato nella sua validità dalla
Soprintendenza con provvedimento del 02.02.2004) con atto del 14.11.2003.
In data 06.06.2012 il Comune ha quindi preannunciato il diniego parziale di
condono, ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, limitatamente al
magazzino abusivo, ma prima ancora la ricorrente, in data 16.11.2007, aveva
presentato denuncia di inizio attività concernente la realizzazione di una
tettoia, nel giardino di proprietà, munita di pannelli fotovoltaici. La
soluzione progettuale è stata poi modificata nel senso di prevedere
l’installazione della tettoia con i pannelli fotovoltaici sulla copertura
dell’esistente magazzino (di cui veniva evidenziata la pendenza della
domanda di condono).
In data 15.04.2008 la commissione comunale per il paesaggio si è espressa
favorevolmente in ordine al progettato intervento, talché il Comune, con
provvedimento datato 02.05.2008, lo ha autorizzato.
La società istante, venuta a conoscenza del preavviso di diniego di condono
del magazzino, con missiva del 23.05.2013 ha chiesto all’Amministrazione di
rinnovare la valutazione di compatibilità paesaggistica, richiamandosi
all’autorizzazione paesaggistica del 02.05.2008, relativa all’impianto
fotovoltaico, e documentando il fatto che il manufatto era circondato da
alte siepi e piante, occultato alla vista.
Il Comune, con atto di diniego datato 23.01.2014, ha dato che la commissione
comunale, in data 30.09.2013, aveva espresso parere contrario, ritenendo
l’intervento “per dimensioni e materiali, incompatibile con i valori
monumentali e paesaggistici del luogo”.
Avverso il suddetto diniego di condono edilizio e gli atti connessi (a
partire dal parere negativo del 22.09.2003) la ricorrente è insorta
deducendo: ...
...
Con la prima censura la società istante deduce che i giudizi negativi
della commissione edilizia integrata e della commissione del paesaggio
recano una motivazione apparente, in particolare la commissione per il
paesaggio si è limitata ad affermare che per dimensione e materiali il
magazzino de quo sarebbe incompatibile col paesaggio, tanto più che
si tratta di struttura occultata da siepi e piante; secondo la ricorrente il
suddetto manufatto non comporta alcun rilevante impatto paesaggistico,
stanti le sue caratteristiche e le schermature naturali.
La doglianza è infondata.
Il parere contrario sulla compatibilità paesaggistica, da ultimo espresso
dalla commissione comunale, faceva leva sull’incompatibilità scaturente
dalle dimensioni e dai materiali del magazzino. Trattasi infatti di un
immobile avente superficie di 77 metri quadrati e realizzato in lamiera (si
vedano il documento n. 1 depositato in giudizio dal Comune di Firenze e il
documento n. 9 prodotto dalla deducente).
Anche alla luce delle rappresentazioni fotografiche depositate dalle parti
risulta che l'amministrazione ha dato contezza degli elementi dell’opera
abusiva ritenuti in conflitto con i valori paesaggistici tutelati,
soddisfacendo, sia pure con formulazione succinta, l'obbligo di motivazione
(TAR Toscana, III, 13.05.2011, n. 843).
Per quanto riguarda l’effettuata schermatura con siepi e piante rampicanti,
la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di statuire che non rileva la
circostanza che l'opera non sia percepibile da uno spazio pubblico o che
l’opera sia in gran parte occultata alla vista, poiché "la finalità del
vincolo paesaggistico è quella di apprestare una tutela che non può
ritenersi limitata al mero aspetto esteriore, o immediatamente visibile
dell'area vincolata; pertanto è soggetta alle prescrizioni imposte dal
vincolo qualsiasi modificazione dell'assetto del territorio, anche se non è
visibile dalla strada pubblica" (Cons. Stato, VI, 12.10.2018, n. 5894;
Cons. Stato, 05.08.2013 n. 4079; TAR Veneto, II, 17.09.2019, n. 991)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 16.10.2019 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Relativamente
alla valenza da attribuire al piano di lottizzazione scaduto, il Collegio
rammenta che la condivisibile giurisprudenza, formatasi sul punto, ha più
volte chiarito come, dopo la scadenza, si determini un‘ultrattività del
piano.
Invero, ai sensi dell'art. 17, comma 1, l. n. 1150 del 1942, decorso il
termine stabilito per l'esecuzione del piano particolareggiato (cui è
assimilabile il piano di lottizzazione), questo diventa inefficace per la
parte in cui non abbia avuto attuazione; tuttavia, rimane fermo a tempo
indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e
nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni
di zona in esso stabiliti.
In particolare, poi, non viene meno l'obbligo dei lottizzanti, assunto con
la convenzione di lottizzazione, di realizzare le opere di urbanizzazione,
in quanto si deve ritenere che la scadenza dell'efficacia del piano
attuativo non possa incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni
assunte dai soggetti attuatori degli interventi, in quanto correlate alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione.
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica
"alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile
"ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione".
Ne segue che l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini
disposti con la convenzione di lottizzazione.
---------------
Anche relativamente alla valenza da attribuire al piano di lottizzazione
scaduto (recante previsioni ostative, nella fattispecie, alla realizzazione
del passo carrabile) il Collegio rammenta che la condivisibile
giurisprudenza, formatasi sul punto, ha più volte chiarito come, dopo la
scadenza, si determini un‘ultrattività del piano.
Invero, ai sensi dell'art. 17, comma 1, l. n. 1150 del 1942, decorso il
termine stabilito per l'esecuzione del piano particolareggiato (cui è
assimilabile il piano di lottizzazione), questo diventa inefficace per la
parte in cui non abbia avuto attuazione; tuttavia, rimane fermo a tempo
indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e
nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni
di zona in esso stabiliti (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV,
22/01/2019, n. 536).
In particolare, poi, non viene meno l'obbligo dei lottizzanti, assunto con
la convenzione di lottizzazione, di realizzare le opere di urbanizzazione,
in quanto si deve ritenere che la scadenza dell'efficacia del piano
attuativo non possa incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni
assunte dai soggetti attuatori degli interventi, in quanto correlate alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 29.03.2019 n. 2084).
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si
giustifica "alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo
inconcepibile "ammettere che un imprenditore privato possa godere dei
profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe
se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per
l'urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d.
legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione" (Consiglio di Stato sez. II,
29/07/2019, n. 5304; id., Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278).
Ne segue che l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini
disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. ibidem Cons. Stato, sez.
IV, 26.08.2014, n. 4278)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 16.10.2019 n. 432 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e operatività della sanatoria –
Presupposti e limiti – Requisito della “doppia conformità”
delle opere – Confisca dei terreni abusivamente lottizzati –
Artt. 15, 30, 36, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il necessario requisito della “doppia
conformità” delle opere di cui all’art. 36, comma 1, D.P.R.
n. 380/2001 è ostativo già in astratto della applicabilità
della sanatoria al reato di lottizzazione, atteso che, nel
caso di lottizzazione abusiva, le opere non possono mai
considerarsi conformi alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento della loro costruzione.
Pertanto, sia che la sanatoria non operi già in astratto,
sia che la stessa non operi per impossibilità di ravvisare
in concreto i requisiti dell’art. 36 T.U.E., la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati è legittima –in quanto
obbligatoria ai sensi dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001,- anche in presenza della sanatoria delle opere
edilizie.
...
Reati urbanistici – Dolo intenzionale – Elemento psicologico
– Criteri di valutazione della sussistenza – Macroscopiche
violazioni di legge – Rilascio o proroghe del provvedimento
abilitativo – Esperienza professionale – Art. 323 cod. pen.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Limiti del sindacato della
Cassazione – Valutazione delle risultanze processuali.
In materia urbanistica, la sussistenza
dell’elemento psicologico può emergere, essenzialmente,
dalla reiterazione proseguita nell’arco degli anni, nel
rilascio del provvedimento abilitativo e delle susseguenti
proroghe pur nella consapevolezza, derivante dalla
conoscenza dei luoghi e dalla indubbia esperienza
professionale, delle macroscopiche violazioni di legge
derivanti dal contrasto con le n.t.a. e con il vincolo di in
edificabilità e dalle caratteristiche dell’opera assentita.
A ciò si aggiunga che, il sindacato della Cassazione
continua a restare quello di sola legittimità sì che esula
dai poteri della stessa quello di una rilettura degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche
laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più
adeguata valutazione delle risultanze processuali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2019 n. 42106 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Reato di lottizzazione – Concorso nel reato urbanistico –
Componente della commissione edilizia – Responsabilità a
titolo di concorso dell’extraneus nel reato proprio –
Parere favorevole al rilascio della concessione edilizia –
Elementi oggettivi e soggettivi necessari – Artt. 27, 29, 30
e 44 del d.P.R. n. 380/2001.
E’ indubbio che nel reato “proprio” di
cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 – i cui autori sono
individuati, dall’art. 29 d.P.R. n. 380 del 2001, e,
anteriormente, dall’art. 6 della In. 47 del 1985, nel
committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori –
ben possa concorrere anche l’extraneus, ovvero colui che non
rivesta le qualifiche richieste dalla legge.
E’ tuttavia necessario, che vengano accertate le condizioni,
sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere
configurabile il concorso nel reato, dovendosi cioè
verificare che l’extraneus abbia apportato, nella
realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e
consapevole. Pertanto, la partecipazione deve configurarsi,
al pari della condotta degli altri, in forma dolosa, quale
“cosciente e volontaria partecipazione al piano
lottizzatorio”, rimanendo escluso un contributo meramente
colposo ad un’attività certamente dolosa delle parti
principali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2019 n. 42105 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di edilizia la maggiore altezza impressa ad un edificio (a seguito
dell’effettuazione di lavori) comporta la modificazione della sagoma
dell’intero edificio, concetto che identifica il suo perimetro inteso sia in
senso verticale sia orizzontale in quanto relativo al “contorno” che
l’edificio stesso viene ad assumere, ivi comprese le strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti.
---------------
Nel merito, risultano fondate le censure, articolate con il primo ed
il secondo motivo di ricorso, relative alla violazione dell’art. 3,
comma 1, lett. e), DPR n. 380/2001 e dell’art. 23-bis, comma 4, DPR n.
380/2001, tenuto conto della circostanza che il terreno, dove è stato
costruito il fabbricato della controinteressata, si trova in una zona
sottoposta a vincolo paesaggistico (e ciò risulta anche dall’autorizzazione
paesaggistica, rilasciata alla controinteressata) e dell’orientamento
giurisprudenziale, secondo cui “in materia di edilizia la maggiore
altezza impressa ad un edificio (a seguito dell’effettuazione di lavori)
comporta la modificazione della sagoma dell’intero edificio, concetto che
identifica il suo perimetro inteso sia in senso verticale sia orizzontale in
quanto relativo al “contorno” che l’edificio stesso viene ad assumere, ivi
comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti” (sul
punto cfr. TAR L’Aquila Sent. n. 72 del 05.02.2014; vedi pure TAR Basilicata
Sent. n. 771 del 22.11.2018), con la puntualizzazione che un intervento di
demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio
preesistente, intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica
della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale, configura un intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione (cfr. Corte Costituzionale Sent. n. 309 del 23.11.2011;
C.d.S. Sez. VI Sent. n. 5863 del 13.12.2017, C.d.S. Sez. IV Sent. 1763 del
07.04.2015; TAR L’Aquila Sent. n. 226 del 30.05.2018, TAR Milano Sez. II
Sent. n. 1679 del 15.09.2016), che doveva essere autorizzato con il rilascio
del permesso di costruire, in quanto con la SCIA non possono essere
innalzati, come nella specie, il canale di gronda e la linea di colmo del
tetto rispettivamente di 60 cm. e di 30 cm. (TAR Basilicata,
sentenza 12.10.2019 n. 750 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Trasformazione urbanistica ed
edilizia di terreno destinato ad uso agricolo – Area adibita
a campeggio e piazzole con sovrastanti roulottes – Confisca
dell’area – Artt. 3, 10, 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001 – Artt.
169 e 181 del d.lgs. n. 42/42004 – Artt. 54, 55 e 1161 c.
nav.
Si configura il reato di lottizzazione
abusiva la realizzazione, all’interno di un’area adibita a
campeggio, di una struttura ricettiva che presenta le
caratteristiche di un insediamento residenziale stabile,
posto che il campeggio presuppone allestimenti e servizi
finalizzati alla sosta o ad un soggiorno occasionale e
limitato nel tempo, comportando di contro una siffatta
struttura il sostanziale stravolgimento dell’originario
assetto definito mediante pianificazione e ciò
indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati,
dalle caratteristiche costruttive o dalla agevole
rimovibilità dell’opera
(Cass., Sez. 3, n. 8970 del 23/01/2019, Scifoni).
...
La condotta nel reato di lottizzazione abusiva materiale –
Presupposti – Modifica urbanistica dei terreni in zona non
adeguatamente urbanizzata – Assenza di qualunque intervento
programmatorio.
Integra il reato di lottizzazione
abusiva materiale “qualunque condotta che comporti una
modificazione edilizia od urbanistica dei terreni in una
zona non adeguatamente urbanizzata, la quale conferisca ad
una porzione di territorio comunale un assetto differente in
assenza di qualunque intervento programmatorio da parte
della competente Autorità” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2019 n. 41941 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di un manufatto abusivo, non risulta agevole per l’Amministrazione
preposta al controllo in ordine alla regolarità edilizia del predetto
manufatto stabilirne la data di realizzazione e gli autori, con la
conseguenza che grava in capo al privato la prova in ordine agli elementi
costitutivi della fattispecie e alla regolarità dell’intervento edilizio.
Pertanto, va applicata la consolidata giurisprudenza secondo la quale
l’ingiunzione ripristinatoria deve essere rivolta a coloro che hanno la
disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano i
responsabili dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale
aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non
certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere
emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile
dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente
e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione.
Del resto, il proprietario del compendio immobiliare dove si collocano gli
abusi è il soggetto che ha sicuramente l’obbligo di eseguire l’ordine di
demolizione, al fine di ripristinare lo stato dei luoghi in cui è stato
commesso l’abuso, trovandosi nella possibilità giuridica e materiale di
reintegrare l’assetto urbanistico ed edilizio originario.
---------------
2. Con il primo motivo si assume l’illegittimità dell’ordinanza di
demolizione poiché la stessa sarebbe stata notificata al ricorrente non in
quanto proprietario, ma quale soggetto costruttore del manufatto abusivo,
realizzato invece dalla sua dante causa, oltre quaranta anni prima.
2.1. La doglianza è infondata.
Va sottolineato come, in presenza di un manufatto abusivo, non risulta
agevole per l’Amministrazione preposta al controllo in ordine alla
regolarità edilizia del predetto manufatto stabilirne la data di
realizzazione e gli autori, con la conseguenza che grava in capo al privato
la prova in ordine agli elementi costitutivi della fattispecie e alla
regolarità dell’intervento edilizio (cfr., sull’onere della prova in materia
di abusi edilizi, Consiglio di Stato, V, 14.05.2019, n. 3133; TAR Lombardia,
Milano, II, 27.05.2019, n. 1199); nella specie il ricorrente non ha
dimostrato in maniera incontrovertibile che il garage da demolire sia quello
realizzato originariamente e che non sia stato sostituito o ampliato nel
corso del tempo.
In ogni caso, a prescindere dalla qualifica formale attribuita al ricorrente
nel provvedimento impugnato (ossia di costruttore), questi risulta attuale
proprietario del manufatto e quindi è il soggetto tenuto a provvedere al
ripristino dello stato dei luoghi. L’eventuale errata qualificazione
effettuata dall’Amministrazione, anche se davvero sussistente, è vizio
meramente formale che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n.
241 del 1990, non è in grado di invalidare il provvedimento impugnato,
considerato che lo stesso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso.
Pertanto, va applicata la consolidata giurisprudenza secondo la quale
l’ingiunzione ripristinatoria deve essere rivolta a coloro che hanno la
disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano i
responsabili dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale
aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non
certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere
emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile
dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente
e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2018, n. 2098; 03.05.2018,
n. 1198; 27.02.2018, n. 574).
Del resto, il proprietario del compendio immobiliare dove si collocano gli
abusi è il soggetto che ha sicuramente l’obbligo di eseguire l’ordine di
demolizione, al fine di ripristinare lo stato dei luoghi in cui è stato
commesso l’abuso, trovandosi nella possibilità giuridica e materiale di
reintegrare l’assetto urbanistico ed edilizio originario (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 18.06.2019, n. 1410; 18.01.2019, n. 106; 03.05.2018,
n. 1198; 03.11.2016, n. 2013; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n.
2588).
2.2. Ciò determina il rigetto della prima doglianza di ricorso
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.10.2019 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da
adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento e a
prescindere dalle sue concrete modalità di realizzazione, non richiede una
particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale
determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla
permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare un suo
–invero inesistente– affidamento.
A tal fine è stato evidenziato come nelle ipotesi “di edificazioni
radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla
figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa,
appare improprio.
Ciò perché:
- da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio
e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla
motivazione dell’interesse pubblico;
- dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi
risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il
quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2
dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando
l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una
siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri
provvedimenti”.
Di conseguenza, anche la risalenza nel tempo dell’abuso, che ha carattere
permanente, non configura in capo al privato alcuna posizione di affidamento
in ordine alla sussistenza dell’opera, risultando quindi legittimo l’ordine
di demolizione adottato.
---------------
3. Con la seconda e la quarta censura di ricorso, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse, si deduce l’illegittimità
dell’ordine di demolizione, atteso il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione degli abusi, che avrebbe creato un legittimo affidamento in capo
al ricorrente sul mantenimento delle opere realizzate: inoltre, la
demolizione non risponderebbe ad alcun interesse pubblico, e comunque nel
provvedimento gravato non sarebbe evidenziato il contrasto tra il manufatto
realizzato e le caratteristiche della zona tutelata.
3.1. Le doglianze sono infondate.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuta realizzazione di
un’opera abusiva –baracca in lamiera adibita a box e di dimensioni m 4,00 x
2,40, altezza m 2,00– in una zona in cui sono vietate le nuove costruzioni,
ai sensi dell’art. 70 delle N.T.A. del P.R.G., e che è sottoposta ad un
vincolo paesaggistico, ai sensi del D.Lgs. n. 490 del 1999 (ora D.Lgs. n. 42
del 2004), con conseguente violazione della disciplina sia edilizia e
urbanistica che paesaggistica.
Tale motivazione appare satisfattiva degli obblighi di legge, atteso che il
carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a
seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento e a prescindere
dalle sue concrete modalità di realizzazione, non richiede una particolare
motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e
nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in
loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare un suo –invero
inesistente– affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9;
TAR Lombardia, Milano, II, 11.06.2019, n. 1320).
A tal fine è stato evidenziato come nelle ipotesi “di edificazioni
radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla
figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa,
appare improprio.
Ciò perché:
- da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio
e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla
motivazione dell’interesse pubblico;
- dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi
risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il
quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2
dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando
l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una
siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri
provvedimenti” (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
Di conseguenza, anche la risalenza nel tempo dell’abuso, che ha carattere
permanente, non configura in capo al privato alcuna posizione di affidamento
in ordine alla sussistenza dell’opera, risultando quindi legittimo l’ordine
di demolizione adottato (cfr. Consiglio di Stato, VI, 21.03.2019, n. 1892).
3.2. Pertanto, anche tali censure vanno respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.10.2019 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ambito urbanistico, la nozione di
pertinenza è più limitata di quella afferente all’ambito civilistico;
un’opera può definirsi accessoria rispetto a un’altra, da considerarsi
principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo
da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione
dell’essenza e della funzione dell’insieme.
Di conseguenza, in ambito edilizio, manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo volume su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella
già occupata dall’edificio principale, ovvero quando sia realizzata una
qualsiasi opera che ne alteri la sagoma.
Più nello specifico, la realizzazione di una baracca in lamiera (adibita a
box e di dimensioni m 4,00 x 2,40, altezza m 2,00), stabilmente appoggiata
su pavimentazione di calcestruzzo, pur nella precarietà dei materiali e
nella funzione pertinenziale cui è destinata, costituisce permanente
alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il
rilascio del previo titolo edilizio, non essendo esclusa peraltro una sua
autonoma utilizzazione in carenza di un formale atto di asservimento
rispetto al bene assunto come principale.
---------------
4. Con la terza doglianza si assume che il manufatto di proprietà del
ricorrente rientrerebbe nella nozione di opera pertinenziale, cui non
potrebbe applicarsi la sanzione demolitoria.
4.1. La censura è infondata.
Va premesso che, in ambito urbanistico, la nozione di pertinenza è più
limitata di quella afferente all’ambito civilistico; un’opera può definirsi
accessoria rispetto a un’altra, da considerarsi principale, solo quando la
prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose
separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione
dell’insieme.
Di conseguenza, in ambito edilizio, manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo volume su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella
già occupata dall’edificio principale, ovvero quando sia realizzata una
qualsiasi opera che ne alteri la sagoma (Consiglio di Stato, II, 04.07.2019,
n. 4586; TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1907; 17.10.2017, n.
1987).
Più nello specifico, la realizzazione di una baracca in lamiera (adibita a
box e di dimensioni m 4,00 x 2,40, altezza m 2,00), stabilmente appoggiata
su pavimentazione di calcestruzzo, pur nella precarietà dei materiali e
nella funzione pertinenziale cui è destinata, costituisce permanente
alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il
rilascio del previo titolo edilizio, non essendo esclusa peraltro una sua
autonoma utilizzazione in carenza di un formale atto di asservimento
rispetto al bene assunto come principale (cfr. Consiglio di Stato, VI,
24.12.2018, n. 7210)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.10.2019 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva “mista” – Natura di reato
progressivo – Individuazione del momento consumativo del
reato – Compimento dell’ultimo atto integrante la condotta
illecita – Stipulazione di atti di trasferimento –
Esecuzione di opere di urbanizzazione – Ultimazione dei
manufatti – Computo dei termini prescrizionali – Fattispecie
– Artt. 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il momento consumativo del reato di
lottizzazione abusiva “mista” (consistente, come nel caso di
specie, nella formazione di singoli lotti, nell’esecuzione
di opere di urbanizzazione e nella vendita delle unità
abitative), si individua, per tutti coloro che concorrono o
cooperano nel reato, nel compimento dell’ultimo atto
integrante la condotta illecita, che può consistere nella
stipulazione di atti di trasferimento, nell’esecuzione di
opere di urbanizzazione o nell’ultimazione dei manufatti che
compongono l’insediamento, con la conseguenza che,
trattandosi di reato progressivo cui si applica la
disciplina del reato permanente, ai fini del calcolo del
tempo necessario per la prescrizione, non è rilevante per il
concorrente il momento in cui è stata tenuta la condotta di
partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può
intervenire anche a notevole distanza di tempo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.10.2019 n. 41609 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titolo abilitativo illegittimo – Condotta concorsuale dolosa
con i funzionari comunali – Reato paesaggistico – VIA VAS
AIA – Omessa la procedura di V.I.A. – Omessa vigilanza – Art. 734 cod. pen. – Artt. 29 e 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il reato di costruzione sine titulo (lo
stesso vale per quello di lavori svolti in assenza di
autorizzazione paesaggistica) è configurabile non soltanto
quando l’intervento sia stato realizzato in base a
provvedimento illecito, ma anche quando ciò sia avvenuto
sulla base di provvedimento illegittimo.
In tali casi, la “macroscopica illegittimità” del permesso
di costruire non costituisce condizione essenziale per
l’oggettiva configurabilità del reato, ma rappresenta
soltanto un significativo indice sintomatico della
sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito.
Nel caso di specie è stato ritenuto inutile disquisire se la
mancata attivazione della prescritta procedura di V.I.A
fosse o meno immediatamente percepibile, sì da integrare un
vizio macroscopico, perché con riguardo gli imputati, gli
elementi deponevano sulla consapevolezza da parte loro della
necessità della V.I.A. e, dunque, dell’illegittimità dei
provvedimenti amministrativi rilasciati in assenza di tale
procedura (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.10.2019 n. 41591 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
per l’istanza di condono relativa ad opere abusive realizzate prima
dell'imposizione del vincolo paesaggistico, o idrogeologico, è comunque
necessaria l'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 47 del 1985,
in quanto, anche se l'articolo 32 citato non precisa in quale momento il
vincolo debba essere stato imposto perché sorga la necessità di acquisire il
suddetto parere, in applicazione del principio tempus regit actum, si
ritiene che debba essere applicata la normativa vigente al momento del
rilascio della concessione in sanatoria.
A tale ultimo riguardo, non può non citarsi la
decisione dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999, la quale ha enunciato
il principio secondo cui “la disposizione dell'art. 32 l. 28.02.1985 n.
47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere
dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini
del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai
principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo
di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata
la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo
sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde
all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei
manufatti realizzati abusivamente”.
Nondimeno, la condivisibile giurisprudenza ha altresì evidenziato come, in
relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla-osta paesaggistico,
l'Amministrazione sia certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa
la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori
paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le
opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche
ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante
nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare
una generica insanabilità delle opere, o anche nel caso in cui il diniego di
"condono" intervenga dopo molto tempo dalla presentazione della relativa
domanda.
Ed invero non può non sottolinearsi come la funzione della motivazione del
provvedimento amministrativo sia propriamente quella di consentire al
destinatario del provvedimento stesso di ricostruire l'iter logico-giuridico
in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto
nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la
correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da
valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto
considerato.
---------------
Orbene, il Collegio non ignora come, secondo un orientamento della
giurisprudenza formatosi sul punto, anche per l’istanza di condono relativa
ad opere abusive realizzate prima dell'imposizione del vincolo
paesaggistico, o idrogeologico, sia comunque necessaria l'acquisizione del
parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ai
sensi dell'articolo 32 della legge n. 47 del 1985, in quanto, anche se
l'articolo 32 citato non precisa in quale momento il vincolo debba essere
stato imposto perché sorga la necessità di acquisire il suddetto parere, in
applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene che debba
essere applicata la normativa vigente al momento del rilascio della
concessione in sanatoria; a tale ultimo riguardo, non può non citarsi la
decisione dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999, la quale ha enunciato
il principio secondo cui “la disposizione dell'art. 32 l. 28.02.1985 n.
47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere
dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini
del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai
principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo
di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata
la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo
sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde
all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei
manufatti realizzati abusivamente”.
Nondimeno, la condivisibile giurisprudenza ha altresì evidenziato come, in
relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla-osta paesaggistico,
l'Amministrazione sia certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa
la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori
paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le
opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche
ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante
nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare
una generica insanabilità delle opere, o anche nel caso in cui il diniego di
"condono" intervenga dopo molto tempo dalla presentazione della relativa
domanda (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 08.05.2008, n. 2111).
Ed invero non può non sottolinearsi come la funzione della motivazione del
provvedimento amministrativo sia propriamente quella di consentire al
destinatario del provvedimento stesso di ricostruire l'iter logico-giuridico
in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto
nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la
correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da
valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto
considerato (Cons. Stato, sez. V, 04.04.2006, n. 1750; sez. IV, 22.02.2001 n. 938, sez. V, 25.09.2000 n. 5069).
Nella specie, la Soprintendenza, con riferimento alle indicazioni adottate
dalla commissione e dal Responsabile del Procedimento nella relazione
tecnica illustrativa, non chiarisce le concrete caratteristiche
dell’intervento contrastanti con gli atti e le prescrizioni indicate,
peraltro genericamente – in assenza di specifici elementi e parametri
urbanistici; quanto agli obiettivi del vincolo e alla disciplina
paesaggistica attualmente in vigore, non vengono indicati gli specifici
vincoli presi in esame, oppure la natura assoluta o relativa degli stessi.
Ciò evidenzia il palese deficit motivazionale del provvedimento soprintendentizio al quale non può sopperire quanto argomentato
dall’Avvocatura dello Stato, rilevando che “Il ricorso va dunque respinto in
quanto l'opera abusiva in esame, per la quale era stata presentata domanda
di condono edilizio da parte della ricorrente, è stata realizzata su un'area
sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi degli artt. 33
legge n. 47/1985 e 51, comma 1, lett. f), legge Regione Puglia n. 56/1980 (i.e. entro
la fascia di 300 metri dal confine del demanio marittimo o dal ciglio più
elevato sul mare). In altri termini, il carattere assoluto del vincolo di
inedificabilità in esame è ostativo al rilascio della concessione edilizia
in sanatoria.”.
Invero, la circostanza della inedificabilità assoluta dell’area non risulta
affatto specificata nel diniego di nulla osta impugnato e l’integrazione
postuma della motivazione non è consentita nel nostro ordinamento atteso
che, in via di principio la motivazione deve essere comunicata al soggetto
interessato contestualmente all’adozione del provvedimento amministrativo e
la sua mancanza non può essere sanata attraverso la conoscenza dei motivi
della decisione nel corso di un procedimento giurisdizionale.
Parimenti, le “osservazioni tecniche” riportate nelle difese
dell’Amministrazione resistente non possono essere utilizzate per colmare la
lacuna motivazionale evidenziata.
La illegittimità del diniego di nulla osta paesaggistico comporta la
illegittimità del successivo provvedimento comunale, in quanto
consequenziale e vincolato al contenuto del primo
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 10.10.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
base al principio tempus regit actum trova applicazione, in assenza di
diversa statuizione del legislatore, la norma vigente al momento
dell’adozione del provvedimento finale.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il principio tempus
regit actum, applicabile anche nelle materie dell'urbanistica e
dell'edilizia, impone che l'amministrazione debba applicare le disposizioni
vigenti al momento di approvazione del provvedimento e non quelle vigenti al
momento di proposizione dell'istanza.
---------------
In base al principio tempus regit actum trova applicazione, in
assenza di diversa statuizione del legislatore, la norma vigente al momento
dell’adozione del provvedimento finale: secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, il principio tempus regit actum, applicabile anche
nelle materie dell'urbanistica e dell'edilizia, impone che l'amministrazione
debba applicare le disposizioni vigenti al momento di approvazione del
provvedimento e non quelle vigenti al momento di proposizione dell'istanza (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 11.11.2014, n. 5525; id., 11.04.2014, n. 1763;
TAR Sicilia, Catania, I, 04.05.2017, n. 945)
(TAR
Toscana, Sez. II,
sentenza 08.10.2019 n. 1314 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di
destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico
urbanistico quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente
differenti e deve quindi essere annoverato tra gli interventi di tipo
oneroso.
---------------
Per il resto, occorre osservare che
il mutamento di destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un
aggravio di carico urbanistico quando implica un passaggio tra categorie
urbanisticamente differenti e deve quindi essere annoverato tra gli
interventi di tipo oneroso (TAR Toscana, III, 27.02.2018, n. 309; idem,
23.01.2017, n. 132; idem, 14.10.2015, n. 1387; idem, 08.07.2019, n. 1043;
TAR Lazio, Roma, II, 17.05.2013, n. 4994) (TAR
Toscana, Sez. II,
sentenza 08.10.2019 n. 1314 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso
Il riconoscimento del diritto di accesso e la
legittimazione alla correlata pretesa ostensiva postulano, in quanto
riferiti a “soggetti privati” (ancorché portatori di interessi
superindividuali) la sussistenza di un “interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” (cfr. art. 22, comma 1,
lett. b), l. n. 241/1990).
Si deve, per tal via, trattare di un interesse:
a) diretto, cioè a dire correlato alla sfera individuale e personale del
soggetto richiedente, dovendosi, con ciò, escludere una legittimazione
generale, indifferenziata ed inqualificata, che darebbe la stura ad una
sorta di azione popolare;
b) concreto, e quindi specificamente finalizzato, in prospettiva
conoscitiva, alla acquisizione di dati ed informazioni rilevanti ed anche
solo potenzialmente utili nella vita di relazione, palesandosi immeritevole
di tutela la curiosità fine a se stessa, insufficiente un astratto e
generico anelito al controllo di legalità, precluso un “controllo
generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (cfr. art. 24,
comma 3, l. n. 241/1990 cit.);
c) attuale, cioè non meramente prospettico od eventuale, avuto riguardo alla
attitudine della auspicata acquisizione informativa o conoscitiva ad
incidere, anche in termini di concreta potenzialità, sulle personali scelte
esistenziali o relazionali e sulla acquisizione, conservazione o gestione di
rilevanti beni della vita;
d) strumentale, avuto riguardo sia, sul piano soggettivo, alla necessaria
correlazione con situazioni soggettive meritevoli di protezione alla luce
dei vigenti valori ordinamentali, sia, sul piano oggettivo, alla specifica
connessione con il documento materialmente idoneo ad veicolare le
informazioni: non essendo, con ciò, tutelate iniziative, per un verso,
ispirate da mero intento emulativo (peraltro di per sé espressive, sotto
concorrente profilo, di un uso distorto ed abusivo della pretesa ostensiva)
e, per altro verso, finalizzate alla raccolta, elaborazione o trasformazione
di dati conoscitivi destrutturati e non incorporati in “documenti” (nel
senso lato di cui all’art. 22 cit.).
---------------
Ai sensi dell'art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990, l'accesso agli atti
amministrativi deve essere riconosciuto e garantito nella sua strumentalità
rispetto ad ogni forma di "tutela", sia giudiziale che stragiudiziale, anche
solo meramente prospettica e potenziale: e ciò perché, per un verso,
l'accesso costituisce di per sé un bene della vita, meritevole di
riconoscimento e salvaguardia indipendentemente dalla lesione della
correlata e sottostante posizione giuridica e, per altro verso, l'opzione in
ordine ai rimedi da attivare ove l'interessato ritenesse, nella sua
autonomia decisionale, lesa la propria situazione giuridica soggettiva non
può essere rimessa, per giunta in via anticipata, all'Amministrazione o al
soggetto depositario dei documenti.
---------------
Come è noto, il riconoscimento del diritto di accesso e la
legittimazione alla correlata pretesa ostensiva postulano, in quanto
riferiti a “soggetti privati” (ancorché portatori di interessi
superindividuali) la sussistenza di un “interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” (cfr. art. 22, comma 1,
lett. b), l. n. 241/1990).
Si deve, per tal via, trattare (cfr., ex permultis, Cons. Stato, sez. III,
12.03.2018, n. 1578), di un interesse:
a) diretto, cioè a dire correlato alla sfera individuale e personale del
soggetto richiedente, dovendosi, con ciò, escludere una legittimazione
generale, indifferenziata ed inqualificata, che darebbe la stura ad una
sorta di azione popolare;
b) concreto, e quindi specificamente finalizzato, in prospettiva
conoscitiva, alla acquisizione di dati ed informazioni rilevanti ed anche
solo potenzialmente utili nella vita di relazione, palesandosi immeritevole
di tutela la curiosità fine a se stessa, insufficiente un astratto e
generico anelito al controllo di legalità, precluso un “controllo
generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (cfr. art. 24,
comma 3 l. n. 241/1990 cit.);
c) attuale, cioè non meramente prospettico od eventuale, avuto riguardo alla
attitudine della auspicata acquisizione informativa o conoscitiva ad
incidere, anche in termini di concreta potenzialità, sulle personali scelte
esistenziali o relazionali e sulla acquisizione, conservazione o gestione di
rilevanti beni della vita;
d) strumentale, avuto riguardo sia, sul piano soggettivo, alla necessaria
correlazione con situazioni soggettive meritevoli di protezione alla luce
dei vigenti valori ordinamentali, sia, sul piano oggettivo, alla specifica
connessione con il documento materialmente idoneo ad veicolare le
informazioni: non essendo, con ciò, tutelate iniziative, per un verso,
ispirate da mero intento emulativo (peraltro di per sé espressive, sotto
concorrente profilo, di un uso distorto ed abusivo della pretesa ostensiva)
e, per altro verso, finalizzate alla raccolta, elaborazione o trasformazione
di dati conoscitivi destrutturati e non incorporati in “documenti” (nel
senso lato di cui all’art. 22 cit.).
Va chiarito, peraltro, che –come fatto palese dall’art. 24, comma 7 della
l. cit.– l’accesso deve essere riconosciuto e garantito nella sua strumentalità rispetto ad ogni forma di “tutela”, sia giudiziale che
stragiudiziale, anche solo meramente prospettica e potenziale: e ciò perché,
per un verso, l’accesso costituisce di per sé un bene della vita, meritevole
di riconoscimento e salvaguardia indipendentemente dalla lesione della
correlata e sottostante posizione giuridica (cfr. Cons. Stato, sez. III, 17.03.2017, n. 1213) e,
per altro verso, l’opzione in ordine ai rimedi da
attivare ove l’interessato ritenesse, nella sua autonomia decisionale, lesa
la propria situazione giuridica soggettiva non può essere rimessa, per
giunta in via anticipata, all’Amministrazione o al soggetto depositario dei
documenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.06.2018, n. 3953, nonché Id.,
sez. IV, 20.10.2016, n. 4372, nel senso che l'accesso serva anche solo
a valutare se una certa azione sia proponibile con successo o meno)
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 02.10.2019 n. 6603 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al di là della predicata natura pertinenziale,
tre casette in legno
(pollai) e la tettoia in lamiera contestate, precipuamente in quanto
riguardate nel loro complesso, si rivelano suscettibili di arrecare un
apprezzabile impatto volumetrico e una corrispondente trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio; cosicché per la loro
realizzazione si imponeva il previo rilascio del permesso di costruire, in
assenza del quale è da reputarsi legittimamente irrogata la sanzione
demolitoria.
Del pari, si imponeva il rilascio del permesso di costruire per la
realizzata recinzione, siccome costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica e suscettibile, quindi, per le
relative caratteristiche dimensionali e strutturali, di incidere in modo
permanente e non precario sull'assetto urbanistico del territorio.
In ogni caso, anche in disparte la necessità o meno del permesso di
costruire, trattandosi di area paesaggisticamente vincolata, si imponeva,
nella specie, indefettibilmente il previo rilascio del titolo paesaggistico,
in mancanza del quale le opere eseguite restavano pur sempre sanzionabili in
via demolitoria, ai sensi degli artt. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 e
167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004.
Ed invero, a norma sia dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 sia
dell’art. 167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, nonché in omaggio al canone
generale di indifferenza della richiesta tipologia di titolo abilitativo
rispetto all’individuazione del regime sanzionatorio applicabile agli abusi
edilizi commessi in zone vincolate, gli interventi abusivi, a prescindere
dalla relativa qualificazione edilizia, non sfuggono alla misura
demolitorio-ripristinatoria, allorquando siano stati eseguiti in zone
paesaggisticamente vincolate, senza che la stessa possa pretermettersi in
ragione della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi,
scrutinabile dall’autorità tutoria solo in seguito ad apposita istanza
dell’interessato e non, di certo, ex officio, in sede di adozione della
misura repressivo-ripristinatoria.
---------------
Premesso che:
- col ricorso in epigrafe, Lo.Lu. impugnava, chiedendone
l’annullamento, l’ordinanza di demolizione n. 19 (r.g. n. 56) del
03.03.2011, emessa dal Funzionario di Unità Operativa Complessa, Titolare di
Posizione Organizzativa del Settore Governo del Territorio e Servizi
Manutentivi del Comune di Cava de’ Tirreni, unitamente alla nota della
Polizia Locale di Cava de’ Tirreni prot. n. 7616 del 18.12.2010 ed al
verbale di accertamento della Polizia Locale di Cava de’ Tirreni del
15.11.2010;
- gli abusi contestati consistevano nella realizzazione sine
titulo, sul fondo in proprietà della ricorrente, ubicato in Cava de’
Tirreni, frazione Li Curti, via ..., n. 40, nonché ricadente in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico: -- di una recinzione costituita da un
muretto in mattoni sormontato da una rete metallica sostenuta da paletti in
ferro e interposto da un cancelletto in ferro; -- di tre casette in legno
(pollai) e di una tettoia in lamiera all’interno della recinzione anzidetta;
...
Considerato, innanzitutto, che:
- al di là della predicata natura pertinenziale, le casette in legno
(pollai) e la tettoia in lamiera contestate, precipuamente in quanto
riguardate nel loro complesso, si rivelano suscettibili di arrecare un
apprezzabile impatto volumetrico e una corrispondente trasformazione
urbanisticamente rilevante del territorio; cosicché per la loro
realizzazione si imponeva il previo rilascio del permesso di costruire, in
assenza del quale è da reputarsi legittimamente irrogata la sanzione
demolitoria;
- del pari, si imponeva il rilascio del permesso di costruire per la
realizzata recinzione, siccome costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica e suscettibile, quindi, per le
relative caratteristiche dimensionali e strutturali, di incidere in modo
permanente e non precario sull'assetto urbanistico del territorio (cfr., ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, n. 1601/2018; n. 270/2019; TAR
Campania, Napoli, sez. III, n. 5777/2018; Salerno, sez. II, n. 1760/2018;
Napoli, sez. III, n. 1154/2019);
- in ogni caso, anche in disparte la necessità o meno del permesso di
costruire, trattandosi di area paesaggisticamente vincolata, si imponeva,
nella specie, indefettibilmente il previo rilascio del titolo paesaggistico,
in mancanza del quale le opere eseguite restavano pur sempre sanzionabili in
via demolitoria, ai sensi degli artt. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 e
167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004;
- ed invero, a norma sia dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 sia
dell’art. 167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, nonché in omaggio al canone
generale di indifferenza della richiesta tipologia di titolo abilitativo
rispetto all’individuazione del regime sanzionatorio applicabile agli abusi
edilizi commessi in zone vincolate, gli interventi abusivi, a prescindere
dalla relativa qualificazione edilizia, non sfuggono alla misura
demolitorio-ripristinatoria, allorquando siano stati eseguiti in zone
paesaggisticamente vincolate (sul punto, cfr., ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. VI, n. 2644/2012; sez. III, n. 1093/2018; TAR Lombardia,
Brescia, sez. II, n. 539/2018), senza che la stessa possa pretermettersi in
ragione della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi,
scrutinabile dall’autorità tutoria solo in seguito ad apposita istanza
dell’interessato e non, di certo, ex officio, in sede di adozione della
misura repressivo-ripristinatoria (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.10.2019 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente
dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali,
ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un
presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto
interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale,
in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso,
posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni
definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più
che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare
applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non
annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento,
qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente
enucleato.
In quanto, come detto, atto dovuto e rigorosamente vincolato, essa rimane
affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al
mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa
nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito
edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno
per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel
soggetto trasgressore.
La misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi sorretta da
adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive, nonché l’individuazione delle norme applicate (artt. 27
e 31 del d.p.r. n. 380/2001, 167 del d.lgs. n. 42/2004) e delle violazioni
accertate (interventi eseguiti in assenza di idoneo titolo abilitativo
edilizio e paesaggistico).
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L'ordinanza di demolizione non necessita
di valutazione in ordine alla conformità o meno delle opere abusive agli
strumenti urbanistici, posto che, una volta accertata l'esecuzione di
interventi privi di permesso di costruire, ne deve essere disposta la
rimozione indipendentemente dalla verifica della loro eventuale conformità
allo strumento urbanistico e della loro ipotetica sanabilità: infatti, l'abusività
di un'opera edilizia costituisce, già di per sé, presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
---------------
Ai sensi degli artt. 31, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001 e
107 comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000, l'ordinanza di demolizione di
opere edilizie abusive rientra nella competenza del dirigente comunale,
ovvero, nei Comuni sprovvisti di detta qualifica, dei responsabili degli
uffici e dei servizi.
---------------
Considerato, altresì, che:
- l’emessa ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente
dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali,
ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un
presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto
interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale,
in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso,
posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni
definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più
che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare
applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non
annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento,
qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente
enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez. VI, n.
2873/2013; n. 4075/2013; sez. V, n. 3438/2014; sez. III, n. 2411/2015; sez.
VI, n. 3620/2016; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 107/2015; Salerno, sez.
II, n. 69/2015; Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez. II, n. 1534/2015;
Salerno, sez. II, n. 664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez. III, n. 4392/2015;
n. 4968/2015; sez. VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n. 4495/2016; n. 4574/2016;
sez. III, n. 121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n. 995/2017; sez. IV, n.
2320/2017; sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5967/2017; Salerno, sez. II,
n. 24/2018; Napoli, sez. III, n. 898/2018; n. 1093/2018; sez. IV, n.
1434/2018; n. 1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n.
2098/2015; n. 10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR Puglia, Lecce,
sez. III, n. 1708/2016; n. 1552/2017);
- in quanto, come detto, atto dovuto e rigorosamente vincolato, essa rimane
affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al
mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa
nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito
edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno
per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel
soggetto trasgressore (cfr., ex multis, Cons. Stato, ad. plen., n. 9/2017;
sez. IV, n. 3955/2010; sez. V, n. 79/2011; sez. IV, n. 2592/2012; sez. V, n.
2696/2014; sez. VI, n. 3210/2017; TAR Campania, sez. VI, n. 17306/2010; sez.
VII, n. 22291/2010; sez. VIII, n. 4/2011; n. 1945/2011; sez. III, n.
4624/2016; n. 5973/2016; sez. VI, n. 2368/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, n. 1962/2010; n. 2631/2010; TAR Piemonte, Torino,
sez. I, n. 4164/2010; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 35404/2010; TAR Liguria,
Genova, sez. I, n. 432/2011);
- l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi sorretta da
adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella
specie– sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive (cfr.
retro, in premessa), nonché l’individuazione delle norme applicate (artt. 27
e 31 del d.p.r. n. 380/2001, 167 del d.lgs. n. 42/2004) e delle violazioni
accertate (interventi eseguiti in assenza di idoneo titolo abilitativo
edilizio e paesaggistico) (cfr., ex multis, Cons. Stato sez. IV, n.
2441/2007; n. 2705/2008; sez. V, n. 4926/2014; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
n. 367/2008; sez. VI, n. 49/2008; sez. IV, n. 57/2008; sez. VIII, n.
4556/2008; sez. III, n. 5255/2008; sez. IV, n. 7798/2008; sez. VI, n.
8761/2008; sez. IV, n. 9720/2008; sez. II, n. 13456/2008; sez. IV, n.
11820/2008; sez. VI, n. 18243/2008; sez. III, n. 19257/2008; sez. IV, n.
20564/2008; n. 20794/2008; sez. VI, n. 21346/2008; n. 1032/2009; n.
1100/2009; sez. IV, n. 1304/2009; n. 1597/2009; n. 3368/2009; sez. VI, n.
5672/2014; sez. III, n. 1770/2015; n. 677/2017; Salerno, sez. II, n.
397/2017; Napoli, sez. III, n. 1303/2017; sez. IV, n. 1434/2017; sez. VIII,
n. 2870/2017; sez. VII, n. 3447/2017; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n.
57/2008; n. 1318/2009; n. 1768/2009; TAR Sicilia, Catania, sez. I, n.
475/2008; Palermo, sez. II, n. 866/2015; TAR Lazio, Roma, sez. II, n.
8117/2008; n. 2358/2009; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 781/2009; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, n. 1601/2016; TAR Basilicata, Potenza, n. 951/2016;
TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 1435/2016);
- l’emessa ordinanza di demolizione n. 19 del 03.03.2011 non necessitava
di valutazione in ordine alla conformità o meno delle opere abusive agli
strumenti urbanistici, posto che, una volta accertata l'esecuzione di
interventi privi di permesso di costruire, ne doveva essere disposta la
rimozione indipendentemente dalla verifica della loro eventuale conformità
allo strumento urbanistico e della loro ipotetica sanabilità: infatti, l'abusività
di un'opera edilizia costituisce, già di per sé, presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, n. 416/2017);
- premesso, che, ai sensi degli artt. 31, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001 e
107 comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000, l'ordinanza di demolizione di
opere edilizie abusive rientra nella competenza del dirigente comunale,
ovvero, nei Comuni sprovvisti di detta qualifica, dei responsabili degli
uffici e dei servizi, esplorativo si rivela il motivo di gravame che assume
la qualifica non dirigenziale del soggetto promanante il provvedimento
impugnato, che non dimostra la sussistenza di tale qualifica nell’apparato
organizzativo comunale di Cava de’ Tirreni e che tralascia l’ipotesi di
delega di poteri, agevolmente inferibile dal richiamo espresso –contenuto
nell’ordinanza di demolizione n. 19 del 03.03.2011– al decreto
dirigenziale n. 187/U del 18.03.2002
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.10.2019 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Alle
Sezioni Unite l’incompatibilità degli incarichi.
Da valutare se si applica anche per i rapporti di lavoro autonomo.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza
interlocutoria 26.09.2019 n. 24083 ha rimesso alle Sezioni unite la materia
del divieto per i dipendenti del settore pubblico di svolgere altre attività
lavorativa se non previo consenso del datore di lavoro.
La decisione è nata a seguito del contenzioso tra una banca e l’agenzia
delle Entrate in quanto l’istituto di credito ha conferito l’incarico di
presidente del consiglio di amministrazione, senza preventiva
autorizzazione, al direttore generale di una Asl.
La Cassazione rileva che il direttore generale dell’Asl è un organo che
rappresenta l’azienda; è nominato con provvedimento della Regione (perché l’Asl
ne è ente strumentale); con il direttore viene stipulato un contratto di
diritto privato e di lavoro autonomo esclusivo. Che il rapporto di lavoro
sia di tipo autonomo è condiviso da diverse pronunce precedenti e ciò
escluderebbe l’applicazione del Dlgs 165/2001.
Tuttavia la Suprema corte evidenzia che, in base all’articolo 3 del Dlgs
502/1992, il rapporto del direttore generale è esclusivo. Inoltre il quadro
normativo conferisce il potere al datore di lavoro pubblico di individuare
specifiche fattispecie di incompatibilità di incarichi oltre quanto già
previsto dalla legge.
Si pone però la questione se la disciplina di incompatibilità definita
dall’articolo 53 del Dlgs 165/2001 vale anche per gli incarichi che, in base
all’articolo 7, comma 6, dello stesso Dlgs, sono attribuiti a persone
dipendente di altra amministrazione pubblica o esterne.
In conclusione l’ordinanza evidenzia come «la disciplina delle
incompatibilità presenti problemi di coordinamento nell’armonizzarsi con la
riforma dell’ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e con la
qualificazione dei rapporti di lavoro in termini esclusivamente privatistici».
Situazione che, secondo i giudici, potrebbe essere risolta applicando
l’istituto delle incompatibilità riferendolo non allo status di dipendente
pubblico «ma alla diversità dei fini perseguiti dal datore pubblico rispetto
al datore privato».
Si tratta di «tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la
disciplina delle incompatibilità con la diversa natura dei rapporti di
lavoro che possono essere, allo stato, instaurati con la pubblica
amministrazione, facendo convivere detta disciplina con gli specifici fini
perseguiti dal datore di lavoro pubblico» (articolo Il Sole 24 Ore del
27.09.2019).
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ORDINANZA
Passando all'esame delle norme raccolte nel D.Lgs. 30.03.2001 n. 165, il
primo comma dell'art. 53 pone il principio generale relativo al tema delle
incompatibilità assolute e, sostanzialmente, non apporta modifiche alle
norme previgenti, affermando esplicitamente per tutti i dipendenti pubblici
la perdurante vigenza degli articoli da 60 a 65 del D.P.R. n. 3 del 1957.
Al fine di armonizzare tale affermazione con le proprie previsioni, il testo
specifica che sono fatte salve le deroghe di cui all'art. 23 bis del
medesimo decreto legislativo e le norme sul part-time.
L'art. 23-bis prevede la possibilità che i dirigenti pubblici svolgano
periodi di lavoro presso soggetti pubblici o privati, per un periodo massimo
di 5 anni, in regime di aspettativa, senza perdere la qualifica e con
possibilità di ricongiunzione previdenziale. La disposizione non risulta
direttamente connessa al tema delle incompatibilità anche tenendo conto del
fatto che, comunque, siamo in assenza sia di prestazione che di
retribuzione.
Venendo alle linee generali della disciplina delle incompatibilità disegnata
dal legislatore delegato in attuazione della riforma, lo stesso richiama
l'art. 60 del Dpr n. 3 del 1957 che impone ai pubblici dipendenti il divieto
di esercitare il commercio, l'industria e qualsiasi professione o assumere
impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società
costituite a fine di lucro. Il successivo art. 61 esclude dal divieto le
società cooperative e prevede che sia autorizzabile lo svolgimento
dell'incarico di arbitro o perito, mentre l'art. 62 ammette che il
dipendente, previa previsione di legge o autorizzazione, "partecipi
all'amministrazione o ai collegi sindacali di società o enti ai quali lo
Stato partecipi o comunque contribuisca, in quelli che siano concessionari
dell'amministrazione di cui l'impiegato fa parte o che siano sottoposti alla
vigilanza di questa".
Si tratta, dunque, di un sistema in cui, a fianco di un generale divieto del
tutto inderogabile, si prevede che l'amministrazione datrice di lavoro possa
autorizzare i propri dipendenti a svolgere alcune specifiche attività
estranee a quanto da loro dovuto in base al rapporto lavorativo.
Il sistema, strettamente coerente con una definizione rigorosamente
pubblicistica del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni,
prevedeva dunque una limitata possibilità di deroga da parte delle pubbliche
amministrazioni (c.d. incompatibilità relative o superabili) a fronte di un
generale divieto (c.d. incompatibilità assoluta) di svolgere attività
extraistituzionali.
Il legislatore delegato ha trasportato la disciplina del 1957 nell'ambito
del lavoro pubblico privatizzato e ha voluto conservarla invariata anche nel
nuovo contesto.
Il testo dell'art. 53 ha, innanzitutto, fatto propri gli elementi del
tradizionale sistema normativo (pubblicistico) recante divieti assoluti
parzialmente derogabili. Ha poi individuato un ambito di attività che,
seppure con qualche incertezza rispetto alla portata, si possono ritenere
del tutto liberalizzate.
Il legislatore ha quindi preso in considerazione gli incarichi retribuiti,
cioè quelle attività che il pubblico dipendente potrebbe svolgere dietro
compenso a beneficio di un soggetto diverso dal proprio datore di lavoro
ovvero quelle attività che lo stesso datore, al di fuori delle mansioni
dedotte in contratto e dietro compenso ulteriore rispetto a quello
ordinario, può decidere di assegnargli.
Con riferimento a tale categoria di attività il legislatore non ha
provveduto a determinare una specifica e puntuale disciplina, ma ha
costruito un sistema in base al quale lo stesso datore pubblico provvede ad
autorizzare o meno l'assunzione/conferimento degli incarichi. Tale sistema
delle autorizzazioni appare a prima vista una sorta di "espansione"
del meccanismo previgente, ma presenta in realtà una enorme portata
innovativa.
Infatti, essa non risponde ad una logica di tipo amministrativo né, stanti i
suoi legami con il rapporto (contrattuale) di lavoro, può ritenersi
sottratto alla privatizzazione. Tuttavia esso conferisce al datore pubblico
un controllo assai pregnante sulla vita e sul tempo extralavorativo dei
propri dipendenti ed è evidente che un simile potere (di autorizzare o meno
il lavoratore a utilizzare in modo remunerativo il proprio tempo, libero
dalla prestazione di lavoro dedotta in contratto) è sconosciuto
all'imprenditore privato.
L'art. 53 da un lato conserva alla legge, attraverso il rinvio al Dpr n.
3/1957 e ad altre norme speciali, la definizione delle incompatibilità
assolute e delle relative eccezioni, dall'altro però attribuisce al datore
di lavoro il potere di indicare singole e specifiche fattispecie di
incompatibilità al di fuori del confine del vietato ex lege.
Con riferimento a tale contesto, il legislatore delegato, pur confermando
alcune indicazioni generali in merito ai limiti di tale potere, attribuisce
alle determinazioni del singolo datore, ma non alla previsione normativa, la
definizione del lecito e mantiene a quest'ultima soltanto la definizione
degli aspetti procedurali e sanzionatori conseguenti.
Si può ritenere che la scelta del legislatore delegato sia legittima e non
consenta la formulazione di censure relative alla mancata o eccessiva
attuazione della delega. Infatti la definizione per legge delle
incompatibilità assolute è di per sé sufficiente a integrare il precetto di
cui all'art. 2 della legge n. 421/1992.
Risulta piuttosto evidente che il fatto di avere sottratto alla regolazione
legislativa la materia delle autorizzazioni relative agli incarichi
retribuiti e di aver ricondotto la specificazione dei divieti ad un inedito
potere del soggetto datoriale pubblico, pone il problema della sua eventuale
disponibilità, in quanto egli agisce con i poteri del datore comune.
E' cioè opportuno chiedersi se, nonostante la legge delega abbia voluto
inequivocabilmente sottrarre alla contrattazione la disciplina delle materia
in parola, in seguito alla scelta effettuata dal legislatore delegato di
affidare la individuazione degli incarichi retribuiti leciti al datore di
lavoro, sia possibile per quest'ultimo (che non è certamente obbligato in
tal senso) definire contrattualmente la materia o, quantomeno, farne oggetto
di confronto in sede sindacale.
Infatti da un lato -stante la disponibilità del potere dell'imprenditore
privato- parrebbe lecito che anche il datore 9 pubblico possa decidere in
tal senso, vincolandosi poi, ovviamente, nei termini eventualmente fatti
oggetto di accordo sindacale. Dall'altro, tuttavia, una simile soluzione
parrebbe allontanare un po' troppo gli esiti concreti e finali dello spirito
e delle evidenti intenzioni del delegante che ha voluto inequivocabilmente
sottrarre la materia alla contrattazione e che ha inteso conferire una certa
unità alla disciplina delle incompatibilità in tutto il campo del pubblico
impiego.
La tematica in parola si interseca in maniera significativa con un altro e
differente problema, quello costituito dalla disciplina che regola
l'assegnazione di incarichi di lavoro autonomo a soggetti ad esse estranei
da parte della pubbliche amministrazioni.
La delicata tematica viene affrontata dall'art. 7, comma 6, del medesimo
D.Lgvo n. 165/2001, che è stato oggetto di numerose riscritture e che,
attualmente, definisce in maniera piuttosto rigorosa sia i presupposti
oggettivi in presenza dei quali le amministrazioni possono attribuire a
personale esterno incarichi lavorativi sia i requisiti soggettivi che
debbono avere gli "esterni", per poter essere destinatari di tali
incarichi. E' evidente che la disciplina di cui all'art. 7 richiamato
risponde a necessità sia di contenimento sia di razionalizzazione della
spesa pubblica, cui si affianca la volontà di garantire, attraverso una
serie di rilevanti obblighi di pubblicità in merito agli incarichi
attribuiti e alle somme per ciò impiegate, un buon livello di trasparenza
dell'azione amministrativa.
Come si accennava, la disciplina in parola si potrebbe sovrapporre a quella
delle incompatibilità di cui all'art. 53, non solo quando gli incarichi di
cui all'art. 7 comma 6 vengano attribuiti a soggetti che siano dipendenti di
amministrazione pubblica diversa rispetto a quella di appartenenza, ma anche
a soggetti totalmente esterni.
Ferma la natura amministrativa dei provvedimenti in parola, occorre
chiedersi se, con riferimento alle categorie di dipendenti i cui rapporti di
lavoro sono stati privatizzati, ci si trovi di fronte a provvedimenti
privatistici o meno. E' tuttavia evidente che con tale tipo di
autorizzazioni si pone un problema di coerenza del sistema e rimane
possibile interpretare la previsione dell'art. 2 della legge n. 421/1992 nel
senso di sottrarre alla riforma la materia delle incompatibilità. Tuttavia
si può ritenere che, sebbene siano ancora fortemente connotati in senso
pubblicistico, gli atti in parola vadano comunque ricondotti alla
privatizzazione del rapporto per esplicita previsione legislativa (art. 5,
comma 2, del D.lgvo n. 165/2001).
L'art. 53, comma 1, infatti, prevede, esplicitamente, che mantengono vigore
alcune discipline speciali relative a particolari categorie di dipendenti.
Precisamente, gli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 del D.Lgvo n. 297 del
1994 161; l'articolo 9, commi 1 e 2, della legge n. 498 del 1992; l'art. 4,
comma 7, della legge n. 412 del 1991. Tali previsioni si riferiscono a
specifiche categorie di dipendenti pubblici.
In particolare, per il personale sanitario (art. 4, comma 7, della legge 412
del 1991), la norma afferma il principio della unicità del rapporto di
lavoro con il SSN e l'incompatibilità con altri rapporti di lavoro
dipendente ovvero con ulteriori rapporti anche convenzionali con il medesimo
SSN.
La norma afferma, quindi, l'incompatibilità "con l'esercizio di altre
attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di
imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso".
Si specifica inoltre che l'avvio dell'accertamento può avvenire "su
iniziativa di chiunque vi abbia interesse".
Solo per completezza argomentativa, si osserva che nell'ambito della
previsione in esame è intervenuto il legislatore che ha inserito, con l'art.
52 del D.Lgvo n. 150 del 27.10.2009, attuativo della legge n. 15/2009, un
comma 1-bis nell'art. 53 del D.lgvo n. 165/2001, il quale prevede che siano
preclusi gli incarichi "di direzione di strutture deputate alla gestione
del personale a soggetti che rivestano o abbiano rivestito negli ultimi due
anni cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano
avuto negli ultimi due anni rapporti continuativi di collaborazione o di
consulenza con le predette organizzazioni".
Chiaramente la previsione non individua una incompatibilità in senso
stretto, ma prevede un esplicito divieto in merito all'individuazione di
soggetti cui attribuire specifici incarichi direttivi.
La ratio della previsione è espressione della preoccupazione del Legislatore
che soggetti che assumono un ruolo di rilievo, in quanto svolgono funzioni
direttive, e in un ambito di particolare delicatezza per l'efficienza
dell'amministrazione (quale è la gestione del personale) possano essere
influenzati nella loro azione da condizionamenti derivanti dalle proprie
relazioni personali che trovano radici nella vita personale extralavorativa.
La scelta non solo è pienamente rispondente al bisogno di assicurare
all'azione amministrativa i requisiti individuati dall'art. 97 della
Costituzione, ma è anche idonea ad avviare un ripensamento generale sul tema
delle incompatibilità nel pubblico impiego. Infatti, nonostante la sua
apparente limitatezza, la disposizione ha una grande vastità di applicazione
e incide su un aspetto della vita personale dei dipendenti, quale la vita
politica e/o sindacale, da sempre oggetto di una tutela (giustamente)
estesissima e non necessariamente di natura economica.
Quanto finora osservato mette in luce come la disciplina delle
incompatibilità presenti problemi di coordinamento nell'armonizzarsi con la
riforma dell'Ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e con la
qualificazione dei rapporti di lavoro in termini esclusivamente privatistici,
sistema che potrebbe essere ricondotto ad unità riferendo la "specialità"
non già allo status di dipendente pubblico, ma alla diversità dei
fini perseguiti dal datore pubblico rispetto al datore privato.
In altri termini, l'applicazione dell'istituto delle incompatibilità
dovrebbe tenere conto della diversità degli scopi dei datori di lavoro per
spiegare e conseguentemente giustificare le diversità normative, senza che
questo implichi in alcun modo (almeno in termini sistematici) una
alterazione del rapporto contrattuale tra datori e lavoratori; sulla scorta
della specificità soggettiva del datore pubblico andrebbe valutata la
riconducibilità della materia al settore della pubblica amministrazione in
ragione della interferenza delle prestazioni rese con i compiti
istituzionali.
Per siffatte ragioni ritiene il Collegio che il più recente orientamento
meriti di essere rimeditato nella sua portata, trattandosi di tracciare una
linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina delle
incompatibilità con la diversa natura dei rapporti di lavoro che possono
essere, allo stato, instaurati con la pubblica amministrazione, facendo
convivere detta disciplina con gli specifici fini perseguiti dal datore di
lavoro pubblico.
Poiché la questione investe un tema di notevole impatto pratico, tenuto
conto dell'evoluzione che ha avuto e continua ad avere nel settore
dell'impiego pubblico privatizzato e non solo, il Collegio
ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale
assegnazione alle Sezioni Unite.
P.Q.M.
La Corte, dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per
l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. |
APPALTI SERVIZI: Raccolta
rifiuti: illegittima l'ordinanza sindacale contingibile e urgente di proroga
senza indizione di una «gara ponte»
I Comuni sono tenuti ad affidare il servizio di raccolta rifiuti con una
gara unitaria e, per non rimanere sforniti del servizio rifiuti nelle more
dell’avvio del servizio unitario affidato a seguito di “gara accentrata”,
devono espletare un’apposita “gara-ponte” per contratti di durata biennale
aventi clausola di risoluzione immediata in caso di avvio del servizio
unitario.
È quanto afferma il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la
sentenza 20.09.2019 n. 1483.
L’approfondimento
Il Tar Lecce è intervenuto sui profili di legittimità dell’ordinanza
contingibile e urgente di indizione di una gara unitaria per il servizio di
raccolta rifiuti con proroga del rapporto con il precedente affidatario.
La decisione
Nell’accogliere il ricorso, il Collegio ha avuto modo di rilevare come, se è
vero che, ai sensi della normativa regionale pugliese (art. 24, commi 1 e 2,
Lr 24/2012), i Comuni sono tenuti ad affidare il servizio di raccolta
rifiuti con una gara unitaria (comma 1), è altrettanto vero che ciascun
Comune, per non rimanere sfornito del servizio rifiuti nelle more dell’avvio
del servizio unitario affidato a seguito di “gara accentrata”, deve
espletare la “gara-ponte” per “contratti di durata biennale aventi clausola
di risoluzione immediata in caso di avvio del servizio unitario” (comma 2).
Il Comune, infatti, nelle more dell’entrata a regime del servizio unitario,
con l’ordinanza impugnata anziché procedere all’affidamento del servizio
rivolgendosi al mercato tramite la “gara-ponte” biennale che nel frattempo
non ha indetto, avrebbe invece reiterato la scelta di prorogare il contratto
già in essere per la durata di un ulteriore anno, motivando la propria
scelta sulla base del fatto che sarebbe in corso di svolgimento la procedura
di gara per l’affidamento del servizio a livello unitario, trasformando di
fatto trasformato l’istituto della proroga da strumento eccezionale a mezzo
ordinario di affidamento del servizio.
Per il Collegio, tuttavia, non risultando alcuna indizione della
“gara-ponte” alla luce dei principî generali in tema di procedure ad
evidenza pubblica, deriverebbe l’illegittimità dell’ordinanza perché in
violazione di cui al citato comma 2, articolo 24, della normativa regionale
applicabile.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che, l’ordinanza di proroga
impugnata è illegittima nelle parti in cui non ha contestualmente disposto
l’espletamento della “gara-ponte” e non ha assoggettato la disposta
proroga a risoluzione anticipata ed immediata nel caso di avvio del servizio
unitario ovvero, se anteriore, di avvio del servizio a seguito di “gara-ponte” (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
07.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
pubblici, legittima la scelta organizzativa di esonerare i candidati interni
dalle preselettive.
L’esonero del personale interno del Comune dalla prova preselettiva
costituisce di per sé scelta organizzativa discrezionale in materia di
politiche assunzionali non manifestamente irragionevole, in relazione
all’intuitiva riconducibilità a profili esperienziali ricoperti dai
candidati esonerati.
È quanto afferma il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con l’ordinanza 20.09.2019 n. 375.
L’approfondimento
Il Tar Bari è intervenuto sui profili di legittimità della scelta di un ente
locale, operata in sede di indizione di un concorso, di esonerare il
personale interno dalla prova preselettiva e di ammetterlo di diritto alle
prove d’esame.
La decisione
Nel respingere l’istanza cautelare, il Collegio ha avuto modo di rilevare
come questa non appaia essere assistita da un sufficiente fumus boni iuris.
Per il Collegio, infatti, il ricorso in esame mirerebbe -in estrema sintesi- alla contestazione delle scelte discrezionali del Comune di Bari in
materia di politiche assunzionali del proprio personale, laddove, in
particolare, l’esonero del personale interno del Comune dalla prova
preselettiva costituisce di per sé scelta organizzativa non manifestamente
irragionevole, in relazione all’intuitiva riconducibilità a profili
esperienziali;
Per il Collegio, inoltre, l’Amministrazione avrebbe potuto alternativamente
procedere con concorsi interni riservati esclusivamente al personale già in
servizio, in tal modo diminuendo in radice e “a monte” le chances selettive
di tutti i partecipanti alla procedura, che, viceversa, appaiono essere
state incrementate dall’attuale scelta organizzativa del Comune di Bari,
anche al netto della relativa agevolazione costituita dal contestato esonero
dalla prova preselettiva.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che, ad un sommario esame proprio
della fase cautelare, che l’istanza così come introdotta non appare essere
assistita da un sufficiente fumus boni iuris e, in quanto tale, debba
essere respinta in attesa della definizione nel merito della controversia (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
04.10.2019). |
TRIBUTI: IMU,
paga la società di leasing dopo la scadenza del contratto.
Il contratto di locazione finanziaria di beni immobili rappresenta il titolo
in base al quale si determina la soggettività passiva ai fini Imu e non,
invece, sulla base della disponibilità materiale del bene. Infatti, per il
legislatore fiscale, la soggettività passiva del locatario finanziario si
realizza addirittura quand’anche il bene da concedere non sia ancora venuto
ad esistenza (immobili da costruire o in corso di costruzione), anche
qualora lo stesso non sia stato consegnato dal concedente all’utilizzatore.
Ciò che rileva per il sorgere della soggettività passiva Imu non è
l’adempimento della consegna del bene (e di converso per la sua cessazione
la riconsegna) ma esclusivamente la sottoscrizione del contratto.
Questo il
principio affermato dalla sentenza 19.09.2019 n. 3512 della Ctr Lombardia.
La vicenda esaminata
Ritorna la questione all’esame dei giudici della Ctr Lombardia che
considerano chiaro il dettato normativo da leggersi nel senso che «in caso
di risoluzione del contratto di leasing la soggettività passiva ai fini Imu
si determina in capo alla società di leasing, anche se essa non ha ancora
acquisito la materiale disponibilità del bene per mancata riconsegna da
parte dell’utilizzatore» (conforme Cassazione 13793/2019).
La decisione
«Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in
locazione finanziaria soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data
della stipula e per tutta la durata del contratto» (articolo 9 del Dlgs
23/2011). Questo il precetto che porta i giudici regionali a non avere dubbi
circa la soggettività passiva Imu in capo al locatore alla scadenza o alla
risoluzione del contratto di leasing finanziario e indipendentemente dalla
materiale consegna del bene da parte del locatario.
In concreto, chiosa il collegio, è il titolo (cioè il contratto stipulato)
che determina la soggettività passiva del locatario finanziario e non certo
la disponibilità materiale del bene.
Infatti, per il legislatore fiscale, la
soggettività passiva del locatario finanziario si realizza addirittura
quand’anche il bene da concedere non fosse ancora venuto ad esistenza (per
gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione) e pure
quand’anche fosse che il bene non sia stato ancora consegnato dal concedente
all’utilizzatore, essendo rilevante, per il sorgere della soggettività
passiva Imu, non già l’adempimento della consegna del bene (e di converso
per la sua cessazione la riconsegna), ma la sola sottoscrizione del
contratto (soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della
stipula).
Richiamando la disciplina civilistica e sovrapponendola a quella
fiscale i giudici evidenziano come il momento della cessazione del contratto
si determina all’atto del pagamento dell’ultimo canone in base alla durata
stabilita nello stesso ovvero, nelle ipotesi di risoluzione anticipata per
inadempimento, dal momento in cui esso è stato risolto.
Con questa lettura la Ctr ritiene altresì infondato il richiamo in via
analogica alla disciplina Tasi in quanto è un diverso tributo, con
presupposti impositivi differenti (detenzione del bene), non potendo
pertanto avere valenza interpretativa. Riconoscendo comunque il contrasto
giurisprudenziale sul tema i giudici ambrosiani giustificano l’integrale
compensazione delle spese di lite fra le parti.
Lo scenario
In attesa di un intervento delle Sezioni Unite il dibattito
giurisprudenziale continua ad alimentarsi con interpretazioni ondivaghe
circa la soggettività passiva Imu nelle ipotesi di contratti di locazione
finanziaria di immobili con sopravvenuta risoluzione contrattuale senza che
vi sia stata la materiale riconsegna del bene (si veda Il Quotidiano del
Fisco del 13.09.2019) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
25.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Società
in house, nulle le progressioni verticali senza procedura selettiva.
L'omesso esperimento di procedure concorsuali o selettive per il
reclutamento di personale nelle società in house non genera soltanto una
fattispecie di responsabilità contabile a carico del dirigente che ha
disposto l'assunzione irregolare, ma determina anche la nullità del
contratto di lavoro per la violazione di un principio di carattere
imperativo.
Inoltre, l'omissione di queste procedure non condiziona solamente la
validità delle nuove assunzioni, ma rende nullo, parimenti, un inquadramento
superiore avvenuto in violazione delle regole prescritte.
Affermando questi principi, la Corte d'appello di Catania, Sez. lavoro,
con la sentenza n. 780/2019 ha confermato
un'interpretazione rigorosa delle vigenti disposizioni di legge in tema di
reclutamento del personale nelle società a controllo pubblico.
L'analisi dei giudici
La Corte muove dall'assunto secondo cui se è vero, da un lato, che la
disciplina del pubblico impiego non è applicabile tout court alle
partecipate, in quanto le norme a carattere nazionale non operano un rinvio
generalizzato a detta disciplina, ma si limitano a richiamare i principi per
il reclutamento del personale cui le società a controllo pubblico devono
uniformarsi, è altrettanto vero, d'altro lato, che per queste società
l'obbligo di assumere previa selezione incide in modo essenziale sulla fase
propedeutica di individuazione del personale e di instaurazione del rapporto
di lavoro, fermo restando che la fase successiva del medesimo rapporto è
rimessa al diritto comune.
Basandosi su queste argomentazioni il collegio rigetta l'appello avverso la
decisione del Tribunale di Catania che, in tema di gestione di personale
alle dipendenze di una società in house, aveva respinto il ricorso contro il
provvedimento con cui la società stessa revocava gli atti di una
progressione verticale ritenuta contra jus, in quanto disposta senza previa
procedura selettiva.
La pronuncia è meritevole di interesse, perché la Corte ricostruisce il
tessuto normativo sottostante la disciplina del personale nelle società
partecipate, facendo luce su un ambito organizzativo che non di rado si
presta a vedute divergenti ed è fonte di contenziosi giudiziali.
Le assunzioni
Un primo punto affrontato dalla pronuncia riguarda il fatto che, in tema di
assunzioni, l'omesso esperimento delle procedure selettive non comporta
soltanto la responsabilità contabile per il soggetto inadempiente, ma
implica necessariamente la nullità del contratto di lavoro.
A questo riguardo, la giurisprudenza ha più volte messo in luce la natura
imperativa dell'obbligo di procedura selettiva, la cui violazione comporta
la nullità del rapporto di lavoro costituito violando la legge e
l'invalidità della relativa assunzione, salvo il diritto del lavoratore alla
retribuzione per l'attività svolta (articolo 2126 del codice civile).
Secondo il collegio, una sanzione così grave non discende soltanto da quanto
previsto dall'articolo 19, comma 4, del Dlgs 175/2016 (che, sul punto, non
reca una portata innovativa) ma si ricollega all'articolo 1418 del codice
civile, in quanto «la violazione attiene al momento genetico della
fattispecie negoziale».
Di conseguenza, scrivono i giudici, «se il legislatore vieta, in determinate
circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene
stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma
imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell'atto per
ragioni (...) ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a
norma imperativa del contenuto dell'atto medesimo».
È utile rammentare, sul punto, che già a suo tempo il Consiglio di Stato,
con la sentenza n. 5643/2015, in epoca antecedente al Dlgs 175/2016, ossia
in vigenza dell'articolo 18 del Dl 112/2008, convertito in legge 133/2008,
aveva affermato che se una società in house incorre nella violazione delle
regole previste da questo principio, «il rapporto (…) è sanzionato con la
nullità, intesa come invalidità improduttiva di effetti giuridici,
imprescrittibile, insanabile e rilevabile di ufficio e non già alla stregua
di un mero vizio di violazione di legge, secondo i principi generali
regolanti il regime di annullabilità degli atti amministrativi illegittimi».
In ragione di ciò, può ritenersi pacifica e incontrovertibile la nullità del
contratto di lavoro instaurato senza l'esperimento di procedura concorsuale
(Consiglio di Stato, sentenza n. 2270/2014; Tribunale di Roma, ordinanza n.
56947/2016; Tribunale di Monza, sentenza n. 420/2015).
Le progressioni di carriera
Un secondo aspetto degno di nota è il corollario in base al quale se è nullo
il contratto di lavoro stipulato per una nuova assunzione in assenza delle
procedure di reclutamento, parimenti deve considerarsi affetta da nullità
l'attribuzione di un inquadramento superiore al di fuori di queste
procedure.
L'obbligo di procedura selettiva per le assunzioni trova piena applicazione
anche alle promozioni, alle progressioni verticali e ai passaggi di
categoria nell'organico delle partecipate.
E questo perché, come ha da tempo chiarito la Corte Costituzionale, «il
passaggio a una fascia funzionale superiore comporta l'accesso a un nuovo
posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto,
pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso»
(Corte Costituzionale sentenze n. 320/1997 e n. 1/1999).
D'altra parte, è agevole intuire che il superamento di una singola selezione
non può essere un «lasciapassare» per l'ingresso nei ruoli della società
pubblica, bensì legittima l'esercizio delle sole funzioni inerenti al posto
di lavoro messo a concorso.
Per inciso, il rispetto delle regole esige la massima cura anche per il
fatto che la violazione dei principi selettivi e di concorsualità per
l'accesso all'impiego presso le società a controllo pubblico si configura
quale fattispecie suscettibile di ingenerare un danno erariale (Corte dei
conti del Lazio, sentenza n. 399/2017) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
18.09.2019). |
APPALTI: Effetti
della sentenza Cgue Lombardi in caso di esclusione disposta
all’amministrazione.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Controllo
documentazione prodotta anche se proveniente da terzo – Obbligo.
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Concorrente terza graduata –
Offerta non regolare – Interesse ad impugnare prima e seconda graduata –
Condizione.
●
Sull’operatore economico che partecipa a una gara d’appalto incombe l’onere
di verificare se il contenuto dei documenti e delle dichiarazioni prodotti
corrisponda al vero pure nell’ipotesi che si tratti di un atto
(certificazione di qualità) proveniente dal terzo (1).
●
Un’impresa che si è classificata in terza posizione nella
graduatoria di gara, che è stata in seguito esclusa dalla stazione
appaltante e che ha proposto il ricorso contro il provvedimento espulsivo e
contro l’altrui aggiudicazione dev’essere riconosciuto l’interesse
all’esclusione dell’aggiudicatario e del concorrente collocato in seconda
posizione, anche se la sua offerta sia giudicata non regolare, sempre che,
nel frattempo, la relativa statuizione non passi in giudicato (2).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che l’esclusione disposta ai sensi
dell’art. 80, lett. f-bis), del codice dei contratti pubblici (per la quale
le stazioni appaltanti escludono “l’operatore economico che presenti nella
procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione
o dichiarazioni non veritiere”) è atto vincolato, discendente direttamente
dalla legge (Cons.
St., sez. III, 23.08.2018, n. 5040).
Dall’altro, anche a voler valorizzare (per mera ipotesi, considerato che
l’ammissione rappresenta un atto meramente procedimentale, qualificazione
tradizionale significativamente confermata dall’abrogazione dell’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a.) il dato che l’esclusione si contrapponga, smentendola,
all’originaria ammissione, rimane il fatto che non è configurabile, in capo
alla cooperativa, alcun legittimo affidamento all’aggiudicazione della gara,
essendosi collocato al terzo posto della graduatoria.
Ha aggiunto il Tar che la falsa dichiarazione consiste in una immutatio veri
(ricorre, cioè, se l’operatore rappresenta una circostanza di fatto diversa
dal vero), senza che, oltretutto, rilevi la provenienza della dichiarazione
o della documentazione, se dallo stesso operatore ovvero da un terzo (Cons.
St., sez. V, 12.04.2019, n. 2407;
20.03.2019, n. 1820).
(2) Ha chiarito il Tar che la norma che definisce la posizione qualificata,
differenziandola dall’interesse di mero fatto, anche nell’ipotesi di un
concorrente già escluso (ma non definitivamente) dalla stazione appaltante,
è pur sempre l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 (inalterato
anche dopo l’entrata in vigore della direttiva 2007/66/CE), il cui
significato è stato ulteriormente chiarito dalla recente sentenza della
Corte di giustizia, decima sezione, 05.09.2019, Lombardi, C-333/18, ECLI:EU:C:2019:675.
Il Giudice europeo, chiamato ad interpretare tale norma (per la quale “Gli
Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso,
secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia
o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato
appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta
violazione”) ha affermato:
“Infatti, l’offerente che, come nel presente caso, si sia classificato in
terza posizione e che abbia proposto il ricorso principale deve vedersi
riconoscere un legittimo interesse all’esclusione dell’offerta
dell’aggiudicatario e dell’offerente collocato in seconda posizione, in
quanto non si può escludere che, anche se la sua offerta fosse giudicata
irregolare, l’amministrazione aggiudicatrice sia indotta a constatare
l’impossibilità di scegliere un’altra offerta regolare e proceda di
conseguenza all’organizzazione di una nuova procedura di gara.
In particolare, qualora il ricorso dell’offerente non prescelto fosse
giudicato fondato, l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la
decisione di annullare la procedura e di avviare una nuova procedura di
affidamento a motivo del fatto che le restanti offerte regolari non
corrispondono sufficientemente alle attese dell’amministrazione stessa”.
Sono note al proposito le perplessità che ha destato un percorso
giurisprudenziale che, partendo dalla sentenza 19.06.2003, Hackermüller,
C-249/01, ECLI:EU:C:2003:359, su impulso dei ripetuti rinvii pregiudiziali
del Consiglio di Stato e del Consiglio di giustizia amministrativa per la
regione siciliana, è giunta a fondare l’accesso al ricorso sull’incerta
prospettiva del futuro esercizio del potere di autotutela da parte
dell’amministrazione, potere ampiamente discrezionale già nell’an.
Ugualmente ampio è il dibattito sull’impatto di queste pronunce sul modello
del processo amministrativo, se, cioè, esse comportino uno spostamento verso
una giurisdizione di diritto oggettivo o se, invece, semplicemente adottino
un concetto di legittimazione più ampio e più sostanziale, anche per
favorire il meccanismo del private enforcement; a ciò si aggiunge un
certo scetticismo nei confronti della funzionalità del processo come
ridefinito dalla Corte e sulla stessa proporzionalità dei principi affermati
rispetto alla finalità dell’attuale articolo 114 del trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (corrispondente all'art. 100 A del
trattato CEE e all’art. 95 del trattato CE) che costituisce la base
giuridica delle direttive 89/665 e 2007/66.
L’art. 114 TFUE invero consente l’adozione di “misure relative al
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative degli Stati membri che hanno ad oggetto l’installazione e il
funzionamento del mercato interno”, ovvero di “uno spazio senza
frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle
merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei
trattati”, come definito dall’articolo 26 TFUE, o ancora di “un
sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata”, come
esplicitato dal protocollo n. 27 annesso al trattato di Lisbona.
In questo quadro, sorge il sospetto che un siffatto modello processuale, il
quale inevitabilmente produce l’allungamento della durata dei giudizi
(potenzialmente contenuto, in alcuni casi, anche per le ragioni appresso
indicate, dall’ormai abrogato l’art. 120, comma 2-bis, del codice del
processo amministrativo), il dilatarsi dei tempi di assegnazione degli
appalti, l’allontanamento dall'obiettivo della convenienza per
l’amministrazione, a seguito del riscontro di vizi anche meramente formali,
e il rischio che il “ricorso efficace” sia utilizzato strumentalmente, possa
costituire esso stesso un ostacolo all’esplicarsi delle dinamiche del
mercato e della concorrenza.
Queste riflessioni però evidentemente non possono incidere sull’esito
dell’eccezione e, a monte, sulla chiara posizione espressa dalla Corte di
giustizia nella sentenza Lombardi, che, concretizzata, porta a concludere
che la società Bar Ge.In.Com., la quale, nel presente caso, si è
classificata in terza posizione e che ha proposto il ricorso, deve vedersi
riconoscere un legittimo interesse all’esclusione dell’offerta
dell’aggiudicatario e dell’offerente collocato in seconda posizione, anche
se la sua offerta fosse giudicata irregolare.
Né è invocabile poi l’art. 2-bis, paragrafo 2, della direttiva 89/665
(introdotto dall'art. 1 della direttiva 2007/66/CE), secondo cui “Gli
offerenti sono considerati interessati se non sono già stati definitivamente
esclusi. L’esclusione è definitiva se è stata comunicata agli offerenti
interessati e se è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso
indipendente o se non può più essere oggetto di una procedura di ricorso”.
La Corte di giustizia (ottava sezione, 21.12.2016, Bietergemeinschaft,
C-355/15, EU:C:2016:988, punti 24-36; 11.05.2017, Archus, C-131/16,
EU:C:2017:358, punto 57) ha infatti ribadito che l’esclusione, per essere
considerata definitiva, qualora sia stata impugnata, dev’essere stata
dichiarata esente da vizi con una sentenza passata in giudicato prima che il
giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione
dell’appalto statuisca
(TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 16.09.2019 n. 1670 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Viola
il principio di rotazione la stazione appaltante che invita l'operatore
uscente alla gara Mepa.
Viola il principio della rotazione la stazione appaltante quando invita
l'operatore economico uscente, che abbia manifestato interesse a partecipare
ad una richiesta di offerta sul Mepa.
Con la
sentenza
16.09.2019 n. 376 del TAR Friuli
Venezia Giulia prende posizione su una tematica ancora controversa.
Il principio di rotazione, in base all'articolo 36, comma 1, del Dlgs
50/2016 si applica non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, per i
contratti sotto soglia, anche in ogni caso di ricorso alla procedura
negoziata senza previa pubblicazione articolo 63, comma 6, del Dlgs
50/2016).
Esso serve a evitare il consolidamento di rendite di posizione in
capo al gestore uscente, che ha una posizione di vantaggio, in forza delle
informazioni acquisite durante il pregresso affidamento, soprattutto nei
mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è elevato ed
occorre ampliare le possibilità di aggiudicazione per gli altri concorrenti.
Giurisprudenza
Secondo la giurisprudenza la procedura di selezione del contraente non deve
risolversi in una mera rinnovazione del rapporto contrattuale scaduto. Ciò
che conta è l'identità e continuità, nel corso del tempo, della prestazione
principale o, nel caso in cui non sia possibile individuare una chiara
prevalenza delle diverse prestazioni dedotte in rapporto (tanto più se
aventi contenuto tra loro non omogeneo), che i successivi affidamenti
abbiano comunque ad oggetto, in tutto o parte, queste ultime (decisione
Consiglio di Stato decisione n. 1524/2019).
La stazione appaltante deve motivare qualora intenda, comunque, invitare il
gestore uscente, facendo in particolare riferimento al numero eventualmente
ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione
maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero
all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento.
Esclusioni
Le linee guida Anac n. 4 hanno escluso dall'ambito di applicazione del
principio di rotazione talune fattispecie, individuano, tra l'altro,
l'ipotesi in cui l'affidamento avvenga con procedura aperta al mercato,
nella quale la stazione appaltante non limiti il numero di operatori
economici tra i quali effettuare la selezione. Un'applicazione di questo
criterio in tal caso potrebbe determinare pregiudicare la tutela della
concorrenza ( ordinanza Tar Brescia n. 332/2019).
È stato però rilevato che non compensano la mancata osservanza del principio
di rotazione gli accorgimenti procedurali adottati dalla stazione
appaltante, quali l'esperimento della procedura in via telematica attraverso
la piattaforma digitale, la pubblicazione di un apposito avviso pubblico,
l'espletamento di una preventiva indagine di mercato.
Tale avviso attiva
un'indagine di mercato non vincolante, per individuare operatori economici
da invitare alla successiva procedura negoziata e nella fase successiva
dell'invito, si innesta la regola dell'esclusione del gestore uscente. Lo
strumento della manifestazione di interesse, pur strumentale a garantire la
più ampia partecipazione possibile agli operatori economici da invitare, non
rende affatto superflua la rotazione (Consiglio di Stato n. 3831/2019).
Però non si può estendere l'applicazione del principio di rotazione quando
l'operatore economico sia stato invitato a differenti gare, per le quali è
stata richiesta una diversa qualificazione. Per esempio quando è invitato ad
una precedente procedura, per la quale è obbligatorio il possesso di una
categoria di qualificazione diversa (attestazione Soa OS28 invece che OG1),
nel caso esaminato dalla sentenza del Tar Catania 1380/2019).
Pareri discordi
Va però considerato che altra giurisprudenza ha considerato il principio di
rotazione servente e strumentale rispetto a quello di concorrenza,
evidenziando che deve trovare applicazione nei limiti in cui non incida su
quest'ultimo e si può derogare per raggiungere il numero minimo di offerte
da sottoporre a selezione. (sentenza Tar Firenze n. 816/2017, con
riferimento ad un caso in cui all'avviso esplorativo cui avevano risposto
solo due operatori di cui uno era il gestore uscente).
La violazione del principio di rotazione importa l'immediata impugnazione
dell'ammissione del concorrente. Il termine di impugnazione decorre, in base
all'articolo 120, comma 2-bis, Cpa, dalla data di pubblicazione dell'atto di
ammissione, o comunque dal giorno in cui l'atto stesso è reso in concreto
disponibile, secondo la nuova formulazione dell'articolo 29, comma 1, del
Dlgs n. 50/2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.10.2019).
---------------
SENTENZA
Quanto al primo motivo, il caso all’esame appare sovrapponibile a
quello, deciso con la condivisibile pronuncia del Consiglio di Stato, sez.
V, n. 3831 del 2019.
Giova anzitutto richiamare la norma di cui all'art. 36 del D.Lgs. n. 50 del
2016, secondo la quale "l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e
forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono
nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché
del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e
in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle
microimprese, piccole e medie imprese".
Ebbene, nella citata pronuncia del Consiglio di Stato si osserva che “il
principio ivi affermato mira ad evitare il crearsi di posizioni di rendita
anticoncorrenziali in capo al contraente uscente (la cui posizione di
vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il
precedente affidamento) e di rapporti esclusivi con determinati operatori
economici, favorendo, per converso, l'apertura al mercato più ampia
possibile sì da riequilibrarne (e implementarne) le dinamiche competitive”.
Conseguentemente “il principio di rotazione si riferisce propriamente non
solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni
appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da
interpellare e da invitare per presentare le offerte ed assumendo quindi
nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al
carattere "fiduciario" della scelta del contraente allo scopo di evitare che
il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di
favoritismo.”
Inoltre, “risultano condivisibili i rilievi mossi all'operato
dell'Amministrazione comunale, nella misura in cui non ha palesato le
ragioni che l'hanno indotta a derogare a tale principio: ciò in linea con i
principi giurisprudenziali per cui, ove la stazione appaltante intenda
comunque procedere all'invito di quest'ultimo (il gestore uscente), dovrà
puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al
numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado
di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale
ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (ex
multis: Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; id., Sez. V, 03.04.2018,
n. 2079; id., Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125)”. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Protezione dati, il responsabile deve far parte dell'organico
della società esterna incaricata.
Qualora la funzione di responsabile per la protezione dei dati personali sia
svolta da una persona giuridica, è indispensabile che il soggetto (persona
fisica) operante come Rpd sia "appartenente" alla persona giuridica e
soddisfi tutti i requisiti applicabili come fissati nella sezione 4 del
regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali.
Lo afferma la Sez. III del TAR Puglia-Lecce con la
sentenza
13.09.2019 n. 1468.
Il caso
Il ricorso riguarda l'annullamento della graduatoria degli ammessi al
conferimento dell'incarico per l'attuazione del Regolamento Ue n. 679/2016
sulla protezione dei dati personali e l'individuazione del responsabile per
la protezione dei dati (Rpd), formulata all'esito di una procedura di gara
informale. Incarico conferito a una Srl ma sospeso dallo stesso Tar Puglia
secondo cui, pur non essendovi dubbi circa il fatto che una persona
giuridica può partecipare alla gara, l'incarico di Rpd era stato poi
affidato a un soggetto fisico di cui non era chiaro il legame con la società
aggiudicataria.
La sezione di Lecce ha respinto diversi motivi di ricorso ma ha accolto
l'ultimo, relativo proprio al fatto che non viene evidenziato il legame fra
la società e il soggetto incaricato delle funzioni di Rpd, che non risulta
essere socio e neanche dipendente, venendo a configurare una sorta di
subappalto in cui non è riscontrabile quale possa essere la responsabilità
della società nel caso di inadempimenti e/o danni provocati da detto
soggetto.
Le indicazioni europee
Nel merito, i giudici hanno esaminato la questione alla luce delle
necessarie conoscenze e qualità professionali che deve possedere il
responsabile e della sua posizione all'interno di una persona giuridica
qualora la funzione venga da svolta da quest'ultima. Il riferimento è ai
requisiti fissati nella sezione 4 del Capo IV del Rgpd, il regolamento
europeo in materia di protezione dei dati personali, secondo cui il Rpd deve
essere designato in funzione delle qualità professionali e in particolare
della conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in materia di
protezione dei dati e può assolvere i suoi compiti in base a un contratto di
servizi (articolo 37).
Indicazioni specifiche per il Rpd sono contenute
nelle «Linee guida sui responsabili della protezione dati», adottate il 13.12.2016 dal Gruppo di lavoro europeo per la protezione dei dati,
secondo cui qualora la funzione venga svolta da un fornitore esterno, è
indispensabile che ciascun soggetto "appartenente" a detto fornitore
soddisfi tutti i requisiti fissati nel regolamento. Nel caso di specie la
società aggiudicataria non ha dato prova dell'appartenenza soggetto
incaricato di svolgere le funzioni di Rpd alla propria struttura o al
proprio organico, essendo legato da un contratto di prestazione
professionale, per cui la funzione da questi svolta non può essere riferita
alla società.
Lost in translation
È singolare la contromossa difensiva della società, che ha evidenziato come
nel testo (originale) in inglese delle linee guida non sia rinvenibile la
parola "appartenente" e quindi viene solo richiesto che il soggetto
incaricato soddisfi tutti i requisiti previsti dal regolamento.
Ragionamento
respinto dal Tar Lecce, che anzi lo usa per confermare la correttezza della
propria posizione, in quanto da un lato la traduzione italiana delle linee
guida non ha alcun valore legale, a differenza della versione italiana che
costituisce versione ufficiale e, dunque, vincolante; dall'altro la
traduzione proposta risulta non veritiera, in quanto la dizione «each member
of organisation exercising the functions of DPO…» non si riferisce a ogni
soggetto (esterno) cui la persona giuridica incaricata fa svolgere le
funzioni di Rpd ma a ogni membro interno che la svolge (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
20.09.2019). |
APPALTI: Ripubblicazione
degli atti di gara e termine di
impugnazione.
La ripubblicazione
integrale degli atti contenenti la
disciplina di gara e non solamente delle
parti modificate determina un effetto
sostitutivo dei nuovi atti ai corrispondenti
adottati in precedenza; al contempo, la
riapertura dei termini per la presentazione
dell’offerta rinnova l’interesse del
potenziale concorrente a censurare la lex
specialis nella sua interezza.
Ne consegue che, in questo caso, il termine
decadenziale per impugnare i nuovi atti
contenenti la disciplina di gara, anche
nella parte non oggetto di modifica,
riprende a decorrere dalla pubblicazione
degli stessi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2019 n. 1958 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
5.2. E’,
di contro, infondata l’eccezione di irricevibilità del ricorso principale
sollevata dalla Centrale di committenza, in
ragione del fatto che le modifiche alla
disciplina di gara contenute negli atti ivi
impugnati non attengono alle parti censurate
dalla ricorrente.
La ripubblicazione integrale degli atti
contenenti la disciplina di gara e non
solamente delle parti modificate determina
un effetto sostitutivo dei nuovi atti ai
corrispondenti adottati in precedenza; al
contempo la riapertura dei termini per la
presentazione dell’offerta rinnova
l’interesse del potenziale concorrente a
censurare la lex specialis nella sua
interezza.
Ne consegue che il termine decadenziale per
impugnare i nuovi atti contenenti la
disciplina di gara, anche nella parte non
oggetto di modifica, ha ripreso a decorrere
dalla pubblicazione degli stessi: e rispetto
a tale dies a quo il ricorso
principale risulta tempestivo. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
APPALTI: In
un sistema a giurisdizione soggettiva, quale
è quello scelto dal nostro ordinamento, il
sindacato giurisdizionale sui provvedimenti
amministrativi non è finalizzato alla
soddisfazione dell’astratto interesse
generale alla legalità dell’azione
amministrativa, bensì alla tutela
dell’interesse concreto e attuale di colui
che esercita l’azione caducatoria.
L’interesse a ricorrere, quale specifica
utilità che il ricorrente può trarre dalla
pronuncia favorevole dell’Autorità
giudiziaria in relazione alla propria
posizione giuridica soggettiva, che si
assume lesa dal provvedimento amministrativo
impugnato, costituisce, quindi, una
condizione dell’azione, che –come tale- deve
sussistere al momento della proposizione del
ricorso e perdurare per tutta la sua durata.
Di regola, l’interesse a ricorrere sorge con
la conclusione del procedimento
amministrativo, perché è solamente con
l’adozione del provvedimento che la lesione
alla posizione giuridica soggettiva del
ricorrente diviene attuale.
---------------
Nelle procedure
ad evidenza pubblica di regola la lesione
è collegata alla aggiudicazione del
contratto.
Nondimeno nel tempo la giurisprudenza ha
enucleato una serie di eccezione alla
suvvista regola, ribadite dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato nella
sentenza n. 4/2018.
In particolare, il bando e in
genere gli atti contenenti la legge di gara
vanno impugnati immediatamente, anziché
unitamente al provvedimento conclusivo del
procedimento (i.e. l’aggiudicazione), quando
contengono clausole in qualche modo
preclusive della partecipazione alla
procedura concorrenziale. Tali sono quelle
che pongono requisiti di partecipazione di
cui il potenziale concorrente non è in
possesso o che fissano oneri che rendono
difficile se non impossibile la formulazione
di un’offerta o ancora che non consentono di
presentare un’offerta remunerativa.
---------------
5.1. Sempre preliminarmente e sempre in
accoglimento di specifica eccezione
formulata dalla difesa di parte resistente,
il ricorso principale e il ricorso per
motivi aggiunti vanno dichiarati
inammissibili, ai sensi dell’articolo 35,
comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., per
carenza di interesse nella parte in cui
censurano alcuni dei requisiti premiali
fissati dalla legge di gara (segnatamente,
quelli contraddistinti dalle lettere (g),
(h) e (i) al punto 2.3.).
Invero, in un sistema a giurisdizione
soggettiva, quale è quello scelto dal nostro
ordinamento, il sindacato giurisdizionale
sui provvedimenti amministrativi non è
finalizzato alla soddisfazione dell’astratto
interesse generale alla legalità dell’azione
amministrativa, bensì alla tutela
dell’interesse concreto e attuale di colui
che esercita l’azione caducatoria (cfr., TAR
Friuli Venezia Giulia, sentenza n.
307/2018).
L’interesse a ricorrere, quale specifica
utilità che il ricorrente può trarre dalla
pronuncia favorevole dell’Autorità
giudiziaria in relazione alla propria
posizione giuridica soggettiva, che si
assume lesa dal provvedimento amministrativo
impugnato (cfr., TAR Puglia–Bari, Sez. II,
sentenza n. 1316/2018), costituisce, quindi,
una condizione dell’azione, che –come tale-
deve sussistere al momento della
proposizione del ricorso e perdurare per
tutta la sua durata (cfr., TAR Lazio–Roma,
Sez. III, sentenza n. 1713/2019).
Di regola, l’interesse a ricorrere sorge con
la conclusione del procedimento
amministrativo, perché è solamente con
l’adozione del provvedimento che la lesione
alla posizione giuridica soggettiva del
ricorrente diviene attuale. Nelle procedure
ad evidenza pubblica, quale quella oggetto
del presente giudizio, di regola la lesione
è collegata alla aggiudicazione del
contratto.
Nondimeno nel tempo la giurisprudenza ha
enucleato una serie di eccezione alla
suvvista regola, ribadite dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato nella
sentenza n. 4/2018.
In particolare, per
quanto qui di interesse, il bando e in
genere gli atti contenenti la legge di gara
vanno impugnati immediatamente, anziché
unitamente al provvedimento conclusivo del
procedimento (i.e. l’aggiudicazione), quando
contengono clausole in qualche modo
preclusive della partecipazione alla
procedura concorrenziale. Tali sono quelle
che pongono requisiti di partecipazione di
cui il potenziale concorrente non è in
possesso o che fissano oneri che rendono
difficile se non impossibile la formulazione
di un’offerta o ancora che non consentono di
presentare un’offerta remunerativa (cfr.,
C.d.S., Sez. III, sentenza n. 1331/2019) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2019 n. 1958 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La stazione
appaltante gode di ampia discrezionalità nel
predeterminare i requisiti
tecnico-professionali di partecipazione alla
gara, con il solo limite che si tratti di
requisiti attinenti all’oggetto dell’appalto
da aggiudicare e proporzionati alla
prestazione da rendere, in modo tale da non
restringere ingiustificatamente la
concorrenza e precostituire situazioni di
assoluto privilegio a favore di uno o più
operatori economici del settore.
Nell’ambito dell’ampia discrezionalità che
le è riconosciuta, la stazione
appaltante può pure pretendere requisiti di
qualificazione eccedenti quelli minimi di
legge, purché coerenti con l’obiettivo di
interesse pubblico avuto di mira.
---------------
5.3. Del
pari infondata è l’ulteriore eccezione di
inammissibilità delle doglianze avversarie
perché finalizzate a sindacare scelte
discrezionali dell’Amministrazione.
Non vi è dubbio che la stazione appaltante
goda di ampia discrezionalità nel
predeterminare i requisiti
tecnico-professionali di partecipazione alla
gara, con il solo limite che si tratti di
requisiti attinenti all’oggetto dell’appalto
da aggiudicare e proporzionati alla
prestazione da rendere, in modo tale da non
restringere ingiustificatamente la
concorrenza e precostituire situazioni di
assoluto privilegio a favore di uno o più
operatori economici del settore (cfr., C.d.S.,
Sez. III, sentenza n. 3352/2017; C.d.S.,
Sez. V, sentenza n. 9/2017).
Nell’ambito dell’ampia discrezionalità che
–come detto- le è riconosciuta, la stazione
appaltante può pure pretendere requisiti di
qualificazione eccedenti quelli minimi di
legge, purché coerenti con l’obiettivo di
interesse pubblico avuto di mira.
Entro i suddetti limiti è ammesso il
sindacato giurisdizionale sulla legge di
gara. Ed è questo tipo di controllo
giurisdizionale che la società Al. S.r.l. ha
sollecitato, lamentando l’irragionevolezza
di alcuni requisiti di partecipazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2019 n. 1958 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Atto
illegittimo se alla votazione partecipa il consigliere obbligato
all'astensione.
Nel caso in cui sia stata approvata una deliberazione con la partecipazione
di un consigliere che non ha rispettato l'obbligo di astensione, l'atto non
può essere oggetto di convalida, in quanto si limiterebbe a emendare il
vizio in modo solo formale e apparente e non a eliminare il fatto storico
della partecipazione alla seduta del soggetto e dell'influenza che tale
partecipazione ha determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri
componenti.
Lo afferma il TAR Abruzzo-Pescara con la
sentenza 09.09.2019 n.
209.
Il fatto
È stata impugnata la deliberazione consiliare di approvazione del progetto
preliminare dei lavori per la realizzazione di un'area polifunzionale, con
contestuale adozione di variante semplificata al vigente piano regolatore
edilizio, per diversi motivi tra i quali la partecipazione di un consigliere
comunale che non si sarebbe astenuto dal prendere parte alla discussione e
avrebbe altresì votato a favore della deliberazione, pur riguardando
interessi propri. Con motivi aggiunti il ricorrente ha poi chiesto
l'annullamento della delibera, nel frattempo intervenuta, con cui il
consiglio comunale ha convalidato la delibera.
L'articolo 78, comma 2, del Tuel impone agli amministratori di astenersi dal
prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo
di astensione non si applica ai soli provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado.
L'astensione
Il Tar Abruzzo accoglie il ricorso e annulla i provvedimenti impugnati,
sulla base della considerazione che la violazione dell'obbligo di astensione
mira a evitare che la partecipazione alla seduta e alla votazione del
soggetto portatore di un interesse egoistico possa influenzare le decisioni
dell'organo collegiale «a prescindere dall'accertamento in concreto di tale
influenza». Il pericolo, cioè, è valutato in astratto e in via presuntiva
dallo stesso legislatore, per questo il vizio non appare emendabile con una
mera nuova votazione priva della presenza del soggetto che ha partecipato e
votato nella prima riunione.
Infatti la convalida, la cui funzione è quella di emendare il vizio
originario e mantenere il provvedimento con efficacia retroattiva, si limita
a rimuovere il vizio in modo solo formale e apparente, in quanto non può
eliminare il fatto storico della partecipazione alla seduta del soggetto
interessato e soprattutto l'influenza che tale partecipazione ha ormai
determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri. Talché, concludono i
giudici abruzzesi, l'atto convalidato resta comunque adottato con la
partecipazione del consigliere che si sarebbe dovuto astenere.
La via maestra per «recuperare» quanto deciso dal Consiglio comunale allora
non è la convalida, posto che il vizio non è emendabile, ma secondo il Tar
Abruzzo sarebbe stato necessario provvedere ad una nuova e autonoma
delibera, annullando in autotutela la precedente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
30.09.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: È
implicito l'interesse pubblico nel provvedimento regionale che annulla il
permesso di costruire illegittimo.
I poteri di annullamento d'ufficio delle concessioni edilizie illegittime,
conferiti, rispettivamente, al sindaco ed alla Regione, differiscono tra
loro nei contenuti, oltre che per la natura o per l'entità degli interessi
da prendere in considerazione.
È quanto afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.09.2019 n. 10795.
Il caso
Il Tribunale amministrativo per il Lazio, sez. II-quater, ha
rigettato il ricorso presentato da un privato con il quale si chiedeva
l'annullamento di una delibera regionale recante l'annullamento del permesso
di costruire a sanatoria, precedentemente rilasciato dal Comune. Al vaglio
del Giudice di prime cure venivano proposti dieci motivi di ricorso,
ritenuti tutti privi di fondamento.
In via preliminare il ricorrente
lamentava la mancata diffida al Comune, da parte della struttura regionale,
a provvedere entro un congruo termine sull'annullamento in autotutela del
permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 34, comma 3, legge regionale
n. 15 del 2008, con la conseguenza che la Giunta regionale, saltando un
passaggio procedurale, ha potuto emanare la delibera di annullamento
impugnata.
Il Giudice, nel ritenere del tutto infondato tale motivo di
ricorso, si è avvalso di un principio di diritto molto importante
nell'ordinamento italiano, ad avviso del Tribunale, infatti «la Regione ha
operato sulla base di un ragionevole principio di economia procedimentale,
saltando una fase del tutto inutile alla stregua della normativa vigente».
Il ricorrente, poi, dopo aver evidenziato che il procedimento di
annullamento era stato avviato oltre i termini di diciotto mesi, indicati
dall'articolo 21-nonies della legge 241/1990, lamentava che tale termine non
vale esclusivamente per l'Amministrazione che ha emesso l'atto
amministrativo illegittimo, ma anche per ogni altro organo previsto dalla
legge, quindi anche per la Regione.
Il Giudice, nel ricordare che il potere
di annullamento straordinario regionale «differisce da quello attribuito
all'amministrazione comunale perché non costituisce esercizio di attività di
controllo in funzione di riesame, bensì esercizio di una competenza
(concorrente) di pianificazione e programmazione dell'uso del territorio»,
ha ribadito la costante giurisprudenza amministrativa in merito alla
diversità delle discipline in esame.
Infatti, il Tar ha evidenziato le
differenze tra i poteri di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi
illegittimi conferiti al Sindaco e quelli conferiti alla Regione: mentre per
il primo il potere di annullamento consiste nella valutazione dell'interesse
pubblico alla rimozione dell'atto invalido, alla stregua di tutte le altre
effettive possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio
riscontrato, per la Regione si manifesta nella valutazione dell'interesse
pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della situazione
esistente, in ragione del fatto che in tale materia la ragione ha meri
poteri di indirizzo, di vigilanza e di controllo, ma non anche la facoltà di
sostituirsi all'Ente locale nell'adozione di scelte particolari circa i modi
e le forme di utilizzazione urbanistico-edilizia di una parte del
territorio.
Alla luce di quanto emerso, essendo ascrivibile alla Regione,
quindi, un'attività di vigilanza e controllo e non una facoltà sostitutiva
dell'Ente territoriale, ne consegue che la competenza regionale in materia
di pianificazione urbanistica ha carattere straordinario, eccezionale,
cosicché la prevalenza delle scelte regionali su quelle comunali è da
intendersi come una clausola di salvaguardia «in un sistema che vede i due
Enti concorrere in modo paritario al corretto esercizio della gestione del
territorio».
Per di più, ne discende poi la non doverosità dell'annullamento
regionale, essendo un atto assolutamente discrezionale (si veda sul punto,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.12.2006, n. 7594), tale che appare del
tutto inapplicabile il su menzionato termine di diciotto mesi nell'ipotesi
di annullamento straordinario.
Circa la possibilità di sanatoria, la Sezione
ha confermato la sua costante giurisprudenza in tema di terzo condono
edilizio in area vincolata, secondo cui «è possibile la sanatoria in tutto
il territorio nazionale, mentre nelle aree sottoposte a vincolo è ammessa
solo per le opere di restauro e risanamento conservativo, opere di
manutenzione straordinaria, opere o modalità di esecuzione non valutabili in
termini di superficie o di volume».
In altre parole, il condono edilizio di
opere abusivamente realizzate in aree vincolate è possibile solo per gli
interventi di minore rilevanza, tra i quali non rientra il caso specifico in
esame. Il Tar Lazio, nel ricordare l'ampia giurisprudenza amministrativa, ma
anche penale, ha quindi ribadito che «non possono essere sanate quelle opere
che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici o nuova volumetria
assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o
assoluta, o comunque di inedificabilità, anche relativa».
Conclusioni
In
conclusione, il Giudice di prime cure si è anche espresso in merito
all'istituto del riesame, rilevando che quando l'Amministrazione comunale
riesamina la legittimità degli atti precedentemente emessi, entro un termine
ragionevole, oggi stabilito in diciotto mesi, dovrà mettere a bilanciamento
degli interessi contrapposti sia l'interesse pubblico alla rimozione
dell'atto quanto l'interesse del privato al mantenimento dello stesso.
Diversamente, la Regione, essendo, come anticipato, titolare di poteri di
vigilanza e controllo, in ragione della concorrente competenza di
pianificazione dell'uso del territorio, è tenuta a valutare l'interesse
pubblico con esclusivo riferimento alla conservazione della situazione
esistente rispetto agli strumenti urbanistici vigenti, senza tener conto di
alcun bilanciamento di interessi tra quelli pubblici e privati (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
30.09.2019).
---------------
SENTENZA
8. Il Collegio ritiene di dover esaminare a questo punto il decimo
motivo di ricorso, che riveste anch’esso carattere sostanzialmente
pregiudiziale rispetto alle ulteriori questioni di merito.
Con esso la ricorrente lamenta che nella specie il procedimento di
annullamento sia stato avviato oltre il predetto termine di diciotto mesi
previsto dall’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 nel testo modificato dalla
L. n. 124/2015, a nulla rilevando i diversi termini prescritti da altre
normative in materia (art. 39, DPR 380/2001 - art. 34, 1.r. 15/2008), posto
che il termine di diciotto mesi vale non solo per l'Amministrazione che
ha emesso l'atto amministrativo illegittimo ma anche per ogni "..altro
organo previsto dalla legge", ampliando così la portata della norma e
ricomprendendo anche la Regione.
8.1 Il motivo è infondato, alla luce di quanto affermato dal Supremo
Consesso in perito al potere di annullamento straordinario regionale, il
quale “differisce da quello attribuito all'amministrazione comunale perché
non costituisce esercizio di attività di controllo in funzione di riesame,
bensì esercizio di una competenza (concorrente) di pianificazione e
programmazione dell'uso del territorio. Si conferma anche, in tal modo, la
piena compatibilità della previsione rispetto all'impianto costituzionale,
che per l'appunto prevede nella materia del governo del territorio una
competenza concorrente (art. 117 Cost.)".
Il discrimine è stato chiarito, per la prima volta, in sede di Adunanza
Plenaria, con la fondamentale sentenza 20.05.1980, n. 18: "I poteri di
annullamento di ufficio delle licenze (ora concessioni) edilizie
illegittime, conferiti, rispettivamente, al sindaco dagli art. 10 l.
06.08.1967 n. 765 e 1 l. 28.01.1977 n. 10 ed alla regione dagli art. 7 l. n.
765 cit. e 1 d.P.R. 15.01.1972 n. 8 (n.d.r., oggi art. 39 d.p.r. n.
380/2001) differiscono tra loro nei contenuti, oltre che per la natura o per
l'entità degli interessi da prendere in considerazione, consistendo il primo
nella valutazione dell'interesse pubblico alla rimozione dell'atto invalido
alla stregua di tutte le altre effettive possibilità di eliminare, in via
alternativa, il vizio riscontrato (modifica dello strumento urbanistico
generale, formazione di un piano particolareggiato, invito ai soggetti
interessati a presentare un progetto di lottizzazione, esecuzione o
integrazione a carico dell'amministrazione di talune opere di
urbanizzazione, etc.); il secondo, nella valutazione dell'interesse pubblico
con riferimento esclusivo alla conservazione della situazione esistente,
atteso che la ragione in detta materia ha soltanto poteri di indirizzo, di
vigilanza e di controllo e non anche la facoltà di sostituirsi all'ente
locale nell'adozione di determinate scelte circa i modi e le forme di
utilizzazione urbanistico-edilizia di una parte del territorio".
Con un precedente specifico più recente, invece, questo Consiglio di Stato
ha affrontato funditus la questione della natura giuridica del potere di
annullamento regionale, così chiarendo che "lo stesso non è assimilabile
all'attività di controllo (ontologicamente vincolata nell'an) ma va invece
ricondotto alla concorrente competenza dell'autorità regionale in materia di
pianificazione urbanistica. Ne consegue da un lato che l'esercizio di detto
potere ha carattere eccezionale, in quanto la prevalenza della scelta della
Regione su quella del comune rappresenta la clausola di salvaguardia in un
sistema che vede i due Enti concorrere in modo paritario al corretto
esercizio della gestione del territorio; dall'altro che l'annullamento
regionale non è in alcun modo doveroso ma resta sempre -come rilevato dal
Tribunale- assolutamente discrezionale. Ciò comporta, in sostanza, che in
materia non è configurabile un obbligo della Regione di provvedere
sull'istanza di terzi che sollecitano l'esercizio di quel potere"
(Consiglio di Stato sez. IV, 18.12.2006, n. 7594).
Dalla diversa natura giuridica dei due poteri di annullamento d'ufficio
(regionale e comunale) questo Consesso ha tratto, inoltre, importanti
considerazioni quanto all'ambito applicativo e ai presupposti di esercizio
del potere.
Quando l'amministrazione comunale riesamina, infatti, la legittimità dei
propri titoli ai sensi dell'art. 21-nonies della l. n. 241/1990, essa è
tenuta a valutare l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto invalido nel
bilanciamento comparativo con l'interesse del privato al mantenimento del
bene ed entro un termine ragionevole (oggi, a seguito della modifica
apportata dall'articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1), della Legge
07.08.2015, n. 124, positivamente stabilito in diciotto mesi), soprattutto
qualora la caducazione avvenga a notevole distanza di tempo e l'edificazione
risulti completata.
Di converso, la regione (e qui, per delega, la provincia), risulta titolare
soltanto di poteri di vigilanza e di controllo nell'esercizio della
concorrente competenza di pianificazione dell'uso del territorio, sicché la
stessa è tenuta a valutare l'interesse pubblico con esclusivo riferimento
alla conservazione della situazione esistente rispetto agli strumenti
urbanistici vigenti, secondo la scansione temporale disegnata dall'art. 39
del d.p.r. n. 380/2001 e, in precedenza, dall'art. 27, della l. 17.08.1942,
n. 1150 e, soprattutto, senza che vengano in rilievo problemi di
bilanciamento comparativo tra l'interesse pubblico al ristabilimento della
legalità violata e l'interesse privato al mantenimento della costruzione.
L'esercizio del potere sostitutivo di annullamento regionale delle
concessioni di costruzione, infatti, a differenza dei poteri di autotutela
del comune, non comporta un riesame del precedente operato, ma è finalizzato
a ricondurre le amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della
normativa in materia edilizia, onde l'interesse pubblico all'annullamento è
"in re ipsa" (così, con affermazione nitida, Consiglio di Stato, sez.
IV, 16.03.1998 n. 443).
La considerazione è avvalorata, peraltro, dallo stesso dettato normativo, il
quale conferma, anche nell'attuale versione, che "Il provvedimento di
annullamento è emesso entro diciotto mesi dall'accertamento delle violazioni
di cui al comma 1, ed è preceduto dalla contestazione delle violazioni
stesse al titolare del permesso al proprietario della costruzione, al
progettista, e al comune, con l'invito a presentare controdeduzioni entro un
termine all'uopo prefissato (art. 39, d.p.r. n. 380/2001)” (Cons. Stato,
sez. IV, 16.08.2017, n. 4010).
Da queste condivisibili considerazioni discende l’inapplicabilità del
termine generale di diciotto mesi all’ipotesi di annullamento straordinario
disciplinata dall’art. 39 del D.P.R. n. 380/2001 e dall’art. 34 della L.R.
n. 15/2008. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Non
è possibile riqualificare come accesso civico l'istanza già rigettata.
Se il richiedente ha invocato un preciso modello d'accesso agli atti, la
pubblica amministrazione non può qualificare diversamente l'istanza, nemmeno
per rendere possibile l'applicazione di una diversa disciplina e quindi
accogliere la richiesta. Ciò indistintamente sia in sede di eventuale
riesame della richiesta, sia per ricorso giurisdizionale che fa seguito a
rigetto, o persino per forma «interpretativa» orale nel corso della
discussione della causa nelle udienze. Resta semmai aperta in sede
procedimentale la possibilità di strutturare in termini alternativi,
cumulativi o condizionati la richiesta d'accesso.
Con la
sentenza
06.09.2019 n. 1522, il TAR Campania-Salerno, Sez. I,
fa nuova luce sulle possibilità offerte agli enti di soddisfare il diritto
d'accesso del privato agli atti pubblici.
La vicenda
Una società di costruzioni aveva inoltrato istanza di accesso agli atti
della procedura a un ente pubblico in qualità di stazione appaltante. L'ente
aveva rigettato l'istanza adducendo in corso la procedura di validazione
propedeutica all'adozione del provvedimento finale.
La società richiedente
ha dunque proposto ricorso reclamando che l'ente avrebbe dovuto fare
applicazione dei principi espressi dal codice dei contratti pubblici, non
potendo differire l'accesso in ragione della mancata conclusione del
procedimento di verifica del progetto. Nel corso della discussione orale del
merito della controversia, il procuratore della società ricorrente ha
richiamato l'applicabilità della disciplina dell'accesso civico.
La decisione
L'accesso alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni si
declina oggi in quattro diversi istituti ognuno dei quali caratterizzato da
propri presupposti, limiti, eccezioni e rimedi. Vige l'ordinario accesso
documentale che consente ai soggetti interessati, in quanto portatori di un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione
giuridicamente tutelata, di prendere visione e di estrarre copia di dati
incorporati in supporti documentali formati o comunque detenuti da soggetti
pubblici.
A questa tipologia si affianca l'accesso procedimentale che garantisce
l'ostensione degli atti e dei documenti acquisiti al procedimento
amministrativo, garantendo una partecipazione informata e, come tale,
effettiva. Più giovane è l'accesso civico di chiunque, a documenti,
informazioni o dati di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente
imposta. Infine vige oggi l'accesso civico generalizzato a dati,
informazioni o documenti, sebbene non assoggettati all'obbligo di
pubblicazione, parimenti concesso al singolo in qualità di cittadino, senza
alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva e senza necessità
di apposita motivazione giustificativa (il cosiddetto Freedom of Information
Act).
Si tratta a ben guardare di istituti che non configurano un diritto unico,
ma realizzano un insieme di sistemi di garanzia, tra loro diversificati,
corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza
da parte dei soggetti pubblici. In questa prospettiva, l'asse valoriale di
volta in volta preso a riferimento condiziona sul piano operativo, i termini
e le modalità del bilanciamento tra la trasparenza e gli altri interessi
pubblici e privati con essa confliggenti. Sul piano organizzativo muta,
l'assetto delle competenze. Sul piano rimediale muta la strutturazione degli
strumenti a disposizione del privato in caso di rifiuto o compressione delle
aspettative ostensive.
Va quindi rimarcata la necessità di tenere saldamente distinte le
fattispecie, al fine di calibrare i diversi interessi in gioco, allorché si
renda necessario un bilanciamento tra questi interessi. A giudizio del Tar
non è dunque possibile riqualificare l'istanza formulata dal ricorrente,
veicolandola nei più comprensivi ambiti dell'accesso civico generalizzato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.10.2019).
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SENTENZA
4. Il ricorso è infondato.
4.1 Va, preliminarmente, precisato che l’istanza di accesso agli atti è
stata formulata dalla interessata ai sensi degli articoli 22 e seguenti
della legge 241 del 1990.
La vicenda va, dunque, esaminata con rifermento all’assetto disciplinato da
tale norma cui deve essere affiancata –in ragione della specifica procedura– la norma contenuta nell’art. 53 del d.lgs 50 del 2016.
Non può, infatti, trovare applicazione la diversa disciplina dell’accesso
civico –disciplinata dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33 del 2013- cui ha
fatto riferimento nella discussione orale del merito della controversia il
procuratore costituito della ricorrente proprio perché, nel caso di specie,
non è stata formulata una istanza di accesso civico.
Ritiene, pertanto, il Collegio che non ricorrano i presupposti per estendere
alla presente controversia i principi espressi dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato nella sentenza n. 3780 del 2019 poiché in tale
controversia, diversamente che nel caso in esame, l’istanza fu formulata
originariamente proprio ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33 del
2013.
Nel caso in cui l’opzione dell’istante sia espressa per un determinato
modello, resta precluso alla pubblica amministrazione –fermi i presupposti
di accoglibilità dell’istanza- di diversamente qualificare l’istanza stessa
al fine di individuare la disciplina applicabile; in correlazione, l’opzione
preclude al privato istante la conversione in sede di riesame o di ricorso
giurisdizionale (cfr., per l’inammissibilità dell’immutazione in corso di
causa dell’actio ad exhibendum, pena la violazione del divieto di mutatio
libelli e di ius novorum, Cons. Stato, IV, 28.03.2017, n. 1406 e id., V,
n. 1817/2019 cit.).
4.2 Dispone l’art. 53 del d.lgs 50 del 2016 che “salvo quanto espressamente
previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi
comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli artt. 22 e
seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”-
La stessa norma, al comma 2, prevede specifiche ipotesi di differimento
giustificate dalla necessità di salvaguardare la posizione dei concorrenti
di una gara, relativamente a profili di tutela della privacy e della
concorrenza.
Ritiene il Collegio che nelle ipotesi di differimento possa farsi rientrare
anche quella relativa alla validazione del progetto in quanto atto avente
natura endoprocedimentale.
La validazione, infatti, chiude il processo di progettazione e di verifica
e, di fatto, attesta che il progetto può essere posto a base di gara: essa è
fase prodromica alla selezione del soggetto a cui affidare l’esecuzione
oppure l’ulteriore sviluppo e il completamento della progettazione e
l’esecuzione dell’opera.
Ciò posto, in considerazione della natura endoprocedimentale degli atti
oggetto della richiesta di accesso, risulta legittimo il diniego di accesso
opposto dalla stazione appaltante che dovrà, tuttavia, mettere a
disposizione dell’interessato gli atti del procedimento allorquando esso si
sia concluso con eventuale validazione del progetto. |
APPALTI: La
soglia di anomalia si cristallizza dopo la definizione del perimetro dei
concorrenti.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
02.09.2019 n. 6013 chiarisce che la
cosiddetta cristallizzazione della soglia di anomalia e quindi la sua immodificabilità (comma 15 dell'articolo 95 del codice dei contratti) si
verifica dopo la chiusura della fase di ammissione delle offerte, e che solo
le «modifiche soggettive successive all'esperimento del soccorso istruttorio
sono soggette al canone di invarianza».
Il ricorso
Il ricorrente ha impugnato la pronuncia di primo grado per una, presunta,
scorretta interpretazione del principio di invarianza della soglia di
anomalia come disciplinato nel comma 15 dell'articolo 95 del codice dei
contratti.
La norma precisa che «ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza
di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione,
regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo
di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia
delle offerte».
Nella seduta pubblica, per l'aggiudicazione di una procedura negoziata
preordinata all'affidamento di lavori di manutenzione da aggiudicarsi al
ribasso previa esclusione automatica delle offerte anomale, la commissione
di gara procedeva al sorteggio del criterio di individuazione della soglia
di anomalia, ante modifica apportata dalla legge 55/2019, congelando il
procedimento in attesa della regolarizzazione documentale di un concorrente.
Solo dopo l'esclusione di questo concorrente, che non ha regolarizzato
secondo le richieste, la commissione di gara ha proceduto con la
determinazione della soglia di anomalia.
Secondo il ricorrente questa modalità deve ritenersi illegittima in quanto
la commissione di gara avrebbe dovuto calcolare la soglia della potenziale
anomalia considerando tutte le offerte ammesse comprese quelle introdotte
nel procedimento con riserva.
In questo modo, se la «soglia fosse stata calcolata immediatamente, ne
sarebbe discesa l'aggiudicazione in proprio favore, avendo formulato una
offerta migliore».
La sentenza
Sotto il profilo pratico, quindi, al giudice di Palazzo Spada viene posta la
questione della corretta individuazione del momento del procedimento di gara
in cui si determina il «congelamento» della soglia di anomalia.
Il giudice rammenta che il cosiddetto principio di invarianza «è stato
introdotto (…) per evitare che le variazioni sulle ammissioni/esclusioni
dalle gare, ancorché accertate giurisdizionalmente, sortiscano effetti in
punto di determinazione delle medie e delle soglie di anomalia, da ritenersi
ormai cristallizzate, (…), al momento dell'aggiudicazione».
La regola mira a «sterilizzare» l'alterazione della trasparenza e della
oggettività del confronto tra appaltatatori dovute a mere partecipazioni «di
fatto» rendendo irrilevante «la promozione di controversie meramente
speculative e strumentali da parte di concorrenti» che non sono collocati
utilmente in graduatoria e che sono mossi dalla sola finalità, «una volta
noti i ribassi offerti e quindi gli effetti delle rispettive partecipazioni
in gara sulla soglia di anomalia, di incidere direttamente su quest'ultima
traendone vantaggio (Consiglio di Stato sentenza n. 4664/2018)». Questo
criterio costituisce espressione del principio più generale di conservazione
degli atti giuridici.
Secondo il giudice, la norma è chiara nell'individuare il momento della
«cristallizzazione» della soglia di anomalia «nella definizione, in via
amministrativa, della fase di ammissione», momento questo che riguarda anche
le eventuali fasi di regolarizzazione relative alle situazioni in cui sia
stato attivato il soccorso istruttorio.
In questo senso, discende, dalla norma, che l'eventuale «fase di
regolarizzazione rientra ancora nella fase di ammissione (tanto che
l'offerta ammessa al soccorso istruttorio deve ritenersi ammessa "con
riserva")» e solo le modifiche soggettive «successive all'esperimento del
soccorso istruttorio sono soggette al canone di invarianza».
Nel caso concreto, pertanto, la fase di ammissione non è risultata ancora
conclusa proprio per effetto delle ammissioni con «riserva» che ovviamente
prolungano questa fase fino all'esito del soccorso istruttorio. Solo dopo
quel momento, e quindi solo dopo aver definito chiaramente il perimetro dei
competitori è possibile procedere alla determinazione della soglia di
anomalia con l'effetto della cristallizzazione/invarianza.
Più in generale, si legge in sentenza, si è affermato che la fase di
ammissione non possa ritenersi conclusa «almeno finché non sia spirato il
termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni» e comunque «finché la
stessa stazione appaltante non possa esercitare il proprio potere di
intervento di autotutela (…) e, quindi, sino all'aggiudicazione (Consiglio
di Stato sentenza n. 2579/2018)» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
25.09.2019).
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SENTENZA
Come è noto, il c.d. principio di invarianza (a tenore del quale, nella
formulazione risultante prima della, non rilevante, integrazione operata con
il d.l. n. 32/2019, conv. con modifiche dalla l. n. 55/2019, “ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia
giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o
esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo delle medie nella
procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte”),
è stato introdotto con l'art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 e
riprodotto nel vigente Codice dei contratti pubblici, all'art. 95, comma 15,
per evitare che le variazioni sulle ammissioni/esclusioni dalle gare,
ancorché accertate giurisdizionalmente, sortiscano effetti in punto di
determinazione delle medie e delle soglie di anomalia, da ritenersi ormai
cristallizzate, alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale,
al momento dell'aggiudicazione.
La regola mira a sterilizzare, per comune intendimento, l’alterazione della
trasparenza e della correttezza del confronto concorrenziale, potenzialmente
correlata alla partecipazione di fatto di un concorrente solo
successivamente estromesso della gara (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22.02.2017, n. 841, rendendo irrilevante “la promozione di controversie
meramente speculative e strumentali da parte di concorrenti non utilmente
collocatisi in graduatoria mossi dall'unica finalità, una volta noti i
ribassi offerti e quindi gli effetti delle rispettive partecipazioni in gara
sulla soglia di anomalia, di incidere direttamente su quest'ultima traendone
vantaggio” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.07.2018, n. 4664).
Il criterio, che, come tale, traduce anche il principio di conservazione
degli atti giuridici, ha dovuto confrontarsi con la regola, introdotta con
l’art. 120, commi 2-bis e 6-bis c.p.a., dell’onere di immediata impugnazione
delle ammissioni (e delle esclusioni). Invero, la giurisprudenza ha
precisato che l'autonomia della fase di ammissione e esclusione e la
previsione di un apposito rito accelerato impediscono l'immediata
“cristallizzazione delle medie”, giacché l'accoglimento dell'impugnazione
delle ammissioni “non può non retroagire”, e che, diversamente opinando, “la
stabilizzazione della soglia sarebbe ‘sterilizzata’ da ogni eventuale
illegittimità di una ammissione o esclusione tempestivamente contestata” (cfr.
Cons. Stato, sez. III, 27.04.2018, n. 2579).
Ciò posto, quanto alla individuazione del momento temporale idoneo a
cristallizzare le offerte, la norma è chiara nell’individuarlo nella
definizione, in via amministrativa, della fase di ammissione (che,
naturalmente, riguarda anche la non ammissione, cioè la esclusione),
includendovi, peraltro, anche la fase di regolarizzazione, che si riferisce
alle situazioni in cui sia stato attivato il soccorso istruttorio.
Ne discende che, nella logica della norma, la eventuale fase di
regolarizzazione rientra ancora nella fase di ammissione (tanto che
l’offerta ammessa al soccorso istruttorio deve ritenersi ammessa “con
riserva”), di tal che solo modifiche soggettive successive all’esperimento
del soccorso istruttorio sono soggette al canone di invarianza.
Risulta dunque corretto nel caso di specie l’operato della stazione
appaltante, che ha ritenuto “non conclusa” la fase di ammissione fino alla
definizione del soccorso, con ciò sottraendo la vicenda alla applicazione
della regola in questione.
Del resto, si è più in generale ritenuto che la ridetta fase non possa
ritenersi conclusa “almeno finché non sia spirato il termine per impugnare
le ammissioni e le esclusioni” e comunque “finché la stessa stazione
appaltante non possa esercitare il proprio potere di intervento di autotutela ed escludere ‘un operatore economico in qualunque momento della
procedura’ (art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016) e, quindi, sino
all'aggiudicazione (esclusa, quindi, l'ipotesi di risoluzione
"pubblicistica" di cui all'art. 108, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016,
successiva alla stipula del contratto)” (cfr. Cons. Stato sez. III, 27.04.2018, n. 2579).
La sentenza impugnata, essendosi conformata al riassunto principio, deve
perciò ritenersi, sul punto, esente da censure. |
APPALTI SERVIZI: Ok
all'affidamento parziale se lo prevede il bando.
È legittimo l'affidamento parziale del servizio, per un importo e durata
inferiori a quelli preventivati con la gara, se la stazione appaltante ha
previsto l'ipotesi nel capitolato d'appalto –in relazione alla particolare
tipologia dell'appalto– e abbia adeguatamente motivato la decisione.
In questo senso, il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, con la
sentenza
30.08.2019 n.
4428.
La vicenda
Il ricorrente, aggiudicatario di una gara per la gestione del servizio nido/micro-nido
per l'anno scolastico 2018/2019, ha impugnato la determinazione di
affidamento che ha assegnato la gestione solo parziale del servizio (per un
importo pari a 66.620,01 euro a fronte di un valore a basa d'asta pari a
501.006,95 euro) e per un periodo inferiore rispetto all'anno scolastico
(l'affidamento avveniva per soli tre mesi). Ritenendo l'aggiudicazione
parziale illegittima, il censurante si rivolge al giudice per ottenere la
gestione dell'intero servizio appaltato (aggiudicato) o, in alternativa, il
risarcimento del danno per l'equivalente.
La stazione appaltante convenuta (un Comune) ribadisce –in difesa– che
l'assegnazione parziale del servizio è stata determinata dal numero di
iscritti all'asilo nido nettamente inferiore a quello prospettato.
In relazione al tempo di gestione (per soli tre mesi), l'ente ha rilevato
che il ritardo nella stipula del contratto risultava interamente
addebitabile a comportamenti dello stesso aggiudicatario restio «ad inviare
i documenti completi nonostante le richieste del Comune, con particolare
riferimento alla cauzione».
Con ulteriore annotazione –che il collegio campano ha ritenuto dirimente–
la stazione appaltante ha evidenziato che il capitolato d'appalto ben
esplicitava la possibilità, in presenza di motivate ragioni come quelle
esposte, di affidare un servizio ridotto rispetto alla durata e importo
preventivati.
La sentenza
Il giudice ha condiviso il ragionamento espresso dalla stazione appaltante e
respinto il ricorso. In più parti, effettivamente, il capitolato d'appalto
(articoli 2, 3 e 4 ) ha puntualizzato le prerogative correlate a una
aggiudicazione parziale e che eventuali ritardi nell'inizio delle attività,
conseguenti alle occorrenti procedure amministrative, non avrebbero potuto a
nessun titolo essere fatti valere dall'organismo aggiudicatario.
Non solo, la stazione appaltante, con il documento citato, si è dimostrata
particolarmente avveduta prevendendo che «in caso di prestazioni di servizio
di durata inferiore a quella prevista nel periodo di affidamento per
obiettive esigenze sopravvenute , sia in fase di avvio sia in fase di
svolgimento, rispetto ai presupposti in base ai quali si è provveduto
all'affidamento, l'aggiudicataria non» avrebbe potuto «avanzare alcuna
richiesta risarcitoria di nessun genere, neanche di mancato utile, né potrà
ricorrere alla risoluzione del contratto».
Analoghe precisazioni venivano
indicate anche in relazione alla base d'asta configurata come importo
indicativo, variabile (al ribasso evidentemente) «in dipendenza della durata
dell'appalto, della particolare tipologia e necessità dell'utenza e nello
specifico con riferimento alla richiesta dell'utenza medesima di avvalersi
del servizio a domanda individuale di cui al presente capitolato nonché alla
conseguente composizione dei moduli in base al rapporto educatore/bambini».
Lo stesso numero degli iscritti, poi, poteva condizionare la base d'asta.
In definitiva, gli atti di gara fin dall'origine risultano piuttosto chiari
nel prevedere una assegnazione del servizio «potenzialmente variabile, in
ragione di fattori (quale quello del numero di iscrizioni, chiaramente
incerto) che non era possibile predeterminare se non quanto al limite
massimo ma non a quello minimo».
La stessa base d'asta, pertanto, è stata strutturata come di importo
calibrato e calibrabile sulla reale situazione che si sarebbe venuta a
creare dopo le iscrizioni degli utenti.
Per la stessa ragione, inoltre, il servizio poteva non essere attuato in
alcune strutture laddove il numero di iscrizioni non fosse stato
sufficiente. In difetto, il servizio avrebbe dovuto essere assegnato
addirittura in "perdita" per la stazione appaltante, considerato che
l'appalto era condizionato da un ipotizzato "rapporto prestazione/pagamento
del tutto basato sulle effettive iscrizioni" al servizio di asilo nido (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
04.09.2019). |
URBANISTICA: Reiterazione
del vincolo espropriativo e onere
motivazionale.
La previsione di
un’esclusiva iniziativa comunale
nell’attuazione delle misure per realizzare
i servizi pubblici (parcheggi), conferendo
natura espropriativa e non conformativa al
vincolo, rende necessaria una specifica
motivazione in ordine alla reiterazione del
predetto vincolo, oltre alla previsione di
una forma di indennizzo a ristoro del
sacrificio imposto alla proprietà privata
(TAR Lombardia-Milano, Sez II,
sentenza 20.08.2019 n. 1896 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.1. La doglianza è fondata.
Va premesso che il P.G.T. approvato dal
Comune di Livigno ha classificato,
diversamente da quanto stabilito dal
previgente P.R.G., una parte delle aree di
proprietà dei ricorrenti in ambito “T2- zone
per nuove attrezzature turistico
alberghiere” (per circa 2.000 mq di
superficie) e a verde privato vincolato
“Zona Vpv” (per circa 1.700 mq di
superficie), mantenendo invece
sostanzialmente inalterata la destinazione
residenziale (area “B1– zone residenziali,
pedonali e commerciali”) e la destinazione a
zona “AC – Aree per attrezzature di
interesse collettivo”, sebbene quest’ultima
in misura ridotta rispetto al passato (pari
a 1.117 mq).
La predetta classificazione è stata
motivata, in linea generale, con la
necessità di delocalizzazione di tutte le
attività artigianali e annonarie in area già
urbanizzata, collocandole in un’area
periferica a ciò destinata, essendo questo
uno dei macro-obiettivi strategici del nuovo
strumento urbanistico. Quanto alla natura
del vincolo relativo alla zona “AC – Aree
per attrezzature di interesse collettivo”,
reiterato rispetto al passato, va segnalato
che il Comune ha manifestato l’intenzione di
procedere di propria (esclusiva) iniziativa
per dar corso ad un intervento diretto alla
realizzazione dei parcheggi, in continuità
con i terreni assoggettati alla medesima
normativa presenti nell’area (cfr. art. 12
delle Norme di attuazione del P.d.S.: all.
12 e 15 al ricorso).
La previsione di un’esclusiva iniziativa
comunale nell’attuazione delle misure per
realizzare i servizi pubblici (parcheggi),
conferendo natura espropriativa e non
conformativa al vincolo (cfr., sulla
distinzione, Corte costituzionale, sentenza
n. 179 del 20.05.1999; Consiglio di
Stato, IV, 31.08.2018, n. 5125), avrebbe
reso necessaria una specifica motivazione in
ordine alla reiterazione del predetto
vincolo, oltre alla previsione di una forma
di indennizzo a ristoro del sacrificio
imposto alla proprietà privata: nella
fattispecie de qua, oltre a non essere stato
previsto alcun indennizzo, non risulta
nemmeno essere stata fornita una motivazione
specifica e puntuale, in grado di
giustificare l’attualità dell’interesse
pubblico alla reiterazione del vincolo espropriativo.
Ciò appare in linea con la consolidata
giurisprudenza, che chiarisce come la
reiterazione dei vincoli urbanistici
scaduti, di cui all’art. 9 del D.P.R. n. 327
del 2001, «non può disporsi senza svolgere
una specifica indagine concreta relativa
alle singole aree finalizzata a modulare e
considerare le differenti esigenze,
pubbliche e private, in quanto
l’amministrazione nel reiterare i vincoli
scaduti, è tenuta ad accertare che
l’interesse pubblico sia ancora attuale e
non possa essere soddisfatto con soluzioni
alternative e deve indicare le concrete
iniziative assunte o di prossima attuazione
per soddisfarlo, nonché disporre
l’accantonamento delle somme necessarie per
il pagamento dell’indennità di
espropriazione, per cui “l’obbligo di
motivazione in materia di reiterazione dei
vincoli urbanistici scaduti sussiste anche
quando la reiterazione del vincolo sia
disposta in occasione dell’adozione di
variante generale al p.r.g.” (Consiglio di
Stato, sez. IV, 15.05.2000, n. 2706; in
termini Consiglio di Stato, sez. IV, 07.06.2012 n. 3365)» (Consiglio di Stato, IV,
11.03.2013, n. 1465; si veda, altresì, IV,
28.10.2013, n. 5197; TAR Toscana, I,
25.06.2018, n. 923; TAR Piemonte, I,
20.02.2015, n. 347).
Del resto, l’onere motivazionale specifico
richiesto per il caso di reiterazione dei
vincoli espropriativi decaduti –pur
costituendo un’eccezione nella materia della
pianificazione urbanistica generale, in
relazione alla quale, in ragione dell’ampia
discrezionalità di cui gode
l’Amministrazione, l’onere di motivazione
può essere assolto anche in termini
complessivi– è finalizzato a garantire la
perdurante attualità della previsione,
comparata con gli interessi privati, in
misura idonea ad escludere un contenuto
vessatorio o comunque ingiusto dei relativi
atti (in tal senso, Consiglio di Stato, IV,
28.05.2019, n. 3466).
2.2. Da quanto esposto in precedenza,
discende l’accoglimento del primo motivo di
ricorso, con il conseguente annullamento
della reiterazione del vincolo espropriativo
e della classificazione a zona “AC – Aree
per attrezzature di interesse collettivo”
della corrispondente parte dell’area di
proprietà dei ricorrenti. |
URBANISTICA: Secondo
la consolidata giurisprudenza, le scelte
riguardanti la classificazione dei suoli
sono sorrette da ampia discrezionalità e in
tale ambito la posizione dei privati risulta
recessiva rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti.
La più recente evoluzione giurisprudenziale
ha, oltretutto, evidenziato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca
proprio la necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il
correlativo esercizio del potere di
pianificazione non possono essere intesi,
sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
---------------
In ordine al mancato riconoscimento di
quanto richiesto dai ricorrenti in sede di
presentazione delle osservazioni, va
ribadito l’orientamento della costante
giurisprudenza secondo la quale, in materia
urbanistica, non opera il principio del
divieto di reformatio in peius, in quanto in
tale materia l’Amministrazione gode di
un’ampia discrezionalità nell’effettuazione
delle proprie scelte, che relega l’interesse
dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale.
---------------
I
ricorrenti contestano la scelta del Comune,
non condividendo le destinazioni assegnate
alle aree di loro proprietà, anche in
ragione della asserita non coerenza delle
previsioni comunali poste alla base delle
scelte pianificatorie e relative alle
prospettive di sviluppo del turismo nella
zona, con conseguente grave penalizzazione
dei settori produttivi come quello in cui
essi operano.
Tuttavia le contestazioni formulate dai
ricorrenti riguardano il merito delle scelte
dell’Amministrazione, palesando un
differente punto di vista, assolutamente
soggettivo, che non può trovare ingresso in
questa sede.
Difatti, secondo la consolidata
giurisprudenza, le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da
ampia discrezionalità e in tale ambito la
posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia,
Milano, II, 04.04.2019, n. 751; 27.02.2017, n. 451).
Come già rilevato in
precedenza, lo strumento urbanistico previgente classificava le aree per la gran
parte in zona Ac (Aree per attrezzature di
interesse comune) ed in zona P (Aree per i
parcheggi pubblici) e, in misura minore, in
zona B2 (Zone residenziali, già edificate).
La più recente evoluzione giurisprudenziale
ha, oltretutto, evidenziato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca
proprio la necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi
(così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto
l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono
essere intesi, sul piano giuridico, solo
come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n.
2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia,
Milano, II, 17.04.2019, n. 868; 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n.
1534).
In ordine, poi, al mancato riconoscimento di
quanto richiesto dai ricorrenti in sede di
presentazione delle osservazioni, va
ribadito l’orientamento della costante
giurisprudenza secondo la quale, in materia
urbanistica, non opera il principio del
divieto di reformatio in peius, in quanto in
tale materia l’Amministrazione gode di
un’ampia discrezionalità nell’effettuazione
delle proprie scelte, che relega l’interesse
dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale
(Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n.
1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018,
n. 566; 15.12.2017, n. 2393) (TAR Lombardia-Milano, Sez II,
sentenza 20.08.2019 n. 1896 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Dal
Consiglio di Stato nuovo «no» all'accesso civico generalizzato sugli atti
delle gare.
Per ritenere ammissibile l'accesso civico agli atti del procedimento
d'appalto è necessario un intervento esplicito del legislatore non essendo
sufficiente evidenziare un mancato coordinamento tra norme (tra il decreto
trasparenza e il codice dei contratti).
In questo senso, la
sentenza
02.08.2019 n. 5503
del Consiglio di Stato, Sez. V.
Il caso
La quinta sezione è pervenuta, quindi, a soluzioni differenti rispetto alla
terza sezione (sentenza n. 3780/2019) che ha ammesso l'accesso civico
generalizzato anche nella materia (e quindi agli atti della fase
pubblicistica e civilistica) degli appalti.
Si premette in sentenza che nell'ambito delle tre fattispecie di accesso
(documentale in base alla legge 241/1990, accesso civico "semplice" e
accesso civico generalizzato previsti nel decreto legislativo 33/2013) non è
rinvenibile alcuna posizione di superiorità in quanto ciascuna fattispecie
ha una specifica disciplina. In particolare, l'accesso civico generalizzato
non può essere considerato come fattispecie di "chiusura" che
subentra qualora le altre fattispecie non possano essere applicate.
Nei rapporti reciproci, si rileva, «ciascuno opera nel proprio ambito,
sicché non vi è assorbimento dell'una fattispecie in un'altra; e nemmeno
opera il principio dell'abrogazione tacita o implicita ad opera della
disposizione successiva nel tempo (…) tale che l'un modello di accesso
sostituisca l'altro, o gli altri, in attuazione di un preteso indirizzo
onnicomprensivo che tende ad ampliare ovunque i casi di piena trasparenza
dei rapporti tra pubbliche amministrazioni, società e individui».
Le eccezioni
L'aspetto che distingue la pronuncia tanto da giungere a soluzioni opposte
(rispetto alla sentenza n. 3780/2019), è che nell'ambito del comma 3
dell'articolo 5-bis del decreto legislativo 33/2013 (in cui si prevedono i
limiti all'accesso civico generalizzato) non opera una esclusione per
materie ma, letteralmente, la norma individua in realtà dei casi –ovvero
eccezioni assolute- in cui la trasparenza è costretta a recedere. Si tratta
di casi la cui individuazione è espressamente rimessa –per volontà del
legislatore- «ad altre disposizioni di legge, direttamente o
indirettamente, richiamate dallo stesso comma 3 (sicché l'ampiezza
dell'eccezione dipende dalla portata della normativa cui l'art. 5-bis, comma
3, rinvia)».
In specie, devono ritenersi sottratte «dall'accesso generalizzato: i casi
di segreto di Stato ed i casi di divieti di accesso o di divulgazione
previsti dalla legge, i casi elencati nell'art. 24, comma 1, della legge n.
241 del 1990 (che, al suo interno, ricomprende intere materie), i casi in
cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di
specifiche condizioni, modalità o limiti».
In tutti questi casi, non deve operare alcun bilanciamento tra contrapposti
interessi per verificare se l'accesso civico generalizzato debba o meno
essere ammesso. Sono situazioni che in realtà trovano «altrove» una
specifica disciplina e a questa occorre rifarsi. Più nel dettaglio, nel caso
dell'accesso agli atti dell'appalto, è l'articolo 53 che contiene la
specifica indicazione dei dati/elementi che, esclusivamente, possono
legittimare l'ostensione.
Nella sentenza si chiarisce che le eccezioni riguardano «tutte le ipotesi in
cui vi sia una disciplina vigente che regoli specificamente il diritto di
accesso, in riferimento a determinati ambiti o materie o situazioni,
subordinandolo a "condizioni, modalità o limiti" peculiari», come nel
caso degli appalti appunto.
Il diritto di accesso agli atti della gara, pertanto, risulta espressamente
perimetrato «mediante il rinvio agli artt. 22 e seguenti della legge
07.08.1990, n. 241 e, quindi, mediante la fissazione delle deroghe del comma
2 (che elenca ipotesi di mero differimento) e del comma 5 (che elenca
diverse ipotesi di esclusione assoluta ed un'ipotesi di esclusione relativa
– quest'ultima dovuta all'eccezione alla lettera "a" posta dal comma 6)».
Conclusioni
Si tratta di limiti che rispondono a scopi connaturati alla particolare
tipologia di procedimento a evidenza pubblica, quale quello di preservarne
la fluidità di svolgimento (tanto da sottrarre i documenti procedimentali,
mediante il differimento, anche all'accesso che l'articolo 10 della legge n.
241 del 1990 riconosce in ogni momento e fase ai partecipanti) e di limitare
la possibilità di collusioni o di intimazioni degli offerenti. Per giungere,
infine, anche al divieto di divulgazione secondo l'articolo 53, comma 3.
Importanti anche le ulteriori considerazioni. Tra queste, l'affermazione
secondo cui ammettere (sempre) l'accesso civico generalizzato in tema di
appalti avrebbe per effetto quello di annullare le potenzialità (e i limiti)
dell'articolo 53 del codice. In sostanza, ogni soggetto avrebbe comunque
accesso agli atti attraverso un utilizzo distorto della fattispecie del Foia.
Ulteriore conseguenza è che le stesse stazioni appaltanti, se si affermasse
la prevalenza dell'accesso civico generalizzato, subirebbero un notevole «incremento
dei costi di gestione del procedimento di accesso» considerato che
l'attuale «applicazione della normativa sull'accesso generalizzato, (…)
si basa sul principio della gratuità (salvo il rimborso dei costi di
riproduzione)».
Infine, si ribadisce che la materia degli appalti risulta ben presidiata
–sotto il profilo dei controlli e degli obblighi di trasparenza– dalle
funzioni dell'Anac e dalla previsioni (contenute nel decreto legislativo
33/2013) dell'obbligo di pubblicare, sostanzialmente, ogni atto/dato
afferente i procedimenti di gara (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
06.09.2019). |
APPALTI SERVIZI: Obbligo
di verifica di congruità anche su affidamenti ad aziende speciali.
Un Comune può costituire un'azienda speciale alla quale affidare in house un
servizio pubblico precedentemente gestito da una società fallita,
partecipata dall'ente, ma l'affidamento è comunque assoggettato alla
verifica di congruità economica.
La vicenda
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
31.07.2019 n. 5444 ha preso in
esame il caso di un'amministrazione che, dopo il fallimento di una società
da essa interamente partecipata alla quale aveva affidato il servizio di
gestione del ciclo integrato dei rifiuti, ha costituito un'azienda speciale
in base all'articolo 114 del Tuel, alla quale ha affidato lo stesso
servizio.
Al Comune era stata contestata la violazione dell'articolo 14 del Dlgs
175/2016 secondo il quale nei cinque anni successivi alla dichiarazione di
fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti
diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire
nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora
le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita.
La decisione
Il Consiglio di Stato ha chiarito che la pubblica amministrazione
controllante può gestire il servizio pubblico, in precedenza affidato alla
società a partecipazione pubblica dichiarata fallita, mediante la
costituzione di un'azienda speciale e, più in generale, attraverso forme di
gestione diverse dalla società a partecipazione pubblica, come pure decidere
di rivolgersi al mercato con una procedura di gara.
Nella sentenza, infatti, i giudici amministrativi hanno evidenziato che il
divieto ha a oggetto la costituzione di nuove società (nonché l'acquisizione
di partecipazioni societarie e il loro mantenimento), per cui l'espresso
riferimento a una delle modalità di gestione del servizio pubblico (la
società a partecipazione pubblica) porta a escludere dal divieto le altre
modalità, per la presunzione dell'uso preciso e consapevole da parte del
legislatore dell'espressioni contenute nelle norme.
Secondo il Consiglio di
Stato, l'estensione del divieto ad altre modalità di gestione del servizio
pubblico potrebbe avvenire solo attraverso un'interpretazione analogica, ma
la norma è derogatoria dell'ordinaria capacità d'agire delle amministrazioni
pubbliche e, per questo, ne è vietata l'interpretazione analogica secondo
l'articolo 14 delle preleggi: pertanto, il divieto non può essere esteso a
casi diversi da quello cui espressamente si riferisce.
L'azienda speciale
I giudici amministrativi hanno evidenziato come l'azienda speciale abbia del
resto caratteri diversi da quelli della società a partecipazione pubblica,
in quanto è un ente pubblico, appartenente alla categoria degli enti
strumentali, con un'articolazione di organi ben differente da quelli
societari (mancando l'assemblea), nonché con un regime normativo per i beni
e le risorse umane di tipo pubblicistico. Quel che differenzia l'azienda
speciale dalla società a partecipazione pubblica non è la natura
dell'attività, che consiste pur sempre nella produzione in forma
imprenditoriale di beni e servizi, e, piuttosto, nella condizione di più
organico collegamento dell'azienda speciale all'ente locale.
I giudici amministrativi hanno chiarito inoltre che, essendo l'azienda
speciale il modello di gestione del servizio pubblico più vicino alla
completa internalizzazione o autoproduzione del servizio stesso, essa è un
soggetto in house, al pari della società a partecipazione pubblica
cosiddetta in house, inteso come longa manus dell'amministrazione pubblica
per la realizzazione di lavori o opere o per l'espletamento di servizi.
L'affidamento del servizio pubblico a un'azienda speciale configura,
pertanto, un cosiddetto affidamento in house.
Sulla base di questa configurazione del rapporto con l'azienda speciale
affidataria, l'amministrazione è tenuta a effettuare la valutazione sulla
congruità economica dell'offerta di soggetti in house, avuto riguardo
all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del
provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato,
nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta,
secondo quanto stabilito dall'articolo 192, comma 2, del Dlgs 50/2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
04.09.2019). |
APPALTI: Soccorso istruttorio
Nelle gare di appalto, il c.d. soccorso istruttorio ha come finalità quella
di consentire l’integrazione della documentazione già prodotta in gara, ma
ritenuta dalla stazione appaltante incompleta o irregolare sotto un profilo
formale, non anche di consentire all’offerente di produrre atti in data
successiva a quella di scadenza del termine di presentazione delle offerte,
in violazione del principio di immodificabilità e segretezza dell’offerta,
imparzialità e par condicio delle imprese concorrenti.
Il c.d. soccorso
istruttorio consente, infatti, di completare dichiarazioni o documenti già
presentati, non di introdurre documenti nuovi; conseguentemente esso non può
essere utilizzato per supplire a carenze dell’offerta successivamente al
termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di errori materiali o
refusi.
---------------
2.5. Né è possibile sostenere l’ammissibilità del soccorso istruttorio
venendo in rilievo carenze riferite all’offerta tecnica.
Come chiarito, infatti, dalla univoca giurisprudenza (il che esime da
citazioni specifiche) nelle gare di appalto, il c.d. soccorso istruttorio ha
come finalità quella di consentire l’integrazione della documentazione già
prodotta in gara, ma ritenuta dalla stazione appaltante incompleta o
irregolare sotto un profilo formale, non anche di consentire all’offerente
di produrre atti in data successiva a quella di scadenza del termine di
presentazione delle offerte, in violazione del principio di immodificabilità
e segretezza dell’offerta, imparzialità e par condicio delle imprese
concorrenti.
Ed, infatti, il c.d. soccorso istruttorio consente di completare
dichiarazioni o documenti già presentati, non di introdurre documenti nuovi;
conseguentemente esso non può essere utilizzato per supplire a carenze
dell’offerta successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la
rettifica di errori materiali o refusi.
2.6. L’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede espressamente che
le carenze formali possono essere sanate attraverso la procedura del c.d.
soccorso istruttorio “… con esclusione di quelle afferenti all’offerta
economica ed all’offerta tecnica”, con la conseguenza che nella fase
precedente all’esame dell’offerta tecnica ed economica la stazione
appaltante, in caso di carenze formali, ha l’alternativa tra l’esclusione
dalla gara della concorrente o il c.d. soccorso istruttorio, mentre nella
fase dell’esame di dette offerte –già ammesse– l’amministrazione non può
consentire integrazioni.
Tale limite all’operatività dell’istituto del soccorso istruttorio è,
dunque, disposto in modo inequivocabile dalla legge e sostenuto dalla
giurisprudenza secondo cui nell’ambito di una procedura di gara pubblica, la
predetta disposizione di cui all’ art. 83, co. 9 del d.lgs. n. 50/2016, non
include dal beneficio del c.d. soccorso istruttorio le carenze relative
all’offerta tecnica presentata dall’operatore economico partecipante alla
gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.02.2019, n. 1030), ciò perché non può
essere consentita al concorrente la possibilità di completare l’offerta
successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di
semplici errori materiali o di refusi, impedendo così l’applicazione
dell’istituto per colmare carenze dell’offerta tecnica al pari di quella
economica.
3. Alla stregua delle considerazioni sopra svolte, pertanto, la circostanza
che le dichiarazioni di partenariato fossero state tempestivamente acquisite
da Parsifal non è suscettibile di determinare un apprezzamento favorevole
delle deduzioni di parte ricorrente, risultando dirimente l’omessa
allegazione di tali dichiarazioni entro i termini prescritti dalla lex
specialis. Ed è appena il caso di soggiungere che, come correttamente
rilevato dalla difesa delle parti resistenti, le lettere di partenariato non
sono meramente riproduttive di elementi già contenuti nell’offerta,
recandone di ulteriori, indispensabili per la individuazione del reale
contenuto del partenariato oltre all’effettivo impegno dei partner a
svolgere la relativa attività.
4. L’esiguità del tempo intercorso tra l’adozione della determinazione di
affidamento in favore della ricorrente ed il suo annullamento –ampiamente
inferiore al temine generale di diciotto mesi di cui all’art. 21-nonies
della l. n. 241 del 1990– e la già evidenziata rilevanza del vizio
riscontrato, incidente in senso pregiudizievole sugli inderogabili principi
di parità di trattamento, trasparenza ed imparzialità, oltre che sulle
esigenze connesse ad una piena affidabilità dell’operatore quanto alla
puntuale esecuzione del progetto, determinano l’infondatezza delle deduzioni
dirette a contestare la carenza di motivazione e l’irragionevolezza della
determinazione impugnata
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 24.07.2019 n. 9932 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Perde
l'indennità Inps il dipendente malato che esce di casa nelle fasce di
reperibilità per ritirare le analisi.
La lettura corretta dell’articolo 5, comma 14, del Dl 463/1983 convertito
dalla legge 638/1983, consente al lavoratore in malattia di assentarsi dal
domicilio durante le fasce di reperibilità solamente se ricorre un
giustificato motivo con onere della prova a suo carico.
In caso contrario, non ricorrendo cioè l’ipotesi dell’indifferibilità e
dell’urgenza dell’attività da svolgere, ivi compresa quella di recarsi a
ritirare i referti delle analisi cliniche alle quali si era sottoposto in
precedenza e di recarsi dall’odontoiatra per farsi curare risultando in tal
modo assente durante due visite mediche di controllo, il dipendente perde il
diritto all’identità di malattia stabilita dalla norma in commento.
Così ha
affermato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
22.07.2019 n.
19668.
La questione
L’Inps ha ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello che, in riforma
della sentenza del Tribunale, aveva accolto l’impugnazione del dipendente
volta al riconoscimento dell’indennità di cui si discute, assumendo che il
Giudice di Seconde Cure avrebbe violato sia l’articolo 5, comma 14, Dl
463/1983 che gli articoli 2697 Cc e 115 Cpc.
Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale di merito si sarebbe
limitata a verificare la sussistenza dei fatti dichiarati dal dipendente,
senza erroneamente accertare la ricorrenza nel caso di specie di un
giustificato motivo da ritenersi giuridicamente e socialmente apprezzabile.
In particolare, il ricorrente ha osservato come la giurisprudenza di
legittimità considera il giustificato motivo quale:
- “… clausola elastica che implica la necessità di accertare la sussistenza
o di una causa di forza maggiore o di una situazione che, ancorché non
insuperabile e nemmeno tale da comportare la lesione di beni primari, abbia
reso indifferibile altrove la presenza personale dell’assicurato” (Corte di
Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 3921/2007);
- onere per il lavoratore di reperibilità alla visita medica di controllo “…
che non contrasta con il carattere pubblico dell’assicurazione, tanto più
che può essere fornita con un minimo di diligenza e disponibilità, atteso
l’ambito molto limitato delle fasce di reperibilità per cui non risulta
nemmeno gravoso o vessatorio” (Corte Costituzionale, sentenza 78/1988).
La sentenza
Gli Ermellini hanno accolto il ricorso cassando la sentenza impugnata con
rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione, affinché la stessa
proceda all’accertamento delle circostanze sulle quali si fonda il diritto
del lavoratore, assente dal proprio domicilio in occasione delle visite di
controllo, a mantenere intero l’importo dell’’indennità di malattia, alla
luce dei seguenti principi di diritto.
L’articolo 5, comma 14, Dl 463/1983 prevede testualmente che il lavoratore
ingiustificatamente assente alla visita medico-fiscale decade dal
trattamento economico di malattia per l’intero periodo sino a 10 giorni e
nella misura della metà per l’ulteriore periodo.
Ciò posto, secondo la sentenza in rassegna, il lavoratore viola il proprio
dovere di cooperazione con l’Ente previdenziale, non solo se durante le
fasce di reperibilità non è presente nella propria abitazione, ma anche se,
pur presente, serba una condotta che impedisce l’esecuzione del controllo
per incuria, negligenza od altro motivo non giuridicamente e non socialmente
apprezzabile e ad egli imputabile (cfr. Cassazione civile, sezione lavoro,
sentenza 5000/1999, la quale ha espresso detto principio, in uno con il
riconoscimento del diritto del lavoratore a poter fornire la prova
dell’osservanza del dovere di diligenza).
Diversamente opinando, il potere del debitore Inps di verificare
positivamente, prima di pagare, la ricorrenza del fatto generatore del
debito, in ragione del fine pubblico di impedire abusi di tutela, sarebbe
vanificato dalla facoltà del lavoratore di sottrarsi alla verifica se non
per serie e comprovate ragioni. Ad esempio, per l’esigenza improcrastinabile
di recarsi presso l’ambulatorio del medico curante (cfr. Cassazione civile,
sezione lavoro, sentenza 18718/2006).
Per giunta, la violazione dell’obbligo di reperibilità è giustificabile
unicamente se il lavoratore comunica tempestivamente agli organi di
controllo l’allontanamento dall’abitazione: in caso di omessa o tardiva
comunicazione, infatti, anche se il diritto all’indennità non viene meno,
spetterà al lavoratore, preteso creditore, giustificare tale omissione o
ritardo (cfr. Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 15766/2002)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.08.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di specie, l’art. 91 del Regolamento edilizio è attuativo della previsione contenuta
nell’art. 28, comma 1, lett. d), della legge
regionale n. 12 del 2005, secondo la quale “il
regolamento edilizio comunale disciplina, in
conformità alla presente legge, alle altre
leggi in materia edilizia ed alle
disposizioni sanitarie vigenti: (…);
d) le modalità per l’esecuzione degli
interventi provvisionali di cantiere, in
relazione alla necessità di tutelare la
pubblica incolumità e le modalità per
l’esecuzione degli interventi in situazioni
di emergenza”.
Dall’esame del dato letterale della
disposizione regolamentare comunale non
emerge in maniera inequivocabile che gli interventi urgenti debbano
consistere soltanto in attività di
demolizione, ricavandosi piuttosto, da una
interpretazione complessiva del testo
normativo, coerente anche con l’ambito
disciplinato, ovvero quello edilizio, che
l’intervento urgente può essere finalizzato
anche a ricostruire ciò che è fatiscente,
essendo obiettivo rilevante soltanto la
necessità di eliminare definitivamente la
causa di pericolo.
Del resto, l’utilizzo del
termine “intervento”, non ulteriormente
specificato, appare onnicomprensivo sia
delle attività di demolizione in senso
stretto, che di quelle di ricostruzione;
inoltre il riferimento nel testo della
disposizione al permesso di costruire
–evidentemente necessario per interventi non
temporanei di messa in sicurezza–
costituisce un indice aggiuntivo delle
conclusioni raggiunte in precedenza, essendo
peraltro controversa la necessità del previo
ottenimento di un permesso di costruire per
opere di semplice demolizione.
---------------
2. Con il primo motivo, contenuto in
entrambi i ricorsi e di identico tenore, si
assume l’illegittimità dei provvedimenti
impugnati, poiché l’intervento di urgenza
effettuato in ragione della precarietà
strutturale del manufatto e dei connessi
pericoli troverebbe il proprio fondamento
nell’art. 91 del Regolamento Edilizio di
Cornaredo, contrariamente all’assunto
dell’Ufficio tecnico comunale che avrebbe
ricondotto la fattispecie alla sanatoria di
un abuso di cui all’art. 36 del D.P.R. n.
380 del 2001.
2.1. La doglianza è fondata.
Dalla documentazione prodotta in giudizio
dai ricorrenti risulta che il manufatto
edilizio oggetto della presente controversia
si trovasse, prima dell’intervento
contestato, in un pessimo stato di
manutenzione e a rischio crollo (cfr.
materiale fotografico in seno al ricorso e
relazioni tecniche: all. 7-9 e 14-15 al
ricorso).
Parimenti è stato dimostrato che nel periodo
di riferimento –giugno/agosto 2016– la
zona è stata interessata da rilevanti e
consistenti fenomeni atmosferici, che
certamente hanno contribuito ad aggravare i
rischi di crollo del manufatto, chiaramente
fatiscente (cfr. all. 5 - 5-novies al
ricorso).
L’art. 91 del Regolamento edilizio del
Comune di Cornaredo prevede, al comma 1, che
“gli interventi, che si rendono necessari al
fine di evitare un pericolo imminente per la
incolumità delle persone possono essere
eseguiti senza preventivo permesso di
costruire, nei limiti indispensabili per
l’eliminazione del pericolo, ma sotto la
responsabilità personale del committente,
anche per quanto riguarda l’effettiva
esistenza del pericolo”, mentre al comma 2,
dispone che “è fatto obbligo al proprietario
di dare segnalazione dei lavori entro due
giorni lavorativi alla struttura competente
e di presentare entro 15 giorni dall’inizio
dei lavori, in caso di interventi soggetti a
permesso di costruire, la richiesta di
permesso di costruire, in relazione alla
natura dell’intervento”.
Il provvedimento comunale di diniego del
permesso di costruire è stato motivato, in
primo luogo, con la circostanza che l’area
in cui è collocato il manufatto è
classificata dal P.G.T. come zona ‘di ridefinizione funzionale’, disciplinata
dall’art. 18 delle N.T.A., a mente del quale
sugli edifici esistenti “sono consentiti
unicamente interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria” (all. 1 del
Comune).
La difesa comunale ha chiarito che nella
specie non sarebbe applicabile l’art. 91 del
Regolamento edilizio sia perché lo stesso
autorizzerebbe soltanto interventi di
demolizione –al fine di scongiurare
pericoli imminenti per l’incolumità delle
persone– e non di ricostruzione, sia perché
la richiesta di titolo edilizio non sarebbe
stata presentata entro 15 giorni dall’inizio
dei lavori (avviati il 20.08.2016: all.
2 del Comune), ma dopo ben due mesi (ossia
il 19.10.2016: all. 1-bis al ricorso).
L’art. 91 del Regolamento edilizio è
attuativo della previsione contenuta
nell’art. 28, comma 1, lett. d), della legge
regionale n. 12 del 2005, secondo la quale “il
regolamento edilizio comunale disciplina, in
conformità alla presente legge, alle altre
leggi in materia edilizia ed alle
disposizioni sanitarie vigenti: (…);
d) le modalità per l’esecuzione degli
interventi provvisionali di cantiere, in
relazione alla necessità di tutelare la
pubblica incolumità e le modalità per
l’esecuzione degli interventi in situazioni
di emergenza”.
Dall’esame del dato letterale della
disposizione regolamentare comunale non
emerge in maniera inequivocabile, come
ritenuto dalla difesa dell’Amministrazione,
che gli interventi urgenti debbano
consistere soltanto in attività di
demolizione, ricavandosi piuttosto, da una
interpretazione complessiva del testo
normativo, coerente anche con l’ambito
disciplinato, ovvero quello edilizio, che
l’intervento urgente può essere finalizzato
anche a ricostruire ciò che è fatiscente,
essendo obiettivo rilevante soltanto la
necessità di eliminare definitivamente la
causa di pericolo.
Del resto, l’utilizzo del
termine “intervento”, non ulteriormente
specificato, appare onnicomprensivo sia
delle attività di demolizione in senso
stretto, che di quelle di ricostruzione;
inoltre il riferimento nel testo della
disposizione al permesso di costruire –evidentemente necessario per interventi non
temporanei di messa in sicurezza–
costituisce un indice aggiuntivo delle
conclusioni raggiunte in precedenza, essendo
peraltro controversa la necessità del previo
ottenimento di un permesso di costruire per
opere di semplice demolizione (non è
necessario per TAR Lazio, Roma, II-bis,
27.03.2018, n. 3416 e Cass. penale, III,
17.06.2011, n. 24423).
In ogni caso, né l’ordinanza impugnata né
gli atti endoprocedimentali comunali hanno
preso posizione espressa in ordine
all’applicabilità alla fattispecie dell’art.
91 del Regolamento Edilizio e alla
sussistenza dei relativi presupposti,
avendola invece del tutto ignorata, benché
tale questione fosse stata sollevata dalle
parti ricorrenti già nella relazione del 19.10.2016 (all. 10 al ricorso).
Ne discende che il contenuto delle memorie
prodotte dalla difesa comunale,
rappresentando una motivazione postuma, non
può essere preso in considerazione, visto
che di norma è inammissibile l’integrazione
in giudizio della motivazione del
provvedimento amministrativo, salvo casi
eccezionali tuttavia non ricorrenti nelle
specie (più approfonditamente sul punto,
Consiglio di Stato, VI, 11.05.2018, n.
2843; da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II,
08.07.2019, n. 1571) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2019 n. 1695 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha sottolineato come
“l’elemento che caratterizza la
ristrutturazione rispetto alla manutenzione
straordinaria è la prevalenza della finalità
di trasformazione rispetto al più limitato
scopo di rinnovare e sostituire parti anche
strutturali dell’edificio”, poiché
“gli interventi di manutenzione
straordinaria sono caratterizzati da un
duplice limite: uno di ordine funzionale,
costituito dalla necessità che i lavori
siano diretti alla mera sostituzione o al
puro rinnovo di parti dell’edificio, e
l’altro di ordine strutturale, consistente
nella proibizione di alterare i volumi e le
superfici delle singole unità immobiliari o
di mutare la loro destinazione”.
---------------
3. Con la
seconda censura, di identico tenore
in entrambi i ricorsi, si assume
l’illegittima classificazione
dell’intervento effettuato dai ricorrenti
quale ristrutturazione edilizia, vietata
nella zona, piuttosto che di manutenzione
straordinaria, essendosi proceduto alla
sostituzione di materiali e strutture
ammalorate, senza tuttavia dar luogo ad una
modifica sostanziale dell’organismo
edilizio.
3.1. La doglianza è fondata.
La qualificazione dell’intervento come
ristrutturazione edilizia effettuata dagli
Uffici comunali appare non del tutto
corretta, visto che dal verbale di
sopralluogo dell’08.09.2016 emerge la
“realizzazione di nuove pareti perimetrali
(su tre lati), in blocchi di cemento,
realizzazione di pilastri di sostegno della
struttura sempre in blocchi di cemento e
rifacimento completo della copertura con
nuova struttura in legno e copertura in
pannelli coibentati di lamiera. Della
vecchia struttura risulta mantenuto un
cordolo in muratura avente altezza di circa
80 cm” (all. 3 del Comune).
Va precisato che nei mesi di febbraio-aprile
2016 è stata effettuata la “sostituzione del
manto di copertura del deposito, attualmente
con lastre in eternit e posa di nuove lastre
sandwich in lamiera preverniciata color
coppo” (all. 3-4 al ricorso), che quindi
alla data dell’intervento di messa in
sicurezza –ossia il 20.08.2016–
risultava già sostituito. Tale modifica
perciò non poteva essere contestata
nell’ambito del procedimento edilizio
avviato dai ricorrenti all’esito degli
eventi atmosferici del periodo giugno/agosto
2016. Inoltre, la circostanza che il tetto
non sia stato oggetto di intervento in tale
ultimo periodo impedisce di dare per
pacifica, come ritenuto da parte del Comune,
l’avvenuta completa demolizione del
manufatto e la successiva integrale
ricostruzione, ad eccezione del cordolo di
80 cm.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), del
D.P.R. n. 380 del 2001 negli “interventi di
manutenzione straordinaria” sono ricomprese
le opere e le modifiche necessarie per
rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per
realizzare ed integrare i servizi
igienico-sanitari e tecnologici, sempre che
non alterino la volumetria complessiva degli
edifici e non comportino modifiche delle
destinazioni di uso; gli “interventi di
ristrutturazione edilizia” sono invece
rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell’edificio, l’eliminazione,
la modifica e l’inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente (art. 3,
comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del
2001).
La giurisprudenza ha sottolineato come
“l’elemento che caratterizza la
ristrutturazione rispetto alla manutenzione
straordinaria è la prevalenza della finalità
di trasformazione rispetto al più limitato
scopo di rinnovare e sostituire parti anche
strutturali dell’edificio” (TAR Campania,
Napoli, IV, 03.07.2015, n. 3563), poiché
“gli interventi di manutenzione
straordinaria sono caratterizzati da un
duplice limite: uno di ordine funzionale,
costituito dalla necessità che i lavori
siano diretti alla mera sostituzione o al
puro rinnovo di parti dell’edificio, e
l’altro di ordine strutturale, consistente
nella proibizione di alterare i volumi e le
superfici delle singole unità immobiliari o
di mutare la loro destinazione” (Consiglio
di Stato, IV, 13.05.2019, n. 3058; in
argomento anche Consiglio di Stato, VI, 26.10.2016, n. 4267).
Nella fattispecie de qua non è intervenuta
alcuna modifica di carattere funzionale o di
conformazione del manufatto, essendo stati
effettuati degli interventi finalizzati
esclusivamente all’eliminazione del pericolo
di crollo e alla messa in sicurezza; nella
relazione tecnica del 17.10.2016, si è
evidenziato oltretutto che “la muratura di
rinforzo ha addirittura ridotto la
superficie interna del locale mirando
soprattutto a rendere più rigida la muratura
perimetrale e di conseguenza tutta la
struttura portante del tetto” (all. 9 al
ricorso). Ugualmente risulta ridotta
l’altezza del manufatto da 4,50 m a 4,18 m (cfr.
Tavola all. 15 al ricorso), in ragione del
materiale utilizzato per la sostituzione
della preesistente struttura, notevolmente
ammalorata.
Trattandosi di modeste
difformità, peraltro giustificate dal tenore
degli interventi effettuati e dalla
necessità che gli stessi risultassero idonei
a garantire l’effettiva messa in sicurezza
del bene, non può ritenersi corretta la
qualificazione dell’intervento quale
ristrutturazione edilizia sostenuta dal
Comune di Cornaredo (similmente, TAR
Campania, Napoli, IV, 03.07.2015, n.
3563).
Va altresì, aggiunto, che la
struttura del manufatto –composto
sostanzialmente da lamiere o materiale
assimilabile (cfr. allegati fotografici agli
atti)– non permette di assimilarlo ad una
costruzione in senso stretto, nella quale
gli eventuali interventi di rifacimento
devono essere inevitabilmente preceduti
dalla demolizione delle originarie
componenti.
3.2. Ne discende l’accoglimento anche della
seconda doglianza, identica per entrambi i
ricorsi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2019 n. 1695 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Interventi
conservativi su immobili oggetto di condono
edilizio.
Con riguardo alla
possibilità di effettuare interventi
conservativi su immobili oggetto di condono
edilizio, non è compatibile con i principi,
anche costituzionali, dell’ordinamento la
privazione della possibilità, per il
titolare del diritto di proprietà su di un
immobile, di procedere ad interventi di
manutenzione, aventi quale unica finalità la
tutela della integrità della costruzione e
la conservazione della sua funzionalità,
senza alterare l’aspetto esteriore (sagoma e
volumetria) dell’edificio.
Ciò rappresentando certamente una lesione al
contenuto minimo della proprietà che incide
addirittura sulla essenza stessa e sulle
possibilità di mantenere e conservare il
bene, producendo un inevitabile
deterioramento di esso, con conseguente
riduzione in cattivo stato e un progressivo
abbandono e perimento del medesimo.
Pertanto, non si può impedire al
proprietario di intervenire sul proprio
bene, al fine di evitare la progressiva
inutilizzabilità e distruzione
dell’edificio, in rapporto alla destinazione
inerente alla sua natura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2019 n. 1695 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
4. Con la terza censura, contenuta
unicamente nel ricorso introduttivo, si
assume l’illegittimità del provvedimento di
diniego comunale, laddove ha stabilito il
divieto di effettuare interventi di
sostituzione edilizia in relazione ad un
immobile oggetto di condono ai sensi
dell’art. 35 della legge n. 47 del 1985,
dovendosi invece ritenere sempre ammissibili
interventi di manutenzione finalizzati a
rendere fruibile un immobile.
4.1. La doglianza è fondata.
Con riguardo alla possibilità di effettuare
interventi conservativi su immobili oggetto
di condono edilizio è stato chiarito che non
è compatibile con i principi, anche
costituzionali, dell’ordinamento la
privazione della possibilità, per il
titolare del diritto di proprietà su di un
immobile, di procedere ad interventi di
manutenzione, aventi quale unica finalità la
tutela della integrità della costruzione e
la conservazione della sua funzionalità,
senza alterare l’aspetto esteriore (sagoma e
volumetria) dell’edificio, ciò
rappresentando certamente una lesione al
contenuto minimo della proprietà che incide
addirittura sulla essenza stessa e sulle
possibilità di mantenere e conservare il
bene, producendo un inevitabile
deterioramento di esso, con conseguente
riduzione in cattivo stato e un progressivo
abbandono e perimento del medesimo.
Pertanto, non si può impedire al
proprietario di intervenire sul proprio
bene, al fine di evitare la progressiva
inutilizzabilità e distruzione
dell’edificio, in rapporto alla destinazione
inerente alla sua natura (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 238 del 2000; in
termini anche Consiglio di Stato, IV, 14.07.2015, n. 3505).
Avendo i ricorrenti effettuato un intervento
finalizzato alla conservazione del bene –oltre che all’eliminazione del pericolo– ne
risulta l’illegittimità anche della
ulteriore ragione posta a supporto del
provvedimento di diniego impugnato, ovvero
l’impossibilità di effettuazione di opere
edilizie su un immobile condonato.
4.2. Ciò determina l’accoglimento anche
della suesposta doglianza. |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione generale di “pertinenza” è contenuta nell’ 817 c.c.
(cose destinate, in modo durevole, a servizio o ad ornamento di un’altra
cosa), tuttavia la nozione urbanistico-edilizia assume delle peculiarità,
data la specificità della materia e la differente finalità pubblica posta a
base della relativa normativa.
Il concetto di pertinenza urbanistica è
ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa meno ampio di quello definito
dall’art. 817 c.c., tale da non poter consentire la realizzazione di opere
soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come
principale.
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile solo quando vi sia un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del
bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera
secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico.
---------------
21.2. Inoltre deve essere esclusa la natura pertinenziale degli interventi
realizzati.
Infatti, la nozione generale di “pertinenza” è contenuta nell’ 817 c.c.
(cose destinate, in modo durevole, a servizio o ad ornamento di un’altra
cosa), tuttavia la nozione urbanistico-edilizia assume delle peculiarità,
data la specificità della materia e la differente finalità pubblica posta a
base della relativa normativa. Il concetto di pertinenza urbanistica è
ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa meno ampio di quello definito
dall’art. 817 c.c., tale da non poter consentire la realizzazione di opere
soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come principale
(cfr. Cons. St. sez. IV, 17/05/2010, n. 3127).
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile solo quando vi sia un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del
bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera
secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. Cons. St.,
sez. VI, 29/01/2015, n. 406; Cons. St., sez. VI, 05/01/2015, n. 13)
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.07.2019 n. 9223 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di costruzioni abusive.
In caso di mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, ai sensi
dell’art. 31, D.P.R. n. 380/2001, l’acquisizione concerne ordinariamente non
solo il bene e la relativa area di sedime, ma anche l’area necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive (nel limite massimo, tuttavia, del decuplo della
complessiva superficie utile abusivamente costruita).
Nella chiara
configurazione normativa l’acquisizione di tale area ulteriore è una
sanzione che l’ordinamento pone come conseguenza automatica e doverosa
dell’inottemperanza all’ordine demolitorio dell’opera abusiva (salvo i casi
in cui venga ad incidere sui diritti dei terzi o sulle porzioni di manufatti
legittimi, nel qual caso l’acquisizione è limitata al manufatto abusivo e
alla sua sola area di sedime) e non è, come tale, soggetta a specifici
obblighi motivazionali in ordine alle ragioni di pubblico interesse.
L’applicazione della norma in esame impone, tuttavia, all’Amministrazione
comunale di assolvere all’obbligo motivazionale in ordine alle modalità del
calcolo (in relazione ai parametri urbanistici in astratto applicabili per
la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con cui
perviene all’individuazione di tale “area ulteriore”.
---------------
22.
Infine occorre esaminare il ricorso 8607/2012 avente ad oggetto il
provvedimento n. 619 in data 28.8.2012 di acquisizione gratuita delle
particelle n. 861, 862, 863, per una superficie complessiva pari a mq 8810
(mq 7798 + mq 945 + mq 67). Secondo la ricorrente infatti tale provvedimento
avrebbe determinato un’acquisizione superiore al decuplo della superficie
relativa all’area di sedime dei manufatti abusivi “che avrebbe dovuto esser
pari a mq. 364,90”. La ricorrente ha in ogni caso lamentato la carenza di
un’adeguata motivazione in ordine all’acquisizione dell’“area ulteriore”.
22.1. Sul punto occorre precisare che, ai sensi dell’art. 31, d.P.R. n.
380/2001, l’acquisizione concerne ordinariamente non solo il bene e la
relativa area di sedime, ma anche l’area necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive (nel limite massimo, tuttavia, del decuplo della complessiva
superficie utile abusivamente costruita).
Nella chiara configurazione normativa l’acquisizione di tale area ulteriore
è una sanzione che l’ordinamento pone come conseguenza automatica e doverosa
dell’inottemperanza all’ordine demolitorio dell’opera abusiva (salvo i casi
in cui venga ad incidere sui diritti dei terzi o sulle porzioni di manufatti
legittimi, nel qual caso l’acquisizione è limitata al manufatto abusivo e
alla sua sola area di sedime) e non è, come tale, soggetta a specifici
obblighi motivazionali in ordine alle ragioni di pubblico interesse.
L’applicazione della norma in esame impone, tuttavia, all’Amministrazione
comunale di assolvere all’obbligo motivazionale in ordine alle modalità del
calcolo (in relazione ai parametri urbanistici in astratto applicabili per
la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con cui
perviene all’individuazione di tale “area ulteriore”.
In sostanza,
l’Amministrazione procedente deve indicare la classificazione urbanistica e
il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi
sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria,
conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
La dettagliata descrizione e precisa individuazione della superficie oggetto
di acquisizione è richiesta laddove il Comune intenda acquisire non solo la
res abusiva e la relativa area di sedime, ma anche la superficie ulteriore,
non superiore al decuplo di quella occupata con l’immobile abusivo,
necessaria a realizzare opere analoghe a quella abusivamente realizzata
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.07.2019 n. 9223 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danno da demansionamento all'ente che «svuota» il lavoro del dipendente
impegnato da incarichi politici.
Non è giustificabile la destinazione ad altre mansioni del dipendente
-perché indisponibile al lavoro in certi orari dopo la sua nomina a
consigliere comunale- se la misura abbia comportato il sostanziale
svuotamento dell'attività lavorativa. Il dirigente che motiva il cambio del
servizio e l'ente che non utilizzi proficuamente il dipendente si espongono
al risarcimento del danno per demansionamento.
Queste sono le indicazioni della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, contenute nell'ordinanza
10.07.2019 n. 18560.
Il fatto
Un dirigente regionale ha chiesto il trasferimento di un proprio
dipendente ad altro servizio motivando la sua richiesta «per indisponibilità
ad eseguire prestazioni lavorative in orario antimeridiano in quanto
Consigliere Municipale nonché Presidente di una Commissione Municipale». Al
dipendente messo a disposizione, tuttavia, non venivano affidati compiti
operativi.
A causa di questa inattività il dipendente si è rivolto al
giudice del lavoro per ottenere il risarcimento del danno biologico e
professionale subito in conseguenza del demansionamento nel periodo di
disponibilità presso altro servizio regionale. Il Tribunale di primo grado
ha, tuttavia, respinto il ricorso del dipendente per non aver prodotto la
prova del demansionamento né il nesso di causalità tra il pregiudizio
lamentato e le condotte addebitate all'amministrazione ed escludendo che il
provvedimento di messa a disposizione del ricorrente potesse configurare un
atto vessatorio.
La Corte di appello, in riforma della sentenza di primo
grado, ha invece invertito l'onere della prova, precisando che
l'amministrazione non ha dimostrato che gli impegni del lavoratore, come
consigliere municipale, fossero incompatibili con le mansioni svolte e che
la prova in ordine all'orario di lavoro fosse risultata contraddittoria.
I
giudici di appello, pertanto, hanno certificato favorevolmente le
conclusioni del demansionamento rassegnate dal consulente tecnico di
ufficio, confermando la percentuale del danno biologico rilevata. Nel
ricorso in Cassazione la Regione ha evidenziando come la Corte d'appello
avesse invertito l'onere della prova ponendo, in modo inammissibile, a suo
carico l'onere di dimostrare che gli impegni del lavoratore come consigliere
municipale fossero incompatibili con le mansioni svolte.
La decisione della
Cassazione
Secondo il giudice di legittimità, la sentenza della Corte
d'appello ha correttamente accertato che, dalle risultanze di causa, fosse
emersa la prova, con riferimento al periodo preso a riferimento, della
dedotta dequalificazione e anzi della totale mancanza di attribuzione di
mansioni, per di più con modalità vessatorie. Pertanto, sono state
correttamente prese in considerazione le risultanze dei fatti così come sono
avvenuti e in particolare sulla pretesa indisponibilità del dipendente ad
eseguire le prestazioni lavorative in orario antimeridiano.
In altri
termini, la sentenza è stata logicamente articolata e priva di errori di
diritto avendo i giudici di appello esposto in modo ordinato e coerente le
ragioni che la hanno giustificato. Infine, la formale assegnazione del
dipendente alle mansioni proprie della categoria contrattuale non sono
censurabili, ma lo diventano, come nel caso di specie, quando la
destinazione ad altre mansioni abbia comportato il sostanziale svuotamento
dell'attività lavorativa.
In quest'ultimo caso, infatti, non si è
nell'ipotesi di verificare l'equivalenza delle mansioni, ma si è in presenza
della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata
anche nell'ambito del pubblico impiego
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.07.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
licenziamento illegittimo causa danno erariale pari al risarcimento
accertato in sede civile.
Il licenziamento illegittimo e la mancata reintegrazione del lavoratore sono
causa di danno erariale in misura pari al risarcimento accertato nel
giudizio civile. Non viola i limiti esterni della giurisdizione il giudice
contabile che abbia dati per acquisiti gli accertamenti compiuti in sede
civile e passati in giudicato, ritenendo superflua un'istruttoria specifica.
Il giudice contabile, infatti, non può non tenere conto del giudicato di
condanna, civile o penale che sia.
Lo ha chiarito la Suprema Corte, S.U. civili, con
sentenza
26.06.2019 n.
17126.
La vicenda Il direttore generale di un'azienda sanitaria locale ha proceduto
al licenziamento di un dirigente senza avere acquisito previamente il parere
preventivo del Comitato dei Garanti. Impugnato il provvedimento, il giudice
del lavoro ha dichiarato la nullità del recesso condannando l'azienda
sanitaria a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno subito. La
sentenza è stata confermata in appello e il danno complessivamente
quantificato in 1.760.951,73. Nelle more il lavoratore non è stato
reintegrato.
La Procura regionale della Corte di conti, passata in giudicato
la pronuncia del giudice del lavoro, ha avviato un'azione risarcitoria per
danno erariale nei confronti del direttore generale che aveva proceduto al
licenziamento illegittimo e del suo successore, che aveva mancato di
reintegrare il lavoratore benché vi fossero l'ordine del giudice e la
diffida ad adempiere. La pronuncia veniva confermata in grado d'appello ed
il danno erariale determinato (pro quota) in misura del risarcimento
liquidato nel giudizio civile, sede in cui non fu mai motivatamente
contestato.
Per la cassazione della suddetta sentenza ricorre l'ex direttore
generale affidandosi ad un unico motivo di ricorso: il travalicamento dei
limiti della giurisdizione da parte del giudice contabile, in quale avrebbe
inopinatamente (in assenza di una legge che lo consenta) tenuto conto delle
statuizioni compiute in seno ad altra giurisdizione. Il ricorso in
Cassazione è stato dichiarato inammissibile poiché, invero, paventando vizi
che attengono al modo in cui la Corte dei conti ha esercitato la propria
giurisdizione, può ricondursi nell'ambito degli "error in judicando" (tra le
altre Cass. SU n. 17014/2003, Cass. SU n. 28653/2008, Cass. SU n.
29285/2018) mentre l'art. 111, ultimo comma, della Costituzione, stabilisce
che "Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il
ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla
giurisdizione".
Nel caso di specie si tratta di una tipica ipotesi di danno
erariale cd indiretto, che è quel danno che amministratori o dipendenti
della Pubblica Amministrazione hanno cagionato a "terzi" e che
l'Amministrazione ha dovuto risarcire in esecuzione di un accordo transattivo o in ottemperanza ad una sentenza di condanna, così
sopportandone l'onere (si vedano Corte dei conti, Sez. giur. app. n.
271/2015 nonché Cass. SU n. 22251/2017)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
vano caldaia dalle ridotte dimensioni è un volume tecnico.
Con riguardo al vano caldaia, va detto che per la
dimensione minima e la destinazione a servizio dell’attività, tale manufatto
costituisce un volume tecnico e rientra nella nozione urbanistica di
pertinenza rispetto alla quale non è comminabile la sanzione della
demolizione.
----------------
In materia, la giurisprudenza spiega che la nozione di pertinenza ha
peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica,
trattandosi infatti di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al
servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata di
un volume minimo; si tratta quindi di qualifica applicabile soltanto ad
opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali
ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici
et similia.
Inoltre, si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né adattabile
ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale,
anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza
possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per
essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per
qualsiasi ragione, all'interno dell'edificio.
---------------
- Con riguardo al vano caldaia, va detto che per la dimensione minima e la
destinazione a servizio dell’attività, tale manufatto costituisce un volume
tecnico e rientra nella nozione urbanistica di pertinenza rispetto alla
quale non è comminabile la sanzione della demolizione;
- In materia, la giurisprudenza spiega che la nozione di pertinenza ha
peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica,
trattandosi infatti di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al
servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata di
un volume minimo; si tratta quindi di qualifica applicabile soltanto ad
opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali
ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici
et similia (Consiglio di Stato sez. V 24.07.2014 n. 3952);
- Inoltre, si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né
adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per
contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una
costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della
medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all'interno dell'edificio
(Consiglio di Stato sez. VI 21.01.2015 n. 175)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 18.06.2019 n. 429 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto
vivente, risulta oggi permeato dai principi di correttezza, buona
amministrazione, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento. Principi
integralmente desumibili dalla previsione di cui all’articolo 97 della
Costituzione che costituisce il pilastro su cui si edifica il nuovo
paradigma dei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione.
Un simile modello impone chiarezza da parte dell’Amministrazione in ordine
alla effettiva portata dei propri atti incidenti sulla sfera giuridica dei
privati non potendosi, invero, ritenere conforme al modello descritto un
comportamento che si presti a letture alternative ingenerando equivoci e
alimentando contenziosi privi di sostanziale significato.
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6.1 Osserva il Collegio come le difese comunali paiano svuotare di
sostanziale rilievo la controversia in esame. Il Comune ritiene che gli atti
impugnati siano meramente ricognitivi di una situazione di fatto e non
implicanti alcuna alterazione della natura privata del bene.
L’Amministrazione deduce, inoltre, che ove si ritenessero i provvedimenti
impugnati muniti di portata effettuale espropriativa, il ricorso dovrebbe
ritenersi inammissibile (rectius: improcedibile) per sopravvenuta carenza di
interesse stante la scadenza del termine.
6.2. Deve, tuttavia, rilevarsi come il modello di pubblica amministrazione,
come si è andato evolvendo nel diritto vivente, risulta oggi permeato dai
principi di correttezza, buona amministrazione, lealtà, protezione e tutela
dell’affidamento. Principi integralmente desumibili dalla previsione di cui
all’articolo 97 della Costituzione che costituisce il pilastro su cui si
edifica il nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e Pubblica
Amministrazione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.03.2018,
n. 1457).
Un simile modello impone chiarezza da parte dell’Amministrazione in ordine
alla effettiva portata dei propri atti incidenti sulla sfera giuridica dei
privati non potendosi, invero, ritenere conforme al modello descritto un
comportamento che si presti a letture alternative ingenerando equivoci e
alimentando contenziosi privi di sostanziale significato.
Emblematica appare la vicenda in esame in cui l’Amministrazione rigetta
l’osservazione del privato ritenendo sussistente una consolidata
consuetudine di uso pubblico che, nelle difese, diviene, tuttavia, un dato
privo di rilevanza giuridica. Affermazione che, invero, avrebbe imposto al
Comune di modificare le previsioni degli atti impugnati quanto meno dopo la
ricezione del ricorso giurisdizionale piuttosto che dedurre la mancata
comprensione della mancanza di una reale portata effettuale dei propri atti.
Portata che non è, però, integralmente negata dal comune di Brivio secondo
cui, assegnando un vincolo espropriativo alle previsioni, le stesse
dovrebbero ritenersi prive di effetto in ragione del decorso del termine
quinquennale prescritto dalla legge
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.06.2019 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche accesso agli atti con confini allargati.
Possibile consultare anche i preventivi di spesa e le fatture dei lavori
svolti.
Chi partecipa ad una gara ha accesso ai preventivi di spesa altrui: lo
sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con la
sentenza
25.03.2019 n. 630, relativa a un incarico
professionale conferito da un ente locale ad una cooperativa per i servizi
di assistenza legale.
La novità riguarda sia l’accesso che il procedimento, incerto tra l’articolo
22 della legge 241/1990 (che esige un interesse al documento cui si chiede
accesso) e l’articolo 5, comma 2, Dlgs 33/2013 (accesso civico
generalizzato, senza motivazione). Il Tar propende per la prima soluzione
mentre il Consiglio di Stato (3780/2019) per l’accesso civico generalizzato,
perché le materie sottratte all’accesso sono tassative e non tollerano
analogie interpretative: se non si ricada in una materia esplicitamente
sottratta (quale la sicurezza nazionale), possono esservi solo specifici
casi di limitazione.
Escludendo l’accesso per mera curiosità o per accaparrarsi dati sensibili
coperti dall’ordinaria segretezza aziendale, tutto il resto è accessibile,
perché prevalgono le esigenze generali di «controllo diffuso sul
perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche» (articolo 5, comma 2, Dlgs 33/2013) come strumento di prevenzione
e contrasto della corruzione. Il settore è in continua evoluzione, perché
anche l’impresa che non ha partecipato a una gara ha diritto ad accedere
agli atti della procedura di appalto (Consiglio di Stato 3780/2019), senza
che possa rappresentare un ostacolo l’asserita voluminosità della
documentazione di gara.
Ad esempio, il principio è stato applicato ad una gara per manutenzione di
automezzi Ausl, concedendo l’accesso non solo al contratto stipulato con
l’aggiudicatario, ma anche ai documenti attestanti i singoli interventi, i
preventivi dettagliati, i collaudi ed i pagamenti, anche con la relativa
documentazione fiscale dettagliata (le fatture pagate all’aggiudicatario).
La documentazione fiscale, in particolare, è stata resa accessibile perché
non avrebbe potuto compromettere segreti del processo industriale della
società aggiudicataria dell’appalto. Il servizio prestato, infatti,
riguardando la manutenzione e riparazione di veicoli (prestazione
standardizzata e altamente ripetitiva, con tecniche ed interventi desumibili
dai libretti di manutenzione), poteva avere ben pochi segreti commerciali o
industriali.
In sintesi, non solo vi è accesso indipendentemente dalla partecipazione ad
una gara o dalla sua impugnazione (Tar Napoli 2379/2019), ma si può ottenere
an che accesso ai preventivi altrui ed alle fatture relative ai lavori
svolti, rendendo accessibile e controllabile, oltre la procedura di gara,
anche l’esecuzione dell’appalto. Fino a poco tempo fa, al di fuori della
gara, l’accesso agli atti di esecuzione di un contratto pubblico era stato,
al più, consentito ai subappaltatori creditori dell’aggiudicataria (Tar
Lazio 8639/2013), ma ora l’accesso si estende anche agli imprenditori in
potenziale concorrenza, nonché ai momenti successivi alla gara stessa
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2019).
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SENTENZA
2. Il ricorso è infondato; di seguito le motivazioni della sentenza.
2.1. Il sig. Pi. ha chiesto al Comune di Brugherio di accedere, in sostanza,
ai “preventivi di spesa per i servizi di assistenza legale” per il
recupero dell’evasione ed elusione tributaria richiamati nella determina
dirigenziale n. 957/2017.
L’interessato ha inizialmente proposto l’istanza facendo generico
riferimento all’accesso civico senza ulteriori specificazioni;
successivamente, a fronte della prima risposta del Comune, di sostanziale
diniego all’accesso, ha formulato istanza di riesame al Segretario generale
del Comune, nella qualità di Responsabile del potere sostitutivo del
Responsabile della Trasparenza, riconducendo la propria richiesta alla
fattispecie di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013, di accesso
civico “generalizzato”.
2.2. L’istanza non è stata accolta in quanto, secondo l’Amministrazione
comunale (in ciò avallata dall’interpretazione del Difensore civico
regionale, cui il ricorrente si è rivolto dopo il secondo diniego del
Comune), l’interessato, per ottenere copia dei preventivi di spesa in
questione, deve presentare una richiesta motivata ai sensi dell’art. 22
della l. n. 241/1990, dimostrando di avere un interesse diretto, concreto e
attuale “corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
2.3. L’Amministrazione, ad avviso del Collegio, ha operato correttamente.
Al riguardo, come efficacemente osservato dal Difensore civico regionale
nella nota del 5 ottobre 2018, è sufficiente rilevare che:
- i preventivi oggetto di richiesta non sono allegati alla
determinazione n. 957/2017, sicché non sono soggetti all’accesso civico
semplice di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013;
- i preventivi de quibus, semmai, si sostanziano in documenti
afferenti alla “procedura di affidamento ed esecuzione” dell’incarico
affidato alla Cooperativa Sociale Fraternità, avente ad oggetto, tra
l’altro, anche “il recupero dell’evasione ed elusione tributaria in materia
di ICI ed IMU”, che, in quanto tali, sono sottoposti alla disciplina di cui
all’art. 53 del d.lgs. n. 50/2016;
- ne consegue che tali documenti, come affermato da un orientamento
giurisprudenziale condiviso dal Collegio (TAR Emilia Romagna–Parma, n.
197/2018), restano esclusi dall’accesso civico c.d. “generalizzato”
di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013;
- i preventivi richiesti, quindi, potranno essere oggetto di
richiesta di accesso documentale ai sensi della l. n. 241/1990.
2.4. In definitiva, il ricorso è infondato e va respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi
nazionali, regionali e riserve naturali) è subordinata al rilascio di tre
distinti provvedimenti, quali il permesso di costruire, l'autorizzazione
paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco (con
la conseguenza che questi ultimi due atti amministrativi mantengono la loro
autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando
siano attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico, chiamato a
compiere una duplice valutazione in ragione della pluralità degli interessi
presidiati dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a
quella paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette).
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4.2. In proposito, da un lato è stata in via generale richiamata la costante
giurisprudenza in forza della quale la realizzazione di interventi, opere e
costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e riserve
naturali) è subordinata al rilascio di tre distinti provvedimenti,
quali il permesso di costruire, l'autorizzazione paesaggistica
e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco (con la conseguenza
che questi ultimi due atti amministrativi mantengono la loro autonomia ad
ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando siano
attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico, chiamato a compiere una
duplice valutazione in ragione della pluralità degli interessi presidiati
dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a quella
paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette) (ad es.
Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261152).
D'altro canto il provvedimento impugnato (sia pure facendo uso non del tutto
coerente dei concetti di modificazione del territorio, di incisione del
medesimo, di carico urbanistico e di permanenza della predetta
modificazione) ha osservato che la misura cautelare è stata disposta al fine
di accertare se le opere realizzate, per dimensioni e tipologia di materiali
utilizzati, abbiano inciso sul territorio comportandone un carico
urbanistico ed una modificazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.05.2018 n. 20739). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività edilizia privata all’interno delle
aree demaniali è soggetta alla disciplina di cui al D.P.R.
380 del 2001: in tal senso dispone l’art. 8 (“Attività edilizia dei privati su aree demaniali”) e, ancor
prima, l’art. 31, comma 3, della legge 17.08.1942, n.
1150.
In materia edilizia, infatti, per le opere eseguite da
privati in aree del demanio marittimo sono necessari sia
l'autorizzazione demaniale sia il permesso di costruire
assolvendo i due provvedimenti a diverse finalità di tutela
in quanto la prima è diretta a salvaguardare gli interessi
pubblici connessi al demanio marittimo, mentre il secondo ha
la funzione di consentire all'ente locale di esercitare il
controllo urbanistico del territorio.
La mancanza di titolo edilizio di un manufatto realizzato
sulla base delle sole concessioni demaniali, quindi,
comporta la configurazione dell’opera come abusiva ai fini
urbanistico-edilizi.
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Ribadito che l'ordine di demolizione per difetto di titolo
edilizio, e non per difetto di titolo autorizzatorio
all'occupazione di suolo demaniale, ricade ai sensi
dell'art. 35 dpr 380/2001 nella competenza provvedimentale
ed esecutiva del Comune, va condivisa la giurisprudenza
secondo la quale l’art. 35 de quo -che dispone che qualora
sia accertata la realizzazione di interventi realizzati "sine
titulo" ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo,
su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti
pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell'abuso
la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi- non
prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie poiché trova la
sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta
sanzionata, che riguarda opere abusive su suoli pubblici: la
norma, dunque, non lascia all'ente locale alcun spazio per
valutazioni discrezionali e impone di ordinare la
demolizione a spese del responsabile dell'abuso.
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1. Con il ricorso in epigrafe, ritualmente notificato e depositato,
è impugnata l'ordinanza n. 6 del 18.02.2016 con la quale il
Comune di Alcamo ha ordinato la rimozione delle seguenti
opere, eseguite alla data del 06.03.2015, perché
realizzate senza l’autorizzazione di cui all’ art. 5 della l.r. 37/1985:
1. stradella ricoperta di materiale inerte di collegamento,
attraverso la spiaggia (arenile demaniale) tra la strada
comunale e il fabbricato insistente sul terreno in catasto
al fg. 1, p.lle 381 e 3 (in parte);
2. spiazzo antistante il predetto fabbricato, sulla spiaggia
(arenile demaniale);
3. barra di legno (longitudinale posta su due pilastrini)
che ostruisce l’accesso pedonale alla stradella di cui al
punto 1.
Trattasi di opere insistenti sull’aerea demaniale marittima
di mq 248 concessa con atto n. 520 del 16.12.2004, per mq 65
(spazio antistante in fabbricato) in uso esclusivo e per i
restanti mq 183 in uso non esclusivo.
Nella motivazione dell’atto è spiegato che:
- nella suddetta concessione demaniale non è previsto il
collocamento della sbarra di legno;
- ai sensi dell’art. 23 del R.E. per le opere realizzate era
necessario il titolo abilitativo;
- l’area di che trattasi ricade in Z.T.O. Fp6 nella quale
l’edilizia libera può concernere la realizzazione di strada
poderali con caratteristiche di ruralità, di cui sarebbe
priva l’opera in questione;
- la concessione demaniale n. 520 del 16.12.2004, all’art. 2,
obbligava il concessionario a richiedere al Comune il titolo
edilizio prima dell’inizio dei lavori.
Il sig. Si.Pi., in qualità di comproprietario, ne
chiede l’annullamento previa sospensione cautelare,
deducendone l’illegittimità per i motivi di violazione degli artt. 4, 5, 6, 7 e 9 della legge regionale n. 37/1985, degli artt. 31, 34 e 37 del D.P.R. 380 del 2001 e dell’art. 23 del
regolamento edilizio, nonché per eccesso di potere e difetto
di motivazione, in quanto sia la stradella sia lo spiazzo
esisterebbero almeno dal 1968, come accertato in fatto dal
Tribunale di Trapani con la sentenza n. 47/2014 (relativa a
controversia tra proprietari, in cui il ricorrente era
parte) e di cui l’A.R.T.A. ha preso atto con la nota n. 44856
del 02.10.2014.
Le opere eseguite, quindi, sarebbero di mera manutenzione e
come tali rientranti nella tipologia dell’edilizia libera di
cui all’art. 6 della l.r. 37/1985 che, invero, riguarderebbe
anche le strade poderali e non solo quelle rurali; parimenti
non rileverebbe il fatto che le opere ricadono in zona Fp6
poiché l’area ricade nel demanio marittimo; non troverebbe
applicazione l’art. 23 del regolamento edilizio che
disciplina la costruzione di strade interpoderali
assoggettandola ad autorizzazione, poiché quella oggetto di
lite servirebbe soltanto l’abitazione del ricorrente.
Quanto alla sbarra in legno, si sostiene che la sua
collocazione –comunque da ricondurre alla fattispecie
dell’edilizia libera di cui all’art. 6 della l.r. 37/1985-
sarebbe stata autorizzata dall’A.R.T.A. con la concessione
demaniale marittima n. 520/2014 oltre che imposta dallo
stesso assessorato con la nota n. 23634/2014 (1° motivo).
Trattandosi di opere soggette a autorizzazione l’unica
sanzione applicabile sarebbe quella pecuniaria e comunque la
demolizione non sarebbe attuabile per la stradella,
esistente ab immemorabile (2° motivo).
Lamenta anche la violazione delle norme sulla partecipazione
procedimentale di cui alla legge 241 del 1990 a causa
dell’omessa valutazione delle controdeduzioni presentate e
il difetto di istruttoria e di motivazione (3° motivo).
Con l’ordinanza collegiale n. 759 del 04.07.2016, è stata
accolta la domanda di sospensione cautelare dell'esecuzione
del provvedimento impugnato.
Il Comune di Alcamo si è costituito in giudizio con memoria,
il 10.05.2017, controdeducendo che ai sensi dell’art. 74
(“Fp6 zona delle dune e della spiaggia”) delle N.T.A.
del P.R.G. –che espressamente disciplina sia le aree
private, sia le aere demaniali- nella zona Fp6 non sono
ammesse opere stabili come la sbarra sorretta da pilastrini,
né la copertura di un sentiero naturale in terra battuta con
misto granulometrico calcareo in quanto “nella zona Fp6 sono
consentiti soltanto interventi con applicazione di tecniche
naturalistiche volti a ristabilire l’equilibrio delle dune e
dello specifico habitat dunale.
Nella spiaggia lungo il litorale sono ammesse solo attività
per la diretta fruizione del mare che non comportino
installazioni o impianti stabili, al fine di garantire
l’azione eolica di ripascimento delle dune.
Nelle aeree di proprietà privata ricadenti in zona Fp6 sono
ammesse destinazioni d’uso relative a giardini e verde
privato, purché compatibili con le finalità e gli interventi
della zona Fp6”.
...
2. Il ricorso è fondato solo in parte, nei limiti e nei
sensi di seguito spiegati.
In primo luogo, ritiene il Collegio che, contrariamente a
quanto sostenuto da parte ricorrente, l’attività edilizia
privata all’interno delle aree demaniali –come quella
contestata nel caso in esame- è soggetta alla disciplina di
cui al D.P.R. 380 del 2001: in tal senso dispone l’art. 8
(“Attività edilizia dei privati su aree demaniali”) e, ancor
prima, l’art. 31, comma 3, della legge 17.08.1942, n.
1150.
In materia edilizia, infatti, per le opere eseguite da
privati in aree del demanio marittimo sono necessari sia
l'autorizzazione demaniale sia il permesso di costruire
assolvendo i due provvedimenti a diverse finalità di tutela
in quanto la prima è diretta a salvaguardare gli interessi
pubblici connessi al demanio marittimo, mentre il secondo ha
la funzione di consentire all'ente locale di esercitare il
controllo urbanistico del territorio (Cassazione penale sez.
III, 04.12.2013 n. 5461).
La mancanza di titolo edilizio di un manufatto realizzato
sulla base delle sole concessioni demaniali, quindi,
comporta la configurazione dell’opera come abusiva ai fini
urbanistico-edilizi.
Conformemente a ciò, la concessione demaniale marittima n.
520/2014, rilasciata dall’A.R.T.A. a favore dell’odierno
ricorrente “allo scopo di ripristinare un piccolo spiazzo e
una stradella esistente presso ex casello ferroviario”,
all’art. 2 dispone che “il concessionario non potrà
iniziare i lavori autorizzati con il presente provvedimento,
se prima non avrà ottenuto ove pertinente:
a) la concessione edilizia comunale;
b) il nulla osta ai fini paesaggistici e d ambientali ove
prescritto (…):
c) nulla osta ai fini sismici (…);
2-bis) tutte le autorizzazioni, nulla osta, licenze previste
dalle leggi vigenti ancorché non espressamente richiamate
(…)”.
Nel caso di specie, risulta dal preambolo della concessione
stessa che il ricorrente ha ottenuto i pareri favorevoli
dell’Agenzia delle Dogane, del competente Ufficio del Genio
civile, della competente Soprintendenza BB.CC.AA. e della
Capitaneria di Porto; il Comune di Alcamo invece si era
espresso sfavorevolmente con nota n. 37666 del 29.07.2014, quanto agli aspetti strettamente urbanistici -che
soltanto a tale Ente sono attribuiti- invocando l’art. 74
delle NTA disciplinante la ZTO Sp6, come ostativo
all’intervento di rifacimento della stradella perché
ritenuta non esistente come manufatto dal 1968, se non sotto
forma di sentiero di fatto con percorso variato e variabile
nel tempo.
Risulta, altresì, che la stradella era stata oggetto di
consolidamento per consentirne il transito da parte dei
mezzi di trasporto per lavori edili da eseguirsi
nell’immobile dell’odierno ricorrente in forza di
concessione demaniale marittima temporanea n. 33/2009 per la
durata di soli quattro mesi e con obbligo di ripristino alla
scadenza; la successiva richiesta di mantenimento della
predetta stradina veniva respinta dall’Assessorato regionale
con nota n. 40914 del 21.06.2011.
La rimessione al pristino stato antecedente alla concessione
demaniale temporanea n. 33/2009 avvenne ad opera di altri
proprietari di immobili siti nella zona alla quale il
ricorrente si oppose instaurando un giudizio possessorio
innanzi al G.O. ottenendo in quella sede, in via
provvisoria, l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi
così come modificato in forza della concessione demaniale
temporanea n. 33/2009.
La vicenda sottostante all’atto per il quale è lite, dunque,
si protrae già da diversi anni e coinvolge una pluralità di
interessi pubblici, alla cui tutela sono posti enti
distinti.
Se, dunque, l’Assessorato regionale ha ritenuto
discrezionalmente di potere concedere l’area demaniale per
l’uso e con i limiti di cui all’atto n. 520 del 2014, per
quanto sua competenza, ciò ovviamente non esclude che il
Comune, al fine della tutela, di sua esclusiva spettanza,
degli interessi urbanistici-edilizi parimenti coinvolti,
possa essere giunto a valutazioni non favorevoli rispetto
agli interessi legittimi vantati dal privato.
L’ampia istruttoria che ha preceduto l’emanazione degli atti
connessi a quello impugnato, nel corso della quale sono
state analiticamente sviscerate tutte le problematiche
sottostanti nel confronto tra il Comune, l’Assessorato
regionale e il privato interessato odierno ricorrente, a
parere del Collegio esclude che possa configurarsi, in
sostanza, il denunciato vizio formale di violazione delle
norme sulla partecipazione procedimentale, il difetto di
istruttoria e di motivazione (3° motivo).
Resta, quindi, da accertare in quali tipologie di interventi
edilizi vadano ricondotti la realizzazione e/o manutenzione
della stradella e dello spiazzo e il posizionamento della
sbarra di legno, al fine di stabilire quale sia il regime
autorizzatorio di riferimento.
Quanto alla stradella, è evidente che, a prescindere dalla
sua preesistenza al 1968 come tracciato sterrato di fatto,
parte ricorrente ne ha modificato la struttura in forza
della precedente concessione demaniale temporanea del 2009
con intervento che poi è stato dismesso da parte di terzi e
che adesso ha ripristinato in forza della sola concessione
demaniale ottenuta.
Ritiene il Collegio che trattandosi ab origine, e prima
delle modifiche del 2009, di un sentiero sterrato insistente
sul demanio, non sia nemmeno qualificabile come strada
poderale ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6 della l.r. n. 37 del 1985, per la quale non necessita concessione,
autorizzazione, o comunicazione al sindaco.
L’intervento attuato di fatto ha comportato una modifica
stabile e permanente dell’originario assetto dell’area,
caratterizzata dalla presenza di un sentiero e da un spiazzo
in terra battuta, e non da una strada percorribile anche da
automezzi e da uno spazio destinato alla sosta e parcheggio
di autovetture, così come è adesso consentito grazie al tipo
di intervento messo in atto da parte ricorrente in forza
della concessione demaniale marittima n. 520/2009, ma in
assenza del titolo edilizio che avrebbe dovuto essere
previamente richiesto al Comune resistente, al fine di
accertarne la conformità allo strumento urbanistico vigente,
in particolare all’art. 74 delle N.T.A. (“Fp6 zona delle dune
e della spiaggia”).
Riguardo alla spiazzo destinato alla sosta dell’autoveicolo
di parte ricorrente giova precisare che con sentenza della
sezione prima di questo Tribunale n. 2436 del 21.10.2016 il
provvedimento prot. n. 15906 del 07.04.2015 adottato dal
Dirigente del Servizio 5 Demanio Marittimo - Contenzioso
dell'Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente,
Dipartimento Regionale dell'Ambiente -con il quale "ad
integrazione" della concessione demaniale marittima n. reg.
520/2014 rilasciata al ricorrente si determina che l'area
demaniale marittima (mq 65) assentita per uso esclusivo non
potrà essere utilizzata per la sosta di autovetture se non
per il tempo necessario per consentire l'accesso
all'abitazione e lo scarico di merci e di altro- è stato
annullato perché doveva essere adottato dalla stessa
autorità che aveva emanato l’atto di primo grado, dopo aver
dato comunicazione di avvio del procedimento e comunque
seguendo lo stesso iter procedimentale imposto per
l’adozione del provvedimento favorevole su cui si intendeva
incidere e, dunque, per vizi di forma.
In parte qua, perciò, l’atto impugnato è legittimo.
...
Quanto alla sanzione amministrativa della demolizione, ossia
della rimozione delle opere di consolidamento del sentiero e
dello spiazzo in terra battuta al fine della restituzione al
pristino stato, ritiene il Collegio che essa sia stata
correttamente irrogata ai sensi e per gli effetti dell’art.
35 del D.P.R. 380 del 2001.
Ribadito che l'ordine di demolizione per difetto di titolo
edilizio, e non per difetto di titolo autorizzatorio
all'occupazione di suolo demaniale, ricade ai sensi del
predetto l'art. 35 nella competenza provvedimentale ed
esecutiva del Comune, va condivisa, anche riguardo al caso
di specie, la giurisprudenza secondo la quale l’art. 35 del
D.P.R. n. 380 del 2001 -che dispone che qualora sia
accertata la realizzazione di interventi realizzati "sine
titulo" ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo,
su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti
pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell'abuso
la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi- non
prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie poiché trova la
sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta
sanzionata, che riguarda opere abusive su suoli pubblici: la
norma, dunque, non lascia all'ente locale alcun spazio per
valutazioni discrezionali e impone di ordinare la
demolizione a spese del responsabile dell'abuso (TAR
Sicilia, Palermo, sez. II, 23.10.2015, n. 2687; TAR
Campania, Napoli, sez, VII, 10.10.2014, n. 5261; TAR
Liguria, sez. I, 05.06.2014, n. 873; TAR Campania, Salerno,
sez. I, 06/09/2013, n. 1820).
In parte qua, pertanto, il ricorso è infondato e va
rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 28.11.2017 n. 2758 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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