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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di DICEMBRE 2019

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aggiornamento al 31.12.2019 (ore 23,59)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.12.2019 (ore 23,59)

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Legge urbanistica della Lombardia:
ne davamo notizia con l'AGGIORNAMENTO AL 13.08.2018... e la censura della Consulta (puntualmente) è arrivata!!

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASpazi per le moschee e altri luoghi religiosi: la Lombardia ha limitato irragionevolmente la libertà di culto.
La libertà religiosa garantita dall’articolo 19 della Costituzione comprende anche la libertà di culto e, con essa, il diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare. Pertanto, quando disciplina l’uso del territorio, il legislatore deve tener conto della necessità di dare risposta a questa esigenza e non può comunque ostacolare l’insediamento di attrezzature religiose.

È quanto ha stabilito la Corte costituzionale, che con la sentenza 05.12.2019 n. 254 (relatrice Daria de Pretis) ha accolto le questioni sollevate dal TAR Lombardia e, conseguentemente, ha annullato due disposizioni in materia di localizzazione dei luoghi di culto introdotte nella disciplina urbanistica lombarda (l. 12/2005) dalla legge regionale della Lombardia n. 2 del 2015.
La prima (contenuta nell’articolo 72, secondo comma, legge 12/2005) poneva come condizione per l’apertura di qualsiasi nuovo luogo di culto l’esistenza del piano per le attrezzature religiose (PAR). La Corte ha fatto riferimento al carattere assoluto della norma, che riguardava indistintamente tutte le nuove attrezzature religiose a prescindere dal loro impatto urbanistico, e al regime differenziato irragionevolmente riservato alle sole attrezzature religiose e non alle altre opere di urbanizzazione secondaria.
In base alla seconda disposizione dichiarata incostituzionale (articolo 72, quinto comma, secondo periodo), il PAR poteva essere adottato solo unitamente al piano di governo del territorio (PGT). Secondo la Corte, questa necessaria contestualità e il carattere del tutto discrezionale del potere del Comune di procedere alla formazione del PGT rendevano assolutamente incerta e aleatoria la possibilità di realizzare nuovi luoghi di culto.
Le norme censurate finivano così per determinare una forte compressione della libertà religiosa senza che a ciò corrispondesse alcun reale interesse di buon governo del territorio (Corte Costituzionale, comunicato stampa 05.12.2019).
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Nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose; in ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR (piano delle attrezzature religiose) e che per un verso non consente un equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio.
Ciò posto va dichiarata:
   - l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
   - l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.com).
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Considerato in diritto
1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2018 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (sentenza 03.08.2018 n. 1939) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che «[l]’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70». Le attrezzature religiose sono identificate dall’art. 71 della stessa legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
Secondo il TAR, i citati commi 1 e 2 dell’art. 72, nel prevedere che, in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del piano delle attrezzature religiose (di seguito, PAR), i comuni non possano consentire l’apertura di spazi destinati all’esercizio del culto, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera, violerebbero:
   a) l’art. 19 Cost., in quanto la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume verrebbe a essere subordinata alla discrezionale pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico;
   b) l’art. 3 Cost., in quanto le norme censurate eccederebbero lo scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose e assegnerebbero a queste un trattamento discriminatorio rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, con conseguente violazione «dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione»;
   c) l’art. 2 Cost., «stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva».
2.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 172 del 2018, lo stesso TAR Lombardia dubita della legittimità costituzionale del comma 5, secondo periodo, dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera m), e sesto comma, e 118, primo comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale […]. Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT».
Secondo il TAR, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, in base al quale, una volta decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, il PAR è approvato unitamente al nuovo piano per il governo del territorio (di seguito, PGT), senza «alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando […] determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto», violerebbe:
   a) gli artt. 2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione della libertà religiosa dei fedeli, sotto il profilo del loro diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, in quanto, a seguito della inutile decorrenza del termine di diciotto mesi per l’adozione del PAR, la norma non prevede «alcun intervento sostitutivo», e demanda all’amministrazione comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT «senza alcun ulteriore termine» e senza «alcuna disposizione “sanzionatoria”»;
   b) l’art. 97 Cost., in quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa;
   c) l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi);
   d) gli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost., in quanto, una volta decorsi i diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio», con conseguente ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni.
3.– I due giudizi, riguardando norme sotto più profili connesse e sollevando questioni in parte sovrapponibili, vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia.
4.– L’intervento dell’associazione As. di Cantù è avvenuto in entrambi i giudizi oltre il termine previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, in quanto l’atto di intervento è stato depositato il 25.09.2019, ben dopo i venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio, avvenuta il 14.11.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 159 del 2018 e il 05.12.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 172 del 2018. L’intervento è dunque inammissibile in quanto, secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine per l’intervento nei giudizi dinanzi a essa è perentorio (tra le molte, sentenze n. 106, n. 90 e n. 78 del 2019).
5.– Venendo all’esame delle questioni sollevate nella prima causa (reg. ord. n. 159 del 2018), occorre innanzitutto precisare il thema decidendum sottoposto a questa Corte e affrontare i profili processuali.
Il TAR Lombardia censura i primi due commi dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005: il comma 2 perché subordina in modo assoluto l’apertura di luoghi di culto alla previa adozione del PAR; il comma 1 perché, «anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate».
A sostegno delle sue censure il giudice a quo sviluppa per le due disposizioni un’argomentazione unica, articolata in riferimento ai tre parametri invocati. In realtà, le due norme censurate presentano un contenuto differenziato e sono in effetti oggetto di distinte doglianze da parte del TAR, che contesta per un verso la subordinazione dei luoghi di culto alla previa approvazione del PAR (prevista al comma 2) e per altro verso il necessario rispetto della zonizzazione operata nel PAR stesso (prescritto al comma 1). Le censure devono dunque essere distinte anche in relazione all’oggetto, e non solo in relazione al parametro.
5.1.– Precisato ciò,
le questioni relative all’art. 72, comma 1, sono inammissibili per irrilevanza. Il TAR censura infatti il carattere vincolante delle previsioni localizzative del PAR per l’insediamento di qualsivoglia nuova attrezzatura religiosa, ma, nel caso oggetto del giudizio a quo, il PAR non risulta adottato, con la conseguenza che al giudizio stesso è estraneo il tema –anche logicamente, oltre che fattualmente, subordinato al tema della previa esistenza del PAR– della necessaria conformità alla zonizzazione del piano e dunque in esso non viene in rilievo la questione di costituzionalità della norma che la prescrive (art. 72, comma 1).
5.2.– Passando alle questioni proposte con riferimento all’art. 72, comma 2, occorre esaminare, in primo luogo, l’eccezione di irrilevanza sollevata dalla Regione, secondo la quale, mentre il TAR censura la sproporzione tra l’obbligo generalizzato previsto dalla norma, che impone l’esistenza del PAR come condizione per l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa, e le ipotesi in cui questa consista per esempio in una piccola sala di preghiera, il giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di culto potenzialmente frequentabile da un numero non determinato di fedeli e destinato a incidere in modo rilevante e permanente sul tessuto urbano.
L’eccezione non è fondata.
Anche senza entrare nel merito del presupposto di fatto dell’eccezione (cioè, l’asserita rilevante consistenza della dimensione dell’immobile oggetto del giudizio a quo), si deve osservare che il TAR non censura l’art. 72, comma 2, solo nella parte in cui si applica ai luoghi di culto di dimensioni modeste, ma chiede una pronuncia ablativa dell’intera disposizione. Il riferimento all’applicazione della norma anche alle «modeste sale di preghiera» è diretto a mettere in evidenza gli effetti irragionevoli della norma stessa, non a limitare il petitum. L’effettiva consistenza della struttura oggetto del giudizio a quo non è dunque significativa ai fini della rilevanza delle questioni.
Complessivamente, la motivazione del TAR sulla rilevanza risulta adeguata. Il giudice a quo censura l’art. 72, comma 2, cioè esattamente la norma posta alla base del provvedimento di annullamento d’ufficio, impugnato nel giudizio a quo. Si sofferma inoltre espressamente sugli effetti della sopravvenuta legge della Regione Lombardia 25.01.2018, n. 5 (Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge), che ha abrogato la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, argomentando in modo plausibile sulla permanenza della rilevanza delle questioni.
Si può osservare, infine, che la parte dell’atto di rimessione in cui si sollevano le questioni di legittimità costituzionale ha una propria autonomia e delinea in modo chiaro le questioni stesse, mettendone in evidenza la rilevanza ai fini della decisione del quinto motivo di ricorso (l’unico non deciso dal rimettente). Non rilevano dunque in questa sede eventuali profili di non coerenza fra la parte dell’atto di rimessione che solleva le questioni e altri capi della pronuncia in cui vengono respinti gli altri motivi di ricorso, in alcuni casi applicando le disposizioni che il TAR ha poi sottoposto al giudizio di questa Corte.
6.– Nel merito,
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, proposta in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost., è fondata.
È opportuno, innanzitutto, ricordare la cornice costituzionale in cui si inserisce l’oggetto dei presenti giudizi.
La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile (sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato «al massimo grado» (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità» (sentenza n. 67 del 2017).
Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario del culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza (sentenze n. 63 del 2016, n. 195 del 1993 e n. 59 del 1958).
La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del 2017) e comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio (essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo –in applicazione del citato principio di laicità– esso implica che le amministrazioni competenti prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose; in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del 2016, n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993).
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto, il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione» (sentenza n. 63 del 2016).
6.1.– Il quadro costituzionale descritto ha trovato attuazione nella normativa, sia statale che di molte regioni, che garantisce la previsione di adeguati spazi per i luoghi di culto per l’esercizio della libertà religiosa.
Quanto alla disciplina statale, è sufficiente ricordare che, in base all’art. 3 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), i luoghi di culto rientrano tra le «attrezzature di interesse comune» che devono essere previste dagli strumenti urbanistici al fine di soddisfare gli standard fissati dallo stesso decreto. Inoltre, l’art. 16, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ha confermato che gli oneri di urbanizzazione secondaria riguardano anche «chiese e altri edifici religiosi».
A livello regionale, negli anni Ottanta e Novanta molte regioni hanno dettato norme dirette a riservare alle attrezzature religiose un trattamento differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al fine di agevolarne la realizzazione, in particolare con la previsione di contributi finanziari (regionali e comunali) e con l’innalzamento della dotazione minima richiesta dalla disciplina statale (così, fra le altre: legge della Regione Liguria 24.01.1985, n. 4, recante «Disciplina urbanistica dei servizi religiosi»; legge della Regione Piemonte 07.03.1989, n. 15, recante «Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad attrezzature religiose. Utilizzo da parte dei Comuni del fondo derivante dagli oneri di urbanizzazione»; legge della Regione Campania 05.03.1990, n. 9, recante «Riserva di standard urbanistici per attrezzature religiose»).
6.2.– In questo filone si inseriva anche la legge della Regione Lombardia 09.05.1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi), che riservava alle attrezzature religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse comune e prevedeva, fra l’altro, che in ciascun comune almeno l’8% delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla loro realizzazione e manutenzione. Poiché tuttavia tali contributi erano riservati alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose dotate di intesa, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione che li prevedeva, nella parte in cui prescriveva il requisito dell’intesa (sentenza n. 346 del 2002).
La successiva legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), disciplinava poi, agli artt. da 70 a 73, la realizzazione di attrezzature religiose, stabilendo che esse sarebbero state regolate, insieme alle altre attrezzature di interesse pubblico, dal piano dei servizi. Tale normativa è stata oggetto, a partire dal 2006, di varie modifiche, che hanno progressivamente sottoposto l’apertura di luoghi di culto a controlli e limiti sempre più penetranti.
La prima modifica è stata apportata con la legge della Regione Lombardia 14.07.2006, n. 12 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 «legge per il governo del territorio»), che ha assoggettato a permesso edilizio i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza opere, «finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali» (art. 52, comma 3-bis, aggiunto alla legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
Una nuova restrizione è stata introdotta dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», che, aggiungendo il comma 4-bis nell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, ha limitato le zone in cui potevano essere realizzate le attrezzature religiose fino all’approvazione del piano dei servizi.
La successiva legge regionale 21.02.2011, n. 3 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2011), ha poi allargato la nozione di attrezzature religiose, comprendendovi «gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali» (art. 71, comma 1, lettera c-bis, aggiunta alla legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
È infine intervenuta la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, oggetto del presente giudizio, che ha dettato una complessa disciplina in materia di attrezzature religiose, modificando l’art. 70 e sostituendo l’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La disciplina del 2015 è stata impugnata, in alcune sue parti, dal Governo, e questa Corte ha deciso il ricorso con la sentenza n. 63 del 2016, fra l’altro dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 70, commi 2-bis (nella parte in cui fissava alcuni requisiti solo per le confessioni non cattoliche senza intesa) e 2-quater (che istituiva la consulta regionale), e l’art. 72, comma 4, primo periodo (che prevedeva i pareri relativi ai profili di sicurezza pubblica, nel corso del procedimento di formazione del PAR), e comma 7, lettera e) (che richiedeva un impianto di videosorveglianza negli edifici di culto), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La sentenza n. 63 del 2016 non si è pronunciata nel merito sulle norme qui in esame, poiché i commi 1 e 2 dell’art. 72 non erano stati impugnati dal Governo e l’art. 72, comma 5, è stato oggetto di una pronuncia di manifesta inammissibilità.
6.3.– Così illustrato il contesto di riferimento, si possono ora esaminare le questioni sollevate dal giudice rimettente.
La disposizione censurata (art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015) subordina l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR (atto separato facente parte del piano dei servizi), che rappresenta a sua volta una novità introdotta dalla stessa legge reg. Lombardia n. 2 del 2015.
Occupandosi della potestà legislativa regionale in tema di edilizia di culto, questa Corte ne ha già chiarito finalità e limiti, affermando che «[l]a legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del 1993)» (sentenza n. 63 del 2016). In questo contesto «la Regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure» (sentenza n. 67 del 2017). Nell’esercizio delle sue competenze, tuttavia, il legislatore regionale «non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione», non essendogli consentito in particolare di introdurre «all’interno di una legge sul governo del territorio […] disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione» (sentenza n. 63 del 2016).
In sintesi dunque, nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Questa Corte non può non rilevare infatti che tale soluzione legislativa per un verso non consente un equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.
A questo riguardo viene in evidenza innanzitutto il carattere assoluto della previsione, che riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato, dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e potenzialmente irrilevante. L’effetto di tale assolutezza è che anche attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera privata di una comunità religiosa), devono essere preventivamente localizzate nel PAR, e che, per esempio, i membri di un’associazione avente finalità religiosa non possono riunirsi nella sede privata dell’associazione per svolgere l’attività di culto, senza una specifica previsione del PAR. Al contrario, qualsiasi altra attività associativa, purché non religiosa, può essere svolta senz’altro nella sede sua propria, liberamente localizzabile sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni urbanistiche. In questa prospettiva, la potenziale irrilevanza urbanistica di una parte almeno delle strutture investite dalla previsione contestata rende evidente l’esistenza di un obiettivo ostacolo all’insediamento di nuove strutture religiose.
Va sottolineato inoltre il regime differenziato che, a dispetto dello specifico riconoscimento costituzionale –sopra ricordato– del diritto di disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per esempio scuole, ospedali, palestre, centri culturali. Si tratta in tutti i casi di impianti di interesse generale a servizio degli insediamenti abitativi che, in maniera non diversa dalle attrezzature religiose, possono presentare maggiore o minore impatto urbanistico in ragione delle loro dimensioni, della funzione e dei potenziali utenti. Il fatto che il legislatore regionale subordini solo le attrezzature religiose al vincolo di una specifica e preventiva pianificazione indica che la finalità perseguita è solo apparentemente di tipo urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della disciplina è invece in realtà quello di limitare e controllare l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro consistenza, dalla semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.
In conclusione,
la compressione della libertà di culto che la norma censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost.
7.– Passando a esaminare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, occorre soffermarsi in primo luogo sulle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione Lombardia.
7.1.– Secondo la Regione Lombardia, la questione è irrilevante innanzitutto perché l’atto impugnato davanti al giudice rimettente non farebbe riferimento alla previsione censurata (art. 72, comma 5), che non troverebbe dunque applicazione nel giudizio a quo.
Sebbene sia vero che l’atto impugnato non menziona l’art. 72, comma 5, e che esso si pronuncia su un’osservazione presentata nel procedimento di approvazione del PGT, l’eccezione di irrilevanza non è fondata. Il TAR infatti non si limita a contestare la discrezionalità delle scelte urbanistiche affidate ai comuni in relazione al quando deliberare sulle istanze di individuazione di un luogo di culto, ma precisa espressamente che, nel caso di specie, viene in rilievo il secondo periodo dell’art. 72, comma 5, e la necessità, in esso prevista, che il PAR venga approvato «unitamente al nuovo PGT», con la conseguenza che resterebbero incerti e aleatori i tempi di risposta sull’istanza degli interessati, dato che, secondo il TAR, «l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di revisione del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto». E, in effetti, il baricentro delle questioni sollevate è proprio quello della necessaria approvazione del PAR contestualmente al nuovo PGT.
Ciò precisato, la motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle questioni investe due distinti profili.
Innanzitutto, è valorizzato il fatto che nel primo dei motivi aggiunti la ricorrente in due punti lamenta l’illegittimità del diniego perché, nella sua parte finale, la delibera impugnata afferma che «ogni determinazione in tal senso sarà oggetto di successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro aggiornamento del PGT», come prescritto proprio all’art. 72, comma 5, secondo periodo. In secondo luogo, dopo aver affermato che l’art. 72, comma 5, vigente dal 2015, trova applicazione nel procedimento oggetto del giudizio a quo (iniziato con un’osservazione al PGT presentata nel 2011), il TAR osserva che, in base all’art. 72, comma 5, secondo periodo, «senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio rimane senza tutela la posizione dell’Associazione: in tal senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel caso di specie».
Secondo il rimettente, pertanto, da un lato la legittimità dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, condiziona la legittimità del rinvio, operato dal provvedimento impugnato, al futuro aggiornamento del PGT, dall’altro la questione è comunque rilevante perché il Comune non avrebbe potuto accogliere l’istanza senza avviare il procedimento per il nuovo PGT, a causa del vincolo discendente dall’art. 72, comma 5, secondo periodo.
La motivazione fornita sulla rilevanza è dunque sufficiente e plausibile.
7.2.– La seconda eccezione di inammissibilità è sviluppata dalla Regione Lombardia nella memoria depositata il 30.09.2019, nella quale lamenta che, «non motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la loro priorità logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la proposizione del dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
In realtà il TAR rimettente afferma espressamente, basandosi sull’ordine dei motivi aggiunti fissato dalla stessa ricorrente, che la seconda censura può essere esaminata solo dopo aver deciso sulla prima, e poi argomenta (come appena visto) sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa all’art. 72, comma 5, ai fini della decisione del primo dei motivi aggiunti.
È comunque il caso di ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non è sindacabile l’ordine di esame delle questioni seguito dal rimettente, qualora esso si sviluppi in modo non implausibile (ad esempio, sentenze n. 120 del 2019 e n. 125 del 2018).
Nemmeno questa eccezione, dunque, è fondata.
8.– Nel merito,
anche la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., è fondata.
Come visto, la norma censurata stabilisce che, decorso il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, il PAR «è approvato unitamente al nuovo PGT», il che significa che –come del resto precisato, con riferimento alla previsione in esame, anche nella circolare n. 3 del 20.02.2017, recante gli indirizzi per l’applicazione della suddetta legge regionale– il PAR non può essere approvato «separatamente da un nuovo strumento di pianificazione urbanistica (PGT o variante generale)».
Seguendo un modello diffuso nella legislazione urbanistica regionale più recente, anche il legislatore regionale lombardo ha previsto un piano urbanistico comunale, denominato PGT, che si articola in tre atti: documento di piano, piano dei servizi e piano delle regole (art. 7 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Il documento di piano ha un contenuto ricognitivo-conoscitivo e determina gli obiettivi e le politiche di sviluppo del territorio. Esso ha validità quinquennale ed è sempre modificabile (art. 8 della citata legge regionale). Il piano dei servizi serve ad assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 9 della stessa legge regionale). Infine, il piano delle regole ha i diversi contenuti indicati nell’art. 10 della legge regionale in questione, e anch’esso non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 10, comma 6). Il complesso procedimento di approvazione degli atti costituenti il PGT è regolato dall’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; la stessa disciplina si applica «anche alle varianti agli atti costituenti il PGT» (art. 13, comma 13).
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio. Secondo le regole generali, infatti, la realizzazione di un impianto di interesse pubblico che richieda la modifica delle previsioni di piano si può tradurre in una semplice variante parziale. E comunque, quand’anche la previsione del nuovo impianto possa richiedere una riconsiderazione dell’intero ambito interessato, la valutazione in concreto dell’impatto della nuova struttura sul contesto circostante spetterebbe in via esclusiva al comune. La previsione ad opera della legge regionale della necessaria e inderogabile approvazione del PAR unitamente all’approvazione del piano che investe l’intero territorio comunale (il PGT o la sua variante generale) è dunque ingiustificata e irragionevole, e tanto più lo è in quanto riguarda l’installazione di attrezzature religiose, alle quali, come visto, in ragione della loro strumentalità alla garanzia di un diritto costituzionalmente tutelato, dovrebbe piuttosto essere riservato un trattamento di speciale considerazione.
È significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 non solo non esiga la variante generale del PGT ma non richieda neppure sempre la procedura di variante parziale, visto che «[l]a realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed e` autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale» (art. 9, comma 15, della citata legge regionale).
Anche nel caso dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, si deve concludere che
la disposizione censurata determina una limitazione dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali esigenze di buon governo del territorio e che essa, dunque, comprimendo in modo irragionevole la libertà di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 Cost.
9.– A seguito dell’accoglimento delle censure esaminate, le questioni riferite all’art. 97, all’art. 117, secondo comma, lettera m), e agli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. restano assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
   1) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dall’Associazione culturale As. di Cantù nei giudizi indicati in epigrafe;
   2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
   3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
   4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018 (Corte Costituzionale, sentenza 05.12.2019 n. 254).

STRADE:
pubbliche sì, pubbliche no...

EDILIZIA PRIVATA: Che una via sia inserita nell’elenco delle strade ad uso pubblico e che sia dotata di illuminazione e di sottoservizi tali circostanze, come è noto, costituiscono una mera presunzione di pubblicità dell'uso di cui è possibile fornire prova contraria.
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Come chiarito dalla giurisprudenza, l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal privato sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimità del provvedimento impugnato, mentre si è fuori dalla giurisdizione del giudice amministrativo se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che si assume illegittimo, si configuri solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio, che consegue a tale affidamento.
Ciò vale anche in ipotesi di giurisdizione esclusiva nelle quali, come nel caso di specie, il soggetto leso denuncia una lesione della sua integrità patrimoniale derivante dall’affidamento incolpevole sulla legittimità dell’attribuzione favorevole ritenuta illegittima, che dà luogo ad una situazione soggettiva, che si ritiene lesa, qualificabile come diritto soggettivo, rispetto alla quale il comportamento che si assume lesivo dell’Amministrazione non consiste nella sola illegittimità dell’agire, ma nella violazione del principio generale del neminem laedere.
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I ricorrenti sono proprietari di un terreno nel Comune di San Martino di Venezze a lato di una strada denominata via Trento, per il quale hanno ottenuto il permesso di costruire n. 52/2008 del 07.10.2008, per la realizzazione di un’abitazione unifamiliare.
Tale abitazione non è stata costruita perché un vicino, sostenendo di essere proprietario esclusivo del tratto terminale di via Trento, ha impedito ai ricorrenti l’accesso al proprio fondo.
I ricorrenti con nota del 28.08.2012, hanno chiesto al Comune di intervenire per rendere accessibile la strada, sostenendo che la stessa è pubblica o quantomeno ad uso pubblico.
Il Segretario comunale con nota prot. n. 7533 del 05.12.2012 ha respinto l’istanza rilevando che la porzione di strada oggetto di contestazione è del controinteressato e che la stessa non ha le caratteristiche per poter essere definita d’uso pubblico.
Tale provvedimento non è stato impugnato.
Successivamente i ricorrenti con atto di diffida del 26.07.2017, hanno quindi chiesto nuovamente al Comune il ripristino in via d’urgenza dell’uso pubblico della strada, per consentire la prosecuzione dei lavori sul proprio fondo e per recuperare al pubblico accesso e transito la via.
Il Comune, previa acquisizione di un parere legale, con decreto sindacale n. 10 del 16.10.2017, ha risposto in senso negativo alla richiesta, riconfermando in sostanza le argomentazioni già illustrate nella precedente nota del 2012.
Con il ricorso in epigrafe tale provvedimento è impugnato con un unico ed articolato motivo con il quale i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 15 del D.L.L. 01.09.1918, n. 1446, dell’art. 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. F, il difetto e la falsità di presupposti, la contraddittorietà rispetto a precedenti comportamenti dell’Amministrazione e lo sviamento.
Inoltre, con domanda di risarcimento, i ricorrenti pretendono il ristoro dei danni causati dal ritardo del Comune nel rilascio del provvedimento di autotutela possessoria o comunque di apprensione del bene per l’ipotesi di accoglimento del ricorso, ovvero da mancata realizzazione dell’immobile, in caso di reiezione del ricorso, per la lesione dell’affidamento indotto dall’Amministrazione all’atto di rilascio del permesso di costruire assentito, in modo illegittimo, nonostante l’inesistenza di una via di accesso al fondo.
Per quanto riguarda la domanda di annullamento in particolare i ricorrenti lamentano che erroneamente il Comune ha rifiutato di esercitare i propri poteri in ordine al ripristino della viabilità pubblica sulla strada ad uso pubblico, e che ciò avrebbe dovuto fare sulla base della semplice circostanza che la predetta strada risulta iscritta nell’elenco delle strade di uso pubblico del Comune, che costituisce una presunzione di demanialità.
...
L’eccezione di difetto di giurisdizione deve essere respinta.
Nel caso in esame il petitum sostanziale è la verifica di legittimità del provvedimento con il quale il Comune ha respinto l’istanza di esercizio dei poteri di autotutela possessoria in tema di strade al fine di garantirne il libero transito alla generalità delle persone, con richiesta di un accertamento solamente incidentale e senza efficacia di giudicato della proprietà della strada ai sensi dell’art. 8 cod. proc. amm. (ex pluribus cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 04.07.2019, n. 1530; Consiglio di Stato, Sez. V, 16.10.2017, n. 4791; Tar Campobasso, Sez. I, 19.05.2016, n. 212), diversamente da quanto accaduto nei precedenti giurisprudenziali richiamati nelle difese del Comune (cfr. Tar Veneto, Sez. I, 28.02.2019, n. 250) in cui il soggetto che si proclamava proprietario della strada agiva nei confronti del Comune non per la verifica del corretto esercizio dei poteri amministrativi, ma sostanzialmente con un’azione di negatoria servitutis.
Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Infatti è vero che via Trento è inserita nell’elenco delle strade ad uso pubblico ed è dotata di illuminazione e di sottoservizi. Tuttavia tali circostanze, come è noto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.10.2018, n. 5820; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 12.07.2016, n. 7967), costituiscono una mera presunzione di pubblicità dell'uso di cui è possibile fornire prova contraria.
Nel caso di specie va osservato che effettivamente, come già documentato dal Comune nel provvedimento, analogo a quello impugnato in questa sede, del Segretario comunale prot. n. 7533 del 05.12.2012 (cfr. doc. 5 allegato alle difese del Comune) e allora non impugnato, vi sono una pluralità di elementi che depongono nel senso dell’insussistenza dei requisiti propri dell’uso pubblico del tratto di strada oggetto di contestazione.
Infatti il predetto tratto di strada di proprietà del controinteressato che in origine costituiva l’area cortilizia pertinenziale della sua abitazione, è stato delimitato da un cancello in tempi non recenti, e il Comune, quando nel 2008 ha realizzato delle opere di urbanizzazione sulla strada, ha acquisito il sedime della stessa esclusivamente con riguardo alle aree comprese nel Foglio 14, mappale n. 39, di mq 1030, che corrisponde al tratto iniziale della strada, con espressa esclusione del terreno di proprietà del controinteressato delimitato dal cancello (cfr. la deliberazione della Giunta comunale n. 21 del 05.03.2008 contenente disposizioni di indirizzo per l’acquisizione della strada, la deliberazione della Giunta comunale n. 36 del 04.04.2008 avente ad oggetto l’approvazione dell’elenco dei proprietari e l’atto di determinazione dell’indennità nonché il provvedimento dirigenziale prot. n. 3524 del 20.05.2008, di acquisizione, di cui ai docc. nn. 6, 7 e 8 allegati alle difese del Comune).
Peraltro la circostanza che il predetto tratto di strada sia delimitato da un cancello fin da epoca risalente (almeno dal 2010 per ammissione degli stessi ricorrenti; il Comune sostiene invece che la chiusura risale almeno al 2008, come attestato da una lettera dei ricorrenti del 2011 in cui affermano di aver potuto realizzare le fondazioni del fabbricato attraverso un accesso provvisorio da nord, ammettendo in tal modo implicitamente che il passaggio dal fondo del controinteressato gli era precluso) impedisce di configurare nella fattispecie un acquisito per usucapione da parte del Comune, e denota l’insussistenza dei requisiti necessari per poter affermare l’esistenza del transito da parte di chiunque e il protrarsi dello stesso per lungo periodo, come specificato dal provvedimento del Segretario comunale prot. n. 7533 del 05.12.2012, non impugnato, con cui era stata respinta un’istanza analoga a quella che ha dato luogo all’adozione del provvedimento impugnato in questa sede (cfr. doc. 5 allegato alle difese del Comune).
Pertanto, poiché allo stato si deve ritenere che la strada pubblica termini proprio al confine con il terreno dei controinteressati nel punto delimitato dal cancello, il provvedimento del Comune si rivela immune dai vizi dedotti dalla parte ricorrente, con conseguente reiezione del ricorso nella sua parte impugnatoria.
Quanto alle due domande di risarcimento proposte, la prima deve essere respinta, la seconda, come indicato alle parti nel corso dell’udienza pubblica ai sensi dell’art. 73 cod. proc. amm., deve essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione.
Infatti la prima domanda di risarcimento è espressamente proposta per l’ipotesi di accoglimento del ricorso, ed ha ad oggetto la richiesta di ristorare i danni subiti a causa del ritardo con il quale il Comune è intervenuto ad esercitare i propri poteri di autotutela possessoria sulla strada al fine di garantirne il libero transito alla generalità delle persone che, come sopra chiarito, il Comune ha invece legittimamente rifiutato di esercitare.
La seconda domanda, proposta per l’ipotesi di reiezione del ricorso, è volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti per aver confidato nella legittimità del permesso di costruire rilasciato nel 2008 che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, deve invece considerarsi illegittimo in quanto il Comune in quella sede non avrebbe verificato l’esistenza di un accesso al lotto dalla pubblica via.
Rispetto a tale domanda il Comune sostiene di non essere tenuto a svolgere tale tipo di verifiche, perché non può negare il rilascio del permesso di costruire per la mancanza di un accesso dalla pubblica via, potendo supplire al problema l’eventuale costituzione di una servitù coattiva di passaggio in favore del fondo intercluso.
Orbene, la domanda risarcitoria, così formulata, esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo.
Infatti come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. Un., id. 04.09.2015, n. 17586; id. 22.05.2017, n. 12799; id., 23.01.2018, n. 1654; id., 24.09.2018, n. 22435; id. 13.12.2018, n. 32365) l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal privato sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimità del provvedimento impugnato, mentre si è fuori dalla giurisdizione del giudice amministrativo se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che si assume illegittimo, si configuri solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio, che consegue a tale affidamento.
Ciò, ha inoltre chiarito la sopra citata giurisprudenza, vale anche in ipotesi di giurisdizione esclusiva nelle quali, come nel caso di specie, il soggetto leso denuncia una lesione della sua integrità patrimoniale derivante dall’affidamento incolpevole sulla legittimità dell’attribuzione favorevole ritenuta illegittima, che dà luogo ad una situazione soggettiva, che si ritiene lesa, qualificabile come diritto soggettivo, rispetto alla quale il comportamento che si assume lesivo dell’Amministrazione non consiste nella sola illegittimità dell’agire, ma nella violazione del principio generale del neminem laedere.
In definitiva pertanto il ricorso deve essere in parte respinto ed in parte dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.11.2019 n. 1284 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte di Cassazione ha costantemente affermato “…che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, poiché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione”.
La giurisdizione del giudice amministrativo non può radicarsi in forza dell'articolo 133, comma 1, lett. f) cpa, poiché tale giurisdizione presuppone che l'amministrazione abbia agito con atti idonei a influire sullo statuto proprietario, determinando l'affievolimento dei diritti soggettivi in interessi legittimi, circostanza che non è riscontrabile nel caso di specie ove è stato assunto un atto di natura meramente dichiarativa.
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Una controversia circa il riconoscimento del diritto di uso pubblico su una strada privata è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario poiché –come già rilevato– investe l'accertamento dell'esistenza e dell’estensione di diritti soggettivi dei privati o della pubblica amministrazione, senza che a tale conclusione possa frapporsi l'esistenza di un formale atto di classificazione della strada.
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FATTO
A. I ricorrenti sono comproprietari di un appartamento nel condominio Is., che insiste in Via X giornate, strada interclusa classificata di uso pubblico. Riferiscono in punto di fatto che in corrispondenza del n. civico 14, l’arteria si allarga, e il tratto viene utilizzato dai residenti sia come parcheggio sia per consentire le manovre di inversione di marcia.
B. Rappresentano che, malgrado ciò, nell’autunno 2011 soggetti terzi hanno posizionato cavalletti e catene presso lo slargo al termine della strada.
C. La diffida trasmessa al Comune restava senza riscontro, cosicché il 24/1/2012 veniva depositata un’istanza di accesso agli atti amministrativi. Con nota 26/03/2012 l’amministrazione:
   - informava dell’assenza sia di pratiche o istanze per collocare paletti o strutture sulla strada sia di ordinanze o atti autorizzatori che assentissero gli interventi in corso;
   - precisava però che Via X Giornate sarebbe stata dichiarata strada privata ad uso pubblico, ad eccezione dello slargo posto al termine stessa.
D. Sostengono gli esponenti che il titolo abilitativo rilasciato ai controinteressati nel 1975 recava la prescrizione di arretrare il fabbricato in costruzione e il muro di recinzione per lasciare uno spazio sufficiente a creare uno slargo di manovra per l’utilizzo collettivo (cfr. parere della Commissione edilizia nella seduta del 19/11/1974 – doc. 6 e 7). La vocazione dei beni all’uso pubblico sarebbe stata confermata nelle tavole di azzonamento del PGT, poiché le aree sono comprese nel sistema viario pubblico (doc. 12, 13 e 14).
E. Dopo l’instaurazione del contraddittorio, con l’atto impugnato (doc. 1) l’Ente locale ha preso atto che Via X giornate è privata ad uso pubblico e soggetta a pubblico transito, ma lo slargo corrispondente al civico ... –individuato tra il mappale 265 (area di sedime stradale) e 532 (porzione appartenente ai Sigg.ri Pa.)– è di proprietà esclusivamente privata, come si desume dall’estratto di mappa.
...
DIRITTO
I ricorrenti censurano il provvedimento della Giunta comunale che ha qualificato il tratto della strada denominata Via X Giornate.
0. Nella memoria conclusionale la parte controinteressata ha dedotto il difetto di giurisdizione del giudice adito sulle questioni inerenti all’accertamento della proprietà (pubblica o privata) di una strada o all’esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata.
La prospettazione è condivisibile.
0.1 Come evidenziato da TAR Lombardia Milano, sez. II – 19/07/2018 n. 1767, la Corte di Cassazione ha costantemente affermato “…che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, poiché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione (Cass. civ., SS.UU., 23.12.2016, n. 26897; Id., 27.01.2010, n. 1624)”.
La giurisdizione del giudice amministrativo non può radicarsi in forza dell'articolo 133, comma 1, lett. f) cpa, poiché tale giurisdizione presuppone che l'amministrazione abbia agito con atti idonei a influire sullo statuto proprietario, determinando l'affievolimento dei diritti soggettivi in interessi legittimi, circostanza che non è riscontrabile nel caso di specie ove è stato assunto un atto di natura meramente dichiarativa.
0.2 Anche se la domanda proposta con il ricorso introduttivo è formalmente intesa all'annullamento di un provvedimento amministrativo, il petitum sostanziale ha natura di accertamento petitorio dell'esistenza del diritto di uso pubblico sul tratto finale di Via X Giornate. Gli esponenti radicano una controversia circa il riconoscimento del diritto di uso pubblico su una strada privata, che è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario poiché –come già rilevato– investe l'accertamento dell'esistenza e dell’estensione di diritti soggettivi dei privati o della pubblica amministrazione, senza che a tale conclusione possa frapporsi l'esistenza di un formale atto di classificazione della strada (cfr. TAR Liguria, sez. I – 08/04/2019 n. 315; TAR Campania Napoli, sez. VII – 02/07/2019 n. 3589).
0.3 I principi suesposti sono stati riepilogati anche nella sentenza di questa Sezione 23/10/2017 n. 1268.
0.4 In conclusione, il gravame introduttivo deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, con contestuale declaratoria della giurisdizione del giudice ordinario, dinanzi al quale il giudizio potrà essere riassunto, nei termini e per gli effetti di cui all'art. 11 del Codice del processo amministrativo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.11.2019 n. 970 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATADicatio ad patriam.
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L’accertamento sul carattere pubblico di una strada, a ben vedere, non eccede l’ambito della competenza del giudice amministrativo ove detto carattere costituisca un presupposto del provvedimento contestato, dovendosi rammentare che la giurisdizione s’individua in base alla qualificazione della pretesa azionata, prescindendo dagli accertamenti incidentali su situazioni soggettive di diverso tipo.
Il Collegio non ignora l’orientamento della Cassazione, secondo cui la valutazione in ordine alla contestazione dei provvedimenti di classificazione di una strada –come di proprietà pubblica o dedita all’uso pubblico– è rimessa alla competenza del giudice civile, involgendo pretese di accertamento di un diritto soggettivo; ma, laddove oggetto della controversia non sia il provvedimento di classificazione bensì, come nella fattispecie in esame, altro e diverso provvedimento che ha ordinato al ricorrente di rimuovere l’impedimento frapposto al passaggio, in tal caso è evidente che la decisione sull’impugnazione di tale provvedimento involge l’accertamento della sussistenza di una servitù di uso pubblico, che può essere esperito in via incidentale dal giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 8, comma 1, del codice del processo amministrativo.
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La “dicatio ad patriam” rappresenta un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima.
I presupposti per l’integrazione della dicatio ad patriam consistono, quindi:
   (i) nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone;
   (ii) nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze d’interesse generale;
   (iii) in un titolo valido a costituire il diritto ovvero in un comportamento univoco del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, risulti idoneo a manifestare l’intenzione di porre il bene a disposizione della collettività
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Per consolidato orientamento giurisprudenziale, affinché un’area privata possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, “è necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici …”.
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Come noto, la cd. dicatio ad patriam richiede un comportamento del proprietario del bene che deponga in modo univoco nel senso della spontanea messa a disposizione del bene medesimo a favore di una collettività indeterminata di cittadini.
Quanto alle previsioni contenute negli strumenti urbanistici, ricorda il Collegio come le stesse non possano da sole costituire diritti reali in favore dell’Amministrazione pubblica, con la conseguenza che un’area privata rimane tale anche se lo strumento urbanistico la classifichi come area pubblica o come area destinata ad uso pubblico.
Inoltre, come noto, per dimostrare la sussistenza di una effettiva destinazione del bene all’uso pubblico occorrono una pluralità di interventi pubblici sul bene stesso dai quali desumere che esso è posto a disposizione di tutta la collettività dei consociati.
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MASSIMA
6) In via pregiudiziale, il Collegio ritiene utile chiarire, per dissipare eventuali dubbi sollevati al riguardo dalle difese di parte ricorrente, come la controversia in esame rientri nella giurisdizione del giudice adito.
La situazione giuridica di cui il Condominio chiede tutela, assumendone la lesione ad opera del cattivo esercizio del potere da parte del Comune di Valtravaglia, sfociato nelle impugnate ordinanze nn. 24 e 28 del 2016, è in effetti qualificabile come interesse legittimo.
L’accertamento sul carattere pubblico di una strada, a ben vedere, non eccede l’ambito della competenza del giudice amministrativo ove detto carattere costituisca un presupposto del provvedimento contestato, dovendosi rammentare che la giurisdizione s’individua in base alla qualificazione della pretesa azionata, prescindendo dagli accertamenti incidentali su situazioni soggettive di diverso tipo (cfr. Cons. St., V, 31.8.2017, n. 4141; TAR Lazio, Latina, 22.03.2018, n. 126).
Il Collegio non ignora l’orientamento della Cassazione, secondo cui la valutazione in ordine alla contestazione dei provvedimenti di classificazione di una strada –come di proprietà pubblica o dedita all’uso pubblico– è rimessa alla competenza del giudice civile, involgendo pretese di accertamento di un diritto soggettivo; ma, laddove oggetto della controversia non sia il provvedimento di classificazione bensì, come nella fattispecie in esame, altro e diverso provvedimento che ha ordinato al ricorrente di rimuovere l’impedimento frapposto al passaggio, in tal caso è evidente che la decisione sull’impugnazione di tale provvedimento involge l’accertamento della sussistenza di una servitù di uso pubblico, che può essere esperito in via incidentale dal giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 8, comma 1, del codice del processo amministrativo (cfr. TAR Liguria, II, 29.03.2017, n. 267; TAR Umbria 29.04.2015, n. 191; TAR Lombardia, Brescia, I, 28.04.2014, n. 451).
Nell’ipotesi in esame oggetto principale di contestazione è l’ordinanza n. 24, del 18.07.2016, avente ad oggetto la rimozione della sbarra d’ingresso alla strada Monte Sole, di cui il ricorrente condominio deduce la relativa proprietà in assenza di servitù di uso pubblico. In siffatte evenienze, le contestazioni di legittimità dei provvedimenti adottati sulla base dell’affermazione dell’inesistenza della servitù possono essere conosciute dal giudice amministrativo nei limiti di cui all’art. 8 del c.p.a. e dunque senza effetti di giudicato tra le parti (TAR Lazio, Roma, II-ter 18.12.2018, n. 12336; id., sentenza nr. 9243/2017 e nr. 3634/2017).
7) Passando all’esame del merito, in relazione al primo motivo il Collegio osserva quanto segue.
La giurisprudenza ha da tempo affermato che la “dicatio ad patriam” rappresenta “un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività ‘uti cives’, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima” (cfr. Cons. Stato, IV, 15.03.2018, n. 1662; id., 22.05.2017, n. 2368; id., V, 16.11.2018, n. 6460; nello stesso senso cfr. Cass., II, 14.06.2018, n. 15618; 21.02.2017, n. 4416; I, 11.03.2016, n. 4851; II, 12.08.2002, n. 12167; I, 07.05.1993, n. 5262; SS.UU., 03.02.1988, n. 1072).
I presupposti per l’integrazione della dicatio ad patriam consistono, quindi:
   (i) nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone;
   (ii) nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze d’interesse generale;
   (iii) in un titolo valido a costituire il diritto ovvero in un comportamento univoco del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, risulti idoneo a manifestare l’intenzione di porre il bene a disposizione della collettività (sui diversi profili, cfr., tra le tante, Cons. Stato, V, 22.08.2019, n. 5785; id., 10.09.2018, n. 5286; Cass., SS. UU., n. 1072/1988).
Ciò posto, reputa il Collegio, sulla base di quanto allegato e documentato in atti dalle parti, che non sia stata qui raggiunta, da parte dell’Amministrazione, la prova della destinazione ad uso pubblico della strada Monte Sole.
Difetta, in primo luogo, la prova dell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da parte di una collettività di persone. Ciò che emerge, infatti, sia dalla lettera del Condominio, pervenuta in Comune il 15.04.2010 (allegata sub n. 8 della produzione resistente), che dalla risposta ad essa del Comune del 27.12.2010, è l’uso della strada de qua limitato «alle sole categorie autorizzate per lo svolgimento dei servizi di pubblico interesse (Vigili del Fuoco, Carabinieri, …» o comunque ai «gestori dei pubblici servizi (Comune incluso)» e alle «Autorità di pubblica sicurezza» (cfr. la comunicazione comunale allegata sub n. 9 della produzione resistente).
Per consolidato orientamento giurisprudenziale, invero, affinché un’area privata possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, “è necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.1985, n. 3761)…” (TAR Lombardia, Milano, IV, 05/09/2017, n. 1781; Cons. di Stato, Sez. V, sent. n. 728 del 14/02/2012; TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12/05/2008, n. 1328, per cui: “… l'ubicazione della suddetta strada lascia agevolmente presumere che essa sia stata in realtà utilizzata dai soli comproprietari frontisti; utilizzo questo che, come è noto, non può ritenersi sufficiente a costituire una servitù di uso pubblico o addirittura a rendere pubblica la strada stessa”).
L’uso limitato della strada da parte di proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi è esattamente quanto si riscontra nella fattispecie in esame dove, come comprovato dalle note, allegate dalla stessa parte resistente (cfr., la lettera del 18/11/2013, proveniente dai sigg.ri Ma., Ma. e Bi., tutti residenti in via ... nn. 10, 10/A e 10/B, allegata sub n. 12 della produzione resistente; la lettera del 29.12.2014, proveniente sempre dagli stessi residenti di via ..., allegata sub n. 13 e la lettera del 14.09.2015, dell’Avv. Ro., sempre per conto dei sigg.ri Ma., Ma. e Bi., allegata sub n. 14), richiamate nella stessa ordinanza di rimozione, l’uso della strada è reclamato soltanto da alcuni residenti di via ....
È allora evidente come da tali note non si ricavi affatto un uso della strada Monte Sole ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, bensì un uso uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene che si pretende gravato.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi quanto alla prova della “dicatio ad patriam”, atteso che, ciò che si ricava dalle documentate interlocuzioni fra Comune e Condominio è la volontà di quest’ultimo di assicurare l’accesso e la percorrenza della strada in parola, non già, alla generalità, bensì, ai gestori di pubblici servizi e alle Autorità di pubblica sicurezza.
Come noto, invece, la cd. dicatio ad patriam richiede un comportamento del proprietario del bene che deponga in modo univoco nel senso della spontanea messa a disposizione del bene medesimo a favore di una collettività indeterminata di cittadini (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27/02/2019, n. 1369).
Quanto alle previsioni contenute negli strumenti urbanistici, ricorda il Collegio come le stesse non possano da sole costituire diritti reali in favore dell’Amministrazione pubblica, con la conseguenza che un’area privata rimane tale anche se lo strumento urbanistico la classifichi come area pubblica o come area destinata ad uso pubblico (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 02.02.2015, n. 1881; TAR Toscana, sez. III, 23.12.2014, n. 2149).
Nessun intervento pubblico sulla strada in parola risulta, d’altro canto, documentato da parte resistente, benché, come noto, per dimostrare la sussistenza di una effettiva destinazione del bene all’uso pubblico occorrano una pluralità di interventi pubblici sul bene stesso dai quali desumere che esso è posto a disposizione di tutta la collettività dei consociati (cfr. TAR Lombardia, Milano, 04/06/2019, n. 1275; TAR Valle d'Aosta, 15.03.2016, n. 12).
È incontestato, al riguardo, che la manutenzione della strada è sempre stata effettuata ad opera del Condominio e mai del Comune.
Non risulta, poi, adeguatamente comprovata da parte del Comune neppure l’oggettiva idoneità della strada a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l’esercizio della servitù. Al riguardo, giova osservare che, come indicato nella relazione della Polizia Locale depositata dallo stesso Comune (sub allegato n. 17), la strada che attraversa il Condominio è ad unica carreggiata, priva di marciapiedi ed ha una larghezza media di 5 metri con una pendenza media del 12%. Si tratta di caratteristiche che, come evidenziato da parte ricorrente, lungi dal rivelare un’idoneità all’uso generalizzato della strada, pongono in luce il pericolo per la pubblica incolumità e la sicurezza stradale sotteso all’utilizzo in modo indifferenziato della stessa da parte della collettività.
Non appare, infine, dirimente quanto affermato dal Comune in ordine alla legittimità dell’ordinanza di rimozione della sbarra per pretese ragioni di viabilità, che –a ben vedere- postulano l’esistenza ma non creano un diritto di pubblico passaggio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sentenza citata n. 1257/2019) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 14.10.2019 n. 2145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accertamento in via incidentale dell’esistenza di un uso pubblico su aree di proprietà privata.
Il TAR Brescia affronta il tema dell’ampiezza del potere del giudice amministrativo e ricorda che la giurisprudenza ha chiarito che rientra nella giurisdizione del G.A., ai sensi dell’art. 8 c.p.a. (secondo cui il G.A. stesso può conoscere, seppur solo in via incidentale e senza efficacia di giudicato tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale), l’esame dell’eccezione (di tipo riconvenzionale), avanzata in via incidentale dalla P.A., tendente a far valere l’usucapione su un bene oggetto di una procedura espropriativa, al fine di pervenire ad un’eventuale declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di interesse.
Aggiunge il TAR che è stato anche osservato, sotto altro profilo, che l’accertamento giurisdizionale dell’effettiva esistenza di una servitù di pubblico passaggio su una strada privata compete all’autorità giudiziaria ordinaria, mentre il giudice amministrativo può esercitare, al riguardo, esclusivamente una cognizione incidentale, senza poter fare stato con la propria decisione sulla questione, e al solo e limitato fine di pronunciarsi sulla legittimità della determinazione che forma specifico oggetto di ricorso: quindi il giudice amministrativo può accertare incidenter tantum, ai sensi dell’art. 8 c.p.a., l’esistenza di un uso pubblico consolidato su aree di proprietà privata, laddove tale accertamento sia indispensabile al fine di delibare la legittimità di un provvedimento (come, ad esempio, l’atto di rigetto di un’istanza di rilascio di un titolo edilizio motivato sull’esistenza di un diritto di uso pubblico sull’area su cui ricade l’intervento)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.08.2019 784 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
4.1 Come ha statuito questo TAR nella sentenza della sez. I – 09/10/2018 n. 961 (che non risulta appellata), in base all’art. 11, comma 1, del DPR 380/2001 il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario (Consiglio di Stato, sez. IV – 28/03/2018 n. 1949, il quale ha precisato che “il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818/2014 cit.; in senso conforme, sez. V, 04.04.2012 n. 1990)”.
4.2 L’onere del Comune è dunque quello ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio, senza che l’Ente locale debba comprovare –prima del rilascio– la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo, dato che ciò comporterebbe l’attribuzione all’amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto”, ad essa non assegnato dall’ordinamento.
4.3 Orbene, in linea di diritto, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’Ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici, sicché l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, salvo che sia manifestamente riconoscibile l’effettiva insussistenza della piena disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio in relazione al tipo di intervento richiesto (Consiglio di Stato, sez. VI – 05/04/2018 n. 2121).
Si è tuttavia anche specificato che l’accertamento demandato all’Ente locale va compiuto con “serietà e rigore”, e che “la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili” (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/04/2018 n. 2397).
4.4 Nel caso di specie, l’art. 27 delle NTA al PGT (doc. 16 ricorrenti), nella parte rubricata “Scarichi acque meteoriche” (inizio di pag. 41) dispone che “Nel caso di realizzazione di serre di qualsiasi tipologia, è fatto obbligo all’imprenditore agricolo di provvedere alla richiesta di concessione di scarico all’Ente competente gestore del canale ricettore (Comune o Consorzio di Bonifica). All’istanza dovrà essere allegato apposito studio idrologico, secondo quanto verrà richiesto dall’Ente gestore dei canali”.
Tra i documenti finalizzati al rilascio del permesso di costruire, il Comune era dunque tenuto ad acquisire il nulla osta dell’Ente pubblico preposto alla gestione del canale. L’amministrazione resistente ha correttamente accertato il possesso del titolo autorizzatorio, emesso dal Consorzio di Bonifica Vaso Gattinardo in data 27/03/2013. L’atto predetto (doc. 54 ricorrenti) autorizza Carini Agostino all’attraversamento del vaso precisando che “per quanto riguarda lo scarico pioggia meteorica dovuta alla realizzazione di tunnel per la coltivazione di ortaggi, nella Vs. stessa lettera citate che l’acqua piovana non assorbita dal terreno sarà convogliata in un vaso a sud della proprietà (fg. 11, mappale 29), canale che sfocia nel vaso consorziale. Lo stesso Consorzio precisa di non avere nessuna obiezione a ricevere tali acque, salvo che non vengano lesi diritti dei terzi”.
4.5 A questo punto conviene affrontare il tema dell’ampiezza del potere del giudice amministrativo sulla vicenda. Il C.G.A. Sicilia, con sentenza 14/01/2013 n. 9 (richiamata dalla sentenza della sez. II di questo TAR – 10/06/2014 n. 628), ha chiarito che “Rientra nella giurisdizione del G.A., ai sensi dell’art. 8 c.p.a. (secondo cui il G.A. stesso può conoscere, seppur solo in via incidentale e senza efficacia di giudicato "tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale"), l’esame dell’eccezione (di tipo riconvenzionale), avanzata in via incidentale dalla P.A., tendente a far valere l’usucapione su un bene oggetto di una procedura espropriativa, al fine di pervenire ad un’eventuale declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di interesse”.
E’ stato anche osservato, sotto altro profilo, che l’accertamento giurisdizionale dell’effettiva esistenza di una servitù di pubblico passaggio su una strada privata compete all’autorità giudiziaria ordinaria, mentre il giudice amministrativo può esercitare, al riguardo, esclusivamente una cognizione incidentale (cfr. art. 8, comma 1, CPA), senza poter fare stato con la propria decisione sulla questione, e al solo e limitato fine di pronunciarsi sulla legittimità della determinazione che forma specifico oggetto di ricorso (Consiglio di Stato, sez. V – 05/12/2014 n. 5985; si veda anche Consiglio di Stato, sez. IV – 18/11/2014 n. 5676): quindi il giudice amministrativo può accertare incidenter tantum, ai sensi dell’art. 8 cod. proc. amm., l’esistenza di un uso pubblico consolidato su aree di proprietà privata, laddove tale accertamento sia indispensabile al fine di delibare la legittimità di un provvedimento (come, ad esempio, l’atto di rigetto di un’istanza di rilascio di un titolo edilizio motivato sull’esistenza di un diritto di uso pubblico sull’area su cui ricade l’intervento).

EDILIZIA PRIVATALa cd. “dicatio ad patriam” rappresenta “un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività ‘uti cives’, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima”.
I presupposti per l’integrazione della dicatio ad patriam consistono nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone; nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze d’interesse generale; in un titolo valido a costituire il diritto, ovvero in un comportamento univoco del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, risulti idoneo a manifestare l’intenzione di porre il bene a disposizione della collettività.
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4.1. La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato e della Corte di cassazione ha da tempo affermato che la cd. “dicatio ad patriam” rappresenta “un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività ‘uti cives’, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima” (cfr. Cons. Stato, IV, 15.03.2018, n. 1662; 22.05.2017, n. 2368; V, 16.11.2018, n. 6460; nello stesso senso cfr. Cass., II, 14.06.2018, n. 15618; 21.02.2017, n. 4416; I, 11.03.2016, n. 4851; II, 12.08.2002, n. 12167; I, 07.05.1993, n. 5262; SS.UU., 03.02.1988, n. 1072).
I presupposti per l’integrazione della dicatio ad patriam consistono nell’uso esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone; nella concreta idoneità dell’area a soddisfare esigenze d’interesse generale; in un titolo valido a costituire il diritto, ovvero in un comportamento univoco del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, risulti idoneo a manifestare l’intenzione di porre il bene a disposizione della collettività (sui diversi profili, cfr. inter multis Cons. Stato, n. 6460/2018, cit.; V, 10.09.2018, n. 5286; 09.07.2015, n. 3446; 24.05.2007, n. 2621 e 2622; Cass., SS. UU., n. 1072/1988, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.08.2019 n. 5785 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo principi consolidati “le risultanze catastali non fanno piena prova circa la titolarità della proprietà e degli altri diritti reali, … in assenza di titoli di proprietà o atti di trasferimento depositati”.
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Per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima, né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale, o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da una determinata strada.
Imvero, "affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titulo dell'area da parte della p.a.) né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base ad un atto o fatto (fra cui anche l'usucapione) idoneo a trasferire il dominio, ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù di uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale".
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Sebbene secondo principi consolidati “le risultanze catastali non fanno piena prova circa la titolarità della proprietà e degli altri diritti reali, … in assenza di titoli di proprietà o atti di trasferimento depositati” (TAR Marche, Ancona, sez. I, 06.11.2017, n. 840), emerge in tutta evidenza che il tecnico del Comune non ha indicato atti idonei a stabilire in modo certo la natura della via, essendosi egli limitato ad affermare di non aver rilevato elementi tali da confermare la proprietà privata, pur richiamata nell’atto di divisione fra i fratelli Farina del 12.02.1972 del vicolo in questione.
Sulla base di queste sole risultanze, senza addurre alcun ulteriore elemento di prova circa la titolarità della proprietà e, dunque, in assenza di alcuna ulteriore attività istruttoria, il Comune ha dato per accertata la natura pubblica del vicolo, provvedendo per questo alla modifica dello stradario comunale e all’adozione degli atti di annullamento in autotutela e di ingiunzione alla rimozione del cancello.
Giova sul punto richiamare la giurisprudenza ai sensi della quale "per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima, né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale, o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da una determinata strada" [v. Cons. Stato, sez. VI, 08.10.2013, n. 4952; v., altresì, TAR Trento, sez. 1, 21.11.2012, n. 341, per cui "affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titulo dell'area da parte della p.a.) né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base ad un atto o fatto (fra cui anche l'usucapione) idoneo a trasferire il dominio, ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù di uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale"]” (Cons. Stato, sez. IV, sent. 5820/2018 cit.) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 24.07.2019 n. 4063 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATADeve osservarsi come l’accertamento pieno e diretto della natura demaniale di un bene (o comunque della sussistenza di servitù e diritti di uso pubblico gravanti sullo stesso bene) rientri nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Infatti, è stato affermato che “Rientra nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, e non già in quella del giudice amministrativo, la cognizione della controversia avente ad oggetto l'accertamento della natura demaniale, o non, di un determinato bene, in quanto le questioni relative alla natura demaniale o privata di un bene e, quindi, alla titolarità del diritto dominicale, attengono a situazioni giuridiche di diritto soggettivo ed esulano pertanto dalla giurisdizione del g.a.; conseguentemente appartiene alla giurisdizione ordinaria la controversia in cui la demanialità di un bene sia fatta valere quale ragione di nullità del contratto con il quale un Comune, agendo iure privatorum, abbia ceduto a terzi quel suolo”.
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Più di recente, la giurisprudenza ha ribadito che “La controversia relative alla proprietà, pubblica o privata, di una strada, così come quella relativa all'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione”.
Deve anche rilevarsi che –sebbene l’accertamento della natura del bene spetti in via diretta alla giurisdizione ordinaria– non risulta in atto promosso (o, quanto meno, non è stata fornita piena prova di tale circostanza) un giudizio innanzi all’a.g.o. che abbia la citata finalità, non potendosi ritenere funzionale a tale scopo il procedimento civile menzionato dal ricorrente, che appare rivolto meramente alla tutela di una situazione di fatto –il possesso del bene immobile– piuttosto che all’accertamento del suo status giuridico.
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La giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato, nel richiamare il metodo di acquisto della dicatio ad patriam, ha rammentato che si tratta di un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e dunque senza precarietà o spirito di tolleranza, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives", indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima.
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In via preliminare, deve osservarsi come l’accertamento pieno e diretto della natura demaniale di un bene (o comunque della sussistenza di servitù e diritti di uso pubblico gravanti sullo stesso bene) rientri nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Infatti, è stato affermato che “Rientra nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, e non già in quella del giudice amministrativo, la cognizione della controversia avente ad oggetto l'accertamento della natura demaniale, o non, di un determinato bene, in quanto le questioni relative alla natura demaniale o privata di un bene e, quindi, alla titolarità del diritto dominicale, attengono a situazioni giuridiche di diritto soggettivo ed esulano pertanto dalla giurisdizione del g.a.; conseguentemente appartiene alla giurisdizione ordinaria la controversia in cui la demanialità di un bene sia fatta valere quale ragione di nullità del contratto con il quale un Comune, agendo iure privatorum, abbia ceduto a terzi quel suolo” (Tar Catania, 3840/2010).
La massima appena riportata riguarda un caso molto simile a quello ora in esame, poiché la natura demaniale del bene costituiva –in quella vicenda– motivo di nullità di un contratto, mentre –nel caso a mani– costituisce lo spartiacque tra l’illegittimità e la legittimità del provvedimento adottato dal Comune in materia edilizia.
Più di recente, la giurisprudenza ha ribadito che “La controversia relative alla proprietà, pubblica o privata, di una strada, così come quella relativa all'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione” (Tar Napoli 2252/2019; in termini analoghi, Tar Lecce 269/2019).
Deve anche rilevarsi che –sebbene l’accertamento della natura del bene spetti in via diretta alla giurisdizione ordinaria– non risulta in atto promosso (o, quanto meno, non è stata fornita piena prova di tale circostanza) un giudizio innanzi all’a.g.o. che abbia la citata finalità, non potendosi ritenere funzionale a tale scopo il procedimento civile menzionato dal ricorrente, che appare rivolto meramente alla tutela di una situazione di fatto –il possesso del bene immobile– piuttosto che all’accertamento del suo status giuridico.
Fatte tali premesse, questo giudice è chiamato nella vicenda in esame ad operare una valutazione meramente incidentale circa la natura delle grotte –valutazione consentita dall’art. 8 del c.p.a., nella parte in cui consente al giudice amministrativo di conoscere, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui soluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale- al limitato scopo di statuire sulla legittimità o illegittimità del provvedimento comunale che ha negato al ricorrente l’autorizzazione ad eseguire lavori sull’area antistante le grotte stesse.
Alla luce di quanto precisato, e negli stretti limiti del potere di “cognizione” esercitabile nella fattispecie, il Collegio rassegna le seguenti conclusioni:
   a) il sig. Ca. è proprietario dell’area sopraelevata e delle sottostanti grotte per averle regolarmente acquistate; peraltro, tale diritto di proprietà non sembra essere stato messo in discussione dalla amministrazioni che, a vario titolo, si sono occupate della vicenda;
   b) ciononostante, il diritto di proprietà privata sulle grotte sembra aver subìto, già da molti decenni, una consistente limitazione a beneficio della collettività, quale conseguenza dell’uso pubblico che di tali grotte è stato fatto sin dagli anni ’40 del secolo scorso;
   c) la sussistenza di tale uso appare comprovata sia dalle antiche fotografie prodotte in giudizio, che ritraggono le grotte come luogo adibito a ricovero delle barche dei locali pescatori, sia dall’atto meramente “ricognitivo” adottato dal Ministero delle infrastrutture e trasporti – Delegazione di spiaggia di Salina, prot. 233 del 28.03.2013, che lo menziona come risalente dato di fatto;
   d) a ciò vanno aggiunti i documentati interventi con i quali l’amministrazione pubblica ha inteso procedere direttamente alla eliminazione della situazione di pericolo pubblico che discendeva dalla stabilità precaria delle grotte; circostanza questa che lascia intendere come l’amministrazione sia prontamente intervenuta a protezione dei terzi “utilizzatori” delle grotte;
   e) infine, l’uso pubblico dei citati beni appare compatibile con la collocazione dell’ingresso delle grotte proprio a ridosso della spiaggia di Rinella, ed a pochi metri dal mare.
In base alla esposte considerazioni, il provvedimento che ha negato al ricorrente il diritto di recintare (in parte qua) il proprio fondo risulta legittimo, in quanto teso a garantire il perpetuarsi del continuato “uso pubblico”; correlativamente, risultano infondate le censure articolate in ricorso, anche perché queste sono dirette essenzialmente a negare la natura demaniale del bene, ed a confermarne l’incidenza nell’ambito della proprietà privata, ma non tengono conto della diversa connotazione dei beni che l’amministrazione ha messo in risalto (ossia, dell’esistenza di un uso pubblico, compatibile con la proprietà privata) al fine di negare il rilascio del provvedimento autorizzatorio richiesto.
Ai fini dell’inquadramento giuridico della ricostruzione sopra operata appare utile richiamare la seguente massima: “La giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato, nel richiamare il metodo di acquisto della dicatio ad patriam, ha rammentato che si tratta di un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consistente nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e dunque senza precarietà o spirito di tolleranza, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives", indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (Cons. Stato, IV, 15.03.2018 n. 1662; Cass. civ., I, 11.03.2016, n. 4851)” (Cons. Stato, V, 6460/2018) (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 09.07.2019 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Natura e uso pubblico di una strada.
La verifica in ordine alla esistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada in esame o della sua demanialità è finalizzata a stabilire se i provvedimenti comunali impugnati siano o meno legittimi.
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Secondo una costante giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la natura e l’uso pubblico di una strada dipendono dalla esistenza di tre concorrenti elementi, che sono:
   a) l’esercizio del passaggio e del transito iuris servitutis publicae da una moltitudine indistinta di persone qualificate dall’appartenenza ad un ambito territoriale;
   b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, le esigenze di carattere generale e pubblico;
   c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, il quale può identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile (comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione di esercitare il diritto d’uso della strada).
Della sussistenza di tali elementi il Comune (interessato a far valere l’uso pubblico della via) deve dare idonea dimostrazione, salvo che la strada non sia inserita nell’elenco delle strade comunali, ciò rappresentando una presunzione (semplice) di appartenenza della stessa all’Ente ovvero del suo uso pubblico.
E’ stato anche precisato che l’esistenza di un diritto di uso pubblico del bene non può sorgere per meri fatti concludenti, ma presuppone un titolo idoneo a tal fine, quale ad esempio la proprietà del sedime stradale in capo ad un soggetto pubblico
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MASSIMA
1. In via preliminare, va affermata la giurisdizione del Giudice amministrativo con riferimento alla parte della domanda con cui si chiede l’annullamento degli atti impugnati, atteso che il giudice amministrativo può conoscere in via incidentale di diritti soggettivi quando tale sindacato è necessario per accertare la legittimità di un provvedimento amministrativo.
Difatti, la verifica in ordine alla esistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada in esame o della sua demanialità è finalizzata a stabilire se i provvedimenti comunali impugnati siano o meno legittimi (cfr. Consiglio di Stato, V, 16.10.2017, n. 4791; VI, 10.05.2013, n. 2544; altresì, TAR Lombardia, Milano, III, 11.03.2016, n. 507).
1.1. Quanto, invece, alla domanda di accertamento del trasferimento del diritto di proprietà della porzione della stradella della Zoccascia, pro-quota, in capo ai ricorrenti, la stessa risulta inammissibile per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, giacché come evidenziato dalla difesa comunale, si tratta di decidere l’assetto proprietario di un bene e quindi la sussistenza o meno di un diritto soggettivo, facente capo alla giurisdizione del Giudice ordinario (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, V, 16.10.2017, n. 4791).
...
2. Passando all’esame del merito della domanda di annullamento, la stessa è infondata.
3. Con la prima censura si assume il difetto di istruttoria e motivazione in ordine alla sussistenza di un effettivo uso pubblico della stradella della Zoccascia e al suo regime demaniale, trattandosi piuttosto di un’area di passaggio di proprietà di soggetti privati, peraltro non più destinata all’uso pubblico attesa l’inidoneità della stessa.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che, secondo una costante giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la natura e l’uso pubblico di una strada dipendono dalla esistenza di tre concorrenti elementi, che sono:
   a) l’esercizio del passaggio e del transito iuris servitutis publicae da una moltitudine indistinta di persone qualificate dall’appartenenza ad un ambito territoriale;
   b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, le esigenze di carattere generale e pubblico;
   c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, il quale può identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile (comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione di esercitare il diritto d’uso della strada).
Della sussistenza di tali elementi il Comune (interessato a far valere l’uso pubblico della via) deve dare idonea dimostrazione, salvo che la strada non sia inserita nell’elenco delle strade comunali, ciò rappresentando una presunzione (semplice) di appartenenza della stessa all’Ente ovvero del suo uso pubblico (Cass., SS. UU., 16.02.2017, n. 713; nonché, Consiglio di Stato, VI, 20.06.2016, n. 2708; IV, 19.03.2015, n. 1515; diffusamente, da ultimo, Consiglio di Stato, IV, 10.10.2018, n. 5820).
E’ stato anche precisato che l’esistenza di un diritto di uso pubblico del bene non può sorgere per meri fatti concludenti, ma presuppone un titolo idoneo a tal fine, quale ad esempio la proprietà del sedime stradale in capo ad un soggetto pubblico (cfr. Consiglio di Stato, V, 16.10.2017, n. 4791; TAR Campania, Napoli, VIII, 04.01.2019, n. 42).
Nella fattispecie de qua –a fronte dell’assenza di prove di segno contrario prospettate da parte dei ricorrenti, tali non potendo considerarsi le apodittiche affermazioni in punto di insussistenza di un interesse della collettività all’utilizzo della detta via, in relazione all’ipotizzata assenza di sbocchi e alla sua effettiva conformazione– il Comune ha evidenziato come nel P.R.G. risalente all’anno 1980 e in vigore fino al 1995, la strada vicinale della Zoccascia risulta essere indicata (cfr. all. 29 del Comune); anche nel P.G.T. vigente la via risulta riprodotta nella cartografia del Piano (cfr. all. 31 del Comune). Inoltre, come ammesso dagli stessi ricorrenti, sulla predetta strada è stata realizzata la pubblica fognatura (all. 10 del Comune).
Ad abundantiam, va richiamata l’ordinanza comunale di ripristino dello stato dei luoghi n. 488 del 07.05.1982, la quale dimostra che la predetta strada sia stata già in passato oggetto di attività di tutela comunale e i proprietari dell’epoca non avessero affatto contestato la proprietà pubblica della medesima (cfr. all. 17, 18 e 19 al ricorso). Nemmeno corrisponde ad un dato reale la circostanza che la strada sarebbe priva di sbocco, visto che dall’aerofotogrammetria risulta il contrario, ossia la percorribilità della predetta via (cfr. all. 28 del Comune), e i provvedimenti impugnati sarebbero proprio finalizzati a ripristinare tale collegamento, attraverso la rimozione delle strutture realizzate dai ricorrenti.
Sulla scorta dei predetti indici appare evidente la natura pubblica della strada e quindi la legittimità dell’intervento comunale.
3.2. Ciò determina il rigetto della prima doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.07.2019 n. 1530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza àncora una servitù di diritto pubblico ai presupposti consistenti:
   a) nell’uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati “uti cives” in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un’utilizzazione “uti singuli”, finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso ad un determinato immobile di proprietà privata;
   b) nell'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù;
   c) nel protrarsi dell'uso per il tempo necessario all'usucapione.
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6.3. In tale contesto l’iniziativa processuale di parte ricorrente non è, soltanto, comprensibile (in quanto non certamente mossa da un “evidente travisamento dei presupposti di diritto”, come deduce il Comune) ma risulta fondata. Infatti, il ricorso trae origine dal rigetto dell’osservazione presentata che, pur riconoscendo la natura privata del passaggio, gli assegna un uso pubblico “per consuetudine”.
Ma tale provvedimento risulta in parte qua contrario ai presupposti a cui la giurisprudenza àncora una servitù di diritto pubblico consistenti:
   a) nell’uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati “uti cives” in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un’utilizzazione “uti singuli”, finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso ad un determinato immobile di proprietà privata;
   b) nell'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù;
   c) nel protrarsi dell'uso per il tempo necessario all'usucapione (cfr., ex multis, Cassazione civile, sez. II, 29.11.2017, n. 28632).
Nel caso di specie, difetta, quindi, l’asservimento del bene ad uso pubblico con conseguente illegittimità delle provvedimenti impugnati nella parte in cui questi postulano (senza, come detto, la necessaria chiarezza) la sussistenza di una servitù e la conseguente possibilità di inserire il passaggio nei percorsi ciclopedonali previsti dal Comune (pur se, allo stato, mai realizzati).
7. Il ricorso deve essere, pertanto, accolto con annullamento in parte qua dei provvedimenti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.06.2019 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL'accertamento dell'uso pubblico di un bene, quale una strada, deve essere condotto non già sulla mera base delle risultanze catastali, ma mediante un approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova.
Ai fini dell'accertamento della proprietà di un'area, i dati catastali hanno valore indiziario e ad essi può essere attribuito maggior peso probatorio solo quando non risultino contraddetti da specifiche determinazioni negoziali delle parti o dalla complessiva valutazione del contenuto dell'atto al quale deve farsi risalire la titolarità dell'area medesima.
L’accertamento della proprietà pubblica richiede l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, o che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta.
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L'adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone, oppure quando vi sia stato, mediante la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù.
Per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale a una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo, non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse col regime giuridico della medesima.
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È orientamento della giurisprudenza amministrativa ritenere che l'accertamento dell'uso pubblico di un bene quale una strada deve essere condotto non già sulla mera base delle risultanze catastali, ma mediante un approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova (cfr.: Cons. Stato IV, 17.09.2013, n. 4625).
Ai fini dell'accertamento della proprietà di un'area, i dati catastali hanno valore indiziario e ad essi può essere attribuito maggior peso probatorio solo quando non risultino contraddetti da specifiche determinazioni negoziali delle parti o dalla complessiva valutazione del contenuto dell'atto al quale deve farsi risalire la titolarità dell'area medesima (cfr.: Cons. Stato IV, 04.04.2012, n. 1990).
L’accertamento della proprietà pubblica richiede l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, o che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta (cfr.: Cons. Stato V, 28.06.2011, n. 3868).
Il Comune di Agnone, prima del ricevimento dell’esposto di tale Di Mario Nicola, non aveva mai effettuato alcuna rivendica né accampato diritti sulla natura pubblica del viottolo. Solo con la nota datata 10.01.2013, inviata ai ricorrenti e all’Ufficio del Territorio di Isernia, veniva proposta dal Comune una “rettifica del foglio di mappa nr. 156 presso gli Uffici dell’Agenzia del Territorio di Isernia”, chiedendosi di far conoscere “se dalla data dell’impianto del catasto (1956), al 01.10.1987, data di redazione dell’atto divisionale rep. 597324, risultano eseguite eventuali variazioni planimetriche sul foglio di mappa nr. 156 del Comune di Agnone”.
L’Agenzia delle Entrate - Ufficio del Territorio di Isernia, con la nota di riscontro, comunicava al Comune di Agnone che “il tratto di via comunale, compreso tra le particelle 98, 99 e parte della 101, evidenziato in giallo nell’allegato stralcio di mappa, non è stato interessato da alcuna variazione catastale”. Tale affermazione -invero non molto chiara, poiché non fornisce precisazioni sulla natura pubblica del viottolo- non contrasta con la prospettazione dei ricorrenti i quali riconoscono che il viottolo, in epoca remota, costituisse una “strada vicinale privata” utilizzabile da proprietari frontisti. Non vi è, viceversa, prova che il sentiero tracciato sul foglio di mappa catastale, sia stato e permanga una strada di proprietà comunale, né tampoco che si tratti di un bene pubblico demaniale, come affermato dal Comune.
L'adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone, oppure quando vi sia stato, mediante la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (cfr.: Cons. Stato, IV 10.10.2018, n. 5820; Tar Campania Napoli VI, n. 106/2010).
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù. Per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale a una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo, non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse col regime giuridico della medesima (cfr.: Cons. Stato VI, 08.10.2013, n. 4952; Tar Trentino A.A. – Trento, 21.11.2012, n. 341) (TAR Molise, sentenza 24.04.2019 n. 140 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza dell’uso pubblico o solo privato di una strada rileva ai sensi dell’articolo 15, del d.lgt. 01.09.2018, n. 1446, atteso che per le strade vicinali soggette ad uso pubblico all'ente pubblico spetta una ingerenza straordinaria, che si concreta in poteri di polizia e di regolamentazione della circolazione e dell'ordine e della sorveglianza; spettando al sindaco “ordinare che siano rimossi gli impedimenti all’uso delle strade e all’esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate”, mentre per le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può provvedere solo quando ne sia richiesto (ultimo comma articolo 15 d.lgt. cit.).
Peraltro anche nell’ipotesi di uso pubblico “La responsabilità per i danni derivanti dalla mancata manutenzione di strade vicinali private non può gravare sull'amministrazione comunale, atteso che i compiti di vigilanza e polizia, come il potere di disporre l'esecuzione di opere di ripristino a spese degli interessati, che ad essa competono su dette strade, non comportano anche l'obbligo di provvedere a quella manutenzione, facente carico esclusivamente ai proprietari interessati”.
Per giurisprudenza consolidata “per poter considerare assoggettata ad uso pubblico una strada privata è necessario che la stessa sia oggettivamente idonea all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella necessità di uso per le esigenze della circolazione o per raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici pubblici). Deve quindi essere verificato:
   - il requisito del passaggio esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
   - la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse;
   - un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile.
Non è pertanto configurabile l’assoggettamento di una via vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico in relazione ad un transito sporadico ed occasionale e neppure per il fatto che essa sia adibita al transito di persone diverse dai proprietari o potrebbe servire da collegamento con una via pubblica”.
Le questioni inerenti l’accertamento della proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché investono l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione, potendo il giudice amministrativo conoscere di tali questioni solo in via incidentale qualora l'esistenza della servitù pubblica risulti costituire un presupposto dell'atto eventualmente impugnato.
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Con ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a. depositato in data 08.01.2019, il sig. Kr.Jo.Go., proprietario di un’immobile insistente sul mappale 1679 del Comune di Tremosine sul Garda - località Vagne, espone che nel gennaio del 2014, a seguito del distacco di materiale roccioso dalla parete posta a monte della strada vicinale privata denominata “via Vagne”, una frana si riversava su detta via e sui terreni a valle, tra i quali quello di sua proprietà.
A tutela della pubblica incolumità il sindaco con ordinanza n. 39/2014 disponeva la chiusura e l’interdizione al transito veicolare e pedonale della strada vicinale, all’altezza dei mappali 1716-1717-9094, demandando ogni ulteriore “provvedimento di messa in pristino correlato all’evento in argomento al perfezionamento delle procedure di verifica in atto da parte dell’Ufficio Tecnico Comunale, il quale dovrà individuare puntualmente le concause che hanno determinato il fenomeno”.
Lamenta il ricorrente che nonostante gli incontri successivamente tenutisi tra il tecnico da lui incaricato ed il Sindaco, l’Amministrazione -a distanza di anni- non ha mai comunicato l’esito dell’istruttoria né adottato i conseguenti provvedimenti di rimessa in pristino dell’area.
Con istanze di data 29.11.2017 e 27.11.2018 egli ha sollecitato il Comune intimato all’avvio del procedimento finalizzato all’effettuazione delle verifiche tecniche e all’adozione delle misure di messa in sicurezza del versante franato, alle quali però non è stato dato alcun riscontro.
Con l’odierno gravame l’esponente denuncia -quindi- l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione intimata, in ragione degli obblighi di intervento posti sia in capo all’ente comunale sia, individualmente, in capo al sindaco dalla normativa nazionale e regionale in materia di protezione civile, nell’ambito dei compiti di prevenzione, eliminazione dei pericoli e mitigazione dei rischi derivanti da eventi calamitosi. Conseguentemente chiede accertarsi l’obbligo di provvedere sulle istanze sollecitatorie presentate e di avviare e concludere il procedimento istruttorio disposto con l’ordinanza sindacale n. 49/2014.
...
Il ricorso è fondato nei termini di seguito illustrati.
Le parti non hanno posizione univoca sulla questione inerente l’apertura o meno della strada vicinale in questione al pubblico transito, atteso che il ricorrente ritiene che l’utilizzo pubblico sussista in ragione del collegamento con la viabilità comunale e dell’uso del percorso da parte di numerosi escursionisti, mentre l’amministrazione resistente eccepisce che il tracciato viario non solo è di proprietà privata, ma è di uso esclusivo dei proprietari degli immobili che la stessa raggiunge.
La circostanza dell’uso pubblico o solo privato rileva ai sensi dell’articolo 15, del d.lgt. 01.09.2018, n. 1446, atteso che per le strade vicinali soggette ad uso pubblico all'ente pubblico spetta una ingerenza straordinaria, che si concreta in poteri di polizia e di regolamentazione della circolazione e dell'ordine e della sorveglianza; spettando al sindaco “ordinare che siano rimossi gli impedimenti all’uso delle strade e all’esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate”, mentre per le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può provvedere solo quando ne sia richiesto (ultimo comma articolo 15 d.lgt. cit.).
Peraltro anche nell’ipotesi di uso pubblico “La responsabilità per i danni derivanti dalla mancata manutenzione di strade vicinali private non può gravare sull'amministrazione comunale, atteso che i compiti di vigilanza e polizia, come il potere di disporre l'esecuzione di opere di ripristino a spese degli interessati, che ad essa competono su dette strade, non comportano anche l'obbligo di provvedere a quella manutenzione, facente carico esclusivamente ai proprietari interessati” (Cass. civ. Sez. III 25/02/2009, n. 4480).
Per giurisprudenza consolidata “per poter considerare assoggettata ad uso pubblico una strada privata è necessario che la stessa sia oggettivamente idonea all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella necessità di uso per le esigenze della circolazione o per raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici pubblici). Deve quindi essere verificato: il requisito del passaggio esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse; un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile (Cons. di Stato, IV, n. 1155/2001; V, n. 5692/2000; n. 1250/1998; n. 29/1997; TAR Toscana, Sez. III; n. 1385/2003; TAR Sicilia Catania, n. 2124/1996; Cass. civ. II, nn. 20405/2010 e 7718/1991). Non è pertanto configurabile l’assoggettamento di una via vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico in relazione ad un transito sporadico ed occasionale e neppure per il fatto che essa sia adibita al transito di persone diverse dai proprietari o potrebbe servire da collegamento con una via pubblica (TAR Palermo, Sez. II, 12.06.2013, n. 1322)” (Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 04.09.2017, n. 4233).
Le questioni inerenti l’accertamento della proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché investono l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione (Cass., sez. un., ord. 27.01.2010, n. 1624), potendo il giudice amministrativo conoscere di tali questioni solo in via incidentale qualora l'esistenza della servitù pubblica risulti costituire un presupposto dell'atto eventualmente impugnato (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 18.09.2013, n. 2170).
Nel caso di specie l’uso pubblico della strada, che dovrebbe essere rigorosamente provato, è stato affermato ma non dimostrato dal ricorrente.
Tanto premesso, la questione nel caso di specie non rileva ai fini della decisione, atteso che l’ordinanza del 2014, consolidatasi per mancata impugnazione e i cui effetti sono tuttora operanti, così come l’odierno ricorso traggono diversamente fondamento non già su dette disposizioni, ma sull’articolo 54 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), il quale dispone che “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”, nonché sui compiti e gli obblighi dell’amministrazione previsti dalla normativa in materia di protezione civile.
La controversia verte pertanto sulla sussistenza di un obbligo del Comune, ovvero del sindaco, di adottare specifiche disposizioni attinenti l’accertamento delle cause dell’evento franoso e gli interventi di ripristino necessari.
Tanto premesso, occorre evidenziare che l’amministrazione resistente all’esito dell’evento franoso ha tempestivamente adottato un provvedimento di inibizione al transito finalizzato a preservare l’incolumità e la sicurezza pubblica.
Come espressamente previsto nell’ordinanza sindacale adottata, la chiusura dell’accesso alla via costituiva una misura di carattere transitorio, preliminare ad una successiva fase di approfondimento tecnico delle cause dell’evento e alla conseguente adozione delle misure di ripristino dello stato dei luoghi e di apprestamento delle misure necessarie per prevenire successivi dissesti.
Nell’ordinanza del 2014 lo stesso comune riconosceva che “il presidio interessati dall’evento franoso appare attualmente in condizioni di precaria stabilità, per cui potrebbero verificarsi ulteriori crolli con conseguente rischio per la pubblica incolumità”.
L’amministrazione subordinava inoltre ogni ulteriore provvedimento di messa in pristino “al perfezionamento delle procedure di verifica in atto da parte dell’Ufficio tecnico comunale, il quale dovrà individuare puntualmente le concause che hanno determinato il fenomeno”.
Deve pertanto rilevarsi che, ancorché opportune, le interlocuzioni informali con i singoli proprietari delle aree interessate e la presa d’atto degli approfondimenti e degli interventi di ripristino dagli stessi proposti non esauriscono i compiti riconducibili all’amministrazione comunale, che rimane garante, a fini di tutela della pubblica incolumità, della verifica della permanenza di condizioni di pericolo e della individuazione degli interventi necessari per assicurare il ripristino dello stato dei luoghi e la prevenzione di ulteriori eventi dannosi per le persone e le cose.
Si ritiene conseguentemente di accogliere il ricorso, ai fini della declaratoria dell’obbligo del comune di pronunciarsi formalmente, nei limiti delle relative competenze, anche sulla base degli approfondimenti tecnici condotti dai privati e delle interlocuzioni informali già avvenute, accertando la permanenza della situazione di pericolo, le cause dell’evento franoso e disponendo le misure necessarie per il ripristino dello stato dei luoghi, che dovranno essere realizzate a cura e carico dei proprietari utilizzatori della via.
La formale definizione delle misure necessarie per la definitiva messa in sicurezza dell’area risulta preordinata anche ai fini della successiva rimozione dell’ordinanza sindacale di inibizione al transito. Resta fermo che il Comune non è tenuto a dirimere conflitti tra i privati destinatari dei suoi provvedimenti, in particolare sul riparto degli oneri per gli interventi di ripristino.
Alla luce dell’attività di approfondimento già svolta dai proprietari interessati e -informalmente- dal Comune, si ritiene congruo assegnare all’Amministrazione il termine di giorni 60 (sessanta) giorni dalla notificazione, o, se anteriore, dalla comunicazione della presente decisione per adottare i conseguenti provvedimenti, rinviando la nomina di un Commissario ad acta –su richiesta di parte ricorrente– all’inutile spirare di tale termine (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.03.2019 n. 258 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire alternativamente o a mezzo della cosiddetta dicatio ad patriam, integrata dal comportamento del proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco lo stesso a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico, ovvero attraverso l’uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione.
Come risulta dal costante orientamento della giurisprudenza amministrativa: “affinché un'area -nel caso di specie una strada- possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, oltre che l'intrinseca idoneità del bene, è necessario che l'uso dello stesso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e, inoltre, per soddisfare un interesse pubblico generale”.
Ed invero: “L'esistenza di un diritto di uso pubblico del bene non può sorgere per meri fatti concludenti, ma presuppone un titolo idoneo a tal fine; in particolare, laddove la proprietà del sedime stradale non appartenga ad un soggetto pubblico, bensì ad un privato, la prova dell'esistenza di una servitù di uso pubblico non può discendere da semplici presunzioni o dal mero uso pubblico di fatto della strada, ma necessariamente presuppone un atto pubblico o privato (provvedimento amministrativo, convenzione fra proprietario ed amministrazione, testamento) o l'intervento della usucapione ventennale, fermo restando che, relativamente a quest'ultimo titolo di acquisto del diritto, va preliminarmente accertata la riconosciuta idoneità della strada a soddisfare esigenze di carattere pubblico”.
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Come dedotto dall’appellante, la costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire alternativamente o a mezzo della cosiddetta dicatio ad patriam, integrata dal comportamento del proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco lo stesso a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico, ovvero attraverso l’uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione.
Come risulta dal costante orientamento della giurisprudenza amministrativa: “affinché un'area -nel caso di specie una strada- possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, oltre che l'intrinseca idoneità del bene, è necessario che l'uso dello stesso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e, inoltre, per soddisfare un interesse pubblico generale” (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 10.10.2018, n. 5820). Ed invero: “L'esistenza di un diritto di uso pubblico del bene non può sorgere per meri fatti concludenti, ma presuppone un titolo idoneo a tal fine; in particolare, laddove la proprietà del sedime stradale non appartenga ad un soggetto pubblico, bensì ad un privato, la prova dell'esistenza di una servitù di uso pubblico non può discendere da semplici presunzioni o dal mero uso pubblico di fatto della strada, ma necessariamente presuppone un atto pubblico o privato (provvedimento amministrativo, convenzione fra proprietario ed amministrazione, testamento) o l'intervento della usucapione ventennale, fermo restando che, relativamente a quest'ultimo titolo di acquisto del diritto, va preliminarmente accertata la riconosciuta idoneità della strada a soddisfare esigenze di carattere pubblico” (Cons. Stato, sez. V, 31.08.2017, n. 4141).
Nessuno di tali elementi risulta ricorrere nella specie, perché la strada è a fondo cieco e viene usata solo dai condomini. Né il comune ha fornito alcuna prova circa l'esistenza di una servitù pubblica di passaggio sulla strada privata, neppure essendo stato provato l'uso di detta strada e la sua utilità pubblica, mentre dalle planimetrie prodotte risulta inequivocabilmente che tale strada è aperta solo da una parte e va a servire esclusivamente il condominio ricorrente.
Neppure è stata fornita la prova della manutenzione della strada ad opera del Comune, risultando in contrario dalla documentazione versata in atti dall’appellante che la manutenzione della stessa è effettuata ad opera del condominio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.02.2019 n. 1369 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento in via principale dell’effettiva esistenza di una servitù di pubblico passaggio rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario -trattandosi di questione riguardante l'accertamento dell'esistenza ed estensione di diritti soggettivi (e non di interessi legittimi)–.
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto comunque sussistente in capo al Giudice Amministrativo il potere di esercitare una cognizione incidentale sulla questione (cfr. art. 8, comma 1, CPA), senza poter fare stato sulla medesima.
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Il Consiglio di Stato ha chiarito che “La cosiddetta dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità” -“(non di precarietà e tolleranza)”- “un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale od ablatorio, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives” -“e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato”- “indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto”.
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Osserva il Collegio che, nella fattispecie in esame, la sostanziale esistenza della servitù di uso pubblico posta dalla P.A. a fondamento del provvedimento negativo de quo si palesa come dirimente, e di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento gravato.
Premesso che l’accertamento in via principale dell’effettiva esistenza di una servitù di pubblico passaggio (come nel caso di specie) rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario -trattandosi di questione riguardante l'accertamento dell'esistenza ed estensione di diritti soggettivi (e non di interessi legittimi)– si rileva che il Consiglio di Stato ha ritenuto comunque sussistente in capo al Giudice Amministrativo il potere di esercitare una cognizione incidentale sulla questione (cfr. art. 8, comma 1, CPA), senza poter fare stato sulla medesima (ex multis: Consiglio di Stato, V, 14.02.2012 n. 728).
Orbene, nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio, la sussistenza della servitù di uso pubblico sull’area che occupa è pacifica tra le parti.
Invero, secondo la ricostruzione dei fatti ad opera delle stesse ricorrenti, l’area de qua è utilizzata dalla generalità degli utenti, tanto è vero che ne chiedono la recinzione prevedendo l’apertura di un passaggio della larghezza di circa tre metri per permettere comunque la fruizione della strada e garantire la possibilità di parcheggiare.
Peraltro, detta servitù è venuta a costituirsi in conseguenza dei successivi frazionamenti e vendite di quella che era l’intera proprietà della dante causa delle sigg.re Li., sig.ra Ep.. Ed infatti l’intera area è stata frazionata e venduta con successivi atti e l’edificazione dei singoli lotti è avvenuta previa destinazione di parte di quelle aree a strada.
Come rilevato dalla difesa del Comune, il Consiglio di Stato (ex multis: n. 3446/2015) ha chiarito che “La cosiddetta dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità” -“(non di precarietà e tolleranza)” (così Cassazione Civile, I, 11.03.2016, n. 4851)- “un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale od ablatorio, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives” -“e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato” (Consiglio di Stato, V, 14.02.2012, n. 728)- “indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto” (in termini, Cassazione Civile, II, 13.02.2006, n. 3075) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 19.02.2019 n. 269 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è pacifico che il giudice amministrativo non ha giurisdizione per l'accertamento, in via principale, della natura vicinale, pubblica o privata, della strada in parola, ovvero della servitù pubblica di passaggio, essendo dette questioni devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, è anche vero che il medesimo giudice ben può (anzi, deve) valutare, incidenter tantum, ossia ai limitati fini del giudizio concernente la legittimità degli atti impugnati, la natura vicinale, pubblica o privata, del passaggio nella strada su cui si controverte, dal momento che tale questione costituisce un presupposto degli atti sottoposti al suo esame in via principale.
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Circa la sussistenza degli indici e dei presupposti riconosciuti essenziali da parte della giurisprudenza per qualificare una strada come strada a uso pubblico si deve, in particolare, far riferimento ai seguenti elementi evidenziati al riguardo che:
   “- consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all'accesso;
   - è collegata con la viabilità generale;
   - è connotata da un uso pubblico protratto da tempo;
   - è stata oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche) da parte del Comune;
   - è inclusa nella Stradario Comunale agli atti del servizio di toponomastica“.
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Ai fini della qualificazione di una strada come “vicinale e pubblica”, si deve avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo a determinate condizioni:
   1. consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all’accesso, ammettendo l’irrilevanza che la via sia chiusa da un lato senza sbocco su altra strada (c.d. vicolo cieco) qualora sussistano numerosi e plurimi indici fattuali che denotano il regime giuridico del vicolo, quale strada privata assoggettata a uso pubblico;
   2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
   3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile, inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto di uso della strada;
   4. è collegata con la viabilità generale;
   5. è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico;
   6. dalla destinazione della strada ad uso pubblico discende poi l’applicazione della disciplina stradale.
In termini diversi, ai fini della qualificazione di una strada come “vicinale pubblica”, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato “iure servitutis pubblicae” da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile, non essendo sufficiente l’iscrizione della strada nell’elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione “iuris tantum”, superabile con la prova contraria, che escluda l’esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività.
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   - per quanto attiene alla qualificazione in termini di strada a uso pubblico del tratto che interessa -premesso che, se è pacifico che il giudice amministrativo non ha giurisdizione per l'accertamento, in via principale, della natura vicinale, pubblica o privata, della strada in parola, ovvero della servitù pubblica di passaggio, essendo dette questioni devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, è anche vero che il medesimo giudice ben può (anzi, deve) valutare, incidenter tantum, ossia ai limitati fini del giudizio concernente la legittimità degli atti impugnati, la natura vicinale, pubblica o privata, del passaggio nella strada su cui si controverte, dal momento che tale questione costituisce un presupposto degli atti sottoposti al suo esame in via principale- si ritiene che la rinnovata e più approfondita istruttoria espletata da parte dell’amministrazione comunale al riguardo nonché la conseguente più diffusa e argomentata motivazione resa a supporto dell’ordinanza impugnata rendano adeguatamente conto della sussistenza degli indici e dei presupposti riconosciuti essenziali da parte della giurisprudenza nella materia ai predetti fini, ossia per qualificare la strada che interessa, nel tratto rilevante in questa sede, come strada a uso pubblico e si fa in particolare riferimento ai seguenti elementi evidenziati al riguardo:
   “- consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all'accesso;
   - è collegata con la viabilità generale;
   - è connotata da un uso pubblico protratto da tempo;
   - è stata oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche) da parte del Comune di Termini Imerese (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 08.06.2011, n. 3509);
   - è inclusa nella Stradario Comunale agli atti del servizio di toponomastica... essendo ubicata <<tra via Luigi Sturzo e via Del Mazziere, con numerazione civica dal n. 1 al n. 6 [...]
” “;
   - infatti, ai fini della qualificazione di una strada come “vicinale e pubblica”, si deve avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo a determinate condizioni:
      1. consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all’accesso, ammettendo l’irrilevanza che la via sia chiusa da un lato senza sbocco su altra strada (c.d. vicolo cieco) qualora sussistano numerosi e plurimi indici fattuali che denotano il regime giuridico del vicolo, quale strada privata assoggettata a uso pubblico;
      2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
      3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile, inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto di uso della strada;
      4. è collegata con la viabilità generale;
      5. è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico;
      6. dalla destinazione della strada ad uso pubblico discende poi l’applicazione della disciplina stradale;
   - in termini diversi, ai fini della qualificazione di una strada come “vicinale pubblica”, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato “iure servitutis pubblicae” da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile, non essendo sufficiente l’iscrizione della strada nell’elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione “iuris tantum”, superabile con la prova contraria, che escluda l’esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività;
   - nella fattispecie l’amministrazione ha richiamato più di uno dei sopra esposti elementi e la difesa di parte ricorrente, in particolare, nulla risulta avere in concreto dedotto in ordine alla circostanza che l’area interessata è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico se non che non sono stati indicati gli interventi di manutenzione che legittimerebbero il preteso uso pubblico e che i pali dell'illuminazione pubblica sono installati solamente al termine dei parcheggi di proprietà dei ricorrenti;
   - e, peraltro, come emerge con evidenza da quanto sopra evidenziato, la titolarità della proprietà privata dell’area non assume alcuna rilevanza ai fini che interessano e non viene messa in discussione nella presente sede;
   - la destinazione a parcheggio non permette di superare le argomentazioni di cui sopra atteso che parimenti alla strada anche il parcheggio può essere reso oggetto di una servitù di uso pubblico e altrettanto è a dirsi quanto alla circostanza che ogni singolo posto auto riporta “a caratteri cubitali” la dicitura proprietà privata atteso che, comunque, l’accesso all’area e la sosta risultano essere effettuati senza alcuna distinzione, e considerata, altresì, l'assenza di impedimenti all'ingresso di terzi;
   - per quanto attiene alla dedotta violazione dell’art. 381, comma 5, del D.P.R. n. 495/1992 -il quale dispone che “5. Nei casi in cui ricorrono particolari condizioni di invalidità della persona interessata, il comune può, con propria ordinanza, assegnare a titolo gratuito un adeguato spazio di sosta individuato da apposita segnaletica indicante gli estremi del "contrassegno di parcheggio per disabili" del soggetto autorizzato ad usufruirne (fig. II.79/a). Tale agevolazione, se l'interessato non ha disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile, nonché fruibile, può essere concessa nelle zone ad alta densità di traffico, dietro specifica richiesta da parte del detentore del "contrassegno di parcheggio per disabili".”- si rileva che la norma prevede che la spazio di sosta privato debba essere sia “accessibile” che “fruibile” di tal che non è sufficiente che l’interessato sia nella dimostrata proprietà di uno spazio privato se non è altresì dimostrato in giudizio che il predetto spazio abbia entrambe le specifiche e dirimenti caratteristiche indicate (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 28.12.2018 n. 2785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Natura pubblica o privata di una strada interpoderale.
Al fine di poter stabilire se una strada interpoderale sia pubblica oppure privata non rileva il fatto che la stessa risulti inserita negli elenchi delle strade vicinali, poiché l’iscrizione non ha valore costitutivo, ma soltanto dichiarativo, consentendo soltanto di presumere che la strada sia pubblica, ma senza darne la certezza.
Aggiunge il TAR che il riconoscimento della natura pubblica della strada, dipende, invece, dalla coesistenza effettiva di tre condizioni, quali:
   1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
   2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
   3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.11.2018 n. 1132 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
La classificazione delle strade ai fini propri del codice della strada (e cioè in relazione alla regolazione del traffico sulle stesse) non può essere utile allo scopo di determinarne il soggetto proprietario. Per comune riconoscimento, sia della giurisprudenza, che della dottrina in argomento, le strade vicinali si possono distinguere in pubbliche e private.
Sono private le vie cosiddette agrarie o vicinali private costituite da passaggi in comunione incidentale tra i proprietari dei fondi latistanti serviti da quei medesimi passaggi. Tra le tante basti ricordare la sentenza del Tribunale Chieti, 15/10/2009, n. 748, nella quale si legge: "La via agraria, cioè la strada privata che i proprietari dei fondi latistanti aprono e mantengono per transitarvi secondo le esigenze della coltivazione, viene formata mediante conferimento di suolo (cd. "collatio agrorum privatorum") o di altro apporto dei vari proprietari, in modo da fondare una comunione ("communio incidens"), per la quale il godimento della strada non è "iure servitutis" ma "iure proprietatis" e, pur avendo di regola, fondi fronteggianti, può essere utilizzata, in relazione alla necessità del tracciato, da più fondi in consecuzione, fermo restando il principio che essa possa servire a tutti i proprietari dei fondi in tutte le direzioni, onde ciascuno ne abbia per tutta la sua lunghezza la proprietà "pro indiviso").
Sono vicinali pubbliche le vie di proprietà privata, soggette a pubblico transito. In concreto, il sedime della vicinale, compresi accessori e pertinenze, è privato, di proprietà dei titolari dei terreni latistanti, mentre l’ente pubblico è titolare di un diritto reale di transito a norma dell’art. 825 c.c..
Tale diritto può essere costituito nei modi più diversi, ossia mediante un titolo negoziale, per usucapione o attraverso gli istituti dell’“immemorabile”, cioè dell’uso della strada da parte
della collettività da tempo, appunto, immemorabile o della “dicatio ad patriam”, che si configura quando i proprietari mettono a disposizione del pubblico la strada, assoggettandola all’uso collettivo (cfr. Cass. Civ. Sent. n. 12181/1998 "la c.d. Dicatio ad patriam ha come suo indefettibile presupposto, l’asservimento del bene all’uso pubblico nello stato in cui il bene stesso si trovi, e non in quello realizzabile a seguito di manipolazioni quali quelle conseguenti alle irreversibili trasformazioni che caratterizzano il (diverso) istituto dell’accessione invertita".
Al fine di poter stabilire se una strada interpoderale sia pubblica oppure privata, non rileva, dunque, il fatto che la stessa risulti inserita negli elenchi delle strade vicinali, poiché l’iscrizione non ha valore costitutivo, ma soltanto dichiarativo, consentendo soltanto di presumere che la strada sia pubblica, ma senza darne la certezza (TAR Sicilia, Catania, 29.11.1996, n. 2124); assunto, questo, sostenuto sia dal dato normativo di cui all’art. 20 della L. 20.03.1865, n. 2248, secondo il quale, la classificazione ufficiale delle strade ha efficacia presuntiva e dichiarativa, ma non costitutiva della pubblicità o meno del passaggio, sia dalla giurisprudenza costante (cfr, tra le tante, Sezione II, Cassazione civile, n. 4938/1992; Sezione III, n. 6337/1994). Il riconoscimento della natura pubblica della strada, dipende, invece, dalla coesistenza effettiva di tre condizioni, quali:
   1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
   2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
   3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile, (TAR Toscana, Sez. III, 11.04.2003, n. 1385; conformi, tra le molte: TAR Umbria, Perugina, 13.01.2006, n. 7; id., 21.09.2004, n. 545; ed in precedenza: Cons. di Stato, Sez. IV, n. 1155/2001; Cons. di Stato, Sez. V, n. 5692/2000; Cass. civ., Sez. II, n. 7718/1991).
La giurisprudenza è dunque costante nel ritenere che ciò che caratterizza le strade vicinali pubbliche è il loro concreto utilizzo da parte della collettività (Sezione III, Cassazione civile, n. 10139 del 1994, IV Sezione penale della Corte di Cassazione n. 8950/1990 e Tar della Puglia, sentenza n. 491 del 1994). Pertanto, la qualificazione di una strada come di uso pubblico discende non tanto dal fatto che su di essa possano transitare persone diverse dal proprietario o dal fatto che essa si colleghi ad una pubblica via, quanto, piuttosto, presuppone che essa sia posta a servizio di una collettività di utenti (uti cives).
Riassumendo, dunque, a prescindere dal fatto che esse siano pubbliche o private, per le strade vicinali che risultino interessate dalla circolazione di pedoni, veicoli e animali, debbono trovare applicazione le norme disciplinanti la circolazione stradale, ai sensi dell’art. 3, comma 2, punto 52.
Il codice della strada, però, non si occupa minimamente del profilo proprietario di dette strade, che esula completamente dalla materia dallo stesso disciplinata.
L’iscrizione della strada nell’elenco di quelle vicinali tenuto dal Comune determina una presunzione (semplice) della sussistenza della pubblicità dell’uso della via (Cass., sez. II, 14.05.2018 n. 11676).
Stabilire se tale presunzione operi anche nel caso di specie risulta essere determinante, in quanto, se così fosse, con riferimento alla strada di cui si controverte, l’estensione del suo utilizzo anche a favore dei proprietari che risultano interclusi dalla soppressione del passaggio a livello prevista dalla dichiarazione di pubblica utilità non comporterebbe un ulteriore aggravio della servitù pubblica su di essa insistente e, conseguentemente, nemmeno la corresponsione di un’indennità di asservimento, così come ritenuto da RFI.
L’assenza di mutamento nell’utilizzo della strada determinerebbe, perciò, l’infondatezza della pretesa fatta valere dei ricorrenti e, in particolare, dei motivi di illegittimità correlati alla mancata considerazione della natura privata della strada.
Nel caso di specie, però, la presunzione suddetta non pare poter operare, atteso che il Comune stesso, nell’ambito del giudizio civile promosso dai ricorrenti, ha dichiarato di non avere mai avuto e di non avere nessun interesse alla strada vicinale in questione, che, pertanto, deve ritenersi di natura privata.
Sebbene, infatti, nella relazione di parte resistente si sostenga che il Comune, cui sarebbero stati chiesti chiarimenti circa la natura pubblica della strada vicinale, evidenziata nelle mappe come distinta dai confinanti mappali, non avrebbe affatto dichiarato che la strada non sia pubblica, non pare possa attribuirsi altro significato logico all’affermazione secondo cui la strada “non è di interesse pubblico”. E che la strada non sia di natura pubblica appare confermato da quanto si dirà a breve, seguendo un percorso logico che prende le mosse dall’orientamento da ultimo confermato dal Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 31/08/2017, n. 4141, secondo cui la semplice indicazione di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non risulta dirimente, considerato che tali elenchi hanno natura meramente dichiarativa: principio che deve valere, a maggior ragione, nel caso in cui la strada, come quello in esame, seppur definita vicinale, non risulti inserita nel relativo elenco del Comune di Crema.
Deve, pertanto, riconoscersi rilevanza alle circostanze oggettive che escludono la natura di uso pubblico della strada, quali, il fatto che la strada non è utilizzata da persone diverse dai suoi comproprietari, è stata asfaltata a cura e spese esclusive dei suoi comproprietari, senza che il Comune di Crema abbia mai effettuato alcuna opera manutentiva, nel suolo sottostante non sono interrati impianti ed essa è totalmente priva di illuminazione pubblica, all’imbocco di tale strada da sempre esiste un cartello, apposto dai ricorrenti, che ne segnala la “proprietà privata – divieto di accesso”, senza che ciò abbia mai formato oggetto di contestazione e, infine, la strada è chiusa e conduce esclusivamente alla Cascina Colombera ed ai terreni di proprietà dei ricorrenti.
In linea, dunque, con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 28/10/2015, n. 4940, la quale ha chiarito che “Una strada cieca che si esaurisce di fronte ad un immobile privato non è idonea a soddisfare le esigenze della collettività, vale a dire un numero indeterminato di cittadini, allorché sia del tutto priva oltre l'accesso, di qualsiasi altro collegamento con la viabilità comunale del centro abitato.”, proprio le caratteristiche oggettive della strada in questione, ora descritta, non possono che portare a concludere per la sua natura privata (principio recentemente ribadito anche nella sentenza del Consiglio di Stato n. 5280/2018).
Dunque, il Collegio ritiene di dover confermare la conclusione cui è addivenuto in sede cautelare, laddove ha ritenuto che la qualificazione come strada vicinale della via di accesso denominata Colombera -che RFI ha individuato come parte del percorso per garantire gli accessi preclusi a seguito della soppressione di taluni passaggi a livello- non ne fa venire meno la natura privata, né ne legittima l’uso pubblico, dal momento che essa non risulta classificata tra le strade vicinali di uso pubblico e risulta destinata al servizio esclusivo dei proprietari frontisti, tanto che il Comune ha negato ogni interesse pubblico al suo utilizzo.
Né può rilevare, al fine della classificazione come strada pubblica, la mancanza dell’elemento identificativo nella mappa catastale, il quale evidenzia la presenza della strada, ma non può determinarne il regime giuridico, pubblico o privato. Dunque, precisato che la proprietà dei frontisti non è mai stata revocata in dubbio da RFI, che ha sempre affermato la sussistenza di un uso pubblico del bene di proprietà privata denominato “strada vicinale Colombera”, non operando la presunzione semplice derivante dall’inclusione della strada nell’elenco comunale di quelle vicinali e non avendo RFI fornito alcun principio di prova dell’esistenza di un uso pubblico della stessa, l’onere della prova del fatto che esso non sussiste deve ritenersi adeguatamente assolta dai ricorrenti.
Dunque, la mancata inclusione, tra i beni da espropriare e/o asservire coattivamente, di tale porzione di strada, che deve presumersi di proprietà privata, in ragione della sua stessa natura, comporta l’incompletezza della dichiarazione di pubblica utilità e l’impossibilità di eseguire l’opera così come progettata.
Quanto alla possibilità di procedere alla costituzione della sola servitù di uso pubblico, in luogo dell’espropriazione, si ritiene necessario un preliminare distinguo.
Poiché la legge n. 2359 del 1865 consentiva solo l’estinzione di diritti e non anche la loro costituzione, solo attraverso una faticosa ricostruzione giurisprudenziale si è arrivati ad ammettere anche l’imposizione della servitù coattiva mediante ricorso al procedimento di espropriazione per pubblica utilità.
Superando l’ambiguità dell’art. 1 del DPR 327/2001, che si limita a delineare l’ambito di applicazione della procedura espropriativa, prevedendo il ricorso alla stessa per l’acquisto “di ogni diritto relativo a beni immobili”, ora tale possibilità è stata espressamente riconosciuta dal legislatore con l’art. 3 della legge 166/2002, che ha stabilito che “Le procedure impositive di servitù previste dalle leggi in materia di trasporti, telecomunicazioni, acque, energia, relative a servizi di interesse pubblico, si applicano anche per gli impianti che siano stati eseguiti e utilizzati prima della data di entrata in vigore della presente legge, fermo restando il diritto dei proprietari delle aree interessate alle relative indennità”.
Indiscusso, dunque, che il procedimento ablatorio possa essere utilizzato anche per l’imposizione coattiva di una servitù, essa è ammissibile solo nel caso in cui ricorrano, a tal fine, le condizioni previste dal codice civile o dalle leggi speciali che ne riconoscono la possibilità della costituzione.
Presupposto perché si disponga la costituzione di una servitù, in luogo dell’espropriazione è, oltre alla tipicità del diritto che si va a costituire, che il perseguimento dell’interesse pubblico sia compatibile con la conservazione della proprietà del bene, nel senso che l’imposizione della servitù determini una costrizione nella fruizione della proprietà che, pur limitandone l’esercizio, non escluda totalmente l’uso proprio da parte del proprietario.
Ogni volta che l’uso pubblico precluda totalmente l’uso privato della porzione di proprietà in questione lo strumento non può che essere quello dell’espropriazione del diritto dominicale.
Quanto alla servitù di passaggio, inoltre, lo schema tipico dell’asservimento comporta che essa possa essere costituita coattivamente solo laddove sia specificamente individuato un fondo dominante.
Applicando il principio alla fattispecie in esame, dunque, il ricorso alla costituzione della servitù coattiva deve ritenersi legittimo, in quanto, come emerge dall’”Elenco ditte” allegato alla relazione tecnica prodotta a corredo del progetto approvato e dichiarato di pubblica utilità, il procedimento avviato risulta essere preordinato a costituire il diritto di passo solo a favore di fondi specifici, risultati interclusi dalla soppressione del passaggio a livello e non anche a perseguire il risultato di trasformare quella che è una viabilità privata (sia nel tratto definito come strada vicinale, in ragione di quanto sopra, che nel tratto in cui sul terreno si rinviene una mera capezzagna), in una viabilità aperta al pubblico transito. La fattispecie, infatti, in tal caso esulerebbe da quello che è lo schema tipico della servitù, imponendo sui fondi dei ricorrenti un peso che ne escluderebbe ogni facoltà di autonomo godimento, così legittimando la pretesa del ricorso all’esproprio, in luogo del mero asservimento, con conseguente imputazione degli oneri di manutenzione, oltre che di realizzazione, a carico dell’ente pubblico e trasferimento di ogni forma di responsabilità derivante dalla proprietà della strada stessa.
Chiarito, quindi, che il provvedimento impugnato è illegittimo per aver escluso dall’elenco dei beni da asservire la strada vicinale della Colombera, ma non anche per aver previsto l’imposizione coattiva di una servitù di passaggio, in luogo dell’espropriazione dei terreni necessari per la realizzazione di una strada pubblica, a favore dei soli fondi privati dell’accesso dalla soppressione del passaggio a livello, si può passare all’esame del profilo attinente alla localizzazione dell’opera pubblica.
Quanto alla seconda doglianza, va rilevato che il termine per la presentazione delle osservazioni non ha natura perentoria (riservata ai soli termini esplicitamente classificati come tali) e, conseguentemente, l’ente espropriante è tenuto a prendere in considerazione tutte le osservazioni anche tardivamente pervenute, se lo siano in un momento in cui l’attività istruttoria non si è ancora conclusa con la dichiarazione di pubblica utilità. Ciò che è accaduto nel caso di specie, atteso che avrebbero dovuto essere prodotte entro 30 gg. decorrenti dal 17 agosto e, quindi, entro il 16 settembre e quelle del sig. Ca. sono state spedite il 15 settembre e ricevute il 19 successivo. Poiché, però, il decreto dichiarante la pubblica utilità è stato adottato solo il 23.11.2017, esse avrebbero dovuto essere comunque prese in considerazione.
Secondo parte resistente, la mancata valutazione delle osservazioni in sede di approvazione del progetto sarebbe stata sopperita dall’invio della risposta personale ai ricorrenti, ma la tesi non può essere condivisa.
Oltre al fatto che essa risulta essere del tutto generica, in specie considerato che R.F.I. avrebbe dovuto replicare alla puntuale relazione di parte ricorrente, che individuava tutti gli aspetti tecnici di vantaggio della soluzione alternativa proposta e tutte le difficoltà di realizzazione della scelta progettuale operata dall’ente espropriante, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la risposta alle osservazioni dei proprietari, sebbene predisposta ed elaborata dal dirigente o dal RUP che l’ha istruita, dovrebbe essere fatta propria dall’organo (giunta o consiglio comunale, a seconda che l’opera sia o meno prevista dal piano regolatore) deputato all’approvazione del progetto, in quanto parte integrante dello stesso. Diversamente opinando non avrebbe alcun senso la disposizione di cui all’art. 16 del DPR 327/2001, secondo cui l’accoglimento delle osservazioni comporta la modifica del progetto, modifica che non può che competere allo stesso organo preposto all’approvazione del progetto stesso (cfr. in tal senso, TAR Brescia, sentenze n. 2424/2010 e 87/2009).
Ciononostante, l’applicazione dei principi posti alla base dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, estendibili alla fattispecie in quanto trattasi pur sempre di una omissione della garanzia della partecipazione al procedimento, permette di considerare comunque legittimo il rigetto delle osservazioni presentate dai ricorrenti, in ragione di quanto rappresentato nella relazione di RFI depositata in giudizio, in cui si legge che “La soluzione alternativa ivi proposta dai Sigg.ri Ca.–Re. è stata ritenuta non attuabile in quanto prevedeva il transito dei mezzi agricoli da una zona di alta densità abitativa (circostanza in seguito confermata da tecnico comunale)”. Gli aspetti di sicurezza che la sconsigliano rendono, dunque, ragionevole e non illogica la scelta progettuale discrezionalmente operata da RFI nel rigetto dell’ipotesi di tracciato alternativo individuato dai ricorrenti.
Analogo discorso può valere con riferimento all’ulteriore tracciato alternativo proposto dai ricorrenti solo nel ricorso e rispetto a cui il Collegio aveva ravvisato l’opportunità di un confronto fra le parti che, anziché in sede procedimentale, ha, di fatto, avuto luogo attraverso lo scambio di scritti difensivi.
Ne è emersa una proposta progettuale che parte ricorrente non ha saputo suffragare con argomenti idonei a superare le criticità individuate dall’ente espropriante, ma prima di approfondire tale profilo nel merito, appare opportuno premettere che parte ricorrente non è venuta a conoscenza del rigetto delle proprie osservazioni fino a febbraio 2018 e dunque non aveva altra possibilità di proporre un’ulteriore alternativa se non in sede impugnatoria.
In considerazione di ciò e, più in generale, del fatto che la presentazione delle osservazioni in fase procedimentale non può essere considerata conditio sine qua non dell’ammissibilità di una successiva censura in sede giudiziale, volta ad evidenziare il più adeguato contemperamento di interessi pubblici e privati raggiungibile con la diversa soluzione proposta dai ricorrenti, quanto evidenziato negli scritti difensivi di parte resistente appare idoneo a dimostrare come la soluzione tecnica individuata nel progetto resista alla censura di illegittimità mossa al progetto scaturito dall’esercizio discrezionale del potere, avvenuto senza prendere in considerazione il tracciato alternativo che preserverebbe la proprietà dei ricorrenti, ancorché tale motivazione non sia stata puntualmente esternata nel corso del procedimento.
Invero, la difesa di parte resistente ha ben evidenziato come la nuova soluzione prospettata non potrebbe rappresentare una valida alternativa a quella individuata da RFI in sede di progettazione, considerate la sua validità sul piano tecnico, l’efficacia nel raggiungimento dello scopo e i diversi interessi contrapposti (e, in particolare quello all’individuazione di soluzioni tecniche atte ad ovviare alla preclusione dei fondi generata dalla realizzazione dell’opera pubblica che gravino maggiormente sul soggetto beneficiario della costituzione della servitù, con minor aggravio sul terzo, proprietario dei fondi serventi).
Essa, infatti, ingenererebbe problematiche connesse al posizionamento di due tubolari autoportanti per l’attraversamento, definiti ingressi esistenti, che andrebbero ad interferire con una pista ciclopedonale, il cui transito con mezzi agricoli e relativi carichi non è stato adeguatamente valutato dalle parti proponenti.
Per sfruttare tale ingresso, occorrerebbe interferire con i mezzi direttamente sulla pista ciclopedonale e creare una nuova viabilità (di circa 700 mt) a Nord del mappale 185, proseguendo verso Ovest sino alla S.S. 235, per poi proseguire verso Sud ad incontrare la vicinale dei Campolesi. Tale opera risulta più complessa di quella progettata da R.F.I., essendo più estesa la strada da realizzare, con ben più rilevanti e (per la collettività) disagevoli operazioni di movimentazione terra riguardanti una pluralità di fondi appartenenti a diversi proprietari.
Tutto ciò a fronte di una danno limitato alla proprietà dei ricorrenti, atteso che l’assoggettamento alla servitù di passaggio riguarderebbe porzioni di terreni già destinate al transito di mezzi pesanti, per garantire l’accesso alle (di fatto poche) proprietà che risulterebbe intercluse dalla soppressione del sottopasso che garantiva loro l’accesso e, quindi, destinate non a un transito pubblico in senso stretto, ma limitato a soddisfare l’interesse di uno scarso numero di soggetti.
Respinte, dunque, le censure n. 2 e 4, per quanto riguarda, infine, la lamentata omissione, nella fattispecie, della, asseritamente necessaria, apposizione di un vincolo preordinato all’esproprio, la censura non può trovare positivo apprezzamento. Infatti, laddove la realizzazione dell’opera di pubblico interesse comporti, come nel caso di specie, il mero assoggettamento di una strada privata, conforme alle previsioni del PRG e del P.T.C.P., ad una servitù di passaggio, conservandone, anche a seguito dell’esecuzione del progetto, le caratteristiche dimensionali e la medesima classificazione, l’apposizione del vincolo espropriativo non risulta necessaria, al pari dell’acquisizione del parere della Soprintendenza e di quello per i profili idraulici.
Anche la terza censura risulta, dunque, infondata.
L’accoglimento del ricorso introduttivo nei limiti di cui in motivazione, con conseguente necessità di integrare la dichiarazione di pubblica utilità, estendendola alla strada vicinale “Colombera”, che dovrà essere inclusa nell’elenco dei beni da asservire, con conseguente corresponsione della relativa indennità, determina anche l’accoglimento del ricorso per motivi aggiunti per ragioni di invalidità derivata.
Il decreto che autorizza l’occupazione anticipata dei beni oggetto di asservimento risulta, infatti, immune dai vizi dedotti, in quanto la mancata inclusione tra gli immobili da asservire della strada vicinale non comporta, automaticamente, l’illegittimità dell’occupazione degli altri beni, regolarmente assoggettati, per tutto quanto sopra, agli effetti della dichiarazione di pubblica utilità.
Ciò nondimeno la mancata inclusione della strada vicinale nell’elenco dei beni da asservire non può non determinare l’impossibilità oggettiva di portare ad esecuzione l’autorizzazione all’occupazione dei beni, rendendo illegittima la previsione di essa come limitata alla sola capezzagna collocata sul lato sud dei mappali 33 e 76.
Il solo parziale accoglimento del ricorso introduttivo e la natura derivata dell’illegittimità dell’occupazione d’urgenza legittimano la compensazione delle spese del giudizio.

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Affinché un'area privata venga a far parte del demanio stradale e assuma, quindi, la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva e attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titolo dell'area da parte della pubblica amministrazione), né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta, ma è necessario che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base a un atto o a un fatto (convenzione, espropriazione, usucapione, ecc.) idoneo a trasferire il dominio e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente all'uso pubblico (inequivocabile è in tal senso l'inciso "se appartengono ... ai comuni" proprio dell'art. 824, primo comma, cod. civ.).
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6.3.2. Ne consegue che la sentenza qui impugnata non merita condivisione laddove –al punto 3.5 della relativa motivazione– assume come corretta l’affermazione della sentenza n. 818/2004 (sulla questione peraltro riformata dal giudice d’appello) della sussistenza di una servitù di uso pubblico, basata sul mero riconoscimento da parte del Comune di Brindisi che la via in questione è usata dalla collettività.
Ha ragione, infatti, il Comune appellante quando afferma che, non solo il diritto di proprietà, ma anche il diritto reale di servitù presuppone un titolo giuridicamente idoneo alla sua costituzione (ex art. 825 cod. civ.), tale non essendo una situazione di mero fatto.
In proposito, non si può che ribadire il principio di diritto, richiamato dall’appellante, per il quale “Affinché un'area privata venga a far parte del demanio stradale e assuma, quindi, la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva e attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titolo dell'area da parte della pubblica amministrazione), né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta, ma è necessario che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base a un atto o a un fatto (convenzione, espropriazione, usucapione, ecc.) idoneo a trasferire il dominio e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente all'uso pubblico (inequivocabile è in tal senso l'inciso "se appartengono ... ai comuni" proprio dell'art. 824, primo comma, cod. civ.)” (così Cass. civ., sez. II, 25.01.2000, n. 823, cui è conforme la giurisprudenza di legittimità successiva, fino, tra le altre, a Cass. civ., sez. II, 28.09.2010, n. 20405 e 02.02.2017, n. 2795) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2018 n. 5643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di declassificazione non determina di per sé stesso la perdita dell’uso pubblico della strada, qualora quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a garantirne un’utilizzazione pubblica.
Né «il disuso protratto nel tempo» né «l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura della strada o nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con l’uso pubblico» sono sufficienti a dimostrarne «l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di cessazione della demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso pubblico
».
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8.3. Ebbene, secondo un principio consolidato in giurisprudenza, l’atto di declassificazione non determina di per sé stesso la perdita dell’uso pubblico della strada, qualora quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a garantirne un’utilizzazione pubblica.
8.4. Inoltre, la giurisprudenza amministrativa anche più recente ha ribadito che né «il disuso protratto nel tempo» né «l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura della strada o nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con l’uso pubblico» sono sufficienti a dimostrarne «l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di cessazione della demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso pubblico» (Cons. St., Sez. IV, 28.10.2013, n. 5207, nonché Cons. St., Sez. V, 30.11.2011, n. 6338; Sez. VI, 09.02.2011, n. 868; Sez. IV, 07.09.2006, n. 5209, Sez. V, 01.12.2006, n. 7081) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 16.01.2018 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la giurisprudenza consolidata, per poter considerare assoggettata ad uso pubblico una strada privata è necessario che la stessa sia oggettivamente idonea all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella necessità di uso per le esigenze della circolazione o per raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici pubblici).
Deve quindi essere verificato: il requisito del passaggio esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse; un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile.
Non è pertanto configurabile l’assoggettamento di una via vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico in relazione ad un transito sporadico ed occasionale e neppure per il fatto che essa sia adibita al transito di persone diverse dai proprietari o potrebbe servire da collegamento con una via pubblica.
Ed ancora la giurisprudenza ha osservato che, affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della Pubblica amministrazione.

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Condivisibile giurisprudenza ritiene che, in mancanza di espressa classificazione di una strada privata nell'elenco delle strade vicinali, come risulta dalle certificazioni del Comune prodotte in giudizio da parte ricorrente, l'esercizio del potere di autotutela è condizionato al preventivo rigoroso accertamento dell'uso pubblico della strada da parte dell’amministrazione, il quale deve essere condotto mediante un approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova.
E’, infatti necessario, in mancanza di un atto valido a dimostrare la sussistenza del diritto di uso pubblico, che il fatto della protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile, quale titolo parimenti idoneo a sorreggere l’affermazione di tale diritto, venga rigorosamente provato da parte dell’Amministrazione, su cui incombe il relativo onere.
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Il Collegio, posto che il Comune, come peraltro ammesso dal Comune stesso nel provvedimento impugnato, non vanta alcun titolo di proprietà del terreno su cui insiste la strada per cui è causa, deve verificare se tale strada possa essere qualificata area ad uso pubblico, come sostenuto nel medesimo provvedimento.
Ed invero, per la giurisprudenza consolidata, per poter considerare assoggettata ad uso pubblico una strada privata è necessario che la stessa sia oggettivamente idonea all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella necessità di uso per le esigenze della circolazione o per raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici pubblici).
Deve quindi essere verificato: il requisito del passaggio esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse; un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile (Cons. di Stato, IV, n. 1155/2001; V, n. 5692/2000; n. 1250/1998; n. 29/1997; TAR Toscana, Sez. III; n. 1385/2003; TAR Sicilia Catania, n. 2124/1996; Cass. civ. II, nn. 20405/2010 e 7718/1991).
Non è pertanto configurabile l’assoggettamento di una via vicinale a servitù di passaggio ad uso pubblico in relazione ad un transito sporadico ed occasionale e neppure per il fatto che essa sia adibita al transito di persone diverse dai proprietari o potrebbe servire da collegamento con una via pubblica (TAR Palermo, Sez. II, 12.06.2013, n. 1322).
Ed ancora la giurisprudenza ha osservato che, affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della Pubblica amministrazione (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 10.05.2013, n. 2544).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame alla luce della richiamata giurisprudenza, occorre innanzitutto rilevare che il provvedimento deve ritenersi carente di motivazione, in quanto non indica in modo chiaro i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria, come prescrive l’art. 3 della legge n. 241 del 1990.
Ciò in quanto nella fase istruttoria l’organo che ha adottato il provvedimento aveva richiesto i rispettivi pareri al Corpo di Polizia Municipale e all’Area “AA.GG., Legale e URP” di Teano ma, immotivatamente, nel provvedimento decisorio se n’è discostato ponendo a fondamento del provvedimento stesso unicamente il parere precedentemente dato (nel 2014) dal suddetto Corpo di Polizia Municipale.
Occorre premettere che il Corpo di Polizia Municipale di Teano, nel verbale di sopralluogo prot. n. 2136/PM dell’08.10.2014, aveva concluso che la strada per cui è causa potesse essere classificata come area ad uso pubblico sulla base delle seguenti motivazioni: la stessa pavimentazione della strada principale, la stessa illuminazione pubblica, la mancanza di scritta o struttura o altro segno che inibisce a chicchessia la sosta o il transito e/o la circolazione dei pedoni, la circostanza che il Ci., con regolare licenza, avesse gestito per più di vent’anni un pubblico servizio che aveva unico ingresso ed accesso da detto stradone, l’autorizzazione di un passo carrabile rilasciata in favore di Ma.Vi..
Ed invero, nel parere n. 30 del 31.03.2016, il Responsabile dell’Area AA.GG., Legale e URP aveva rappresentato, andando in contrario avviso rispetto alle conclusioni del Corpo di Polizia Municipale del 2014, di “convergere, sostanzialmente, sulle ricerche fatte dagli avvocati dei tecnici di parte”, dando atto che dalla lettura del rispettivo parere prot. n. 615 del 29.03.2016 anche il Comando di PM, seppur ribadendo l’impostazione del precedente parere dell’08.10.2014, “apre a soluzione alternative”.
Ciò in quanto il Responsabile della suddetto Comando pur “confermando tutto quanto in essa” -dell’08.10.2014– “dedotto ed affermato” ha concluso rappresentando che “Appare chiaro che il diritto di uso pubblico diventa acquisito de iure allor quando il Comune invochi, avochi ed imponga la servitù incontestata con apposito atto amministrativo. A tutt'oggi niente vieta al Comune di non invocare come necessario e come pretesa tale diritto, (che comporrebbe tra l'altro ulteriori spese di manutenzione), riconoscendo al legittimo proprietario la piena fruibilità, senza vincolo dei propri beni.”.
Il Responsabile dell’Area Legale, dal canto suo, ha concluso dicendo di essere “del parere che -manchino o sono insufficienti- gli elementi fondamentali per ipotizzare una servitù pubblica di passaggio sulla strada privata nel Borgo di S. Marco, come individuata dagli istanti, sul doppio presupposto che: 1)- gli attuali proprietari abbiano dimostrato, con atti tra vivi o mortis causa, che essa sia privata; 2)- che il palo venga immediatamente disattivato dalla pubblica illuminazione e che i proprietari paghino una somma forfetaria -calcolata dall'Ufficio Tecnico- a ristoro della fornitura di energia dalla sua messa in opera fino all'interruzione della fornitura.”.
Peraltro, in riferimento a detto palo, già con nota prot. n. 3300 del 23.02.2016 la stessa Responsabile dell’Area Tecnica, firmataria del provvedimento oggetto di impugnazione, aveva accolto la richiesta di eliminazione del punto luce ubicato nella zona interessata, rappresentando di aver dato inizio alle procedure amministrative propedeutiche alla rimozione dello stesso.
Il Collegio, confermando quanto già sostenuto da questa Sezione nell’ordinanza n. 2157 del 22.12.2016, con la quale è stata accolta la domanda incidentale di sospensione cautelare proposta dal ricorrente, e concordando con quanto rappresentato nel parere n. 30 del 31.03.2016 dal Responsabile dell’Area AA.GG., Legale e URP del Comune di Teano, ritiene che non si ravvisino elementi certi circa la sussistenza dell’uso pubblico della strada su cui insistono le opere oggetto del provvedimento impugnato (cfr. TAR Napoli, Sez. VIII, 06.12.2016, n. 5810).
Ed invero, alla luce delle risultanze dell’istruttoria, non può ritenersi provato il requisito principale del passaggio esercitato da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale da tempo immemorabile, non potendo ritenersi tale circostanza fondata unicamente sulla presenza, nel passato, di un esercizio commerciale di cui era titolare uno dei ricorrenti.
Ciò in quanto la condivisibile giurisprudenza ritiene che, in mancanza di espressa classificazione di una strada privata nell'elenco delle strade vicinali, come risulta dalle certificazioni del Comune di Teano prodotte in giudizio da parte ricorrente, l'esercizio del potere di autotutela è condizionato al preventivo rigoroso accertamento dell'uso pubblico della strada da parte dell’amministrazione, il quale deve essere condotto mediante un approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova (cfr. (TAR Palermo, Sez. II, 12.06.2013, n. 1322 cit., TAR Lazio, Sez. II, 29.03.2004, n. 2922).
E’, infatti necessario, in mancanza di un atto valido a dimostrare la sussistenza del diritto di uso pubblico, che il fatto della protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile, quale titolo parimenti idoneo a sorreggere l’affermazione di tale diritto, venga rigorosamente provato da parte dell’Amministrazione, su cui incombe il relativo onere (TAR Marche, Ancona, Sez. I, 01.02.2016, n. 48).
Inoltre dalla documentazione anche fotografica, prodotta in atti, emerge che tale strada e cieca e consente unicamente l’accesso alla strada principale (via Aldo Moro), ma non si rinviene l’oggettiva idoneità della strada stessa all’attuazione di un pubblico interesse consistente nella necessità di uso per le esigenze della circolazione o per raggiungere edifici di interesse collettivo (chiese, edifici pubblici); né risultano effettuati lavori di manutenzione della strada stessa da parte dell’amministrazione comunale (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2017 n. 4233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza sindacale contingibile e urgente in questione, ovverosia l’uso per pubblico transito della strada o l’esistenza di altre ragioni che rendevano indispensabile il ripristino in via d’urgenza della sua accessibilità, deve essere provata dall’amministrazione che adotta il provvedimento.
Ciò tanto più in quanto il Comune in questione non ha formalmente utilizzato il potere sindacale contemplato dall'art. 378 l. n. 2248/1865 all. F, quale ipotesi di autotutela possessoria “iuris publici” in tema di strade sottoposte all'uso pubblico -che, in quanto tale, trova il suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l'uso pubblico della strada senza necessità di ulteriori motivazioni- ma ha adottato una ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 54, comma 4, del D.Lgs. 267 del 2000, tipologicamente volta ad affrontare situazioni a carattere straordinario ed imprevedibile, in rapporto alle quali non sia possibile utilizzare gli ordinari strumenti approntati dall'ordinamento giuridico, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e congrua motivazione.
Inoltre, i requisiti affinché una strada possa essere considerata pubblica sono il passaggio esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale e la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il collegamento con la pubblica via, e il diritto di uso pubblico di una strada deve essere rigorosamente provato.
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2) Il secondo ricorso per motivi aggiunti si rivela fondato.
L’ordine di rimozione si basa sui presupposti logico-giuridici della natura di strada vicinale e dell’uso pubblico della strada in questione, utilizzata dalla collettività per l’accesso ad altri lotti e ai capannoni industriali, nonché dell’esistenza di infrastrutture pubbliche funzionali all’esercizio di servizi pubblici essenziali per la popolazione.
La sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza sindacale contingibile e urgente in questione, ovverosia l’uso per pubblico transito della strada o l’esistenza di altre ragioni che rendevano indispensabile il ripristino in via d’urgenza della sua accessibilità, deve essere provata dall’amministrazione che adotta il provvedimento.
Ciò tanto più in quanto il Comune in questione non ha formalmente utilizzato il potere sindacale contemplato dall'art. 378 l. n. 2248/1865 all. F, quale ipotesi di autotutela possessoria “iuris publici” in tema di strade sottoposte all'uso pubblico -che, in quanto tale, trova il suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l'uso pubblico della strada senza necessità di ulteriori motivazioni- ma ha adottato una ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 54, comma 4, del D.Lgs. 267 del 2000, tipologicamente volta ad affrontare situazioni a carattere straordinario ed imprevedibile, in rapporto alle quali non sia possibile utilizzare gli ordinari strumenti approntati dall'ordinamento giuridico, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e congrua motivazione (Cons, Stato, Sez. V, 16/02/2010, n. 868).
Inoltre, i requisiti affinché una strada possa essere considerata pubblica sono il passaggio esercitato “iuris servitutis publicae” da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale e la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il collegamento con la pubblica via, e il diritto di uso pubblico di una strada deve essere rigorosamente provato.
Nel caso di specie il Comune non ha provato la sussistenza dell’uso pubblico della strada posto a base dell’ordinanza impugnata, né specifiche ragioni di pubblica utilità ostative all’installazione della sbarra.
La documentazione allegata dal medesimo Comune, e posta a base dell’atto impugnato, difatti, non comprova che la strada fosse stata stabilmente adibita a pubblico transito, considerata anche la circostanza che si tratta di una strada sostanzialmente chiusa e sulla quale si affacciano tre soli lotti, né ha comprovato la presenza di infrastrutture pubbliche e che l’impedimento alla libera transitabilità pone a rischio l'incolumità pubblica, non essendo presente sulla strada altro che il tratto di allaccio della rete fognaria ai lotti in questione.
Inoltre, non appare chiara e di univoca lettura la documentazione depositata inerente alla supposta realizzazione da parte del Comune della strada in questione.
In sostanza, pertanto, si rileva la sussistenza del difetto di istruttoria rispetto all’ordinanza adottata, non risultando comprovati i presupposti necessari ai fini del potere ripristinatorio dello stato dei luoghi esercitato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.03.2017 n. 1289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza, la destinazione di strade vicinali ad uso pubblico necessariamente comporta il loro coinvolgimento in un transito generalizzato con la conseguenza che, anche a prescindere della proprietà del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze, il Comune possa vantare sulla strada vicinale, ai sensi dell'art. 825 c.c., un diritto reale di transito.
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Nel disporre la verificazione la Sezione aveva declinato le caratteristiche richieste perché le strade possano essere definite strade vicinali, ossia:
   - che siano interessate dal passaggio iure servitutis pubblicae da parte della collettività sul territorio,
   - che siano quindi concretamente idonee a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e
   - che siano anche di fatto destinate a tale uso pubblico da tempo immemorabile,
prescrivendo dunque che l’accertamento della natura della strada predetta fosse effettuato non soltanto alla stregua di quanto previsto nel relativo elenco e secondo le risultanze catastali, bensì anche in relazione alle caratteristiche effettive in cui la strada si trova, verificando l’ubicazione della strada in seno a centri abitati, l’impiego a transito generalizzato da parte della collettività (e non da parte, per esempio, di singoli proprietari di fondi prospicienti sulla strada medesima) in maniera consolidata e duratura nel tempo, l’idoneità della strada a fare da congiunzione fra altre strade pubbliche, nonché le attività ordinariamente svolte dal Comune in relazione alla gestione e manutenzione di essa.
Una strada vicinale può, infatti, considerarsi aperta al pubblico transito, quando ricorrono i seguenti tre presupposti:
   a) il passaggio esercitato iure servitutis publicae da una collettività indeterminata di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale;
   b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento alla via pubblica, esigenze di interesse generale;
   c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico.
In particolare, l'accertamento in ordine all'effettiva destinazione ad uso pubblico di una strada presuppone, necessariamente, l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia costituita una servitù di uso pubblico e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o ancora, l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione stessa circa la funzione da essa assolta.
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4.2. Osserva il Collegio che la natura privata della strada in questione, unita all’avvenuto accertamento della mancanza di infrastrutture di servizio e della assenza dei requisiti per essere classificata come strada aperta al pubblico transito, alla stregua della disciplina dettata dal Codice della strada, esclude in radice che il Comune di Leonessa possa vantare alcuna pretesa sulla stessa né, tanto meno, che possa ritenersi leso da quella che va qualificata attività di recinzione di una proprietà privata, dunque legittimamente posta in essere dall’Ente proprietario.
In proposito deve rammentarsi che la Sezione, fin dall’ordinanza n. 2482 del 23.02.2016, aveva chiarito che, secondo la giurisprudenza, la destinazione di strade vicinali ad uso pubblico necessariamente comporta il loro coinvolgimento in un transito generalizzato con la conseguenza che, anche a prescindere della proprietà del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze, il Comune possa vantare sulla strada vicinale, ai sensi dell'art. 825 c.c., un diritto reale di transito (cfr. Cons. Stato IV, 21.09.2015, n. 4398).
Pertanto, nel disporre la verificazione, la Sezione aveva declinato le caratteristiche richieste perché le strade possano essere definite strade vicinali, ossia che siano interessate dal passaggio iure servitutis pubblicae da parte della collettività sul territorio, che siano quindi concretamente idonee a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e che siano anche di fatto destinate a tale uso pubblico da tempo immemorabile, prescrivendo dunque che l’accertamento della natura della strada predetta fosse effettuato non soltanto alla stregua di quanto previsto nel relativo elenco e secondo le risultanze catastali, bensì anche in relazione alle caratteristiche effettive in cui la strada si trova, verificando l’ubicazione della strada in seno a centri abitati, l’impiego a transito generalizzato da parte della collettività (e non da parte, per esempio, di singoli proprietari di fondi prospicienti sulla strada medesima) in maniera consolidata e duratura nel tempo, l’idoneità della strada a fare da congiunzione fra altre strade pubbliche, nonché le attività ordinariamente svolte dal Comune in relazione alla gestione e manutenzione di essa.
Una strada vicinale può, infatti, considerarsi aperta al pubblico transito, quando ricorrono i seguenti tre presupposti:
   a) il passaggio esercitato iure servitutis publicae da una collettività indeterminata di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale;
   b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento alla via pubblica, esigenze di interesse generale;
   c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico.
In particolare, l'accertamento in ordine all'effettiva destinazione ad uso pubblico di una strada presuppone, necessariamente, l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia costituita una servitù di uso pubblico e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o ancora, l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione stessa circa la funzione da essa assolta (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 03.08.2016, n. 4013).
La relazione del verificatore ha dato risposta esaustiva e documentata ai quesiti posti dall’ordinanza, escludendo la sussistenza di tutti i richiamati presupposti perché la strada in esame possa considerarsi strada vicinale di uso pubblico: infatti, ferma restando la proprietà della strada in capo al Comune di L’Aquila, circostanza non contestata, il Collegio osserva che, anche dai rilievi fotografici prodotti a corredo della relazione, è agevole verificare ictu oculi che si tratta di un tratturo non adatto al pubblico transito e, comunque, privo di segni visibili sia di un abituale transito di veicoli sia di infrastrutture o di attività di manutenzione della strada da parte del Comune.
4.3. Da quanto precede discende l’illegittimità dell’ordinanza di rimozione impugnata, poiché adottata dal Comune di Leonessa in radicale assenza del presupposto fondante, ossia che la sbarra impedisca la fruibilità della strada, che erroneamente ha qualificato come vicinale di uso pubblico, nonché il raggiungimento di fontanili ed acque, anche in questo caso erroneamente qualificati come pubblici.
Conclusivamente, assorbiti gli ulteriori motivi, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, l’atto impugnato deve essere annullato.
All’annullamento dell’ordinanza di rimozione consegue, quale effetto conformativo, il ripristino della sbarra illegittimamente rimossa, a cura e spese del Comune di Leonessa (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 17.02.2017 n. 2571 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La PA deve operare accertamenti in ordine alla sussistenza di un eventuale uso pubblico pregresso nonché in ordine alla concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità, condotte mediante un approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova.
Sicché, è illegittimo il comportamento comunale che si limita a desumere apoditticamente l'uso pubblico dal fatto che il passaggio venga esercitato nell'interesse di un gruppo limitato di soggetti, quali i proprietari degli immobili confinanti nonché coloro che devono recarsi alla centralina idroelettrica, costruita a seguito di procedure ablative che non hanno interessato la suddetta stradina e che avrebbero dovuto, se del caso, interessarla, in presenza di eventuali connesse esigenze di pubblica utilità.
Non risulta, dunque, dimostrato che la stradina in questione sia al servizio della generalità indifferenziata dei cittadini uti cives e non uti singuli e non risulta neanche comprovata l’utilizzazione continuativa da parte dei soli residenti che se ne servono per raggiungere i fondi.
Nel caso di specie, quindi, non vengono indicati elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c. e neanche viene indicata la concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di dimostrare l’asservimento della stradella in questione all'uso pubblico.
Rafforza tale significativo quadro fattuale la circostanza inerente l’omesso inserimento della strada in questione nell’elenco comunale, come confermato dallo stesso Comune resistente, anche a voler prescindere dalla considerazione secondo cui detta inclusione, ai sensi dell'art. 8 della legge n. 126 del 1958, non risulta dirimente, ha natura dichiarativa e non costitutiva ed ha carattere di mera presunzione di demanialità, ai sensi dell'art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F, superabile con la prova contraria dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù.
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Viene impugnata l’epigrafata ordinanza, con cui viene imposto al ricorrente di rimuovere una sbarra metallica, apposta dal ricorrente sul tratto di strada privata denominato “Taverna-Monti”, di proprietà del ricorrente.
In punto di fatto, non risulta in contestazione che la stradella in questione sia mai stata rilevata o censita, come ammesso dallo stesso Comune con nota prot. 2545 del 24.11.2008, sebbene sia utilizzata dai proprietari dei vari fondi agricoli limitrofi e serva per arrivare alla Centralina Idroelettrica Comunale, realizzata mediante procedure ablative che non hanno interessato il sito su cui sorge detta stradina.
Risulta altresì che pende presso il Tribunale di Cosenza un giudizio civile, intrapreso dal ricorrente con citazione del 09.03.2006 nei confronti del Comune.
Non risulta che la P.A. abbia posto a fondamento del provvedimento impugnato idonei accertamenti in ordine alla sussistenza di un eventuale uso pubblico pregresso nonché in ordine alla concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità, condotte mediante un approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova (conf.: Cons. St., Sez. V, 07.04.1995, n. 522; Tar Lombardia, Brescia, 07.09.1999, n. 769; TAR Sardegna, 21.12.2000, n. 1246; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 29.03.2004, n. 2922 TAR Valle d'Aosta, I, n. 86/2009), limitandosi a desumere apoditticamente l'uso pubblico dal fatto che il passaggio venga esercitato nell'interesse di un gruppo limitato di soggetti, quali i proprietari degli immobili confinanti nonché coloro che devono recarsi alla centralina idroelettrica, costruita a seguito di procedure ablative che non hanno interessato la suddetta stradina e che avrebbero dovuto, se del caso, interessarla, in presenza di eventuali connesse esigenze di pubblica utilità.
Non risulta, dunque, dimostrato che la stradina in questione sia al servizio della generalità indifferenziata dei cittadini uti cives e non uti singuli e non risulta neanche comprovata l’utilizzazione continuativa da parte dei soli residenti che se ne servono per raggiungere i fondi.
Nel caso di specie, quindi, non vengono indicati elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c. e neanche viene indicata la concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di dimostrare l’asservimento della stradella in questione all'uso pubblico.
Rafforza tale significativo quadro fattuale la circostanza inerente l’omesso inserimento della strada in questione nell’elenco comunale, come confermato dallo stesso Comune resistente, anche a voler prescindere dalla considerazione secondo cui detta inclusione, ai sensi dell'art. 8 della legge n. 126 del 1958, non risulta dirimente, ha natura dichiarativa e non costitutiva ed ha carattere di mera presunzione di demanialità, ai sensi dell'art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F, superabile con la prova contraria dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù (Cass. Civ., Sez. Un., 27.01.2010, n. 1624; Cass. Civ., Sez. II, 09.11.2009, n. 23705).
Ritiene, dunque, il Collegio che, in punto di fatto, risulti ammessa la natura privata della strada in questione e non risulta dimostrata alcuna situazione di demanialità o di uso pubblico nel caso di specie, sebbene in via di fatto la stradina sia ritenuta molto utile per accedere alla centrale comunale idroelettrica: ma tanto non basta a consentire al Comune l’esercizio di poteri autoritativi, nei confronti del ricorrente, in assenza di atti ablativi, né tanto meno mediante lo strumento atipico dell’ordinanza contingibile ed urgente, difettandone, nella specie, ab imis i presupposti legittimanti (sebbene il ricorso non sia incentrato su questo aspetto).
In definitiva, gli elementi acquisiti al giudizio depongono per la fondatezza del gravame.
In definitiva, il ricorso si appalesa fondato e va accolto e, per l’effetto, va annullato il provvedimento impugnato, fatti salvi gli ulteriori e legittimi provvedimenti dell’Autorità Amministrativa (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 08.02.2012 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Che i giudici si mettessero d'accordo, una vota per tutte, rimettendo la quaestio juris all'Adunanza Plenaria del CdS!!

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno stato di quiescenza.
Ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o all’emissione di un esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali gli effetti sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una nuova ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
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4. La ricorrente ritiene, inoltre, che la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001, depositata in data 07.08.2007, avrebbe avuto l’effetto di rendere illegittima l’ordinanza de qua.
La censura è infondata.
Infatti, per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno stato di quiescenza; ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o all’emissione di un esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali gli effetti sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una nuova ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
Nel caso in questione, è maturato il diniego tacito (che peraltro non è stato gravato), sulla domanda di sanatoria presentata dalla ricorrente, per cui l’ordinanza di demolizione è efficace e priva dei vizi sollevati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 02.12.2019 n. 13763 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa proposizione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace la misura ripristinatoria, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine di rimozione degli abusi, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
In altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo edilizio in sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi.
Pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di conformità successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso improcedibile, non essendovi più alcun interesse alla decisione relativamente ad atto divenuto medio tempore inefficace e quindi non più idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente.
In conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato improcedibile, a fronte della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 quando già era stato proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi trasposto in sede giurisdizionale.

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Ritenuto:
   - che si presenta assorbente di ogni altra questione la circostanza che nelle more del giudizio l’interessato abbia presentato istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
   - che, secondo un orientamento giurisprudenziale già fatto proprio dalla Sezione (v., tra le altre, sentt. n. 2635 del 23.11.2018 e n. 665 del 27.03.2019), la proposizione di una simile istanza –successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive– produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace la misura ripristinatoria, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine di rimozione degli abusi, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere;
   - che, in altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo edilizio in sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi (v. TAR Umbria 10.12.2018 n. 672; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 18.05.2018 n. 827);
   - che, pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di conformità successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso improcedibile, non essendovi più alcun interesse alla decisione relativamente ad atto divenuto medio tempore inefficace e quindi non più idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente (v. TAR Veneto, Sez. II, 30.07.2019 n. 901);
   - che, in conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato improcedibile, a fronte della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 quando già era stato proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi trasposto in sede giurisdizionale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.11.2019 n. 2544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria di un abuso edilizio non determina alcuna inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma solo la temporanea sospensione della sua esecuzione.
In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria l’amministrazione non deve quindi reiterare l’ordine di demolizione, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento.
Ne consegue che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell’intervento edilizio non determina l’improcedibilità del ricorso principale, poiché l’ordine demolitorio avversato mantiene la sua efficacia e lesività, con conseguente necessità di esaminare le doglianze in merito sollevate dall’esponente.
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1. L’odierno ricorrente, che ha realizzato una veranda attrezzata antistante il locale ove esercita l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione del manufatto e del successivo diniego di rilascio del titolo edilizio in sanatoria.
2. Deve essere esaminato preliminarmente il ricorso principale, in adesione all’orientamento secondo il quale la presentazione dell'istanza di sanatoria di un abuso edilizio non determina alcuna inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma solo la temporanea sospensione della sua esecuzione. In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria l’amministrazione non deve quindi reiterare l’ordine di demolizione, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento (in termini Cons. Stato, sez. II, 24.06.2019, n. 4304, Cons. Stato, Sez. IV, 05.11.2018, n. 6233).
Ne consegue che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell’intervento edilizio non determina l’improcedibilità del ricorso principale, poiché l’ordine demolitorio avversato mantiene la sua efficacia e lesività, con conseguente necessità di esaminare le doglianze in merito sollevate dall’esponente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.11.2019 n. 990 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATAIn seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria sorge in capo all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi nuovamente in modo espresso o tacito sulla predetta istanza e, in caso di reiezione della stessa (come avvenuto nella specie), dovrà poi adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente già adottate.

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1. Deve essere preliminarmente vagliata l’eccezione di improcedibilità del ricorso introduttivo –proposto avverso l’ordine di demolizione– a seguito della proposizione di istanza di sanatoria (nella specie ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001).
L’eccezione è fondata.
Come già affermato dalla Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 03.05.2019, n. 1003), in seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria sorge in capo all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi nuovamente in modo espresso o tacito sulla predetta istanza e, in caso di reiezione della stessa (come avvenuto nella specie), dovrà poi adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa. Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente già adottate (cfr., TAR Lombardia, Milano, II, 23.11.2018, n. 2635; TAR Lombardia, Brescia, I, 10.07.2017, n. 904; TAR Molise, I, 26.02.2016, n. 105).
Nel caso di specie, il Comune ha espressamente provveduto, in maniera negativa, sull’istanza di sanatoria, sicché relativamente alle opere in parola dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, nei confronti del quale le parti interessate potranno far valere le loro eventuali doglianze.
In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.11.2019 n. 2381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza).

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9. La difesa del Comune ha dato, altresì, atto della presentazione di una DIA in sanatoria ai sensi dell’art. 37 del DPR n. 380/2001 con riferimento alla “serranda e vetrata con porta al locale portico e scala” oggetto di contestazione, puntualizzando, nella memoria depositata il 07.09.2013, che “tali denunce sono in corso trattazione”.
Sul tema della sorte processuale del ricorso avverso l’ordinanza di demolizione seguita da un’istanza di sanatoria ai sensi degli articoli 36 e 37 del DPR 380/2001, è principio acquisito nella giurisprudenza di questa Sezione quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria, 24.08.2019, n. 511; 17.09.2018, n. 559; 03.07.2018, n. 406).
Il ricorso è, pertanto, anche per questa parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in ragione della presentazione, successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione, di una DIA in sanatoria per le opere di realizzazione della “serranda e vetrata con porta al locale portico e scala (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”, con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere.
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione, successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 ovvero di domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali temporanee laddove si è ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria”.

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Per giurisprudenza costante:
   1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima, è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire”;
   2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo”;
   3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso”>>.
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a (successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i presupposti per il suo rilascio”.

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1. - L’impugnata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 - Protocollo Generale n. 24219 è divenuta inefficace e ha perso la propria capacità lesiva della sfera giuridica dei ricorrenti, in quanto gli stessi, successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione impugnata ed alla proposizione del presente ricorso, hanno presentato -in data 16.12.2013- istanza di sanatoria, ex art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.1 - Ed invero, il Collegio non ravvisa, allo stato, ragioni per discostarsi dalla <<giurisprudenza consolidata di questa Sezione, secondo cui <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione oggetto dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266). Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR Puglia, Lecce, III, 19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.04.2018, n. 628, idem, 30.09.2016, n. 1512), con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.06.2019, n. 1061).
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione, successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 (<<cfr. TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137, che espressamente richiama, “ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; 07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n. 1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n. 172; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; 07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n. 1519; Salerno, sez. I, 23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258; 04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n. 885; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche, Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691”), ovvero di domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali temporanee (v. Consiglio di Stato, V, 19.04.2013, n. 2221, con cui si è ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria”)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 24.10.2017, n. 1649).
Per giurisprudenza costante di questa Sezione (cfr., da ultimo, TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 28.01.2019, n. 154, 18.03.2019, n. 447 e giurisprudenza ivi citata - “ex multis, TAR Puglia-Lecce, n. 1454/2013, n. 1956/2017, n. 1388/2017, n. 69/2018, n. 706/2018”), da cui, allo stato, non si ravvisa ragioni per discostarsi:
   1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima, è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 13.01.2011, n. 11; TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909);
   2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.09.2013, n. 1938);
   3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso” (ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 01.08.2012 n. 1447...” )>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.09.2014, n. 2342).
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a (successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i presupposti per il suo rilascio” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909).
1.2 - Orbene, nel caso in esame, il Collegio, rilevata la piana ascrivibilità della vicenda concreta de qua alla terza delle sopra indicate fattispecie, ribadisce che, nell’ipotesi di presentazione dell’istanza di sanatoria edilizia successivamente all’ordine di demolizione e all’impugnazione del medesimo, l’interesse del responsabile dell’abuso si concentra sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria, prima, e di demolizione, poi (ex plurimis, TAR Campania, Napoli, Sezione Ottava, 08.03.2012, n. 1202): pertanto, in caso di reiezione dell’istanza (come avvenuto nella specie, giusta diniego prot. n. 8737/2014, impugnato innanzi a questo TAR con il giudizio avente nr. R.G. 1557/2014), l’Amministrazione dovrà emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell’opera edilizia ritenuta abusiva, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
1.3 - In conclusione, la gravata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 - Protocollo Generale n. 24219 ha perso la propria efficacia lesiva: non essendovi, quindi, attualmente, pregiudizio per i ricorrenti e non permanendo, quindi, l’interesse all’impugnazione, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, come da esplicita richiesta in tal senso presentata dai medesimi ricorrenti in data 18.06.2019 (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 29.10.2019 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro: è illecito mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente. Dopo la cessazione del rapporto di lavoro la società aveva avuto anche accesso alle e-mail.
Commette un illecito la società che mantiene attivo l’account di posta aziendale di un dipendente dopo l’interruzione del rapporto di lavoro e accede alle mail contenute nella sua casella di posta elettronica. La protezione della vita privata si estende anche all’ambito lavorativo.
Questi i principi ribaditi dal Garante per la privacy (provvedimento 04.12.2019 n. 216) nel definire il reclamo di un dipendente che lamentava la violazione della disciplina sulla protezione dei dati da parte della società presso la quale aveva lavorato.
L’ex dipendente contestava, in particolare, alla società la mancata disattivazione della e-mail aziendale e l’accesso ai messaggi ricevuti sul suo account. L’interessato era venuto a conoscenza di questi fatti per caso, nel corso di un giudizio davanti al giudice del lavoro promosso nei suoi confronti dalla sua ex azienda, avendo quest’ultima depositato agli atti una e-mail giunta sulla sua casella di posta un anno dopo la cessazione dal servizio.
Dagli accertamenti svolti dall’Autorità è emerso che l’account di posta era rimasto attivo per oltre un anno e mezzo dopo la conclusone del rapporto di lavoro prima della sua eliminazione, avvenuta solo dopo la diffida presentata dal lavoratore. In questo periodo la società aveva avuto accesso alle comunicazioni che vi erano pervenute, alcune anche estranee all’attività lavorativa del dipendente.
Il Garante ha ritenuto illecite le modalità adottate dalla società perché non conformi ai principi sulla protezione dei dati, che impongono al datore di lavoro la tutela della riservatezza anche dell’ex lavoratore. Subito dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un’azienda deve infatti rimuovere gli account di posta elettronica riconducibili a un dipendente, adottare sistemi automatici con indirizzi alternativi a chi contatta la casella di posta e introdurre accorgimenti tecnici per impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo.
L’adozione di tali misure tecnologiche -ha spiegato il Garante- consente di contemperare l’interesse del datore di lavoro di accedere alle informazioni necessarie alla gestione della propria attività con la legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori oltre che di terzi. Lo scambio di e-mail con altri dipendenti o con persone esterne all’azienda consente infatti di conoscere informazioni personali relative al lavoratore, anche solamente dalla visualizzazione dei dati esterni delle comunicazioni (data, ora oggetto, nominativi di mittenti e destinatari).
Oltre a dichiarare l’illecito trattamento, il Garante ha quindi ammonito la società a conformare i trattamenti effettuati sugli account di posta elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro alle disposizioni e ai principi sulla protezione dei dati ed ha disposto l’iscrizione del provvedimento nel registro interno delle violazioni istituito presso l’Autorità. Tale iscrizione costituisce un precedente per la valutazione di eventuali future violazioni (commento tratto da e link a www.gpdp.it).
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MASSIMA
   RILEVATO che, in base alle risultanze dell’attività istruttoria, è emerso che la società, dopo la cessazione del rapporto di lavoro con il reclamante avvenuta il 10.09.2016, ha mantenuto attivo l’account di posta elettronica individualizzato assegnato al dipendente, al dichiarato fine di non perdere contatti utili con i clienti che avessero voluto mantenere rapporti commerciali con la società; alcune informazioni in tal modo raccolte sono state utilizzate nell’ambito di un procedimento avviato successivamente all’inizio della raccolta dei dati (con ricorso del 29.06.2017, notificato all’ex dipendente l’11.07.2017) in sede giurisdizionale nei confronti del reclamante −in particolare mediante deposito in giudizio di una e-mail pervenuta sull’account il 12.09.2017− per l’ulteriore e sopravvenuta finalità di difesa di propri diritti;
   RILEVATO pertanto che l’account aziendale è rimasto attivo per un periodo di tempo significativo (pari a circa un anno e sette mesi, durante il quale la società ha acceduto alle comunicazioni ivi pervenute), fino alla cancellazione effettuata dalla società (il 03.05.2018) a seguito della diffida presentata dal reclamante;
   RILEVATO altresì che, in relazione a tale modalità di trattamento dei dati relativi all’ex dipendente, si prende atto che la società ha dichiarato di aver previamente comunicato “verbalmente” al reclamante il trattamento connesso al suo indirizzo di posta elettronica, e che ciò non costituisce elemento idoneo a documentare l’avvenuto adempimento da parte della società dell’obbligo informativo che l’ordinamento pone in capo al titolare del trattamento;
   RITENUTO che il titolare è tenuto ad informare preventivamente i dipendenti circa le caratteristiche essenziali dei trattamenti che intende effettuare, anche con riferimento all’utilizzo di strumenti messi a disposizione nell’ambito del rapporto di lavoro, ciò anche in applicazione del principio di correttezza (v. artt. 11, comma 1, lett. a) e 13 del Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo, criteri peraltro confluiti negli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del Regolamento);
   RITENUTO che,
conformemente al costante orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, la protezione della vita privata si estende anche all’ambito lavorativo (v. Niemietz c. Allemagne, 16.12.1992 (ric. n. 13710/88), spec. par. 29; Copland v. UK, 03.04.2007 (ric. n. 62617/00), spec. par. 41; Bărbulescu v. Romania [GC], 05.09.2017 (ric. n. 61496/08), spec. par. 70-73; Antović and Mirković v. Montenegro, 28.11.2017 (ric. n. 70838/13), spec. par. 41-42);
   RILEVATO che
lo scambio di corrispondenza elettronica (estranea o meno all’attività lavorativa) su un account di tipo individualizzato con soggetti interni o esterni alla compagine aziendale configura un’operazione che consente di conoscere alcune informazioni personali relative all’interessato, anche relativamente ai dati c.d. esterni delle comunicazioni (data, ora, oggetto, nominativi di mittenti e destinatari) (v. Provv. 27.11.2014, n. 551, doc. web n. 3718714);
   VISTO, a tale ultimo proposito, che l’elenco delle comunicazioni ricevute sull’account aziendale riferito al reclamante dopo la cessazione del rapporto di lavoro contiene anche messaggi che, in base a quanto si evince dall’indicazione del mittente e dell’oggetto, non sono riferibili all’attività professionale dell’ex dipendente (ad es. inviti ricevuti sul social LinkedIn, inviti ad iniziative culturali, pubblicità di un istituto bancario alla clientela: v. reclamo 31.10.2018, All. 10);
   RILEVATO altresì che nel provvedimento contenente le "Linee guida del Garante per posta elettronica e Internet" (adottato dall´Autorità il 01.03.2007 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 58 del 10.03.2007), il Garante ha ritenuto che "
il contenuto dei messaggi di posta elettronica –come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati- riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente, la cui ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità umana e il pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali" (punto 5.2 lett. b) e che ciò, trasposto in ambito lavorativo, comporta la possibilità che il lavoratore o soggetti terzi coinvolti (i cui diritti devono essere parimenti tutelati), possano vantare una legittima aspettativa di riservatezza su talune forme di comunicazione; rilevato che tali esigenze di tutela devono essere tenute in considerazione anche nell´ipotesi in cui venga a cessare il rapporto di lavoro tra le parti;
   RITENUTO, in particolare, che
il datore di lavoro, in conformità ai principi in materia di protezione dei dati personali, dopo la cessazione del rapporto di lavoro debba rimuovere gli account di posta elettronica aziendali riconducibili a persone identificate o identificabili (in un tempo ragionevole commisurato ai tempi tecnici di predisposizione delle misure), previa disattivazione degli stessi e contestuale adozione di sistemi automatici volti ad informarne i terzi ed a fornire a questi ultimi indirizzi alternativi riferiti all’attività professionale del titolare del trattamento, provvedendo altresì ad adottare misure idonee ad impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo durante il periodo in cui tale sistema automatico è in funzione; l’adozione di tali misure tecnologiche ed organizzative consente di contemperare l’interesse del titolare ad accedere alle informazioni necessarie all’efficiente gestione della propria attività e a garantirne la continuità con la legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori nonché dei terzi (v., da ultimo, provv.to 01.02.2018, n. 53, in www.garanteprivacy.it, doc. web n. 8159221. Si veda anche il provv. 05.03.2015, n. 136, doc. web n. 3985524 e il citato provv. 27.11.2014, n. 551; nello stesso senso v. Raccomandazione CM/Rec(2015)5 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sul trattamento di dati personali nel contesto occupazionale, spec. par. 14.5);
   RITENUTO che
non risulta conforme ai suesposti principi la prassi già adottata dalla società, consistente nel reindirizzare automaticamente -per un periodo di tempo anche assai ampio- i messaggi pervenuti sull’account dell’ex dipendente su un diverso account aziendale, tenuto conto peraltro che il ricorso della società nei confronti del reclamante davanti all’autorità giudiziaria ordinaria (in relazione a ritenute condotte illecite effettuate in violazione del patto di non concorrenza) è stato presentato in data successiva al reindirizzo dell’account; tale trattamento è pertanto avvenuto in violazione dei principi di liceità, necessità e proporzionalità (v. art. 11, comma 1, lett. d) del Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo, criterio peraltro confluito nell’art. 5, par. 1, lett. c) del Regolamento);
   PRESO ATTO, con riguardo alla richiesta del reclamante di “imporre il divieto del trattamento illegittimo” consistente nella persistente attività dell’account a lui riferito, che la società ha affermato –con dichiarazione della quale può essere chiamata a rispondere ai sensi dell’art. 168 del Codice, “Falsità nelle dichiarazioni al Garante e interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio dei poteri del Garante”– di aver disposto la disattivazione dell’account a far data dal 03.05.2018 (dunque prima della proposizione del reclamo al Garante, sebbene in sede di riscontro all’interpello presentato il 24.04.2018, la società abbia dichiarato al reclamante che avrebbe provveduto alla disattivazione solo dopo che quest’ultimo avesse comunicato ai clienti della società gli estremi del nuovo account per contattare la società; v. nota 15.5.2018, All. 10, reclamo 05.02.2019 cit.);
   RITENUTO pertanto che, relativamente a tale istanza, non vi siano i presupposti per l’adozione di misure correttive da parte dell’Autorità;
   VISTO che, in base a quanto dichiarato all’Autorità, la società allo stato ha adottato un regolamento interno in base al quale subito dopo la cessazione del rapporto di lavoro l’account aziendale è disattivato con contestuale adozione di un messaggio automatico volto ad informarne i terzi e a indicare un account alternativo per contattare la società;
   PRESO ATTO, con riguardo all’istanza di accesso alle comunicazioni pervenute sull’account di posta elettronica aziendale riferito al reclamante −formulata con il menzionato interpello del 24.04.2018−, che la società ha inviato al reclamante un sufficiente riscontro in allegato alla nota del 15.05.2018;
   RITENUTO pertanto che, anche relativamente a tale istanza, considerata pure l’assenza di controdeduzioni del reclamante sul punto, non vi siano i presupposti per l’adozione di provvedimenti da parte dell’Autorità;
   RITENUTO che
il reclamo sia fondato in relazione alla prospettata illiceità del trattamento, allo stato non più in essere, consistente nella prolungata attività dell’account di posta aziendale riferito al reclamante dopo la cessazione del rapporto di lavoro ed all’accesso ai messaggi ivi pervenuti, peraltro in assenza di una policy aziendale resa nota ai dipendenti al riguardo;
   RITENUTO che ricorrano i presupposti di cui all’art. 17 del Regolamento n. 1/2019 concernente le procedure interne aventi rilevanza esterna, finalizzate allo svolgimento dei compiti e all’esercizio dei poteri demandati al Garante;
...
TUTTO CIÒ PREMESSO
ai sensi dell’art. 57, par. 1, lett. f) e 58, par. 2, lett. b) del Regolamento,
dichiara illecito il trattamento descritto nei termini di cui in motivazione, consistente nella persistente attività dell’account aziendale individualizzato per un ampio periodo di tempo dopo l’interruzione del rapporto di lavoro, con contestuale accesso ai messaggi ivi pervenuti, ed ammonisce Im.It. S.r.l. sulla necessità di conformare i trattamenti effettuati sugli account di posta elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro alle disposizioni ed ai principi in materia di protezione dei dati personali indicati in motivazione.

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: Obblighi di bonifica per inquinamenti provocati prima del d.lgs. n. 22/1997.
Il TAR Milano, con riferimento alla problematica concernente gli inquinamenti provocati prima dell’entrata in vigore dell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (norma che per la prima volta ha introdotto l’obbligo di bonifica o messa in sicurezza dei siti inquinati) aderisce al prevalente orientamento secondo cui la normativa contenuta nell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 e negli artt. 239 e seguenti del decreto legislativo n. 152 del 2006 non ha in realtà introdotto una nuova figura di illecito, ma si è limitata a regolare diversamente le conseguenze dell’illecito ambientale, figura che rientra in quella più ampia dell’illecito civile disciplinata dagli artt. 2043 e segg. cod. civ., la quale peraltro aveva già trovato speciale disciplina con l’art. 18, comma 8, della legge n. 349 del 1986.
In particolare, la nuova normativa, considerata la rilevanza dell’interesse leso in caso di danno ambientale, ha inteso dare prevalenza al rimedio del risarcimento in forma specifica (bonifica e messa in sicurezza) rispetto al risarcimento per equivalente.
Tale assunto porta ad affermare, secondo il TAR, che i danni ambientali provocati prima dell’entrata in vigore del citato art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 hanno comunque determinato, in virtù della normativa generale contenuta negli artt. 2043 e segg. cod. civ., la nascita dell’obbligo di porvi rimedio, obbligo che oggi è definito nella sua struttura dagli artt. 239 e segg. del d.lgs. n. 152 del 2006, applicabili anche con riferimento alle condotte poste in essere prima della loro entrata in vigore stante il carattere permanente dell’illecito di cui si discute
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 02.12.2019 n. 2562 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
Come noto, il principio cardine sul quale è stato costruito il sistema normativo in materia di inquinamento ambientale è il principio “chi inquina paga”, sancito dall’art. 191, par. 2, TFUE, in base al quale è tenuto ad attuare gli interventi di rimedio all’inquinamento il soggetto che lo ha provocato. A questo principio è stata data attuazione, a livello comunitario, con la direttiva 2004/35/CE e, a livello nazionale, con gli artt. 3-ter e 239 e seguenti del d.lgs. n. 152 del 2006.
In particolare, l’art. 244, secondo comma, del d.lgs. n. 152 del 2006 attribuisce alle province il compito di effettuare indagini volte ad identificare il responsabile dell’inquinamento al quale deve essere ordinata l’esecuzione degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza previsti e disciplinati dalle precedenti norme.
Per poter affermare la sussistenza della responsabilità dell’inquinamento è necessario accertare la sussistenza di un nesso di causalità fra l’attività da esercitata del presunto responsabile ed il danno ambientale riscontrato.
La giurisprudenza amministrativa ritiene che, per dimostrare la sussistenza di questo nesso di causalità, si può far ricorso, oltre che ovviamente alle prove dirette, alle presunzioni semplici di cui all’art. 2727 cod. civ. Si precisa peraltro che il ragionamento presuntivo non deve necessariamente seguire l’impostazione "penalistica" incentrata sul superamento della soglia del "ragionevole dubbio", potendosi invece applicare la regola del “più probabile che non” –elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di responsabilità aquiliana– secondo la quale, per affermare il legame causale fra azione ed evento, non è necessario raggiungere il livello della certezza, bensì è sufficiente dimostrare un grado di probabilità maggiore della metà (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 18.12.2018, n. 7121; id. 04.12.2017, n. 5668).
Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia segue il principio secondo cui la sussistenza del nesso causale fra condotta del presunto responsabile ed inquinamento può essere dimostrata attraverso la prova presuntiva, e precisa che, relativamente alle contaminazioni ambientali riscontrate in prossimità di siti industriali, costituiscono sufficienti indizi la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività (cfr. Corte di Giustizia UE, 09.03.2010, causa C-378/08).
Si osserva infine che il soggetto individuato come responsabile dell’inquinamento sulla base di un attendibile ragionamento presuntivo formulato nei termini sopra indicati non può, per contrastarne le conclusioni, limitarsi a ventilare genericamente il dubbio circa una possibile responsabilità di terzi, ma deve a sua volta fornire specifiche prove idonee a dimostrare la reale dinamica degli avvenimenti e indicare a quale altra specifica impresa debba addebitarsi la condotta causativa della contaminazione (cfr. Consiglio di Stato sent. n. 2171/2018 cit.).
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Venendo ora alla problematica concernente gli inquinamenti provocati prima dell’entrata in vigore dell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (norma che per la prima volta ha introdotto l’obbligo di bonifica o messa in sicurezza dei siti inquinati), si deve rilevare come tale problematica abbia fatto sorgere contrapposti orientamenti giurisprudenziali.
Ritiene il Collegio che sia preferibile aderire al prevalente orientamento, confermato dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato con recentissima sentenza, secondo cui la normativa contenuta nell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 e negli artt. 239 e seguenti del decreto legislativo n. 152 del 2006 non ha in realtà introdotto una nuova figura di illecito, ma si è limitata a regolare diversamente le conseguenze dell’illecito ambientale, figura che rientra in quella più ampia dell’illecito civile disciplinata dagli artt. 2043 e segg. cod. civ., la quale peraltro aveva già trovato speciale disciplina con l’art. 18, comma 8, della legge n. 349 del 1986.
In particolare, la nuova normativa, considerata la rilevanza dell’interesse leso in caso di danno ambientale, ha inteso dare prevalenza al rimedio del risarcimento in forma specifica (bonifica e messa in sicurezza) rispetto al risarcimento per equivalente.
Tale assunto porta ad affermare che i danni ambientali provocati prima dell’entrata in vigore del citato art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 hanno comunque determinato, in virtù della normativa generale contenuta negli artt. 2043 e segg. cod. civ., la nascita dell’obbligo di porvi rimedio, obbligo che oggi è definito nella sua struttura dagli artt. 239 e segg. del d.lgs. n. 152 del 2006, applicabili anche con riferimento alle condotte poste in essere prima della loro entrata in vigore stante il carattere permanente dell’illecito di cui si discute (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 22.10.2019, n. 10).

AMBIENTE-ECOLOGIAAlla luce di quanto disposto dall’art. 245, c. 2, D.Lgs. 152/2006, il proprietario o il gestore dell'area −pur se non responsabili dell'inquinamento– sono tenuti ad attuare le misure di prevenzione e, cioè, ad adottare le iniziative volte a contrastare una minaccia, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi in un prossimo futuro un danno alla salute o all'ambiente. Si tratta di iniziative a carattere preventivo, utili ad impedire od attenuare i probabili effetti di una minaccia potenziale di danno alla salute o all'ambiente, che vanno ad aggiungersi all’onere reale ed al privilegio speciale sull’immobile previsti dall’art. 253 D.Lgs. 152/2006.
Trattasi delle cc.dd. “passività ambientali” che possono ricondursi a due situazioni problematiche: la prima è costituita dalla presenza nel sito di rifiuti accumulatisi durante la gestione anteriore al trasferimento, senza che tale accumulo abbia comportato il superamento dei limiti legali di contaminazione che fanno scattare gli obblighi di bonifica; la seconda è riferita all’ipotesi in cui un qualsiasi fatto di inquinamento abbia comportato la contaminazione del sito.
Quindi, mentre nel sistema normativo anteriore al D.lgs. 152/2006, la sola presenza di sostanze contaminanti era sufficiente per imporre la bonifica, il nuovo assetto normativo delineato dal Codice dell’Ambiente e dinanzi sinteticamente richiamato impone la bonifica soltanto nell’ipotesi in cui venga superata non la CSC -perché questo non è più sufficiente-, ma la concentrazione soglia di rischio (CSR).
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4.§.2. Con la seconda censura contenuta nel ricorso per motivi aggiunti il ricorrente censura la legittimità della prescrizione, per così dire nel merito, ritenendola del tutto sproporzionata ed ingiustificata.
La censura non è fondata.
L’art. 240, per quanto di odierno interesse, definisce:
   a) sito: l'area o porzione di territorio, geograficamente definita e determinata, intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, materiali di riporto, sottosuolo ed acque sotterranee) e comprensiva delle eventuali strutture edilizie e impiantistiche presenti;
   b) concentrazioni soglia di contaminazione (CSC): i livelli di contaminazione delle matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra dei quali è necessaria la caratterizzazione del sito e l'analisi di rischio sito specifica, come individuati nell'Allegato 5 alla parte quarta del decreto;
   c) concentrazioni soglia di rischio (CSR): i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1 alla parte quarta del e decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la bonifica;
   d) sito potenzialmente contaminato: un sito nel quale uno o più valori di concentrazione delle sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di caratterizzazione e di analisi di rischio sanitario e ambientale sito specifica, che ne permettano di determinare lo stato o meno di contaminazione sulla base delle concentrazioni soglia di rischio (CSR);
   e) sito contaminato: un sito nel quale i valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR), determinati con l'applicazione della procedura di analisi di rischio di cui all'Allegato 1 alla parte quarta del decreto sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, risultano superati;
   g) sito con attività in esercizio: un sito nel quale risultano in esercizio attività produttive sia industriali che commerciali nonché le aree pertinenziali e quelle adibite ad attività accessorie economiche, ivi comprese le attività di mantenimento e tutela del patrimonio ai fini della successiva ripresa delle attività; s) analisi di rischio sanitario e ambientale sito specifica: analisi sito specifica degli effetti sulla salute umana derivanti dall'esposizione prolungata all'azione delle sostanze presenti nelle matrici ambientali contaminate, condotta con i criteri indicati nella parte quarta del decreto.
Alla luce di quanto disposto dall’art. 245, c. 2, D.Lgs. 152/2006, il proprietario o il gestore dell'area −pur se non responsabili dell'inquinamento– sono tenuti ad attuare le misure di prevenzione e, cioè, ad adottare le iniziative volte a contrastare una minaccia, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi in un prossimo futuro un danno alla salute o all'ambiente. Si tratta di iniziative a carattere preventivo, utili ad impedire od attenuare i probabili effetti di una minaccia potenziale di danno alla salute o all'ambiente, che vanno ad aggiungersi all’onere reale ed al privilegio speciale sull’immobile previsti dall’art. 253 D.Lgs. 152/2006.
Trattasi delle cc.dd. “passività ambientali” che possono ricondursi a due situazioni problematiche: la prima è costituita dalla presenza nel sito di rifiuti accumulatisi durante la gestione anteriore al trasferimento, senza che tale accumulo abbia comportato il superamento dei limiti legali di contaminazione che fanno scattare gli obblighi di bonifica; la seconda è riferita all’ipotesi in cui un qualsiasi fatto di inquinamento abbia comportato la contaminazione del sito.
Le relative procedure sono previste dall’art. 242 D.lgs. 152/2006, che delinea le seguenti fasi:
   1) verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito ed obbligo di comunicazione da parte del responsabile dell'inquinamento (o del soggetto interessato non responsabile, così come consentito dall'art. 245);
   2) indagine preliminare e mancato superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (Csc);
   3) superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (Csc): comunicazioni, piano di caratterizzazione ed analisi del rischio sito specifica (commi 3 e 4);
   4) mancato superamento delle concentrazioni soglia di rischio (Csr), che determina la fine del procedimento e monitoraggio (commi 5 e 6);
   5) superamento delle concentrazioni soglia di rischio (Csr), con obbligo degli interventi di bonifica (commi 7 e 8).
Il procedimento delineato dall’art. 242 del D.Lgs. 152/2006, quindi, prevede che, a seguito della caratterizzazione dell’area oggetto di contaminazione, laddove si riscontri un superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (“CSC”), il responsabile dell’inquinamento rediga un’analisi di rischio sito-specifica, volta a verificare il rispetto delle CSR. Laddove il tetto delle CSR non sia raggiunto, l’autorità competente dichiara positivamente concluso il procedimento stabilendo, se necessario, delle prescrizioni. Al contrario, si provvederà ad elaborare un progetto di bonifica o di messa in sicurezza del sito, da approvarsi ad opera della Conferenza di Servizi. La fase di bonifica o messa in sicurezza del sito, dunque, è una fase meramente eventuale, obbligatoria solo laddove si riscontri un superamento delle CSR.
Quindi, mentre nel sistema normativo anteriore al D.lgs. 152/2006, la sola presenza di sostanze contaminanti era sufficiente per imporre la bonifica, il nuovo assetto normativo delineato dal Codice dell’Ambiente e dinanzi sinteticamente richiamato impone la bonifica soltanto nell’ipotesi in cui venga superata non la CSC -perché questo non è più sufficiente-, ma la concentrazione soglia di rischio (CSR) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 16.11.2019 n. 557 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO DEL SUOLO – Artt. 240 e ss. d.lgs. n. 152/2006 – Responsabile dell’inquinamento e soggetti non responabili – Disciplina differente – Principio “chi inquina paga” – Misure di prevenzione – Interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino.
La differente disciplina recata dagli artt. 240 e ss. del d.lgs. n. 152/2006 –ossia la previsione dell’obbligo di porre in essere le procedure operative e amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro– è stata in più occasioni posta in rilievo dalla giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.10.2016, n. 4099; TAR Lombardia Milano, Sez. IV, 06.11.2017, n. 2088; TAR Sardegna Cagliari, Sez. I, 16.12.2011, n. 1239) nel senso che l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”), e non sul proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità. In sostanza, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al gestore del sito in ragione di tale sola qualità, dal suesposto quadro normativo emergono le seguenti regole:
   A) il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, sono tenuti soltanto ad adottare le misure di prevenzione (art. 245, comma 2);
   B) gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
   C) se il responsabile non è individuabile o non provvede, gli interventi necessari sono adottati dall’amministrazione competente (art. 244, comma 4);
   D) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   E) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).

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INQUINAMENTO DEL SUOLO – DANNO AMBIENTALE – Soggetti non responsabili della potenziale contaminazione – Attuazione di misure di prevenzione – Imposizione coattiva – Strumenti – Competenza del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – Ordinanza ministeriale ex art. 304, c. 3, d.lgs. n. 152/2006.
Mentre gli obblighi relativi messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano soltanto sul responsabile dell’inquinamento, invece anche il proprietario o il gestore dell’area non responsabili dell’inquinamento (al pari del responsabile dell’inquinamento) sono tenuti, ai sensi dell’art. 245, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, ad attuare le “misure di prevenzione” di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 152/2006.
Tuttavia, l’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006 (che radica il potere attribuito al Comune) fa espresso riferimento soltanto al responsabile dell’inquinamento quale destinatario dell’ordinanza, senza menzionare il proprietario o il gestore dell’area non responsabili dell’inquinamento.
Parimenti l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006 (che disciplina la posizione dei “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”) non richiama affatto il potere di ordinanza di cui all’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006.
La competenza ad imporre coattivamente ai “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione” l’attuazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 152/2006, seppure attraverso l’esercizio del diverso potere previsto dall’art. 304, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, appartiene al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
Laddove, quindi, il proprietario o il gestore dell’area non responsabili dell’inquinamento non attivino spontaneamente le misure di prevenzione di cui all’art. 245, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, l’unico rimedio possibile per imporre a tali soggetti l’attuazione di tali misure è l’adozione di un’ordinanza ministeriale ai sensi dell’art. 304, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, ove ne sussistano i presupposti (nella specie, il TAR ha comunque evidneziato che, quand’anche volesse ritenersi che l’ordinanza di cui all’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006 possa essere adottata anche nei confronti del proprietario o del gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, in ragione della mancata spontanea attuazione delle necessarie misure di prevenzione, comunque il Comune non potrebbe imporre a detti soggetti l’attuazione di misure di prevenzione a distanza di anni della campagna di monitoraggio della falda acquifera, essendo l’inquinamento della falda già in essere).

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INQUINAMENTO DEL SUOLO – Adozione delle migliori tecniche disponibili per arrestare l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati – Art. 243 d.lgs. n. 152/2006 – Siti inquinati per effetto dello scorrimento delle acque di falda – Inapplicabilità.
L’art. 243, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 – nel prevedere che per impedire e arrestare l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati “devono essere individuate e adottate le migliori tecniche disponibili per eliminare, anche mediante trattamento secondo quanto previsto dall’articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione dirette e indirette”, si riferisce evidentemente al sito nel quale si trova la fonte della contaminazione e non al sito che risulta inquinato per effetto dello scorrimento delle acque di falda (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, Sez. I, sentenza 15.11.2019 n. 154 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAInquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati.
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Inquinamento – Inquinamento ambientale – Conseguenze ex artt. 242 e 245 d.lgs. n. 152 del 2006 – Differenze - Ratio.
  
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Responsabile dell’inquinamento – Individuazione.
  
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati – Art. 243, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 – Ambito di applicazione.
  
La differenza tra la disciplina posta dall’art. 242, d.lgs. n. 152 del 2006, che prevede in capo al responsabile dell’inquinamento l’obbligo di porre in essere le procedure operative e amministrative finalizzate a prevenire i rischi di inquinamento (comma 1) e ad attuare gli interventi di bonifica e di messa in sicurezza (comma 7), e quella posta dal successivo art. 245, che prevede una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, fermo restando l’obbligo di costoro di “attuare le misure di prevenzione” di cui all’art. 240, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, si spiega in quanto l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento in base al principio “chi inquina paga” e non sul proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, in capo ai quali non è configurabile una sorta di responsabilità oggettiva (1).
  
L’art. 244, d.lgs. n. 152 del 2006 fa espresso riferimento soltanto al responsabile dell’inquinamento quale destinatario dell’ordinanza motivata di diffida, senza menzionare il proprietario o il gestore dell’area non responsabili dell’inquinamento, coerentemente, l’art. 245, che disciplina la posizione dei “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”, non richiama il potere di ordinanza di cui all’art. 244; resta ferma peraltro la competenza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare ad imporre coattivamente ai “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione” l’attuazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), del medesimo decreto legislativo, seppure attraverso l’esercizio del diverso potere previsto dall’art. 304, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006.
  
L’art. 243, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 -nel prevedere che per impedire e arrestare l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati “devono essere individuate e adottate le migliori tecniche disponibili per eliminare, anche mediante trattamento secondo quanto previsto dall'articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione dirette e indirette”- si riferisce al sito ove si trova la fonte della contaminazione e non al sito che risulta inquinato per effetto dello scorrimento delle acque di falda.
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   (1) Ha chiarito il Tar che la differente disciplina -ossia la previsione dell’obbligo di porre in essere le suddette procedure operative e amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro- è stata in più occasioni posta in rilievo dalla giurisprudenza (Cons. St, sez. VI, 05.10.2016, n. 4099) nel senso che l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”), e non sul proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
In sostanza, secondo tale condivisibile giurisprudenza, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al gestore del sito in ragione di tale sola qualità, dal suesposto quadro normativo emergono le seguenti regole:
   a) il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, sono tenuti soltanto ad adottare le misure di prevenzione (art. 245, comma 2);
   b) gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
   c) se il responsabile non è individuabile o non provvede, gli interventi necessari sono adottati dall’amministrazione competente (art. 244, comma 4);
   d) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   e) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2) (
TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 15.11.2019 n. 154 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Innanzi tutto l’art. 240, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 tiene ben distinte le “misure di prevenzione”, definite alla lett. i), come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” dalle altre tipologie di interventi previsti in materia di bonifica dei siti contaminati (cfr. la rubrica del titolo V della parte IV del d.lgs. n. 152/2006), quali:
   A) la “messa in sicurezza d’emergenza”, definita alla lett. m), come “ogni intervento immediato o a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lettera t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente”;
   B) la “messa in sicurezza operativa”, definita alla lett. n) come “l’insieme degli interventi eseguiti in un sito con attività in esercizio atti a garantire un adeguato livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente, in attesa di ulteriori interventi di messa in sicurezza permanente o bonifica da realizzarsi alla cessazione dell’attività. Essi comprendono altresì gli interventi di contenimento della contaminazione da mettere in atto in via transitoria fino all’esecuzione della bonifica o della messa in sicurezza permanente, al fine di evitare la diffusione delle contaminazioni all’interno della stessa matrice o tra matrici differenti. In tali casi devono essere predisposti idonei piani di monitoraggio e controllo che consentano di verificare l’efficacia delle soluzioni adottate”;
   C) la “bonifica”, definita alla lett. p) come “l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio”;
   D) gli interventi di “ripristino e ripristino ambientale”, definiti alla lett. q) come “gli interventi di riqualificazione ambientale e paesaggistica, anche costituenti complemento degli interventi di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistici”.
Inoltre l’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006 pone in capo al “responsabile dell’inquinamento” l’obbligo di porre in essere le “procedure operative ed amministrative” finalizzate, in particolare, a prevenire i rischi di inquinamento (comma 1) e ad attuare gli interventi di bonifica e di messa in sicurezza (comma 7), mentre il successivo art. 243, nel richiamare l’art. 242, si occupa delle specifiche procedure volte ad “impedire e arrestare l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati”.
In particolare l’art. 243, comma 1, dispone -per quanto interessa in questa sede- che per impedire e arrestare l'inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati “devono essere individuate e adottate le migliori tecniche disponibili per eliminare, anche mediante trattamento secondo quanto previsto dall'articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione dirette e indirette”.
L’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006, a sua volta, prevede che la Provincia -laddove sia stato accertato che i livelli di contaminazione di un sito sono superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione fissati dalla normativa vigente- deve individuare il responsabile dell’inquinamento e diffidarlo, con ordinanza motivata, a provvedere ai sensi del titolo V del d.lgs. n. 152/2006 (comma 2), specificando che l’ordinanza “è comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253” (comma 3) e che, se il responsabile dell’inquinamento non è individuabile o non provvede e non provvede neppure il proprietario del sito né altro soggetto interessato, “gli interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’articolo 250” (comma 4).
Nella Provincia di Trento la competenza ad adottare le ordinanze previste dall’art. 244 è attribuita ai Comuni ai sensi del sesto comma dell’art. 102-quater (rubricato “Disposizioni in materia di rifiuti e di bonifica di siti contaminati”) del Testo unico delle leggi provinciali in materia di tutela dell’ambiente dagli inquinamenti, approvato con il D.P.G.P. 26.01.1987, n. 1-41/Legisl..
Diversa dalla posizione del responsabile dell’inquinamento è quella dei “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”, ai quali si riferisce l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006, prevedendo (al comma 1) che “Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili” e (al comma 2) che “Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l’identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità”.
Tale differente disciplina -ossia la previsione dell’obbligo di porre in essere le suddette procedure operative e amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro- è stata in più occasioni posta in rilievo dalla giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.10.2016, n. 4099; TAR Lombardia Milano, Sez. IV, 06.11.2017, n. 2088; TAR Sardegna Cagliari, Sez. I, 16.12.2011, n. 1239) nel senso che l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”), e non sul proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
In sostanza, secondo tale condivisibile giurisprudenza, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al gestore del sito in ragione di tale sola qualità, dal suesposto quadro normativo emergono le seguenti regole:
   A) il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, sono tenuti soltanto ad adottare le misure di prevenzione (art. 245, comma 2);
   B) gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
   C) se il responsabile non è individuabile o non provvede, gli interventi necessari sono adottati dall’amministrazione competente (art. 244, comma 4);
   D) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   E) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).

AMBIENTE-ECOLOGIABonifiche rafforzate per impianti che sorgono in contesti residenziali. Un parere del Consiglio di Stato impone obiettivi parametrati alla funzione urbanistica.
Per stabilire gli obiettivi di bonifica di un sito non basta capire il suo concreto utilizzo; occorre anche calarlo nel contesto urbano. Per cui se un distributore di carburante sorge in un ambito residenziale i parametri ambientali di bonifica dovrebbero essere più stringenti e rafforzati.

Questo il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. I, nel parere 15.04.2019 n. 1156 reso su un ricorso straordinario al Presidente della repubblica.
In sintesi, i giudici amministrativi, pur riconoscendo che il quadro legislativo di riferimento è di difficile interpretazione, riferendosi appunto a una pompa di benzina giungono a ritenere che i principi di precauzione e azione preventiva impongano di definire gli interventi di bonifica non solo con riferimento al concreto utilizzo del sito (produttivo), ma anche con riferimento al contesto urbano in cui il sito si colloca (residenziale).
Il Dlgs 152/2016 definisce due soglie di verifica per la potenziale contaminazione di un sito:
    una parametrata alla destinazione residenziale e verde pubblico/privato;
    l’altra a quella industriale e commerciale. Anche gli obiettivi di bonifica di un sito contaminato sono diversificati: più cautelativi nel primo caso, più tolleranti nel secondo.
Ma le destinazioni urbanistiche sono molto più variegate di quelle definite dalla normativa ambientale (servizi, terziario, ricettivo) e, in molti casi, il Piano regolatore generale consente di insediare in un’area diverse funzioni e destinazioni, introducendo spesso anche il più moderno concetto di «indifferenziazione funzionale», ossia la possibilità di diversificare senza particolari limitazioni l’uso degli immobili.
In via estensiva si pone, così, il tema interpretativo di stabilire quali siano le tabelle ambientali di riferimento e se debba prevalere l’uso teorico del sito per come previsto nello strumento urbanistico generale, ovvero quello concreto sancito dai titoli edilizi.
La poca giurisprudenza sul punto (Tar Veneto
sentenza 25.02.2014 n. 255) ha sempre privilegiato l’uso teorico futuro per parametrare gli obiettivi di bonifica. Ora il Consiglio di Stato pare andare oltre, stabilendo che debba essere considerato anche il contesto urbanistico circostante.
Se il caso dei distributori di carburante rappresenta un tema peculiare (peraltro oggetto di diverse linee guida specifiche), l’argomento in sé riveste attualità in quanto molti sono i casi di bonifiche di siti industriali in contesti urbanizzati o con nuove funzioni teoricamente ammesse.
Tuttavia, la scelta non può essere unicamente basata sul principio di precauzione e prevenzione, ma deve anche muovere da situazioni oggettive, quali quella di sostenibilità economica degli interventi di bonifica e della volontà degli operatori rispetto all’effettivo uso (attuale o futuro) del sito. Porre obiettivi sempre più cautelativi non sempre equivale ad una maggior tutela dell’ambiente e della salute.
In assenza di adeguate risorse economiche (private e pubbliche) per la bonifica, si ottiene un risultato contrario: più siti contaminati e meno bonificati. Forse allora il vero obiettivo di sostenibilità ambientale imporrebbe un uso più razionale del territorio che consideri lo stato di contaminazione come base di partenza per valutare gli scenari di riutilizzo del sito e del contesto urbano circostante (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulla legittimità, o meno, che relativamente ad un impianto di distribuzione di carburanti, nell'ambito del procedimento di bonifica ai sensi dell'art. 240, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, il provvedimento comunale abbia chiesto di prendere in considerazione -ai fini dell'analisi di rischio- tutti i superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) ad uso residenziale, posto che il certificato di destinazione d'uso dell'area in esame era di tipo residenziale anziché sulla base della sua destinazione d’uso effettiva.
La questione centrale attorno alla quale ruota la soluzione della controversia in esame si riassume nella domanda se nell'analisi di rischio di un distributore di carburanti la destinazione d’uso del sito, rispetto alla quale la normativa vigente differenzia i valori delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) da prendere a riferimento, sia quella prevista nella strumentazione urbanistica o quella effettivamente in atto.
Invero, non risulta condivisibile l'osservazione della parte ricorrente secondo la quale ciò che rileva è la destinazione effettiva dell'area che, nel caso di specie, è commerciale, in deroga, quindi, al certificato di destinazione d'uso dell'area (che è di tipo residenziale)”, con l’ulteriore rilievo per cui “l'appendice V dei criteri ISPRA ... fa esclusivo riferimento all'utilizzo effettivo del sito, riguardo al modello concettuale per l'analisi di rischio (ad es. per la valutazione dei bersagli), mentre il confronto con le CSC di riferimento è relativo al certificato di destinazione d'uso, come già esposto”.
Pur a fronte di un dato testuale del decreto legislativo di settore poco perspicuo (sia nella parte dell’articolato, sia in quella degli allegati), e non chiarito dai decreti attuativi, né dalla linee guida dell’ISPRA (inidonee a modificare la norma giuridica in quanto mere regole tecniche), criteri interpretativi sistematici e finalistici inducono a ritenere che gli obiettivi di “promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali” (art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006) e “della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina paga"” (art. 3-ter stesso decreto) siano più adeguatamente conseguiti e soddisfatti commisurando gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti al livello di tutela ambientale richiesto, alla stregua della pertinente strumentazione urbanistica, per l’area a destinazione residenziale all’interno della quale si colloca l’impianto, piuttosto che al livello (meno protettivo) richiesto ove si consideri isolatamente l’impianto (e il suo mero sedime), come sito ad uso (fattualmente) commerciale e industriale.
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Premesso:
1. Con il ricorso straordinario in esame, notificato il 30 maggio–04.06.2012, la società To. s.p.a., titolare di un impianto di distribuzione di carburanti nel Comune di Torino, corso Casale, ha impugnato, nell'ambito del procedimento di bonifica dell'impianto ai sensi dell'art. 240, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, la determinazione dirigenziale n. 227 del 05.09.2011 (e altri atti connessi), con la quale il Comune di Torino ha chiesto di prendere in considerazione ai fini dell'analisi di rischio tutti i superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) ad uso residenziale, posto che il certificato di destinazione d'uso dell'area in esame era di tipo residenziale, procedendo alla “riformulazione dell'analisi di rischio e del progetto di bonifica secondo le indicazioni contenute nella determinazione 274 del 20/09/2011 e ribadite con il predetto parere di Arpa Piemonte”.
2. La Società ricorrente ha dedotto due motivi di censura.
2.1. “Violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione; violazione e falsa applicazione degli artt. 239 ss. del d.lgs. 152/2006 recante "norme in materia ambientale" (testo unico in materia ambientale), degli allegati nn. 1, 2, 3, 4, 5 al titolo V, parte quarta del d.lgs. 152/2006; eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche”: sarebbe errata e illegittima l'affermazione, su cui si fonda l’impugnata prescrizione dettata alla ricorrente, secondo la quale le concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) dovrebbero essere individuate sulla base del certificato di destinazione d'uso dell'area che, nel caso di specie, risulterebbe essere residenziale, anziché sulla base della sua destinazione d’uso effettiva.
Secondo parte ricorrente, infatti, l'allegato 5 al d.lgs. n. 152 del 2006, rubricato "Valori di concentrazione limite accettabili nel suolo e nel sottosuolo riferiti alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare", facendo riferimento, nella tabella 1, alle "Concentrazioni soglia di contaminazione nel suolo e nel sottosuolo riferiti alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare", senza stabilire una correlazione necessaria tra il certificato di destinazione urbanistica e le CSC di riferimento, andrebbe inteso come riferito alla destinazione d’uso di fatto del sito, non a quella urbanistica, atteso che le destinazioni prese in considerazione dalla normativa ambientale non rispecchiano le ben più numerose destinazioni d'uso riconosciute in sede urbanistica dalle amministrazioni locali.
Tale conclusione troverebbe, a giudizio della società ricorrente, un preciso riscontro nell'appendice V al manuale ISPRA, "Applicazione dell'analisi di rischio ai punti vendita carburante", il quale dispone espressamente, al paragrafo 4: "per quanto riguarda i bersagli della contaminazione, il presente documento prende in considerazione solo ricettori umani e la protezione della risorsa idrica sotterranea così come richiesto e dal d.lgs. 04/2008. Questi sono identificati in funzione della destinazione d'uso e del reale utilizzo del suolo, compreso nell'area logica di influenza del sito potenzialmente contaminato ... Per i PV in esercizio si fa riferimento all'utilizzo effettivo, ovvero industriale/commerciale. Per i PV in dismissione si fa riferimento allo scenario futuro previsto dagli strumenti urbanistici per il sito".
Il riferimento allo strumento urbanistico rileverebbe, dunque, a detta della ricorrente, esclusivamente per i punti vendita in dismissione, ma non anche per quelli in esercizio, quale è quello in esame, per i quali rileva l'utilizzo effettivo, che, nel caso di specie, stante la natura dell'attività svolta, è commerciale.
2.2. “Incompetenza; eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche e particolarmente sotto il profilo del difetto di motivazione, dell'illogicità e contraddittorietà e della violazione del principio di proporzionalità”.
La determinazione impugnata sarebbe affetta da incompetenza, siccome adottata, deduce la ricorrente, “da un soggetto, il Comune, privo (analogamente ad Arpa e Regione) del potere di integrare e modificare il quadro normativo delineato dal legislatore”, modifica e integrazione che invece deriverebbero come effetto della pretesa dell'Amministrazione di stabilire una correlazione necessaria tra certificato di destinazione d'uso dell'area e CSC di riferimento, a prescindere dalla destinazione effettiva del sito.
Il formalistico, mero, rinvio alle risultanze del certificato di destinazione d'uso integrerebbe, inoltre, il vizio del difetto di motivazione. Le prescrizioni dettate alla ricorrente sarebbero inoltre contraddittorie, illogiche e sproporzionate, posto che con esse si pone a carico della ricorrente un onere ingiustificatamente gravoso.
3. Il Ministero, nella sua relazione n. prot. 22438 del 20.10.2017, trasmessa con nota prot. 26798 del 13.12.2017, ha preliminarmente eccepito la tardività del ricorso, atteso che l'atto impugnato costituirebbe una conferma di provvedimenti antecedenti ricognitiva di obblighi già gravanti sulla parte ricorrente per effetto della determinazione n. 274 del 20.09.2011, cui, peraltro, la nota espressamente rinvia, impugnata dalla ricorrente solo in questa sede con la stereotipata clausola di stile di impugnazione (anche) di "...ogni atto connesso, presupposto o collegato”.
Il Ministero ha dunque eccepito anche l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d’interesse, poiché la società ricorrente avrebbe ottemperato alle contestate prescrizioni comunali, avendo trasmesso, nelle more del giudizio, il documento "Revisione Analisi di Rischio e Progetto di Bonifica" del 23.03.2012, nel quale, al punto 5.7, ha individuato quali recettori dell'analisi di rischio, tra i diversi bersagli, anche quello "residenziale: residenti (bambini e adulti), on site e off site; ricreativo: frequentatori, on site e off site”, rapporto già approvato dal Comune di Torino con richiesta di integrazioni, quale progetto operativo di bonifica ex art. 249 del d.lgs. n. 152 del 2006, con la determinazione dirigenziale n. 194 del 14.08.2012.
In ogni caso, in linea con le controdeduzioni comunali, il Ministero ha concluso anche per il rigetto del ricorso nel merito.
Considerato:
...
2. La questione centrale attorno alla quale ruota la soluzione della controversia in esame si riassume nella domanda se nell'analisi di rischio di un distributore di carburanti la destinazione d’uso del sito, rispetto alla quale la normativa vigente differenzia i valori delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) da prendere a riferimento, sia quella prevista nella strumentazione urbanistica o quella effettivamente in atto.
3. Giova premettere che l’art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, al comma 4, in linea generale, che “Sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)”, e che, tra gli allegati al titolo V della parte IV, l’allegato 5 -Concentrazione soglia di contaminazione nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti– distingue i valori dei composti inorganici (espressi in termini di concentrazione soglia di contaminazione nel suolo e nel sottosuolo) in riferimento alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare (siti ad uso verde pubblico e privato e residenziale nella colonna “A” e siti ad uso commerciale e industriale in quella “B”).
4. Sostiene la parte ricorrente che, trattandosi di un impianto distributore di carburanti non in dismissione, ma ancora in funzione, i valori delle CSC debbano essere quelli (meno severi) propri dell’uso in atto del sito, inteso come area di sedime dell’impianto, da considerare in sé come commerciale e industriale, e non (come invece preteso dall’amministrazione) quelli (più impegnativi) propri della destinazione d’uso residenziale della zona nella quale l’impianto ricade, così come definita nello strumento urbanistico.
5. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, cui deve ascriversi una speciale competenza istituzionale nell’interpretazione e nell’applicazione della normativa di settore, in particolar modo nel quadro del (così detto) “codice” dell’ambiente, di cui al più volte citato d.lgs. n. 152 del 2006, una volta chiarito che non può trovare applicazione nel caso di specie, ratione temporis, la sopravvenuta disciplina speciale introdotta con il d.m. 12.02.2015, n. 31 (Regolamento recante criteri semplificati per la caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti, ai sensi dell'articolo 252, comma 4, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152), ha ritenuto “non condivisibile l'osservazione della parte ricorrente secondo la quale ciò che rileva è la destinazione effettiva dell'area che, nel caso di specie, è commerciale, in deroga, quindi, al certificato di destinazione d'uso dell'area (che è di tipo residenziale)”, con l’ulteriore rilievo per cui “l'appendice V dei criteri ISPRA richiamata dalla parte ricorrente ... fa esclusivo riferimento all'utilizzo effettivo del sito, riguardo al modello concettuale per l'analisi di rischio (ad es. per la valutazione dei bersagli), mentre il confronto con le CSC di riferimento è relativo al certificato di destinazione d'uso, come già esposto”.
6. Tra le due tesi che si contendono il campo la Sezione giudica più convincente quella sostenuta dal competente Ministero e dall’amministrazione intimata.
Pur a fronte di un dato testuale del decreto legislativo di settore poco perspicuo (sia nella parte dell’articolato, sia in quella degli allegati), e non chiarito dai decreti attuativi, né dalla linee guida dell’ISPRA (inidonee a modificare la norma giuridica in quanto mere regole tecniche), criteri interpretativi sistematici e finalistici inducono a ritenere che gli obiettivi di “promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali” (art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006) e “della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina paga"” (art. 3-ter stesso decreto) siano più adeguatamente conseguiti e soddisfatti commisurando gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti al livello di tutela ambientale richiesto, alla stregua della pertinente strumentazione urbanistica, per l’area a destinazione residenziale all’interno della quale si colloca l’impianto, piuttosto che al livello (meno protettivo) richiesto ove si consideri isolatamente l’impianto (e il suo mero sedime), come sito ad uso (fattualmente) commerciale e industriale.
7. Conclusivamente, il ricorso deve giudicarsi infondato e andrà come tale respinto (
Consiglio di Stato, Sez. I, nel parere 15.04.2019 n. 1156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Al riguardo si legga anche:
  
● E. Carloni, Obiettivi di bonifica e destinazioni d’uso (Urbanistica e appalti n. 6/2019).
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L’articolo analizza il delicato tema del rapporto tra normativa ambientale e disciplina urbanistica nell’ambito delle procedure di bonifica dei siti contaminati in relazione al tema dell’individuazione degli specifici livelli di bonifica richiesti.
La normativa ambientale, compresa quella antecedente all’attuale Codice dell’ambiente, richiamando la “destinazione d’uso” dei siti quale parametro da utilizzare per fissare l’obiettivo di bonifica, non specifica cosa si debba intendere con tale espressione.
In assenza di un’espressa definizione a livello normativo, sono andati sviluppandosi differenti e contrapposti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul punto: un primo filone ha interpretato tale espressione come riferita alla destinazione d’uso urbanistica impressa negli strumenti di pianificazione generale, un’altra corrente ha invece ricondotto l’espressione “destinazione d’uso” all’uso effettivo che del sito viene fatto in concreto.

AMBIENTE-ECOLOGIALe procedure operative ed amministrative da attivare, a carico del “responsabile dell’inquinamento”, al verificarsi di un evento potenzialmente contaminante, sono previste all’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, il quale prevede:
   a) l’effettuazione, nelle zone interessate (una volta poste in essere le immediate e necessarie misure di prevenzione) di una “indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento”, finalizzata alla verifica del livello delle “concentrazioni soglia di contaminazione (CSC)” (comma 2);
   b) l’attuazione –per l’eventualità di mancato superamento della ridetta soglia– di interventi di ripristino della zona contaminata, con successiva comunicazione, strumentale ai necessari controlli e verifiche dell’autorità di settore;
   c) l’attivazione –in caso di superamento della soglia– della procedura di attuazione di un “piano di caratterizzazione”, alla cui formulazione il responsabile dell’inquinamento è onerato, con successiva attivazione, da parte della Regione, di apposita procedura conferenziale preordinata alla sua autorizzazione (comma 3);
   d) la successiva attivazione, sulla base delle risultanze della caratterizzazione, della procedura di analisi del rischio sito-specifica “per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)”, sulla scorta di appositi parametri tabellari, destinata a refluire in apposita “analisi dei rischi”, destinata alla approvazione in sede conferenziale, con eventuale prescrizione di programma di monitoraggio, in caso di accertamento del mancato superamento della soglia di rischio (commi 4 e 5);
   e) l’effettuazione –per l’alternativa eventualità di superamento della soglia di rischio– di interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, di ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito (comma 7).
Dal dato normativo emerge con chiarezza la distinzione tra CSC e CSR: le prime strumentali a riconoscere, nell’area sottoposta a verifica, l’esistenza di sostanze inquinanti in una soglia tale da giustificare la predisposizione di un piano di caratterizzazione; le seconde preordinate alla verifica della sussistenza di un livello di rischio tale da giustificare l’attuazione di interventi di bonifica e di messa in sicurezza.
Il piano della caratterizzazione (descritto e disciplinato dall'allegato 2 alla parte IV del citato decreto legislativo), è, infatti, un documento progettuale riportante un elenco di attività di indagine e i tempi necessari per effettuarle, compiute le quali si potrà conoscere l'impatto sulle matrici ambientali (suolo, sottosuolo, acque sotterranee e superficiali). Solo con i risultati del piano della caratterizzazione del sito è possibile prevedere la necessità o meno della predisposizione del progetto operativo di bonifica, anche in base all'analisi di rischio sito-specifica per la definizione delle concentrazioni di rischio.
In sostanza, con le risultanze del piano della caratterizzazione si può progettare la bonifica, ma a tal fine è necessario preventivamente verificare la distribuzione delle concentrazioni di sostanze inquinanti al di sopra delle Concentrazioni Soglie di Contaminazione. In sede di approvazione del piano di caratterizzazione si devono indicare i valori CSC, cioè i valori minimi che servono a riconoscere l'esistenza delle sostanze cioè (come efficacemente argomentato dalla difesa regionale) a "vederle"; dopo di che, in fase di progettazione della bonifica si determineranno i valori di CSR, cioè le concentrazioni degli inquinanti che non causano rischio per l'uomo e l'ambiente e cioè sono accettabili.
È del tutto logico, allora, che, ai fini di “riconoscimento”, la soglia di concentrazione possa essere senz’altro abbassata: la fissazione dei valori di CSC non ha per scopo la tutela della salute, ma solo la rintracciabilità nell'ambiente delle sostanze: per contro, la soglia “di intervento” (questa, beninteso, potenzialmente onerosa per il responsabile dell’inquinamento che vi fosse onerato) è fissata in un secondo momento, avuto riguardo ai limiti fissati, per la tutela della salute, dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Ne discende, altresì, che –per la determinazione della soglia di concentrazione rilevante per le sostanze inquinanti non tabellate– non appare arbitraria, per un verso, l’utilizzazione di parametri fissati per sostanze con analoghe caratteristiche e, per altro verso, la valorizzazione del parere reso dall’Istituto di superiore di sanità, al quale la Regione (e l’ARPA) hanno inteso correttamente adeguarsi, senza che all’uopo fosse necessaria (non trattandosi di prefigurare le condizioni per la programmazione di un intervento) una apposita motivazione e senza che venissero in rilievo i prospettati profili di competenza.
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Le procedure operative ed amministrative da attivare, a carico del “responsabile dell’inquinamento”, al verificarsi di un evento potenzialmente contaminante, sono previste all’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, il quale prevede, per quanto di interesse ai fini della lite:
   a) l’effettuazione, nelle zone interessate (una volta poste in essere le immediate e necessarie misure di prevenzione) di una “indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento”, finalizzata alla verifica del livello delle “concentrazioni soglia di contaminazione (CSC)” (comma 2);
   b) l’attuazione –per l’eventualità di mancato superamento della ridetta soglia– di interventi di ripristino della zona contaminata, con successiva comunicazione, strumentale ai necessari controlli e verifiche dell’autorità di settore;
   c) l’attivazione –in caso di superamento della soglia– della procedura di attuazione di un “piano di caratterizzazione”, alla cui formulazione il responsabile dell’inquinamento è onerato, con successiva attivazione, da parte della Regione, di apposita procedura conferenziale preordinata alla sua autorizzazione (comma 3);
   d) la successiva attivazione, sulla base delle risultanze della caratterizzazione, della procedura di analisi del rischio sito-specifica “per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)”, sulla scorta di appositi parametri tabellari, destinata a refluire in apposita “analisi dei rischi”, destinata alla approvazione in sede conferenziale, con eventuale prescrizione di programma di monitoraggio, in caso di accertamento del mancato superamento della soglia di rischio (commi 4 e 5);
   e) l’effettuazione –per l’alternativa eventualità di superamento della soglia di rischio– di interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, di ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito (comma 7).
Dal dato normativo emerge con chiarezza la distinzione tra CSC e CSR: le prime strumentali a riconoscere, nell’area sottoposta a verifica, l’esistenza di sostanze inquinanti in una soglia tale da giustificare la predisposizione di un piano di caratterizzazione; le seconde preordinate alla verifica della sussistenza di un livello di rischio tale da giustificare l’attuazione di interventi di bonifica e di messa in sicurezza.
Il piano della caratterizzazione (descritto e disciplinato dall'allegato 2 alla parte IV del citato decreto legislativo), è, infatti, un documento progettuale riportante un elenco di attività di indagine e i tempi necessari per effettuarle, compiute le quali si potrà conoscere l'impatto sulle matrici ambientali (suolo, sottosuolo, acque sotterranee e superficiali). Solo con i risultati del piano della caratterizzazione del sito è possibile prevedere la necessità o meno della predisposizione del progetto operativo di bonifica, anche in base all'analisi di rischio sito-specifica per la definizione delle concentrazioni di rischio.
In sostanza, con le risultanze del piano della caratterizzazione si può progettare la bonifica, ma a tal fine è necessario preventivamente verificare la distribuzione delle concentrazioni di sostanze inquinanti al di sopra delle Concentrazioni Soglie di Contaminazione. In sede di approvazione del piano di caratterizzazione si devono indicare i valori CSC, cioè i valori minimi che servono a riconoscere l'esistenza delle sostanze cioè (come efficacemente argomentato dalla difesa regionale) a "vederle"; dopo di che, in fase di progettazione della bonifica si determineranno i valori di CSR, cioè le concentrazioni degli inquinanti che non causano rischio per l'uomo e l'ambiente e cioè sono accettabili.
È del tutto logico, allora, che, ai fini di “riconoscimento”, la soglia di concentrazione possa essere senz’altro abbassata: la fissazione dei valori di CSC non ha per scopo la tutela della salute, ma solo la rintracciabilità nell'ambiente delle sostanze: per contro, la soglia “di intervento” (questa, beninteso, potenzialmente onerosa per il responsabile dell’inquinamento che vi fosse onerato) è fissata in un secondo momento, avuto riguardo ai limiti fissati, per la tutela della salute, dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Ne discende, altresì, che –per la determinazione della soglia di concentrazione rilevante per le sostanze inquinanti non tabellate– non appare arbitraria, per un verso, l’utilizzazione di parametri fissati per sostanze con analoghe caratteristiche e, per altro verso, la valorizzazione del parere reso dall’Istituto di superiore di sanità, al quale la Regione (e l’ARPA) hanno inteso correttamente adeguarsi, senza che all’uopo fosse necessaria (non trattandosi di prefigurare le condizioni per la programmazione di un intervento) una apposita motivazione e senza che venissero in rilievo i prospettati profili di competenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.04.2019 n. 2346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATACostituisce jus receptum il principio per cui non è necessario un idoneo titolo edilizio per la realizzazione di una recinzione nel caso in cui sia posta in essere una trasformazione dalla quale, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni ridotte dell'intervento, non derivi un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, pertanto la distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios va riscontrata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto.
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Considerato in diritto che:
   - l’appello è fondato in parte qua, in relazione alle opere rimanenti sul lettera d), cioè la recinzione posta dal lato del mare e i camminamenti;
   - in linea di fatto la ricostruzione posta a fondamento della sentenza appellata appare corretta;
   - in relazione ai manufatti sub lettere b) e c) predette il relativo ingombro rende condivisibile la valutazione negativa svolta dal giudice di prime cure, basata, nei limiti del sindacato giurisdizionale, su una adeguata valutazione dei fatti e priva di elementi di illogicità;
   - al riguardo, assumono rilievo preminente ed insuperato gli elementi posti a base del parere contrario dell’esperto paesistico, fatto proprio dagli atti in contestazione;
   - per un verso, relativamente al deposito in adiacenza alle cabine, rilevano l’estraneità di detto manufatto all’impianto di balneazione e l’impossibilità di (ri)assorbirlo dal punto di vista volumetrico nel contesto tutelato, dando esso luogo ad un eccessivo ingombro e ad un’eccessiva occupazione di aree scoperte;
   - per un altro verso, relativamente al manufatto aperto, rilevano il carattere precario, il contrasto (per materiali e dimensioni) con i valori ambientali del luogo, la attuale totale trasformazione, che lo rende non riconducibile allo stato che aveva al 31.12.1993, termine rilevante ai fini di condono in esame;
   - a diverse conclusioni deve giungersi rispetto agli interventi rimanenti, privi di concreto impatto, quantomeno nei rilevanti termini invocati dalla p.a.;
   - infatti, in assenza di elementi di ingombro rilevante, le generiche considerazioni poste a base della valutazione negativa si scontrano con il limitato impatto di tali interventi;
   - per ciò che concerne la recinzione, costituisce jus receptum il principio per cui non è necessario un idoneo titolo edilizio per la realizzazione di una recinzione nel caso in cui sia posta in essere una trasformazione dalla quale, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni ridotte dell'intervento, non derivi un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, pertanto la distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios va riscontrata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.06.2018, n. 3661 e 15.12.2017, n. 5908);
   - nel caso di specie, la valutazione appare carente di approfondimento istruttorio e valutativo nei termini appena ricordati, in quanto l’affermazione circa la apparente schermatura appare generica e priva della necessaria verifica concreta della specifica consistenza e funzionalità del manufatto;
   - per ciò che concerne il mutamento del manto erboso, non emerge un’alterazione paesaggisticamente rilevante, stante la palese omogeneità estetica del medesimo manto erboso nei termini di cui alla presente fattispecie;
   - infatti, a fronte della permanenza del medesimo manto erboso, il diverso mero utilizzo, senza strutture di ingombro di rilievo, rende illogica e travisante la valutazione negativa, non potendo rilevare, ai fini in esame, elementi casuali e facilmente mutabili come sedie e tavoli;
   - alla luce delle considerazioni che precedono l’appello è fondato in parte qua e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado in relazione alle restanti opere sub lettera d) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2019 n. 8178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sostituzione di una staccionata in legno con recinzione in cemento e rete metallica lunga oltre sei metri ed alta oltre un metro.
La sostituzione di una staccionata in legno con recinzione in cemento e rete metallica lunga oltre sei metri ed alta oltre un metro non sostanzia un'opera di manutenzione straordinaria della precedente recinzione ma di nuova opera, differente nel posizionamento, nella struttura e nelle dimensioni, che necessita del permesso di costruire perché dotata di stabilità e perché costruita con materiale tipicamente edilizio, tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo.
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... per l'annullamento:
   1) dell'ordinanza n. 8/2018 a firma del responsabile dell'area tecnica del Comune di Jacurso, notificata in data 04.10.2018, con la quale si ingiunge alla ricorrente di “rimuovere/demolire a propria cura e spese, entro il termine di giorni 90 (novanta) dalla notifica della presente ordinanza, tutte le opere abusive in premessa indicate e precisamente: recinzione realizzata con rete metallica sorretta da paletti in cemento”;
...
La ricorrente impugna l’ordinanza di demolizione del Comune di Jacurso n. 8/2018, relativa ad recinzione realizzata con rete metallica sorretta da paletti in cemento, ciò in quanto il predetto manufatto risulterebbe “spostato di circa 0,50 m in corrispondenza del ciglio stradale” ed essendo quindi “necessario presentare una SCIA, in quanto si tratta di sostituzione di quella già esistente con spostamento della stessa di circa 50 cm, realizzata con rete metallica sorretta da paletti in cemento”.
...
Occorre premettere che, dall’ordinanza impugnata, come dalla relazione tecnica a supporto, non si evince che lo spostamento della recinzione “di circa 0,50 m in corrispondenza del ciglio stradale” comporti anche l’invasione della fascia di rispetto stradale.
Resta, quindi, come unica causa di illegittimità, la mancata acquisizione preventiva del titolo edilizio.
A tal proposito, la ricorrente denuncia la non irrogabilità della sanzione demolitoria, in quanto opera soggetta a SCIA.
L’assunto non è condivisibile.
La fattispecie in esame riguarda un’opera di recinzione realizzata, a differenza della staccionata in legno preesistente, in cemento e rete metallica, lunga oltre sei metri ed alta oltre un metro.
Non si tratta, quindi, di manutenzione straordinaria della precedente recinzione, ma di nuova opera, differente nel posizionamento, nella struttura e nelle dimensioni, che necessita del permesso di costruire perché dotata di stabilità (cfr. Cass. 20739/2018) e perché costruita con materiale tipicamente edilizio, tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo.
Ogni altra censura di natura formale, è sanata dalla natura vincolata dell’atto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 26.11.2019 n. 1972 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, con riferimento al regime edilizio applicabile ai muri di recinzione colpiti dall'ordine demolitorio, “in assenza di precise indicazioni ritraibili dal testo unico in materia di edilizia, le opere funzionali alla delimitazione dei confini dei terreni, quali recinzioni, muri di cinta e cancellate, non devono essere riguardate in base all'astratta tipologia di intervento che incarnano, ma sulla scorta dell'impatto effettivo che determinano sul preesistente assetto territoriale: ne deriva, in linea generale, che tali opere restano sottoposte al regime della DIA (oggi SCIA) ove non superino in concreto la soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, per essersi tradotte in manufatti di corpo ed altezza modesti, mentre abbisognano del permesso di costruire ove detta soglia, come avvenuto nella fattispecie, risulta superata in ragione dell'importanza dimensionale degli interventi posti in essere".
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12. Passando all’ulteriore contestazione relativa alla proprietà comune, ritiene il Collegio che il provvedimento, nella parte in cui ordina la demolizione della recinzione e del cancello elettrico, resista alle censure sollevate dal ricorrente.
Nel verbale di accertamento dell’11.02.2013 la suddetta recinzione è così descritta: “cancello elettrico in ferro lungo circa 4,00 mt e altro circa 1,90 mt con recinzione in muratura ordinaria e ferro lunga complessivamente circa 15,00 mt con porta d’ingresso di circa 0,87 mt X circa 2,00 mt con pensilina in muratura e tegole a chiusura di uno spazio che originariamente era libero”.
Parte ricorrente, muovendo dal presupposto secondo il quale la recinzione, secondo una prassi dell’epoca, non era prevista dagli elaborati progettuali e senza soffermarsi sulle caratteristiche dell’opera, contesta la illegittimità dell’ordinanza di demolizione asserendo che essa è, per questa parte, in contrasto con l’articolo 70 del regolamento edilizio comunale secondo il quale “le aree fronteggianti vie o piazze aperte al traffico devono essere recintate adeguatamente”.
L’assunto non è condivisibile.
Occorre precisare, al riguardo, che, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, condiviso dal Collegio, con riferimento al regime edilizio applicabile ai muri di recinzione colpiti dall'ordine demolitorio, “in assenza di precise indicazioni ritraibili dal testo unico in materia di edilizia, le opere funzionali alla delimitazione dei confini dei terreni, quali recinzioni, muri di cinta e cancellate, non devono essere riguardate in base all'astratta tipologia di intervento che incarnano, ma sulla scorta dell'impatto effettivo che determinano sul preesistente assetto territoriale: ne deriva, in linea generale, che tali opere restano sottoposte al regime della DIA (oggi SCIA) ove non superino in concreto la soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, per essersi tradotte in manufatti di corpo ed altezza modesti, mentre abbisognano del permesso di costruire ove detta soglia, come avvenuto nella fattispecie, risulta superata in ragione dell'importanza dimensionale degli interventi posti in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.01.2016 n. 10 e 04.07.2014 n. 3408; Cass. Pen., Sez. III, 11.11.2014 n. 52040)” TAR Napoli, sentenza n. 2122 del 15.04.2019 (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001.
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Né va dimenticato il principio generale secondo cui, in tema di reati edilizi, la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261521, cfr. in motivazione, quanto alle esemplificazioni del principio dichiarato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.05.2018 n. 20739).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto all'installazione della sbarra di legno su pilastrini, il Collegio ritiene che tale intervento non necessitasse di titolo autorizzatorio in quanto è stata realizzata senza interventi in muratura e non costituisce espressione dello jus aedificandi, bensì del diverso jus excludendi omnes alios che non necessita di titolo edilizio.
Il Collegio condivide, sul punto, l’impostazione giurisprudenziale secondo cui la realizzazione della recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale. Con la conseguenza che la distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto.
Nella fattispecie la sbarra in questione si presenta quale opera riconducibile al legittimo esercizio dello ius excludendi alios, come tale non bisognevole d’un titolo edilizio a proprio fondamento.
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1. Con il ricorso in epigrafe, ritualmente notificato e depositato, è impugnata l'ordinanza n. 6 del 18.02.2016 con la quale il Comune di Alcamo ha ordinato la rimozione delle seguenti opere, eseguite alla data del 06.03.2015, perché realizzate senza l’autorizzazione di cui all’ art. 5 della l.r. 37/1985:
   1. stradella ricoperta di materiale inerte di collegamento, attraverso la spiaggia (arenile demaniale) tra la strada comunale e il fabbricato insistente sul terreno in catasto al fg. 1, p.lle 381 e 3 (in parte);
   2. spiazzo antistante il predetto fabbricato, sulla spiaggia (arenile demaniale);
   3. barra di legno (longitudinale posta su due pilastrini) che ostruisce l’accesso pedonale alla stradella di cui al punto 1.
Trattasi di opere insistenti sull’aerea demaniale marittima di mq 248 concessa con atto n. 520 del 16.12.2004, per mq 65 (spazio antistante in fabbricato) in uso esclusivo e per i restanti mq 183 in uso non esclusivo.
Nella motivazione dell’atto è spiegato che:
   - nella suddetta concessione demaniale non è previsto il collocamento della sbarra di legno;
   - ai sensi dell’art. 23 del R.E. per le opere realizzate era necessario il titolo abilitativo;
   - l’area di che trattasi ricade in Z.T.O. Fp6 nella quale l’edilizia libera può concernere la realizzazione di strada poderali con caratteristiche di ruralità, di cui sarebbe priva l’opera in questione;
   - la concessione demaniale n. 520 del 16.12.2004, all’art. 2, obbligava il concessionario a richiedere al Comune il titolo edilizio prima dell’inizio dei lavori.
Il sig. Si.Pi., in qualità di comproprietario, ne chiede l’annullamento previa sospensione cautelare, deducendone l’illegittimità per i motivi di violazione degli artt. 4, 5, 6, 7 e 9 della legge regionale n. 37/1985, degli artt. 31, 34 e 37 del D.P.R. 380 del 2001 e dell’art. 23 del regolamento edilizio, nonché per eccesso di potere e difetto di motivazione, in quanto sia la stradella sia lo spiazzo esisterebbero almeno dal 1968, come accertato in fatto dal Tribunale di Trapani con la sentenza n. 47/2014 (relativa a controversia tra proprietari, in cui il ricorrente era parte) e di cui l’A.R.T.A. ha preso atto con la nota n. 44856 del 02.10.2014.
Le opere eseguite, quindi, sarebbero di mera manutenzione e come tali rientranti nella tipologia dell’edilizia libera di cui all’art. 6 della l.r. 37/1985 che, invero, riguarderebbe anche le strade poderali e non solo quelle rurali; parimenti non rileverebbe il fatto che le opere ricadono in zona Fp6 poiché l’area ricade nel demanio marittimo; non troverebbe applicazione l’art. 23 del regolamento edilizio che disciplina la costruzione di strade interpoderali assoggettandola ad autorizzazione, poiché quella oggetto di lite servirebbe soltanto l’abitazione del ricorrente.
Quanto alla sbarra in legno, si sostiene che la sua collocazione –comunque da ricondurre alla fattispecie dell’edilizia libera di cui all’art. 6 della l.r. 37/1985- sarebbe stata autorizzata dall’A.R.T.A. con la concessione demaniale marittima n. 520/2014 oltre che imposta dallo stesso assessorato con la nota n. 23634/2014 (1° motivo).
Trattandosi di opere soggette a autorizzazione l’unica sanzione applicabile sarebbe quella pecuniaria e comunque la demolizione non sarebbe attuabile per la stradella, esistente ab immemorabile (2° motivo).
Lamenta anche la violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale di cui alla legge 241 del 1990 a causa dell’omessa valutazione delle controdeduzioni presentate e il difetto di istruttoria e di motivazione (3° motivo).
Con l’ordinanza collegiale n. 759 del 04.07.2016, è stata accolta la domanda di sospensione cautelare dell'esecuzione del provvedimento impugnato.
Il Comune di Alcamo si è costituito in giudizio con memoria, il 10.05.2017, controdeducendo che ai sensi dell’art. 74 (“Fp6 zona delle dune e della spiaggia”) delle N.T.A. del P.R.G. –che espressamente disciplina sia le aree private, sia le aere demaniali- nella zona Fp6 non sono ammesse opere stabili come la sbarra sorretta da pilastrini, né la copertura di un sentiero naturale in terra battuta con misto granulometrico calcareo in quanto “nella zona Fp6 sono consentiti soltanto interventi con applicazione di tecniche naturalistiche volti a ristabilire l’equilibrio delle dune e dello specifico habitat dunale.
Nella spiaggia lungo il litorale sono ammesse solo attività per la diretta fruizione del mare che non comportino installazioni o impianti stabili, al fine di garantire l’azione eolica di ripascimento delle dune.
Nelle aeree di proprietà privata ricadenti in zona Fp6 sono ammesse destinazioni d’uso relative a giardini e verde privato, purché compatibili con le finalità e gli interventi della zona Fp6
”.
...
Quanto all'installazione della sbarra di legno su pilastrini, il Collegio, invece, ritiene che tale intervento non necessitasse di titolo autorizzatorio –prescindendosi in questa sede dagli aspetti connessi alle limitazioni all’accesso alla spiaggia da parte del pubblico discendenti dalla concessione demaniale marittima che non sono oggetto del giudizio- in quanto è stata realizzata senza interventi in muratura e non costituisce espressione dello jus aedificandi, bensì del diverso jus excludendi omnes alios che non necessita di titolo edilizio.
Il Collegio condivide, sul punto, l’impostazione giurisprudenziale secondo cui la realizzazione della recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale. Con la conseguenza che la distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 05/06/2013, n. 1460; Cons. di Stato, Sez. V, 09/04/2013, n. 1922; Cons. St., Sez. V, 23/02/2012, n. 976).
Nella fattispecie la sbarra in questione -così come descritta nell’atto impugnato, negli atti istruttori ed evincibile dal materiale fotografico versato in atti- si presenta quale opera riconducibile al legittimo esercizio dello ius excludendi alios, come tale non bisognevole d’un titolo edilizio a proprio fondamento.
In parte qua, dunque, l’atto impugnato è illegittimo e va annullato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 28.11.2017 n. 2758 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATALaddove la parte abusiva da demolire risulti senza autorizzazione non può trovare applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato.
Invero, «In tema di reati edilizi, la possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche)».
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Relativamente alla questione, posta con il ricorso in cassazione -incidenza della demolizione sulla parte di fabbricato non abusiva-, la decisione della Corte di appello risulta adeguatamente motivata, rilevando come lo stesso consulente della parte ricorrente aveva ritenuto solo una difficile e complessa esecuzione della demolizione, ma non già un'impossibilità della demolizione; inoltre la Corte di appello logicamente evidenzia come in sede esecutiva saranno prese le opportune misure per la demolizione in sicurezza.
Anche nel ricorso per cassazione si prospetta un'incidenza negativa e grave (della demolizione) sulle opere costruite legittimamente, ma solo in modo teorico, generico, e non concreto, desunto da specifici atti del giudizio di esecuzione. E' una evidente questione di fatto, non valutabile in questa sede se adeguatamente motivata, come nel caso in oggetto (Sez. 3, n. 19090 del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101).
Deve inoltre rilevarsi che la parte abusiva da demolire risulta senza autorizzazione, completamente abusiva e, quindi, non può trovare applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato: «In tema di reati edilizi, la possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche)» (Sez. 3, n. 16548 del 16/06/2016 - dep. 03/04/2017, P.G. in proc. Porcelli, Rv. 26962401; vedi anche Sez. 3, n. 28747 del 11/05/2018 - dep. 21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101 e Sez. 3, n. 19090 del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2019 n. 46382).

EDILIZIA PRIVATALa cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la rimozione della porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza pregiudizio per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente ovvero il responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione delle parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'art. 34 dpr 380/2001, la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di riferimento "le misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato
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Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a che vedere con la "sanatoria" dell'abuso edilizio, la quale soltanto estingue, come espressamente previsto dall'art. 45, comma 3, d.P.R. 380/2001, il corrispondente reato, in quanto non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate legittimamente.
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale.
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Il Consiglio di Stato ha ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che la procedura di cui al citato art. 34 si applica soltanto ai casi di difformità parziale tra l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece, concretamente realizzato e non anche per gli interventi realizzati in assenza di permesso.
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3. Di tali principi la Corte partenopea ha fatto buon governo avendo ritenuto che il tempo trascorso dalla presentazione dell'istanza unitamente all'insussistenza di elementi concreti che ne lasciassero presagire la rapida definizione non consentissero la pronuncia di revoca dell'ordine demolitorio e contestualmente escluso l'applicabilità al caso di specie dell'art. 34 d.P.R. 380/2001, che costituisce oggetto del terzo motivo di ricorso, sul rilievo che non si verte nell'ipotesi di parziale difformità dell'opera dal permesso di costruire, alla quale soltanto è riferita la suddetta disposizione.
Va infatti considerato, secondo quanto ripetutamente affermato da questa Corte, che la cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la rimozione della porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza pregiudizio per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente ovvero il responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione delle parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dello stesso art. 34, la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di riferimento "le misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato (cfr. Corte di cassazione, Sezione III penale, 24.05.2010, n. 19538).
Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a che vedere con la "sanatoria" dell'abuso edilizio, la quale soltanto estingue, come espressamente previsto dall'art. 45, comma 3, d.P.R. 380/2001, il corrispondente reato, in quanto non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate legittimamente (Sez. 3, n. 28747 del 11/05/2018 - dep. 21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101).
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale (Corte di Cass. n. 55372 del 2018).
Da quanto sopra risulta evidente l'infondatezza della contestazione difensiva atteso che nel caso in questione le opere edilizie di cui si discute, non sono state eseguite in parziale difformità dal permesso a costruire, ma sono del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo.
Le sentenze del giudice amministrativo, indicate dalla difesa in termini difformi dall'univoca interpretazione data da questa Corte all'ambito di operatività della norma in esame, risultano pronunce isolate, ampiamente contrastate dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato che ha ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che la procedura di cui al citato art. 34 si applica soltanto ai casi di difformità parziale tra l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece, concretamente realizzato e non anche per gli interventi realizzati in assenza di permesso (Cons. di Stato, Sez. VI, Sent. n. 1924 del 2018; Cons. Stato, sez. VI, n. 547223 del 23.11.2017, nonché in fattispecie esattamente sovrapponibile a quella in esame Cons. di Stato Sent. n. 5128 del 2018, secondo cui la procedura di cui all'art. 34 non è applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2019 n. 43433).

IN EVIDENZA

URBANISTICAI soggetti residenti nelle aree del territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste dalla convenzione di lottizzazione; pertanto, in linea di principio, anche il singolo proprietario è ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150.
La norma da ultimo citata, nel testo introdotto dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765, espressamente dispone che: “L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda: 1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
   2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
   3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l'esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;
   4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione”.
Ciò posto deve ancora rilevarsi che dall’art. 28 appena richiamato discende l’obbligo per il Comune di prendere in carico le opere di urbanizzazione realizzate in base a convenzione di lottizzazione, in quanto passaggio necessario alla concreta attuazione dell’assetto del territorio voluto dal legislatore, nonché delle norme vigenti in materia di gestione dei servizi pubblici, la cui titolarità è per legge affidata all’autorità amministrativa.
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Come noto, la giurisprudenza è ormai concorde nell’inquadrare la convenzione di lottizzazione negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990.
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica.
Ne discende l’applicabilità, altresì, del disposto di cui all’art. 1367 c.c., norma che stabilisce che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.

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A seguito del completamento degli interventi a carico dei lottizzanti, le opere sono state collaudate dal Comune con esito positivo: nel certificato di collaudo si rileva, in particolare, che, quanto alle strade realizzate “le lievi discordanze di frazionamento rispetto lo stato attuale risultano ininfluenti nel collaudo delle opere”.
Ciò posto deve ritenersi che, dato l’esito positivo del collaudo, competa al Comune, ai sensi delle disposizioni di legge e delle previsioni convenzionali, l’acquisizione in carico delle opere di urbanizzazione: invero, appare contraria al canone generale di buona fede la pretesa di sottrarsi agli obblighi –si ribadisce, di fonte legale e convenzionale- che gravano sull’Amministrazione in forza di “lievi discordanze” che non hanno impedito che il collaudo delle opere avvenisse positivamente.
Resta inteso che, in questa sede, può trovare accoglimento esclusivamente la pretesa a che la PA acquisisca, facendosene carico, le opere di urbanizzazione realizzate in attuazione della convenzione di lottizzazione, che non consente, come ovvio, il trasferimento di aree che non siano nella titolarità dei lottizzanti.
Valuterà la P.A. quali soluzioni adottare in relazione alle opere insistenti su aree in proprietà di terzi privati, rispetto alle quali si è accertato il suddetto discostamento rispetto agli obblighi convenzionali (tenuto anche conto del fatto che, come da insegnamento della Suprema Corte, le opere di urbanizzazione, una volta realizzate, non “tollerano” di rimanere in proprietà privata), riversando, ove ne ricorrano i presupposti, il peso economico che ne deriverà sui lottizzanti che non hanno correttamente adempiuto le obbligazioni loro imposte.
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1. Con il ricorso in esame la società in epigrafe chiede che il Comune resistente venga condannato a farsi carico delle opere di urbanizzazione che sono state realizzate nella località Vanzelle del territorio comunale in forza di convenzione di lottizzazione sottoscritta nell’anno 1982.
Il Comune resiste all’accoglimento del ricorso, facendo valere due ordini di ragioni: in primo luogo, si afferma, le previsioni convenzionali escluderebbero che a carico dell’Amministrazione possa rinvenersi un siffatto obbligo; inoltre, alla delibazione favorevole della domanda osterebbe l’esistenza di alcuni discostamenti tra il frazionamento progettato e lo stato attuale dei luoghi. Ciò implicherebbe che alcune parti del sedime stradale insisterebbero in proprietà privata, il che impedirebbe il trasferimento delle opere nella titolarità del Comune fino alla regolarizzazione dello stato di fatto.
2. La domanda è fondata e deve, pertanto, trovare accoglimento nei termini che si passa a specificare.
E’ bene premettere che i soggetti residenti nelle aree del territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste dalla convenzione di lottizzazione; pertanto, in linea di principio, anche il singolo proprietario è ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150 (in termini: Cons. St., Sez. IV, 18.10.2018, nr. 199).
La norma da ultimo citata, nel testo introdotto dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765, espressamente dispone che: “L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda: 1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
   2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
   3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l'esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;
   4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione
”.
Ciò posto deve ancora rilevarsi che, sulla scorta di orientamento giurisprudenziale al quale il Collegio ritiene di dover aderire in quanto fondato su ragioni meritevoli di condivisione, dall’art. 28 appena richiamato discende l’obbligo per il Comune di prendere in carico le opere di urbanizzazione realizzate in base a convenzione di lottizzazione, in quanto passaggio necessario alla concreta attuazione dell’assetto del territorio voluto dal legislatore, nonché delle norme vigenti in materia di gestione dei servizi pubblici, la cui titolarità è per legge affidata all’autorità amministrativa (cfr. Tar Sardegna, Sez. II, 10.07.2019, nr. 765; Tar Sardegna, Sez. II, 15.05.2019, n. 563; Tar Sardegna, Sez. II, 15.05.2013 nr. 404).
E’ d’altro canto vero che, ad una attenta lettura, non risultano sussistenti previsioni di segno contrario nelle clausole della convenzione di lottizzazione dalla quale trae spunto la presente vertenza.
Secondo la prospettazione del Comune, dal disposto dell’art. 13 della convenzione in esame si desumerebbe che la presa in carico delle opere di urbanizzazione sarebbe per l’Amministrazione resistente una mera facoltà, esercitabile al ricorrere di ragioni di interesse pubblico che lo suggeriscano.
Rileva il Collegio che, come noto, la giurisprudenza è ormai concorde nell’inquadrare la convenzione di lottizzazione negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 (cfr. Cons. St., Sez. IV, 21.12.2012, nr. 324; Cass. civ. Sez. Unite, 01.07.2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29.02.2008, n. 781; Sez. IV, 02.08.2011, n. 4576).
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica. Ne discende l’applicabilità, altresì, del disposto di cui all’art. 1367 c.c., norma che stabilisce che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.
Si impone, di conseguenza, un’interpretazione delle disposizioni convenzionali che qui vengono in esame che, in quanto coerente con il dato normativo di riferimento –ovvero, la previsione dell’art. 28 L. 1150/1942, già citato-, consenta alle stesse di esplicare i propri effetti.
La lettura sistematica delle norme convenzionali in oggetto, condotta alla luce dei principi appena esplicitati, conduce a risultati difformi da quelli prospettati dal Comune.
L’art. 13 della convenzione di lottizzazione qui in esame stabilisce: “Durante l’attuazione delle opere previste nel piano di lottizzazione, di cui all’art. 5 e fino alla consegna di cui al successivo art. 19, tutti gli oneri di manutenzione e ogni responsabilità civile e penale inerente all’attuazione ed all’uso della lottizzazione sono a totale ed esclusivo carico della ditta lottizzante. (…) Tutte le opere passeranno, gratuitamente, in proprietà del Comune, a semplice richiesta, quando se ne ravvisasse l’opportunità per l’esistenza di necessità di interesse collettivo; le opere stesse, finché rimarranno in proprietà privata, si considereranno assoggettate a servitù di uso pubblico. (…)”.
Il successivo art. 18, poi, dispone: “La ditta lottizzante si impegna a consegnare al Comune le opere e le aree di cui ai precedenti art. 3) e 5) non prima di 360 giorni dalla data dei collaudi con esito favorevole”.
Dalle norme convenzionali appena citate si trae il seguente quadro regolamentare:
   - gli oneri di manutenzione sono a carico della ditta lottizzante fino alla consegna (art. 13);
   - la proprietà delle opere si trasferirà al Comune –con i conseguenti obblighi manutentivi- al momento della consegna (art. 18);
   - anche prima di tale momento, al ricorrere di necessità pubbliche che tanto impongano, il Comune potrà, a semplice richiesta, acquisire la proprietà delle opere (art. 12).
Da quanto precede risulta dunque smentita la tesi del Comune a mente della quale l’acquisizione in proprietà delle opere di urbanizzazione in capo all’Amministrazione costituirebbe il contenuto di una semplice facoltà: è invece vero che al Comune è riconosciuta la facoltà di acquisire la titolarità delle opere, a semplice richiesta e prima della consegna, allorquando ciò risponda all’interesse pubblico, fermo restando l’obbligo di acquisirle una volta completate e collaudate positivamente.
Il Comune resistente ha, inoltre, dedotto che all’acquisizione della titolarità delle opere di urbanizzazione, con correlata assunzione degli obblighi manutentivi, si opporrebbe l’esistenza di alcuni discostamenti tra il frazionamento progettato dal tecnico incaricato e lo status quo, nel senso che le opere in discorso sarebbero state in parte realizzate su area di sedime in proprietà di terzi privati.
Anche questo argomento non convince.
E’ documentato in atti che, a seguito del completamento degli interventi a carico dei lottizzanti, le opere sono state collaudate dal Comune con esito positivo (cfr. all. 8 alla produzione di parte ricorrente): nel certificato di collaudo si rileva, in particolare, che, quanto alle strade realizzate “le lievi discordanze di frazionamento rispetto lo stato attuale risultano ininfluenti nel collaudo delle opere”.
Ciò posto deve ritenersi che, dato l’esito positivo del collaudo, competa al Comune, ai sensi delle disposizioni di legge e delle previsioni convenzionali in precedenza richiamate, l’acquisizione in carico delle opere di urbanizzazione: invero, appare contraria al canone generale di buona fede la pretesa di sottrarsi agli obblighi –si ribadisce, di fonte legale e convenzionale- che gravano sull’Amministrazione in forza di “lievi discordanze” che non hanno impedito che il collaudo delle opere avvenisse positivamente.
Resta inteso che, in questa sede, può trovare accoglimento esclusivamente la pretesa a che la PA acquisisca, facendosene carico, le opere di urbanizzazione realizzate in attuazione della convenzione di lottizzazione, che non consente, come ovvio, il trasferimento di aree che non siano nella titolarità dei lottizzanti.
Valuterà la P.A. quali soluzioni adottare in relazione alle opere insistenti su aree in proprietà di terzi privati, rispetto alle quali si è accertato il suddetto discostamento rispetto agli obblighi convenzionali (tenuto anche conto del fatto che, come da insegnamento della Suprema Corte, le opere di urbanizzazione, una volta realizzate, non “tollerano” di rimanere in proprietà privata: cfr. Cass., Sez. I civ., 25.07.2016, n. 15340), riversando, ove ne ricorrano i presupposti, il peso economico che ne deriverà sui lottizzanti che non hanno correttamente adempiuto le obbligazioni loro imposte (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.12.2019 n. 1390 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn linea generale va ricordato che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprende un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione che hanno spesso portata più ampia rispetto a quelle strettamente necessarie a urbanizzare il nuovo insediamento edilizio.
Per tale motivo quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica, con la conseguenza che rientrano nel novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost..
In secondo luogo va osservato che il rilascio del titolo edilizio si configura come fatto di per sé costitutivo dell’obbligo giuridico di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri vigenti prescindendo totalmente o meno dalle singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
Orbene, sulla base di tali premesse è pertanto necessario affermare che il contributo di costruzione ha carattere generale, prescinde totalmente dalle singole opere di urbanizzazione, viene altresì determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
Inoltre va altresì sottolineato che, attesa la natura non sinallagmatica e il regime interamente pubblicistico che connota il contributo de quo, la sua disciplina vincola anche il giudice, al quale è impedito di configurare autonomamente ipotesi di non debenza della specifica prestazione patrimoniale diverse da quelle autoritativamente individuate dal legislatore.
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Come è noto, a livello normativo l’art. 17 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevede che decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano “questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”, chiarendo che l’ultrattività del piano attuativo riguarda i soli profili edilizi ed urbanistici, e non anche quelli di carattere obbligatorio che regolano i rapporti tra le parti, perché altrimenti perderebbe ogni senso la previsione, contenuta nell’art. 16 della medesima legge, di una data di scadenza del piano.
Altresì, all’interno delle previsioni urbanistiche del piano attuativo “sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale".
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Non è ipotizzabile alcuno scomputo degli oneri correlati al titolo edilizio (rilasciato 15 anni dopo la approvazione del piano poi decaduto) in regione delle previsioni contenute nel piano di lottizzazione da anni inefficace (…) di conseguenza deve ritenersi fondata la pretesa del Comune di pagamento e ritenzione degli oneri di urbanizzazione relativi al permesso perché direttamente ed autonomamente correlata al rilascio del permesso medesimo, dove l’eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione, eseguite a spese del lottizzante, un carattere satisfattivo dell’obbligazione relativa al pagamento del contributo concessorio, non può vincolare l’ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica.
Sicché, sulla scorta della prevalente giurisprudenza, si deve giungere alla conclusione che la tesi secondo cui non è dovuto il contributo di costruzione in ragione dell’integrale ultrattività di tutti gli obblighi previsti dalla convenzione deve essere respinta.
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In linea generale va ricordato che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprende un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione che hanno spesso portata più ampia rispetto a quelle strettamente necessarie a urbanizzare il nuovo insediamento edilizio.
Per tale motivo quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica, con la conseguenza che rientrano nel novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost. (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.12.2016, n. 24; id. 30.08.2018, n. 12).
In secondo luogo va osservato che il rilascio del titolo edilizio si configura come fatto di per sé costitutivo dell’obbligo giuridico di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri vigenti prescindendo totalmente o meno dalle singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22.02.2011, n. 1108; Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.12.2009, n. 8757; Consiglio di Stato, Sez. V, 23.01.2006, n. 159; id. 21.04.2006, n. 2258; Cons. Stato V, 15.12.2005, n. 7140; 06.05.1997, n. 462).
Orbene, sulla base di tali premesse è pertanto necessario affermare che il contributo di costruzione ha carattere generale, prescinde totalmente dalle singole opere di urbanizzazione, viene altresì determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
Inoltre va altresì sottolineato che, attesa la natura non sinallagmatica e il regime interamente pubblicistico che connota il contributo de quo, la sua disciplina vincola anche il giudice, al quale è impedito di configurare autonomamente ipotesi di non debenza della specifica prestazione patrimoniale diverse da quelle autoritativamente individuate dal legislatore (cfr. Tar Marche, Ancona, Sez. I, 30.12.2017, n. 954).
Pertanto la pretesa della parte ricorrente deve essere respinta perché l’esistenza della convenzione e la presenza delle opere di urbanizzazione non possono fondatamente essere invocate per sostenere che non è dovuto il pagamento del contributo di costruzione.
Anche la tesi dell’integrale ultrattività di tutti gli obblighi previsti dalla convenzione non può essere condivisa perché, come è noto, a livello normativo l’art. 17 della legge 17.08.1942, n. 1150, prevede che decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano “questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”, chiarendo che l’ultrattività del piano attuativo riguarda i soli profili edilizi ed urbanistici, e non anche quelli di carattere obbligatorio che regolano i rapporti tra le parti, perché altrimenti perderebbe ogni senso la previsione, contenuta nell’art. 16 della medesima legge, di una data di scadenza del piano.
Sul punto è stato rimarcato che all’interno delle previsioni urbanistiche del piano attuativo “sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.06.2018, n. 3672; id, 18.05.2018, n. 3002; Consiglio di Stato, IV, 28.10.2009, n. 6661).
Sul punto è stato altresì condivisibilmente osservato che “non è ipotizzabile alcuno scomputo degli oneri correlati a tale titolo edilizio (rilasciato 15 anni dopo la approvazione del piano poi decaduto) in regione delle previsioni contenute nel piano di lottizzazione da anni inefficace (…) di conseguenza deve ritenersi fondata la pretesa del Comune di pagamento e ritenzione degli oneri di urbanizzazione relativi al permesso perché direttamente ed autonomamente correlata al rilascio del permesso medesimo, dove l’eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione, eseguite a spese del lottizzante, un carattere satisfattivo dell’obbligazione relativa al pagamento del contributo concessorio, non può vincolare l’ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica" (cfr. Tar Lombardia, Milano, 29.02.2016, n. 406; Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 17.08.2018, n. 2001).
La ricorrente sostiene inoltre che l’ultrattività delle previsioni della convenzione scaduta deriverebbe dalla circostanza che l’art. 58 delle norme tecniche di attuazione allegate al piano degli interventi ha qualificato le aree come “PEC 2” (piano edilizio convenzionato), in tal modo riconoscendo alla convenzione una perdurante efficacia.
Questa tesi risulta priva di fondamento perché la predetta norma si limita a prevedere che nel caso di piani attuativi decaduti rimangano in vigore gli indici urbanistici e stereometrici del piano approvato, precisando che il piano non deve più ritenersi efficace per la parte non attuata, con l’obbligo a tempo indeterminato di osservare nella costruzione di nuovi edifici gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabilite dal piano, e ciò è perfettamente in linea con quanto previsto dagli articoli artt. 16, 17 e 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, i quali, come sopra precisato, dispongono che l’ultrattività del piano attuativo scaduto riguarda i soli profili edilizi ed urbanistici, e non anche quelli di carattere obbligatorio che regolavano i rapporti tra le parti.
Ne discende che, sulla scorta della prevalente giurisprudenza, si deve giungere alla conclusione che la tesi secondo cui non è dovuto il contributo di costruzione in ragione dell’integrale ultrattività di tutti gli obblighi previsti dalla convenzione deve essere respinta (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.11.2019 n. 1281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASecondo la giurisprudenza della Cassazione «la controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la P.A. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri».
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Circa l'accertamento
negativo dell’inadempimento da parte della ricorrente agli obblighi assunti con la Convenzione accessoria al piano, occorre premettere che tale accertamento rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo secondo quanto previsto dall’art. 133 del c.p.a. secondo il quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: a) le controversie in materia di: …. 2) formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo.
Occorre poi precisare che la domanda comporta che la ricorrente si faccia carico dell’onere della prova delle cause che hanno reso l’inadempimento non imputabile, ai sensi dell’art. 2697 c.c.
Non basta infatti affermare che si tratterebbe di un accertamento negativo dell’inadempimento per onerare il convenuto dell’onere di provare la responsabilità dell’inadempimento, in quanto grava sul debitore provare ex art. 1218 c.c. l’impossibilità non imputabile della prestazione al fine di paralizzare la richiesta di escussione della fideiussione del creditore. La ricorrente ha quindi l’onere della prova dei fatti impeditivi, estintivi e modificativi del diritto dedotto in giudizio, non potendo limitarsi alla mera allegazione dei fatti ritenuti tali.

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A. La ricorrente proprietaria di alcuni terreni siti nel Comune di Tradate è parte del Piano Integrato di Intervento via Monte San Michele/via Don Tornaghi approvato dal Comune di Tradate con la delibera del consiglio comunale n. 26 del 03/04/2007, il quale prevede la realizzazione di un comparto Centro Servizi e di un comparto Caserma dei Carabinieri.
Ai sensi della Convenzione Rep. n. 95039 del 19/06/2008, accessoria al menzionato PII, la ricorrente doveva realizzare direttamente la nuova Caserma dei Carabinieri per l'importo di € 3.000.000,00, ristrutturare l'edificio di proprietà comunale sito in via Isonzo destinato ad ospitare la nuova sede dei Vigili del Fuoco Volontari per un importo massimo di € 160.000,00, nonché, a titolo di urbanizzazione, realizzare una rotatoria tra la via Allende e la via Monte San Michele per l'importo di € 500.000, opere queste tutte a scomputo.
A seguito del superamento dei termini per la realizzazione dei lavori previsti dalla Convenzione Rep. N. 95039 del 19/06/2008, il Comune, con la nota prot. 11382 del 24/06/2011, qui gravata, ha chiesto direttamente alla società CO.CO., quale fideiussore della ricorrente, l’escussione della polizza fideiussoria n. 5072 del 20/04/2010 ed il conseguente pagamento entro 15 giorni della somma di € 3.100.000,00 per le asserite inadempienze della Ma. in ordine al mancato completamento delle opere.
La ricorrente per l’annullamento di tale atto e/o per l'accertamento negativo del diritto del Comune di Tradate di procedere all'escussione della polizza fideiussoria n. 5072 del 20/04/2010 e per l’accertamento negativo del proprio inadempimento, ha sollevato i seguenti motivi di ricorso.
...
B2. Venendo all’eccezione di difetto di giurisdizione dell’impugnazione dell’atto comunale prot. n. 11382, datato 25/06/2011 di escussione della polizza fideiussoria n. 5072 del 20/04/2010, essa è fondata.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione (Cass., Sez. Un., 28.07.2016, n. 15666), infatti, «la controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la P.A. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri» (Cass., sez. un., 13.06.2012, n. 9592, m. 623047, Cass., sez.un. 23.02.2010, n. 4319, m. 611803).
Di conseguenza, tutte le contestazioni mosse avverso la richiesta di escussione della polizza fideiussoria, avrebbero dovuto essere dedotte davanti al giudice ordinario.
B.3 Ne consegue che i primi tre motivi di ricorso sono inammissibili.
B.4 Venendo ora all’esame della domanda subordinata di accertamento negativo dell’inadempimento da parte della ricorrente agli obblighi assunti con la Convenzione accessoria al piano, occorre premettere che tale accertamento rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo secondo quanto previsto dall’art. 133 del c.p.a. secondo il quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: a) le controversie in materia di: …. 2) formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo.
Occorre poi precisare che la domanda comporta che la ricorrente si faccia carico dell’onere della prova delle cause che hanno reso l’inadempimento non imputabile, ai sensi dell’art. 2697 c.c.
Non basta infatti affermare che si tratterebbe di un accertamento negativo dell’inadempimento per onerare il convenuto dell’onere di provare la responsabilità dell’inadempimento, in quanto grava sul debitore provare ex art. 1218 c.c. l’impossibilità non imputabile della prestazione al fine di paralizzare la richiesta di escussione della fideiussione del creditore. La ricorrente ha quindi l’onere della prova dei fatti impeditivi, estintivi e modificativi del diritto dedotto in giudizio, non potendo limitarsi alla mera allegazione dei fatti ritenuti tali.
Nel caso di specie la società ricorrente ha ritenuto che l’inadempimento non fosse a lei imputabile per i seguenti motivi:
   a) i disegni della caserma non sono mai stati formalmente consegnati dopo la specifica richiesta del progettista della Ma. datata 11/03/2009;
   b) i disegni della sede dei Vigili del Fuoco sono pervenuti solo in data 29/05/2009, per cui la ricorrente ha potuto presentare il progetto esecutivo solo in data 16/06/2009 cioè 2 giorni prima del termine finale per l’esecuzione dei lavori;
   c) per quanto attiene in particolare la caserma dei carabinieri, le risultanze geologiche hanno comportato un inevitabile slittamento della pratica costruttiva;
   d) la rotatoria è stata poi di fatto "congelata" per meglio ponderarne le interferenze con la viabilità anche provinciale di imminente riassetto; e) non sono mai stati approvati dall’amministrazione i progetti definitivi su cui la Ma. avrebbe dovuto redigere gli esecutivi.
L’azione è infondata.
Per quanto riguarda la lettera a) la ricorrente non ha depositato la specifica richiesta del progettista della Ma. datata 11/03/2009 per cui non ha dato piena prova del fatto che la documentazione specificamente richiamata nel preambolo della Convenzione come facente parte della pratica edilizia n. 446/05 relativi al progetto riguardante la Caserma dei Carabinieri, non fosse sufficiente per la realizzazione della caserma.
Per quanto riguarda la lettera b) il termine previsto dalla convenzione per l’esecuzione dei lavori relativi alla sede dei Vigili del Fuoco, cioè il 18.06.2009, non è termine essenziale previsto dalla Convenzione a pena di risoluzione dell’accordo, come si desume dall’art. 15 della Convenzione secondo la quale in caso di ritardo il Comune si riserva la facoltà di eseguire i lavori direttamente spese del concessionario nel caso in cui il medesimo non vi abbia provveduto tempestivamente. Ne consegue che la scadenza di quel termine non è causa di impossibilità della prestazione.
Per quanto riguarda la lettera c) la ricorrente non ha dato prova della sorpresa geologica.
Per quanto riguarda la lettera d) la ricorrente non ha fornito prova alcuna del “congelamento” della rotatoria per supposta necessità di migliore ponderazione delle interferenze con la viabilità.
e) Per quanto riguarda la presunta mancata approvazione dei progetti esecutivi la ricorrente non ha dato prova di aver presentato una proposta di approvazione dei progetti definitivi al protocollo comunale.
In definitiva quindi la domanda subordinata di accertamento negativo dell’inadempimento va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.10.2019 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAVa affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle controversie riguardanti l'adempimento degli obblighi derivanti da convenzioni urbanistiche connesse a lottizzazioni, in forza dell'art. 133, comma 1, lett. a) n. 2, del codice del processo amministrativo, in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo che riserva alla giurisdizione esclusiva di questo plesso le controversie sulla materia in discorso.
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Va sottolineato, per un verso, che le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda, non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona, per altro verso, come le obbligazioni connesse all’adempimento di dette convenzioni urbanistiche (vuoi afferenti alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, vuoi, come in questo caso, afferenti alla cessione delle aree destinate ad accoglierle), abbiano natura "propter rem" e, quindi, vadano adempiute non solo da chi ha stipulato la convenzione edilizia, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia, da colui che realizza le opere di trasformazione edilizia e, come nel caso che ci occupa, dai successivi aventi causa.
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In ordine alla questione relativa all’esatta natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, è importante evidenziare come esse, pacificamente, rientrano nel novero degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, per cui ad esse, ai sensi dell’art. 11, comma 2, della legge 241/1990, si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, di conseguenza, la disciplina dell'inadempimento degli obblighi che le parti di dette convenzioni abbiano assunto è governata dalle regole del codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
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È materia del contendere l'azione di accertamento dell'inadempimento da parte dei lottizzanti, degli obblighi da essi assunti nei confronti del Comune di Reggio Calabria con la convenzione di lottizzazione perfezionata il 07.01.1983, con la richiesta di esecuzione in forma specifica dell'obbligazione di cessione delle aree interessate da opere di urbanizzazione secondaria, mediante pronuncia costitutiva di trasferimento della proprietà ai sensi e per gli effetti dell'art. 2932 del codice civile.
4.1. Il Collegio ritiene di dover, preliminarmente, affermare la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle controversie riguardanti l'adempimento degli obblighi derivanti da convenzioni urbanistiche connesse a lottizzazioni, in forza dell'art. 133, comma 1, lett. a) n. 2, del codice del processo amministrativo, in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo che riserva alla giurisdizione esclusiva di questo plesso le controversie sulla materia in discorso (in termini, da ultimo, TAR Brescia 03.01.2019 n. 11).
4.2. Va altresì sottolineato, per un verso, che le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda, non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06.11.2009, n. 6947), per altro verso, come le obbligazioni connesse all’adempimento di dette convenzioni urbanistiche (vuoi afferenti alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, vuoi, come in questo caso, afferenti alla cessione delle aree destinate ad accoglierle), abbiano natura "propter rem" e, quindi, vadano adempiute non solo da chi ha stipulato la convenzione edilizia, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia, da colui che realizza le opere di trasformazione edilizia e, come nel caso che ci occupa, dai successivi aventi causa (ex multis TAR Campania, Napoli, sez. II, 09.01.2017, n. 187).
4.3. Tanto premesso, osserva il Collegio come l’art. 2 della convenzione di lottizzazione stipulata il 07.01.1983, Rep. 22123 e versata in atti dal Comune ricorrente, vincoli i lottizzanti alla cessione delle aree relative alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria nel rispetto degli standards definiti dal decreto ministeriale 02.04.1968 ed indicate nel richiamato piano di lottizzazione nella Trav. n. 4, nel momento in cui l’amministrazione ne farà richiesta, con le prescrizioni riportate nella delibera del Consiglio Comunale n. 143 del 19.12.1981.
In disparte ogni considerazione in ordine alla questione relativa all’esatta natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, è importante evidenziare come esse, pacificamente, rientrano nel novero degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, per cui ad esse, ai sensi dell’art. 11, comma 2, della legge 241/1990, si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, di conseguenza, la disciplina dell'inadempimento degli obblighi che le parti di dette convenzioni abbiano assunto è governata dalle regole del codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
Avendo dunque parte ricorrente allegato l’inadempimento della controparte ed assolto all’onere di provare il titolo fonte del proprio credito, i soggetti intimati avrebbero dovuto, dal canto loro, dare prova del corretto adempimento dell'obbligazione di cui è chiesta l'esecuzione, ovvero dell’esistenza di una causa impeditiva non imputabile, ai sensi dell’art. 1218 del codice civile (Consiglio di Stato sezione IV, 18.05.2016, n. 2000).
In ragione della mancata costituzione in giudizio dei soggetti intimati tali prove sono mancate, di talché la domanda di accertamento e condanna ai sensi dell'art. 2932 del codice civile deve essere accolta, avendo l'Amministrazione fornito anche sufficienti elementi per individuare i soggetti passivi ed il contenuto delle obbligazioni da adempiere.
5. Deve, in conclusione, essere accolta la domanda del Comune di Reggio Calabria volta ad ottenere, a termini della convenzione di lottizzazione stipulata il 07.01.1983, Rep. 22123, il trasferimento coattivo delle aree, relative alle opere di urbanizzazione secondaria, da assoggettare a cessione gratuita indicate alla Tav. 4 del ripetuto piano di lottizzazione approvato con delibera del Consiglio Comunale di Reggio Calabria n. 143 del 19.12.1981 e riportate in catasto al foglio di mappa 10 della sezione catastale di Salice, corrispondenti alle aree campite come da legenda quali verde pubblico, attrezzature scolastiche, aree di interesse comune e parcheggio, per una superficie complessiva di mq. 7.176.
Tutti gli eventuali aggiornamenti dei dati catastali sono posti a carico dei soggetti intimati inadempienti che dovranno affrontare ogni onere (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 21.10.2019 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe questioni attinenti alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm.; le stesse, poi, avendo ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della P.A., non sono soggette alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi termini di decadenza.
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Le obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione, e le conseguenti sanzioni per ritardato pagamento, hanno natura reale o “propter rem”, essendo caratterizzate dalla stretta inerenza alla res ed essendo perciò destinate a circolare unitamente ad essa, per il carattere dell’ambulatorietà che le contraddistingue. Ne deriva che le stesse gravano anche sull’acquirente nel caso di trasferimento del bene.
È stato infatti affermato che “l’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell’obbligazione riguardano i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione e quelli che realizzano l’edificazione, nonché i loro aventi causa”.
Analogamente, si è precisato che anche “l’obbligazione di pagamento delle sanzioni per ritardato pagamento degli oneri concessori va configurata come propter rem e, quindi, da porsi a carico del soggetto che, in un determinato momento, si trova in una relazione qualificata con l’immobile”.
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U
n’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale.
Ciò in quanto dalla portata letterale delle disposizioni che integrano il regime sanzionatorio si evince come l’applicazione dell’aumento di contributo sia correlata al fatto in sé del suo mancato o non puntuale pagamento da parte dell’obbligato, senza distinzione alcuna, sul piano delle conseguenze del meccanismo sanzionatorio, tra l’ipotesi dell’obbligazione del solo debitore, e quella in cui sia stata prestata una garanzia fideiussoria accessoria per il pagamento del suddetto contributo.
Non assumendo, pertanto, alcuna rilevanza il comportamento delle parti diverse dal debitore principale antecedenti al fatto-inadempimento, ciò che unicamente rileva, nella logica della norma sanzionatoria, è il semplice mancato pagamento della rata di contributo imputabile al debitore principale.
Non solo non si rinviene un dovere di “soccorso” dell’amministrazione comunale nei confronti del beneficiario di un titolo edilizio in ritardo nel pagamento del contributo di costruzione, ma in senso opposto l’amministrazione è tenuta, trattandosi di attività vincolata prevista direttamente dalla fonte normativa di rango primario, all’applicazione delle sanzioni alla scadenza dei termini di pagamento, senza potersi sottrarre al potere-dovere di aumentare, in funzione sanzionatoria, l’importo del contributo dovuto.

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1. In via preliminare, va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo sulla presente controversia, giacché secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, le questioni attinenti alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm.; le stesse, poi, avendo ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della P.A., non sono soggette alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi termini di decadenza (Consiglio di Stato, VI, 07.05.2015, n. 2294; TAR Lombardia, Milano, II, 10.05.2018, n. 1242).
2. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso non è fondato; ciò consente di prescindere dallo scrutinio delle ulteriori eccezioni di carattere preliminare sollevate dalla difesa del Comune.
3. Con l’unica censura di ricorso si deduce l’illegittimità delle sanzioni applicate alla ricorrente, avendo la stessa acquistato il mappale n. 853 soltanto dopo la scadenza dei termini di pagamento degli oneri e quindi non essendo ad essa imputabile il mancato e/o ritardato versamento delle rate degli stessi; inoltre, il Comune avrebbe aggravato indebitamente la posizione del soggetto obbligato non provvedendo alla previa escussione della garanzia fideiussoria, violando in tal modo i canoni della buona fede e della cooperazione con il privato debitore; infine si contesta l’ammontare della somma richiesta, corrispondente al 125% delle rate pagate in ritardo, piuttosto che alla misura del 40% prevista dall’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che nell’atto di compravendita del 15.02.2001 stipulato con Im.No. s.r.l., la ricorrente ha espressamente dichiarato “di assumere a suo totale carico gli oneri di urbanizzazione ancora da versare al Comune” (cfr. all. 7 del Comune). A ciò ha fatto seguito, in data 16.03.2001, la volturazione in suo favore della concessione edilizia n. 103/1997 da parte del Comune (all. 8 del Comune).
Ulteriormente, va evidenziato che il Comune, in data 26.10.1998, ha sollecitato la dante causa della ricorrente ad adempiere agli obblighi di pagamento, a seguito della scadenza del termine (all. 6 del Comune).
A giudizio della parte ricorrente la sanzione conseguente al mancato versamento delle rate relative agli oneri concessori non avrebbe potuto essere irrogata nei suoi confronti, stante l’assenza di alcuna rimproverabilità in capo ad essa e trattandosi di un atto connotato dal carattere dell’afflittività.
La prospettazione della parte ricorrente non può essere accolta, poiché secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, le obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione, e le conseguenti sanzioni per ritardato pagamento, hanno natura reale o “propter rem”, essendo caratterizzate dalla stretta inerenza alla res ed essendo perciò destinate a circolare unitamente ad essa, per il carattere dell’ambulatorietà che le contraddistingue. Ne deriva che le stesse gravano anche sull’acquirente nel caso di trasferimento del bene.
È stato infatti affermato che “l’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell’obbligazione riguardano i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione e quelli che realizzano l’edificazione, nonché i loro aventi causa” (cfr. Consiglio di Stato, IV, 15.05.2019, n. 3141; altresì, C.G.A., 30.09.2019, n. 848; TAR Sicilia, Palermo, II, 19.10.2017, n. 2402).
Analogamente, si è precisato che anche “l’obbligazione di pagamento delle sanzioni per ritardato pagamento degli oneri concessori va configurata come propter rem e, quindi, da porsi a carico del soggetto che, in un determinato momento, si trova in una relazione qualificata con l’immobile” (cfr. Consiglio di Stato, IV, 01.04.2011, n. 2037).
3.2. Quanto alla parte della censura che eccepisce l’illegittima mancata previa escussione della garanzia fideiussoria, invece dell’adozione della sanzione, si deve richiamare, in senso contrario, la pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 07.12.2016, n. 24, secondo la quale “un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”: ciò in quanto dalla portata letterale delle disposizioni che integrano il regime sanzionatorio si evince come l’applicazione dell’aumento di contributo sia correlata al fatto in sé del suo mancato o non puntuale pagamento da parte dell’obbligato, senza distinzione alcuna, sul piano delle conseguenze del meccanismo sanzionatorio, tra l’ipotesi dell’obbligazione del solo debitore, e quella in cui sia stata prestata una garanzia fideiussoria accessoria per il pagamento del suddetto contributo.
Non assumendo, pertanto, alcuna rilevanza il comportamento delle parti diverse dal debitore principale antecedenti al fatto-inadempimento, ciò che unicamente rileva, nella logica della norma sanzionatoria, è il semplice mancato pagamento della rata di contributo imputabile al debitore principale.
Non solo non si rinviene un dovere di “soccorso” dell’amministrazione comunale nei confronti del beneficiario di un titolo edilizio in ritardo nel pagamento del contributo di costruzione, ma in senso opposto l’amministrazione è tenuta, trattandosi di attività vincolata prevista direttamente dalla fonte normativa di rango primario, all’applicazione delle sanzioni alla scadenza dei termini di pagamento, senza potersi sottrarre al potere-dovere di aumentare, in funzione sanzionatoria, l’importo del contributo dovuto (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.12.2016, n. 24, cit.; sull’inesistenza di un dovere di “soccorso” e sull’estraneità alla disciplina civilistica, ed in specie all’art. 1944, secondo comma, cod. civ., della pretesa che venga previamente escusso il fideiussore, cfr. TAR Veneto, II, 11.12.2017, n. 1121) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.10.2019 n. 1083 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Ritenute nei contratti di appalto e subappalto – art. 4 D.L. 124/2019 - Primi chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate (ANCE di Bergamo, circolare 30.12.2019 n. 298).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Codice di prevenzione incendi: circolare esplicativa (ANCE di Bergamo, circolare 20.12.2019 n. 291).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto : Rigenerazione urbana e territoriale - Approvazione ed entrata in vigore della l.r. 18 del 26.11.2019 (Regione Lombardia, nota 10.12.2019 n. 48351 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Nuova norma sulla cessazione della qualifica di rifiuto (ANCE di Bergamo, circolare 06.12.2019 n. 274).

APPALTIOggetto: Responsabilità solidale del committente per inadempimenti contributivi – Nota INL n. 9943/2019 (ANCE di Bergamo, circolare 29.11.2019 n. 272).

APPALTIOggetto: art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 – responsabilità solidale del committente per debiti contributivi (Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota 19.11.2019 n. 9943 di prot.).

APPALTI: OGGETTO: Rilascio della documentazione antimafia. -Direttiva a carattere ricognitivo- (Prefettura di Avellino, nota 15.11.2019 n. 75319 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Applicazione del Codice di Prevenzione Incendi alle istruttorie di prevenzione incendi. Indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno, Dipartimento VV.F., Comando di Bergamo, nota 12.11.2019 n. 25177 di prot.).
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Al riguardo si leggano gli allegati:
  
● fac-simile "comunicazione avvio del procedimento"
   ● fac-simile "Ricevuta di avvenuto deposito Attestazione Periodica di Conformità Antincendio"
   ● fac-simile "Ricevuta SCIA"

PATRIMONIO: Oggetto: DPR 151/2011 Attività n. 80 - Gallerie stradali più lunghe di 500 metri - Adempimenti procedurali e tecnici - Indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno, Dipartimento VV.F., nota 31.10.2019 n. 16510 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 31.12.2019 n. 305 "Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica" (D.L. 30.12.2019 n. 162).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI: G.U. 30.12.2019 n. 304 "Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022" (Legge 27.12.2019 n. 160).
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Al riguardo si legga:
  
Legge di Bilancio 2020: la sintesi di tutte le novità (27.12.2019 - link a www.lentepubblica.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 53 del 30.12.2019 "Legge di stabilità 2020-2022" (L.R. 30.12.2019 n. 24).
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Di particolare interesse si legga:

  
Art. 10 - (Modifica degli articoli 22-bis e 22-ter della l.r. 86/1983)
1. Alla legge regionale 30.11.1983, n. 86 (Piano regionale delle aree regionali protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale) sono apportate le seguenti modifiche: (...continua)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 53 del 30.12.2019 "Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico - finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) – Collegato 2020" (L.R. 30.12.2019 n. 23).
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Di particolare interesse si leggano:
  
Art. 1 - (Disposizioni in materia di personale delle province e della Città metropolitana di Milano impiegato per l’esercizio di funzioni confermate in capo alle stesse)
   Art. 2 - (Sostituzione dell’articolo 20-ter della l.r. 19/2008)
1. L’articolo 20-ter della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle Comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di comuni lombardi e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali) è sostituito dal seguente: (...continua)
   Art. 22 - (Modifica dell’art. 13 della l.r. 4/2016)
1. Al comma 1 dell’articolo 13 della legge regionale 15.03.2016, n. 4 (Revisione della normativa regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi d’acqua) sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: (...continua)
   Art. 30 - (Modifiche alla l.r. 17/2003)
1. Alla legge regionale 29.09.2003, n. 17 (Norme per il risanamento dell’ambiente, bonifica e smaltimento dell’amianto) sono apportate le seguenti modifiche: (...continua)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 30.12.2019 "Nono aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 18.12.2019 n. 18651).

APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI - VARI: G.U. 24.12.2019 n. 301 "Testo del decreto-legge 26.10.2019, n. 124, coordinato con la legge di conversione 19.12.2019, n. 157, recante: «Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili»".
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Di interesse si leggano:
  
● Art. 4. Ritenute e compensazioni in appalti e subappalti ed estensione del regime del reverse charge per il contrasto dell’illecita somministrazione di manodopera
   ● Art. 18. Modifiche al regime dell’utilizzo del contante
   ● Art. 43. Affitti passivi PA
   ● Art. 57-quater. Indennità di funzione minima per l’esercizio della carica di sindaco e per i presidenti di provincia
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Al riguardo si legga:
   ● Decreto Fiscale convertito in legge: un focus sulle principali novità - Riscritte le disposizioni di contrasto all’omesso versamento delle ritenute nel campo degli appalti e dei subappalti (18.12.2019 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 24.12.2019, "Bando per L’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati approvato con d.d.u.o. 14.06.2019, n. XI/8615. Approvazione Terzo ed ultimo elenco di domande ammesse e non ammesse a finanziamento ed assunzione degli impegni di spesa" (decreto D.U.O. 18.12.2019 n. 18680).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 23.12.2019 n. 300 "Testo del decreto-legge 24.10.2019, n. 123, recante: «Disposizioni urgenti per l’accelerazione e il completamento delle ricostruzioni in corso nei territori colpiti da eventi sismici, coordinato con la legge di conversione 12.12.2019, n. 156, recante: «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24.10.2019, n. 123, recante disposizioni urgenti per l’accelerazione e il completamento delle ricostruzioni in corso nei territori colpiti da eventi sismici»".
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Di particolare interesse si legga:
  
● Art. 9-quater - Modifiche all’articolo 94-bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
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Si legga, altresì:
   ● Legge Sisma: niente previa autorizzazione scritta per gli interventi nelle località a bassa sismicità. Il Decreto Sisma convertito in legge esclude le località a bassa sismicità (zone 3 e 4) dall’ambito definitorio degli “interventi rilevanti”  (24.12.2019 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 23.12.2019, "Linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni trasferite ai Comuni in materia sismica (artt. 3, comma 1 e 13 comma 1, della l.r. 33/2015) – Implementazione ai fini di semplificazione della modulistica prevista dall’allegato b alla d.g.r. n. X/5001/2016" (deliberazione G.R. 02.12.2019 n. 2584).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2019, "Testo coordinato del r.r. 23.11.2017, n. 7 «Regolamento recante criteri e metodi per il rispetto del principio dell’invarianza idraulica ed idrologica ai sensi dell’articolo 58-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)»".

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 20.12.2019, "Criteri per il coordinamento delle procedure di valutazione ambientale strategica (VAS) - valutazione di incidenza (VINCA) - verifica di assoggettabilità a VIA negli accordi di programma a promozione regionale comportanti variante urbanistica/territoriale (art. 4, c. 1, l.r. 12/2005), in attuazione del programma strategico per la semplificazione e la trasformazione digitale lombarda" (deliberazione G.R. 16.12.2019 n. 2667).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 19.12.2019, "Aggiornamento annuale 2020 del prezzario regionale delle opere pubbliche di Regione Lombardia ai sensi dell’art. 23, comma 16, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50" (deliberazione G.R. 16.12.2019 n. 2656).
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Si leggano anche gli allegati:
  
VOLUME 1.1 - Opere compiute civili, urbanizzazione e difesa del suolo
   ● VOLUME 1.2 - Opere compiute impianti elettrici e meccanici
   ● VOLUME 2.1 - Costi unitari e piccola manutenzione civili e urbanizzazioni
   ● VOLUME 2.2 - Costi unitari e piccola manutenzione impianti elettrici e meccanici
   ● VOLUME SPECIFICHE TECNICHE
         OPERE CIVILI
         OPERE IMPIANTI - elettriche - meccaniche
         OPERE URBANIZZAZIONI - fognatura - acquedotto - strade - segnaletica stradale - arredo urbano e verde - impianti sportivi

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 19.12.2019, "Identificazione dei comuni dove è vietato, nell’anno campagna 2019-2020, l’impiego per uso agronomico dei fanghi di depurazione in attuazione dell’articolo 6.2 «Condizioni e modalità di utilizzo dei fanghi», lettera d) dell’allegato 1 della deliberazione della Giunta regionale 01.07.2014, n. X/2031" (decreto D.S. 13.12.2019 n. 18334).

ENTI LOCALI: G.U. 17.12.2019 n. 295 "Differimento del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2020/2022 degli enti locali dal 31.12.2019 al 31.03.2020" (Ministero dell'Interno, decreto 13.12.2019).

VARI: G.U. 14.12.2019 n. 293 "Modifica del saggio di interesse legale" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 12.12.2019).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 14.12.2019, "Risoluzione concernente il documento di economia e finanza regionale 2019" (deliberazione C.R. 26.11.2019 n. 766).
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Di particolare interesse si legga:
  
AGGIORNAMENTO DEL PIANO TERRITORIALE REGIONALE (PTR) ‐ ANNO 2019 (EX ART. 22 L.R. 12/2005).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 13.12.2019 n. 292 "Testo del decreto-legge 14.10.2019, n. 111, coordinato con la legge di conversione 12.12.2019, n. 141, recante: «Misure urgenti per il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria e proroga del termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge 17.10.2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.12.2016, n. 229»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 50 del 13.12.2019, "Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2019" (L.R. 10.12.2019 n. 22).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 50 del 13.12.2019, "Seconda legge di semplificazione 2019" (L.R. 10.12.2019 n. 21).
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Di particolare interesse si leggano:
  
● Art. 6 (Modifiche agli articoli 2, 8 e 10 della l.r. 33/2015) ---> testo coordinato della l.r. 12.10.2015 n. 33
   ● Art. 7 (Modifica all’articolo 32 della l.r. 12/2005) ---> testo coordinato della l.r. 11.03.2005 n. 12

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 13.12.2019, "Classificazione del territorio montano, ai sensi dell’art. 3 della legge regionale 15.10.2007, n. 25, classificazione dei piccoli comuni non montani e classificazione generale dei piccoli comuni della Lombardia in zone che presentano simili condizioni di sviluppo socio-economico e infrastrutturale, ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 05.05.2004, n. 11" (deliberazione G.R. 09.12.2019 n. 2611).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2019, "Approvazione delle linee guida regionali per l’aggiornamento dei piani d’ambito del servizio idrico integrato" (deliberazione G.R. 26.11.2019 n. 2537).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2019, "Adeguamento del «Valore del soprassuolo» stabilito con d.g.r. 675/2005" (decreto D.S. 03.12.2019 n. 17595).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2019, "Adeguamento delle sanzioni amministrative pecuniarie in materia di danni alle superfici boschive e ai terreni soggetti a vincolo idrogeologico (art. 61, comma 14, l.r. n. 31/2008)" (decreto D.S. 02.12.2019 n. 17520).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2019, "Bilancio idrico regionale approvato con d.g.r. 2122/2019: rettifica per errore materiale di n. 47 valori di portata contenuti negli allegati 2, 3, 4 e 5 dell’elaborato 5 del programma di tutela e uso delle acque" (deliberazione G.R. 02.12.2019 n. 2583).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 03.12.2019, "Disciplina della programmazione negoziata di interesse regionale" (L.R. 29.11.2019 n. 19).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 03.12.2019, "Approvazione degli schemi di segnalazione certificata di inizio attività per strutture ricettive alberghiere e strutture ricettive all’aria aperta" (decreto D.U.O. 28.11.2019 n. 17264).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 03.12.2019, "Designazione di nuove zone vulnerabili da nitrati di origine agricola ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. 152/2006" (deliberazione G.R. 26.11.2019 n. 2535).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 03.12.2019, "Aggiornamento e pubblicazione degli importi dovuti a Regione Lombardia per l’anno 2020 a titolo di canoni di concessione per l’utilizzo delle aree del demanio idrico fluviale (polizia idraulica) in applicazione dell’art. 6 della legge regionale 29.06.2009, n. 10" (decreto D.G. 22.11.2019 n. 16869).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 02.12.2019, "Bando per l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati approvato con d.d.u.o. 14.06.2019, n. XI/8615. Approvazione secondo elenco di domande ammesse e non ammesse a finanziamento ed assunzione degli impegni di spesa" (decreto D.U.O. 27.11.2019 n. 17233).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 02.12.2019, "Disposizioni per la semplificazione degli adempimenti per la comunicazione dei dati relativi ai controlli delle emissioni e degli scarichi per le attività non soggette ad autorizzazione integrata ambientale - Utilizzo applicativo «AUA POINT» e avvio fase sperimentale" (deliberazione G.R. 18.11.2019 n. 2481).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 48 del 29.11.2019, "Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali" (L.R. 26.11.2019 n. 18 - entra in vigore il 14.12.2019).
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Al riguardo, si leggano i testi coordinati della:
  
R.R. 23.11.2017 n. 7 - Regolamento recante criteri e metodi per il rispetto del principio dell’invarianza idraulica ed idrologica ai sensi dell’articolo 58-bis della l.r. 11.03.2005 n. 12 (Legge per il Governo del Territorio)
   ● L.R. 10.03.2017 n. 7 - Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti
   ● L.R. 28.11.2014 n. 31 - Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato
   ● L.R. 02.02.2010 n. 6 - Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere
   ● L.R. 11.03.2005 n. 12 - Legge per il governo del territorio

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 29.11.2019, "Criteri e modalità operative per l’accertamento e la contestazione delle violazioni e per l’irrogazione delle sanzioni amministrative per opere/occupazioni senza titolo concessorio in aree del demanio idrico fluviale" (deliberazione G.R. 26.11.2019 n. 2533).

PUBBLICO IMPIEGO: G.U.U.E. 26.11.2019 n. L 305 "DIRETTIVA (UE) 2019/1937 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 23.10.2019 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione".
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Si legga anche:
  
In Gazzetta ufficiale la nuova Direttiva Ue sul whistleblowing - Gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepire le nuove norme all’interno del diritto nazionale (03.12.2019 - link a www.gdc.ancitel.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2019, "Bando per l’assegnazione di contributi ai cittadini per la rimozione di coperture e di altri manufatti in cemento-amianto da edifici privati approvato con d.d.u.o. 14.06.2019, n. XI/8615. Approvazione primo elenco di domande ammesse e non ammesse a finanziamento ed assunzione degli impegni di spesa" (decreto D.U.O. 21.11.2019 n. 16778).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 26.11.2019 "Nuovi criteri per la rateizzazione delle entrate regionali non tributarie in tema di uso delle aree del demanio idrico e di uso dell’acqua pubblica" (deliberazione G.R. 18.11.2019 n. 2489).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2019, "Disposizioni per l’efficienza energetica degli edifici: nuovi criteri per la copertura degli obblighi relativi alle fonti rinnovabili e per il riconoscimento delle serre bioclimatiche come volumi tecnici" (deliberazione G.R. 18.11.2019 n. 2480).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2019, "Approvazione definitiva dei criteri e parametri per l’individuazione e la classificazione dei piccoli comuni non montani e dei piccoli comuni montani, ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 05.05.2004, n. 11 e dell’art. 3 della legge regionale 15.10.2007, n. 25" (deliberazione G.R. 18.11.2019 n. 2485).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2019, "Ottavo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 15.11.2019 n. 16480).
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Si legga anche:
  
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2019 "Rettifica per mero errore materiale del decreto n. 16480 del 15.11.2019 «Ottavo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r.12/2005, art. 80)»" (decreto D.G. 03.12.2019 n. 17602).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.11.2019 n. 273 "Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio degli impianti per la produzione di calore alimentati da combustibili gassosi" (Ministero dell'Interno, decreto 08.11.2019).
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Si legga al riguardo:
  
Impianti termici di condomìni e scuole: in vigore le nuove norme antincendio (23.12.2019 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 21.11.2019, "Programma di qualificazione ed ammodernamento della rete di distribuzione dei carburanti in attuazione dell’art. 83, comma 1, della l.r. 02.02.2010, n. 6" (deliberazione C.R. 12.11.2019 n. 759).

APPALTI: G.U. 20.11.2019 n. 272 "Definizione delle caratteristiche essenziali delle prestazioni principali costituenti oggetto delle convenzioni stipulate da Consip S.p.a." (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 21.10.2019).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.U.E. 14.11.2019 n. C 386 "Documento di orientamento relativo all’applicazione delle esenzioni ai sensi della direttiva sulla valutazione dell’impatto ambientale (direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, modificata dalla direttiva 2014/52/UE) — articolo 1, paragrafo 3, e articolo 2, paragrafi 4 e 5" (Comunicazione della Commissione).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 14.11.2019 n. 267 "Adeguamento dei requisiti di accesso al pensionamento all’incremento della speranza di vita a decorrere dal 01.01.2021" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 05.11.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 14.11.2019, "Approvazione del «Regolamento di attuazione tipo» per i Piani di Indirizzo Forestale di cui all’art. 47 della l.r. 31/2008" (decreto D.S. 07.11.2019 n. 15968).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 11.11.2019 n. 264 "Approvazione dello Statuto del Consorzio Recupero Vetro (CoReVe)" (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare, decreto 22.10.2019).

URBANISTICACONTENUTI E MODALITÀ DI RESTITUZIONE DELLE INFORMAZIONI RELATIVE AL CONSUMO DI SUOLO NEI PIANI DI GOVERNO DEL TERRITORIO (ART. 5, COMMA 4, L.R. 31/2014) (deliberazione G.R. 11.03.2019 n. 1372).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: V. A. Bonanno, Decreto Fiscale. I pagamenti dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni: tra rinvii e nuove complicazioni. Analisi delle misure contenute nella legge di conversione del “decreto fiscale” e nella legge di bilancio dello Stato per il 2020 (30.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTIIl divieto di opere aggiuntive vale anche per servizi e forniture, non solo per lavori (23.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATARecupero dei sottotetti e distanze dai confini.
La Corte d'Appello di Milano (Sez. II civile, sentenza 23.08.2018 n. 3952), confermando il Tribunale di Lecco (Sez. I, sentenza 26.03.2016 n. 216), afferma che
il recupero dei sottotetti effettuati ai sensi della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 è soggetto al rispetto della distanza dai confini, nella misura prevista dal Piano di Governo di Territorio, nonostante la legge regionale disponga che detti interventi siano ammessi "in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati". (...continua) (23.12.2019 - tratto da e link a www.dirittopa.it).

ESPROPRIAZIONE: A. Fanizza, Danno da occupazione (23.12.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: R. De Nictolis, Il risarcimento del danno: modalità e tecniche di liquidazione nel settore delle pubbliche gare (23.12.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Quadro di sintesi: i principi europei e le norme del c.p.a. - 2. Natura della responsabilità della stazione appaltante in relazione alle procedure di affidamento. - 3. La responsabilità precontrattuale nelle procedure di affidamento. - 3.1. La giurisdizione. - 3.2. Natura giuridica della responsabilità precontrattuale. - 3.3. Configurazione della responsabilità precontrattuale della p.a. prima della Cass., sez. un., n. 500/1999. - 3.4. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione dopo le sez. un. del 1999. - 3.5. Momento in cui sorge la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante. - 3.6. Ipotesi di responsabilità precontrattuale. - 3.7. Danno risarcibile nella responsabilità precontrattuale. - 3.8. Risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale e indennizzo per revoca legittima. - 4. Risarcimento e colpa della stazione appaltante. - 4.1. La giurisprudenza nazionale sulla colpa della stazione appaltante: dalla colpa in re ipsa alla presunzione relativa di colpa. - 4.2. La giurisprudenza comunitaria in tema di onere della prova della colpa della p.a. in materia di pubblici appalti. - 4.3. La prova della colpa in caso di esecuzione di sentenza di primo grado riformata in appello. La responsabilità oggettiva per impossibilità sopravvenuta. - 5. Il danno da perdita di chance. - 5.1. Nozione e danno risarcibile. - 5.2. La temporanea eliminazione del danno da perdita di chance da aprile a settembre 2010. - 5.3. Il risarcimento in forma specifica e per equivalente della chance. - 5.4. Modalità del ristoro della perdita di chance per equivalente: il rinnovo virtuale della gara e la liquidazione equitativa. - 5.5. La misura della chance quale criterio dell’an ovvero del quantum del risarcimento della chance: la teoria eziologica e la teoria ontologica. - 6. Il c.d. risarcimento in forma specifica in materia di procedure di affidamento di pubblici appalti. Il concorso tra risarcimento in forma specifica e per equivalente. - 7. La quantificazione del risarcimento per equivalente. - 7.1. Domanda di parte e onere della prova. Scompare la liquidazione forfettaria del mancato utile. - 7.2. La mancata domanda di subentro nel contratto e la quantificazione del risarcimento per equivalente ai sensi dell’art. 1227 c.c. - 7.3. Il danno emergente. - 7.4. Il lucro cessante come mancato utile. - 7.5. Il c.d. danno curricolare. - 7.6. Il danno all’immagine professionale. - 8. Risarcimento del danno e informativa antimafia. - 9. Profili processuali. La tecnica della condanna sull’an con i criteri per il quantum.

PUBBLICO IMPIEGO: La durata del rapporto di lavoro dei dirigenti a contratto non può andare oltre il mandato politico. Continuano gli errori interpretativi indotti dalla deleteria sentenza della Cassazione 478/2014 (22.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Chiarelli, L’ANAC e gli obblighi di trasparenza dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 2019 (18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa: gli obblighi di trasparenza sottoposti alla Corte costituzionale. - 2. La rimessione alla Corte. - 3. Il conflitto tra trasparenza e tutela dei dati personali nella sentenza n. 20 del 2019. - 4. L'intervento interpretativo dell'ANAC con la delibera n. 587 del 26.06.2019. - 5. Conclusioni: gli obblighi di trasparenza e gli Ordini professionali.

APPALTI SERVIZI: G. Barozzi Reggiani, In house providing, capitali privati e vincoli per il legislatore (18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Considerazioni introduttive - 2. I caratteri dell’in house providing nelle ricostruzioni antecedenti l’entrata in vigore delle Direttive del 2014 in materia di appalti e concessioni e le novità apportate da queste ultime - 2.a. Il quadro normativo previgente alle riforme europee del 2014 - 2.b Le novità apportate dal "pacchetto di Direttive" del 2014 e la sclerosi del legislatore nazionale. Le questioni interpretative concernenti la locuzione "prescritte dalle disposizioni legislative nazionali” presente nei testi europei - 3. Le interpretazioni (oscillanti) del Consiglio di Stato rispetto alle disposizioni del Codice dei contratti pubblici e del T.u. partecipate - 4. Considerazioni critiche alle ricostruzioni offerte dai due pareri del Consiglio di Stato, sotto entrambi i profili analizzati. La prospettiva di una terza soluzione interpretativa 4.a In riferimento al primo profilo (presenza obbligatoria o facoltativa, in quanto prescritta ovvero prevista da disposizioni legislative, di capitali privati al soggetto in house) - 4.b Sul secondo profilo: quale legge? - 5. Altre questioni - 6. Conclusioni.

ENTI LOCALIUn colpo al "controllo collaborativo" della Corte dei conti, che non ha mai davvero funzionato? (18.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

CONSIGLIERI COMUNALIDelega negli enti locali - Excursus - parte IV (17.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEAppalti: incentivi tecnici, le non condivisibili interpretazioni della Corte dei conti su concessioni e partenariati pubblico privati (16.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTIAppalti: La rotazione lede la concorrenza e la salvaguardia dei bilanci pubblici, se attuata con eccessivo rigorismo (13.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl falso mito dell'abolizione della dotazione organica sostituita da quella "solo finanziaria" (06.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTIAppalti: il falso mito che le procedure sotto soglia "semplificate" siano più semplici di quelle ordinarie (05.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

CONSIGLIERI COMUNALI: M. Conforti, L’INCANDIDABILITÀ NELLE ELEZIONI COMUNALI (PublikaDaily n. 22 - 04.12.2019).

APPALTI: S. Usai, SEGGIO DI GARA E COMMISSIONE: MODALITÀ DI COSTITUZIONE E COMPETENZE (PublikaDaily n. 22 - 04.12.2019).

APPALTI SERVIZI: C. Contessa, Lo stato dell’arte in tema di affidamenti in house (dicembre 2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Aspetti generali della questione. – 2. Principali acquisizioni giurisprudenziali in materia di in house providing prima del ‘pacchetto normativo’ del 2014 (sintesi). - 3. Le novità in tema di in house providing introdotte dal nuovo Codice dei contratti pubblici e dal ‘Decreto correttivo’. – 4. Le differenze tra la nuova disciplina e quella anteriore al 2016. – 5. Il requisito del controllo analogo. - 6. Il controllo analogo in caso di in house pluripartecipato. - 7. Il requisito dell’attività prevalente nelle società pluripartecipate. - 8. L’in house è una modalità di affidamento ordinaria ovvero speciale ed eccezionale? - 9. La questione della fallibilità delle società in house.

AMBIENTE-ECOLOGIAE. Carloni, Obiettivi di bonifica e destinazioni d’uso (Urbanistica e appalti n. 6/2019).
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L’articolo analizza il delicato tema del rapporto tra normativa ambientale e disciplina urbanistica nell’ambito delle procedure di bonifica dei siti contaminati in relazione al tema dell’individuazione degli specifici livelli di bonifica richiesti.
La normativa ambientale, compresa quella antecedente all’attuale Codice dell’ambiente, richiamando la “destinazione d’uso” dei siti quale parametro da utilizzare per fissare l’obiettivo di bonifica, non specifica cosa si debba intendere con tale espressione.
In assenza di un’espressa definizione a livello normativo, sono andati sviluppandosi differenti e contrapposti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul punto: un primo filone ha interpretato tale espressione come riferita alla destinazione d’uso urbanistica impressa negli strumenti di pianificazione generale, un’altra corrente ha invece ricondotto l’espressione “destinazione d’uso” all’uso effettivo che del sito viene fatto in concreto.

APPALTI: G. Carrozzo, I limiti quantitativi al subappalto e la recente sentenza CGUE C-63/2019 (26.11.2019 - link a www.filodiritto.com).

CONSIGLIERI COMUNALIVoglia di scudo anche dei sindaci (22.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione dati patrimoniali dei dirigenti. Accolto ricorso Cosmed (21.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGO: F. Fina, False dichiarazioni nel concorso: non sempre giustificano l’esclusione dalla procedura (21.11.2019 - tratto da e link a www.filodiritto.com).
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Commento a TRIBUNALE di Brindisi, Sez. lavoro, sentenza 13.11.2019 n. 2502.

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: A. Sacchi, TRASPARENZA E PRIVACY NEL PNA 2019 (PublikaDaily n. 21 - 20.11.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, L'ACCESSO AGLI ATTI DELLE VALUTAZIONI DEI DIPENDENTI - commento a TAR Basilicata, sentenza 08.02.2019 n. 169 (PublikaDaily n. 21 - 20.11.2019).
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SENTENZA
La dott.ssa An.Di. è stata dipendente del Comune di Grottole fino al 06.05.2018, quando è stata assunta per mobilità dal Comune di Matera, e con Decreto n. 8 del 13.03.2014 il Sindaco di Grottole le ha conferito l’incarico di Responsabile dell’Area Amministrativa, che ha svolto dal 17.04.2014 al 31.12.2014.
Con nota del 04.07.202018 è stata notificata alla dott.ssa An.Di. la valutazione negativa del Nucleo di Valutazione del Comune di Grottole con riferimento allo svolgimento del predetto incarico di Responsabile dell’Area Amministrativa, con la disponibilità del Nucleo di Valutazione ad esaminare tale giudizio in contraddittorio.
Con istanza del 29.7.2018 la dott.ssa An.Di. ha chiesto la copia delle valutazioni del Nucleo di Valutazione, relative allo svolgimento nell’anno 2014 dell’incarico di direzione delle altre 3 Aree del Comune, cioè dell’operato del Rag. Gi.Fa., Responsabile dell’Area Economico-finanziaria, dell’ing. Ro.Vi., Responsabile dell’Area Tecnica, e del Comandante Gi.Lo., Responsabile dell’Area Vigilanza, ed anche del Segretario comunale Ma.Lu.Ca., in quanto aveva diretto l’Area Amministrativa dall’01.01.2014 al 16.03.2014, unitamente alla copia di tutta la documentazione, presentata dai predetti funzionari, “al fine di controdedurre” al giudizio negativo espresso dal Nucleo di Valutazione nei suoi confronti.
In data 12.09.2018 è stato trasmesso alla dott.ssa An.Di. il verbale n. 9 dell’11.09.2018, con il quale il Nucleo di Valutazione faceva presente che i predetti documenti non erano accessibili, “in quanto ricorrono i presupposti dell’applicazione della normativa vigente sulla Privacy, che riconosce al lavoratore dipendente non solo la tutela della riservatezza in senso più stretto, ma anche dell’identità personale del lavoratore che nel contesto lavorativo ha il diritto di limitare la diffusione di notizie che lo riguardano”, “per prevenire la conoscenza ingiustificata da parte di persone non autorizzate, tant’è che l’Amministrazione è tenuta ad adottare forme di comunicazione con il dipendente protette ed individualmente mediante l’inoltro di mail personali, note in busta chiusa o con ritiro personale”.
La dott.ssa An.Di. con il presente ricorso, notificato il 27/28.09.2018 e depositato il 03.10.2018, ha impugnato il silenzio-rigetto, formatosi il 28.08.2018, sull’istanza di accesso del 29.07.2018, ed anche il verbale del Nucleo di Valutazione del Comune di Grottole n. 9 dell’11.09.2018, deducendo la violazione dell’art. 24, comma 7, L. n. 241/1990, in quanto la documentazione richiesta “è necessaria per consentire alla ricorrente di confutare la valutazione negativa subita anche in via giudiziale, al fine di effettuare la verifica comparativa con le valutazioni conseguite dagli altri colleghi e di accertare eventuali disparità di trattamento”.
Successivamente, con Del. G.M. n. 95 del 23.10.2018 il Comune di Grottole ha autorizzato l’accesso ai suddetti documenti.
Con memoria del 10.01.2019 la ricorrente ha insistito per la condanna del Comune di Grottole al pagamento delle spese di lite.
Nella Camera di Consiglio del 06.02.2019 il ricorso è passato in decisione.
Ciò stante, al Collegio non rimane altro che dichiarare, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., l’improcedibilità del ricorso in esame per sopravvenuta carenza di interesse.
Tenuto conto del comportamento di ravvedimento operoso, il Comune di Grottole va condannato parzialmente al pagamento delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso in epigrafe.
Condanna parzialmente il Comune di Grottole al pagamento in favore della ricorrente delle spese di giudizio, che vengono liquidate, ai sensi degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 6, D.M. n. 55/2014 e della Tabella n. 21 (scaglione da € 26.000,01 a € 52.000,00) allegata allo stesso D.M. n. 55/2014, in complessivi € 2.000,00 oltre IVA, CPA e spese a titolo di Contributo Unificato nella misura versata (TAR Basilicata, sentenza 08.02.2019 n. 169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: P. Carpentieri, Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni. La “rigenerazione urbana" (18.11.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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1. L’espansione dei centri urbani e l’erosione delle campagne. - 2. Il “suolo” e i suoi diversi significati. - 3. Perché legare insieme minor consumo di suolo e rigenerazione urbana. - 4. L’occasione per una “rinascita” dell’urbanistica? - 5. Le domande principali. - 6. Il contributo dell’Unione europea. - 7. Gran Bretagna e Germania. - 8. I disegni di legge. - 8.1. Gli antecedenti normativi più recenti. - 8.2. Il primo d.d.l. “Catania” del 2012. - 8.3. Il d.d.l. del 2013 AC 2039 “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”. - 8.4. I disegni di legge presentati nell’attuale legislatura. - 9. Le leggi regionali. - 10. Un tentativo di sistemazione giuridica. - 11. Il ruolo centrale della pianificazione paesaggistica, dei piani regolatori comunali, della v.i.a. e della v.a.s. - 12. La rigenerazione urbana e il recupero delle periferie. - 12.1. La nozione. - 12.2. Quali strumenti utilizzare? - 12.3. La rigenerazione urbana “dal basso”. - 12.4. Il problema della micro-proprietà privata parcellizzata e i “piani casa”. - 13. Conclusioni.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le novità in tema di assunzioni. Dpcm 03.09.2019 - Possibili ricadute sugli enti locali (11.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIllegittimo chiamare idonei di graduatorie a tempo indeterminato per lavori a termine, vigente il regime della legge 145/2018 (07.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCcnl e decreto crescita: la media delle Posizioni Organizzative è necessariamente separata da quella del Fondo (05.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe risorse variabili discrezionali esistono ancora (01.11.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: G. Milo, ATTIVITÀ ISTITUZIONALE DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE E ATTI DI PIANIFICAZIONE  URBANISTICA (novembre 2019 - www.ambientediritto.it).
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SOMMARIO: 1) Pianificazione delle destinazioni d’uso del territorio; 2) Il mutamento di destinazione d’uso ed i provvedimenti amministrativi legittimanti tale mutamento: l’evoluzione della disciplina; 3) L’art. 23-ter del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; 4) attività degli enti del Terzo settore e disciplina delle destinazioni d’uso urbanistiche.

EDILIZIA PRIVATA: S. De Rosa, L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO E L’ORDINE DI DEMOLIZIONE. Il contrasto all’abusivismo edilizio tra obbligo di motivazione e legittimo affidamento (novembre 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
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SOMMARIO: 1. Premesse. – 2. L’annullamento d’ufficio del titolo edilizio illegittimo: l’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017. – 3. L’incidenza del decorso del tempo sull’ordine di demolizione di manufatto abusivo: l’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2017. – 4. Osservazioni conclusive.

EDILIZIA PRIVATA: L. B. Molinaro, DOPO LA CORTE EUROPEA ANCHE LA CASSAZIONE “APRE” ALL’“ABUSO DI NECESSITÀ - Via libera degli ermellini al bilanciamento dei diritti e alla “valutazione di proporzionalità tra l’abuso -se di dimensioni tali da farlo ritenere di necessità- e gli interessi della comunità al rispetto delle norme” - Nota a cass. pen., sez. III, 02.10.2019, n. 40396 (novembre 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La sentenza “ivanova” e gli approdi interpretativi della corte europea in materia di “proporzionalità” della sanzione demolitoria. 3. L’apertura Della Sentenza In Commento: L’abuso È Considerato Di Necessità Se Presenta Limitate Dimensioni. 4. La scriminante dell’abuso di necessità nella giurisprudenza di legittimità. 5. Considerazioni Finali.

SEGRETARI COMUNALIPer la carenza dei segretari comunali servono concorsi, non soluzioni improvvisate (28.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

SEGRETARI COMUNALI: L. Oliveri, Segretari comunali: tra estinzione e spoils system (15.10.2019 - link a https://phastidio.net).

CONSIGLIERI COMUNALIDelega negli enti locali - Excursus - parte III (14.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTIPresidenza delle commissioni di gara: l’erronea prospettiva della funzione amministrativa (09.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

CONSIGLIERI COMUNALI: Delega negli enti locali - Excursus - parte II (06.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

CONSIGLIERI COMUNALIDelega negli enti locali - Excursus - parte I (05.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTIConcessioni di punti di ristoro in scuole e uffici pubblici non sono concessioni di servizi cui si applica il codice dei contratti (02.10.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTI: V. Ferrara, L’accesso nelle procedure di pubblica evidenza: la complessa ricerca di una pacifica convivenza tra esigenze di riservatezza e diritto a conoscere (De Iustitia n. 3/2019 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. L’istituto dell’accesso agli atti: origini ed evoluzione; - 1.1. L’accesso civico generalizzato; - 2. L’accesso agli atti di gara: breve esegesi dell’art. 53 d.lgs. 50/2016; - 3. Qualificazione dell’istanza di accesso: sull’applicabilità dell’accesso civico generalizzato agli atti di gara; - 3.1. La tesi dell’esclusione dell’accesso civico generalizzato alla materia degli appalti; - 3.2. La tesi dell’applicabilità dell’accesso civico generalizzato agli atti di gara; - 4. La tutela dei segreti tecnici e commerciali; 5. Conclusioni.

APPALTI SERVIZI: E. Boccia, La (possibile) partecipazione di un soggetto privato all’interno di una società in house providing alla luce delle recenti evoluzioni normative (De Iustitia n. 3/2019 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa; - 2. L’evoluzione del modello dell’in house providing; - 3. Il modello dell’in house providing nel T.U. in materia di società a partecipazione pubblica; - 4. La (possibile) partecipazione di un soggetto privato al capitale di una società a totale partecipazione pubblica; 5. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Dezio, Pubbliche amministrazioni, accesso e trasparenza alla prova del nuovo GDPR (De Iustitia n. 3/2019 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa: privacy e trasparenza, l’esigenza di un equo bilanciamento. - 2. Il regolamento UE 2016/679. - 3. Il rapporto tra privacy, trasparenza amministrativa e accountability alla luce del GDPR.

EDILIZIA PRIVATA: E. Centore, La tutela del terzo controinteressato nell’ambito della S.C.I.A. - Interviene la Corte costituzionale (De Iustitia n. 2/2019 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. La S.C.I.A. come regime amministrativo ex post delle attività private. - 2. I c.d. contropoteri spettanti alla P.A., alla luce della l. n. 124/2015. - 3. La natura giuridica della S.C.I.A. e la tutela del controinteressato, tra giurisprudenza e interventi normativi: L’azione di accertamento (atipica) e il “nuovo” art. 19, comma 6-ter. - 4. La questione di legittimità costituzionale sollevata da TAR Toscana, ord. n. 667/2017. - 5. Anche il TAR Emilia Romagna, Parma, ord. n. 12/2019, solleva la questione di legittimità costituzionale sul comma 6-ter. - 6. L’intervento della Corte costituzionale, n. 45/2019. - 7. Osservazioni conclusive e possibili sviluppi normativi.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La parità vale sempre. Anche per le nomine in corso di consiliatura. L’uguaglianza di genere nelle giunte non deve poter essere aggirata.
Per rispettare la normativa in tema di parità di genere nelle giunte si deve sostituire l'assessore esterno che si sia dimesso nel corso della consiliatura?
Il caso segnalato si riferisce a un comune con popolazione superiore a 3.000 abitanti la cui giunta era formata da quattro assessori oltre al sindaco. A seguito delle dimissioni dell'assessore esterno di genere femminile, attualmente la giunta è composta da quattro uomini, compreso il sindaco, e da una sola donna.
Atteso che lo statuto dell'ente contempla la possibilità di nominare un numero di assessori non inferiore a tre e non superiore a quattro, sorge il dubbio se, nello specifico caso, visto che la situazione attuale è conseguente alle dimissioni dell'assessore esterno e non ad una nuova nomina effettuata dal sindaco, sia possibile mantenere la composizione della giunta come risultante a seguito delle suddette dimissioni o sia necessario riequilibrare le percentuali di genere previste dalla vigente normativa. La normativa di riferimento dispone che «nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Al riguardo, il Consiglio di stato, con sentenza n. 4626 del 05/10/2015, ha precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell'art. 1, comma 137, trovano in esso «un ineludibile parametro di legittimità» e, pertanto, un'interpretazione che riferisse l'applicazione della norma alle sole nomine assessorili effettuate all'indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento della suddetta normativa. Tali osservazioni sono state ribadite da ultimo dal Tar Abruzzo con sentenza n. 105 del 2019
(articolo ItaliaOggi del 27.12.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riduzione a 35 ore settimanali dell’orario di lavoro, polizia locale.
Domanda
È ancora possibile prevedere la riduzione dell’orario di lavoro del personale turnista, con particolare riferimento alla Polizia locale? E’ necessario inserire delle norme nel Contratto Collettivo Integrativo?
Risposta
Per rispondere al quesito è necessario ricostruire il quadro normativo legato alla possibilità di ridurre l’orario di lavoro del personale che svolte attività articolate in turni.
   a) La questione della riduzione dell’orario di settimanale a 35 ore è stata posta nell’art. 22 del CCNL regioni e autonomie locali, del 01.04.1999, che testualmente prevede:
Art. 22 – Riduzione di orario
   1. Al personale adibito a regimi di orario articolato in più turni o secondo una programmazione plurisettimanale, ai sensi dell’art. 17, comma 4, lett. b) e c), del CCNL del 06.07.1995, finalizzati al miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle attività istituzionali ed in particolare all’ampliamento dei servizi all’utenza, è applicata, a decorrere dalla data di entrata in vigore del contratto collettivo decentrato integrativo, una riduzione di orario fino a raggiungere le 35 ore medie settimanali. I maggiori oneri derivanti dall’applicazione del presente articolo devono essere fronteggiati con proporzionali riduzioni del lavoro straordinario, oppure con stabili modifiche degli assetti organizzativi.
   2. I servizi di controllo interno o i nuclei di valutazione, nell’ambito delle competenze loro attribuite dall’art. 20 del D.Lgs. 29/1993, verificano che i comportamenti degli enti siano coerenti con gli impegni assunti ai sensi del comma 1, segnalando eventuali situazioni di scostamento.
   3. La articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro secondo quanto previsto dal CCNL del 06.07.1995 è determinata dagli enti previo espletamento delle procedure di contrattazione di cui all’art. 4.
   4. Le parti si impegnano a riesaminare la disciplina del presente articolo alla luce di eventuali modifiche legislative riguardanti la materia
[1].
   b) Il CCNL del 21.05.2018, all’art. 2, comma 8, stabilisce che per gli istituti non disciplinati “continuano a trovare applicazione le disposizioni dei precedenti CCNL non disapplicate”.
   c) L’articolo 49 – Disapplicazioni, del citato CCNL del 2018, non contempla l’art. 22 del CCNL 01/04/1999, tra le norme non più applicabili;
   d) In aggiunta, va ricordato che l’art. 3, comma 7, del CCNL 2018, afferma che “Le clausole del presente titolo sostituiscono integralmente tutte le disposizioni in materia di relazioni sindacali previste nei precedenti CCNL, le quali sono pertanto disapplicate”;
   e) L’art. 5, comma 3, lettera a), del CCNL 2018, prevede tra le materie oggetto di “Confronto” l’articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro;
   f) La riduzione dell’orario di lavoro (sino) a 35 ore settimanali, non è prevista tra le materie soggette a contrattazione, come dettagliatamente elencate nell’art. 7, comma 4, lettere da a) a z), del CCNL 2018.
Tutto ciò premesso, la risposta al quesito è la seguente:
   a) le norme sulla riduzione sino a 35 ore settimanali sono ancora in vigore;
   b) la materia non è più soggetta a contrattazione, come invece era previsto nel comma 3, dell’art. 22, CCNL 1999 che va letto –dopo il 22.05.2018– in combinato disposto con l’art. 3, comma 7, dell’ultimo CCNL;
   c) la questione è, oggi, materia di confronto, alla luce dell’art. 5, comma 3, lettera a) del CCNL 2018;
   d) di conseguenza è da evitare qualsiasi inserimento nel contratto decentrato integrativo (dove la clausola sarebbe nulla), ma di prevederlo nell’ambito delle attività di confronto, come disciplinate nell’art. 5, comma 2, del CCNL 2018;
   e) se la riduzione dell’orario, nel comune per la Polizia locale, è già prevista, può essere sufficiente una semplice norma di “conferma” in un verbale di confronto.
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[1] NOTA: Come si può notare, la riduzione non era (e non è!) affatto scontata e ci deve essere una verifica del Nucleo di Valutazione su come fronteggiare i costi dell’eventuale riduzione, indicando due possibili strade: la riduzione del fondo del lavoro straordinario o una stabile modifica degli assetti organizzativi (19.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio di segreteria generale di questo Ente chiede di conoscere se occorre procedere, ed in che termini, alla pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 o se permane la sospensione dopo la sentenza della Corte Costituzionale.
Come noto la vicenda della pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 si è complicata a seguito della declaratoria di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale con la sentenza 23.01.2019 n. 20 "nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A seguito di detta sentenza ANAC era intervenuta, pur con ampie critiche, attraverso la Del. 26.06.2019 n. 586 dell'ANAC «Integrazioni e modifiche della delibera 08.03.2017, n. 241 per l'applicazione dell'art. 14, co. 1-bis e 1-ter del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza n. 20 del 23.01.2019 della Corte Costituzionale» con cui l'Autorità ha modificato e integrato la citata Del. 08.03.2017, n. 241 e fornito precisazioni sulla delibera 1134/2017 in merito ai criteri e modalità di applicazione dell'art. 14, comma 1, 1-bis e 1-ter, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 alle amministrazioni pubbliche e agli enti di cui all'art. 2-bis del medesimo decreto, alla luce della sentenza della Corte Cost. 23.01.2019, n. 20.
A questa delibera sono seguite da più parti richieste di chiarimento, ed in particolare dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e Province autonome attraverso riunioni operative con la stessa autorità. Negli incontri, in attesa dell'intervento legislativo chiarificatore sull'applicazione dell'art. 14, comma 1-bis, con riferimento alla pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali [art. 14, comma 1, lett. f)] richiamato dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale, le Regioni, nella fase transitoria, identificano, entro il 01.03.2020, in appositi atti legislativi, ovvero normativi o amministrativi generali, gli strumenti utili all'attuazione della norma tenuto conto delle peculiarità del proprio assetto organizzativo e alla luce dell'intervento della Corte Costituzionale e della Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC.
Con ordinanza cautelare il TAR Lazio Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579, in accoglimento dell'istanza cautelare di due dirigenti sanitari titolari di struttura complessa dell'Azienda sanitaria locale di Matera, ha sospeso la deliberazione dell'omonima Asl con cui veniva richiesta ai suddetti dirigenti la trasmissione dei dati ex art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 e rinviata la causa al merito del 22.04.2019.
Sulla base di questi presupposti e dell'incertezza normativa che ne è derivata l'Autorità ha ritenuto opportuno, con Del. 04.12.2019 n. 1126:
   "- In attesa dell'intervento legislativo nazionale chiarificatore sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs. 33/2013, di rinviare alla data del 01.03.2020 l'avvio della propria attività di vigilanza sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs. 14.03.2013, n. 33 -dati reddituali e patrimoniali- con riferimento ai dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da queste dipendenti;
   - Fermo restando quanto previsto nella delibera ANAC n. 586/2019 per i dirigenti del SSN, di sospendere, alla luce dell'ordinanza cautelare del TAR Lazio n. 7579 del 21.11.2019, l'efficacia della richiamata delibera limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 ai dirigenti sanitari titolari di struttura complessa fino alla definizione nel merito del giudizio
".
Ciò premesso e considerato, venendo al quesito proposto, ne deriva che:
   1) l'obbligo di pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 è vigente;
   2) tale obbligo legittima le amministrazioni a procedere alla pubblicazione dei dati in applicazione della citata normativa e della sentenza della Corte Costituzionale;
   3) tuttavia la delibera Anac ha ritenuto opportuno sospendere la propria attività di vigilanza e la propria deliberazione in materia "con riferimento ai dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da queste dipendenti" ed "ai dirigenti sanitari titolari di struttura complessa";
   4) ANAC non ha disposto analoga sospensione per i dirigenti di altri settori/comparti.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, qualora il richiedente non faccia parte del SSN dovrà valutare di procedere in ogni caso alla dovuta pubblicazione, eventualmente valutando forme di minimizzazione e previo ulteriore approfondimento sui contenuti della sentenza della Corte Costituzionale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14 - Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC
Riferimenti di giurisprudenza
Corte Cost., sentenza 23.01.2019, n. 20
Documenti allegati

Del. 04.12.2019 n. 1126 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 del Presidente ANAC - TAR Lazio-Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579
(18.12.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PATRIMONIOL’avvalimento nelle concessioni.
Domanda
È corretto consentire l’istituto dell’avvalimento una concessione decennale di gestione di una struttura pubblica?
Risposta
L’istituto dell’avvalimento ai fini della partecipazione alle procedure di gara, in particolare a quelle inerenti le concessioni, trova disciplina nell’art. 172, co. 2, del d.lgs. 50/2016, in base al quale si stabilisce che: “Per soddisfare le condizioni di partecipazione di cui al comma 1, ove opportuno e nel caso di una particolare concessione, l’operatore economico può affidarsi alle capacità di altri soggetti, indipendentemente dalla natura giuridica dei suoi rapporti con loro. Se un operatore economico intende fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore che disporrà delle risorse necessarie per l’intera durata della concessione. Per quanto riguarda la capacità finanziaria, la stazione appaltante può richiedere che l’operatore economico e i soggetti in questione siano responsabili in solido dell’esecuzione del contratto. Alle stesse condizioni, un raggruppamento di operatori economici di cui all’articolo 45 può fare valere le capacità dei partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti. In entrambi i casi si applica l’articolo 89”.
Il richiamo all’art. 89, ovvero norma che definisce l’istituto dell’avvalimento nelle procedure di aggiudicazione di appalti, fa ritenere in modo chiaro, la volontà del legislatore nazionale di consentirne il ricorso anche nel caso di procedure finalizzate all’affidamento di concessioni.
Tuttavia a differenza degli appalti, nelle concessioni si chiede alla pubblica amministrazione di fare delle concrete valutazioni in ordine all’opportunità di consentire la possibilità di affidarsi alla capacità di altri soggetti, e quindi eventualmente di limitare nella disciplina speciale di gara il ricorso a tale istituto.
La natura stessa di una concessione, quale contratto che presenta spesso una durata importante, rende inadatto l’istituto dell’avvalimento, proprio per la concreta difficoltà nella dimostrazione, all’amministrazione aggiudicatrice, circa la capacità dell’operatore partecipante di poter effettivamente disporre, per tutta la durata del contratto, e quindi per un periodo ad esempio ultradecennale, delle risorse necessarie.
Soprattutto quando si tratta dei requisiti di capacità tecnica ed organizzativa nelle concessioni ove l’oggetto principale è una gestione complessiva, proprio per la difficoltà di valutare e considerare tutti quei fattori e quegli elementi che incidono concretamente sull’equilibrio economico e finanziario.
Pertanto, fermo restando la natura dell’istituto dell’avvalimento che la giurisprudenza considera di applicazione generale e volto a consentire la più ampia partecipazione, nel caso di concessioni, è necessario valutare l’opportunità, in base agli specifici affidamenti, di introdurre negli atti di gara delle clausole che ne limitino il ricorso (18.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIResponsabilità e rischi connessi all’incarico di responsabile della prevezione della corruzione e trasparenza.
Domanda
Sono stato nominato da poco Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza dalla mia amministrazione, ma non possiedo una formazione specifica in materia e non ho del personale assegnato allo staff, per cui vorrei sapere quali sono le mie responsabilità ed i rischi connessi a tale incarico.
Risposta
La responsabilità della scelta del dipendente a cui attribuire l’incarico di Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) è dell’organo di indirizzo
[1] che è tenuto ad adottare le modifiche organizzative necessarie ad assicurare allo stesso, funzioni e poteri idonei e, dunque, anche personale e mezzi tecnici adeguati.
In ogni caso, prima di affrontare il tema della responsabilità e dei rischi, è necessario comprendere il ruolo del RPCT. Il cardine dei poteri del RPCT, specifica l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nella delibera n. 840 del 02.10.2018, è centrato sul prevenire la corruzione. A tale figura non spetta l’accertamento di responsabilità, ma l’acquisizione di informazioni sulle modalità di attuazione delle misure e la segnalazione agli organi competenti (Organismo Interno di Valutazione, vertice politico, ufficio di disciplina) dei dipendenti che non le attuano.
In aggiunta alla citata delibera, si consiglia di consultare la parte IV del Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2019, approvato con deliberazione ANAC n. 1064 del 13.11.2019 e l’Allegato 3 dello stesso PNA.
Sinteticamente il RPCT deve:
   • proporre all’organo di indirizzo il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), che contiene l’analisi dei processi a rischio e le misure di prevenzione, vigilare sull’osservanza dello stesso e proporre i correttivi necessari in caso di significative violazioni, modifiche organizzative o funzionali;
   • relazionare sull’attività svolta, ai sensi dell’art. 1, comma 14, secondo periodo, della legge 06.11.2012, n. 190. La norma prevede il termine del 15 dicembre, ma l’ANAC, da alcuni anni, differisce il termine al 31 gennaio dell’anno successivo. Per quest’anno consultare il comunicato del Presidente dell’Autorità del 13.11.2019;
   • verificare che si attui la rotazione o, in mancanza, che ci siano adeguate misure alternative;
   • individuare i dipendenti coinvolti in procedimenti a rischio corruzione ai fini dell’inserimento in appositi programmi di formazione.
Il RPCT è, dunque, chiamato a delineare la strategia di prevenzione della corruzione adeguata all’amministrazione di riferimento e verificare il rispetto delle misure di prevenzione da parte dei dipendenti.
Pertanto –seppure è importante che il RPCT acquisisca una formazione di carattere tecnico-giuridico– è bene privilegiare, nella scelta del soggetto, altre valutazioni. Si deve trattare di un soggetto dalla condotta integerrima, un dirigente che conosca bene l’amministrazione, l’organizzazione, i processi di lavoro, che abbia una capacità di analisi e sia in grado di sensibilizzare il personale.
La negligenza del RPCT può comportare delle significative responsabilità nel caso di commissione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di corruzione, accertato con sentenza passata in giudicato, nonché nel caso di ripetute violazioni di misure di prevenzione previste dal piano.
I commi 12 e 14, dell’art. 1 della legge 190/2012, delineano una sorta di responsabilità oggettiva in capo al RPCT, una responsabilità dirigenziale ex art. 21, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, una responsabilità disciplinare (con sanzione non inferiore alla sospensione del servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi) e una responsabilità per danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazione.
Per andare esente da responsabilità il RPCT deve provare di aver predisposto il PTPCT e vigilato sul funzionamento e l’osservanza dello stesso, nonché di aver messo in atto tutte le misure, di cui ai commi 9 e 10 dell’art. 1, della legge 190/2012 e di aver comunicato agli uffici le misure e le modalità di attuazione. Le prove da fornire per andare esente da responsabilità sono precisate in dettaglio nel paragrafo 9, della parte IV, del PNA 2019.
Da ciò consegue che è importante tracciare tutta l’attività di informazione, formazione e sensibilizzazione del personale. L’ANAC raccomanda anche di prevedere adeguati meccanismi di monitoraggio e controllo. Pur considerando la difficoltà di effettuare i controlli connessi al rispetto delle misure concernenti l’imparzialità dei funzionari pubblici, è importante individuare degli indicatori utili a verificare se le misure di prevenzione sono state attuate. Nell’Allegato 1, al PNA 2019, l’ANAC ribadisce che l’individuazione e la programmazione delle misure rappresentano la parte fondamentale, il “cuore” del PTPCT e che un elenco generico di misure di prevenzione, non assolve al compito di definire la strategia di prevenzione della corruzione.
La mancata adozione del PTPCT (come anche del Codice di comportamento) comporta l’applicazione della sanzione amministrativa da 1.000 a 10.000 euro, ai sensi dell’art. 19, comma 5, lettera b), del decreto legge 24.06.2014, n. 90. Si tratta di una responsabilità in capo all’Amministrazione ed è evidente che il RPCT non risponde in prima persona qualora abbia proposto il PTPCT all’organo di indirizzo, ma quest’ultimo non l’abbia adottato (si veda ad esempio la decisione dell’ANAC relativa al procedimento sanzionatorio n. 649 del 18.07.2019).
Responsabilità dirette a carico del RPCT conseguono invece alla mancata predisposizione di misure a tutela del whistleblowing. L’art. 54-bis, comma 6, d.lgs. 165/2001, prevede che “Qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.”
In tema di trasparenza spetta al RPCT delineare chiaramente i soggetti responsabili della pubblicazione sulle diverse sottosezioni di Amministrazione Trasparente, al fine di andare esente dalle responsabilità di cui agli artt. 46 e 47, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
L’individuazione di specifiche responsabilità risponde all’obiettivo di costruire un modello a rete, che coinvolge tutti i soggetti dell’amministrazione.
In questo ci aiuta anche il Testo Unico sul Pubblico Impiego: l’art. 16, comma 1, lettera l-bis), l-ter) e l-quater) del d.lgs. 165/2001, individua, infatti, specifici compiti in materia di prevenzione della corruzione in capo a ciascun dirigente.
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[1] Articolo 1, comma 7, delle 190/2012 (17.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI FORNITUREAcquisto di attrezzatura da assegnare in uso al gruppo comunale di volontari di protezione civile.
Atteso che il Comune è l’ente di base per la protezione civile, ha la responsabilità primaria d’intervento e assicura l’organizzazione ed il coordinamento degli apporti di volontariato, la cui attività si svolge in forma di collaborazione, secondo le direttive impartite dalle strutture istituzionali, si ritiene che non sussistano cause ostative all’acquisto, con fondi propri dell’ente locale, di un’attrezzatura da assegnare in uso al gruppo comunale di protezione civile.
Quanto alla possibilità di acquistare l’attrezzatura utilizzando parte dell’avanzo di amministrazione, il cui impiego presuppone l’adozione di un provvedimento di variazione di bilancio, si rileva che, ai sensi dell’art. 175, comma 3, del D.Lgs. 267/2000, il termine utile è il 30 novembre, non essendo la fattispecie de qua annoverabile tra quelle per le quali è consentito operare la variazione di bilancio entro il 31 dicembre.

Il Comune rappresenta di aver ricevuto un’istanza dal gruppo comunale di volontari di protezione civile, volta ad ottenere in dotazione un’attrezzatura che l’ente dovrebbe acquistare.
Poiché il Comune ha interpellato la Protezione civile della Regione, dalla quale ha appreso di non poter ottenere attualmente alcun finanziamento per l’acquisizione di cui trattasi, non essendo stato approvato il Piano tecnico annuale previsto dall’art. 4 del decreto del Presidente della Regione 17.05.2002, n. 140/Pres.
[1], l’Ente chiede di conoscere se sussistano cause ostative all’acquisto del bene con fondi propri, entro il corrente esercizio finanziario, utilizzando parte dell’avanzo di amministrazione.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti considerazioni.
Circa la questione generale dell’ammissibilità di procedere all’acquisto, con fondi propri, dell’attrezzatura da assegnare in uso al gruppo comunale di protezione civile, non si ravvisano cause ostative, considerato che la disciplina in materia assegna un ruolo centrale all’ente locale e valorizza la rilevante funzione svolta dal volontariato di settore.
Si rammenta, infatti, che l’art. 7 della legge regionale 31.12.1986, n. 64, dispone che il Comune:
   - è l’ente di base per la protezione civile ed allo stesso è riconosciuta la responsabilità primaria d’intervento (primo comma
[2]);
   - partecipa allo svolgimento delle attività e dei compiti regionali in materia di protezione civile assicurando, tra gli altri, l’organizzazione ed il coordinamento degli apporti di volontariato (secondo comma
[3]).
Va, inoltre, rilevato che l’art. 29 della L.R. 64/1986 riconosce e promuove la funzione del volontariato nello svolgimento delle attività di protezione civile a tutti i livelli (primo comma
[4]), precisando che l’attività di volontariato “si svolge in forma di collaborazione, secondo le direttive impartite dalle strutture istituzionali” (secondo comma [5]).
Il rapporto funzionale esistente tra il Comune e il gruppo comunale di volontari di protezione civile si evince anche dalle previsioni contenute nel regolamento per la costituzione ed il funzionamento del gruppo adottato da codesta Amministrazione
[6], nell’ambito del quale è sancito, in particolare, che il Sindaco è il responsabile unico del gruppo (art. 3).
Quanto alla possibilità di acquistare l’attrezzatura richiesta dal gruppo comunale di volontari di protezione civile utilizzando parte dell’avanzo di amministrazione, il cui impiego presuppone l’adozione di un provvedimento di variazione di bilancio
[7], occorre rilevare che, ai sensi dell’art. 175, comma 3 [8], del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il termine utile è scaduto il 30 novembre, non essendo la fattispecie de qua annoverabile tra quelle per le quali è consentito operare la variazione di bilancio entro il 31 dicembre.
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[1] Ai sensi dell’art. 14, comma 2, del medesimo D.P.Reg. 0140/2002 «Le domande di finanziamento presentate in assenza del Piano tecnico annuale di cui al comma 1, si intendono archiviate.».
[2] «Il Comune, fatte salve le attribuzioni spettanti al Sindaco in base alle vigenti leggi, è, con riguardo al territorio di propria competenza, l’ente di base per la protezione civile ed allo stesso è riconosciuta la responsabilità primaria d’intervento all’atto dell’insorgere di situazioni od eventi del genere di quelli considerati all’articolo 1, I comma, della presente legge ovvero di quelli d’entità tale da poter essere fronteggiati con misure ordinarie.».
[3] «Il Comune, anche in forma associata, partecipa, altresì, allo svolgimento delle attività e dei compiti regionali in materia di protezione civile, assicurando, in particolare:
   - la rilevazione, la raccolta e la trasmissione dei dati interessanti la protezione civile;
   - la disponibilità di una carta a grande scala del proprio territorio con l’indicazione delle aree esposte a rischi potenziali e di quelle utilizzabili a scopo di riparo e protezione;
   - la predisposizione di piani e programmi di intervento e di soccorso in relazione ai possibili rischi, da integrare eventualmente con quelli di area più vasta, di competenza di altri enti ed autorità;
   - l’organizzazione e la gestione di servizi di pronto intervento da integrare con quelli di aree più vaste;
   - l’organizzazione ed il coordinamento degli apporti di volontariato;
   - l’organizzazione e la gestione di attività intese a formare nella popolazione la consapevolezza della protezione civile ed una idonea conoscenza dei problemi connessi.».
[4] «La Regione riconosce la funzione del volontariato come espressione di solidarietà sociale, quale forma spontanea, sia individuale che associativa, di partecipazione dei cittadini all’attività di protezione civile a tutti i livelli, assicurandone l’autonoma formazione, l’impegno e lo sviluppo.».
[5] «L’attività di volontariato ai fini della presente legge, è gratuita e si svolge in forma di collaborazione, secondo le direttive impartite dalle strutture istituzionali.».
[6] Con deliberazione del Consiglio comunale n. 41 del 29.09.1995, l’Ente ha adottato il «Regolamento per la costituzione ed il funzionamento del gruppo comunale di volontari di protezione civile», nel testo approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale 10.07.1991, n. 0381/Pres.
[7] Si veda, in particolare, l’art. 187, comma 2, del D.Lgs. 267/2002, secondo il quale: «La quota libera dell’avanzo di amministrazione dell’esercizio precedente, accertato ai sensi dell’art. 186 e quantificato ai sensi del comma 1, può essere utilizzato con provvedimento di variazione di bilancio, per le finalità di seguito indicate in ordine di priorità:
   a) per la copertura dei debiti fuori bilancio;
   b) per i provvedimenti necessari per la salvaguardia degli equilibri di bilancio di cui all’art. 193 ove non possa provvedersi con mezzi ordinari;
   c) per il finanziamento di spese di investimento;
   d) per il finanziamento delle spese correnti a carattere non permanente;
   e) per l’estinzione anticipata dei prestiti. Nelle operazioni di estinzione anticipata di prestiti, qualora l’ente non disponga di una quota sufficiente di avanzo libero, nel caso abbia somme accantonate per una quota pari al 100 per cento del fondo crediti di dubbia esigibilità, può ricorrere all’utilizzo di quote dell’avanzo destinato a investimenti solo a condizione che garantisca, comunque, un pari livello di investimenti aggiuntivi.
Resta salva la facoltà di impiegare l’eventuale quota del risultato di amministrazione “svincolata”, in occasione dell’approvazione del rendiconto, sulla base della determinazione dell’ammontare definitivo della quota del risultato di amministrazione accantonata per il fondo crediti di dubbia esigibilità, per finanziare lo stanziamento riguardante il fondo crediti di dubbia esigibilità nel bilancio di previsione dell’esercizio successivo a quello cui il rendiconto si riferisce.».
[8] «Le variazioni al bilancio possono essere deliberate non oltre il 30 novembre di ciascun anno, fatte salve le seguenti variazioni, che possono essere deliberate sino al 31 dicembre di ciascun anno:
   a) l’istituzione di tipologie di entrata a destinazione vincolata e il correlato programma di spesa;
   b) l’istituzione di tipologie di entrata senza vincolo di destinazione, con stanziamento pari a zero, a seguito di accertamento e riscossione di entrate non previste in bilancio, secondo le modalità disciplinate dal principio applicato della contabilità finanziaria;
   c) l’utilizzo delle quote del risultato di amministrazione vincolato ed accantonato per le finalità per le quali sono stati previsti;
   d) quelle necessarie alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni riguardanti entrate vincolate già assunte e, se necessario, delle spese correlate;
   e) le variazioni delle dotazioni di cassa di cui al comma 5-bis, lettera d);
   f) le variazioni di cui al comma 5-quater, lettera b);
   g) le variazioni degli stanziamenti riguardanti i versamenti ai conti di tesoreria statale intestati all’ente e i versamenti a depositi bancari intestati all’ente»
(13.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità di alcuni consiglieri comunali facenti parte di associazioni locali.
   1) Per i consiglieri comunali che rivestono, altresì, la carica, rispettivamente, di Presidente, Segretario, Tesoriere di un’associazione, che riceve contributi in denaro da parte dell’amministrazione comunale, potrebbe sussistere la causa di incompatibilità prevista dall’art. 63, c. 1, n. 1), del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle entrate dell’ente. Sotto il profilo soggettivo, atteso il diverso ruolo svolto dai singoli consiglieri all’interno dell’associazione si deve valutare, per ciascuno di essi, se rientrino o meno nella nozione di amministratore o in quella di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
   2) Non può ricoprire la carica di amministratore locale “colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune” (art. 63, co. 1, n. 2, TUEL). La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto che, rivestito di una delle predette qualità soggettive, nel partecipare ad un servizio nell’interesse del Comune sia contestualmente portatore di un proprio specifico interesse, contrapposto a quello generale dell’ente locale e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con l’esercizio imparziale della carica elettiva. Qualora un amministratore locale rivestisse una delle qualità soggettive sopra indicate nell’ambito di un’associazione spetterebbe all'Ente valutare se la stessa svolga o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione comunale.  

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibile sussistenza di cause di incompatibilità, ai sensi dell’articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per alcuni consiglieri comunali (sia di maggioranza che di minoranza) i quali fanno parte, nel ruolo di Presidente, Tesoriere, Segretario o socio, di associazioni (sportive e non) del territorio che ricevono contributi da parte del Comune stesso.
Con riferimento alla fattispecie in esame risulta necessario prendere in considerazione il disposto di cui all’articolo 63, comma 1, n. 1), seconda parte, TUEL, ai sensi del quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle entrate dell’ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina
[1], il termine “ente” deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di cassazione [2] che ha inteso comprendere nella nozione di ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Requisito oggettivo per l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità è che l’associazione riceva dal comune una sovvenzione, consistente in un’erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all’ente sovvenzionato di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito. Tale sovvenzione deve possedere tre caratteri:
   - continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere saltuaria od occasionale;
   - facoltatività (in tutto o in parte): l’intervento finanziario dell’ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo
[3];
   - notevole consistenza: l’apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell’ente sovvenzionato.
Quanto al requisito soggettivo richiesto dall’articolo 63, comma 1, n. 1), TUEL, esso consiste nel fatto che l’amministratore comunale ricopra, all’interno dell’associazione, il ruolo di amministratore o di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Ai fini dell’accertamento dell’incompatibilità in argomento in capo ai consiglieri comunali
[4] risulta necessario esaminare se i diversi ruoli rivestiti dagli stessi all’interno dell’associazione implichino il su indicato requisito soggettivo.
In particolare, quanto al Presidente non sembra dubbia la sua ascrivibilità tra gli amministratori dell’associazione.
[5]
Con riferimento alla figura del segretario e del tesoriere, bisognerà in primo luogo verificare, alla luce delle previsioni statutarie, se gli stessi siano, giuridicamente, dipendenti o meno dell’associazione. In caso di risposta positiva si tratta, in subordine, di valutare se, per lo svolgimento delle loro mansioni, vi sia esplicazione di poteri di rappresentanza o di coordinamento in seno all’associazione. Fermo rimanendo che una tale valutazione potrà compiersi solo alla luce di quanto previsto nelle clausole statutarie, pare che tanto le funzioni del segretario
[6] quanto quelle del tesoriere [7] non dovrebbero di norma comportare l’esplicazione di poteri di rappresentanza né di coordinamento. [8]
Da ultimo, non si configura la causa di incompatibilità in riferimento avuto riguardo agli amministratori locali che siano semplici soci di tali associazioni attesa l’assenza del requisito soggettivo richiesto dalla norma in commento e consistente nel fatto di essere “amministratori o dipendenti con poteri di rappresentanza o di coordinamento” di tali soggetti giuridici.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la disposizione di cui all’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL, nella parte in cui prevede che non possa ricoprire la carica di amministratore locale “colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
La norma citata potrebbe venire in rilievo qualora il tipo di attività effettuata dall’associazione -presso cui il consigliere comunale è amministratore o dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento– possa configurarsi come servizio svolto nell’interesse del comune
[9].
Innanzitutto, come evidenziato in diversi pareri ministeriali, “l’assenza della finalità di lucro, non è sufficiente ad escludere la sussistenza dell’indicata incompatibilità. Il comma 2 dell’articolo. 63 ha, infatti, escluso l’applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno parte in cooperative sociali, iscritte regolarmente nei registri pubblici, dal momento che solo tali forme organizzative offrono adeguate garanzie per evitare il pericolo di deviazioni nell’esercizio del mandato da parte degli eletti ed il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l’interesse che deve tutelare in quanto amministratore dell’ente che gestisce il servizio e l’interesse che deve tutelare in quanto consigliere del comune che di quel servizio fruisce
[10].
La norma in esame è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di amministratore di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all’ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l’insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
In particolare, la locuzione “aver parte”, se correlata alla successiva locuzione “nell’interesse del comune” allude alla contrapposizione tra interesse “particolare” del soggetto ed interesse del comune, istituzionalmente “generale”, in relazione alle funzioni attribuitegli, e, quindi, sottintende alla situazione di potenziale conflitto di interessi, in cui si trova il predetto soggetto, rispetto all’esercizio imparziale della carica elettiva.
Inoltre, l’ampia espressione “servizi nell’interesse del comune” suole ricomprendere “qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia in grado di determinare conflitto di interessi
[11]. La giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia espressione di “servizi nell'interesse del comune” si riferisce “a tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie [...] [12].
La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto che, rivestito di una delle predette qualità soggettive, partecipi ad un servizio pubblico, inteso nell’ampio senso sopra specificato, come portatore di un proprio specifico interesse, contrapposto a quello generale dell’ente locale e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con l’esercizio imparziale della carica elettiva.
Qualora un amministratore locale rivestisse una delle qualità soggettive sopra indicate nell’ambito di un’associazione spetterebbe all'Ente valutare se la stessa svolga o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione comunale.
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[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. Di Stilo – E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Per quanto riguarda il concetto di facoltatività, si rileva che, secondo l’orientamento del Ministero dell’Interno (parere del 30.12.2010, prot. n. 15900/TU/63), la sovvenzione è facoltativa “nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge”.
Per completezza espositiva si segnala, peraltro, anche un diverso orientamento dottrinario il quale afferma che per determinare l'incompatibilità la sovvenzione non deve avere il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che “non deve essere conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un contratto bilaterale, ma deve rientrare nella discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera determinazione dell'Ente che la accorda” (Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore, 1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV., 'L'ordinamento comunale', Giuffré editore, 2005, pag. 138.
Tale filone interpretativo è seguito anche dall'ANCI il quale ha affermato che la facoltatività della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o da un obbligo convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e del 28.04.2014).
[4] Non ha alcun rilievo al riguardo il fatto che i consiglieri siano di maggioranza o di minoranza.
[5] Per completezza espositiva si segnala che, invece, per quanto concerne l’eventuale ipotesi di consiglieri comunali membri del “Consiglio direttivo”, si tratterà di verificare se sia possibile ricomprendere gli stessi nella nozione legislativa di “amministratore” contemplata dall’articolo 63 del TUEL, in ordine alla quale è prevista la causa di incompatibilità in argomento. Tale valutazione dovrebbe essere effettuata considerando la situazione concreta, in relazione a quanto previsto nelle clausole statutarie dell’associazione: si rileva comunque al riguardo che, di norma, i membri dell’esecutivo svolgono funzioni sussumibili tra quelle proprie dell’organo di amministrazione, con conseguente configurarsi dell’incompatibilità in esame, nella sussistenza degli altri requisiti richiesti dalla legge.
[6] Tendenzialmente rientrano tra i compiti del segretario dell’associazione l’estensione, la sottoscrizione e l’eventuale custodia dei verbali dell’Assemblea dei soci; la tenuta aggiornata del libro soci e di altri eventuali registri dell’associazione.
[7] In linea di massima è compito del tesoriere tenere, controllare e aggiornare i libri contabili, conservando la documentazione che ad essi sottende, curare la gestione della cassa dell’associazione, predisporre i bilanci.
[8] Per completezza espositiva, si segnala che, per il verificarsi della causa di incompatibilità in riferimento è richiesto che il dipendente abbia poteri di rappresentanza o, in alternativa, di coordinamento. Ratio della norma è evitare che l’amministratore rivesta, al contempo, il ruolo di controllore e di controllato del proprio operato. Significativa, al riguardo, è la sentenza della Cassazione civile, sez. I, del 20.11.2004, n. 21942.
Potrebbe, altresì, verificarsi il caso che siano nominati segretario e/o tesoriere alcuni componenti del consiglio direttivo dell’associazione. In tal caso, atteso che gli stessi rivestirebbero, nel contempo, il ruolo di membro del direttivo, valgono le considerazioni che saranno espresse nel prosieguo in relazione a tale figura.
[9] Si pensi, a titolo di esempio, al caso di un’associazione sportiva che gestisce la palestra comunale: fattispecie esaminata dal Ministero dell’Interno il quale nel parere del 29.05.2007 ha ravvisato il sussistere dell’indicata causa di incompatibilità stante la sussistenza di tutti i requisiti richiesti dall’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL.
[10] Ministero dell’Interno, pareri del 12.05.2011 e dell’11.01.2011.
[11] Saporito, Pisciotta, Albanese, “Elezioni regionali ed amministrative”, Bologna, 1990, pag. 115.
[12] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550
(13.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGORinegoziazione cessione stipendio.
Domanda
È possibile concedere una rinegoziazione di una cessione dello stipendio in presenza di ritenute per pignoramenti?
Risposta
Si dà per scontato che i pignoramenti, delegazione di pagamento e precedente cessione sono stati eseguiti nel rispetto dei limiti di legge e che sono soddisfatti i presupposti generali per la rinegoziazione della cessione ai sensi dell’art. 39 del DPR 180/1950.
Nella situazione descritta nel quesito si possono verificare due casi:
   1) la rinegoziazione della cessione porta ad abbassare oppure a mantenere invariata la rata mensile di rimborso: in questo caso non c’è ragione per la quale l’ente debba negare il suo assenso alla ricontrattazione (mediante estinzione e nuova cessione), dato che questa operazione non incrementerebbe l’incidenza complessiva del cumulo di cessione, delegazione e pignoramento sulla retribuzione del dipendente;
   2) la rinegoziazione della cessione porta ad incrementare l’importo della rata mensile di rimborso: in questo caso l’ente non è nelle condizioni di assentire alla nuova cessione:
      • se si supera la soglia di cui all’art. 68, comma 1, del DPR 180/1950 (“Quando preesistono sequestri o pignoramenti, la cessione, fermo restando il limite di cui al primo comma dell’art. 5, non può essere fatta se non limitatamente alla differenza tra i due quinti dello stipendio o salario valutati al netto delle ritenute e la quota colpita da sequestri o pignoramenti”);
      • se si supera la soglia di cui all’art. 70, comma 1, del DPR 180/1950 prevista per il cumulo tra delegazione e cessione;
      • naturalmente, se si supera la soglia del quinto della retribuzione per la cessione (12.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe agli amministratori locali.
  
1) Non sussiste alcun obbligo da parte del sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe, l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
   2) Il sindaco, al momento della nomina di un assessore esterno deve verificare che non sussistano nei suoi confronti cause di incandidabilità, ineleggibilità o incompatibilità, fermo restando che andrà accertato il permanere dei requisiti anche nel corso del mandato.
   3) È inammissibile l’attribuzione di deleghe con rilevanza esterna ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste, avere solo rilevanza interna e finalità consultiva. L’ordinamento consente, piuttosto, l’attribuzione a singoli consiglieri di compiti di collaborazione, circoscritti all’esame ed alla cura di affari specifici, che non implichi la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.

Il Comune chiede un parere relativamente a diverse questioni riguardanti gli amministratori locali. In particolare desidera sapere:
   1) se sia possibile per il sindaco non attribuire alcuna delega agli assessori nominati;
   2) se sia valida la nomina degli assessori esterni compiuta dal sindaco, atteso il non avvenuto accertamento dell’inesistenza in capo agli stessi delle condizioni di eleggibilità, compatibilità e candidabilità;
   3) se sia possibile attribuire una delega ad un consigliere comunale.
Con riferimento alla prima questione posta si osserva che, come rilevato dall’ANCI in un parere rilasciato sull’argomento
[1]il ruolo politico dell’assessore si esplicita […] in maniera primaria nell’ambito dell’organo collegiale Giunta” e, solo in via secondaria, la figura dell’assessore è caratterizzata dalle “deleghe” assegnate dal Sindaco. Si consideri, altresì che non è dato riscontrare l’esistenza di alcuna norma di legge nel decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recante “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”, che obblighi il sindaco all’attribuzione di tali deleghe. A ciò si aggiunga la considerazione per cui lo statuto comunale, all’articolo 17, nel declinare le “attribuzioni di amministrazione [2] del sindaco prevede, al comma 1, che questi “possa” e non già “debba” delegare le sue funzioni o parte di esse ai singoli assessori.
Da tali premesse si ritiene consegua l’insussistenza di un obbligo da parte del sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe, l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
Passando a trattare della seconda questione posta, si rileva che l’articolo 24 dello statuto comunale prevede, al comma 2, che: “Gli assessori sono normalmente scelti tra i consiglieri; possono tuttavia essere nominati anche assessori esterni al Consiglio, purché dotati dei requisiti di eleggibilità, compatibilità e candidabilità alla carica di Consigliere Comunale ed in possesso di particolare competenza tecnica, amministrativa o professionale. Qualora siano stati nominati assessori esterni, il Consiglio Comunale, nella prima seduta successiva alla loro nomina, procede ad accertare le condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli stessi”.
Con riferimento al caso in esame il Comune, atteso che la prima seduta consiliare successiva alla nomina degli assessori esterni da parte del sindaco è andata deserta, chiede se la nomina degli assessori possa dirsi validamente effettuata.
Ai sensi dell’articolo 46, comma 2, TUEL “il sindaco e il presidente della provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della giunta […]”: l’atto di nomina degli assessori è, dunque, di competenza del sindaco.
Quanto alla valutazione dei “requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità” si ritiene che la norma statutaria dell’Ente, sopra riportata, non possa trovare applicazione in quanto non coerente con il quadro normativo dettato dal TUEL in materia di organi di governo del comune.
La norma statutaria sopra riportata, nella parte in cui attribuisce al consiglio comunale l’accertamento delle condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli assessori esterni demanda, infatti, a tale organo una competenza che non gli è propria, non essendo l’assessore esterno componente del consiglio ma solo della giunta comunale.
L’ANCI in un proprio parere,
[3] con riferimento all’individuazione dell’organo deputato alla contestazione di una causa di incompatibilità di un assessore esterno, ha affermato che “vi siano due possibili strade: la prima è che il procedimento di contestazione della cause di incompatibilità (che può sfociare in una pronuncia di decadenza) si svolga ad iniziativa della Giunta anziché del Consiglio, poiché è questo l’organo collegiale di appartenenza; l’altra possibilità –preferibile a parere di chi scrive– è che sia il Sindaco a revocare l’assessore incompatibile. Il testo unico degli enti locali stabilisce infatti che il Sindaco possa nominare come assessori esterni solo i cittadini “in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere comunale”: orbene, se il soggetto nominato come assessore esterno non possiede questi requisiti, è chiaro che la sua investitura non può ritenersi legittima, per cui è necessario che il Sindaco proceda alla revoca dell’atto di nomina stesso.”
Concludendo su tale punto, si ritiene che l’assessore esterno nominato dal sindaco possa esercitare le prerogative che gli sono proprie in quanto assessore, sia singolarmente che quale componente dell’organo giuntale di cui fa parte, fermo restando che andrà verificato il permanere dei requisiti nel corso del mandato con le modalità ritenute opportune.
[4] Si ritiene, altresì, che la valutazione della sussistenza dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di assessore sia stata compiuta dal sindaco all’atto della nomina degli stessi.
Passando a trattare dell’ultima questione posta, il Ministero dell’Interno ha ripetutamente ritenuto inammissibile l’attribuzione di deleghe con rilevanza esterna ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste, avere solo rilevanza interna e finalità consultiva, specificando che l’ordinamento consente, piuttosto, l’attribuzione a singoli consiglieri di compiti di collaborazione, circoscritti all’esame ed alla cura di affari specifici, che non implichi la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Per delega interna s’intende l’incarico funzionale affidato dal titolare dell’organo delegante per lo svolgimento di un’attività ausiliaria di studio, proposta e vigilanza in determinati settori. Risulta, quindi essere una misura organizzativa che, pur potendo assumere notevole importanza pratica e rilevanza politica, non può produrre effetti giuridici.
In particolare, in un recente parere
[5] il Ministero dell’Interno ha ribadito che «nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, partecipando "…alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del Sindaco … e dei singoli assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/11 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava “… una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse.”.
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[1] ANCI, parere dell’11.10.2007.
[2] Tale è la rubrica dell’articolo 17 dello statuto comunale.
[3] ANCI, parere dell’08.09.2004.
[4] Con riferimento alla norma di cui all’articolo 24 dello statuto nella parte in cui attribuisce al consiglio comunale il compito di accertare le condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli assessori esterni, per quanto sopra già esposto, si suggerisce all’ente di provvedere alla sua modifica.
[5] Ministero dell’Interno, parere del 28.10.2019. Nello stesso senso si vedano, anche i pareri del 12.08.2019 e del 05.01.2018
(11.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTICompetenze del RUP.
Domanda
Una delle questioni che viene posta con una certa ricorrenza è quella della competenza del RUP. Semplificando, le domande, relative a questo aspetto, tendono sempre ad avere un chiarimento se il RUP possa o meno adottare, tra gli altri, i provvedimenti di esclusione dalla procedura di gara.
Risposta
Effettivamente una delle problematiche, tra le tante, ricorrenti in tema di procedimento di affidamento è quella dell’esatta collocazione del RUP nel caso in cui questo non rivesta un ruolo dirigenziale o non sia (come capita, ad esempio, per i comuni) il responsabile del servizio.
Il fatto che non coincida con questi ruoli, secondo la legge 241/1990, determina l’impossibilità di adottare atti a valenza esterna (come ad esempio il provvedimento di esclusione).
Si assiste quindi a dinamiche variegate: stazioni appaltanti in cui il RUP anche senza poteri dirigenziali adotta il provvedimento; altre circostanza in cui il provvedimento viene adottato dalla commissione di gara (nel caso di appalto, evidentemente, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa), infine altre situazioni in cui il provvedimento viene adottato direttamente dal responsabile del servizio (con poteri, quindi, dirigenziali) soggetto diverso dal RUP.
Nell’ambito, tra l’altro di questo caso, si assistono a situazioni in cui il RUP viene coinvolto e certe situazioni in cui (grave errore a parere di chi scrive anche censurato in giurisprudenza) il RUP viene addirittura estromesso dai propri compiti istruttori.
In tempi recenti, sul tema, è tornato il Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, con la recente sentenza del 29.10.2019 n. 450 in cui si legge che “l’attribuzione al RUP delle competenze afferenti all’adozione dei provvedimenti di esclusione” trova “piena corrispondenza nel particolare ruolo attribuito a tale figura, nel contesto della gara, e alle funzioni di garanzia e di controllo che ad esso sono intestate”.
Questa posizione, come noto, viene confermata nelle linee guida ANAC n.3, nei bandi tipo, nei quesiti resi dall’autorità ed infine, come visto, nella stessa giurisprudenza (il giudice veneto chiama a soccorso anche precedenti del Consiglio di Stato).
Da notare, infine, che la stessa posizione viene espressa dal MIT e anche dal nuovo schema del regolamento attuativo.
Sotto il profilo pratico operativo, si è già rilevato in altre circostanze, e ciò emerge anche dalla sentenza del richiamata è possibile, visto che la competenza del RUP deve essere configurata come “residuale” ovvero questo la esercita se non risulta espressamente (nella legge di gara, fatti salvi gli obblighi desumibili da norme) assegnata ad altri soggetti (responsabile del servizio o commissione di gara.
Pertanto gli enti locali (in particolare i comuni), in cui il RUP non è il titolare del potere gestionale a valenza esterna, potrebbero veicolare nel bando/lettera di invito l’attribuzione di tale prerogativa assegnandola, ad esempio, al responsabile del servizio con proposte redatta dal RUP (11.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIA seguito dell'aggiudicazione di un appalto di servizi all'operatore uscente (rinnovo) l'ufficio gare di questo Ministero ha ricevuto la notifica di sentenza di annullamento da parte del TAR.
Poiché la sentenza non precisa le modalità operative di attuazione, cioè se si debba scorrere la graduatoria o se si possa mantenere in essere il contratto (ormai quasi completamente eseguito), si chiede se occorre procedere a "ribandire la gara", proseguire con l'attuale aggiudicatario, o se si debba necessariamente assegnare al secondo in graduatoria?

Sicuramente occorre adottare una decisione, qualunque essa sia.
Infatti la giurisprudenza consolidata ritiene che a seguito dell'annullamento del provvedimento di aggiudicazione la Stazione appaltante debba rivalutare la situazione che si è venuta a creare (anche a distanza di molto tempo dal momento dell'originaria aggiudicazione) e, soppesando gli interessi pubblici (prioritari) e privati coinvolti (operatore aggiudicatario originario e primo operatore economico in graduatoria) deve adottare uno o più atti volti:
   • all'eventuale continuazione del rapporto con l'operatore economico attuale (legittimato dal contratto stipulato che non viene meno a seguito dell'annullamento giurisdizionale
   • all'eventuale risoluzione del contratto, verifica dei requisiti del nuovo operatore, e conseguente stipula di un nuovo contratto.
E' evidente che in entrambi i casi si potrebbero aprire scenari di responsabilità (precontrattuale, contrattuale e da risarcimento) che variano da contesto a contesto anche in relazione alle specificità dei vizi che hanno portato all'annullamento in sede giurisdizionale.
Come afferma la giurisprudenza infatti "La stazione appaltante, ..., è tenuta a valutare se, alla luce delle ragioni che hanno determinato l'annullamento dell'aggiudicazione, permangano o meno le condizioni per la continuazione del rapporto contrattuale in essere con l'operatore economico (illegittimo) aggiudicatario, ovvero se non risponda maggiormente all'interesse pubblico, risolvere il contratto e indire una nuova procedura di gara, in applicazione del potere riconosciuto ora dall'art. 108, comma 1, D.Lgs. 18.04.2016, n. 50".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 106
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. V, 22.11.2019, n. 7976 - Cons. Stato Sez. V, 15.11.2019, n. 7845 - Cons. Stato Sez. V, 23.08.2019, n. 5803 - Cons. Stato Sez. III, 01.07.2019, n. 4487 - Cons. Stato Sez. III, 18.04.2019, n. 2534 - Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2019, n. 2036 - Cons. Stato Sez. V, 28.01.2019, n. 697 - Cons. Stato Sez. V, 02.07.2018, n. 4041
(11.12.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI SERVIZIPubblicazione dati affidamento servizi legali.
Domanda
L’amministrazione sta procedendo ad un affidamento del servizio di assistenza legale e vorrei saper quali informazioni vanno pubblicate su Amministrazione Trasparente e in quale sottosezione è corretto inserirle.
Risposta
Per inquadrare correttamente la fattispecie occorre precisare la tipologia di servizio legale che si intende affidare. A tal proposito è utile consultare le Linee Guida n. 12 dell’ANAC, approvate con delibera n. 907 del 24.10.2018 nelle quali si specifica l’ambito di applicazione del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti).
L’affidamento di servizi legali si configura senz’altro come appalto di servizi nel caso in cui venga affidata la gestione del contenzioso in modo continuativo o periodico al fornitore nell’unità di tempo considerata. In tal caso essi rientrano nella categorie di servizi di cui all’Allegato IX del d.lgs. 50/2016.
Diversamente, qualora venga conferito un incarico ad hoc per la trattazione di una singola controversia, si configura una ipotesi contratto escluso dall’applicazione del codice [art. 17, comma 1, lettera d), del d.lgs. 50/2016] ed inquadrabile nella fattispecie di contratto d’opera professionale.
Le citate Linee Guida, specificano le procedure da seguire e come si declinano i principi di trasparenza e pubblicità con riferimento ad entrambe le tipologie di servizi legali.
Conseguentemente, nella prima ipotesi il regime di trasparenza è quello di cui all’art. 37 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e la sottosezione di Amministrazione Trasparente su cui pubblicare le informazioni è “Bandi di gara e contratti”. Nella seconda si rientra nella categoria di “Consulenti e collaboratori”, di cui all’art. 15 del d.lgs. 33/2013 e la sottosezione di riferimento è quella con analoga denominazione.
In merito alle informazioni da pubblicare, nel caso di appalto di servizi, l’art. 37 rinvia agli obblighi già previsti nell’art. 1, comma 32, della legge del 06.11.2012, n. 190 ed alle disposizioni in materia di trasparenza contenute nel d.lgs. 50/2016. Pertanto, ai sensi dell’art. 29 di quest’ultimo, occorre pubblicare tutti gli atti della procedura di affidamento, dalla programmazione all’esecuzione del contratto. Trattandosi di settori di cui all’Allegato IX occorre aver riguardo, per il regime della pubblicazione, a quanto previsto dagli artt. 140 e seguenti del d.lgs. 50/2016.
Nel caso di contratto d’opera professionale rientrante nella tipologia “Consulenti e collaboratori”, l’art. 15 del d.lgs. 33/2013 specifica al comma 1 le informazioni da pubblicare, mentre, al comma 2 precisa che tale pubblicazione rappresenta una condizione di efficacia dell’atto e per la liquidazione dei relativi compensi. Il comma 3 contempla infine specifiche sanzioni per l’omessa pubblicazione (10.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: proroga della data di fine lavori e sopravvenute previsioni urbanistiche (Regione Emilia Romagna, nota 06.12.2019 n. 894437 di prot.).

APPALTIQuesta stazione appaltante (ente strumentale della Regione) si trova spesso di fronte a certificati camerali che non contengono un riferimento perfettamente attinente ai requisiti di gara (sia nella descrizione che nei codici Ateco).
Come procedere?

L’art. 83, comma 1, del Codice degli appalti dispone "Ai fini della sussistenza dei requisiti di cui al comma 1, lettera a), i concorrenti alle gare, se cittadini italiani o di altro Stato membro residenti in Italia, devono essere iscritti nel registro della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura o nel registro delle commissioni provinciali per l'artigianato, o presso i competenti ordini professionali".
Siamo pertanto in presenza, secondo la formulazione del Codice, di un requisito di idoneità professionale e come tale esso rappresenta uno strumento di selezione e filtraggio dei concorrenti tale da consentire l’accesso alla procedura ai soli in possesso di requisiti adeguati e coerenti con gli atti di gara.
In questo contesto la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare come tale requisito vada interpretato "in senso strumentale e funzionale all'accertamento del possesso effettivo del requisito soggettivo di esperienza e fatturato" per cui "eventuali imprecisioni della descrizione dell'attività risultanti dal certificato camerale non possono determinare l'esclusione della concorrente che ha dimostrato l'effettivo possesso dei requisiti soggettivi di esperienza e qualificazione richiesti dal bando".
Quindi, sebbene la stazione appaltante possa prevedere un oggetto sociale specifico e puntuale, e quindi escludere le imprese che non dovessero in alcun modo avere idonei riferimenti nella propria visura camerale (né in termini descrittivi né in riferimento ai codici Ateco), tuttavia occorre sempre tener conto del principio di favor partecipationis e dell’esigenza di valutare i requisiti sostanziali comunque attestabili dall’operatore economico.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 83
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 15.11.2019, n. 7846 - Cons. Stato Sez. V, 25.09.2019, n. 6431 - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, 15.02.2019, n. 895 - Cons. Stato Sez. III, 10.11.2017, n. 5186 - Cons. Stato Sez. III, 10.11.2017, n. 5183 - Cons. Stato, Sez. III, 08.11.2017, n. 5170
(04.12.2019 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTIProcedura aperta al mercato e la motivazione dell’invito all’uscente.
Domanda
Nell’avviso finalizzato all’acquisizione di manifestazioni di interesse senza limitazione del numero degli operatori, di cui alle linee guida n. 4, è necessario motivare l’invito e l’eventuale aggiudicazione all’operatore uscente?
In caso di risposta positiva tale motivazione deve risultare nell’avviso stesso, oppure in altro provvedimento?
Risposta
Le Linee guida n. 4, al paragrafo 3.6 prevedono che “la rotazione non si applica laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante, in virtù di regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla stessa in caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero degli operatori economici tra i quali effettuare la selezione”.
Con riferimento al quesito in oggetto si richiamano due interessanti e recenti pronunce. La prima del TAR Trentino Alto Adige Bolzano del 31.10.2019 n. 263, che a fronte della censura proposta da parte ricorrente in merito al difetto di motivazione sull’aggiudicazione all’operatore uscente, ha precisato che “allorquando la stazione appaltante apre al mercato (nel caso di specie a seguito di avviso di indagine di mercato) dando possibilità a chiunque di candidarsi a presentare un’offerta senza determinare limitazioni in ordine al numero di operatori economici ammessi alla procedura, è rispettato il principio di rotazione, che non significa escludere chi abbia in precedenza lavorato correttamente con un’Amministrazione, ma significa non favorirlo”.
Aggiunge inoltre che nessun onere motivazionale è richiesto in relazione all’invito a partecipare alla procedura negoziata rivolto anche all’operatore “uscente” o in relazione all’aggiudicazione al medesimo della commessa, da prevedersi nel solo caso di deroga al principio di rotazione.
Analoga posizione è stata assunta dalla giustizia amministrativa lombarda (TAR Brescia, sez. I, sent. n. 993 del 20.10.2019), che ha attribuito al principio di rotazione la natura di necessario contrappeso alla discrezionalità riconosciuta alla stazione appaltante nell’individuare gli operatori in favore dei quali disporre l’affidamento ovvero rivolgere l’invito, e non un carattere precettivo assoluto.
Nella sentenza si legge inoltre, che una procedura negoziata con pubblicazione di un avviso finalizzato all’indizione di una gara con invito rivolto a tutti gli operatori che hanno manifestato interesse senza alcuna esclusione o vincolo in ordine al numero massimo degli operatori ammessi, sia da qualificarsi di tipo aperto per la quale non trova applicazione il principio di rotazione.
Tale carattere è riconosciuto anche qualora per il successivo invito alla procedura negoziata sia necessaria la registrazione su una piattaforma di negoziazione (nel caso di specie SINTEL), non essendo tale iscrizione subordinata ad alcuna forma di selezione da parte della stazione appaltante.
Ribadiscono, inoltre, quanto già affermato nella precedente sentenza sull’esonero della motivazione in ordine all’invito o all’aggiudicazione all’operatore uscente, ritenendo che un simile onere rilevi solo nei casi di deroga al principio di rotazione e non nell’ipotesi di procedura aperta al mercato.
Pertanto alla stregua delle sopra citate sentenze si ritiene che l’onere motivazionale sia dovuto solo nel caso di scelta discrezionale degli operatori da invitare, mediante relazione del RUP da richiamarsi nella determinazione a contrarre, documento che nel rispetto dell’art. 53 del codice, sarà presente agli atti dell’Amministrazione e non materialmente allegato (04.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Attività edilizia – Atto di assenso del confinante - Forma e contenuto minimo dell’atto – parere (Legali Associati per Celva, nota 04.12.2019 - tratto da www.celva.it).
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L’Amministrazione comunale di La Salle ha sottoposto alla nostra attenzione richiesta di parere avente ad oggetto una pluralità di quesiti, tutti afferenti la corretta individuazione dei requisiti minimi di contenuto e di forma che deve assumere l’atto di assenso richiesto al confinante, al fine di derogare alle distanze minime dai fabbricati e dai confini e se tale atto di assenso debba essere acquisito e ricondotto nella pratica edilizia per cui è richiesto. (... continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMappatura dei processi a rischio corruzione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 10.000 abitanti ed abbiamo iniziato a lavorare alla bozza di PTPCT 2020/2022. Ci potete dire qualcosa sulla mappatura dei processi, anche alla luce delle ultime indicazioni dell’ANAC?
Risposta
L’ANAC ha fornito alcune preziose informazioni sulla “mappatura” dei processi, da ultimo, all’interno della bozza di PNA 2019, in consultazione sino al 15.09.2019. In particolare, l’argomento è stato ampiamente trattato nell’allegato “1” del PNA, recante “Indicazioni metodologiche per la gestione dei rischi corruttivi”.
Per l’ANAC, la mappatura dei processi, rappresenta l’aspetto centrale (e, forse più importante) dell’analisi del contesto interno. Essa consiste nella individuazione e analisi dei processi organizzativi, presenti nell’ente. L’obiettivo finale che ci si deve prefiggere è che l’intera attività svolta dall’ente venga gradualmente esaminata, così da identificare aree che, per ragioni della natura e peculiarità delle stesse, risultino potenzialmente esposte a rischi corruttivi.
La mappatura dei processi delinea un modo efficace di individuare e rappresentare le attività dell’amministrazione e il suo effettivo svolgimento deve risultare, in forma chiara e comprensibile, nel Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT).
Per realizzare una buona e utile indagine è necessario mappare i processi e non i singoli procedimenti amministrativi (che sono ben più numerosi dei processi). Un “processo” può essere definito come una sequenza di attività interrelate ed interagenti che trasformano delle risorse in un output destinato a un soggetto interno o esterno.
La mappatura dei processi si articola in tre fasi:
   1. Identificazione;
   2. Descrizione;
   3. Rappresentazione.
La prima fase (identificazione) consiste nel definire la lista dei processi che dovranno essere accuratamente esaminati e descritti. Una volta identificati i processi, è opportuno comprendere le modalità di svolgimento del processo, attraverso la loro “descrizione” (fase 2). Tale procedimento è particolarmente rilevante perché consente di identificare le criticità del processo, in funzione delle sue modalità di svolgimento. Al riguardo, le indicazioni dell’ANAC, propendono verso la direzione di giungere ad una descrizione analitica dei processi dell’amministrazione, in maniera progressiva, nei diversi cicli annuali di gestione del rischio corruttivo, tenendo conto delle risorse e delle competenze effettivamente disponibili nell’ente.
L’ultima fase (3) della mappatura dei processi è la rappresentazione degli elementi descrittivi di ogni specifico processo preso in esame. La forma più semplice ed immediata di rappresentazione è quella tabellare dove è possibile inserire i vari elementi a seconda del livello analitico adottato.
Negli enti locali, non di maggiore dimensione (come può essere il comune che ha posto il quesito), occorre procedere alla mappatura dei processi con la giusta gradualità provvedendo:
   • all’identificazione di tutti i processi, riferiti all’insieme dell’attività amministrativa;
   • alla descrizione, iniziale, dei processi più a rischio, con ampliamento annuale;
   • alla rappresentazione dei processi in formato tabellare, partendo da alcuni elementi descrittivi strettamente funzionali.
La mappatura dei processi –vissuta con gradualità e secondo livelli successivi di affinamento degli elementi considerati– rappresenta un requisito indispensabile per la formulazione di adeguate misure di prevenzione e incide nella qualità complessiva della gestione del rischio.
Per la mappatura è fondamentale il coinvolgimento dei responsabili apicali delle strutture organizzative ed, in tal senso, potrebbe essere opportuno costituire un apposito gruppo di lavoro. L’ANAC, inoltre, suggerisce di avvalersi di strumenti e soluzioni informatiche idonee a facilitare la rilevazione e l’elaborazione dei dati e delle informazioni necessarie, anche sfruttando ogni possibile sinergia con analoghe iniziative relative ad altri contesti, quali: il servizio di controllo di gestione; la certificazione di qualità; l’analisi dei carichi di lavoro; il piano della performance.
Un’ultima –importante– osservazione va rivolta alla possibilità di affidare la mappatura dei processi ad un soggetto esterno. Numerose sentenze
[1], nel corso degli ultimi anni, hanno stabilito che si determina un danno erariale per l’ente, qualora il responsabile anticorruzione (o altro soggetto) affidi all’esterno il servizio di mappatura dei processi o, peggio ancora, la redazione del Piano triennale, di cui la mappatura è un elemento essenziale di analisi.
In tal senso il portato normativo dell’articolo 1, comma 8, quarto periodo, della legge 190/2012
[2], non lascia dubbi di sorta, così come i costanti orientamenti dell’ANAC che, testualmente prevedono: «non convince l’affermazione della difesa che la mappatura del rischio sarebbe un elemento prodromico alla redazione del piano. Infatti, l’analisi dei rischi è un aspetto fondamentale del piano stesso e ne costituisce una delle componenti più significative, secondo quanto previsto dall’ANAC nei propri modelli» (delibera ANAC n. 748 del 05.09.2018).
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[1] Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio; sentenza 04.05.2018; Corte dei conti, sezione giurisdizionale Piemonte, sentenza n. 253/2019; Delibera ANAC numero 748 del 05.09.2018;
[2] Articolo 1, co. 8, legge 190/2012: “L’attività di elaborazione del piano non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione”
(03.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso.
DOMANDA:
Si chiede di conoscere se per il cambio di destinazione d'uso di un locale dalla categoria catastale C1 (locali commerciali ed artigianali) alla categoria C2 (deposito), siano dovuti gli oneri di urbanizzazione a favore del Comune. Il fabbricato in questione è stato costruito nel 1967.
RISPOSTA:
Con riferimento al quesito posto, si osserva quanto segue.
Preliminarmente, si rileva che la giurisprudenza è costante nell'affermare che il fondamento degli oneri di urbanizzazione (Legge n. 10/1977) non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (tra le tante, Consiglio di Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.04.2016, n. 1769).
La giurisprudenza, inoltre, nel ribadire che la funzione e la causa giuridica degli oneri di urbanizzazione sono quelle di contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, sicché l'unico criterio per determinare se gli oneri siano dovuti o meno consiste nel carico urbanistico derivante dall'attività edilizia, ha precisato che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelli esistenti (Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2694).
È stato altresì precisato che poiché l'assoggettamento agli oneri di urbanizzazione trova fondamento nel maggior carico urbanistico generato da un intervento edilizio, deve escludersi la suddetta imposizione quando l'intervento consista in un mutamento di destinazione d'uso che avvenga all'interno della stessa categoria funzionale mentre il pagamento è dovuto quando il mutamento di destinazione d'uso determini il passaggio ad una categoria funzionale autonoma avente maggiore carico urbanistico rispetto a quella pregressa (Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 30.04.2018, n. 368).
Per quanto riguarda l'individuazione delle categorie funzionali, preme rilevare che il legislatore, con l’art. 17, comma 1, lett. n), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, ha introdotto nel Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (D.P.R. n. 380/2001) l’art. 23-ter, rubricato “Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante”, che dispone quanto segue: “1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai princìpi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito
”.
L'Allegato A della Deliberazione G.R. Molise 25.03.2019, n. 92 contiene la seguente definizione di carico urbanistico: “Fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d'uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico l'aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all'attuazione di interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d'uso”.
Tutto ciò premesso, venendo all'esame del caso di specie, si osserva che, per poter rispondere al quesito posto occorre verificare se il cambio di destinazione d’uso di un locale dalla categoria catastale C1 (locali commerciali ed artigianali) alla categoria C2 (deposito) costituisca un cambio di destinazione d’uso operato tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, in caso affermativo, se tale passaggio avvenga ad una categoria funzionale autonoma avente maggiore carico urbanistico di quella originaria, oppure costituisca un cambio di destinazione d'uso operato all'interno della stessa categoria funzionale.
Tra le categorie funzionali previste dal vigente art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 (che, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, trova applicazione diretta qualora la Regione interessata –nel caso di specie, la Regione Molise– non abbia adeguato la propria legislazione ai principi di cui al suddetto articolo entro il termine di 90 giorni dalla sua entrata in vigore e che dunque costituisce la norma di riferimento ai fini della risposta al quesito in oggetto) non si rinviene in maniera espressa la destinazione a deposito di cui alla categoria catastale C2.
Pertanto, occorre cercare di ricondurre la predetta destinazione a deposito in una delle categorie previste dalla predetta norma. A tal fine, potrebbe essere di aiuto la verifica dell’effettiva destinazione urbanistica dell’area in cui è situato l’immobile da assoggettare al cambio di destinazione d'uso, che si ritiene dunque opportuno che venga compiuta da parte di chi ha posto il quesito e che deve essere effettuata, in particolare, prendendo in esame le previsioni dello strumento urbanistico comunale vigente, alle quali non viene fatto alcun riferimento nel testo del quesito.
Considerato che, in linea generale, l'attività di deposito e/o di magazzino produce ricchezza sul ricovero e sullo spostamento di oggetti/merci e non sulla loro creazione o produzione, si ritiene che la destinazione a deposito possa essere ricondotta alla categoria funzionale “commerciale” di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001. Occorrerà poi indagare a quale categoria funzionale corrisponda la destinazione d'uso “originaria” dell’immobile in questione.
Al riguardo, considerato che il locale presenta una categoria catastale C1 (che corrisponde a “negozi e botteghe”), ferma restando la necessità, già sopra evidenziata, di verificare la destinazione urbanistica effettiva dell’area in cui l'immobile ricade, si ritiene che tale destinazione rientri anch'essa nella categoria funzionale “commerciale” di cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Pertanto, considerato che, alla luce delle suddette considerazioni, il cambio di destinazione d'uso prospettato nel quesito, fermi restando gli opportuni approfondimenti da effettuare in base alle previsioni dello strumento urbanistico comunale vigente, pare suscettibile di essere qualificato come cambio di destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale (commerciale), si ritiene di poter affermare, anche alla luce della giurisprudenza sopra citata, che non siano dovuti gli oneri di urbanizzazione.
Ad ulteriore sostegno di quanto sopra, si osserva, inoltre, che peraltro il mutamento di destinazione d'uso da negozio a deposito (o magazzino) non pare comportare un incremento del carico urbanistico rispetto alla destinazione originaria (novembre 2019 - tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIter assunzione art. 110.
Domanda
Quale potrebbe essere l’iter per una procedura di assunzione ai sensi dell’art. 110 del TUEL?
Risposta
Riteniamo che l’iter procedurale da seguire è, in parte, simile a quello necessario in generale per le assunzioni a tempo indeterminato o a tempo determinato di altro genere.
L’ente dovrà prevedere, nell’ordine:
   1. l’inserimento dell’assunzione a tempo determinato in parola, con espressa previsione del ricorso all’art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 (che rileva, com’è noto, per la copertura di posti previsti in dotazione organica), all’interno del PTFP (Piano Triennale dei Fabbisogni del Personale), deliberato dalla giunta comunale, o di suo stralcio/modifica qualora l’azione assunzionale sia stabilita dall’organo politico a integrazione di un piano già adottato;
   2. l’adozione di determina, a cura del responsabile competente, di avvio del procedimento e di emanazione dell’avviso per la copertura del posto de quo;
   3. la pubblicazione dell’avviso di selezione, senza obbligo di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma certamente sul sito istituzionale dell’ente e per il periodo canonico di almeno 30 giorni;
   4. l’espletamento della procedura selettiva (sulla quale si tornerà nel seguito del parere, per tentare di meglio delinearne i contorni);
   5. a conclusione della procedura, l’adozione del decreto sindacale di nomina del candidato prescelto, la stesura del contratto di lavoro a t.d. e l’immissione in ruolo del candidato selezionato.
La procedura di scelta di un candidato da assumere a tempo determinato ai sensi dell’art. 110, comma 1, del richiamato TUEL, lungi dal consistere in una scelta meramente intuitu personae, è stata piuttosto recentemente inquadrata dal Consiglio di Stato (cfr. la sentenza Sez. V del 29.05.2017), come procedura avente natura non concorsuale, ma comunque di tipo selettivo: “L’art. 110, comma 1, t.u.e.l., regolante la procedura, prevede che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
Per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima partecipazione e selezione effettiva dei candidati, la procedura in questione non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente delle “procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni“.
Il terreno è “scivoloso”, ed occorre che l’ente presti la massima attenzione nel prevedere forme di garanzia del rispetto dei princìpi di pubblicità, trasparenza, massima partecipazione e selezione, ma anche che non strutturi la procedura stessa in forma di pubblico concorso, giacché di ciò non si tratta: il Consiglio di Stato, nella pronuncia citata, asseriva, tra l’altro, che proprio perché trattasi non di concorso pubblico, ma, comunque e in ultimo, di scelta di natura fiduciaria, la competenza giurisdizionale per eventuali controversie è del giudice del lavoro e non di quello amministrativo.
Si riporta di seguito un passaggio nodale della sentenza esaminata, che circoscrive un poco i contorni della “selezione” in argomento: “(…) Procedura meramente idoneativa deve, ai fini della controversia in esame, ritenersi quella prevista all’art. 110 del T.U.E.L. per la copertura, autorizzata dallo statuto dell’ente locale, di ‘posti di responsabili dei servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione’: la natura di mero ‘incarico a contratto’; la natura necessariamente temporanea dello stesso; lo scolpito ancoraggio temporale ne ultra quem al ‘mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia’; la prefigurata modalità di automatismo risolutorio in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie; la possibilità di formalizzazione, sia pure eccezionalmente e motivatamente, di contratto propriamente ‘di diritto privato’; la mancata previsione della nomina di una commissione giudicatrice, del (necessario) svolgimento di prove e della (correlata) formazione di formali graduatorie concorrono ad evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà che caratterizza la procedura in questione, che –per tal via– deve ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non concorsuale. (…)” (28.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione della giunta comunale. Quote di genere.
Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico. L’impossibilità di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere configura una situazione eccezionale che deve essere adeguatamente provata, con conseguente necessità di un’accurata e approfondita istruttoria e di un’altrettanto adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella percentuale di rappresentanza non riesca a garantire.
Il Comune chiede un parere in merito alla composizione della giunta comunale. Più in particolare riferisce che, a seguito delle dimissioni di una componente dell’organo giuntale, quest’ultimo non è rispettoso delle quote di genere. Chiede, pertanto, se sia possibile mantenere l’assetto attuale della giunta attesa la difficoltà di individuazione di un altro componente di sesso femminile e considerata l’imminenza del rinnovo del consiglio comunale.
L’articolo 18 dello statuto comunale, al comma 1, prevede che: “La Giunta Comunale è composta dal Sindaco, che la convoca senza formalità e la presiede, e da un numero di Assessori non superiore a sei, tra cui un Vice Sindaco
[1].
È nominata dal Sindaco che ne dà comunicazione al Consiglio nella prima seduta successiva alle elezioni, unitamente alla proposta degli indirizzi generali di governo.
Il Sindaco può nominare fino ad un massimo di due Assessori non Consiglieri, senza attribuire loro le funzioni di Vice Sindaco. I due Assessori dovranno essere individuati all’interno delle liste dei candidati alla carica di consigliere comunale collegate al Sindaco eletto
”.
Attesa la formulazione statutaria che fissa un numero massimo di assessori nominabili dal sindaco segue che questi potrebbe individuare un numero anche inferiore rispetto al massimo consentito. Sotto tale profilo giuridico, pertanto, l’attuale organo giuntale che risulta composto da quattro assessori più il sindaco potrebbe considerarsi correttamente costituito e legittimato ad operare.
Le considerazioni di cui sopra devono tuttavia tenere in debito conto anche il necessario rispetto del principio di parità di genere.
Al riguardo si osserva che l’articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 prevede che: “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Relativamente al caso in esame, su quattro assessori almeno due dovrebbero pertanto appartenere al genere meno rappresentato.
Preliminarmente si osserva che la norma citata deve essere applicata non solo con riguardo alle nomine assessorili effettuate all’indomani delle elezioni ma anche a quelle adottate in corso di consiliatura. Una diversa interpretazione, come affermato dal Supremo giudice amministrativo
[2], “consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione” che costituisce un “ineludibile parametro di legittimità” di tutti gli atti adottati nella sua vigenza.
La giurisprudenza ha affrontato, in diverse occasioni, la questione della valenza da attribuire alla norma sopra citata, e, in particolare, se essa “abbia o meno un limite intrinseco di operatività e cioè se, in ogni caso e senza alcuna eccezione , la composizione della giunta debba comunque assicurare la presenza dei due generi in misura non inferiore al 40% ovvero se sia astrattamente configurabile (e sistematicamente compatibile con quella previsione normativa) una situazione, di carattere assolutamente eccezionale, in cui, la giunta comunale possa ritenersi legittimamente costituita ed altrettanto legittimamente operante, pur se quella percentuale non sia stata rispettata
[3].
Il giudice amministrativo
[4] nell’osservare che l’applicazione della prescrizione contenuta nell’articolo 1, comma 137, della legge 56/2014, volta a garantire la parità tra i sessi e conseguentemente le reciproche pari opportunità, deve essere contemperata con il principio, anch’esso di valenza costituzionale, di continuità delle “funzioni politico-amministrative”, afferma che “il giusto contemperamento dei due delineati principi costituzionali che vengono in gioco (e cioè il limite intrinseco, logico-sistematico, di operatività della norma in questione) può ragionevolmente rintracciarsi nella effettiva impossibilità di assicurare nella composizione della giunta comunale la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge, impossibilità che deve essere adeguatamente provata e che pertanto si risolve nella necessità di un’accurata e approfondita istruttoria ed in un’altrettanto adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella percentuale di rappresentanza non riesca a rispettare”.
Ancora si è affermato che “l’impossibilità in concreto di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere debba risultare in modo puntuale ed inequivoco e debba avere un carattere tendenzialmente oggettivo”.
Sul fatto che l’impossibilità di rispettare la parità di genere nell’organo giuntale debba essere adeguatamente provata si è ulteriormente espressa la giurisprudenza amministrativa rilevando che “il Sindaco ha l’obbligo di svolgere indagini conoscitive, intese ad individuare, all’interno della società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento del Comune, personalità femminili in possesso di quelle qualità–doti professionali, nonché condivisione dei valori etico-politici propri della maggioranza uscita vittoriosa alle elezioni, idonee a ricoprire l’incarico di componente la giunta municipale
[5].
Sempre con riferimento al tipo di prova di cui il sindaco dovrebbe avvalersi a giustificazione del mancato rispetto del principio di parità di genere nell’organo giuntale la giurisprudenza
[6] ha affermato come si tratti di una prova “particolarmente ardua, in quanto non possono essere utilizzate motivazioni di tipo meramente soggettivo (mancanza di conoscenza personale o di un preesistente rapporto fiduciario) e neppure ragioni di opportunità collegate agli equilibri tra i gruppi politici di maggioranza”.
Le considerazioni di cui sopra risultano avallate anche dal Ministero dell’Interno che, in diverse occasioni, nell’affrontare la questione in riferimento, ha fatto proprie le conclusioni cui era giunta la giurisprudenza amministrativa
[7].
Quanto all’ulteriore questione della validità delle deliberazioni adottate dalla giunta in caso di mancata osservanza della normativa in materia di quote di genere, il Ministero dell’Interno
[8] ha richiamato le osservazioni formulate al riguardo dal Consiglio di Stato in sede consultiva [9] il quale ha precisato che “vanno considerate due ipotesi. La prima si riferisce al caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato, mentre è pendente ricorso giurisdizionale avverso l’irregolare composizione dell’organo. Come ricordato dalla stessa Amministrazione richiedente, la questione è stata risolta dalla giurisprudenza amministrativa, che si è espressa nel senso che l’organo in carica si presume validamente costituito sino al deposito della sentenza che ne accerta l’illegittima composizione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, 13.01.2012, n. 1). Fino a quel momento la Giunta o il Consiglio dispongono dei pieni poteri e i relativi atti beneficiano del principio della continuità degli organi amministrativi. Tale orientamento è condiviso dalla Sezione.
La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato da un organo la cui irregolare composizione non sia stata impugnata. Anche in questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla validità dell’atto. L’atto, se non impugnato nei termini, è divenuto inoppugnabile, esso ha acquistato stabilità
[10]”.
Concludendo, con riferimento al quesito posto, compete al sindaco valutare se sussistono motivazioni sufficienti, idonee a comprovare l’impossibilità di nomina di un ulteriore componente femminile all’interno della giunta comunale, coerenti con le considerazioni espresse dalla giurisprudenza sull’argomento e sopra riportate
[11]. Atteso che, nel caso in esame, la mancata rappresentanza di genere nella misura richiesta dalla legge è sopravvenuta nel corso del mandato, non è dato riscontrare la presenza di un atto (quale sarebbe il decreto di nomina) nel quale dare conto dell’iter motivazionale seguito. Quest’ultimo potrebbe, comunque, essere portato a conoscenza del consiglio comunale da parte del sindaco.
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[1] Per completezza espositiva si segnala che, ai sensi dell’articolo 12, comma 39, della legge regionale 29.12.2010, n. 22 “Il numero massimo degli Assessori comunali è determinato, per ciascun comune, in misura pari a un quarto del numero dei Consiglieri del comune, con arrotondamento all’unità superiore. Nel calcolo del numero dei Consiglieri comunali si computa il Sindaco. […]”.
Come precisato anche nella circolare n. 02/EL del 25.03.2019 dell’allora Direzione centrale autonomie locali, sicurezza e politiche dell’immigrazione “a prescindere dall’effettivo adeguamento statutario, nell’ipotesi in cui lo statuto dell’Ente preveda la nomina di un numero di assessori superiore al massimo consentito dalla legge regionale, il Sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato dalla legge regionale stessa”.
Atteso che il Comune ha una popolazione compresa tra i 3.001 e i 10.000 abitanti il numero massimo di assessori sarebbe di cinque (più il sindaco). Nel caso in esame la giunta comunale risultava formata da 5 assessori e, a seguito delle dimissioni di uno di essi, la stessa risulta attualmente composta da 4 assessori (più il sindaco) di cui uno solo di sesso femminile.
Si ricorda, inoltre, che con legge regionale 09.08.2018, n. 20 (articolo 10, comma 46, che ha inserito l’articolo 39-bis della legge regionale 22/2010) è stata introdotta la possibilità per il sindaco di nominare, qualora sussistano particolari esigenze di governo locale anche di natura transitoria, un ulteriore assessore, oltre il numero massimo previsto.
[2] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 05.10.2015, n. 4626.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 03.02.2016, n. 406.
[4] Consiglio di Stato, sentenza 406/2016, citata in nota 3.
[5] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza del 09.01.2015, n. 1. Nello stesso senso si veda TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 07.02.2013, n. 289.
[6] TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sentenza del 05.01.2012, n. 1.
[7] Si vedano i pareri del Ministero dell’Interno del 05.01.2018 e del 16.05.2017.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 03.04.2018.
[9] Consiglio di Stato, parere del 19.01.2015, n. 93.
[10] Prosegue l’indicato parere affermando che: “A chiarimento si considera che il potere amministrativo è conferito dalla legge per la cura di interessi che non sono propri del soggetto che lo esercita e che richiedono una situazione di supremazia nell’ordinamento giuridico (principio di legalità). A detto principio si aggiungono il principio di necessità, cioè il dovere del soggetto investito del potere di perseguire l’interesse pubblico sino a quando perduri la situazione che ha originato il potere e l’esigenza di curare gli interessi per cui è esercitato.
Ne consegue che la stabilità dell’azione amministrativa è premessa e sintesi dei principi generali ai quali deve ispirarsi l’esercizio del potere pubblico: economicità, efficacia e non aggravamento, pubblicità e trasparenza, ragionevolezza e proporzionalità, buona fede e legittimo affidamento”.
[11] Non pare al riguardo possibile giustificare la mancata nomina del componente femminile col fatto che è imminente il rinnovo del consiglio comunale
(27.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVIE' obbligatorio inserire l'avviso sull'impugnazione degli atti nelle comunicazioni di avvio del procedimento o negli altri atti "interni" diversi dal provvedimento finale?
La questione è frutto di un percorso giurisprudenziale sui cosiddetti "atti endoprocedimentali" per la quale si richiamano i recenti orientamenti:
   • “La regola secondo la quale l'atto endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile, giacché la lesione della sfera giuridica del suo destinatario è normalmente imputabile all'atto che conclude il procedimento, è di carattere generale; la possibilità di un'impugnazione anticipata è invece di carattere eccezionale e riconosciuta solo in rapporto a fattispecie particolari, ossia ad atti di natura vincolata idonei a conformare in maniera netta la determinazione conclusiva oppure in ragione di atti interlocutori che comportino un arresto procedimentale";
   • “Il provvedimento di aggiudicazione provvisoria, attualmente proposta di aggiudicazione, è un atto endoprocedimentale privo di valore decisorio e che necessita di conferma. Quindi da tale atto non decorre alcunché anche in termini di piena conoscenza e relativamente al rito "super-accelerato" di cui all'art. 120, comma 2-bis, D.Lgs. n. 104/2010";
   • “Il concorrente che abbia impugnato gli atti della procedura di gara precedenti l'aggiudicazione - normalmente il provvedimento che ne ha disposto esclusione - è tenuto ad impugnare anche il provvedimento di aggiudicazione sopravvenuto nel corso del giudizio a pena di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse. Ciò in ragione del carattere inoppugnabile del provvedimento finale, attributivo dell'utilitas all'aggiudicatario. Fermo restando, quindi, l'onere di impugnazione immediata dell'esclusione -quale atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed autonomamente lesivo- rimane fermo l'onere del concorrente escluso di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento avviato con l'indizione della gara, ovverosia l'atto di approvazione della graduatoria finale";
   • “La comunicazione di avvio del procedimento volto ad identificare il soggetto responsabile del potenziale inquinamento della matrice ambientale ha natura endoprocedimentale e il contenuto non immediatamente lesivo dell'atto rendono il medesimo non autonomamente e immediatamente impugnabile. Solo nell'ipotesi (da dimostrarsi, a cura del ricorrente) in cui detto atto sia concretamente idoneo ad arrecare lesioni alla sfera giuridica del destinatario in un momento precedente l'avvio dell'istruttoria e la conclusione stessa dell'iter procedimentale, potrebbe ammettersi l'immediata impugnazione del medesimo in via autonoma, anziché quale atto meramente presupposto rispetto al provvedimento finale che segna la formale conclusione del procedimento e la manifestazione esterna della volontà dell'Amministrazione".
Come è possibile notare da questa rassegna se da un lato l'Amministrazione non ha l'onere di inserire la formula sulla impugnabilità degli atti in relazione a quelli di natura endoprocedimentale, allo stesso tempo ciò non esclude che l'interessato possa (ed in taluni casi debba) procedere alla autonoma impugnazione degli stessi in presenza dei necessari presupposti normativi.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 3
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. III, 02.11.2019, n. 7476 - Cons. Stato Sez. V, 31.07.2019, n. 5428 - Cons. Stato Sez. III, 18.04.2019, n. 2534 - Cons. Stato Sez. IV, 11.10.2018, n. 5846 - Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2018, n. 5814
(27.11.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI SERVIZIAdeguamento/revisione del prezzo di contratto.
Domanda
Nei mesi scorsi, diversi uffici di questo comune hanno provveduto al rinnovo di contratti di servizi (le clausole risultavano espressamente previste nei bandi di gara). A fronte di quanto, stiamo ricevendo una serie di diffide per l’adeguamento del prezzo del contratto. In certi casi si tratta anche di importi consistenti.
Si chiede di avere chiarimenti su come possiamo procedere e se l’ente è realmente obbligato a corrispondere gli importi richiesti.
Risposta
La questione della revisione/adeguamento del prezzo di contratto (che riguarda, in particolar modo, i contratti di servizi) è una questione estremamente delicata che può implicare danno erariale nel caso in cui l’adeguamento non sia dovuto.
È altresì noto, che l’attuale codice dei contratti –a differenza di quanto previsto dal decreto legislativo 163/2006, art. 115- non ha ribadito la clausola obbligatoria dell’adeguamento/revisione del prezzo del contratto. La cui funzione era, ed è, quella di evitare uno squilibrio nel sinallagma contrattuale e che il fornitore/prestatore a fronte di prezzi di mercato aumentati rispetto all’originaria pattuizione, riduca la “qualità” delle proprie prestazioni.
Proprio per evitare queste situazioni si suggerisce, in ogni caso, di prevedere la clausola di revisione (che dovrebbe operare dopo il primo anno di contratto).
Nel caso di specie, il quesito verte sui rapporti tra adeguamento del prezzo e rinnovo del contratto.
Il rinnovo, come ribadito anche da recentissima giurisprudenza, non può essere configurato propriamente come una continuazione del pregresso contratto. In realtà si tratta di un nuovo contratto (infatti è necessario un nuovo CIG) fondato su una nuova pattuizione tra le parti con conseguente nuovo consenso espresso dal fornitore che, legittimamente, non può pretendere una modifica del prezzo che egli stesso ha accettato.
In questo senso, in tempi recentissimi, il Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 7077/2019 che è tornato sulla vicenda ribadendo l’orientamento ultra consolidato.
In sentenza si legge che, come “affermato di recente dalla Sezione (24.01.2019, n. 613) –riprendendo peraltro principi dalla stessa già espressi (27.08.2018, n. 5059)– presupposto per l’applicazione” in tema di revisione del prezzo (la sentenza si è pronunciata sul pregresso articolo 115 del decreto legislativo 163/2006) “è che vi sia stata mera proroga e non un rinnovo del rapporto contrattuale:laddove la prima consiste nel solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall’atto originario”.
Il rinnovo, invece “scaturisce da una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi con l’integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse se non più attuali. Dette specifiche manifestazioni di volontà danno corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a quello originario e ancorché privi di alcuna proposta di modifica del corrispettivo.
Laddove ricorra l’ipotesi della rinegoziazione, prosegue il giudice, “il diritto alla revisione non può configurarsi in quanto l’impresa che ha beneficiato di una speciale disposizione la quale preveda la possibilità di rinnovo del contratto senza gara a condizione di un prezzo concordato, non può poi anche pretendere di applicare allo stesso contratto il meccanismo della revisione dei prezzi (Cons. St., sez. IV, 14.05.2014, n. 2479 e 01.06.2010, n. 3474; id., sez. VI, 25.07.2006, n. 4640).
Nel momento in cui le parti confermano il prezzo originario, ciò non può che significare che l’originario assetto di interessi ha conservato le originarie condizioni di equità e sostenibilità economica (su cui non incide, evidentemente, un maggiore o minore margine di lucro), secondo l’autonomo e libero apprezzamento degli stessi interessati (Cons. St., sez. VI, 28.05.2019, n. 3478)
”.
Pertanto, alla richiesta di adeguamento, nel caso di rinnovo, il RUP potrà tranquillamente respingere l’istanza (27.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: immobili abusivi e acquisizione della agibilità (Regione Emilia Romagna, nota 26.11.2019 n. 870874 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIAPubblicazioni dati ambientali: nuovi obblighi.
Domanda
In materia di pubblicazione delle informazioni ambientali, di cui all’art. 40, del d.lgs. 33/2013, è cambiato qualcosa ultimamente?
Risposta
Le norme del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd Decreto Trasparenza), per ciò che concerne l’articolo 40, rubricato “Pubblicazione e accesso alle informazioni ambientali”, non sono state modificate/integrate da alcuna norma di legge, per cui gli obblighi restano quelli disciplinati all’articolo 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 195/2005. Da segnalare, però, ci sono le novità introdotte dall’articolo 6, del decreto-legge 14.10.2019, n. 111, tutt’ora in fase di conversione.
L’articolo 6, rubricato “Pubblicità dei dati ambientali”, introduce nuovi obblighi di trasparenza per gli enti pubblici e concessionari di servizi pubblici, i quali dovranno rendere noti –nell’ambito degli obblighi di cui all’art. 40, del d.lgs. 33/2013– anche i dati ambientali risultanti da rilevazioni effettuate dai medesimi soggetti, ai sensi della normativa vigente.
In applicazione di tale disposizione, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto (quindi, dal 15.04.2020), i gestori di centraline e di sistemi di rilevamento automatico dell’inquinamento atmosferico, della qualità dell’aria e di altre forme di inquinamento ed i gestori del servizio idrico, dovranno pubblicare via web le informazioni sul funzionamento del dispositivo, sui rilevamenti effettuati e tutti i dati acquisiti.
Come sempre previsto nelle normative in materia di prevenzione e trasparenza, anche il comma 3, del citato articolo 6, ci ricorda che le pubbliche amministrazioni provvedono a svolgere le attività di cui ai commi 1 e 2 con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Tutti i dati e le informazioni di cui sopra (comma 4) saranno, poi, acquisiti, con modalità telematica, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), il quale provvederà a renderli pubblici attraverso una sezione dedicata e fruibile nel sito istituzionale del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, denominata “Informambiente”, anche nell’ambito della sezione “Amministrazione trasparente” (26.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContenuto avviso selezione art. 110.
Domanda
Rispetto alle caratteristiche specifiche che potrebbe avere un avviso per un incarico ex art. 110 del d.lgs. 267/2000, quali suggerimenti potete proporre?
Risposta
A nostro parere, queste le indicazioni specifiche che ci sentiamo di suggerire.
L’ente dovrà strutturare l’avviso ponendo in evidenza quali sono le caratteristiche della professionalità che si ricerca, in cosa consiste l’alta specializzazione che si va a ricoprire e quali sono le caratteristiche curriculari, esperienziali e formative che i candidati debbono possedere per rispondere positivamente alla richiesta di cui sopra; dovrà altresì chiaramente indicare requisiti, termini e modalità di presentazione delle domande di ammissione, e criteri di attribuzione dell’idoneità o meno; dovrà chiarire che a procedura è finalizzata all’individuazione di soggetti idonei e alla successiva scelta di un soggetto, tra quelli, cui sarà affidato, eventualmente, l’incarico; dovrà chiarire la durata dell’incarico, che non potrà comunque eccedere la durata del mandato del sindaco, e modalità ed eventuali ragioni di revoca anticipata dello stesso.
L’ente dovrà garantire la pubblicazione su sito istituzionale, meglio nella sezione dell’Amministrazione Trasparente e nella pagina riservata (per mera analogia e facilità di reperimento da parte dei potenziali interessati) ai bandi di concorso; non è assolutamente dovuta, attesa la distinzione tracciata rispetto ai pubblici concorsi, la pubblicazione in G.U., ma ogni forma ulteriore di pubblicità (invio per la pubblicazione all’albo di enti limitrofi, nota su giornali locali, etc.) che l’ente voglia prevedere è certamente nel senso dell’allargamento della partecipazione e della trasparenza; si dovrà prevedere una comparazione delle candidature che pervengano, da effettuarsi, appare sensato, a mezzo della valutazione dei curricula degli eventuali candidati nonché, se lo si ritiene, attraverso un colloquio conoscitivo; il fine è, come disposto dalla fonte legale “(…) accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
La comparazione di cui sopra, e la conseguente valutazione del candidato idoneo alla copertura del posto di che trattasi, potrà essere svolta da una “commissione”, costituita presso l’ente ad hoc; se lo si ritiene, in analogia (unicamente per ragioni di “operatività”) con quelle che si costituiscono per i concorsi, secondo le previsioni del regolamento comunale in materia; nulla vieta, però, che l’ente individui, motivando il tutto in seno alla relativa determinazione, altre modalità per la composizione della commissione, stabilendo, ancora a mero titolo di esempio, che ne facciano parte il segretario generale, il responsabile di servizio competente, altro responsabile di servizio che abbia attinenza con la figura che si intende coprire: è essenziale, però, che la composizione della commissione abbia natura tecnica, evitando, per ovvie ragioni, il coinvolgimento di organi politici.
La commissione potrà opportunamente redigere un verbale dei propri lavori, nel quale motivare le valutazioni attribuite ai curricula e ai colloqui, non pervenendo all’emanazione di una graduatoria, quanto piuttosto a un giudizio di idoneità o inidoneità all’incarico (non casualmente il supremo giudice amministrativo si spinge a definire la procedura de qua come procedura idoneativa): gli idonei potranno essere più d’uno, ma non si potrà in alcun modo, successivamente, far ricorso a quella “lista” di idonei per ulteriori assunzioni.
Una volta terminato il proprio compito, stante, per usare l’espressione del giudice amministrativo, la natura comunque “fiduciaria” dell’incarico, appare ragionevole che la commissione rassegni gli esiti del proprio lavoro al sindaco, perché compia la propria scelta in considerazione degli elementi che la commissione stessa ha potuto porre alla sua attenzione, effettuando se lo ritiene anche un ulteriore colloquio con l’interessato o gli interessati, e adottando infine, se lo ritiene, il decreto di nomina. Nell’avviso sarà utile precisare che il sindaco si riserva comunque di non scegliere alcuno dei candidati ritenuti idonei, se non intende farlo per ragioni ulteriori e rimesse alla sua valutazione.
L’iter indicato sopra, che vuole essere un suggerimento per l’ente nel non semplice tentativo di regolare operativamente un procedimento che è più facilmente definibile per ciò che non è piuttosto che per ciò che è, sembra rispettoso, a parere di chi scrive, di quanto evidenziato tanto a livello normativo che dalla giurisprudenza più recente. Naturalmente, come sempre e ancor di più, la motivazione posta alla base delle scelte compiute nelle varie fasi, è fondamento importantissimo per il buon esito dell’intero procedimento e per prevenire, per quanto possibile, l’insorgenza di contenziosi (21.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI FORNITUREGli acquisti informatici infra 5.000 deroga alle piattaforme telematiche e al principio di rotazione?
Domanda
Nel caso di acquisti informatici e di connettività è applicabile l’art. 1, co. 450, della legge n. 296/2006, come modificato dalla legge 145 del 30.12.2018, che estende a 5.000 euro la soglia di esenzione degli acquisti tramite il mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero mediante i sistemi telematici messi a disposizione dalla centrale regionale di riferimento?
Tale soglia inoltre può essere utilizzata quale deroga al principio di rotazione nella forma della sintetica motivazione?
Risposta
La norma citata nel quesito, in particolare l’art. 1, co. 450, della l. 296/2006 come modificata dalla legge 145/2018 prevede l’obbligo del ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 5.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo comunitario.
Tuttavia per gli acquisti informatici e di connettività è prevista una disciplina particolare contenuta nell’art. 1, co. 512, della L. 208/2015, che stabilisce “Al fine di garantire l’ottimizzazione e la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività, fermi restando gli obblighi di acquisizione centralizzata previsti per i beni e servizi dalla normativa vigente, le amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, provvedono ai propri approvvigionamenti esclusivamente tramite gli strumenti di acquisto e di negoziazione di Consip Spa o dei soggetti aggregatori, ivi comprese le centrali di committenza regionali, per i beni e i servizi disponibili presso gli stessi soggetti".
Nel rapporto tra le due norme si ritiene di aderire all’orientamento della Corte dei Conti Umbria che nella pronuncia n. 52/2016/PAR del 28.04.2016 ha ritenuto che l’art. 1, co. 512, L. 208/2015, sia norma speciale rispetto alla disciplina generale contenuta all’art. 1, co. 450, L. 296/2006, e quindi applicabile anche per importi inferiori.
Sulla base di tali considerazioni nel caso di acquisti di prestazioni informatiche o di connettività infra 5.000 sarà possibile:
   • aderire a Convenzione/Accordo quadro Consip/Soggetto Aggregatore/Centrale di committenza regionale;
   • utilizzare il MePa nella forma dell’ODA, Trattativa Diretta o RDO;
   • utilizzare gli strumenti telematici di negoziazione del Soggetto Aggregatore/Centrale di committenza regionale o di Consip.
L’eventuale deroga è possibile solo nel caso di bene o servizio non disponibile sulle piattaforme, o non idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione, situazione praticamente impossibile se si tiene conto delle tipologie di prestazioni presenti sul MePa di Consip, senza considerare le altre piattaforme, ovvero in casi di necessità ed urgenza comunque funzionali ad assicurare la continuità della gestione amministrativa.
Ipotesi quest’ultima che può essere soddisfatta mediante il ricorso alla trattativa diretta, e di fatto incompatibile con la condizione di legittimità di un acquisto extra-mepa, che prevede l’acquisizione dell’autorizzazione motivata dell’organo di vertice amministrativo.
Si aggiunga a tale obbligo anche quello di comunicazione all’Autorità Nazionale Anticorruzione e all’Agid, che si contrappone con il principio di semplificazione dei microacquisti anche in termini di economia procedimentale.
Con riferimento all’ultima parte del quesito, ovvero alla possibilità di ritenere innalzata a infra 5.000 la soglia prevista nelle linee guida n. 4 post sblocca cantieri, nella parte del paragrafo che consente di derogare all’applicazione del principio di rotazione con scelta sinteticamente motivata, contenuta nella determinazione a contrarre o in atto equivalente, si ritiene sostenibile tale posizione, proprio in considerazione del parere favorevole reso dal Consiglio di Stato n. 1312 dell’11.04.2019 proprio sulla bozza di aggiornamento alla linee guida n. 4, che prevedeva appunto, alla luce della modifica legislativa di cui in premessa, l’innalzamento di tale soglia.
Adeguamento che non ha avuto seguito in applicazione dell’art. 216, co. 27-octies, del codice dei contratti pubblici, secondo cui, nelle more dell’adozione del regolamento unico, l’ANAC è autorizzata a modificare le Linee guida n. 4 ai soli fini dell’archiviazione della procedura di infrazione n. 2018/2273 (20.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOCedere la propria firma digitale quali reati comporta?
È possibile avere qualche riferimento normativo e giurisprudenziale nel quale si dispone la sanzione, sia al soggetto che cede la propria firma digitale, sia al soggetto che impropriamente la usa al posto del legittimo titolare?
Punto di partenza della riflessione è la norma prevista nel “Codice dell’Amministrazione digitale” (“Cad”).
L’art. 32, comma 1, del “Cad”, dispone che “il titolare del certificato di firma è tenuto ad assicurare la custodia del dispositivo di firma o degli strumenti di autenticazione informatica per l’utilizzo del dispositivo di firma da remoto, e ad adottare tutte le misure organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri; è altresì tenuto ad utilizzare personalmente il dispositivo di firma”.
Inoltre, l’art. 21 sempre del “Cad” prevede che “l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria”.
Dalla lettura di queste disposizioni emerge chiaramente la volontà del Legislatore di assicurare un uso affidabile del dispositivo di firma digitale che, a differenza della firma autografa, ha delle debolezze nella certa riconducibilità al suo titolare. Del resto, l’associazione “titolare/dispositivo di firma” è “asettica”, basandosi unicamente su un processo di identificazione significativa a 2 fattori (qualcosa che hai + qualcosa che conosci), che nella pratica si concretizza in una smart card/dispositivo usb/password accesso al server di firma remoto più il Pin.
In altre parole, la modalità di identificazione prevista per attivare la procedura di firma non prevede un riconoscimento biometrico che obblighi la presenza del titolare.
La mancanza, poi, di qualsiasi elemento grafometrico/biometrico rende impossibile l’attività del grafologo utile a determinare l’autenticità della firma in caso di disconoscimento.
L’utilizzo “improprio” della firma digitale, oltre ad essere vietato dal Legislatore, genera delle conseguenze anche sul piano giuridico probatorio del documento amministrativo informatico prodotto. In questo senso la giurisprudenza si è già espressa con alcune Sentenze, di cui si menzionano degli esempi:
   • Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 27.08.2013, n. 35543 e 10.03.2009, n. 16328: “sul piano oggettivo, ai fini della sussistenza del reato di falso in scrittura privata (art. 485 Cp.), il consenso o l’acquiescenza della persona di cui sia falsificata la firma, non svolge alcun rilievo, in quanto la tutela penale ha per oggetto non solo l’interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma anche la fede pubblica, la quale è compromessa nel momento in cui l’agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sé un vantaggio o per arrecare ad altri un danno; pertanto anche l’erroneo convincimento sull’effetto scriminante del consenso costituisce una inescusabile ignoranza della legge penale. Sul piano soggettivo, nel delitto in questione, per l’integrazione del dolo specifico non occorre il perseguimento di finalità illecite, poiché l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo”;
   • Cassazione penale, Sezione V, Sentenza 05.07.1990: “posto che il verbale di ricezione di dichiarazione di appello da parte del Cancelliere costituisce un atto pubblico facente fede fino a querela di falso, sussiste il reato di falso in atto pubblico anche qualora tale verbale sia stato redatto e sottoscritto da un coadiutore giudiziario col consenso del cancelliere, […]”;
   • Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 12.07.2011, n. 32856 e 12.05.2011, n. 24917: “in tema di falsità ideologica in atto pubblico (art. 483 Cp.), ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, e cioè la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione, mentre non è richiesto l’animus nocendi né l’animus decipiendi, con la conseguenza che il delitto sussiste non solo quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere ma anche quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno”.
Inoltre, occorre richiamare anche alcune disposizioni del Codice penale in merito alla falsità degli atti:
   • art. 476 Cp. “Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”: “il ‘Pubblico Ufficiale’, che, nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a 6 anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da 3 a 10 anni”;
   • art. 491-bis Cp. “Documenti informatici”: “se alcuna delle falsità previste dal presente Capo riguarda un documento informatico pubblico avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del Capo stesso concernenti gli atti pubblici”;
   • art. 493 Cp. “Falsità commesse da pubblici impiegati incaricati di un servizio pubblico”: “le disposizioni degli articoli precedenti sulle falsità commesse da Pubblici Ufficiali si applicano altresì agli impiegati dello Stato, o di un altro Ente pubblico, incaricati di un pubblico servizio, relativamente agli atti che essi redigono nell’esercizio delle loro attribuzioni” (20.11.2019 - tratto da www.entilocali-online.it).

APPALTISi sente parlare della liberalizzazione del subappalto ma questa stazione appaltante non ha ricevuto indicazioni operative.
Tale disposizione esiste, è già in vigore ed in quale norma è contenuta?

La questione è complessa in quanto non è frutto di un intervento normativo in senso proprio. Infatti il comma 2 dell'art. 105 prevede che "Il subappalto è il contratto con il quale l'appaltatore affida a terzi l'esecuzione di parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto di appalto. […] Fatto salvo quanto previsto dal comma 5, l'eventuale subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture."
Il limite quantitativo del 30% è stato innalzato al 40% dal D.L. 18.04.2019, n. 32 (c.d. "sblocca-cantieri"), in sede di conversione con la L. 14.06.2019, n. 55.
Nonostante questo intervento "in extremis" volto a scongiurare una sentenza sfavorevole della Unione europea la Corte giustizia Unione Europea Sez. V, 26.09.2019, n. 63/18 ha statuito "La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24.11.2015, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell'appalto che l'offerente è autorizzato a subappaltare a terzi".
Tale sentenza sembra preludere ad una "liberalizzazione" del subappalto, consentendo di superare i limiti previsti dalla disciplina nazionale (la sentenza si riferisce proprio alla disciplina contenuta nella legislazione italiana).
Tuttavia sa subito ANAC ha preso posizione verso la permanenza, in assenza di una disciplina legislativa nazionale, dei limiti citati. Ciò nel Comunicato 23.10.2019 della Autorità nazionale anticorruzione "Compatibilità clausole del Bando-tipo n. 1 con il D.Lgs. 19.04.2016, n. 50, come novellato dal d.l. 18.04.2019 n. 32, convertito in L. 14.06.2019 n. 55".
Successivamente con l'Atto di segnalazione n. 8 del 13.11.2019 ANAC ha evidenziato al Parlamento ed al Governo le criticità dell'attuale "vuoto normativo" e della possibilità di un contenzioso a fronte della richiesta degli operatori economici di dare applicazione ai contenuti della citata sentenza.
Anac segnala come "secondo la Corte, in sostanza, in virtù dell'art. 71 della Direttiva, ma anche dello stesso art. 105 del Codice, in presenza di obblighi informativi e di adempimenti procedurali per i quali l'impresa subappaltatrice può essere assoggettata a controlli analoghi a quelli che ricadono sull'impresa aggiudicataria, il limite al subappalto non costituisce lo strumento più efficace e utile per assicurare l'integrità del mercato dei contratti pubblici" e questo porterebbe ad una immediata applicazione del subappalto oltre il limite del 40% nel sopra soglia.
Ma precisa ANAC come "non è chiaro se la pronuncia abbia effetto sugli appalti al di sotto delle soglie di rilevanza comunitaria, tuttavia questo profilo andrebbe verificato soprattutto in relazione alle procedure di importo inferiore alle soglie di cui all'art. 35 del Codice che presentano carattere c.d. "transfrontaliero"".
Alla luce del citato quadro si suggerisce di procedere alla eventuale individuazione di limiti di subappalto solo previa adeguata puntuale motivazione, con riferimento a:
   - le caratteristiche particolari dell'appalto
   - il carattere non transfrontaliero dello stesso
In questo modo si riduce, anche se non si elimina, il rischio di un potenziale contenzioso in attesa dell'intervento legislativo statale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 105
Riferimenti di giurisprudenza
Corte giustizia Unione Europea Sez. V, 26.09.2019, n. 63/18
Documenti allegati

ANAC - Comunicato 23.10.2019 - ANAC - Atto di segnalazione 13.11.2019, n. 8
(20.11.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ATTI AMMINISTRATIVITrattamento dei dati personali: in cosa consiste?
Domanda
Si parla sempre di “trattamento dei dati personali” che viene effettuato dalle pubbliche amministrazioni, per esempio, sui procedimenti avviati con istanza di parte.
In termini pratici, con quali azioni si determina un “trattamento”?
Risposta
L’esatta definizione di cosa sia un trattamento dei dati personali, è data dall’articolo 4, punto 2, del Regolamento (UE) 2017/679, in materia di tutela dei dati personali.
Al riguardo, va detto che il Reg. UE è stato approvato il 27.04.2016 ed è in vigore dal 25 maggio del medesimo anno, essendo stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale Europea il 04.05.2016. Il Regolamento, come da clausola iniziale già prevista, ha iniziato ad avere piena efficacia, in tutti i 28 paesi della Unione Europea, solamente dal 25.05.2018, cioè due anni dopo la sua entrata in vigore.
Chiarito ciò, la definizione letterale di trattamento dei dati personali è la seguente:
   2) «trattamento»: qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione.
La definizione di cosa sia un “dato personale”, invece, è riportata nel medesimo articolo 4 del Reg. UE, che al punto 1, testualmente recita:
   1) «dato personale»: qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale.
Una volta circoscritto il significato di “dato personale” e di “trattamento dei dati personali”, non resta che soggiungere che il medesimo Regolamento (UE) 2016/679 prevede, all’articolo 30, comma 1, l’obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni di formare e tenere aggiornato un Registro delle attività di trattamento, svolte sotto la responsabilità del titolare del trattamento (che è l’ente medesimo, in persona del suo legale rappresentante).
Il Registro dovrà contenere, almeno, le seguenti informazioni:
   a) il nome e i dati di contatto dell’ente e del Responsabile Protezione Dati;
   b) le finalità di trattamento;
   c) la sintetica descrizione delle categorie di interessati (cittadini, residenti, utenti, dipendenti, amministratori, altro), e le categorie dei dati personali (identificativi; genetici; biometrici; salute, eccetera);
   d) le categorie di destinatari a cui i dati personali sono stati o saranno comunicati;
   e) eventuale trasferimento di dati personali verso un paese terzo;
   f) il termine ultimo (se stabilito) previsto per la cancellazione delle diverse categorie di dati;
   g) Il richiamo alle misure di sicurezza tecniche e organizzative adottate per il trattamento.
Il registro deve avere forma scritta, anche elettronica, e deve essere esibito su richiesta al Garante privacy.
L’articolo 30, comma 2, del citato Reg. UE, inoltre, prevede anche la tenuta di un ulteriore documento che è il Registro delle categorie di attività, redatto e aggiornato, in questo caso, dai singoli Responsabili del trattamento, nominati dal titolare.
Il Registro delle categorie di trattamento, dovrà contenere le seguenti informazioni:
   a) il nome e i dati di contatto del Responsabile del trattamento e del RPD;
   b) le categorie di trattamenti effettuate da ciascun Responsabile: raccolta; registrazione; organizzazione; strutturazione; conservazione; adattamento o modifica; estrazione; consultazione; uso; comunicazione; raffronto; interconnessione; limitazione; cancellazione; distruzione;
   c) l’eventuale trasferimento dei dati verso un paese terzo;
   d) il richiamo alle misure di sicurezza tecniche e organizzative adottate per il trattamento.
Per ulteriori informazioni, si consiglia di consultare le FAQ (Frequently Asked Questions), nel sito web del Garante privacy italiano, al link: www.garanteprivacy.it/web/guest/faq (19.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Parere in merito alla possibilità di rifondere spese legali ad un ex amministratore (Legali Associati per Celva, nota 18.11.2019 - tratto da www.celva.it).
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Dalla descrizione fornita dal Comune di Ayas risulta che nei confronti di un amministratore e di un dipendente dell’Ente veniva instaurato un procedimento penale per turbativa d’asta e che nel mese di novembre 2011 il Tribunale di Aosta metteva sentenza di assoluzione degli imputati perché il fatto non sussiste. (...continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIndennità PO e servizi convenzionati.
Domanda
Potete spiegare il funzionamento della retribuzione di posizione in caso di servizi convenzionati?
Risposta
Con riferimento al quesito posto, va subito fatta una precisazione. Un conto è l’utilizzo dei dipendenti su due enti, mentre un altro conto è laddove l’ente ha approvato una convenzione ai sensi dell’art. 30 del TUEL.
Nel primo caso, l’art. 17 del CCNL 21.05.2018, precisa che:
   1) L’ente di provenienza del dipendente distaccato ad altri servizi attribuisce la propria retribuzione di posizione, individuata secondo il proprio sistema per la pesatura delle posizioni organizzative, riproporzionandola in ragione delle ore effettivamente rese presso il medesimo, senza alcuna maggiorazione;
   2) gli enti presso il quale il dipendente è distaccato a operare (leggasi: presso altri servizi, anche in convenzione, rispetto a quello del comune di provenienza), attribuiscono la propria retribuzione di posizione, secondo le proprie regole in materia, e “al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, (…) possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di importo non superiore al 30% della stessa”.
Laddove invece ci sia, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, un unico servizio convenzionato, non ricorre il presupposto per le maggiorazioni né per le disposizioni di cui alle norme contrattuali citate, giacché il dipendente non è chiamato ad assumere maggiori carichi e responsabilità connessi a una prestazione frazionata su più servizi, presso diversi enti. Il dipendente opera, e assume le proprie responsabilità, presso l’unico servizio istituito a mezzo di convenzione tra i tre enti.
In questo caso, quindi, l’unica possibilità per il riconoscimento, in favore del responsabile unico, di un’indennità maggiore, compatibilmente con il sistema all’uopo definito presso l’ente di appartenenza, è l’individuazione di una retribuzione di posizione più elevata qualora si valuti che l’assorbimento in convenzione delle attività prima esplicate separatamente dagli enti “deleganti” prefiguri una pesatura del servizio, presidiato dal medesimo responsabile, più alta, pur sempre entro il limite massimo di cui all’articolo 15, comma 2, del CCNL 21/05/2018 (Euro 16.000,00 annui).
L’ente titolare del rapporto di lavoro, pertanto, potrebbe aumentare l’indennità di posizione in godimento, e gli enti “deleganti” rimborsarla pro quota, secondo gli accordi convenzionali.
In tal senso, si precisa che la retribuzione di posizione (e di risultato) attribuita presso l’ente di appartenenza, anche ove incrementata per effetto della valutazione di cui sopra, deve essere computata, ai fini del rispetto dell’articolo 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 (contenimento del salario accessorio nel limite dell’anno 2016), a carico di ciascuno dei comuni coinvolti sulla base di idonei criteri di riparto (14.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIAncora in tema di rotazione.
Domanda
Sono piuttosto frequenti i quesiti sulla dibattuta questione della rotazione soprattutto nel caso in cui il RUP avvii una procedura negoziata “aperta” alla luce delle sempre non chiarissime indicazioni fornite dalla giurisprudenza che in certi casi ritiene non necessaria l’applicazione della rotazione, in altri casi si è ritenuta invece indispensabile (a pena dell’illegittimità degli atti adottati) che il RUP motivi sempre e a prescindere gli inviti al pregresso affidatario e ad operatori già invitati a precedenti procedure negoziate, fino all’estrema e recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. V, del 05.11.2019 n. 7539) in cui, secondo alcune letture, la procedura negoziata “aperta” non sarebbe sufficiente a consentire la partecipazione al procedimento al pregresso affidatario stante l’imperativa esigenza di applicare la rotazione.
Diversi RUP, quindi, chiedono un chiarimento su come ci si debba comportare.
Risposta
Oggettivamente, la questione della rotazione –almeno fino al momento dell’avvento del regolamento attuativo (previsto dalla recente legislazione “sblocca cantieri”– appare articolata ed è opportuno che il RUP, nel frangente della predisposizione degli atti della procedura negoziata (e/o del affido diretto puro nell’ambito dei 40mila euro), presti grande attenzione.
La violazione della rotazione e/o una motivazione insufficiente/assente rende gli atti illegittimi con spese della soccombenza a carico della stazione appaltante. Pertanto, non si sottovaluti, la violazione della rotazione è errore di tipo “tecnico” ovvero riconducibile al RUP ed al responsabile del servizio che potrebbero anche essere chiamati a risponderne (e non solo oggetto di valutazione negativa in sede di esame sui risultati/obiettivi raggiunti/performance).
La posizione espressa dal Consiglio di Stato, con la recentissima sentenza n. 7539/2019, effettivamente appare rigorosa nel momento in cui (sembra) affermare l’esigenza di una procedura (anche formalmente) aperta per evitare i vincoli/obblighi della rotazione. Da ciò si dovrebbe dedurre che la procedura negoziata “aperta” non è sufficiente per “aggirare” l’obbligo della rotazione.
In realtà dall’epilogo emerge anche in questo caso una carente motivazione e, testualmente, in sentenza si puntualizza –infine- che “deve ragionevolmente ammettersi che il fatto oggettivo del precedente affidamento impedisce alla stazione appaltante di invitare il gestore uscente, salvo che essa dia adeguata motivazione delle ragioni che hanno indotto, in deroga al principio generale di rotazione, a rivolgere l’invito anche all’operatore uscente”.
La stessa sentenza di primo grado (Tar Lazio, sezione staccata di Latina, Sezione Prima, n. 535/2018) –che in appello, evidentemente, viene confermata- puntualizzava il fatto che “la giurisprudenza ribadisce che “In caso di appalto c.d. «sotto soglia», è illegittima l’aggiudicazione, per violazione del principio di rotazione, in caso di invito alla partecipazione, senza alcuna specifica motivazione, nei confronti dell’operatore economico che l’anno precedente era risultato affidatario dello stesso servizio oggetto della gara (il quale avrebbe dovuto «saltare il primo affidamento successivo» in ragione della posizione di vantaggio acquisita rispetto agli altri concorrenti) (TAR Veneto sez. I 21.03.2018 n. 320)”.
Da ciò emerge l’esigenza per i RUP –come anche in altre circostanze evidenziato– di predisporre l’avviso a manifestare interesse che contenga anche i motivi per cui non si farà la rotazione. La ragione può consistere nel fatto che il procedimento è realmente (sostanzialmente) aperto senza limiti alla partecipazione di ogni operatore interessato (13.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICALa realizzazione di lavori e di opere pubbliche, ai fini IVA, è assoggettata ad una peculiare disciplina, prevedente l’applicazione di aliquote agevolate?
In particolare, quale aliquota IVA deve applicarsi in relazione alla fattispecie di "lavori di nuova costruzione di una caserma dei Carabinieri”?

La realizzazione di lavori e di opere pubbliche non risulta essere destinataria di un’organica disciplina, in quanto le fonti normative, in materia di aliquote IVA, sono diverse e disparate.
In linea generale, si può affermare che la legislazione prevede, per talune categorie di lavori pubblici, aliquote agevolate. Quindi, occorre verificare l’effettivo oggetto dei lavori da realizzare ed accertare la possibilità di applicare le aliquote agevolate. In linea di sintesi, è possibile distinguere le seguenti categorie di lavori pubblici:
   1) Cessioni di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. IVA 10% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 127-quinquies, 127-sexies). Al riguardo, giova ricordare che, ai sensi dell’art. 4, L. 29.09.1964, n. 847, come integrata dalla L. 22.10.1971, n. 865, le opere di urbanizzazione vanno distinte in:
      - Opere di Urbanizzazione Primaria (a) strade residenziali, b) spazi di sosta e parcheggio (realizzati ai sensi della legge Tognoli - art. 11, L. 24.09.1989, n. 122), c) fognature, d) rete idrica, e) rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, f) pubblica illuminazione, g) centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie, h) spazi di verde attrezzato, i) gli impianti e le opere accessorie funzionali a servizi pubblici di radio, televisione e telefonia (torri, tralicci, ripetitori, stazioni radio-base);
      - Opere di Urbanizzazione Secondaria (a) asili nido e scuole materne, b) scuole dell’obbligo, c) mercati di quartiere, d) delegazioni comunali, e) chiese ed altri edifici per servizi religiosi, f) impianti sportivi di quartiere, g) aree verdi di quartiere, h) centri sociali, i) attrezzature culturali e sanitarie, j) oratori ed edifici similari).
L’agevolazione compete per tutte le opere di urbanizzazione primaria e secondaria realizzate anche fuori dal tessuto urbano. Siffatte opere devono presentare e conservare la caratteristica di opere al servizio di un tessuto urbano e devono possedere il requisito essenziale costituito dalla destinazione ad uso pubblico.
   2) Cessioni, da imprese che hanno effettuato interventi di urbanizzazione primaria e secondaria. IVA 10% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 127-quinquiesdecies, 127-terdecies).
   3) Prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto, relativi alla costruzione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria; impianti di produzione e reti di distribuzione calore-energia ed energia elettrica da fonte solarefotovoltaica ed eolica; impianti di depurazione destinati ad essere collegati a reti fognarie e relativi collettori di adduzione. IVA 10% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 127-septies).
   4) Prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto relativi alla costruzione di opere direttamente finalizzate al superamento ed alla eliminazione di barriere architettoniche. IVA 4% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 42-ter). L’agevolazione si riferisce a prestazione di servizi dipendenti da contratti di appalto realizzati allo scopo di rendere libertà di accesso e di movimento negli edifici ai portatori di handicap.
   5) Prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto aventi ad oggetto la realizzazione di interventi di manutenzione straordinaria, di cui all’art. 31, lett. b), L. 05.08.1978, n. 457 sugli edifici di edilizia residenziale pubblica. IVA 10% (Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 127-duodecies).
Gli edifici su cui si effettuano gli interventi di manutenzione straordinaria, per godere dell’agevolazione, devono avere carattere di: - edifici pubblici, - destinazione abitativa. Per edifici di edilizia residenziale pubblica si intendono alloggi realizzati dallo Stato, dagli Enti pubblici territoriali, dagli IACP e loro consorzi. Le unità immobiliari devono possedere la caratteristica della stabile residenzialità.
Per quanto concerne la costruzione di "caserme”, la vigente normativa, nel suo complesso, prevede l’aliquota agevolata del 10%. La ricostruzione normativa dell’agevolazione (sulla base delle diverse fonti applicabili) risulta essere la seguente:
   ▪ La parte terza della Tabella allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 127-quinquies prevede l'applicazione dell'IVA nella misura del 10 per cento anche agli "edifici di cui all'art. 1, L. 19.07.1961, n. 659, assimilati ai fabbricati di cui all'art. 13, L. 02.07.1949, n. 408, e successive modificazioni".
   ▪ Il successivo numero 127-septies) stabilisce che la medesima aliquota del 10 per cento si applica anche alle "prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto relativi alla costruzione delle opere, degli impianti e degli edifici di cui al n. 127-quinquies)".
   ▪ L'art. 1, L. n. 659 del 1961, richiamato dal suddetto n. 127-quinquies), prevede che "le agevolazioni fiscali e tributarie stabilite per la costruzione di case di abitazione dagli artt. 13, 14, 16 e 18 della legge 02.07.1949, n. 408, sono estese agli edifici contemplati dall'art. 2, comma secondo, del regio decreto 21.06.1938, n. 1094, convertito nella legge 05.01.1939, n. 35".
   ▪ Siffatti ultimi edifici (quelli indicati nel richiamato art. 2, comma 2, R.D. 21.06.1938, n. 1094) consistono in scuole, caserme, ospedali, case di cura, ricoveri, colonie climatiche, collegi, educandati, asili infantili, orfanotrofi e simili.
Orbene, per quanto concerne la nozione di "caserme", l’Amministrazione finanziaria ha evidenziato quanto segue:
   a) Una struttura edilizia è qualificabile unitariamente come "caserma" quando la stessa costituisce un comprensorio destinato ad attività addestrative e logistico amministrative nel quadro dello svolgimento delle funzioni di difesa militare dello Stato (Risoluzione 917/1994).
   b) Può qualificarsi "caserma" una costruzione eretta per l'abitazione, l'istruzione e l'educazione delle truppe in periodi in cui le stesse non sono direttamente impegnate in attività operative, ma in compiti di addestramento ed altre mansioni genericamente riconducibili alle finalità istituzionali delle forze facenti parte dell'apparato militare dello Stato.
   c) Un immobile può considerarsi assimilabile ad una caserma quando presenti caratteristiche strutturali e funzionali analoghe a quelle descritte e non costituisca, invece, un complesso immobiliare da destinare ad uffici (Risoluzione 460547/1987).
La Ris. 13.06.2008 n. 243/E, emessa dall’Agenzia delle Entrate, sintetizza in modo mirabile, le argomentazioni ora illustrate, con applicazione dell’aliquota agevolata del 10%, ai sensi della Tabella A allegata al D.P.R. 26.10.1972, n. 633, n. 127-septies. Conclusivamente, per la costruzione di nuovi edifici, presentanti le caratteristiche di "caserma”, come ora delineata (punti a-b-c), si applica l’aliquota agevolata del 10%.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 26.10.1972, n. 633, Tabella A - Ris. 13.06.2008 n. 243/E dell’Agenzia delle Entrate (13.11.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATAPubblicazione ordinanze di sospensione lavori.
Domanda
Da sempre, nel nostro ente, abbiamo pubblicato all’albo pretorio on-line il testo integrale delle ordinanze di sospensione lavori, emesse nei confronti di cittadini che hanno commesso un abuso edilizio. Il collega del comune vicino dice che non vanno pubblicate.
Sapete darci qualche informazione al riguardo?
Risposta
In materia di ordinanze comunali, va specificato che nel decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e successive modificazioni ed integrazioni, non compare mai il termine “ordinanze”, per cui, in assenza di una norma specifica, occorre rifarsi alle disposizioni di carattere generale, quali –ad esempio– la deliberazione del Garante privacy italiano, emanata il 15.05.2014, recanti “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”.
Per ciò che concerne, quindi, le ordinanze, sia che siano emanate da dirigenti (P.O. negli enti senza dirigenza) o dal Sindaco, nella versione capo dell’amministrazione (art. 50, comma 5, TUEL 267/2000) o come ufficiale di Governo (art. 54, comma 4, TUEL), la regola generale da rispettare, con specifica indicazione che sarebbe opportuno inserire nella sezione Trasparenza del PTPCT, è la seguente:
   • vanno pubblicate all’albo pretorio on-line solo le ordinanze aventi carattere di generalità, rivolte ad una pluralità di soggetti, altrimenti non facilmente raggiungibili (esempio: chiusura scuole per maltempo; divieto di utilizzo dell’acqua; disciplina della circolazione e sosta; divieto di innaffiamento orti e giardini; misure a tutela dell’ordine e sicurezza pubblica, eccetera);
   • vanno “notificate” agli interessati e non pubblicate, le ordinanze, rivolte a singole persone, in cui gli si ordina di fare o non fare qualcosa (ordinanze/ingiunzione di pagamento; abusi edilizi; Trattamento Sanitario Obbligatorio – TSO e Assistenza Sanitaria Obbligatoria – ASO, eccetera).
Per quanto riguarda lo specifico quesito, occorre rifarsi all’art. 31, comma 7, del Decreto Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, il quale testualmente recita:
   7. Il segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Come si può notare, la disposizione prevede che vengano pubblicati i dati relativi agli immobili realizzati abusivamente; l’oggetto dei rapporti della P.G, e delle relative ordinanze. La norma, dunque, non prevede la pubblicazione integrale dell’ordinanza, come invece, viene effettuato nel vostro comune.
Sempre restando al Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001) va ricordato che anche in altri articoli (cfr. art. 30, comma 7) il legislatore ha sempre utilizzato l’espressione “notificare” e mai quella di “pubblicare”.
Si ritengono corrette, quindi, le modalità di pubblicazione adottate dal comune vicino al vostro, che pubblica, all’albo pretorio on-line, la verifica mensile del segretario comunale in materia di abusi edilizi, riportando solamente, per quanto riguarda le ordinanze, il loro numero progressivo, la data di emanazione e l’oggetto della medesima, con l’accortezza di NON inserire nell’oggetto il nominativo del destinatario a cui il provvedimento di sospensione è stato notificato (12.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta convocazione del consiglio comunale da parte di un quinto dei consiglieri. Questione pregiudiziale.
  
1) In caso di convocazione del consiglio comunale da parte di almeno un quinto dei consiglieri le istanze possono essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio comunale o del sindaco soltanto qualora le stesse vertano o su un oggetto che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del collegio consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile, non potendo invece essere sindacate nel merito le richieste avanzate dal prescritto quorum di consiglieri.
   2) L’istituto della questione pregiudiziale deve essere coordinato con il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto” dal legislatore. Sono, pertanto, ammissibili solo quelle questioni pregiudiziali che impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine del giorno per ragioni interne e proprie della specifica procedura o per altre ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto dell’argomento, con esclusione di questioni strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del diritto di iniziativa.

Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di convocazione del consiglio comunale formulata ai sensi dell’articolo 39, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[1] dalla minoranza consiliare e avente ad oggetto la discussione di una mozione su una pluralità di argomenti afferenti una medesima tematica. Sulla questione in riferimento si è già pronunciato il segretario comunale che, quanto ai contenuti della stessa, “inclina fortemente a dubitare che il suo oggetto sia riconducibile alla competenza consiliare”.
In via preliminare si rileva in generale che, nel caso di richiesta di convocazione del consiglio comunale da parte di almeno un quinto dei consiglieri, il sindaco ha l’obbligo di riunire il consiglio in un termine non superiore ai venti giorni. Entro tale termine si deve provvedere non solo alla convocazione ma anche alla riunione dell’assemblea consiliare.
[2]
In caso d’inosservanza di tale obbligo soccorre la previsione di cui all’articolo 26, comma 1, della legge regionale 04.07.1997, n. 23 secondo cui: “Ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 9/1977 nella regione Friuli-Venezia Giulia, in caso di inosservanza degli obblighi di convocazione del Consiglio comunale e provinciale, previa diffida, provvede l'Assessore regionale per le autonomie locali”.
È, quindi, consentito al soggetto competente alla convocazione del consiglio di attivarsi anche dopo la scadenza del termine prescritto, fino all’intervento sostitutivo regionale.
Nella fattispecie prospettata viene in rilevo la problematica dell’individuazione dei limiti alla sindacabilità da parte del sindaco, quale presidente del consiglio, delle richieste di convocazione dell’assemblea da parte dei consiglieri di minoranza nell’ipotesi in cui sussistano dubbi circa la competenza dell’organo consiliare in ordine agli argomenti da iscrivere all’ordine del giorno.
Al riguardo sussiste un costante orientamento ministeriale
[3] secondo cui le istanze possono essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio comunale o del sindaco soltanto “qualora le richieste stesse vertano o su un oggetto che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del collegio consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile”, non potendo tali soggetti sindacare nel merito le richieste avanzate dal prescritto quorum di consiglieri.
Al riguardo, il Ministero ha richiamato in più occasioni la giurisprudenza consolidata secondo cui, di fronte alla richiesta di convocazione, il presidente del consiglio può soltanto verificare, sotto il profilo formale, che la stessa provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non potrà sindacarne l’oggetto, atteso che spetta al consiglio comunale la verifica della propria competenza e, quindi, l’ammissibilità delle questioni da trattare
[4].
Di conseguenza, rimane preclusa al presidente del consiglio, destinatario della richiesta di convocazione, una valutazione di merito circa l’ammissibilità delle questioni, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze del consiglio, in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine del giorno, neppure su autonoma iniziativa del presidente stesso.
Infatti, la richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri rappresenta lo strumento parallelo alla forma ordinaria di convocazione da parte del suo presidente e risulta, pertanto, collocata su un piano di parità: la ratio della norma sarebbe travisata qualora alla richiesta si ponessero dei limiti non previsti per la convocazione da parte del presidente del consiglio.
Con riferimento alle questioni per le quali la minoranza consiliare ha richiesto la convocazione del consiglio si rileva che, almeno per una di esse, il segretario comunale, nel parere rilasciato sull’argomento, ha affermato che «l’invito “a mettere a disposizione le risorse finanziarie necessarie per far espletare all’Istituto Comprensivo (…) il bando atto ad individuare l’operatore economico che si occupa della supervisione degli alunni durante il pranzo” potrebbe costituire oggetto di disamina consiliare ove interpretato come una sollecitazione ad adeguare e/o integrare gli stanziamenti del bilancio comunale».
Si precisa, al riguardo che “nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42 del Testo Unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo articolo 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell’adozione di un provvedimento finale. Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di controllo politico-amministrativo sull’attività del Comune […]
[5].
Quanto, poi, alle ulteriori questioni poste, alla luce di quanto sopra riportato, il sindaco potrebbe dichiarare le stesse improcedibili solo qualora ritenesse il loro oggetto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze del consiglio.
In caso contrario, dovrebbe riunire il consiglio in un termine non superiore ai venti giorni e questi dovrebbe effettuarne la trattazione a meno che, prima dell’inizio della loro discussione, un consigliere ponesse su di esse la questione pregiudiziale e il Consiglio la approvasse.
A tale riguardo l’articolo 26 del regolamento del consiglio comunale rubricato “Questioni pregiudiziali e sospensive” recita: “1. Il Consigliere, prima che abbia inizio la discussione su un argomento all’ordine del giorno, può porre la questione pregiudiziale, per ottenere che quell’argomento non si discuta, o la questione sospensiva, per ottenere che la discussione stessa venga rinviata al verificarsi di determinante scadenze.
2. La questione sospensiva può essere posta anche nel corso della discussione.
3. Le questioni sono discusse immediatamente prima che abbia inizio o che continui la discussione; questa prosegue solo se il Consiglio non le respinga a maggioranza.
4. Dopo il proponente, sulle questioni possono parlare solo un consigliere a favore ed uno contro.
5. In caso di contemporanea presentazione di più questioni pregiudiziali o di più questioni sospensive, si procede, previa unificazione, ad un’unica discussione, nella quale può intervenire un solo consigliere per gruppo, compresi i proponenti. Se la questione sospensiva è accolta, il Consiglio decide sulla scadenza della stessa.
6. Gli interventi sulla questione pregiudiziale e sulla questione sospensiva non possono eccedere, ciascuno, i cinque minuti. La votazione ha luogo per alzata di mano.
7. I richiami al regolamento, all’ordine del giorno o all’ordine dei lavori e le questioni procedurali hanno la precedenza sulle discussioni principali. In tali casi, possono parlare, dopo il proponente, un consigliere contro ed uno a favore e per non più di cinque minuti ciascuno.
8. Ove il Consiglio venga, dal Presidente, chiamato a decidere sui richiami e sulle questioni di cui al precedente comma, la votazione avviene per alzata di mano
”.
Con riferimento alla fattispecie in essere l’istituto della questione pregiudiziale, quanto ad ambito di ammissibilità, deve essere coordinato con il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto” dal legislatore (artt. 43 e 39, secondo comma, D.Lgs. 18.08.2000 n. 267).
Sui limiti entro cui può essere esercitato dalla maggioranza consiliare il diritto di disporre questioni pregiudiziali o sospensive si è espressa la giurisprudenza
[6] la quale ha chiarito che “pare che l’ordinamento abbia voluto fare giusto bilanciamento fra due principi: da un lato, il principio maggioritario, a sua volta rafforzato nel sistema elettorale degli Enti locali, quanto al momento del decidere; dall’altro, il principio del valore della funzione della minoranza, espressa nel diritto di convocazione dell’assemblea per decidere su un argomento. Ritiene, pertanto, il Collegio che il coordinamento fra diritto di iniziativa della minoranza e potere della maggioranza a porre questioni pregiudiziali, vada risolto nel senso che l’ordinamento dà prevalenza e garantisce comunque la effettività del primo, sia nel momento iniziale (convocazione del Consiglio), che nel suo ineliminabile aspetto funzionale (discussione). Ne consegue, che ogni qual volta l’ordinamento prevede e garantisce il diritto di iniziativa della minoranza mediante convocazione dell’assemblea, il potere della maggioranza di porre questioni pregiudiziali non può che essere inteso in senso congruente con il diritto di iniziativa. In tale situazione il Collegio ritiene che siano ammissibili solo quelle questioni pregiudiziali che impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine del giorno per ragioni interne e proprie della specifica procedura, con esclusione di questioni strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del diritto di iniziativa”.
La medesima sentenza prosegue affermando come sia necessario, altresì, verificare “se, accanto ed oltre le questioni pregiudiziali connesse con la specifica procedura della mozione, non possano esistere anche altre ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto stesso della mozione così come definito dalla proposta di deliberazione posta quale conclusione della mozione”.
Calando le sopra riportate considerazioni giurisprudenziali nel caso concreto potrebbe affermarsi che le questioni poste dalla minoranza consiliare a base della richiesta di convocazione possano non essere discusse nel merito dall’organo consiliare qualora questi ritenesse il loro oggetto manifestamente estraneo alle sue competenze. Verrebbe, in altri termini, rimesso ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che gli argomenti (tutti o alcuni) in riferimento, inseriti nell’ordine del giorno, non debbano essere discussi in quanto ritenuti estranei alle proprie competenze. In conformità a quanto previsto dalla norma regolamentare il proponente la questione pregiudiziale dovrebbe motivare la stessa e dopo di lui, “sulle questioni possono parlare solo un consigliere a favore ed uno contro” (articolo 26, comma 4, del regolamento del consiglio comunale).
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[1] Recita l’articolo 39, comma 2, del D.Lgs. 267/2000: “Il presidente del consiglio comunale o provinciale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri, o il sindaco o il presidente della provincia, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste”.
[2] Per completezza espositiva si rileva che, secondo chi scrive, nel caso in esame deve essere presa in considerazione la disciplina procedurale relativa alla richiesta di convocazione da parte di almeno un quinto dei consiglieri e non già quella, contenuta nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, relativa all’istituto delle mozioni (il quale prevede, all’articolo 44, che le stesse “sono svolte all’inizio della seduta immediatamente successiva alla loro presentazione”).
[3] In questo senso, tra gli altri, si vedano i pareri del Ministero dell’Interno del 06.04.2017 e del 16.03.2018.
[4] Si veda TAR Piemonte, sez. II, sentenza del 24.04.1996, n. 268.
[5] Così Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. In senso conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento, sentenza del 14.01.2010, n. 20.
[6] TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 06.02.2004, n. 1022. Nello stesso senso, TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 25.07.2001, n. 4278
(08.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Approvazione del verbale della seduta del consiglio comunale. Richiesta di rettifica del verbale.
Nel verbale della seduta del consiglio comunale non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
La dottrina prevalente afferma che le frasi offensive o ingiuriose devono essere omesse dal verbale. Altro orientamento afferma, invece, la sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in capo al segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose, salvo che non gliene sia fatto esplicito obbligo.

Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di rettifica del verbale di una seduta del consiglio comunale, nel quale il segretario comunale non aveva inserito alcune frasi ritenute offensive ed ingiuriose.
Più in particolare riferisce che, nel corso della seduta consiliare successiva, in relazione al punto dell’ordine del giorno avente ad oggetto “approvazione verbali seduta precedente”, un gruppo consiliare ha presentato per iscritto una richiesta di rettifica dello stesso chiedendo l’inserimento di alcune precisazioni riguardanti una discussione verificatasi tra il sindaco e un consigliere comunale nel corso della seduta di consiglio, con reciproca richiesta di verbalizzazione di frasi ritenute sconvenienti ed offensive; in particolare in tale occasione il consigliere comunale aveva rivolto una richiesta orale al segretario di verbalizzare l’affermazione pronunciata nei suoi confronti “per fatto personale ai sensi art. 45 del vigente Regolamento Consiglio Comunale
[1], trattandosi di una frase offensiva”.
Nel verbale il segretario comunale aveva dato atto che “la finalità del verbale sia quella di restituire, a futura memoria, i fatti salienti verificatisi nel corso della seduta, fatti cioè di interesse per la Comunità di […], e di garantire, nel contempo, il controllo sulla corretta formazione della volontà collegiale, senza che sussista alcun obbligo, in capo a costui, di rendere una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse e di verbalizzare allusioni ovvero frasi ritenute sconvenienti o offensive”. In conseguenza di un tanto nel verbale non erano state riportate le parole oltraggiose pronunciate nel corso dell’adunanza consiliare.
Di qui la richiesta di rettifica avanzata dal gruppo di minoranza, cui appartiene il consigliere in riferimento, la quale è stata sottoposta alla decisione del consiglio comunale il quale ha disposto “il non accoglimento della richiesta di rettifica/integrazione al verbale presentata dal Consigliere XX, ritenendo completo ed esaustivo il verbale così come redatto dal segretario comunale”.
In via preliminare si ricorda che il verbale è un documento dotato di pubblica fede descrittivo di atti o fatti compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante appositamente incaricato.
[2]
Come affermato da certa dottrina
[3] il verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria» di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta, affinché i fatti in essa avvenuti possano essere successivamente documentati”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse.”
[4]
Pertanto, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Con specifico riferimento all’obbligo o meno del segretario di verbalizzazione di frasi ingiuriose, si osserva come la dottrina prevalente
[5] afferma che esse debbano essere omesse dal verbale. In tal senso, in un parere dell’ANCI si legge che: “Eventuali ingiurie, allusioni o dichiarazioni offensive o diffamatorie non debbono essere riportate a verbale ed il Segretario comunale provvede ad escluderle”. [6]
Per completezza espositiva, si segnala l’orientamento di certa dottrina la quale afferma la sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in capo al segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose. In tale senso è stato affermato che “avendo il segretario l’obbligo di inserire a verbale solo i punti essenziali della discussione, si può ritenere che il segretario stesso abbia la facoltà di evitarne la riproduzione, salvo che non gliene sia fatto esplicito obbligo”.
[7]
Le considerazioni sopra espresse –anche alla luce della dottrina da ultimo citata, la quale ritiene che il segretario comunale debba procedere alla verbalizzazione delle parole offensive “se gliene sia fatto esplicito obbligo”- devono essere lette alla luce delle previsioni contenute al riguardo nel regolamento del consiglio comunale.
In particolare, l’articolo 40 dello stesso recita: “1. Dichiarata aperta la seduta il presidente, a mezzo del Segretario, dà lettura dei verbali della seduta precedente.
2. Sul processo verbale non è concessa la parola se non a chi vi intende far inserire una rettifica oppure per fatto personale senza entrare nel merito della discussione.
3. Si intende per rettifica una richiesta di modifica di una parola o di brevi concetti che il verbalizzante può avere male interpretato o riportato. Non è possibile far inserire nuovi concetti che si assume di avere detto se non previa approvazione mediante votazione del Consiglio Comunale, previa dettatura da parte del Consigliere interessato del nuovo intervento da inserire a verbale
”.
In via preliminare si ricorda che l’interpretazione delle norme contenute nel regolamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che tali norme si è dato; di conseguenza chi scrive esprime in via meramente collaborativa alcune considerazioni giuridiche che possano essere di ausilio all’Ente nella soluzione della questione posta, ferma rimanendo l’autonomia dell’organo consiliare nell’interpretazione delle proprie norme.
Fermo l’orientamento della dottrina che ritiene non si debbano mai riportare le frasi offensive od oltraggiose, quanto all’ulteriore filone dottrinario, secondo il quale il segretario sarebbe tenuto alla verbalizzazione delle frasi offensive qualora sia rinvenibile un espresso obbligo di verbalizzazione delle stesse, dall’analisi dell’articolo 40, comma 3, del regolamento sul funzionamento del consiglio parrebbe potersi desumere la sussistenza di tale obbligo di verbalizzazione qualora il consiglio comunale deliberi in tal senso.
Nel caso in esame, invece, l’organo consiliare si è espresso in senso contrario alla rettifica/integrazione al verbale, ritenendo completa ed esaustiva la sua redazione come effettuata dal segretario comunale.
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[1] L’articolo 45 del regolamento del consiglio comunale recita: “1. È fatto personale l’essere intaccato nella propria condotta o il sentirsi attribuire opinioni contrarie a quelle espresse.
   2. Chi chiede la parola del fatto personale, deve indicare in che cosa questo consista ed il Presidente decide se il richiedente abbia o meno diritto di parlare”.
[2] Così, R. Nobile, “Verbalizzazione e verbali delle sedute degli organi e degli organismi collegiali negli enti locali”, in La Gazzetta degli enti locali, 2015.
[3] I. Tricomi, Prontuario degli Enti Locali, 2003, pag. 380.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189 e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. In questo senso si veda, anche il parere del Ministero dell’Interno del 20.01.2015.
[5] Si veda, c. Polidori, “Verbali e organi collegiali nelle pubbliche amministrazioni”, Trieste, 2012, pag. 195.
[6] ANCI, parere del 18.12.2007.
[7] A.R., “Consiglio comunale – verbale delle adunanze – contenuto – redazione dei processi verbali”, in L’Amministrazione italiana, n. 11/1999
(08.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPeriodo prova stabilizzazione.
Domanda
Il dipendente assunto con stabilizzazione è soggetto al periodo di prova previsto dall’art. 20 del CCNL sottoscritto in data 21.05.2018?
Risposta
Ai sensi del citato articolo 20 del contratto del 2018, le eccezioni all’obbligo di superamento del periodo di prova sono contenute al comma 2 che recita: “Possono essere esonerati dal periodo di prova, con il consenso dell’interessato, i dipendenti che lo abbiano già superato nella medesima categoria e profilo professionale oppure in corrispondente profilo di altra amministrazione pubblica, anche di diverso comparto. Sono, altresì, esonerati dal periodo di prova, con il consenso degli stessi, i dipendenti che risultino vincitori di procedure selettive per la progressione tra le aree o categorie riservate al personale di ruolo, presso la medesima amministrazione, ai sensi dell’art. 22, comma 15, del D.Lgs. n. 75/2017
[1].”
L’ente, invece, darà applicazione all’art. 20 “Superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni” del D.Lgs. n. 75/2017, che consente l’assunzione a tempo indeterminato, nel triennio 2018-2020, dei soggetti in possesso di tutti i seguenti requisiti:
   a) risulti in servizio successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015 con contratti a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione;
   b) sia stato reclutato a tempo determinato, in relazione alle medesime attività svolte, con procedure concorsuali anche espletate presso amministrazioni pubbliche diverse da quella che procede all’assunzione;
   c) abbia maturato, al 31.12.2017, alle dipendenze dell’amministrazione che procede all’assunzione almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni.
L’assunzione si concretizzerà con la stipulazione del contratto di lavoro che dovrà contenere anche l’indicazione del periodo di prova, in questo caso pari a sei mesi. Il fatto che il lavoratore sia stato in servizio per un periodo pregresso non esime dal superamento del periodo di prova contrattualmente stabilito.
Tale posizione trova conferma nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezione lavoro, n. 21376 del 29.08.2018, con riguardo al caso di una lavoratrice del Comparto Sanità. Si legge nella decisione che “… sia la legge che il CCNL del Comparto Sanità impongono alle pubbliche Amministrazioni datrici di lavoro l’espletamento del periodo di prova; la valutazione espressa in occasione della pregressa esperienza lavorativa era irrilevante in quanto la datrice di lavoro era tenuta a verificare in concreto, all’esito del periodo di prova, l’idoneità della lavoratrice allo svolgimento delle mansioni per le quali era stata assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato…”.
Le norme che prevedono il superamento del periodo di prova sono richiamate nella sentenza citata: “Come già affermato da questa Corte nella sentenza n. 9296/2017, quest’ultima legge art. 70, comma 13, dispone, infatti, che “in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal D.P.R. 09.05.1994, n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti”. E l’art. 17 della richiamata fonte normativa (Assunzioni in servizio), al comma 1, prevede che i candidati dichiarati vincitori sono assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il quale risultano vincitori, la durata del periodo di prova è differenziata in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste e sarà definita in sede di contrattazione collettiva, i provvedimenti di nomina in prova sono immediatamente esecutivi.”
La Corte aggiunge, con riferimento al surrichiamato quadro normativo, che “… tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex lege e non per effetto di patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale e che l’autonomia contrattuale è abilitata esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, ma tale abilitazione è data dalle norme esclusivamente alla contrattazione collettiva, restando escluso che il contratto individuale possa discostarsene (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3).”
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[1] “Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati, la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle progressioni tra le aree di cui all’articolo 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001. Tali procedure selettive prevedono prove volte ad accertare la capacità dei candidati di utilizzare e applicare nozioni teoriche per la soluzione di problemi specifici e casi concreti. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni, l’attività svolta e i risultati conseguiti, nonché l’eventuale superamento di precedenti procedure selettive, costituiscono titoli rilevanti ai fini dell’attribuzione dei posti riservati per l’accesso all’area superiore” (07.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il CIG e i servizi legali esclusi dall’applicazione del codice.
Domanda
L’ente deve affidare dei servizi legali, è necessario acquisire il CIG?
Risposta
Dalla natura del quesito non è possibile capire a quale fattispecie sia da ricondurre l’affidamento dei servizi legali, ovvero, se trattasi di servizi legali esclusi dall’applicazione oggettiva del codice ai sensi dell’art. 17, co. 1, lett. d), quali ad esempio gli incarichi di patrocinio conferiti in relazione ad una specifica lite, oppure quei servizi soggetti alla disciplina alleggerita di cui all’allegato IX del d.lgs. 50/2016, ad esempio il contenzioso seriale affidato in gestione ad un operatore economico.
Sulla base di tali differenti prestazioni l’Anac, nelle linee guida n. 12, aderendo all’impostazione del Consiglio di Stato ha qualificato quest’ultima come appalto di servizi, e contratto d’opera professionale la trattazione della singola controversia. Sul punto si segnala che alcune posizioni dottrinarie e giurisprudenziali ritengono che, nel caso di affidamento di un incarico di patrocinio, anche se escluso dall’applicazione del codice, la prestazione debba comunque rientrare nella nozione di appalto.
Tuttavia, indipendentemente dalla qualificazione negoziale, alla luce del nuovo comunicato del Presidente dell’Anac del 16.10.2019, anche per i servizi legali esclusi dal codice, è necessario acquisire il CIG e versare il contributo Anac, qualora di valore pari o superiore a € 40.000.
L’Autorità ha ritenuto di dover acquisire dati e informazioni sulle procedure escluse dall’applicazione del codice dei contratti pubblici e, nelle more dell’adozione del nuovo regolamento sul funzionamento dell’Osservatorio ai sensi dell’art. 213, co. 9, ha definito gli obblighi di acquisizione del CIG e pagamento del contributo in favore dell’Autorità per alcune tipologie di affidamento, in precedenza non previste, elencate in una tabella distinta per riferimento normativo, descrizione della prestazione, obbligo o meno di acquisizione del CIG, nonché di eventuale versamento della tassa Anac.
La procedura di richiesta dello smartCIG è infatti arricchita, nelle fattispecie contrattuali, da queste nuove tipologie che al momento non sembrano essere presenti nel caso di acquisizione del CIG tramite il sistema SIMOG.
Solo per citarne alcune e più strettamente connesse al quesito:
   - SERVIZI DI ARBITRATO E CONCILIAZIONE FINO A 40.000 EURO
   - SERVIZI LEGALI FINO A 40.000 EURO
L’autorità inoltre precisa che per quanto attiene alla trasmissione dei dati all’Osservatorio dei contratti pubblici, che gli obblighi di comunicazione attualmente in essere per i settori ordinari si intendono estesi a tutte le altre fattispecie, ivi comprese quelle elencate nella citata tabella, con decorrenza dal 01.01.2020 (06.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ufficio tecnico di questo Comune riceve continue richieste di annullamento della procedura di contestazione di abusi edilizi e ordine di demolizione, fondate su mancata comunicazione di avvio del procedimento, insufficiente motivazione, mancata identificazione degli immobili (es. dati catastali) ecc...
Quali formalità occorre seguire per evitare ricorsi?

L'abusivismo edilizio è una delle "piaghe" nazionali tanto da costituire una parte cospicua della giurisprudenza amministrativa (in questo senso i precedenti a disposizione costituiscono una buona base di riferimento).
Come noto l'art. 31 del Testo Unico D.P.R. 06.06.2001 n. 380 prevede che "Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo ... ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto ... Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire vari aspetti che si sintetizzano (rinviando per il dettaglio alle massime relative):
   - essendo un'attività vincolata non è indispensabile la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (art. 7, L. 07.08.1990, n. 241), o meglio la sua mancanza non determina illegittimità del procedimento e del relativo provvedimento finale;
   - è condizione necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate anche in mancanza di una descrizione dell'immobile sotto il profilo degli estremi catastali o altri riferimenti (indirizzo e civico);
   - allo stesso modo non rileva sotto il profilo della legittimità l'omessa od imprecisa indicazione dell'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico;
   - non è necessario l'accertamento della responsabilità del destinatario dell'ingiunzione in quanto l'abuso edilizio rileva ex se, quale elemento oggettivo;
   - il provvedimento conclusivo non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico che ne impongono la rimozione atteso che lo stesso ha natura vincolata.
Ovviamente si suggerisce, nei limiti del possibile, di procedere a comunicazione di avvio e fornire adeguata motivazione in relazione ai vari punti, ricordando comunque che in base alla citata giurisprudenza la loro carenza (ed in taluni casi omissione) non ha effetto sulla legittimità degli atti. In questo senso potrà essere data risposta alle richieste di autotutela degli interessati.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 31
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. II, 21.10.2019, n. 7103 - Cons. Stato Sez. II, 12.09.2019, n. 6147 - Cons. Stato Sez. IV, 02.09.2019, n. 6055 - Cons. Stato Sez. II, 30.08.2019, n. 6000 - Cons. Stato Sez. VI, 29.08.2019, n. 5938 - Cons. Stato Sez. VI, 30.07.2019, n. 5388 - Cons. Stato Sez. IV, 15.07.2019, n. 4955 - Cons. Stato Sez. II, 08.07.2019, n. 4727 - Cons. Stato Sez. II, 05.07.2019, n. 4662
(06.11.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: costruzione di nuovo fabbricato – presenza di muro di contenimento – rispetto delle distanze dal confine – modalità di calcolo – parere (Legali Associati per Celva, nota 31.10.2019 - tratto da www.celva.it).
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Il Comune di Arvier, per il tramite del CELVA, ha richiesto un parere avente ad oggetto la corretta quantificazione delle distanze da rispettare nell’ambito dell’attività edificatoria di un nuovo fabbricato monofamiliare, di civile abitazione, realizzando in Arvier, Fraz. Leverogne, zona classificata come Ba4 dal vigente P.R.G.C. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI - PATRIMONIO: OGGETTO: acquisto di terreno comunale da parte di amministratore del Comune tramite permuta – sussistenza di un interesse pubblico – divieto di cui all’art. 1471 c.c. e all’art. 15 del Regolamento comunale – applicabilità – parere (Legali Associati per Celva, nota 29.10.2019 - tratto da www.celva.it).
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Il Comune di La Thuile ha sottoposto alla nostra attenzione, per il tramite del CELVA, quesito avente ad oggetto le modalità di applicazione dell’art. 1471 c.c., recante “Divieti speciali di comprare”, nonché dell’art. 15 del Regolamento comunale per la disciplina delle alienazioni di beni immobili. (...continua).

APPALTI SERVIZI: Servizio di pulizia degli immobili comunali. Affidamento a cooperativa sociale volto a garantire l'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
L’art. 5, c. 1, della L. 381/1991 sancisce che gli enti pubblici, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative sociali “di tipo b)” per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi, qualora l’importo stimato, al netto dell’IVA, sia inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria in materia di appalti pubblici e purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate.
Considerando che lo stesso legislatore della L. 381/1991 pone come facoltativo il ricorso al convenzionamento ivi previsto, si reputa che l’ente possa scegliere se avvalersi del modulo convenzionale, ovvero se acquisire il servizio ricorrendo al libero mercato.
Solo nella seconda ipotesi l’ente dovrà sottostare alle regole volte alla razionalizzazione e al contenimento della spesa pubblica, ivi compreso l’obbligo di adesione ai contratti quadro stipulati dalla Centrale unica di committenza della Regione Friuli Venezia Giulia.

Il Comune chiede di conoscere se sia possibile indire una procedura di gara per l’affidamento del servizio di pulizia delle proprie sedi, riservandone la partecipazione alle cooperative sociali, al fine di garantire l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate di cui all’art. 4, comma 1
[1], della legge 08.11.1991, n. 381 e di poter fruire dei fondi regionali a ciò destinati o se, invece, l’Ente sia tenuto ad acquisire il servizio ricorrendo alla convenzione che verrà stipulata tra il fornitore e la Centrale unica di committenza regionale [2], la cui procedura è stata bandita nel dicembre 2018 ed è in corso di svolgimento.
Sentiti, per quanto di rispettiva competenza, il Servizio cooperazione sociale e terzo settore della Direzione centrale salute, politiche sociali e disabilità ed il Servizio Centrale unica di committenza della Direzione centrale patrimonio, demanio, servizi generali e sistemi informativi, si formulano le seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, rilevare che la L. 381/1991 è fatta salva tanto dall’art. 112, comma 1
[3], del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, quanto dall’art. 40, comma 2 [4], del decreto legislativo 03.07.2017, n. 117.
L’art. 1, comma 1, della L. 381/1991 sancisce che le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, attraverso due distinti ambiti di intervento:
   a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi, incluse le attività di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), b), c), d), l), e p), del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112;
   b) lo svolgimento di attività diverse –agricole, industriali, commerciali o di servizi– finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
L’art. 4 della L. 381/1991, dopo aver individuato le categorie delle persone da ritenere svantaggiate (comma 1), alle quali il legislatore accorda una particolare tutela, stabilisce, tra l’altro, che tali persone devono costituire almeno il trenta per cento dei lavoratori della cooperativa (comma 2).
Ciò posto, l’art. 5, comma 1, della L. 381/1991 sancisce che gli enti pubblici, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative sociali “di tipo b)
[5] per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi, qualora l’importo stimato, al netto dell’IVA, sia inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria in materia di appalti pubblici e purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate.
Con disposizione relativamente recente
[6], il legislatore statale ha stabilito che la stipula di tali convenzioni deve avvenire previo svolgimento di procedure selettive, idonee ad assicurare il rispetto dei princìpi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza. [7]
La previsione recata dall’art. 5, comma 1, della L. 381/1991, essendo volta alla promozione e all’integrazione sociale, costituisce concreta attuazione dell’art. 45, primo comma, della Costituzione, in base al quale «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.».
Ai sensi dell’art. 9 della L. 381/1991 le regioni sono state investite dei compiti di:
   - emanare le norme di attuazione, nonché disposizioni volte alla promozione, al sostegno e allo sviluppo della cooperazione sociale;
   - istituire l’albo regionale delle cooperative sociali;
   - adottare convenzioni-tipo per i rapporti tra le cooperative sociali e le amministrazioni pubbliche.
Con legge regionale 07.02.1992, n. 7, il legislatore del Friuli Venezia Giulia ha provveduto a disciplinare la cooperazione sociale, ai sensi dell’art. 9 della L. 381/1991, dichiarando sin dal suo esordio (art. 1, comma 1) l’intento di voler favorire l’inserimento lavorativo e l’integrazione sociale delle persone svantaggiate.
Attualmente la disciplina della materia è contenuta nella legge regionale 26.10.2006, n. 20, che ha innovato ed implementato le precedenti disposizioni ed ha, pertanto, abrogato la L.R. 7/1992.
L’art. 1, comma 3, della L.R. 20/2006 sancisce che, al fine di sostenere la cooperazione sociale nel perseguimento dell’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, l’Amministrazione regionale provvede, tra l’altro, a:
   - stabilire interventi per l’incentivazione della cooperazione sociale;
   - individuare i contenuti delle convenzioni-tipo tra le cooperative sociali e i loro consorzi e le amministrazioni pubbliche che operano nell’ambito della regione;
   - fissare i criteri per la selezione delle cooperative sociali con cui concludere le convenzioni di cui all’art. 5, comma 1, della L. 381/1991.
Ai sensi dell’art. 1, comma 4, della stessa L.R. 20/2006 la Regione promuove, sostiene e valorizza in particolare le cooperative sociali dotate di determinate caratteristiche, quali l’orientamento delle attività a favore delle persone più bisognose di aiuto e di sostegno, la qualità e l’efficacia dei processi di inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, la presenza al proprio interno di persone svantaggiate in misura superiore alla percentuale minima prevista dall’art. 4, comma 2, della L. 381/1991.
L’art. 10, comma 1, della L.R. 20/2006, determinando le funzioni che spettano alla Regione in materia di interventi per l’incentivazione della cooperazione sociale, vi include la concessione agli enti pubblici di finanziamenti finalizzati a favorire la stipulazione delle convenzioni di cui all’art. 5, comma 1, della L. 381/1991, mediante la copertura di una quota del loro valore
[8].
Dopo aver richiamato le disposizioni normative più rilevanti in materia di cooperazione sociale, occorre ora esaminare i tratti peculiari della disciplina recata dall’art. 5 della L. 381/1991, rispetto ai rapporti che si instaurano nei differenti contesti della contrattualistica pubblica e della razionalizzazione/del contenimento della spesa.
Questo Ufficio ha già avuto occasione di rilevare –d’intesa con il Servizio regionale competente in materia di cooperazione sociale– che «La convenzione di cui trattasi consiste, perciò, in un accordo, derogatorio rispetto alle ordinarie procedure della contrattualistica pubblica, tra un ente pubblico e una cooperativa sociale, il cui oggetto è composto congiuntamente da una prestazione e dall’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, nell’esecuzione della prestazione stessa. Anzi, va più precisamente affermato che la finalità principale della convenzione non è la fornitura (del bene o) del servizio, ma la creazione di opportunità di lavoro per persone che vivono una condizione di particolare fragilità e che risultano, perciò, meno “competitive” rispetto alla gran parte dei soggetti che prestano la propria attività sul libero mercato»
[9].
Al riguardo, anche la dottrina ha avuto modo di affermare che:
   - la ratio della legislazione sul convenzionamento con le cooperative “di tipo b)” «è quella di tutelare e favorire, primariamente, l’inserimento nel mondo del lavoro di “persone svantaggiate” ex art. 4 comma 1 l. 381 cit. e quindi perseguire la “promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini”»
[10];
   - «il legislatore, attraverso l’art. 5 della legge 381/1991, “ha pensato ad una fattispecie complessa nella quale sono contenuti sia uno specifico contratto (di fornitura di beni o di servizi o affidamento di lavori) che un comportamento pubblicistico”
[11] correlato al “servizio” di inserimento lavorativo», cosicché «Il rapporto tra Pubblica Amministrazione e cooperativa sociale di tipo B assume in tal senso il significato di un rapporto complesso non riconducibile ad un semplice contratto di fornitura» [12];
   - «La scelta dell’ente pubblico di avvalersi della facoltà della deroga prevista dall’art. 5 è quindi conseguente ad una valutazione di “convenienza” complessiva, attinente la qualità dei servizi forniti, ma anche e principalmente i risultati “sociali” (ma anche economici, in termini di riduzione della spesa sociale) legati all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate»
[13];
   - «In considerazione delle particolari finalità sociali il modello convenzionale pubblico è considerato di natura “bivalente”, giacché presenta un oggetto che prevede sia la fornitura di beni e servizi, che la creazione di nuove opportunità di lavoro per soggetti svantaggiati riconducibili ad una delle categorie dell’art. 4 della legge n. 381/1991. Tale doppia finalità della convenzione deve essere tenuta presente nella definizione della disciplina applicabile, in quanto interpretazioni o applicazioni dell’istituto che tendessero a fare prevalere uno qualunque dei due aspetti sull’altro, finirebbero indubbiamente per distorcere il dettato normativo e l’intento del legislatore»
[14].
È stato, inoltre, osservato che per chiarire la ragione per cui il legislatore della L. 381/1991 abbia utilizzato il termine convenzione in luogo di quello di contratto occorre considerare che «La giurisprudenza ritiene la convenzione come un atto complesso nell’ambito degli accordi tra la Pubblica amministrazione (in particolare gli enti locali) e privati imprenditori, che contiene o può contenere uno o più contratti o uno o più provvedimenti amministrativi. È una sorta d’involucro “contenente tutti gli elementi di una serie di atti (negoziali e/o provvedimentali) con i quali l’amministrazione pubblica regola complessivamente con un privato il soddisfacimento integrale di un proprio interesse pubblico”
[15]» [16].
In tale ottica, pertanto, «gli enti pubblici possono affidare alle cooperative sociali la fornitura di alcuni beni e servizi, privilegiando al contempo l’esigenza di creare opportunità di lavoro, stabilendo vincoli di reinserimento sociale per categorie svantaggiate da privilegiare rispetto a criteri del maggior vantaggio economico nell’individuazione del prezzo del servizio»
[17].
In linea di continuità con quanto affermato dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP) con determinazione 01.08.2012, n. 3
[18], l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), con delibera 20.01.2016, n. 32 [19], ha ribadito l’importanza del terzo settore, tanto dal punto di vista sociale quanto occupazionale, ritenendo che la scelta organizzativa cui sempre più frequentemente ricorrono le pubbliche amministrazioni presenti il «vantaggio di promuovere un modello economico socialmente responsabile in grado di conciliare la crescita economica con il raggiungimento di specifici obiettivi sociali, quali, ad esempio, l’incremento occupazionale e l’inclusione e integrazione sociale».
Trattando delle convenzioni di cui all’art. 5 della L. 381/1991 l’ANAC rileva, in particolare, che «Ciò che occorre sottolineare è che l’oggetto della convenzione non si esaurisce nella mera fornitura di beni e servizi strumentali, ma è qualificato dal perseguimento di una peculiare finalità di carattere sociale, consistente nel reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati».
Alla luce di quanto sin qui rilevato e considerando che lo stesso legislatore della L. 381/1991 pone come facoltativo il ricorso al convenzionamento ivi previsto, si reputa che l’ente possa scegliere se avvalersi del modulo convenzionale, ovvero se acquisire il servizio ricorrendo al libero mercato.
Solo nella seconda ipotesi l’ente dovrà sottostare alle regole volte alla razionalizzazione e al contenimento della spesa pubblica, ivi compreso l’obbligo di adesione ai contratti quadro stipulati dalla Centrale unica di committenza della Regione Friuli Venezia Giulia.
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[1] «Nelle cooperative che svolgono le attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, le persone detenute o internate negli istituti penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26.07.1975, n. 354, e successive modificazioni. Si considerano inoltre persone svantaggiate i soggetti indicati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, con il Ministro dell’interno e con il Ministro per gli affari sociali, sentita la commissione centrale per le cooperative istituita dall’articolo 18 del citato decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14.12.1947, n. 1577, e successive modificazioni.».
[2] Il servizio di pulizia ricade nell’ambito delle categorie merceologiche individuate dall’art. 1, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11.07.2018, in attuazione delle previsioni contenute nell’art. 9, comma 3, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89.
[3] «Fatte salve le disposizioni vigenti in materia di cooperative sociali e di imprese sociali, le stazioni appaltanti possono riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto e a quelle di concessione o possono riservarne l’esecuzione ad operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate o possono riservarne l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.».
[4] «Le cooperative sociali e i loro consorzi sono disciplinati dalla legge 08.11.1991, n. 381».
[5] Che, ai sensi del comma 2 della stessa disposizione, devono risultare iscritte al relativo albo regionale.
[6] Si tratta dell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 5 in esame, aggiunto dall’art. 1, comma 610, della legge 23.12.2014, n. 190.
[7] Una simile previsione era già stata adottata dal legislatore di questa Regione, dapprima con l’art. 10, comma 2, della L.R. 7/1992 e poi con il vigente art. 24, comma 1, della L.R. 20/2006.
[8] V. anche il Titolo VI (artt. 26-30) del decreto del Presidente della Regione 30.08.2017, n. 0198/Pres.
[9] Parere 27.07.2010, prot. n. 12478.
[10] Russo F., Gli affidamenti in convenzione alle cooperative sociali di tipo B inferiori alla soglia comunitaria e il principio di rotazione, in www.diritto24.ilsole24ore.com, 13.03.2018.
[11] L’inciso è attribuito a Mele E., Convenzioni degli enti pubblici con le cooperative sociali, in Impresa Sociale n. 5/1992 ed Evoluzioni e prospettive del convenzionamento ad un anno dalla l. n. 381/1991, in Impresa Sociale n. 9/1993.
[12] Zulian G. (a cura di), L’affidamento pubblico a cooperative sociali di tipo B. Norme nazionali e regionali, Comunità Edizioni, 2006.
[13] V. nota n. 12.
[14] Policari A., Codice Appalti, Cooperative Sociali: come cambiano le procedure d’appalto?, in www.leggioggi.it, 12.05.2016.
[15] V. nota n. 11.
[16] Rozzo P. – Celletti W. Guida agli acquisti sociali negli appalti pubblici, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma, 2013.
[17] V. nota n. 16.
[18] «Linee guida per gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 381/1991».
[19] «Determinazione Linee guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali»
(21.10.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: rispetto delle distanze tra fabbricati siti nel medesimo lotto ed appartenenti ad unico proprietario – fabbricato parzialmente interrato a destinazione accessoria- fabbricati privi di finestre e/o vedute - parere (Legali Associati per Celva, nota 04.07.2019 - tratto da www.celva.it).
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Il Comune di Valtournenche ha sottoposto, per il tramite del CELVA, la seguente questione, inerente l’individuazione della distanza da rispettare tra due fabbricati appartenenti allo stesso proprietario.
Nel dettaglio, viene specificato che si intende realizzare un fabbricato seminterrato, costituito da tre lati interrati ed un lato libero destinato ad autorimessa fronteggiante sul lato libero con un basso fabbricato completamente fuori terra a destinazione accessoria (centralina idroelettrica). (...continua).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAConvenzioni accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia e scomputo del costo di costruzione.
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Edilizia – Oneri di costruzione – Scomputo - Convenzioni accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia – esclusione.
Le convenzioni accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia possono consentire lo scomputo degli oneri di urbanizzazione, ma non anche del costo di costruzione (1).
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   (1) Osserva la Sezione che l’istituto della datio in solutum consiste nell’accordo negoziale fra creditore e debitore circa l’effettuazione, con effetto estintivo dell’obbligazione, di una prestazione diversa da quella originariamente dedotta in contratto: come tale, l’istituto è espressione della disponibilità del diritto (e del sovrastante rapporto obbligatorio) di cui, viceversa, l’Amministrazione impositrice, per le ragioni sopra enucleate, difetta ex lege ab origine.
Di converso, la locuzione “con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune” contenuta nell’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 non dimostra né sottende un’implicita autorizzazione legislativa a convenire pattiziamente forme solutorie alternative a quella monetaria.
In disparte il rilievo che un’eccezione di tale portata richiederebbe una disciplina espressa ed esplicita, è sufficiente considerare che tale locuzione va letta nell’ambito della generale disciplina apprestata dal comma in discorso, afferente alla realizzazione diretta, da parte del privato, delle opere di urbanizzazione: ne consegue che le “modalità” in questione sono solo quelle strettamente afferenti alla concreta esecuzione delle opere de quibus (tempistica, modalità costruttive, qualità dei materiali, et similia).
Peraltro, l’ammissione della negoziabilità delle modalità solutorie delle obbligazioni tributarie (o, comunque, disciplinate dal diritto pubblico) cozzerebbe frontalmente con i principi costitutivi su cui si regge il vigente sistema di contabilità pubblica, fondato sulla generale e rigida indisponibilità anche per l’Amministrazione, salve specifiche e puntuali disposizioni legislative, di tutta la disciplina del tributo (o, comunque, della prestazione patrimoniale imposta) per come delineata dalla legge.
La Sezione esclude anche la possibilità di richiamare l’istituto della compensazione.
La compensazione è un istituto ontologicamente diverso dall’anelata facoltà di scomputo cui il presente giudizio inerisce.
Invero, la compensazione (che, peraltro, nel settore tributario opera solo in base ad espressa previsione normativa – cfr. art. 8, comma 6, l. n. 212 del 2000) valorizza a fini estintivi dell’obbligazione la compresenza, in capo all’Amministrazione ed al contribuente, di individuate ragioni contrapposte di credito/debito, laddove lo scomputo del costo di costruzione derogherebbe, senza alcuna base legislativa, all’ordinaria regula juris di natura pubblicistica per cui il pagamento dei tributi (e, più in generale, delle prestazioni di diritto pubblico) si fa in moneta (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.12.2019 n. 8919 - commento tratto ad e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con ricorso avanti il Tar per la Lombardia – Sede di Milano la società Al. s.p.a. ha chiesto l’accertamento:
   - del proprio diritto allo scomputo (anche) del costo di costruzione relativo alla realizzazione di una multisala cinematografica, assentita dal Comune di Milano con il p.d.c. n. 85 dell’11.05.2006, rilasciato anche sulla scorta della previa convenzione integrativa stipulata inter partes in forma pubblica in data 12.04.2006;
   - dell’insussistenza del credito vantato dal Comune a titolo di conguaglio per monetizzazione e contributo smaltimento rifiuti, con conseguente diritto alla ripetizione di quanto già versato a tali fini.
Il Comune di Milano si è costituito in resistenza, formulando sia eccezioni in rito (assunta inammissibilità del ricorso per tardiva instaurazione del giudizio), sia difese in merito (infondatezza delle pretese svolte ex adverso).
2. Con la sentenza 18.06.2018 n. 1525 il Tribunale - Sez. II, previa reiezione dell’eccezione di rito sollevata dal Comune, ha, nel merito, accolto integralmente il ricorso.
3. Il Comune ha interposto appello con riferimento alla sola questione relativa allo scomputo del costo di costruzione.
...
L’oggetto del presente giudizio, pertanto, si riduce alla sola questione della possibilità di ammettere lo scomputo anche del costo di costruzione (cfr., del resto, la memoria del Comune depositata in data 07.11.2019, pag. 3).
5. Quanto, appunto, a tale questione, il Collegio premette che la convenzione accessiva al p.d.c. n. 85 stabilisce che Al. possa realizzare opere di urbanizzazione a scomputo dei soli oneri di urbanizzazione, ma, poi, individua l’importo scomputabile nella somma di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione: secondo la ricorrente in prime cure (cui si è conformato il Tribunale) dovrebbe darsi prevalenza al dato numerico, secondo il Comune, invece, rileverebbe il dato terminologico, tanto più che l’importo dovuto a titolo di “contributo di costruzione” sarebbe sempre modificabile dall’Amministrazione (l’Ente cita, in proposito, la sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio 30.08.2018, n. 12).
Ove, poi, si interpreti la convenzione come anelato da Al., sorge l’ulteriore, conseguente problematica della possibilità giuridica che convenzioni accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia possano consentire lo scomputo non solo degli oneri di urbanizzazione, ma anche del costo di costruzione.
Anche su tale questione il Tribunale ha dato una risposta positiva, sia perché l’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001, nel prevedere la possibilità dello scomputo degli oneri di urbanizzazione, non vieterebbe espressamente lo scomputo anche del costo di costruzione, sia perché la natura tributaria propria del costo di costruzione atterrebbe all’an ed al quantum, ma non al quomodo, sì che ben potrebbe il Comune ottenere il pagamento in forma diversa da quella monetaria.
Secondo il Comune appellante, viceversa, da un lato la disposizione dell’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 avrebbe natura speciale (recte, eccezionale) rispetto al generale obbligo di corresponsione monetaria del “contributo di costruzione” e sarebbe, pertanto, da interpretarsi restrittivamente, dall’altro la natura tributaria del costo di costruzione (che, non essendo “immediatamente correlato alla realizzazione di opere di urbanizzazione”, differirebbe nettamente dagli oneri di urbanizzazione) escluderebbe comunque ex se ogni possibilità per il Comune di esigere il pagamento in forma diversa da quella prescritta dalla legge (ossia in forma monetaria), pena lo stravolgimento delle norme di contabilità pubblica.
6. La prospettazione defensionale svolta dall’appellante Comune è fondata, ai sensi delle considerazioni che seguono.
6.1. E’ necessario prendere le mosse dalla disciplina legislativa dettata in subiecta materia.
L’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 stabilisce che “La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell’articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del Comune”.
La disposizione, dunque, non menziona il costo di costruzione, ma si riferisce ai soli oneri di urbanizzazione (analogamente dispone l’art. 45 della l.r. lombarda n. 12 del 2005).
E’ vero che, di converso, la disposizione non vieta espressamente lo scomputo anche del costo di costruzione: ciò, tuttavia, non assume un rilievo decisivo.
Anzitutto, allorché il legislatore detta una disciplina per una specifica fattispecie, ciò conduce implicitamente ad escluderne l’applicazione anche ad altre e diverse ipotesi non menzionate (è noto il brocardo secondo cui ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
Pur a voler prescindere da tale considerazione, il Collegio osserva che la disposizione in esame ha natura derogatoria rispetto a quanto previsto dal comma che precede, ove è stabilito che “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
L’espressione “corresponsione” rimanda, con ogni evidenza, ad una dimensione monetaria del pagamento, che, del resto, costituisce l’ordinaria forma di riscossione delle entrate dello Stato e degli Enti pubblici (cfr. articoli 225 e 230 r.d. n. 827 del 1924).
La disposizione in commento delinea, in sostanza, un’eccezione alla regula juris generale per cui i debiti tributari o, comunque, regolati da norme di diritto pubblico si estinguono con un pagamento in moneta: in ragione di tale natura eccezionale, la disposizione non è applicabile oltre i casi ed i tempi in essa previsti (cfr. art. 14 preleggi), giacché non riflette né veicola un principio generale, ma, al contrario, vi deroga.
6.2. In una più ampia considerazione sistematica, invero, il Collegio osserva che il “contributo” di cui all’art. 16, comma 1, d.p.r. n. 380 del 2001, ivi inclusa la parte commisurata al costo di costruzione, ha natura di corrispettivo di diritto pubblico e configura una prestazione patrimoniale imposta (cfr. la richiamata sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 12 del 30.08.2018).
Ora, i crediti di diritto pubblico sono indisponibili per l’Ente impositore non solo in ordine all’an ed al quantum (ossia alla fase genetica), ma anche in ordine al quomodo (ossia alla fase esecutiva o, che dir si voglia, solutoria).
L’Amministrazione, altrimenti detto, non può, in assenza di una specifica e puntuale previsione legislativa, accordarsi con il contribuente (o, comunque, con il debitore di una prestazione di diritto pubblico) circa una modalità di soluzione diversa dall’adempimento monetario.
Per quanto qui di interesse, dunque, de jure condito il Comune non può convenire una datio in solutum con il soggetto tenuto a corrispondere il contributo di costruzione.
Invero, l’istituto della datio in solutum consiste nell’accordo negoziale fra creditore e debitore circa l’effettuazione, con effetto estintivo dell’obbligazione, di una prestazione diversa da quella originariamente dedotta in contratto: come tale, l’istituto è espressione della disponibilità del diritto (e del sovrastante rapporto obbligatorio) di cui, viceversa, l’Amministrazione impositrice, per le ragioni sopra enucleate, difetta ex lege ab origine.
6.3. Di converso, la locuzione “con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune” contenuta nell’art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 non dimostra né sottende un’implicita autorizzazione legislativa a convenire pattiziamente forme solutorie alternative a quella monetaria.
In disparte il rilievo che un’eccezione di tale portata richiederebbe una disciplina espressa ed esplicita, è sufficiente considerare che tale locuzione va letta nell’ambito della generale disciplina apprestata dal comma in discorso, afferente alla realizzazione diretta, da parte del privato, delle opere di urbanizzazione: ne consegue che le “modalità” in questione sono solo quelle strettamente afferenti alla concreta esecuzione delle opere de quibus (tempistica, modalità costruttive, qualità dei materiali, et similia).
6.4. Peraltro, osserva in termini ancora più generali il Collegio, l’ammissione della negoziabilità delle modalità solutorie delle obbligazioni tributarie (o, comunque, disciplinate dal diritto pubblico) cozzerebbe frontalmente con i principi costitutivi su cui si regge il vigente sistema di contabilità pubblica, fondato sulla generale e rigida indisponibilità anche per l’Amministrazione, salve specifiche e puntuali disposizioni legislative, di tutta la disciplina del tributo (o, comunque, della prestazione patrimoniale imposta) per come delineata dalla legge.
6.5. A chiusura sul punto, il Collegio rileva che è inconferente il richiamo operato da Al. all’istituto della compensazione, “cui”, ad avviso dell’appellata società, “lo scomputo risulta latamente riconducibile”.
In realtà, osserva il Collegio, la compensazione è un istituto ontologicamente diverso dall’anelata facoltà di scomputo cui il presente giudizio inerisce.
Invero, la compensazione (che, peraltro, nel settore tributario opera solo in base ad espressa previsione normativa – cfr. art. 8, comma 6, l. n. 212 del 2000) valorizza a fini estintivi dell’obbligazione la compresenza, in capo all’Amministrazione ed al contribuente, di individuate ragioni contrapposte di credito/debito, laddove lo scomputo del costo di costruzione derogherebbe, senza alcuna base legislativa, all’ordinaria regula juris di natura pubblicistica per cui il pagamento dei tributi (e, più in generale, delle prestazioni di diritto pubblico) si fa in moneta.
7. Le considerazioni che precedono conducono alla corretta interpretazione da riconoscere alla convenzione accessiva al titolo edilizio: ai sensi dell’art. 1367 c.c., infatti, in situazioni di dubbio esegetico i contratti (e, quindi, anche gli accordi di diritto pubblico – cfr. art. 11 l. n. 241 del 1990) devono essere interpretati in modo tale da preservarne la validità.
Nella specie, l’unica esegesi compatibile con la validità della convenzione è quella che ascrive rilievo determinante alla lettera della stessa (che limita lo scomputo ai soli oneri di urbanizzazione), ritenendo, viceversa, recessivo (e, comunque, non significativo) il difforme dato numerico.
8. Incidentalmente, il Collegio rileva che, sia pure in altra materia, questo Consiglio ha sancito la prevalenza del valore espresso in lettere rispetto a quello espresso in cifre (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 10.11.2015, n. 10).
In una più ampia visione di sistema, peraltro, l’ordinamento –in caso di discordanze– assegna prevalenza alla lettera rispetto al dato numerico sia nella disciplina dell’assegno bancario (cfr. r.d. n. 1736 del 1933, art. 9), sia in quella della cambiale (r.d. n. 1669 del 1933, art. 6).
Oltretutto, le norme generali della contabilità pubblica (art. 72 r.d. n. 827 del 1924) stabiliscono che “quando, in un’offerta all’asta, vi sia discordanza fra il prezzo indicato in lettere e quello indicato in cifre, è valida l’indicazione più vantaggiosa per l’Amministrazione”: da tale disposizione può trarsi un principio di tendenziale favor esegetico, in ipotesi dubbie, per le ragioni erariali (e, più in generale, per le ragioni delle finanze pubbliche).
9. L’individuazione del corretto significato da attribuire alla convenzione rende, conseguentemente, ab origine inconferente e, comunque, priva di pregio la difesa da ultimo svolta da Al., secondo cui la contestazione, da parte del Comune, dell’interpretazione della convenzione come ammissiva dello scomputo anche del costo di costruzione avrebbe imposto, a pena di inammissibilità della censura d’appello, il previo annullamento in autotutela del titolo edilizio e della connessa convenzione.
10. Per le esposte ragioni, pertanto, il ricorso in appello va accolto: in parziale riforma della sentenza impugnata, dunque, deve rigettarsi il ricorso di primo grado nella parte in cui si chiede l’accertamento del diritto di fruire dello scomputo del costo di costruzione.

APPALTIEffetti sul contratto in caso di annullamento dell’aggiudicazione e ripetizione della gara.
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   ● Processo amministrativo - Rito appalti – Annullamento dell’aggiudicazione – Sorte del contratto - Individuazione.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Offerta – Omessa indicazione separata degli oneri della sicurezza – Condizione.
  
Ai sensi dell’art. 122 c.p.a. , il giudice può regolare gli effetti dell’inefficacia del contratto, salvo che dall’annullamento dell’aggiudicazione derivi la ripetizione della gara; tale disposizione va però coordinata con l’art. 34 c.p.a., che consente di adottare le misure necessarie a tutelare le situazioni giuridiche dedotte in giudizio e che, attesa la sua valenza generale ed atipica, si applica anche al rito appalti, risolvendosi essa in uno strumento di effettività di tutela che si affianca armonicamente alla statuizione prevista dall’art. 122 (e che, a ben vedere, ne integra una ipotesi applicativa tipica) la cui natura costitutiva ne risulta così ampliata (1).
  
Il ricorso al soccorso istruttorio è ammesso se la mancata indicazione separata nell’offerta degli oneri della sicurezza dipende dalla erronea qualificazione, nella lex specialis, della natura dell’appalto da parte della stazione appaltante, che induca ragionevolmente la concorrente a confidare nella natura solo o prevalentemente intellettuale del servizio (2).

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   (1) Ha chiarito il Tar che la fondatezza di entrambi i gravami, principale e incidentale, comporta l'annullamento dell'aggiudicazione, ma con l'importante differenza che l'accoglimento del ricorso imponeva la riedizione della gara ai fini del soccorso istruttorio; mentre, la fondatezza del ricorso incidentale comportava l'esclusione della ricorrente principale dalla gara.
Si è così determinato un assetto di interessi nel quale la riedizione del procedimento derivava dall'annullamento dell'aggiudicazione nel solo interesse dell'Amministrazione e della controinteressata, unica concorrente rimasta in gara e già titolare del relativo contratto di appalto, che medio tempore era stato stipulato.
Secondo i consueti principi validi per la giurisprudenza nazionale prima della richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE, 05.09.2019, tale condizione non si sarebbe verificata, in quanto il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per carenza d'interesse -risultando la ricorrente da escludersi dalla gara- con conseguenza conferma dell'aggiudicazione impugnata ed intangibilità del contratto di appalto.
A seguito del superamento dell'effetto escludente del ricorso incidentale, invece, l'annullamento dell'aggiudicazione comportava comunque la dichiarazione di inefficacia del contratto, con rischio di perdita -nelle more della riedizione del procedimento- dei finanziamenti e di compromissione degli scopi dell'iniziativa pubblica alla quale l'appalto era preordinato.
A tale proposito, la disciplina in tema di inefficacia del contratto di cui all'art. 122 c.p.a. nella parte in cui esclude la possibilità di regolare la decorrenza dell'inefficacia del contratto per il caso in cui dall'annullamento dell'aggiudicazione consegua la riedizione del procedimento, è stata evidentemente ritenuta insufficiente dal giudice amministrativo in quanto la norma appare pensata per un contesto processuale nel quale la ripetizione della gara interviene in favore della ricorrente, e non, come nel caso di specie, della sola controinteressata ricorrente incidentale.
Il Tar ha dunque ritenuto di modulare l'applicazione dell'art. 122 c.p.a. -che consente al giudice di regolare la decorrenza della dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione- integrandone la fattispecie normativa con la previsione generale di cui all'art. 34 c.p.a., così da consentire il coordinamento della decorrenza dell'inefficacia dal contratto con l'esito della ripetizione della gara e farne salvi gli effetti nelle more.
Si tratta di una soluzione evidentemente rivolta ad assicurare il ripristino della legalità violata, coniugandola con le esigenze pubbliche di celerità ed efficienza nell'aggiudicazione degli appalti e con la connessa esigenza di tutela delle ragioni dell'economia.
La sentenza in commento rappresenta, così, un caso particolare, degno di nota, in quanto, da un lato, è relativa ad una fattispecie nella quale si denota la criticità dell'assetto processuale derivante dal superamento dell'effetto processuale tipico del ricorso incidentale "escludente"; ma dall'altro evidenzia altresì la duttilità dello strumento processuale offerto dall'art. 34 c.p.a., il cui ragionevole utilizzo, da parte del giudice amministrativo, si presta a prevenire contrasti tra legalità ed efficienza, coniugandoli adeguatamente nel caso concreto.
   (2) La Sezione ha riconosciuto che la lex specialis non prevedeva in alcun modo l'obbligo di indicare i costi di sicurezza e che dubbia era da ritenersi la stessa qualificazione dell'appalto in termini di servizi a natura intellettuale (che come tali non richiedono l'indicazione separata dei costi della sicurezza), con la conseguenza che ha ritenuto giustificabile l'omissione della concorrente ed applicabile il soccorso istruttorio, in forza, ancora una volta, dei principi eurounitari e della giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte giustizia UE, sez. IX , 02.05.2019, n. 309) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 24.12.2019 n. 14851 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVolontà espressa e non silenzio-assenso per il perfezionamento dell’aggiudicazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Soccorso istruttorio – Offerta - Sottoscrizione - Mancanza di una delle sottoscrizioni dell’offerta – Sussiste.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Aggiudicazione – Silenzio della stazione appaltante - Conseguenza – Individuazione.
   Ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, il difetto parziale di sottoscrizione deve considerarsi suscettibile di sanatoria mediante soccorso istruttorio e, come tale, non costituisce causa di immediata esclusione del concorrente interessato; la vicenda, infatti, non integra alcune delle ipotesi in cui il soccorso istruttorio è vietato dalla legge e, in particolare, non quella dei “vizi dell’offerta”, essendo la stessa compiutamente formulata e sottoscritta da uno degli amministratori della società, il che è sufficiente a comprovarne la riconducibilità a quest’ultima.
  
Ai sensi del comma 1 dell’art. 33, d.lgs. n. 50 del 2016, l’inutile decorso del termine di trenta giorni refluisce sulla formazione del silenzio-assenso sull’approvazione della proposta di aggiudicazione, ma non sul perfezionamento dell’aggiudicazione, per la quale occorre una manifestazione di volontà espressa della pubblica amministrazione, mediante un provvedimento espresso.
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   (1) Ha chiarito il Tar che con il principio di invarianza della soglia di anomalia, di cui all’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la legge intende evitare che, in un tal caso, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, cioè della soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta si presume senz’altro anomala
La cristallizzazione della soglia consegue alla sola adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, prima restando integro il potere della stazione appaltante di rivederla, pur dopo la fase di ammissione degli operatori economici. Lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50. non si può applicare nel caso in cui il concorrente abbia tempestivamente impugnato l’atto di ammissione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a..
Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di intervento in autotutela a procedura ancora aperta, da parte dell’amministrazione, e di esclusione dei concorrenti in qualunque momento della gara (art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un irrigidimento non conforme ai principî costituzionali ed europei, prima ancora che alle disposizioni del codice, determinando una cristallizzazione della soglia insensibile a qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso di gara persino dalla stessa stazione appaltante.
I detti principi vanno mantenuti adesso che la nuova normativa c.d. “sblocca cantieri”, ha abrogato i commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a., posto che nel caso di specie è intervenuto comunque un contenzioso procedimentale proprio in merito alla legittimità o meno di un’esclusione incidente sulla determinazione della soglia di anomalia.
In altri termini, la cristallizzazione non è intervenuta proprio per effetto di tale contenzioso procedimentale, anteriore alla definitiva aggiudicazione (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.12.2019 n. 3075 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
In disparte gli elementi probatori offerti da quest’ultima, è da ritenere che (cfr. TAR Cagliari, 22.01.2019 n. 34) appare dirimente il fatto che –alla stregua dei principi caratterizzanti il procedimento amministrativo di selezione pubblica–
il difetto parziale di sottoscrizione deve considerarsi suscettibile di sanatoria mediante soccorso istruttorio e, come tale, non costituisce causa di immediata esclusione del concorrente interessato.
Giova, al riguardo, richiamare innanzitutto il tenore testuale dell’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016, a mente del quale “Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all’articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica e all’offerta tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stesse”.
Orbene la vicenda non integra alcune delle ipotesi in cui il soccorso istruttorio è vietato dalla legge, in particolare:
   – non quella dei “vizi dell’offerta”, essendo la stessa compiutamente formulata e sottoscritta da uno degli amministratori della società, il che è sufficiente a comprovarne la riconducibilità a quest’ultima;
   – non l’ipotesi di vizi inficianti “l’individuazione del soggetto responsabile”, per la stessa ragione.
A conferma si pone l’orientamento giurisprudenziale -che negli ultimi anni si è pienamente consolidato e dal quale non vi sono ragioni per discostarsi- secondo cui
l’offerta recante la sottoscrizione di uno solo degli amministratori deve essere correttamente inquadrata -non già tra le ipotesi di omessa sottoscrizione in senso proprio, bensì- nella meno grave fattispecie di “non corretta spendita del potere rappresentativo”, la quale “opera sul piano della efficacia e non su quello della validità (così Consiglio di Stato, sez. III, 05.03.2018 n. 1338); a ciò consegue, proprio perché si è in presenza di mera incompletezza della sottoscrizione, che la stessa “non preclude la riconoscibilità della provenienza dell’offerta e non comporta un’incertezza assoluta sulla stessa (…), il che induce a ritenere il vizio sanabile mediante il soccorso istruttorio e non idoneo a cagionare l’immediata ed automatica estromissione dalla procedura selettiva (così TAR Firenze, 31.03.2017 n. 496).
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Le questioni agitate da parte ricorrente sono riconducibili, per un verso, alla legittimità di una procedura a istanza della parte esclusa, volta al riesame della sua corretta esclusione da una selezione pubblica, in assenza di uno specifico interesse, poiché dalla sua riammissione, comunque, non potrebbe sortire l’aggiudicazione in suo favore.
Tale richiesta, quindi, priva di interesse “proprio”, sarebbe meramente strumentale alla revoca della medesima aggiudicazione provvisoria già intervenuta in favore della ricorrente, per effetto del ricalcolo della soglia di anomalia delle offerte, ormai non più praticabile, ai sensi dell’art. 95, comma 15, del codice dei contratti.
Il Collegio osserva preliminarmente che, come sarà chiarito,
il discrimine per un intervento in autotutela va individuato nell’aggiudicazione definitiva, momento nel quale si cristallizza comunque la valutazione dell’offerta.
Ciò premesso, va preliminarmente chiarito se la stessa si sia formata per silenzio-assenso, posto che tra la comunicazione della proposta di aggiudicazione e l’aggiudicazione definitiva è trascorso un termine superiore a trenta giorni, senza alcuna “interruzione” della procedura per motivi istruttori indirizzata alla destinataria, attuale ricorrente, della detta proposta.
Il comma 1 dell’art. 33 del Decreto legislativo del 18/04/2016, n. 50, stabilisce che <1. La proposta di aggiudicazione è soggetta ad approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell'organo competente. In mancanza, il termine è pari a trenta giorni. Il termine è interrotto dalla richiesta di chiarimenti o documenti e inizia nuovamente a decorrere da quando i chiarimenti o documenti pervengono all'organo richiedente. Decorsi tali termini, la proposta di aggiudicazione si intende approvata>.
Condivide il Collegio la giurisprudenza (cfr. TAR Bari, sez. III, 30/08/2018, n. 1205), secondo la quale
già prima dell'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, la giurisprudenza aveva ricondotto all'inutile decorso del termine la formazione del silenzio assenso sull'approvazione dell'aggiudicazione provvisoria (12 del D.lgs. 12.04.2006 n. 163, Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce), ma non il perfezionamento dell'aggiudicazione definitiva, per la quale si è sempre puntualizzato che occorre una manifestazione di volontà espressa della pubblica amministrazione.
In proposito,
consolidato è il principio per cui la stazione appaltante, pur a fronte dell'approvazione dell'aggiudicazione provvisoria, conserva comunque il potere discrezionale di procedere o meno all'aggiudicazione definitiva (ex multis, TAR Umbria n. 172 del 16.06.2011, TAR Lazio, Sez. I, 28.02.2011, n. 1809).
L'aggiudicazione provvisoria, infatti, è stata pacificamente ritenuta quale atto di natura endoprocedimentale, ad effetti instabili ed interinali, soggetta, ai sensi dell'art. 12 D.lgs. 12.04.2006, n. 163, all'approvazione dell'organo competente, che non può dubitarsi essere la stazione appaltante (cfr., Cons. Stat, sez. VI, 13/06/2013, n. 3310).
Tale impostazione, fatta propria dalla giurisprudenza nel vigore del vecchio codice degli appalti, è stata ribadita anche con il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al D.lgs. n. 50/2016 con una disciplina sostanzialmente simile: l'art. 32, comma 5, prevede che la "stazione appaltante, previa verifica della proposta di aggiudicazione ai sensi dell'articolo 33, comma 1, provvede all'aggiudicazione", a cui segue la previsione di cui all'art. 33, comma 1, sopra richiamata.
La disposizione dimostra che ciò che si forma tacitamente è l'approvazione della proposta di aggiudicazione, non anche l'aggiudicazione.
Come affermato in una recente pronuncia condivisa dal Collegio "
L'art. 33, co. 1, si riferisce solo all'approvazione dell'aggiudicazione provvisoria, non anche alla formazione (tacita) dell'aggiudicazione definitiva, che, invece, trova la sua disciplina nell'art. 32, co. 5; norma che dimostra la necessità che l'aggiudicazione, per i complessi interessi sottesi e le esigenze che intende soddisfare, non può che rivestire le forme del provvedimento espresso" (Cfr. TAR Campania, Salerno, sez. I, sent. n. 1153 del 12.07.2017).
Dal tenore del testo normativo emerge che
dalla mera inerzia della stazione appaltante non può desumersi il perfezionamento dell'aggiudicazione che richiede comunque una manifestazione di volontà espressa dell'Amministrazione, ossia un provvedimento, a conclusione dell'esercizio dei poteri generali di controllo spettanti alla stazione appaltante.
La "proposta di aggiudicazione" si qualifica come atto infraprocedimentale, privo della forza di poter ledere le posizioni giuridiche dei concorrenti e come tale, ritenuto pacificamente non autonomamente impugnabile (Cfr. TAR Campania, Salerno, sent. n. 1153/2017, cit.).
Quella che era "aggiudicazione definitiva" è divenuta tout court "aggiudicazione", atto, invece, da cui può discendere la lesione degli interessi legittimi delle ditte partecipanti alla gara.
Occorre rimarcare ancora che,
in ogni caso, sia la proposta di aggiudicazione, che l'aggiudicazione non producono l'effetto di far insorgere il rapporto obbligatorio tra ente appaltante ed operatore economico, bensì solo di concludere formalmente la procedura di gara con l'individuazione del miglior offerente. Il rapporto obbligatorio tra amministrazione appaltante ed appaltatore nasce solo ed esclusivamente a seguito della stipulazione del contratto.
Quindi,
il silenzio-assenso non definisce l’aggiudicazione definitiva, essendo necessario un provvedimento espresso, che, sia pure con criticità e con tempi che avrebbero potuto essere più brevi, è stato emanato in tempi ragionevoli, tenuto conto che si è proceduto a una fase istruttoria, che l’Amministrazione avrebbe meglio condotto se avesse informato la destinataria, attuale ricorrente, della proposta di aggiudicazione.
In riferimento alla dedotta “stranezza” della provocazione di una procedura da parte della partecipante esclusa, non destinataria di un concreto interesse all’aggiudicazione, il Collegio ritiene che, in disparte l’asserita possibilità di incameramento della cauzione, la circostanza più rilevante consista nella possibilità di ristabilire (l’interesse per) una aggiudicazione comunque legittima e sostanzialmente corretta, quale è quella conseguente alla riammissione di una partecipante illegittimamente esclusa.
In altre parole, tra due principi contrastanti, non può ritenersi recessivo, rispetto alla immediata stabilizzazione degli effetti ai fini “acceleratori”, quello alla conclusione di una procedura, con la coerente eventuale rideterminazione della soglia di anomalia, per effetto della riammissione di un’offerta di una partecipante, come nel caso di specie, illegittimamente esclusa.
Se così è, tutta la questione si risolve nella individuazione della cristallizzazione dell’offerta, in considerazione di quanto previsto dal comma 15 dell’art. 95 del D.lgs.vo 50/2016.
La norma, in effetti (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 22/01/2019, n. 572), prevede (che): "
Ogni variazione che intervenga anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte".
La disposizione presenta contenuto analogo all'art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 16.04.2006, n. 163 inserita dall'art. 39 del d.l. 24.06.2014 n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114, ed ha la funzione di assicurare stabilità agli esiti finali della procedura di gara.
La fattispecie definita dalla norma si verifica quando successivamente al superamento della fase di aggiudicazione del contratto, ovvero anche prima ove si intenda seguire l'orientamento estensivo che si va qui a ricordare, la stazione appaltante proceda all'esclusione dell'aggiudicatario (o di altro concorrente) per mancata dimostrazione dei requisiti dichiarati.
Con il principio di invarianza della soglia di anomalia, la legge intende evitare che, in un tal caso, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, cioè della soglia minima di utile al di sotto della quale l'offerta si presume senz'altro anomala (cfr. Cons. Stato, III, 12.07.2018, n. 4286; III, 27.04.2018, n. 2579), con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche.
5.6. La disposizione è oggetto di interpretazioni divergenti circa il momento dal quale opera il principio di invarianza della soglia di anomalia.
Secondo un primo e restrittivo orientamento, la cristallizzazione della soglia conseguirebbe alla sola adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, prima restando integro il potere della stazione appaltante di rivederla, pur dopo la fase di ammissione degli operatori economici (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giuris., 11.01.2017, n. 14; 22.12.2015, n. 740; Cons. Stato, V, 16.03.2016, n. 1052;); per altro orientamento, invece, considerato il carattere generale del principio, l'invarianza dovrebbe seguire già alla proposta di aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, V, 23.02. 2017, n. 847).
Il giudice di seconde cure (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 27.04.2018 n. 2579) ha rilevato che "lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (principio della c.d. invarianza della soglia) non si può applicare nel caso in cui il concorrente abbia tempestivamente impugnato l’atto di ammissione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., in assenza, al momento, di qualsivoglia “cristallizzazione” della soglia per effetto di una graduatoria formata sulla base di ammissioni o esclusioni divenute inoppugnabili e immodificabili –per il rapidissimo susseguirsi degli atti di gara– e, anzi, in pendenza di un subprocedimento per la verifica dell’anomalia dell’offerta risultata prima graduata ancora aperto".
Il coordinamento dell’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (che ha recepito l’analoga previsione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 introdotta nel 2014) –secondo cui “Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte”– con la disposizione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. esige anzitutto che il concorrente, il quale intenda contestare l’ammissione (o l’esclusione) di un altro concorrente –laddove ovviamente, come nel caso di specie, tale interesse sia attuale, immediato e concreto, per essere stata la determinazione della soglia immediatamente successiva all’ammissione dei concorrenti– debba farlo immediatamente, a nulla rilevando la finalità per la quale intenda farlo, come, appunto, per l’ipotesi in cui egli persegua, così facendo, l’interesse –in sé del tutto legittimo– di potere incidere sul calcolo delle medie e della soglia di anomalia, erroneamente determinato sulla base di una ammissione –o di una esclusione– illegittima.
Anzi, proprio in questa ipotesi, l’immediata impugnativa dell’ammissione appare necessaria, perché l’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 ha inteso evitare che, a soglia già cristallizzatasi (c.d. blocco della graduatoria), un concorrente possa insorgere contro l’ammissione di un altro non già principaliter per contestarne la legittima ammissione alla gara, in assenza di un valido requisito, ma solo per rimettere in discussione il calcolo delle medie e la soglia di anomalia effettuato sulla platea dei concorrenti, spesso molto ampia, ponendo i risultati della gara in una situazione di perenne incertezza e determinando, così, la caducazione, a distanza di molto tempo trascorso e in presenza di molte risorse impiegate, dell’aggiudicazione già intervenuta.
Proprio per questo l’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, ha previsto l’immutabilità o invarianza della soglia, una volta cristallizzatasi, e cioè –al pari del suo diretto antecedente storico, l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, di cui ricalca la formulazione– al fine di “scoraggiare impugnazioni sui provvedimenti di ammissione o esclusione che avessero come obiettivo soltanto quello di modificare la media delle offerte” (C.g.a. 26.06.2017, n. 316 ma. v. anche Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 22.12.2015, n. 740 e Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 10.07.2015, n. 456).
<... Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di intervento in autotutela a procedura ancora aperta, da parte dell’amministrazione, e di esclusione dei concorrenti in qualunque momento della gara (art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un irrigidimento non conforme ai principî costituzionali ed europei, prima ancora che alle disposizioni del codice, determinando una cristallizzazione della soglia insensibile a qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso di gara persino dalla stessa stazione appaltante, e, come ogni automatismo che non consenta alla stessa di valutare in concreto le offerte presentate, sarebbe “contrario all’interesse stesso delle amministrazioni aggiudicatrici, in quanto queste ultime non sono in grado di valutare le offerte loro presentate in condizioni di concorrenza effettiva e quindi di assegnare l’appalto in applicazione dei criteri, anch’essi stabiliti nell’interesse pubblico, del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa” (Corte Giust. comm.UE 15.05.2008, in C. 147/06, § 29)>.
I detti principi, ad avviso del Collegio, vanno mantenuti adesso che la nuova normativa c.d. “sblocca cantieri”, ha abrogato i commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a., posto che nel caso di specie è intervenuto comunque un contenzioso procedimentale proprio in merito alla legittimità o meno di un’esclusione incidente sulla determinazione della soglia di anomalia.
In altri termini, la cristallizzazione non è intervenuta proprio per effetto di tale contenzioso e in considerazione che la stessa, così come già ritenuto da questa sezione (cfr. TAR Catania, sez. I, 02/05/2018, n. 893 e, ivi, richiamo a C.G.A.R.S. n. 740/2015 del 22.12.2015) si realizza con la definitività dell’aggiudicazione.
Il Giudice d’appello siciliano ha confermato la detta impostazione con sentenza del 19.02.2018, n. 96, riaffermando che <secondo il proprio uniforme indirizzo, la previsione legislativa (“Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte”) sancisce una regola di immodificabilità, ai fini del calcolo delle medie e dell'individuazione della soglia di anomalia, la quale può ritenersi operativa solo a partire dalla pronuncia di un’aggiudicazione definitiva>.
E, da ultimo, dalla stessa decisione del Giudice di seconde cure invocata da parte ricorrente nella memoria depositata il 22.10.2919 (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 02/09/2019, n. 6013), emerge <
quanto alla individuazione del momento temporale idoneo a cristallizzare le offerte, (che) la norma è chiara nell'individuarlo nella definizione, in via amministrativa, della fase di ammissione (che, naturalmente, riguarda anche la non ammissione, cioè la esclusione), includendovi, peraltro, anche la fase di regolarizzazione, che si riferisce alle situazioni in cui sia stato attivato il soccorso istruttorio>.
Ne discende che, nella logica della norma, la eventuale fase di regolarizzazione rientra ancora nella fase di ammissione (tanto che l'offerta ammessa al soccorso istruttorio deve ritenersi ammessa "con riserva"), di tal che solo modifiche soggettive successive all'esperimento del soccorso istruttorio sono soggette al canone di invarianza.
Risulta dunque corretto nel caso di specie l'operato della stazione appaltante, che ha ritenuto "non conclusa" la fase di ammissione fino alla definizione del soccorso, con ciò sottraendo la vicenda alla applicazione della regola in questione.
Del resto,
si è più in generale ritenuto che la ridetta fase non possa ritenersi conclusa "almeno finché non sia spirato il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni" e comunque "finché la stessa stazione appaltante non possa esercitare il proprio potere di intervento di autotutela ed escludere 'un operatore economico in qualunque momento della procedura' (art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016) e, quindi, sino all'aggiudicazione (esclusa, quindi, l'ipotesi di risoluzione "pubblicistica" di cui all'art. 108, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, successiva alla stipula del contratto)" (cfr. Cons. Stato sez. III, 27.04.2018, n. 2579).

ATTI AMMINISTRATIVIIn ordine alla individuazione dei presupposti per l’adozione di provvedimenti contingibili e urgenti, la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere necessario il concorso cumulativo dei seguenti presupposti:
   a) un grave pericolo che minaccia l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana;
   b) la contingibilità, intesa quale situazione imprevedibile ed eccezionale che non può essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall'ordinamento;
   c) l'urgenza, causata dall'imminente pericolosità, che impone l'adozione di un provvedimento straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi ordinari previsti dalla normativa vigente.
La sussistenza di tali presupposti deve essere, in ogni caso, suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione.
Sicché, “è illegittima l'ordinanza contingibile e urgente ove non sussista alcun indizio concreto in ordine alla pericolosità per l'incolumità pubblica e per la sicurezza degli abitanti”.
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13. Per quanto invece riguarda il punto n. 1 del dispositivo dell’ordinanza impugnata, concernente l’ordine di chiusura immediata del tratto di strada interessato dall’asserito pericolo di dissesto fino ad avvenuta eliminazione del pericolo stesso, osserva il collegio che è fondato e assorbente il primo motivo di ricorso.
13.1. Il provvedimento impugnato è stato adottato dal sindaco di Lerma in espressa applicazione dell’art. 54, comma 4, del D.Lgs. 267 del 18.08.2000, il quale prevede che “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
13.2. In ordine alla individuazione dei presupposti per l’adozione di provvedimenti contingibili e urgenti ai sensi della norma appena citata, la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere necessario il concorso cumulativo dei seguenti presupposti:
   a) un grave pericolo che minaccia l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana;
   b) la contingibilità, intesa quale situazione imprevedibile ed eccezionale che non può essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall'ordinamento;
   c) l'urgenza, causata dall'imminente pericolosità, che impone l'adozione di un provvedimento straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi ordinari previsti dalla normativa vigente (TAR Genova, sez. I, 27/01/2016, n. 82; Consiglio di Stato, sez. V, 19/05/2016, n. 2090; TAR Napoli, sez. V, 06/03/2018, n. 1409; TAR Napoli, sez. V, 23/02/2018, n. 1214).
La sussistenza di tali presupposti deve essere, in ogni caso, suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione (TAR Lazio-Roma, sez. II, 06/06/2016, n. 6490).
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare che “è illegittima l'ordinanza contingibile e urgente ove non sussista alcun indizio concreto in ordine alla pericolosità per l'incolumità pubblica e per la sicurezza degli abitanti” (TAR Torino, sez. II, 24/08/2017, n. 1027; TAR Torino, sez. I, 12/08/2016, n. 1113).
13.3. Nel caso di specie, ritiene il collegio che tali presupposti non ricorressero (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.12.2019 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulle conseguenze dell'annullamento del permesso di costruire.
L’art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che, “in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale”.
Come recentemente affermato da questa Sezione, il su indicato art. 38 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, per tutelare l’affidamento del privato nella legittimità del titolo edilizio rilasciato dall’Amministrazione.
In tal senso, l’art. 38 integra la presenza di una “speciale norma di favore”, che differenzia la posizione di colui che abbia realizzato l’opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, tutelando l’affidamento del privato che ha avviato e anche concluso, come nel caso di specie, i lavori in base a titolo ottenuto.
Come chiarito da questo Consiglio, la ratio del regime sanzionatorio “più mite” riservato dal Legislatore agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo, che solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo, rispetto al trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in originaria assenza del titolo, deve essere rinvenuta nella specifica considerazione dell’affidamento dell’autore dell’intervento sulla presunzione di legittimità e, comunque, sull’efficacia del titolo assentito.
A tal fine, all’Amministrazione si impone di verificare se i vizi, formali o sostanziali, accertati in sede giurisdizionale, siano emendabili; ovvero, se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari. In assenza degli anzidetti presupposti, per convalidare l’atto, la “integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36” del testo unico (art. 38, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001).
Una volta identificato nella tutela del legittimo affidamento l’elemento normativo che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato in buona fede l’opera abusiva sulla base di un titolo annullato, rispetto a quanti abbiano realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, ne consegue che il citato art. 38 trova applicazione solo in presenza di manufatti realizzati conformemente al titolo edilizio assentito, divenuti abusivi a seguito del sopravvenuto annullamento di quest’ultimo; laddove, per le ipotesi di abusi formali ab initio privi di valido titolo abilitativo, trova applicazione il diverso istituto dell’accertamento di conformità, subordinato al riscontro delle stringenti condizioni di cui all’art. 36 dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
Può, quindi, affermarsi che, per tenere conto di tale particolare fattispecie, suscettibile di giustificare un trattamento normativo più favorevole rispetto all’abusività “originaria”, il Legislatore ha previsto tre possibili rimedi:
   - la “sanatoria” della procedura, nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di alcuna sanzione edilizia, ricondotta pacificamente dalla giurisprudenza al caso di vizi formali o procedurali e non all’ipotesi di vizi sostanziali;
   - ove non sia possibile la sanatoria, l’obbligo, in capo all’Amministrazione, di applicare la sanzione di carattere ripristinatorio;
   - e, soltanto nel caso in cui non sia possibile l’adozione di tale misura, in ragione della natura delle opere realizzate, l’applicazione della sanzione pecuniaria.
Viene, per l’effetto, a configurarsi una graduazione di sanzioni, modulata alla luce della gravità della violazione della normativa urbanistica.
Il Comune, infatti, può disporre la rimozione dei vizi –in primo luogo– ove si tratti di vizi formali o procedurali; e può procedervi anche nel caso di vizi sostanziali, purché si tratti di vizi emendabili; mentre in tutti gli altri casi, ovvero in presenza di vizi sostanziali insanabili, ricorre l’obbligo di esercitare il potere repressivo (innanzi tutto, attraverso la rimessione in pristino).
Ne consegue che le opere ritenute “successivamente” abusive sono suscettibili di demolizione: rimanendo, peraltro, nel perimetro delle opzioni esercitabili dalla procedente Amministrazione, una eventuale valutazione motivata (anche veicolata dalle specifiche deduzioni dei destinatari della misura sanzionatoria) in ordine alla impossibilità materiale del ripristino.
Più di recente, il concetto di impossibilità di ripristino è stato inteso in senso più ampio, in quanto riferito:
   - non soltanto alla oggettiva impossibilità materiale “tecnica”;
   - quanto, piuttosto, alla comparazione dell’interesse pubblico al recupero della situazione di legalità violata e accertata giudizialmente con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole, che aveva confidato nell’esercizio legittimo del potere amministrativo.
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1.1. Va rammentato, al riguardo, come l’art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disponga che, “in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale”.
Come recentemente affermato da questa Sezione (cfr. sentenza 23.09.2019, n. 6284), il su indicato art. 38 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, per tutelare l’affidamento del privato nella legittimità del titolo edilizio rilasciato dall’Amministrazione.
In tal senso, l’art. 38 integra la presenza di una “speciale norma di favore”, che differenzia la posizione di colui che abbia realizzato l’opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, tutelando l’affidamento del privato che ha avviato e anche concluso, come nel caso di specie, i lavori in base a titolo ottenuto (Cons. Stato, Sez. VI, 10.05.2017, n. 2160).
Come chiarito da questo Consiglio (Sez. IV, 26.03.2019, n. 1986), la ratio del regime sanzionatorio “più mite” riservato dal Legislatore agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo, che solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo, rispetto al trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in originaria assenza del titolo, deve essere rinvenuta nella specifica considerazione dell’affidamento dell’autore dell’intervento sulla presunzione di legittimità e, comunque, sull’efficacia del titolo assentito (cfr., ex multis, Cons, Stato, Sez. VI, 05.10.2018, n. 5723).
A tal fine, all’Amministrazione si impone di verificare se i vizi, formali o sostanziali, accertati in sede giurisdizionale, siano emendabili; ovvero, se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari. In assenza degli anzidetti presupposti, per convalidare l’atto, la “integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36” del testo unico (art. 38, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001).
Una volta identificato nella tutela del legittimo affidamento l’elemento normativo che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato in buona fede l’opera abusiva sulla base di un titolo annullato, rispetto a quanti abbiano realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, ne consegue che il citato art. 38 trova applicazione solo in presenza di manufatti realizzati conformemente al titolo edilizio assentito, divenuti abusivi a seguito del sopravvenuto annullamento di quest’ultimo; laddove, per le ipotesi di abusi formali ab initio privi di valido titolo abilitativo, trova applicazione il diverso istituto dell’accertamento di conformità, subordinato al riscontro delle stringenti condizioni di cui all’art. 36 dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
1.2. Può, quindi, affermarsi che, per tenere conto di tale particolare fattispecie, suscettibile di giustificare un trattamento normativo più favorevole rispetto all’abusività “originaria”, il Legislatore ha previsto tre possibili rimedi:
   - la “sanatoria” della procedura, nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di alcuna sanzione edilizia, ricondotta pacificamente dalla giurisprudenza al caso di vizi formali o procedurali e non all’ipotesi di vizi sostanziali;
   - ove non sia possibile la sanatoria, l’obbligo, in capo all’Amministrazione, di applicare la sanzione di carattere ripristinatorio;
   - e, soltanto nel caso in cui non sia possibile l’adozione di tale misura, in ragione della natura delle opere realizzate, l’applicazione della sanzione pecuniaria.
Viene, per l’effetto, a configurarsi una graduazione di sanzioni, modulata alla luce della gravità della violazione della normativa urbanistica (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2017, n. 5296; Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2017, n. 1909).
Il Comune, infatti, può disporre la rimozione dei vizi –in primo luogo– ove si tratti di vizi formali o procedurali; e può procedervi anche nel caso di vizi sostanziali, purché si tratti di vizi emendabili; mentre in tutti gli altri casi, ovvero in presenza di vizi sostanziali insanabili, ricorre l’obbligo di esercitare il potere repressivo (innanzi tutto, attraverso la rimessione in pristino).
Ne consegue che le opere ritenute “successivamente” abusive sono suscettibili di demolizione: rimanendo, peraltro, nel perimetro delle opzioni esercitabili dalla procedente Amministrazione, una eventuale valutazione motivata (anche veicolata dalle specifiche deduzioni dei destinatari della misura sanzionatoria) in ordine alla impossibilità materiale del ripristino (Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2017, n. 1909 cit.).
Più di recente, il concetto di impossibilità di ripristino è stato inteso in senso più ampio, in quanto riferito:
   - non soltanto alla oggettiva impossibilità materiale “tecnica”;
   - quanto, piuttosto, alla comparazione dell’interesse pubblico al recupero della situazione di legalità violata e accertata giudizialmente con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole, che aveva confidato nell’esercizio legittimo del potere amministrativo (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 28.11.2018, n. 6753; cfr. in tal senso, altresì, Cons. Stato, sez. VI, 09.04.2018, n. 2155, che fa riferimento anche alla posizione di eventuali terzi acquirenti di buona fede) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.12.2019 n. 8622 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla necessità, o meno, del permesso di costruire per una tensostruttura.
Nel caso d specie si riscontra che la tensostruttura realizzata determina, per la sua dimensione (450 mq) e ancoramento al suolo (sistema di ancoraggio eseguito mediante il fissaggio dei pilastri su blocchi in cemento di cm. 100 x 100 x 50h interrati), la realizzazione di nuovi volumi.
Invero, l’art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001 ricomprende tra gli interventi di nuova costruzione sottoposte al regime del permesso di costruire di cui all’art 10 TUEDIL anche l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti; previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore.
L’art. 6 Tuedil fa, però, rientrare nell’edilizia libera quelle nuove costruzioni realizzate per esigenze contingenti e temporanee non oltrepassanti i 90 giorni sì da farla ricondurre di cui al TUedil.
Nella specie la tensostruttura è destinata stabilmente all’attività di ricevimento/ristorazione ed relativo contatto della sua concessione in comodato è stato, infatti, stipulato dapprima per 5 mesi con successiva proroga del termine di restituzione di ulteriori 6 mesi.
Difetta, pertanto, la caratteristica della temporaneità.
A diversa conclusione non può giungersi per effetto delle norme sulla semplificazione delle attività private in materia di commercio, ambiente ed edilizia di cui al decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, non essendo riconducibile l’intervento alle opere del glossario di cui ai punti 50, 51 (Aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza), 52 (Manufatti leggeri in strutture ricettive) né ai punti 53-58 (Opere contingenti temporanee), per cui è prevista attività edilizia o Cila difettando, per le esposte caratteristiche del manufatto e per la sua destinazione tanto natura pertinenziale quanto quella temporanea.
Deve concludersi, allora, per la necessità del permesso di costruire e per la conseguente legittimità dell’ordine di demolizione adottato ai sensi dell’art. 31 Tuedil.
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Rilevato:
   - che parte ricorrente ha impugnato, con richiesta di sospensione, il rigetto della CILA ed i conseguenti provvedimenti con cui sono disposte la sospensione dei lavori e la demolizione, tutti emessi dal comune di Lattarico, con riferimento a tensostruttura collocata su proprio terreno;
   - che, in particolare, ha dedotto -) violazione degli artt. 3 e 6 dpr n. 380/2001 - degli artt. 1 e 2 d.lgs. n. 222/2016 e del dm 02.03.2018, in quanto rientrante in attività di edilizia libera di cui al DM 02.03.2018 o al più in opera soggetta a Cila, -) violazione degli artt. 3, 6, 10, 22, 23, 31, 36 e 37 D.P.R. 380/01, dovendosi in ipotesi di ritenuta necessità della Scia comminare la sanzione pecuniaria e non la demolizione, -) violazione del R.D.L. n. 3267/1923 e artt. 93 T.U. n. 380/2001 in materia di vigilanza sulle zone sismiche, -) violazione della legge 02.02.1974, n. 64 e della l.r. Calabria n. 35/2009;
   - che ha resistito al ricorso l’ente locale concludendo per inammissibilità e rigetto del ricorso;
   - che all’udienza camerale del 17.12.2019, ricorrendone i presupposti, è stato dato avviso di possibile definizione con sentenza in forma semplificata ex art. 60 c.p.a. e, all’esito della discussione, il ricorso è stato trattenuto in decisione;
Considerato:
   - che, alla luce del contenuto del provvedimento e delle censure proposte, dirimente risulti l’analisi del profilo del titolo edilizio occorrente per la realizzata tensostruttura e, in ipotesi di riscontro della necessità del titolo, della conseguenza del suo difetto se demolitoria o di sanzione pecuniaria;
   - che dall’esame degli atti (v. foto, relazione di parte ed istruzioni per il montaggio) si riscontra che la tensostruttura determina, per la sua dimensione (450 mq) e ancoramento al suolo (sistema di ancoraggio eseguito mediante il fissaggio dei pilastri su blocchi in cemento di cm. 100 x 100 x 50h interrati), la realizzazione di nuovi volumi (cfr. ord. CGA n. 803/2018 e sentenza Tar Catania, 996/2019);
   - che l’art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001 ricomprende tra gli interventi di nuova costruzione sottoposte al regime del permesso di costruire di cui all’art 10 TUEDIL anche l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti; previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore;
   - che l’art. 6 Tuedil fa, però, rientrare nell’edilizia libera quelle nuove costruzioni realizzate per esigenze contingenti e temporanee non oltrepassanti i 90 giorni sì da farla ricondurre di cui al TUedil;
   - che nella specie la tensostruttura è destinata stabilmente all’attività di ricevimento/ristorazione ed relativo contatto della sua concessione in comodato è stato, infatti, stipulato dapprima per 5 mesi con successiva proroga del termine di restituzione di ulteriori 6 mesi;
   - che difetta, pertanto, la caratteristica della temporaneità;
   - che a diversa conclusione non può giungersi per effetto delle norme sulla semplificazione delle attività private in materia di commercio, ambiente ed edilizia di cui al decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, non essendo riconducibile l’intervento alle opere del glossario di cui ai punti 50, 51 (Aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza), 52 (Manufatti leggeri in strutture ricettive) né ai punti 53-58 (Opere contingenti temporanee), per cui è prevista attività edilizia o Cila difettando, per le esposte caratteristiche del manufatto e per la sua destinazione tanto natura pertinenziale quanto quella temporanea;
   - che deve concludersi, allora, per la necessità del permesso di costruire (v. nello stesso senso Tar Lazio, sentenza 7567/2019 e Cass. Pen. n. 38473/2019) e per la conseguente legittimità dell’ordine di demolizione adottato ai sensi dell’art. 31 Tuedil (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 20.12.2019 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIRapporto tra accesso ordinario, accesso civico e accesso generalizzato.
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Accesso ai documenti – Accesso ordinario – Rapporto con accesso civico e accesso generalizzato - Individuazione.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti –accesso ordinario, accesso civico e accesso generalizzato- ciascuna distintamente regolata nei suoi presupposti, porta ad escludere l’esistenza di un unico e generale diritto del privato ad accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso; esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi (1).
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   (1) Il Tar è intervenuto su una questione nella quale l’impresa ricorrente è proprietaria di un distributore di carburanti e di alcuni appezzamenti di terreno adiacenti che hanno destinazione agricola. Una impresa concorrente ottiene il permesso di costruire per realizzare un nuovo distributore di carburanti a pochi metri di distanza, su un’area confinante con il terreno della prima avente destinazione agricola; nella relazione tecnica allegata all’istanza per il rilascio del permesso comunica che le terre e le rocce da scavo estratte sarebbero state riutilizzate in loco per reinterri e riempimenti.
La ricorrente presenta allora all’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana-ARPAT un’istanza di accesso, ai sensi della l. 07.08.1990, n. 241, per ottenere copia della dichiarazione di utilizzo ex art. 21, d.P.R. 13.06.2017, n. 120 attestante la sussistenza dei requisiti affinché terra e roccia da scavo siano qualificate come sottoprodotti, che la controinteressata avrebbe dovuto presentare per essere abilitata ad effettuare tale attività.
La domanda viene respinta evidenziando, nella motivazione, che le terre movimentate verranno depositate su un terreno distante, di proprietà della stessa impresa concorrente. Il diniego viene impugnato sostenendo che l’ostensione dovrebbe essere consentita non solo in base alla legge n. 241/1990, ma anche sulla base di altre normative in materia di accesso e segnatamente da un lato, il d.lgs. 12.05.1995, n. 195 che attribuisce il diritto ad accedere ad atti aventi rilevanza ambientale a chiunque ne faccia richiesta senza necessità di motivare il relativo interesse, e dall’altro ai sensi dell’art. 5, d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a titolo di accesso civico generalizzato.
Il Tar, accogliendo la tesi difensiva di ARPAT e richiamandosi alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 02.08.2019, n. 5503, rileva che l’accesso ai documenti amministrativi è regolamentato da tre sistemi generali: il tradizionale accesso documentale ex artt. 22 ss., l. n. 241 del 1990; l'accesso civico concesso a “chiunque” per ottenere “documenti, informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione ex art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, e l’accesso civico generalizzato concesso “senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva” in relazione a documenti non assoggettati all’obbligo di pubblicazione, ex art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013.
Sono istituti aventi ciascuno un oggetto diverso e applicabili, ognuno, a diverse e specifiche fattispecie; perciò il Tar ritiene che ognuno di essi operi nel proprio ambito di azione senza assorbimento della fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di ciascuno di essi. Laddove quindi il richiedente abbia espressamente optato per un modello, è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza al fine di individuare la disciplina applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà convertire la stessa in corso di causa poiché questa si radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa dell’Amministrazione, che concorrono a formare l’oggetto del contendere.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla richiesta di riqualificare l’istanza di accesso alla stregua di una domanda di informazioni ambientali ex d.lgs. n. 195 del 2005, che a sua volta costituisce un sottosistema normativo disciplinante una fattispecie specifica di accesso ed opera solo nel proprio ambito.
Inoltre la decisione sulla richiesta di ostensione di un documento deve essere preceduta da un’attività amministrativa volta a verificare la sua corrispondenza allo schema normativamente previsto e alla tutela normativamente stabilita dei contrapposti interessi, in primo luogo quello alla riservatezza dei soggetti i cui dati sono rappresentati nei documenti oggetto di domanda: ne segue che ove riqualificasse l’istanza presentata dal richiedente l’accesso e decidesse in merito, il Giudice si sostituirebbe inammissibilmente all’Amministrazione in poteri che essa non ha (ancora) esercitato violando il divieto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a.
Data la premessa, il Tar conclude nel senso che la coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti, ciascuna distintamente regolata nei suoi presupposti, induce a ritenere che non esista, nel nostro ordinamento, un unico e generale diritto del privato ad accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso. Esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi.
È onere del richiedente individuare quale sia la sua situazione e, pertanto, quale tipologia di accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una volta effettuata la scelta, è su tale rapporto che si incardina la controversia e lo stesso non può dunque essere riqualificato in sede giudiziaria (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 20.12.2019 n. 1748 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. La domanda di accesso è stata formulata dalla ricorrente ai sensi della legge n. 241/1990 assumendo di avere un interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento” richiesto, come prevede l’articolo 22, comma 1, lett. b), della citata normativa. Nel ricorso chiede però che la sua domanda venga accolta non solo ai sensi di questa normativa, ma anche a titolo di accesso civico generalizzato e, inoltre, in quanto avrebbe ad oggetto informazioni ambientali ai sensi del d.lgs. n. 195/2005.
La difesa di ARPAT replica che tale riqualificazione della domanda di accesso in sede processuale non sarebbe possibile.
Ai fini della trattazione della controversia occorre quindi, in via preliminare, stabilire se tale riqualificazione sia legittima ed individuare dunque se alla fattispecie sia applicabile la sola legge n. 241/1990 o, invece, anche le altre normative invocate dalla ricorrente. A tal fine il Collegio reputa di ripercorrere le considerazioni contenute nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 02.08.2019 n. 5503 la quale, se pure resa in tema di accesso agli atti di una gara d’appalto, contiene principi applicabili in via generale e quindi anche al caso di specie.
L’accesso ai documenti amministrativi è oggi regolamentato da tre sistemi generali, ognuno caratterizzato da propri limiti e presupposti:
   a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che consente ai (soli) soggetti portatori di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di accedere ai dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque, detenuti da soggetti pubblici;
   b) l'accesso civico, concesso a “chiunque” per ottenere “documenti, informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
   c) l’accesso civico generalizzato, concesso “senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita “motivazione” giustificativa in relazione a “dati, informazioni o documenti” ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013).
Si tratta di istituti a carattere generale ma ognuno con oggetto diverso, e sono applicabili ognuno a diverse e specifiche fattispecie: ne segue che ognuno di essi opera nel proprio ambito di azione senza assorbimento della fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di ciascuno di essi. Ognuno di questi presenta caratteri di specialità rispetto all’altro. Di conseguenza, come ritenuto in tale arresto che il Collegio condivide, laddove il richiedente abbia espressamente optato per un modello è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza, al fine di individuare la disciplina applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà effettuare una conversione della stessa in corso di causa. Questa infatti si radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa dell’Amministrazione che concorrono a formare l’oggetto del contendere. Non può quindi ammettersi un mutamento del titolo giuridico dell’accesso in corso di controversia poiché il rapporto tra richiedente ed Amministrazione (o soggetto equiparato) si è formato non attorno ad un generico (asserito) diritto del primo di accedere a una determinata documentazione ma su una richiesta precisamente connotata nei suoi presupposti giuridici e fattuali. È su questo rapporto che la controversia verte, ed è questo l’oggetto del contendere.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti, ciascuna distintamente regolata nei suoi presupposti, induce a ritenere che non esista, nel nostro ordinamento, un unico e generale diritto del privato ad accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso. Esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi. È onere del richiedente individuare quale sia la sua situazione e, pertanto, quale tipologia di accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una volta effettuata la scelta, è su tale rapporto che si incardina la controversia e lo stesso non può dunque essere riqualificato in sede giudiziaria.
La richiesta della ricorrente, effettuata ai sensi della legge n. 241/1990, non può quindi essere (ri)esaminata alla luce del d. lgs. n. 33/2013.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla richiesta qualificazione dell’istanza di accesso della ricorrente alla stregua di una domanda di informazioni ambientali ex d.lgs. n. 195/2005, poiché questa a sua volta costituisce un sottosistema normativo disciplinante una fattispecie specifica di accesso ed operante solo nel proprio ambito.
Non si tratta di lettura formalistica della normativa, ma di individuare l’ambito preciso della presente controversia e del rapporto su cui verte.
ARPAT ha fornito risposta negativa ad un’istanza di accesso formulata ai sensi della legge n. 241/1990 e ove il giudizio venisse esteso alla verifica della sua fondatezza ai sensi di normative non richiamate nella stessa, e sulle quali quindi la stessa ARPAT non ha fornito alcuna risposta (e non doveva farlo), sarebbe violato il divieto a carico di questo Giudice di pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati posto dall’articolo 34, comma 2, del codice di rito.
A prescindere dalla qualificazione della posizione dell’accedente in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, questione ancora irrisolta, è certo che la decisione sulla richiesta di ostensione di un documento deve essere preceduta da un’attività amministrativa volta a verificare la sua corrispondenza allo schema normativamente prefigurato e alla tutela normativamente stabilita dei contrapposti interessi, in primo luogo quello alla riservatezza dei soggetti i cui dati sono rappresentati nei documenti oggetto di domanda. Al Giudice, ex art. 34, comma 2, c.p.a. non può quindi che essere interdetta la riqualificazione dell’istanza presentata dalla ricorrente poiché si sostituirebbe inammissibilmente all’Amministrazione in poteri non ancora esercitati.
Sotto tale profilo appare irrilevante il regolamento dell’ARPAT richiamato dalla ricorrente in memoria, così come irrilevante è la circostanza che le premesse del provvedimento negativo impugnato contengano un riferimento all’art. 5, comma 3, del d.lgs. 33/2013 in tema di accesso civico generalizzato poiché questo appare frutto di refuso e comunque non è vincolante ai fini del decidere, in base al principio secondo il quale ai fini della qualificazione della sua natura l'atto amministrativo va interpretato in base al suo specifico contenuto risalendo al potere concretamente esercitato dall'amministrazione, prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato (C.d.S. II, 30.09.2019 n. 6534).
L’ARPAT ha inteso negare l’accesso in base alla legge n. 241/1990 come mostra il contenuto del dispositivo, nel quale si respinge l’istanza della ricorrente “ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. 241/1990” poiché essa “non risulta titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti richiesti”.
ARPAT ha esaminato e statuito sull’istanza della ricorrente valutando la sussistenza dei presupposti stabiliti, ai fini dell’accesso, dalla legge n. 241/1990 e in base a questa sarà deciso la controversia. Questa si è infatti formata in ordine ad un rapporto giuridico con una sua precisa qualificazione, attribuita dalla ricorrente stessa alla propria istanza, ed è su tale tipo di rapporto, con tale specifica qualificazione, che questo Giudice deve statuire.
3. Venendo quindi alle conclusioni, in applicazione delle coordinate normative desumibili dalla legge n. 241/1990 ai sensi della quale, si ripete, l’istanza è stata formulata, il ricorso deve essere respinto. ARPAT nel provvedimento di diniego ha infatti chiarito che le terre movimentate dall’impresa Au. vengono depositate su un terreno distante da quello della ricorrente e, pertanto, in alcun modo potrebbero apportarle danni.
La ricorrente valorizza, a sostegno delle proprie posizioni, il suo interesse a verificare se i lavori nel fondo confinante avvengano nel rispetto della normativa ambientale. Una volta però appurato che, con riferimento alle terre movimentate, alcun danno può derivare al fondo di sua proprietà, tale interesse legittimo sfuma in interesse di mero fatto poiché se l’attività della controinteressata non è in grado di incidere in alcun modo su posizioni giuridicamente tutelate della ricorrente (almeno per quanto concerne l’oggetto della presente controversia, ovvero le terre di risulta dei lavori effettuati), ebbene detto interesse in nulla si differenzia dall’interesse non qualificato né differenziato facente capo al quivis de populo ad esercitare un controllo generalizzato sulla legittimità dell’operato amministrativo, e non costituisce pertanto “situazione giuridicamente tutelata” che legittimi l’accesso alla dichiarazione di utilizzo delle terre e rocce di scavo inoltrata dalla controinteressata.
Non è conferente il parallelo effettuato della ricorrente con l’accesso alla documentazione riguardante il rispetto, da parte del confinante, della normativa edilizia ed urbanistica nell’esecuzione di interventi edificatori poiché le modalità di questi possono sempre incidere sulle caratteristiche del fondo confinante e, in particolare, sul suo valore, stante il collegamento materiale stabile fra i terreni, collegamento che deve comunque sempre essere oggetto di dimostrazione (C.d.S. V, 27.03.2019 n. 2025).
Il rispetto della normativa ambientale, una volta appurato che non esiste alcun collegamento fra il materiale potenzialmente inquinante e il fondo vicino a quello oggetto di intervento, rappresenta un interesse che non si differenzia da quello generale, proprio della collettività indifferenziata, al rispetto della legge da parte della pubblica amministrazione.
Per queste ragioni il ricorso deve essere respinto.

INCARICHI PROFESSIONALI: Il TAR Milano sospende un bando di un Comune per l’affidamento di servizi legali.
Il TAR Milano sospende un bando di un Comune lombardo per l’affidamento di servizi legali, sulla base del seguente percorso motivazionale:
   - «considerata la natura discriminatoria e irragionevole della clausola che preclude la partecipazione agli avvocati che non abbiano avuto in passato tra i lori clienti Pubbliche Amministrazioni, ben potendo questi ultimi aver maturato l’esperienza necessaria a divenire affidatari della procedura impugnata, anche difendendo soggetti privati nei giudizi amministrativi;
   - l’indeterminatezza e l’eterogeneità delle prestazioni richieste, ciò che preclude la possibilità di formulare un’offerta ponderata;
   - la contrarietà della lex specialis alla legge professionale, nella parte in cui prevede la corresponsione di un corrispettivo fisso indipendentemente dal numero dei contenziosi, ciò che pare violare il principio dell’equo compenso, e nella parte in cui prevede l’assegnazione di un punteggio preferenziale in favore degli avvocati che hanno patrocinato giudizi conclusi con un esito positivo per le amministrazioni, considerato che la loro attività non ha ad oggetto obbligazioni di risultato»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, ordinanza 20.12.2019 n. 1720 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell’avviso, del disciplinare, e del capitolato, relativi alla procedura indetta dal Comune di Pieve Emanuele (MI) per l’affidamento dei servizi legali CIG Z3D2A103AA, e di ogni atto presupposto, connesso e conseguente, ivi espressamente inclusa la determinazione n. 1202 del 21.10.2019, di approvazione della documentazione concorsuale.
Visti il ricorso ed i relativi allegati;
Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;
...
Ritenuto che, ad un sommario esame, il ricorso sia assistito dal requisito del fumus boni iuris considerate, in particolare:
   - la natura discriminatoria e irragionevole della clausola che preclude la partecipazione agli avvocati che non abbiano avuto in passato tra i lori clienti Pubbliche Amministrazioni, ben potendo questi ultimi aver maturato l’esperienza necessaria a divenire affidatari della procedura impugnata, anche difendendo soggetti privati nei giudizi amministrativi;
   - l’indeterminatezza e l’eterogeneità delle prestazioni richieste, ciò che preclude la possibilità di formulare un’offerta ponderata;
   - la contrarietà della lex specialis alla legge professionale, nella parte in cui prevede la corresponsione di un corrispettivo fisso indipendentemente dal numero dei contenziosi, ciò che pare violare il principio dell’equo compenso, e nella parte in cui prevede l’assegnazione di un punteggio preferenziale in favore degli avvocati che hanno patrocinato giudizi conclusi con un esito positivo per le amministrazioni, considerato che la loro attività non ha ad oggetto obbligazioni di risultato.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Prima), accoglie la domanda cautelare, e per l'effetto sospende l’efficacia del provvedimento in epigrafe impugnato.
Fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica del 10.06.2020.

EDILIZIA PRIVATAIn difetto di un espresso provvedimento di decadenza del permesso di costruire deve ritenersi illegittima l'ordinanza di annullamento del medesimo permesso.
E’ ben vero che, ai sensi del comma 2 dell’articolo 15 del DPR n. 380 del 2001, decorsi i termini dallo stesso previsti per l’inizio e l’ultimazione dei lavori “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita”.
Tuttavia, cospicuo orientamento giurisprudenziale ritiene che la perdita di efficacia di un titolo edilizio per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell’Amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio con il privato circa l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che legittimano la declaratoria di decadenza.
La valenza meramente dichiarativa del provvedimento di decadenza (relativamente ad un effetto che consegue ex lege) non esclude in ogni caso che lo stesso debba essere comunque adottato all’esito di apposito procedimento, non potendo la situazione di inefficacia essere affermata, come nella specie, in via meramente incidentale (“Tale titolo…si ritiene decaduto ope legis…”)
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Evidenzia la Sezione che nella specie il Comune di Nardò non ha attivato uno specifico procedimento per la declaratoria di decadenza del suddetto titolo edificatorio.
Invero, la comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 13179/16 del 22.02.2016 viene espressamente qualificata quale “avviso di avvio del procedimento di annullamento del permesso di costruire” ed il dato è, altresì, confermato dalla parte finale dello stesso, laddove si precisa che “Per le motivazioni che hanno portato all’emissione del provvedimento n. 115/2017 (n.d.r., l’ordinanza di sospensione dei lavori) si AVVISA che è stato attivato il procedimento di annullamento del Permesso di Costruire n. 169/2016”.
Se si esaminano i contenuti della stessa emerge che essa dà per presupposta l’intervenuta decadenza del titolo abilitativo e, dunque, non attiva un procedimento volto alla relativa declaratoria.
Ugualmente è a dirsi che l’atto finale impugnato, ordinanza n. 147 del 06.03.2017, non è un provvedimento amministrativo dichiarativo della decadenza, essendo esso qualificato quale “ordinanza di annullamento del permesso di costruire in danno di Ma.Fe.” e limitandosi la sua parte dispositiva a statuire: “ANNULLA il permesso di costruire n. 169/2016 rilasciato a Ma.Fe.…., in autotutela in quanto illegittimo per le motivazioni sopra esposte….E PER L’EFFETTO ORDINA….di demolire tutte le opere realizzate abusivamente senza permesso di costruire in forza del titolo edilizio illegittimo…”.
Dunque, la decadenza dell’originario permesso di costruire n. 521/2011 non è oggetto della determinazione provvedimentale, ma unicamente un presupposto sul quale, unitamente ad altri elementi, viene fondata l’illegittimità del successivo permesso di costruire oggetto di annullamento.
Tanto è confermato dalla parte motiva del provvedimento, laddove l’autorità amministrativa si limita ad affermare che “tale titolo …si ritiene decaduto ope legis…”.
Orbene, assunto per quanto sopra esposto che difetta un espresso provvedimento di decadenza del permesso di costruire pronunciato all’esito di apposito procedimento, deve ritenersi l’illegittimità della conseguente ordinanza n. 147/2017, la quale si fonda anche sulla predetta situazione di decadenza, in concreto non dichiarata con specifica determinazione provvedimentale.
E’ ben vero che, ai sensi del comma 2 dell’articolo 15 del DPR n. 380 del 2001, decorsi i termini dallo stesso previsti per l’inizio e l’ultimazione dei lavori “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita”.
Tuttavia, cospicuo orientamento giurisprudenziale –che il Collegio condivide– ritiene che la perdita di efficacia di un titolo edilizio per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell’Amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio con il privato circa l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che legittimano la declaratoria di decadenza (cfr. Cons. Stato, V, 12.05.2011, n. 2821;IV, 05.07.2017, n. 3283; IV, 15.11.2017, n. 5285).
La valenza meramente dichiarativa del provvedimento di decadenza (relativamente ad un effetto che consegue ex lege) non esclude in ogni caso che lo stesso debba essere comunque adottato all’esito di apposito procedimento, non potendo la situazione di inefficacia essere affermata, come nella specie, in via meramente incidentale (“Tale titolo…si ritiene decaduto ope legis…”) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.12.2019 n. 8602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAll’Adunanza plenaria la verifica d’ufficio e in sede contenziosa dei presupposti per l’accesso generalizzato se non sussistono i presupposti per l’accesso ordinario.
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Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Concorrente utilmente collocato in graduatoria – Accesso agli atti relativi alla fase esecutiva delle prestazioni – Interesse – Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
  
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato - Contratti della Pubblica amministrazione – Concorrente utilmente collocato in graduatoria – Accesso agli atti relativi alla fase esecutiva delle prestazioni – Interesse – Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
  
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – carenza dei presupposti per l’accesso ordinario - Esistenza dei presupposti per l’accesso generalizzato – Verifica in sede amministrativa e contenziosa – Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
  
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se sia configurabile, o meno, in capo all’operatore economico, utilmente collocato nella graduatoria dei concorrenti, determinata all’esito della procedura di evidenza pubblica per la scelta del contraente, la titolarità di un interesse giuridicamente protetto, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva delle prestazioni, in vista della eventuale sollecitazione del potere dell’amministrazione di provocare la risoluzione per inadempimento dell’appaltatore e il conseguente interpello per il nuovo affidamento del contratto, secondo le regole dello scorrimento della graduatoria (1).
  
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se la disciplina dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato dal d.lgs. n. 97 del 2016, sia applicabile, in tutto o in parte, in relazione ai documenti relativi alle attività delle amministrazioni disciplinate dal codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di inerenti al procedimento di evidenza pubblica e alla successiva fase esecutiva, ferme restando le limitazioni ed esclusioni oggettive previste dallo stesso codice (2).
  
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se, in presenza di un’istanza di accesso ai documenti espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale di cui alla l. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali, l’amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al richiedente, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le condizioni dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013; se, di conseguenza, il giudice, in sede di esame del ricorso avverso il diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla disciplina ordinaria di cui alla l. n. 241 del 1990 o ai suoi presupposti sostanziali, abbia il potere-dovere di accertare la sussistenza del diritto del richiedente, secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva stabiliti dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato (3).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che secondo l’interpretazione invalsa in ordine ai presupposti legittimanti l’accesso ordinario, la situazione giuridica suscettibile di legittimare l’istanza ostensiva, sia nella sua configurazione “finale” (nella specie, connessa all’affidamento del servizio a seguito dello scioglimento del rapporto contrattuale con l’impresa aggiudicataria), sia in quella “procedimentale” (intesa, nella fattispecie in esame, alla sollecitazione ed al controllo delle modalità di esercizio da parte della P.A. del suo potere di risoluzione del contratto con l’aggiudicataria e di “interpello” della seconda classificata), deve quantomeno correlarsi ad una attuale e concreta prospettazione dei suoi presupposti costitutivi (relativi, nella specie, al “grave inadempimento” dell’impresa affidataria): presupposti che, essendo finalizzati a conferire i necessari requisiti di “concretezza” ed “attualità” all’interesse legittimante, devono preesistere all’istanza di accesso (proprio perché si tratta di verificarne, dal punto di vista dell’Amministrazione destinataria dell’istanza e in via succedanea nella sede giudiziale, la ammissibilità e fondatezza), e non (eventualmente) emergere successivamente al soddisfacimento dell’azionato interesse conoscitivo.
Nella su indicata direzione interpretativa milita il precedente di questo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3398 dell’11.06.2012, laddove statuisce nel senso che “nel caso di specie, l’interesse azionato che fonderebbe l’accesso non risulta concreto, poiché non ne viene precisata e specificata la natura; la circostanza di essere il secondo graduato nella procedura di gara per l’affidamento del contratto, non giustifica certo una richiesta generalizzata di accesso di tutti gli atti attinenti alla fase esecutiva (…). Il Collegio deve, conclusivamente, precisare che, con riferimento agli atti attinenti alla fase esecutiva del rapporto, manca in radice un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, come correttamente ha evidenziato il TAR, in palese assenza di una prospettiva di risoluzione del rapporto e in assenza di un interesse al subentro, peraltro neppure rappresentabile in termini di certezza (trattandosi di facoltà discrezionale rimessa alla stazione appaltante stessa); ciò esclude la configurabilità di un interesse della seconda classificata a conoscere la correttezza o meno dell'esecuzione contrattuale da parte dell'aggiudicatario della gara, attesa la sua estraneità al rapporto contrattuale in essere e ai possibili esiti della sua esecuzione (ex art. 1372 c.c.)”.
Sull’opposto versante interpretativo, tuttavia, non può farsi a meno di evidenziare che la seconda classificata, proprio in virtù di tale posizione, non è assimilabile ad un quisque de populo, ai fini dell’attivazione dell’iniziativa ostensiva: quella posizione, infatti, funge da presupposto attributivo di un “fascio” di situazioni giuridiche, di carattere oppositivo o sollecitatorio, finalizzate alla salvaguardia di un interesse tutt’altro che emulativo, in quanto radicato sulla valida –anche se non pienamente satisfattiva– partecipazione alla gara.
In siffatto contesto, ed anche in considerazione dell’idoneità dell’accesso ad integrare un autonomo “bene della vita”, distinto dalle utilità conseguibili mediante le iniziative attivabili a seguito del suo utile esperimento, l’interesse dell’impresa seconda classificata ad avere accesso agli atti della fase esecutiva, in vista della sollecitazione dell’eventuale potere risolutorio e di quello consequenziale di “interpello” della stazione appaltante, potrebbe non presentare tratti significativamente divergenti, anche ai fini della sua giuridica tutelabilità, rispetto all’incontestabile interesse ostensivo della medesima concorrente a conoscere i documenti relativi all’offerta presentata dalla aggiudicataria, indipendentemente dalla già acquisita conoscenza dei vizi del procedimento di gara, in vista della eventuale impugnazione del provvedimento di aggiudicazione: in entrambi i casi perseguendosi l’interesse al subentro nella posizione di affidataria della commessa e distinguendosi essi solo in relazione alla natura del potere di sostituzione della prima graduata spettante all’Amministrazione, siccome vincolato in un caso e discrezionale nell’altro.
   (2) Ha chiarito la Sezione che qualora si ritenesse che il concorrente secondo graduato sia privo di un interesse differenziato che lo legittima all’esercizio del diritto di accesso ordinario, ai sensi della legge n. 241/1990, nei riguardi degli atti afferenti alla fase esecutiva dell’appalto, diventerebbe necessario affrontare una seconda questione, anch’essa di evidente rilievo generale, concernente l’applicabilità del nuovo istituto dell’accesso civico generalizzato, disciplinato dall’art. 5, d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal d.lvo n. 97 del 2016, nella materia dei contratti pubblici, tanto nella fase di scelta del contraente, quanto nella successiva fase di esecuzione delle prestazioni.
Il diritto di accesso civico generalizzato, infatti, si caratterizza proprio perché del tutto sganciato dal collegamento con una posizione giuridica differenziata. L’operatore economico, al pari di qualsiasi altro soggetto, potrebbe esercitare tale diritto anche al semplice scopo di verificare la correttezza dell’operato dell’amministrazione, indipendentemente dall’esigenza di proteggere una particolare situazione giuridica soggettiva.
La Sezione ha ritenuto necessario chiarire se l’amministrazione prima e il giudice dopo abbiano il potere, o il dovere, di riqualificare l’istanza di accesso presentata dal richiedente, secondo i parametri della indifferenziata legittimazione soggettiva attiva dell’accesso civico.
In punto di fatto, la parte appellante, facendo leva sulla sua qualità (differenziata) di impresa partecipante alla gara e collocatasi in seconda posizione nella graduatoria conclusiva, nel perseguimento della su indicata finalità di subentrare all’impresa aggiudicataria nello svolgimento del servizio in oggetto, sembra avere inteso (implicitamente) invocare le pertinenti disposizioni della l. n. 241 del 1990 e non quelle, caratterizzate dal carattere “adespota” dell’interesse legittimante l’accesso, regolatrici del accesso civico (esercitabile, come si è visto, da “chiunque”).
Alla soluzione della questione nel senso del carattere non preclusivo della qualità “differenziata” spesa dalla richiedente l’accesso, ai fini della applicazione (in via subordinata) della normativa in tema di accesso civico, potrebbe indurre, in primo luogo, il rilievo secondo cui compete all’Amministrazione -ed, in seconda battuta, al giudice- inquadrare sub specie iuris la domanda del privato, di cui sia univocamente identificabile il contenuto sostanziale (recte, nella specie, la ragione e l’oggetto della pretesa ostensiva): sì che, anche la presenza nell’istanza di accesso di espresse indicazioni normative (nel caso concreto, comunque, assenti) non potrebbe reputarsi suscettibile di vincolare le sue determinazioni (né, di riflesso, le valutazioni del giudice), dovendo aversi di mira l’obiettivo primario di verificare la fondatezza dell’istanza alla luce del complessivo tessuto ordinamentale, in vista del soddisfacimento dell’interesse ostensivo finale del richiedente (sempre che, naturalmente, l’istanza non contenga univoche indicazioni volitive del richiedente nel senso dell’applicazione dell’una o dell’altra disciplina regolatrice dell’accesso).
Del resto, e con diretto riferimento al caso di specie, la stessa Amministrazione, esprimendosi –con la nota impugnata in primo grado– in senso negativo in ordine alla duplice possibile prospettazione della pretesa ostensiva, ha ritenuto che entrambe fossero enucleabili, senza incorrere in forzature interpretative o qualificatorie, dall’istanza della parte appellante. Lo stesso Ente, pertanto, ha attribuito all’oggetto dell’istanza un contenuto ampio, ovvero comprensivo delle due possibili configurazioni del diritto di accesso, che non potrebbe essere ricusato in sede giudiziale dall’Amministrazione appellata, se non incorrendo nel divieto di venire contra factum proprium (non potendo invece invocarsi in tema di accesso, almeno qualora si ritenga che venga in rilievo una posizione di diritto soggettivo del richiedente, l’irretrattabilità del provvedimento, anche in punto di definizione contenutistica dell’istanza del cittadino, se non nelle forme dell’autotutela).
Peraltro, in via generale, se una domanda del cittadino difetti di un requisito per poter trovare soddisfacimento alla stregua di una determinata fattispecie normativa, o comunque non lo possieda col grado di intensità all’uopo richiesto, ciò non esclude che essa possa essere esaminata secondo una diversa fattispecie tipica, che quel requisito non contempli affatto.
In senso opposto, tuttavia, potrebbe sottolinearsi che l’accesso civico è testualmente finalizzato (cfr. art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, così come novellato dall'art. 6, comma 1, d.lgs. n. 97 del 25.05.2016) allo “scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”: siffatta connotazione finalistica dell’accesso de quo, quindi, impronterebbe “in positivo” l’istituto, inducendo ad escluderne l’applicazione ogniqualvolta il promotore dell’iniziativa ostensiva abbia espressamente fatto valere una legittimazione di carattere “egoistico” (ovvero dichiarato di agire, come nella specie, a tutela di un interesse di carattere individuale).
Ha aggiunto la Sezione che tutta la nuova normativa in materia di trasparenza, del resto, è incentrata sull’idea della massima collaborazione tra l’amministrazione e i cittadini.
La soluzione formalista, che conduca alla reiezione dell’accesso per il mancato richiamo alla disciplina dell’accesso civico si porrebbe in totale contraddizione con questi principi.
D’altro canto, il rigetto non attribuirebbe all’amministrazione alcun concreto vantaggio, poiché il richiedente potrebbe poi reiterare l’istanza, fondandola sul decreto n. 22 del 2013. Questa duplicazione di istanze e procedimenti comporterebbe costi non solo per il privato, ma anche per la stessa amministrazione.
Si deve aggiungere che la “conversione” dell’istanza non sembra comportare pregiudizi per i terzi, dal momento che la disciplina del decreto n. 33 del 2013 risulta, nel suo complesso, decisamente più garantista degli interessi privati che possono essere posti in pericolo dall’esercizio del diritto di accesso.
   (3) Ha chiarito la Sezione che qualora l’Adunanza Plenaria dovesse risolvere in senso affermativo il (secondo) quesito sottopostole, assumerebbe infine rilievo dirimente, ai fini dell’esito della controversia, la complessa questione interpretativa inerente alla natura del rapporto tra la disciplina sul accesso civico e la disciplina dell’accesso ordinario, nella specifica materia dell’accesso agli atti relativi alle procedure di evidenza pubblica ed alla fase esecutiva del rapporto contrattuale con l’impresa aggiudicataria.
La giurisprudenza è prevalentemente orientata nel senso di ritenere che i due sistemi normativi coesistano, nell’attuale complessivo regime della trasparenza dell’attività amministrativa, siccome finalizzati a regolare due istituti autonomi, muniti di propri elementi caratterizzanti.
Con recente sentenza (Sez. V, n. 1817 del 20 marzo 2019), il Consiglio di Stato ha infatti chiarito che “si tratta di istituti che -lungi dal configurare un unico diritto- concretano un insieme di sistemi di garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5, comma 11 d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza della disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime di convivenza di plurime “forme di accesso”). Onde il “sistema” dell’accesso alle informazioni pubbliche si presenta articolato e frastagliato, esibendo una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla presenza di discipline speciali e settoriali, connotate di proprie peculiarità e specificità”.
Con il medesimo precedente, è stato altresì evidenziato che l’accesso civico o generalizzato, a differenza dell’accesso documentale “classico”, “sotto il profilo oggettivo, realizza il massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima l’ostensione di informazioni che già avrebbero dovuto essere, in quanto tali, pubblicate) e l’accesso universale (e “totale”, che non soffre di limitazioni contenutistiche”, mentre “sul piano dell’”intensità”, si tratta –nondimeno– di pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso documentale (posto che –in presenza di controinteressi rilevanti– lo scrutinio di necessità e proporzionalità appare orientato dalla massimizzazione della tutela della riservatezza e della segretezza, in danno della trasparenza)”.
La suddetta impostazione sistematica, va aggiunto, trova il suo avallo legislativo espresso nel disposto dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, a mente del quale “restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della l. 07.08.1990, n. 241”.
Tuttavia, a fronte della su indicata ricostruzione dei rapporti tra le due discipline cui deve aggiungersi, per quanto di interesse in relazione allo specifico oggetto della controversia, quella speciale di cui all’art. 53 del codice n. 50 del 2016), non può omettersi di menzionarne un’altra, di segno alternativo, secondo la quale il d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal d.lgs. n. 97 del 2016, avrebbe rivisitato, in chiave liberalizzante, l’unitaria materia dell’accesso, la quale troverebbe quindi la sua attuale regolamentazione in un quadro normativo composito, dal punto di vista della fonte produttiva, che costituirebbe la risultante di un complesso processo di abrogazione-coordinamento-integrazione, affidato essenzialmente all’interprete e frutto dell’”atterraggio” (non compiutamente disciplinato in tutti i suoi risvolti applicativi dal legislatore attraverso appositi sistemi di raccordo) delle nuove (ed, in certo senso, dirompenti) disposizioni di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 sul terreno normativo “classico” di cui alla originaria l. n. 241 del 1990.
Secondo tale diverso approccio sistematico, il d.lgs. n. 33 del 2013 non avrebbe esautorato del tutto la previgente l. n. 241 del 1990 né espunto dall’ordinamento le specifiche forme di accesso dalla stessa disciplinate: e tuttavia queste, unitamente all’istituto di nuovo conio dell’accesso civico, concorrerebbero alla configurazione di un diritto unitario, pur connotato dalla molteplicità delle sue concrete manifestazioni attuative, la cui ratio complessiva ed aggiornata riposerebbe nella necessità di apprestare strumenti penetrativi differenziati nelle maglie informative della P.A., al fine di meglio calibrare la forza del principio di trasparenza in ragione della diversità delle situazioni in cui venga concretamente invocato e della eterogeneità degli interessi di volta in volta coinvolti.
Ha ancora chiarito la Sezione che Chiarito che -secondo la già più volte richiamata interpretazione prevalente- l’accesso civico e quello ordinario coesistono nel nostro ordinamento, al pari delle rispettive disposizioni regolatrici, l’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, nel suo rinvio alle “vigenti disposizioni” che presuppongono, ai fini dell’accesso, il rispetto di “specifiche condizioni, modalità e limiti”, non sembra poter essere semplicisticamente inteso come affermativo della necessità di richiedere, ai fini dell’ostensione dei documenti in determinati ambiti/materie (come, appunto, quella delle procedure di evidenza pubblica e della relativa fase esecutiva, in cui vige una disposizione che richiama espressamente la l. n. 241 del 1990), il possesso della situazione legittimante ex art. 22, l. n. 241 del 1990: tale interpretazione, infatti, assume a suo presupposto proprio quella che dovrebbe essere, invece, la conclusione del ragionamento ermeneutico, ovvero la perdurante vigenza, nella predetta materia e quale esclusiva fonte regolatrice dell’accesso ad essa relativo, della l. n. 241 del 1990 (dando essa, in altre parole, per scontato che la suddetta materia, con riferimento all’istituto dell’accesso, sia rimasta immune dall’avvento innovatore del d.lgs. n. 97 del 2016).
Inoltre, l’impossibilità di istituire un immediato “ponte” dispositivo tra l’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013 e l’art. 53, comma 1, scaturisce dalla diversa portata delle due previsioni: l’una intesa a fare salva la vigenza delle disposizioni che prevedono “specifiche condizioni, modalità o limiti” all’accesso, l’altra recante un rinvio generale ed onnicomprensivo alla l. n. 241 del 1990.
Consegue da tale rilievo che disposizioni come l’art. 53, le quali, oltre ad essere previgenti (al d.lgs. n. 97 del 2016), fanno indistinto riferimento alle previsioni in tema di accesso di cui alla l. n. 241 del 1990, non potrebbero essere ricondotte alla clausola di salvezza di cui all’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, scontrandosi il carattere generale del primo, siccome riguardante l’intero complesso normativo di cui alla l. n. 241/1990, ed il carattere analitico del secondo, concernente “specifiche condizioni, modalità o limiti” previsti dalla vigente disciplina in tema di accesso.
Né, del resto, sarebbe plausibile ritenere che la clausola di cui all’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, ed in particolare il rinvio da esso operato alle “specifiche condizioni, modalità o limiti”, si presti ad essere intesa ed applicata in modo differenziato: come relativa, cioè, (anche) alla su indicata limitazione soggettiva, laddove specifiche discipline (come nella specie, per ipotesi, l’art. 53, comma 1) contengano un generico richiamo alla l. n. 241 del 1990, ed estranea ad essa, qualora nessuna previsione vi sia (e si tratti solo di applicare, nel suo proprio ambito operativo, la disciplina in tema di accesso civico).
In tale seconda ipotesi, infatti, la disposizione non potrebbe sicuramente essere invocata, come già rilevato, al fine di affermare la vigenza, anche in riferimento all’accesso civico, di quelle “limitazioni” che, per il loro carattere tipizzante lo specifico istituto dell’accesso ordinario (come quella connessa alla necessaria legittimazione soggettiva del richiedente), non si prestano ad essere trasposte all’altro, a pena di snaturamento dello stesso.
Per concludere, potrebbe anzi ipotizzarsi –rimettendo all’Adunanza Plenaria ogni valutazione finale sul punto– che l’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, nel suo rinvio ai “casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”, rechi supporto all’interpretazione opposta a quella che lo invoca al fine di giustificare l’inapplicabilità dell’accesso civico alla materia disciplinata dal Codice degli Appalti.
Invero, il generico riferimento normativo all’”accesso” –comprensivo di quello civico e di quello ordinario– sembra deporre nel senso che il legislatore ha una visione sostanzialmente unitaria dell’istituto dell’accesso, sebbene disciplinandone in maniera diversa le singole declinazioni attuative.
Ebbene, se così è (recte, fosse), la disposizione potrebbe essere invocata proprio al fine di ribadire che le due richiamate discipline in tema di accesso concorrono in ciascun ambito materiale specifico, ferma restando la necessità di rispettare quelle “specifiche condizioni, modalità o limiti” previsti dalla l. n. 241 del 1990: ai quali, però, non sarebbero riconducibili quelli che, come la necessaria legittimazione soggettiva del richiedente, non possono essere trasferiti entro il dominio applicativo dell’accesso civico, senza dare luogo alla radicale negazione dello stesso (
Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 16.12.2019 n. 8501 - commento tratto da e ink a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Natura reale delle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche .
La natura reale delle obbligazioni contenute in una convenzione urbanistica riguarda i soli contributi di urbanizzazione e non anche qualsiasi prestazione in qualche modo connessa alla stipula di convenzioni di natura urbanistica (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.12.2019 n. 2675 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
8.2. In linea generale, possono mutuarsi le diffuse argomentazioni del Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.01.2019, n. 199 (riprese anche dalla giurisprudenza successiva del Giudice d’appello e della Sezione; cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 14.05.2019, n. 3127; TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 25.11.2019, n. 2495).
Osserva il Consiglio di Stato che “
le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell'insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall'autorità preposta alla gestione del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2009, n. 6947)”.
Pertanto, “
è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di cassazione ha sempre affermato che l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem (cfr. Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382)”.
La natura reale dell'obbligazione comporta, dunque, che “all’adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (cfr. Cass. civ., 15.05.2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571)”.
Nello stesso senso si esprime la giurisprudenza amministrativa “secondo la quale
l'assunzione, all'atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell'impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell'ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res (Tar Trento, sez. I, 06.11.2014, n. 394; in senso conforme, Tar Campania, Napoli , sez. II, 09.01.2017, n. 187; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 16.04.2014, n. 2170; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n. 467; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011), per cui l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti (Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n. 747), risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione”.
In ultimo, la giurisprudenza precisa come “
il meccanismo dell'ambulatorietà passiva dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell'esecuzione degli impegni presi (Tar, Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843)”.
8.3. L’orientamento esposto è ancora di recente affermato dal Consiglio di Stato che richiama “
il consolidato orientamento giurisprudenziale espresso dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato, relativo alla natura reale delle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche, relative alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, al cui adempimento sono tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono i titoli edilizi nell'ambito della lottizzazione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (Cass. civ., 28.06.2013 n. 16401; 15.05.2007, n. 11196; id 27.08.2002, n. 12571; Cons. Stato Sez. IV, 09.01.2019, n. 199)”.
Tale orientamento, “basato sulla specifica natura delle convenzione urbanistiche funzionalizzate non solo alla realizzazione di interessi privati ma soprattutto all'interesse pubblico al corretto assetto del territorio, può essere riferito anche alla specifica obbligazione di cessione gratuita delle aree prevista nella convenzione contestata nel presente giudizio, in quanto le clausole delle convenzioni urbanistiche devono essere interpretate in relazione allo scopo delle convenzioni stesse, di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell'insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall'autorità preposta alla gestione del territorio; in quest'ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi dedotti nelle convenzioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 09.01.2019, n. 199, cit.)” (Consiglio di Stato, Sez. II, 23.09.2019, n. 6282).
8.4.
Va, comunque, evidenziato come la natura reale riguardi “i soli contributi di urbanizzazione e non anche qualsiasi prestazione in qualche modo connessa alla stipula di convenzioni di natura urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.02.2019, n. 1177).

ATTI AMMINISTRATIVIUtilizzo degli algoritmi nel procedimento amministrativo.
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Procedimento amministrativo – Algoritmo – Ammissibilità – Elementi di garanzia – Individuazione.
  
Il ricorso all’algoritmo nel procedimento amministrativo, pienamente ammissibile, va correttamente inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere. Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse (1).
  
Premessa la generale ammissibilità dell’algoritmo nell’esercizio dell’attività amministrativa, assumono rilievo fondamentale, anche alla luce della disciplina di origine sovranazionale, due aspetti preminenti, quali elementi di minima garanzia per ogni ipotesi di utilizzo di algoritmi in sede decisoria pubblica:
a) la piena conoscibilità a monte del modulo utilizzato e dei criteri applicati;
b) l’imputabilità della decisione all’organo titolare del potere, il quale deve poter svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della scelta e degli esiti affidati all’algoritmo (2).

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   (1) Ha premesso la Sezione che anche la pubblica amministrazione debba poter sfruttare le rilevanti potenzialità della c.d. rivoluzione digitale.
In tale contesto, il ricorso ad algoritmi informatici per l’assunzione di decisioni che riguardano la sfera pubblica e privata si fonda sui paventati guadagni in termini di efficienza e neutralità.
In molti campi gli algoritmi promettono di diventare lo strumento attraverso il quale correggere le storture e le imperfezioni che caratterizzano tipicamente i processi cognitivi e le scelte compiute dagli esseri umani, messi in luce soprattutto negli ultimi anni da un’imponente letteratura di economia comportamentale e psicologia cognitiva. In tale contesto, le decisioni prese dall’algoritmo assumono così un’aura di neutralità, frutto di asettici calcoli razionali basati su dati.
Peraltro, già in tale ottica è emersa altresì una lettura critica del fenomeno, in quanto l’impiego di tali strumenti comporta in realtà una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e messi insieme, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte operazioni frutto di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò ne consegue che tali strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono in gran parte dai criteri utilizzati e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali è apparso spesso difficile ottenere la necessaria trasparenza.
Sempre in linea generale va richiamato quanto già evidenziato dalla sezione in ordine all’elemento positivo derivante dal nuovo contesto di digitalizzazione; in proposito, non può essere messo in discussione che un più elevato livello di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sia fondamentale per migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini e agli utenti.
In tale ottica lo stesso Codice dell’amministrazione digitale rappresenta un approdo decisivo in tale direzione. I diversi interventi di riforma dell’amministrazione susseguitisi nel corso degli ultimi decenni, fino alla l. n. 124 del 2015, sono indirizzati a tal fine; nella medesima direzione sono diretti gli impulsi che provengono dall’ordinamento comunitario.
Ha aggiunto che la Sezione che non si tratta, infatti, di sperimentare forme diverse di esternazione della volontà dell’amministrazione, come nel caso dell’atto amministrativo informatico, ovvero di individuare nuovi metodi di comunicazione tra amministrazione e privati, come nel caso della partecipazione dei cittadini alle decisioni amministrative attraverso social network o piattaforme digitali, ovvero di ragionare sulle modalità di scambio dei dati tra le pubbliche amministrazioni.
Nel caso dell’utilizzo di tali strumenti digitali, come avvenuto nella fattispecie oggetto della presente controversia, ci si trova dinanzi ad una situazione che, in sede dottrinaria, è stata efficacemente qualificata con l’espressione di rivoluzione 4.0 la quale, riferita all’amministrazione pubblica e alla sua attività, descrive la possibilità che il procedimento di formazione della decisione amministrativa sia affidato a un software, nel quale vengono immessi una serie di dati così da giungere, attraverso l’automazione della procedura, alla decisione finale.
Come già evidenziato nella sentenza n. 2270 del 2019, l’utilità di tale modalità operativa di gestione dell’interesse pubblico è particolarmente evidente con riferimento a procedure, come quella oggetto del presente contenzioso, seriali o standardizzate, implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento discrezionale.
La piena ammissibilità di tali strumenti risponde ai canoni di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (art. 1, l. n. 241 del 1990), i quali, secondo il principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), impongono all’amministrazione il conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse e attraverso lo snellimento e l’accelerazione dell’iter procedimentale.
Ha ancora chiarito la Sezione che l'utilizzo di procedure informatizzate non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa.
In tale contesto, infatti, il ricorso all’algoritmo va correttamente inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere.
Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse.
In disparte la stessa sostenibilità a monte dell’attualità di una tale distinzione, atteso che ogni attività autoritativa comporta una fase quantomeno di accertamento e di verifica della scelta ai fini attribuiti dalla legge, se il ricorso agli strumenti informatici può apparire di più semplice utilizzo in relazione alla c.d. attività vincolata, nulla vieta che i medesimi fini predetti, perseguiti con il ricorso all’algoritmo informatico, possano perseguirsi anche in relazione ad attività connotata da ambiti di discrezionalità.
Piuttosto, se nel caso dell’attività vincolata ben più rilevante, sia in termini quantitativi che qualitativi, potrà essere il ricorso a strumenti di automazione della raccolta e valutazione dei dati, anche l’esercizio di attività discrezionale, in specie tecnica, può in astratto beneficiare delle efficienze e, più in generale, dei vantaggi offerti dagli strumenti stessi.
   (2) Ha chiarito la Sezione che sul versante della piena conoscibilità, rilievo preminente ha il principio della trasparenza, da intendersi sia per la stessa p.a. titolare del potere per il cui esercizio viene previsto il ricorso allo strumento dell’algoritmo, sia per i soggetti incisi e coinvolti dal potere stesso.
In relazione alla stessa p.a., nel precedente richiamato la sezione ha già chiarito come il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) debba essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico.
Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. Ciò al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare –e conseguentemente sindacabili– le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato.
In proposito, va ribadito che, la “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo (costruzione che certo non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative) non esime dalla necessità che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile. Con le già individuate conseguenze in termini di conoscenza e di sindacabilità (cfr. punto 8.3 della motivazione della sentenza 2270 cit.).
In senso contrario non può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza.
In relazione ai soggetti coinvolti si pone anche un problema di gestione dei relativi dati. Ad oggi nelle attività di trattamento dei dati personali possono essere individuate due differenti tipologie di processi decisionali automatizzati: quelli che contemplano un coinvolgimento umano e quelli che, al contrario, affidano al solo algoritmo l'intero procedimento.
Il più recente Regolamento europeo in materia (2016/679), concentrandosi su tali modalità di elaborazione dei dati, integra la disciplina già contenuta nella Direttiva 95/46/CE con l'intento di arginare il rischio di trattamenti discriminatori per l'individuo che trovino la propria origine in una cieca fiducia nell'utilizzo degli algoritmi.
In particolare, in maniera innovativa rispetto al passato, gli articoli 13 e 14 del Regolamento stabiliscono che nell'informativa rivolta all'interessato venga data notizia dell'eventuale esecuzione di un processo decisionale automatizzato, sia che la raccolta dei dati venga effettuata direttamente presso l’interessato sia che venga compiuta in via indiretta.
Una garanzia di particolare rilievo viene riconosciuta allorché il processo sia interamente automatizzato essendo richiesto, almeno in simili ipotesi, che il titolare debba fornire “informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato”. In questo senso, in dottrina è stato fatto notare come il legislatore europeo abbia inteso rafforzare il principio di trasparenza che trova centrale importanza all'interno del Regolamento.
L’interesse conoscitivo della persona è ulteriormente tutelato dal diritto di accesso riconosciuto dall'articolo 15 del Regolamento che contempla, a sua volta, la possibilità di ricevere informazioni relative all'esistenza di eventuali processi decisionali automatizzati.
Incidentalmente, è stato evidenziato come l’articolo 15, diversamente dagli articoli 13 e 14, abbia il pregio di prevedere un diritto azionabile dall'interessato e non un obbligo rivolto al titolare del trattamento, e permette inoltre di superare i limiti temporali posti dagli articoli 13 e 14, consentendo al soggetto di acquisire informazioni anche qualora il trattamento abbia avuto inizio, stia trovando esecuzione o abbia addirittura già prodotto una decisione. Ciò, ai fini in esame, conferma ulteriormente la rilevanza della trasparenza per i soggetti coinvolti dall’attività amministrativa informatizzata in termini istruttori e decisori.
Sul versante della verifica degli esiti e della relativa imputabilità, deve essere garantita la verifica a valle, in termini di logicità e di correttezza degli esiti. Ciò a garanzia dell’imputabilità della scelta al titolare del potere autoritativo, individuato in base al principio di legalità, nonché della verifica circa la conseguente individuazione del soggetto responsabile, sia nell’interesse della stessa p.a. che dei soggetti coinvolti ed incisi dall’azione amministrativa affidata all’algoritmo.
In tale contesto, lo stesso Regolamento predetto affianca alle garanzie conoscitive assicurate attraverso l'informativa e il diritto di accesso, un espresso limite allo svolgimento di processi decisionali interamente automatizzati. L'articolo 22, paragrafo 1, riconosce alla persona il diritto di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o incidano in modo analogo sull'individuo. Quindi occorre sempre l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata dall’algoritmo.
In tema di imputabilità occorre richiamare, quale elemento rilevante di inquadramento del tema, la Carta della Robotica, approvata nel febbraio del 2017 dal Parlamento Europeo. Tale atto esprime in maniera efficace questi passaggi, laddove afferma che “l’autonomia di un robot può essere definita come la capacità di prendere decisioni e metterle in atto nel mondo esterno, indipendentemente da un controllo o un'influenza esterna; (…) tale autonomia è di natura puramente tecnologica e il suo livello dipende dal grado di complessità con cui è stata progettata l'interazione di un robot con l'ambiente; (…) nell'ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la responsabilità del risarcimento né di esigere da tale soggetto la riparazione dei danni causati".
Quindi, anche al fine di applicare le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, occorre garantire la riferibilità della decisione finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge attributiva del potere.
A conferma di quanto sin qui rilevato, in termini generali dal diritto sovranazionale emergono tre principi, da tenere in debita considerazione nell’esame e nell’utilizzo degli strumenti informatici.
In primo luogo, il principio di conoscibilità, per cui ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata.
Il principio, in esame è formulato in maniera generale e, perciò, applicabile sia a decisioni prese da soggetti privati che da soggetti pubblici, anche se, nel caso in cui la decisione sia presa da una p.a., la norma del Regolamento costituisce diretta applicazione specifica dell’art. 42 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (“Right to a good administration”), laddove afferma che quando la Pubblica Amministrazione intende adottare una decisione che può avere effetti avversi su di una persona, essa ha l’obbligo di sentirla prima di agire, di consentirle l’accesso ai suoi archivi e documenti, ed, infine, ha l’obbligo di “dare le ragioni della propria decisione”.
Tale diritto alla conoscenza dell’esistenza di decisioni che ci riguardino prese da algoritmi e, correlativamente, come dovere da parte di chi tratta i dati in maniera automatizzata, di porre l’interessato a conoscenza, va accompagnato da meccanismi in grado di decifrarne la logica. In tale ottica, il principio di conoscibilità si completa con il principio di comprensibilità, ovverosia la possibilità, per riprendere l’espressione del Regolamento, di ricevere “informazioni significative sulla logica utilizzata”.
In secondo luogo, l’altro principio del diritto europeo rilevante in materia (ma di rilievo anche globale in quanto ad esempio utilizzato nella nota decisione Loomis vs. Wisconsin), è definibile come il principio di non esclusività della decisione algoritmica.
Nel caso in cui una decisione automatizzata “produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona”, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente
su tale processo automatizzato (art. 22 Reg.). In proposito, deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed informativo il modello viene definito come HITL (human in the loop), in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina interagisca con l’essere umano.
In terzo luogo, dal considerando n. 71 del Regolamento 679/2016 il diritto europeo trae un ulteriore principio fondamentale, di non discriminazione algoritmica, secondo cui è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori e al fine di garantire la sicurezza dei dati personali, secondo una modalità che tenga conto dei potenziali rischi esistenti per gli interessi e i diritti dell'interessato e che impedisca tra l'altro effetti discriminatori nei confronti di persone fisiche sulla base della razza o dell'origine etnica, delle opinioni politiche, della religione o delle convinzioni personali, dell'appartenenza sindacale, dello status genetico, dello stato di salute o dell'orientamento sessuale, ovvero che comportano misure aventi tali effetti.
In tale contesto, pur dinanzi ad un algoritmo conoscibile e comprensibile, non costituente l’unica motivazione della decisione, occorre che lo stesso non assuma carattere discriminatorio.
In questi casi, come afferma il considerando, occorrerebbe rettificare i dati in “ingresso” per evitare effetti discriminatori nell’output decisionale; operazione questa che richiede evidentemente la necessaria cooperazione di chi istruisce le macchine che producono tali decisioni (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.12.2019 n. 8472 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASul piano generale della normativa edilizia, l’art. 32 del dpr 380/2001 prevede che costituisce variazione essenziale il mutamento di destinazione d’uso che implichi variazioni degli standard urbanistici.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che «anche un mutamento di destinazione d'uso meramente funzionale, ovvero senza la realizzazione di opere edilizie, può determinare una variazione degli standard urbanistici ed è in grado di incidere sul tessuto urbanistico della zona».
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Sul piano specifico del rapporto tra edilizia ed attività religiosa, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la legislazione, statale e regionale, nella disciplina dell’assetto del territorio, non deve prevedere misure che siano in grado di incidere sul principio di laicità dello Stato, mediante prescrizioni che non assicurino il pluralismo confessionale e culturale.
In particolare, la Corte costituzionale si è occupata delle questioni di legittimità costituzionali di leggi regionali che imponevano, per la costruzione di edifici di culto, il rispetto di requisiti ulteriori per le confessioni religiose che non avessero stipulato, ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost., un’intesa con lo Stato sulla base di una legge.
La Corte ha chiarito, inoltre, che è legittimo un piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, «alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l'apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)».
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Nella fattispecie in esame, la destinazione dell’area è quella industriale, riconducibile alla categoria “produttiva e direzionale” e l’amministrazione comunale ha accertato che «all’interno del capannone si trovavano un centinaio di persone intente alla preghiera musulmana», aggiungendosi che «il caseggiato presentava un ambiente unico e le persone erano inginocchiate in preghiera sui tappetini e da un piccolo palco un uomo con microfono recitava le preghiere».
La Sezione ritiene che tale accertamento istruttorio abbia un contenuto univoco nel senso del cambio di destinazione di uso dell’immobile per finalità di culto che risulta non compatibile con la destinazione legale dell’area.
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1.˗ Il Comune di Cinisello Balsamo, con ordinanza del 02.07.2014, n. 173, ha ingiunto alla società Fi.Ev. s.r.l., quale proprietaria, e all’associazione “Comunità Islamica di Cinisello Balsamo” (d’ora innanzi solo Associazione) quale locataria, il ripristino dello stato dei luoghi e della destinazione d’uso assentita, con riguardo ad abusi edilizi che sarebbero stati commessi sull’immobile, composto da piano terra e rialzato, sito in via ... n. 11.
In particolare, l’amministrazione comunale aveva accertato che nel suddetto immobile, collocano in area a destinazione industriale, era stato accertato lo svolgimento di attività di preghiera non consentita, aggiungendosi che non sarebbe consentito neanche lo svolgimento di attività culturale.
2.˗ L’Associazione ha impugnato la suddetta ordinanza innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, che, con sentenza 17.02.2016, n. 3441, ha rigettato il ricorso.
3.˗ La ricorrente in primo grado ha proposto appello.
4.˗ Si è costituito in giudizio il Comune, chiedendo il rigetto dell’appello.
5.˗ La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 24.10.2019.
6.˗ L’appellante ha prospettato plurimi motivi di ricorso, strettamente connessi e, in alcuni punti, sovrapponibili, che possono essere sintetizzati nel modo che segue.
L’ordinanza impugnata sarebbe illegittima e la sentenza impugnata erronea, in quanto:
   i) la ritenuta esistenza di un notevole afflusso presso i locali dell’Associazione non sarebbe suffragata da una adeguata e congrua verifica istruttoria, non potendosi ritenere sufficiente la redazione di un solo verbale di accesso da parte della polizia locale in data 25.04.2014;
   ii) l’attività culturale svolta dall’associazione culturale, unitamente alle eventuali manifestazioni di «momenti di preghiera», deve essere qualificata legittima e non potrebbe, pertanto, ritenersi idonea a determinare un cambio di destinazione (si afferma che «i membri dell’associazione appellante che siano di religione musulmana hanno tutto il diritto di manifestare la propria religione nei tempi e nei modi prescritti dai precetti della loro fede, a nulla importando che tali momenti possano occasionalmente coincidere con la loro presenza all’interno dei locali associativi»);
   iii) i documenti che «raffigurano quaranta persone sedute intente in attività conviviali, nonché diciannove bambini intenti a seguire un adulto che illustra l’alfabeto arabo», non potrebbero essere considerati elementi istruttori adeguati;
   iv) non sarebbero stati rinvenuti «arredi e paramenti sacri», nonché «l’eventuale accesso, libero ed indiscriminato da parte di ipotetici fedeli che intendano accostarsi all’attività di culto»;
   v) non si comprenderebbe quale sia la correlazione tra l’asserito mutamento di destinazione d’uso e la contestata «non realizzazione della rampa interna di accesso al piano rialzato», nonché la realizzazione di «opere di modifica dei locali dello stesso piano», realizzate prima dell’insediamento dell’appellante nei locali in esame.
I motivi non sono fondati.
Sul piano generale della normativa edilizia, l’art. 32 del decreto legislativo 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede che costituisce variazione essenziale il mutamento di destinazione d’uso che implichi variazioni degli standard urbanistici.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che «anche un mutamento di destinazione d'uso meramente funzionale, ovvero senza la realizzazione di opere edilizie, può determinare una variazione degli standard urbanistici ed è in grado di incidere sul tessuto urbanistico della zona» (Cons. Stato, sez. VI, 18.07.2019, n. 5041).
L'art. 17, comma 1, lett. n), del decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha introdotto l’art. 23-ter del d.lgs. n. 380 del 2001 (la cui rubrica reca «Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante»), il quale, recependo l’indirizzo interpretativo sopra riportato, ha affermato che «salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale».
Sul piano specifico del rapporto tra edilizia ed attività religiosa, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la legislazione, statale e regionale, nella disciplina dell’assetto del territorio, non deve prevedere misure che siano in grado di incidere sul principio di laicità dello Stato, mediante prescrizioni che non assicurino il pluralismo confessionale e culturale.
In particolare, la Corte costituzionale si è occupata delle questioni di legittimità costituzionali di leggi regionali che imponevano, per la costruzione di edifici di culto, il rispetto di requisiti ulteriori per le confessioni religiose che non avessero stipulato, ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost., un’intesa con lo Stato sulla base di una legge (Corte cost. 24.03.2016 n. 63).
La Corte ha chiarito, inoltre, che è legittimo un piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, «alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l'apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)» (Corte cost. 05.12.2019, n. 254).
Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato che la destinazione dell’area sia quella industriale, riconducibile alla categoria “produttiva e direzionale”.
L’amministrazione comunale ha accertato, a seguito di un sopralluogo del 25.04.2014, come risulta dal verbale richiamato dal provvedimento impugnato, che «all’interno del capannone si trovavano un centinaio di persone intente alla preghiera musulmana», aggiungendosi che «il caseggiato presentava un ambiente unico e le persone erano inginocchiate in preghiera sui tappetini e da un piccolo palco un uomo con microfono recitava le preghiere». Sono state depositate agli atti del processo le relative foto.
La Sezione ritiene che tale accertamento istruttorio abbia un contenuto univoco nel senso del cambio di destinazione di uso dell’immobile per finalità di culto che risulta non compatibile con la destinazione legale dell’area.
Tale istruttoria non può ritenersi, come sostenuto dall’appellante, inadeguata. Gli elementi di fatto risultati dall’accertamento dei luoghi sono sufficienti per ritenere che l’immobile venisse utilizzato per scopi non compatibili con quelli autorizzati.
Venendo in rilievo un immobile che si trova nella disponibilità dell’appellante, quest’ultimo avrebbe potuto addurre elementi probatori idonei a dimostrare che concretamente vi sia un costante impiego dell’immobile per finalità industriale. Né varrebbe rilevare che si è trattata di una mera manifestazione di attività culturale, in quanto, per come essa è stata indicata dallo stesso appellante, non risulta anch’essa comunque compatibile con la destinazione industriale dell’immobile.
Tale accertamento, disposto dall’amministrazione comunale, non ha in alcun modo violato il principio costituzionale di laicità dello Stato e di rispetto della libertà religiosa, in quanto la sanzione imposta prescinde dalla tipologia di confessione religiosa che viene in rilievo, trattandosi di un divieto generalizzato di utilizzo di un bene per uno scopo diverso da quello autorizzato dalla legge.
La motivazione sopra indicata ha valenza assorbente e legittima di per sé il provvedimento adottato dal Comune.
Non occorre, pertanto, esaminare le ulteriori doglianze dell’appellante, in quanto esse non sono, comunque, idoneo ad incidere sull’esito della decisione finale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.12.2019 n. 8454 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIInvarianza della soglia di anomalia dell'offerta.
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Contratti della pubblica amministrazione – Offerte anomale – Invarianza della soglia di anomalia – Ratio.
Il principio di invarianza della soglia di anomalia (art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016) ha la funzione di assicurare stabilità agli esiti finali della procedura di gara; con tale norma la legge intende evitare che, nel caso di esclusione dell’aggiudicatario o di un concorrente dalla procedura di gara per mancata dimostrazione dei requisiti dichiarati, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche (1).
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   (1) Cons. St., sez. V, 22.01.2019, n. 572.
Ha chiarito il Tar che l’invarianza della soglia, portata alle sue estreme conseguenze, impedirebbe di fatto, specie in una procedura quale quella in questione caratterizzata dall’inversione procedimentale e dal ricalcolo della soglia successivamente al soccorso istruttorio, la valutazione delle censure relative a “variazioni” intervenute nella fase che precede l’aggiudicazione aventi ad oggetto proprio le stesse, quasi che il legislatore abbia inteso cristallizzare (e quindi rendere insindacabile) ogni attività della stazione appaltante, comprese la contestata attivazione del soccorso istruttorio e la conseguente esclusione, che incidono, nella procedura in questione, sul “ricalcolo” della soglia.
La ratio della disposizione legislativa è, però, come sopra chiarito, del tutto diversa, essendo essa rivolta esclusivamente ad evitare che i procedimenti per gli affidamenti si protraggano eccessivamente e che i provvedimenti di aggiudicazione possano venire ‘ribaltati’ più volte -finanche dopo l’esaurimento della fase preordinata al raggiungimento di un assetto definitivo- generando incertezza ed inefficienza, con conseguenti effetti pregiudizievoli per le ditte, per il mercato e per la stessa collettività.
Il principio dell’invarianza in questione, insomma, non può essere invocato per cristallizzare soluzioni incoerenti (per non dire illegittime) laddove venga censurata la sussistenza dei presupposti per l’attivazione del soccorso, il cui mancato riscontro sia stato determinante ai fini della rideterminazione della soglia di anomalia, senza che ciò risulti di oggettivo presidio ad altri e di pari rango valori giuridici, rispetto al diritto di difesa e al “diritto alla giusta aggiudicazione”.
Precludere il chiesto controllo sulla legittimità (o meno) dell’attivazione del soccorso istruttorio in nome dell’invarianza della soglia di anomalia significherebbe, specie nella ipotesi di inversione procedimentale in esame (caratterizzata dall’esame delle offerte economiche prima della verifica della documentazione amministrativa) sottrarre al sindacato del giudice l’azione dell’Amministrazione e la sua conformità (o meno) all’intero complesso delle norme concernenti i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare d’appalto; significherebbe precludere ogni forma di tutela ripristinatoria e/o reintegratoria a chi ritenga di essere stato leso da tale attività amministrativa, asseritamente illegittima, che ha portato al ricalcolo della soglia e, secondo un orientamento giurisdizionale, financo a precludere, in tali ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria: il che non appare conforme ai principi costituzionali ed eurounitari, oltre che alla stessa ratio del detto principio di invarianza, per come sopra esposto.
Ne consegue che una lettura della norma in esame (art. 95, comma 15, cit., coordinata nel caso con l’art. 36, comma 5, cit.) orientata ai suddetti principi non può condurre a ritenere inammissibile il ricorso laddove esso, come nel caso, non miri a “variare” la soglia di anomalia e a procedere ad una sua nuova “determinazione”, quanto piuttosto a dimostrare che, nella procedura in esame, non sussistevano i presupposti per il “ricalcolo” della soglia (previsto dall’art. 36 quinto comma del d.lgs. n. 50 del 2016 illo tempore vigente e dalla lex specialis), che pertanto doveva rimanere quella iniziale, con conseguente aggiudicazione in favore della ricorrente.
Ha aggiunto il Tar che in una procedura di gara soggetta alla disciplina dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 nella vigenza del d.l. n. 32 del 2019, la previsione dell’art. 95, comma 15 cit., laddove fa riferimento alla controversa “fase amministrativa di prima ammissione” (nella versione temporaneamente vigente al momento della gara, eliminata dal testo attuale con la conversione del d.l. n. 32 del 2019 in legge) va coordinata con la speciale disciplina dell’art. 36 citato e delle norme di gara, le quali prevedono espressamente il ricalcolo della media all’esito della verifica dei requisiti.
Pertanto, nella fattispecie, il momento a cui ancorare l’invarianza della soglia è quello successivo alla verifica con la rideterminazione della soglia (TAR Catania-Catania, Sez. I, sentenza 12.12.2019 n. 2980 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2.1. Ritiene il Collegio che l’eccezione debba essere disattesa nei termini che seguono.
2.1.1. Innanzitutto, va ritenuto che l’articolo 95, comma 15 cit. -laddove fa riferimento alla controversa “fase amministrativa di prima ammissione” (nella versione temporaneamente vigente al momento della gara ed eliminata dal testo attuale con la conversione del d.l. 32/2019 in legge)-, nel caso di specie, va coordinato con le previsioni speciali dell’articolo 36 citato (allora vigente) e delle norme di gara, le quali prevedono espressamente il ricalcolo della media all’esito della verifica dei requisiti. Pertanto, nella fattispecie, il momento a cui ancorare l’invarianza della soglia è quello successivo alla verifica con la rideterminazione della soglia.
Tuttavia, la tesi della controinteressata secondo cui la cristallizzazione della soglia definitiva renderebbe inammissibile la domanda di parte ricorrente finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto, nel caso non convince e ciò per varie ragioni.
2.1.2. Va ricordato, conformemente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza di appello, che il principio di invarianza della soglia di anomalia ha la funzione di assicurare stabilità agli esiti finali della procedura di gara. Con tale norma la legge intende evitare che, nel caso di esclusione dell’aggiudicatario o di un concorrente dalla procedura di gara per mancata dimostrazione dei requisiti dichiarati, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche (Cons. St., sez. V, 22.01.2019, n. 572; C.G.A. n. 604/2019).
Orbene, nel caso in questione, parte ricorrente non mira alla rideterminazione della soglia di anomalia (adducendo un “nuovo” motivo di esclusione o di illegittima ammissione), ma ritiene che la cristallizzazione vada riferita alla prima soglia, in base alla quale la stessa sarebbe risultata aggiudicataria; ritiene in particolare, con il primo motivo, che il soccorso istruttorio non sia stato legittimamente attivato e che la mancata integrazione documentale da parte delle imprese (quantomeno non più interessate alla integrazione una volta noti i ribassi) non poteva condurre all’esclusione, non venendo in considerazione carenze essenziali previste dalla legge a pena di esclusione.
Va poi notato che l’invarianza della soglia, portata alle sue estreme conseguenze, impedirebbe di fatto, specie in una procedura quale quella in questione caratterizzata dall’inversione procedimentale e dal ricalcolo della soglia successivamente al soccorso istruttorio, la valutazione delle censure relative a “variazioni” intervenute nella fase che precede l’aggiudicazione aventi ad oggetto proprio le stesse, quasi che il legislatore abbia inteso cristallizzare (e quindi rendere insindacabile) ogni attività della stazione appaltante, comprese la contestata attivazione del soccorso istruttorio e la conseguente esclusione, che incidono, nella procedura in questione, sul “ricalcolo” della soglia.
La ratio della disposizione legislativa è, però, come sopra chiarito, del tutto diversa, essendo essa rivolta esclusivamente ad evitare che i procedimenti per gli affidamenti si protraggano eccessivamente e che i provvedimenti di aggiudicazione possano venire ‘ribaltati’ più volte -finanche dopo l’esaurimento della fase preordinata al raggiungimento di un assetto definitivo- generando incertezza ed inefficienza, con conseguenti effetti pregiudizievoli per le ditte, per il mercato e per la stessa collettività (così CGARS, 11.01.2017 n. 14 e CGARS n. 230/2018).
Il principio dell’invarianza in questione, insomma, non può essere invocato per cristallizzare soluzioni incoerenti (per non dire illegittime) laddove venga censurata la sussistenza dei presupposti per l’attivazione del soccorso, il cui mancato riscontro sia stato determinante ai fini della rideterminazione della soglia di anomalia, senza che ciò risulti di oggettivo presidio ad altri e di pari rango valori giuridici, rispetto al diritto di difesa e al “diritto alla giusta aggiudicazione” (C.G.A.R.S. n. 230/2018).
Precludere il chiesto controllo sulla legittimità (o meno) dell’attivazione del soccorso istruttorio in nome dell’invarianza della soglia di anomalia significherebbe, specie nella ipotesi di inversione procedimentale in esame (caratterizzata dall’esame delle offerte economiche prima della verifica della documentazione amministrativa) sottrarre al sindacato del giudice l’azione dell’Amministrazione e la sua conformità (o meno) all’intero complesso delle norme concernenti i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare d’appalto; significherebbe precludere ogni forma di tutela ripristinatoria e/o reintegratoria a chi ritenga di essere stato leso da tale attività amministrativa, asseritamente illegittima, che ha portato al ricalcolo della soglia e, secondo un orientamento giurisdizionale, financo a precludere, in tali ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria (C.S., sez. V, n. 2609/2015): il che non appare conforme ai principi costituzionali ed eurounitari, oltre che alla stessa ratio del detto principio di invarianza, per come sopra esposto.

EDILIZIA PRIVATA: Convenzione derogatoria della distanza tra fabbricati.
Il TAR Milano, in un ricorso con il quale parte ricorrente lamentava la violazione delle distanze legali non già in relazione all’immobile di sua proprietà ma in relazione a due diverse costruzioni, di proprietà di terzi, oggetto, tra loro, di apposita convenzione derogatoria, preso atto che nel giudizio non vengono in evidenza concreti pericoli di peggioramento sia delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre dei due immobili, sia delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile di proprietà ricorrente, precisa che tale convenzione non può essere considerata «nulla» in considerazione che le relative previsioni rientravano nella disponibilità delle parti, come, peraltro, confermato dalla eliminazione, in linea di principio, della inderogabilità delle distanze voluta, recentemente, dall’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, in passato affermata da una parte della giurisprudenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.12.2019 n. 2652 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1.- Oggetto della domanda di annullamento è la nota prot. n. 2769 del 10.05.2012 con la quale il Comune di San Zenone al Lambro ha comunicato alla ricorrente di aver autorizzato il sig. Da.Pa., controinteressato, alla prosecuzione dei lavori oggetto di una D.I.A. dallo stesso presentata in data 05.12.2011 (prot. n. 7250/2011, cfr. produzione di parte ricorrente) e relativa all’immobile ivi indicato.
Rispetto a tale D.I.A. parte ricorrente aveva chiesto l’adozione di misure di autotutela, volte ad impedire i lavori in ragione della asserita violazione delle distanze con l’edificio di proprietà di un terzo, sig. Po., anch’esso odierno controinteressato.
2.- Il ricorso si articola in tre motivi di doglianza con i quali la ricorrente ha esposto i vizi come di seguito rubricati:
   1) Violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968; eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento. Sarebbe errata l’affermazione del Comune secondo cui al caso di specie non si applicherebbe la previsione dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 relativa alle zone B –quale è quella interessata al procedimento edilizio– ma quella, nella stessa disposizione contenuta, relativa alle zone C in forza della quale in assenza di uno sviluppo superiore a 12 metri deve, in tesi di parte pubblica, ritenersi non violata la disciplina sulle distanze.
Altrettanto errata sarebbe l’affermazione –anch’essa contenuta nel provvedimento impugnato– secondo cui non sarebbe da considerarsi parete finestrata «quella in cui siano aperte delle semplici luci e non delle vedute», sul rilievo che sulla parete dell’edificio di proprietà Po. che fronteggia la proprietà Pa. risulterebbero aperte tre finestre;
   2) Violazione art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 sotto altro profilo; eccesso di potere per carenza di istruttoria; violazione art. 42, c. 9, l.r. Lomb. n. 12 del 2005. I sigg.ri Pa. e Po. hanno sottoscritto una scrittura privata «di diritto di edificazione a confine», asseritamente affetta da nullità poiché in contrasto con le disposizioni del predetto d.m. n. 1444 del 1968, le quali sarebbero inderogabili;
   3) Violazione dell’art. 11, punti 2, 3, 6 e 9 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G.; eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione e violazione art. 42, c. 9, l.r. Lomb. n. 12 del 2005. Nel calcolo della superficie fondiaria, la D.I.A. avrebbe illegittimamente compreso anche una porzione di area di proprietà del titolare destinata dal P.R.G. a sedime stradale con conseguente –asserita– sovrastima dell’indice di utilizzazione fondiaria e creazione di un volume maggiore rispetto a quello ammissibile.
...
7.- L’interesse fatto valere in giudizio da parte ricorrente è quello inerente alla salubrità dei luoghi la quale sarebbe messa in discussione dalla asserita violazione delle regole legali sulle distanze in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione: questa avrebbe, in tesi, dovuto impedire la realizzazione dei lavori oggetto della DIA.
Sostiene parte ricorrente con il secondo motivo di ricorso che, nel caso di specie, poiché viene in rilievo una zona di completamento B3, avrebbe dovuto rispettarsi la distanza prevista per le zone B dall’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 in presenza di finestre che, in tesi, non possono essere qualificate come luci.
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Deve essere ricordato che nel caso di specie parte ricorrente lamenta la violazione delle distanze legali non già in relazione all’immobile di sua proprietà ma in relazione a due diverse costruzioni, di proprietà di terzi, oggetto, tra loro, di apposita convenzione derogatoria sottoscritta in data 05.12.2011. Nel giudizio non vengono in evidenza concreti pericoli di peggioramento sia delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre dei due immobili, sia delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile di proprietà ricorrente.
Tale convenzione, peraltro, non può essere considerata «nulla» in considerazione che le relative previsioni rientravano nella disponibilità delle parti (in tal senso, Cons. Stato n. 3543 del 2013), come, peraltro, confermato dalla eliminazione, in linea di principio, della inderogabilità delle distanze voluta, recentemente, dall’art. 2-bis del d. P.R. n. 380 del 2001, in passato affermata da una parte della giurisprudenza.
8.- In relazione all’asserito illegittimo inserimento nel calcolo della superficie fondiaria della porzione di area di proprietà privata destinata dal PRG a sedime stradale, il motivo si disvela anch’esso privo di fondatezza poiché, allo stato e sulla base degli elementi versati in atti, l’area non può ritenersi integrare le caratteristiche di opera di urbanizzazione.
9.- Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato.

APPALTI: Partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti che siano già intervenuti nella procedura concorsuale.
Il TAR Milano, preso atto che in una procedura di evidenza pubblica finalizzata a dare in gestione un impianto sportivo comunale, il dirigente del Comune ha sostanzialmente preso parte a tutti gli atti della procedura, a partire dalla redazione e adozione del bando fino alla determina finale di aggiudicazione, svolgendo finanche le funzioni di responsabile del procedimento e componente e presidente della Commissione, ritiene tale modus operandi non corretto, in quanto si pone in contrasto con il principio di tutela dell’imparzialità e dell’oggettività nelle procedure selettive, il quale mira a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti e così via) che siano già intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale definendo i contenuti e le regole della procedura (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 11.12.2019 n. 2638 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Il ricorso è stato affidato alle seguenti censure:
...
6) violazione di legge (art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016) in relazione alla mancata nomina di soggetti diversi a presiedere alle varie fasi del procedimento; violazione delle regole di composizione della commissione: la dott.ssa La.Ge., dirigente del Comune di Vigevano, ha provveduto ad approvare il bando di selezione, ha nominato se stessa responsabile del procedimento, ha presieduto ed è stata componente continua della commissione di gara per la valutazione delle offerte e assegnazione dei punteggi (in particolare, delle proposte migliorative) e ha emesso il provvedimento di aggiudicazione;
...
2.3. È fondato, invece, il sesto motivo.
Nella vicenda di cui è causa, la dirigente del Comune ha sostanzialmente preso parte a tutti gli atti della procedura, a partire dalla redazione e adozione del bando fino alla determina finale di aggiudicazione, svolgendo finanche le funzioni di responsabile del procedimento e componente e presidente della Commissione.
Tale modus operandi, ad avviso del Collegio, non può ritenersi corretto, in quanto si pone in contrasto con il principio di tutela dell’imparzialità e dell’oggettività nelle procedure selettive, il quale mira a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti e così via) che siano già intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale definendo i contenuti e le regole della procedura (v. TAR Lazio-Latina, Sez. I, n. 226/2016).
Tale principio ha valenza generale, rinvenendo le proprie basi nell’art. 97 Cost. e, per tale ragione, trova applicazione, nella procedura di cui è causa, indipendentemente dalla circostanza che l’impianto sportivo in questione possa essere qualificato o meno come impianto avente rilevanza economica, e a prescindere, quindi, dalla disciplina conseguentemente applicabile alla procedura di affidamento dello stesso (concessione di servizi o appalto di servizi).
L’operato della commissione, in quest’ottica, risulta inficiato nella sua globalità a causa di un vizio genetico nella composizione dell’organo, e tanto basta per ritenere fondato il motivo in esame, che deve pertanto essere accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazioni di volumi o murature all’interno di una grotta naturale – Equiparabilità alla realizzazione di opere al di sopra della formazione rocciosa – Natura – Nuova costruzione.
E’ equiparabile, sotto l’aspetto urbanistico-amministrativo, la realizzazione di volumi o di murature al di sopra di una formazione rocciosa (i quali sarebbero senza dubbio ritenuti di nuova costruzione) ovvero all’interno di una grotta naturale, trattandosi, in entrambi i casi, di interventi che determinano una trasformazione permanente del paesaggio esistente.
Non rileva il fatto che, nel caso della grotta, la porzione di territorio che si intende tutelare si trovi (non in superficie, bensì) all’interno della formazione rocciosa, non essendo, questa, un’opera dell’uomo (la quale presupporrebbe, a sua volta, un valido titolo abilitativo)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.12.2019 n. 2182 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso alle riproduzioni audio-video delle prove orali di un concorso.
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Accesso ai documenti – Riproduzione audio video – Prove orali di pubblico concorso – E’ accessibile.
Essendo la prova orale di un concorso certamente riconducibile al procedimento concorsuale, la sua riproduzione audio video deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla pubblica amministrazione (1).
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   (1) La Sezione II-ter del Tar Lazio ha accolto il ricorso di un concorrente non classificatosi tra i vincitori ad accedere alle riproduzioni audio-video delle prove orali dei concorrenti risultati vincitori.
Il Tar ha pertanto affermato che riproduzione audio video di una prova orale di un concorso deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere nell’ambito del procedimento concorsuale, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla pubblica amministrazione.
Quanto alla asserita lesione delle riservatezza, ha chiarito il Tar che in linea di principio sussiste il diritto ad accedere a tutti gli atti della procedura concorsuale e non vi sono limiti ai documenti ostensibili, essendo noto che le domande e i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza e tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza della valutazione (Tar Lazio, sez. III, 10.09.2013, n. 8199).
In ogni caso, la sentenza ha rilevato che, attesa la specifica natura dei documenti in questione (registrazioni audio-video delle prove orali), qualora dovesse profilarsi un contrasto tra esigenze di privacy dei terzi e il diritto di accesso, trattandosi di accesso per fini di necessità difensive, queste ultime dovrebbe comunque ritenersi prevalenti.
Tuttavia, l’amministrazione potrà adottare accorgimenti tecnici idonei a contemperare l’interesse all’accesso e quello alla riservatezza dei terzi (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 10.12.2019 14140 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Nel merito, il ricorso è fondato e va accolto.
Va in primo rilevato che la nozione di documento amministrativo, ai sensi dell’art. 22 della l. 241/1990, certamente ricomprende anche le riproduzioni audio o audiovideo di una prova orale di un pubblico concorso, ove siano state effettuate.
Infatti, l’art. 22 così recita: “si intende “per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Ora, appare evidente che essendo la prova orale di un concorso certamente riconducibile al procedimento concorsuale, la sua riproduzione deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla pubblica amministrazione. La norma infatti è assolutamente chiara nel riferirsi ad atti anche solo “detenuti” e non formati dalla pubblica amministrazione. Inoltre, come si è detto, le prove concorsuali orali sono certamente atti del procedimento concorsuale al pari delle prove scritte. Pertanto, così come è consentito l’accesso alle prove scritte allo stesso modo deve esserlo anche a quelle orali, ove esse siano state registrate o videoregistrate.
A tal fine, è ininfluente la circostanza che la Commissione di esame non si sia poi avvalsa di tali registrazioni, in quanto tale aspetto è meramente estrinseco ed accidentale ma non incide sulla riferibilità dei suddetti documenti al procedimento.
Infine, non possono assumere rilevanza ragioni di riservatezza dei terzi.
In primo luogo, va sul punto rilevato che in linea di principio sussiste il diritto ad accedere a tutti gli atti della procedura concorsuale e non vi sono limiti ai documenti ostensibili, essendo noto che le domande e i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza e tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza della valutazione (TAR Roma, (Lazio) sez. III, 10/09/2013, n. 8199).
Inoltre, in ogni caso, qualora, attesa la specifica natura dei documenti in questione (registrazioni audio-video delle prove orali), dovesse profilarsi un contrasto tra esigenze di privacy dei terzi e il diritto di accesso, trattandosi di accesso per fini di necessità difensive, queste ultime dovrebbe comunque ritenersi prevalenti.

APPALTI: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Tutela giurisdizionale del diritto di accesso civico – Legittimazione a ricorrere – Quisque de populo – Esclusione – Azione popolar ecorrettiva – inconfigurabilità.
La tutela giurisdizionale del diritto di accesso c.d. civico non configura un’azione popolare, per cui la legittimazione a ricorrere non spetta al quisque de populo, ma solo a colui che ha avanzato la richiesta di accesso, rimasta priva di riscontro (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I n. 9076/2017).
La disciplina dell’accesso civico con la previsione della legittimazione del “chiunque” a conoscere, non può estendersi, infatti, fino al punto di consentire, nel silenzio della norma, di attivare una sorta di azione popolare “correttiva” in esito all’accesso ottenuto, per cui, ai fini della eventuale impugnativa degli atti adottati dall’Amministrazione e conosciuti in sede di accesso generalizzato la ricorrente potrà agire in giudizio secondo le ordinarie regole processuali e far valere in quella sede la sua legittimazione a ricorrere.

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PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Disciplina in tema di accesso ai documenti – Disciplina in tema di accesso generalizzato – Caratteri.
La disciplina in tema di accesso ai documenti soggiace a finalità e presupposti diversi da quelli in tema di trasparenza e di accesso generalizzato: il primo è strumentale alla tutela degli interessi individuali di un soggetto che si trova in una posizione differenziata rispetto agli altri cittadini, in ragione della quale ha il diritto di conoscere e di avere copia di un determinato documento amministrativo; il secondo è, invece, azionabile da chiunque, senza la previa dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto, per la tutela di situazioni rilevanti, senza dover motivare la richiesta e con la sola finalità di consentire una pubblicità diffusa e integrale dei dati, dei documenti e delle informazioni che sono considerati come pubblici e, quindi, conoscibili.
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PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Materia dei contratti pubblici – Sottrazione alla conoscenza diffusa di cui al d.lgs. n. 33/2013 – Esclusione – Strumento di prevenzione e contrasto alla corruzione.
Non tutta la “materia” dei contratti pubblici deve essere sottratta alla “conoscenza diffusa” di cui al d.lgs. 33/2013 e ciò per una considerazione di ordine sistematico e teleologico: se la materia degli appalti pubblici è una di quelle dove è più elevato il rischio corruzione (ricompresa tra le aree più a rischio di cui all’art. 1, co. 16, della legge n. 190/2012) e sulla quale, in misura maggiore, si è appuntata l’attenzione della disciplina anticorruzione (anche nell’ambito dei vari piani nazionali anticorruzione) e dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, sarebbe incomprensibile o, quanto meno, irragionevole ritenere che il legislatore abbia voluto sottrarre alla disciplina sulla trasparenza, e quindi all’accesso del quisque de populo, proprio la materia degli appalti.
A rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico, vi è un’esigenza specifica e più volte riaffermata nell’ordinamento statale ed europeo, e cioè il perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione
(cfr. Cons. Stato n. 3780/2019).
Inoltre, proprio con riferimento alle procedure di appalti, la possibilità di accesso civico, una volta che la gara sia conclusa e venuta, perciò, meno l’esigenza di tutelare la “par condicio” dei concorrenti, risponde proprio ai canoni generali di “controllo diffuso sul perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013 (cfr. Cons. Stato 3780/2019).

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PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Art. 5-bis, c. 3, del d.lgs. n. 33/2013 – Rinvio alle condizioni, alle modalità e ai limiti fissati dalla normativa in materia di accesso documentale – Puntuali limitazioni di cui all’art. 53 d.lgs. n. 50/2016 – Conclusione della gara – Offerta dell’aggiudicataria – Accesso civico.
Il rinvio operato dall’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33/2013 comporta l’applicabilità all’accesso civico delle, le puntuali limitazioni di cui all’art. 53 del codice degli appalti, poste a tutela della gara stessa e dei partecipanti (che rappresentano i limiti assoluti).
Una volta, però, che la gara si è conclusa, l’offerta dell’aggiudicataria potrà essere oggetto di accesso civico generalizzato perché essa rappresenta la “scelta” dell’amministrazione, diventando quell’offerta di interesse generale e appuntandosi su di essa la finalità della disciplina sulla trasparenza.

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PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – APPALTI – Limiti della conoscenza generalizzata – Test del “pregiudizio concreto”.
Il test del pregiudizio concreto, da applicare per delimitare la conoscenza generalizzata di cui all’art. 5-bis, co. 2, del decreto trasparenza, impone che il pregiudizio non deve essere solo affermato ma anche dimostrato.
Il test del pregiudizio concreto impone che il nesso di causalità che lega questo alla divulgazione deve superare la soglia del “meramente ipotetico” per emergere quale “probabile”, sebbene futuro; così l’Amministrazione, nel rigettare una richiesta di ostensione, deve dimostrare che la stessa pregiudicherebbe l’interesse da tutelare ovvero che ciò sarebbe “molto probabile”.
La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiarito sul punto che l’Amministrazione deve valutare che il pregiudizio conseguente alla disclosure sia un evento altamente probabile e non solo possibile
(cfr. Delibera Anac n. 1309/2016)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 10.12.2019 n. 5837 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIAccesso generalizzato all'offerta dell'aggiudicatario.
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Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta dell’aggiudicataria – E’ accessibile.
  
Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Contratti della Pubblica amministrazione – Limiti – Individuazione.
  
Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Limiti - Test del pregiudizio concreto – Operatività – Condizioni.
  
Non tutta la materia dei contratti pubblici può essere sottratta alla “conoscenza diffusa” di cui al d.lgs. n. 33 del 2013 in quanto materia nella quale è più elevato il rischio corruzione (ricompresa tra le aree più a rischio di cui all’art. 1, comma 16, l. n. 190 del 2012); pertanto, allorquando la gara si è conclusa (e non si ravvisino ragioni di riservatezza in ragione del tipo di appalto o con riguardo ad alcune parti dell’offerta tecnica), l’offerta dell’aggiudicataria, benché proveniente dal privato, rappresenta la “scelta” in concreto operata dall’amministrazione e l’accesso generalizzato costituisce lo strumento da assicurare in generale ai cittadini per conoscere e apprezzare appieno la “bontà” della scelta effettuata inclusi naturalmente e a fortiori i partecipanti alla gara (allorquando non possono più vantare un interesse “qualificato”) nonché i soggetti in senso lato interessati alla gara, che avranno le cognizioni e le competenze per effettuare un vero “controllo” esterno e generalizzato sulle scelte effettuate dall’amministrazione; l’offerta selezionata diventa, così, la “decisione amministrativa” controllabile da parte dei cittadini.
  
All’accesso civico generalizzato si applicano, in ragione del rinvio operato dall’art. 5–bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, solo le puntuali limitazioni di cui all’art. 53, d.lgs. n. 50 del 2016 poste a tutela della gara stessa e dei partecipanti (c.d. limiti assoluti) (1).
  
Il test del pregiudizio concreto, da applicare per delimitare la conoscenza generalizzata di cui all’art. 5-bis comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, impone che il pregiudizio non deve essere solo affermato, ma anche dimostrato; inoltre, il test del pregiudizio concreto impone che il nesso di causalità che lega questo alla divulgazione deve superare la soglia del “meramente ipotetico” per emergere quale “probabile”, sebbene futuro; pertanto, l’Amministrazione, nel rigettare una richiesta di ostensione, deve dimostrare che la stessa pregiudicherebbe l’interesse da tutelare ovvero che ciò sarebbe “molto probabile” (2).
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   (1) Con riguardo all’interpretazione dell’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, e cioè se attraverso questo richiamo il legislatore abbia voluto introdurre un limite assoluto a conoscere gli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, si sono registrati due diversi orientamenti culminati in due pronunce del Consiglio di Stato che si sono susseguite negli ultimi mesi.
Da una parte si registra un orientamento di maggiore “apertura” verso la conoscenza dei detti atti che si rinviene nella sentenza della III sez., n. 3780 del 05.06.2019, la quale, muovendo proprio dall’interpretazione dell’art. 5-bis, comma 3, chiarisce che ”tale ultima prescrizione fa riferimento, nel limitare tale diritto, a “specifiche condizioni, modalità e limiti” non ad intere “materie”. Diversamente interpretando, significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione.
Entrambe le discipline, contenute nel d.lgs. n. 50 del 2016 e nel d.lgs. n. 33 del 2013, mirano all’attuazione dello stesso, identico principio e non si vedrebbe per quale ragione, la disciplina dell’accesso civico dovrebbe essere esclusa dalla disciplina dei contratti pubblici.
D’altro canto, il richiamo contenuto nel primo comma, del citato art. 53 Codice dei contratti, alla disciplina del c.d. accesso “ordinario” di cui agli artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 è spiegabile alla luce del fatto che il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 è anteriore al d.lgs. 25.05.2016, n. 67 modificativo del d.lgs. n. 33 del 2013…… dal medesimo principio –ricavabile dalla testuale interpretazione dell’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013 come novellato– discende la regola, ben chiara ad avviso del Collegio, per cui, ove non si ricada in una “materia” esplicitamente sottratta, possono esservi solo “casi” in cui il legislatore pone specifiche limitazioni, modalità o limiti.
Non ritiene il Collegio che il richiamo, ritenuto decisivo dal primo giudice, all’art. 53 del “Codice dei contratti” nella parte in cui esso rinvia alla disciplina degli artt. 22 e seguenti della l. 241 del 1990, possa condurre alla generale esclusione dell’accesso civico della materia degli appalti pubblici….. Proprio con riferimento alle procedure di appalto, la possibilità di accesso civico, una volta che la gara sia conclusa e viene perciò meno la tutela della “par condicio” dei concorrenti, non risponde soltanto ai canoni generali di “controllo diffuso sul perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 5, comma 2, cit. d.lgs. n. 33).
"Vi è infatti, a rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico, una esigenza specifica e più volte riaffermata nell’ordinamento statale ed europeo, e cioè il perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione….”.
Un diverso orientamento si rinviene nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5503 del 02.08.2019, la quale -nel negare l’accesso generalizzato agli atti di gara- ha affermato che “La previsione dell’art. 5-bis, comma 3 si distingue da quella dei comma 1 e 2,….perché è disposizione volta a fissare, non i limiti relativi all’accesso generalizzato consentito a “chiunque”, bensì le eccezioni assolute, a fronte delle quali la trasparenza recede. Anche la tecnica redazionale del comma si distingue da quella dei comma precedenti, poiché se è vero che l’art. 5-bis, comma 3, non sottrae al bilanciamento materie direttamente individuate dalla norma medesima (a differenza degli interessi, pubblici e privati, che sono individuati dal primo e dal secondo comma), resta che utilizza l’espressione generica di casi, che fanno eccezione assoluta, in modo da rinviare, per la loro individuazione, ad altre disposizioni di legge, direttamente o indirettamente, richiamate dallo stesso comma 3 (sicché l’ampiezza dell’eccezione dipende dalla portata della normativa cui l’art. 5-bis, comma 3, rinvia).
In particolare, sono sottratti al bilanciamento ed esclusi senz’altro dall’accesso generalizzato: i casi di segreto di Stato ed i casi di divieti di accesso o di divulgazione previsti dalla legge, i casi elencati nell’art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990 (che, al suo interno, ricomprende intere materie), i casi in cui “l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”…. la previsione in questione assume significato autonomo e decisivo se riferita alle discipline speciali vigenti in tema di accesso e, per quanto qui rileva, al primo inciso del primo comma dell’art. 53. Ne consegue che il richiamo testuale alla disciplina degli artt. 22 e ss., l. 07.08.1990 n. 241 va inteso come rinvio alle condizioni, modalità e limiti fissati dalla normativa in tema di accesso documentale, che devono sussistere ed operare perché possa essere esercitato il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici
”.
Nella pronuncia da ultimo richiamata si fa poi riferimento alla circostanza che l’accesso generalizzato non sarebbe stato introdotto, nell’ambito del codice dei contratti pubblici, nemmeno in sede di correttivo di cui al d.lgs. n. 56 del 2017, come segno evidente della volontà del legislatore di non consentire l’accesso generalizzato in detta materia; inoltre, la sentenza considera che quelli della procedura di gara sono “atti formati e depositati nell’ambito di procedimenti assoggettati, per intero, ad una disciplina speciale ed a sé stante. Questa disciplina attua specifiche direttive europee di settore che, tra l’altro, si preoccupano già di assicurare la trasparenza e la pubblicità negli affidamenti pubblici, nel rispetto di altri principi di rilevanza euro unitaria, in primo luogo il principio di concorrenza, oltre che di economicità, efficacia ed imparzialità. …..”.
   (2) La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiarito sul punto che l’Amministrazione deve valutare che il pregiudizio conseguente alla disclosure sia un evento altamente probabile e non solo possibile (cfr. Delibera Anac n. 1309 del 2016) (
TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 10.12.2019 n. 5837 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIRilevanza del contenuto della procura speciale alle liti.
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Processo amministrativo – Procura alle liti - Mancanza dei requisiti di specialità – Presunzione di riferibilità – Presupposti – Individuazione.
Ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.P.C.M. 16.02.2016, la procura alle liti si considera apposta in calce, e perciò dotata dei requisiti della specialità, quando è depositata con modalità telematiche, unitamente all’atto cui si riferisce; tuttavia, se la procura è priva in concreto degli elementi di specialità di cui all’art. 40 c.p.a. che consentano l’immediata riconducibilità all’oggetto del ricorso, la presunzione di riferibilità viene meno nel caso in cui sussista nella procura un elemento incompatibile con il ricorso; tale ipotesi si verifica quando la data della procura sia antecedente a quella della sottoscrizione del ricorso (1).
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   (1) Quanto al contenuto della procura speciale la giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 05.10.2018, n. 5723) ha precisato che deve indicare l'oggetto del ricorso, delle parti contendenti, dell'autorità davanti alla quale il ricorso deve essere proposto ed ogni altro elemento utile alla individuazione della controversia.
Le modalità di conferimento della procura sono disciplinate dall’art. 83 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39 c.p.a., che prevede che la procura speciale possa essere apposta a margine o in calce al ricorso, con certificazione dell’autografia della sottoscrizione da parte del difensore, e che la procura “si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all'atto cui si riferisce o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia”; fermo restando che se “la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica”.
A sua volta l’art. 8, d.P.C.M. 16.02.2016, recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, stabilisce che “1. La procura alle liti è autenticata dal difensore, nei casi in cui è il medesimo a provvedervi, mediante apposizione della firma digitale.
2. Nei casi in cui la procura è conferita su supporto cartaceo, il difensore procede al deposito telematico della copia per immagine su supporto informatico, compiendo l'asseverazione prevista dall'art. 22, comma 2, del CAD con l'inserimento della relativa dichiarazione nel medesimo o in un distinto documento sottoscritto con firma digitale.
3. La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce; b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce.
4. In caso di ricorso collettivo, ove le procure siano conferite su supporti cartacei, il difensore inserisce in un unico file copia per immagine di tutte le procure
” (TAR Molise, sentenza 10.12.2019 n. 437 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Variante al PGT confermativa.
Si è al cospetto di un atto meramente confermativo, che non risulta idoneo a riaprire i termini di impugnazione, in presenza di una controdeduzione alle osservazioni ad una variante parziale del PGT con la quale l’Amministrazione non provvede a riesaminare la disciplina urbanistica riservata alle aree di proprietà degli istanti o ad effettuare una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico inerente alle stesse, ma si limita semplicemente a confermare la pregressa destinazione impressa e a ribadirne la coerenza con gli orientamenti espressi nella precedente variante generale di riferimento, senza procedere ad alcuna ulteriore comparazione con le risultanze del procedimento di variante parziale, oggetto di esame in quel frangente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.12.2019 n. 2628 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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4. La parte del gravame con cui si contestano le deliberazioni consiliari 14.12.2017, n. 91, e 28.05.2018, n. 40, recanti, rispettivamente, l’adozione e l’approvazione della Variante di adeguamento al Documento di piano è inammissibile per assenza di concreta lesività.
5. Va premesso che la predetta Variante ha avuto ad oggetto la disciplina di Ambiti di trasformazione diversi da quelli di interesse per le parti ricorrenti, visto che ha riguardato soltanto gli Ambiti AT-02A, AT-02B e ATS-02 (cfr. all. 4 al ricorso).
Tuttavia, le parti ricorrenti hanno presentato, nel corso del procedimento di approvazione della Variante, una osservazione con cui hanno chiesto il riconoscimento, ai sensi dell’art. 11, comma 2, delle N.T.A. del P.d.S., di una capacità volumetrica per l’area di proprietà sita in Viale Lombardia/Via Offelera, da realizzare in altra sede oppure costituendo un nuovo Ambito di trasformazione con relativa scheda urbanistica, denominato AT-08 (all. 17 al ricorso).
In sede di controdeduzione, è stato dato esito negativo alla richiamata istanza, sottolineando che «verificata la richiesta, già oggetto di non accoglimento in sede di osservazione alla variante generale al PGT, si ritiene di confermare la determinazione approvata con delibera di Consiglio Comunale n. 52 del 09/06/2016 relativa alla variante generale al PGT che risulta orientata alla diminuzione del consumo di suolo e coerente con le indicazioni delle Linee di indirizzo per la stesura della Variante Generale al Piano di Governo del Territorio “Progettare nella Città, progettare per la Città” e con lo scenario strategico di riferimento adottato» (all. 18 al ricorso).
Come emerge in maniera chiara dal tenore della controdeduzione, l’Amministrazione non ha provveduto a riesaminare la disciplina urbanistica riservata alle aree di proprietà delle ricorrenti o ad effettuare una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico inerente alle stesse, ma si è limitata semplicemente a confermare la pregressa destinazione impressa e a ribadirne la coerenza con gli orientamenti espressi nella Variante generale di riferimento, approvata nel 2016, senza procedere ad alcuna ulteriore comparazione con le risultanze del procedimento di Variante parziale, oggetto di esame in quel frangente.
Quindi, si è al cospetto di un atto meramente confermativo, che non risulta idoneo a riaprire i termini di impugnazione; del resto, secondo la consolidata giurisprudenza, “allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi. In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l’Amministrazione si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione” (Consiglio di Stato, IV, 27.01.2017, n. 357; altresì, 12.10.2016, n. 4214; 12.02.2015, n. 758; TAR Lombardia, Milano, II, 10.05.2018, n. 1242; 10.02.2017, n. 339).
6. A ciò consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso nella parte in cui si censura, tra l’altro, l’approvazione della Variante di adeguamento al Documento di piano avvenuta nel mese di maggio 2018.
7. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato in parte irricevibile e in parte inammissibile.

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi – Costruzione, in zona sismica ed in assenza dei necessari titoli abilitativi – Responsabilità del coniuge per il fatto materialmente commesso dall’altro – Elementi oggettivi di valutazione – Applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen..
In tema di reati edilizi la responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente commesso dall’altro può essere rilevata sulla base di oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse all’edificazione, il regime di comunione dei beni, l’acquiescenza all’esecuzione dell’intervento, la presenza sul luogo di esecuzione dei lavori, l’espletamento di attività di controllo sull’esecuzione dei lavori, la presentazione di istanze o richieste concernenti l’immobile o l’esecuzione di attività indicative di una partecipazione all’attività illecita.
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Reati urbanistici – Responsabilità per abuso edilizio e rapporto di coniugio – Elementi indizianti – Mera qualità di comproprietario – Insufficiente – Giurisprudenza.
In tema di responsabilità per abuso edilizio con specifico riferimento al rapporto di coniugio, si è osservato che la compartecipazione di un coniuge nel reato materialmente commesso dall’altro non può essere desunta dalla mera qualità di comproprietario. Ma devono essere individuati, uno o più elementi indizianti, quali ad esempio:
   - il fatto che entrambi i coniugi siano proprietari del suolo su cui è stato realizzato l’edificio abusivo e che entrambi abbiano interesse alla violazione dei sigilli per completare l’opera al fine di trasferire la loro residenza
(Sez. 3 n. 28526 del 30/05/2007, Mele);
   - l’abitare nel luogo ove si è svolta l’attività illecita di costruzione; l’assenza di manifestazioni di dissenso; il comune interesse alla realizzazione dell’opera (fattispecie relativa ad imputata la quale, benché formalmente residente in altro comune, conviveva con il marito, era con il predetto in regime di comunione di beni e ne condivideva anche le iniziative patrimoniali, tanto da rimanere coinvolta, in un precedente giudizio, unitamente al coniuge, in altri illeciti edilizi: Sez. 3 n. 23074 del 16/04/2008, Di Meglio);
   - il regime patrimoniale dei coniugi (comunione dei beni); lo svolgimento di attività di vigilanza dell’esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria e la presenza in loco all’atto dell’accertamento (Sez. 3 n. 40014 del 18/09/2008, Mangione).

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Responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o comproprietario) dell’area, non formalmente committente – Opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà – Presenza di indizi e presunzioni gravi, precisi e concordanti – Onere della prova – Testo Unico Edilizia – Artt. 44, 93, 94, 95 D.P.R. n. 380/2001.
In tema di responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o comproprietario) dell’area, non formalmente committente, si richiedono la presenza di indizi e presunzioni gravi, precisi e concordanti che sono stati individuati, ad esempio,
   - nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e dell’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del “cui prodest“);
   - nei rapporti di parentela o di affinità tra l’esecutore dell’opera abusiva ed il proprietario; nell’eventuale presenza “in loco” del proprietario dell’area durante l’effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull’esecuzione dei lavori; nella richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria;
   - nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari;
   - nella fruizione dell’opera secondo le norme civilistiche dell’accessione ed in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all’esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull’interessato l’onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.12.2019 n. 49719 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Responsabilità – Responsabilità della p.A. – violazione del termine finale del procedimento - concessione del contributo del Fondo di Solidarietà Nazionale della Pesca e dell’Acquacoltura - art. 14 del d.lgs. n. 154 del 2004 – danno da ritardo ex se – configurabilità – non sussiste.
Dalla semplice violazione del termine per la conclusione di un procedimento amministrativo, che non abbia natura perentoria, non discende ex se la responsabilità della pubblica Amministrazione per danno da ritardo, secondo una nozione meramente calendaristica e formale dei tempi procedimentali, perché occorre che tale danno sia imputabile alla pubblica Amministrazione in forma di inerzia immotivata e/o di inescusabile negligenza.
In particolare (come nel caso di specie) ove i tempi procedimentali abbiano subito un sensibile allungamento per la complessità procedurale dell’iter accertativo relativamente all’evento rilevante, considerando l’elevato numero di passaggi amministrativi cadenzati dalla normativa primaria e secondaria (la quale prevede una fase di verifica delle precondizioni per gli interventi, di cui all’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 154 del 2004, e in particolare per l’attivazione del procedimento, di cui ora all’art. 4 del D.M. 08.01.2008) la successiva fase istruttoria, con l’acquisizione e la verifica di copiosa documentazione, con il parere obbligatorio di organi consultivi (che si sono dovuti pronunciare sul riconoscimento dell’evento eccezionale) i supplementi istruttori resi necessari dagli approfondimenti e dalle verifiche opportune, le richieste di integrazioni documentali motivate da carenza imputabili anche alla domanda che ha dato impulso alla procedura nonché i tempi dei controlli contabili
(massima free tratta da www.giustamm.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.12.2019 n. 8337 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICAConvenzione urbanistica per l’edificazione di un edificio da adibire a Centro di cultura islamico.
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Urbanistica – Convenzione urbanistica – Per edificazione centro cultura islamico - Risoluzione - Per inadempimento all'obbligo di pagare opere di urbanizzazione – Omesso bilanciamento contrapposti interessi - Illegittimità.
E’ illegittima la risoluzione di una convenzione urbanistica per l’edificazione di un edificio da adibire a Centro di cultura islamico che sia stata disposta per mancanza di bilanciamento tra la gravità dell'inadempimento all'obbligo di pagare una certa somma per opere di urbanizzazione e la finalità della convenzione di garantire il libero esercizio del culto (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il Comune, sito nella regione Lombardia, ha dichiarato risolta (o decaduta) la convenzione a causa di un oggettivo inadempimento del Centro all'obbligo di pagare una certa somma per opere di urbanizzazione.
La Sezione ha annullato il provvedimento comunale in quanto non preceduto da un attento bilanciamento tra la gravità dell'inadempimento e la finalità della convenzione di garantire il libero esercizio del culto. Ha richiamato la sentenza della Corte costituzionale n 63 del 2016 relativa alla legge regionale lombarda n. 2 del 2015 sulle attrezzature religiose.
Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, la Corte ha precisato che «La convenzione prevista dalla disposizione in esame, necessaria nella fase di applicazione della normativa in questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le conseguenze che potranno determinarsi nel caso in cui l'ente che l'ha sottoscritta non ne rispetti le stipulazioni, graduando l'effetto delle violazioni in base alla loro entità. La disposizione impugnata consente di annoverare tra queste conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la possibilità di risoluzione o di revoca della convenzione.
Si tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi, da attivarsi in assenza di alternative meno severe. Nell'applicare in concreto le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in ogni caso specificamente considerare se, tra gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a disposizione per simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la libertà di culto, il cui esercizio, come si è detto, trova nella disponibilità di luoghi dedicati una condizione essenziale. Il difetto della ponderazione di tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti, con lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli interessi attinenti alla libertà religiosa.
La disposizione in questione, così interpretata, si presta a soddisfare il principio e il test di proporzionalità, che impongono di valutare se la norma oggetto di scrutinio, potenzialmente limitativa di un diritto fondamentale, qual è la libertà di culto, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva di applicare sempre quella meno restrittiva dei diritti individuali e imponga sacrifici non eccedenti quanto necessario per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi contrapposti
».
In altri termini, l’Ente locale non può interpretare le convenzioni ex art. 70, comma 2-ter, come se si trattasse di una qualunque convenzione urbanistica, ma -come detto- deve valutare, e di conseguenza motivare, se gli inadempimenti addotti debbano necessariamente comportare la risoluzione, la revoca o la decadenza o se non siano utilizzabili diversi strumenti, meno lesivi per la libertà di culto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.12.2019 n. 8328 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
12. Con il primo motivo dell’appello, il Comune contesta il ruolo determinante che, nell’economia della decisione, il TAR avrebbe assegnato all’interesse, di rilievo costituzionale, a poter realizzare le strutture necessarie per poter praticare il culto religioso di appartenenza.
La censura non tiene conto della ricostruzione del sistema in termini conformi a Costituzione che la Corte costituzionale ha fornito con la richiamata sentenza n. 16/1963.
In quella sede veniva in questione, tra l’altro, la legittimità costituzionale del comma 2-ter dell'art. 70 della legge regionale lombarda n. 12/2005 [introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2/2015], il quale prevede che gli enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica, di cui ai commi 2 e 2-bis, «devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato» e che tali convenzioni devono prevedere espressamente «la possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione».
Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, la Corte ha precisato che: «La convenzione prevista dalla disposizione in esame, necessaria nella fase di applicazione della normativa in questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le conseguenze che potranno determinarsi nel caso in cui l'ente che l'ha sottoscritta non ne rispetti le stipulazioni, graduando l'effetto delle violazioni in base alla loro entità.
La disposizione impugnata consente di annoverare tra queste conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la possibilità di risoluzione o di revoca della convenzione. Si tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi, da attivarsi in assenza di alternative meno severe. Nell'applicare in concreto le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in ogni caso specificamente considerare se, tra gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a disposizione per simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la libertà di culto, il cui esercizio, come si è detto, trova nella disponibilità di luoghi dedicati una condizione essenziale. Il difetto della ponderazione di tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti, con lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli interessi attinenti alla libertà religiosa.
La disposizione in questione, così interpretata, si presta a soddisfare il principio e il test di proporzionalità, che impongono di valutare se la norma oggetto di scrutinio, potenzialmente limitativa di un diritto fondamentale, qual è la libertà di culto, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva di applicare sempre quella meno restrittiva dei diritti individuali e imponga sacrifici non eccedenti quanto necessario per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi contrapposti
».
In altri termini, l’Ente locale non può interpretare le convenzioni ex art. 70, comma 2-ter, come se si trattasse di una qualunque convenzione urbanistica, ma -come detto- deve valutare, e di conseguenza motivare, se gli inadempimenti addotti debbano necessariamente comportare la risoluzione, la revoca o la decadenza o se non siano utilizzabili diversi strumenti, meno lesivi per la libertà di culto.
A questo proposito, l’Ente sostiene [diffusamente sub A e specificamente sub A4)] che gli atti impugnati varrebbero come implicita rimeditazione dell’interesse pubblico originariamente individuato, cioè quello a praticare il culto religioso. Tuttavia, in disparte ogni altra considerazione, il rilievo non è risolutivo, perché ciò che è mancato nella vicenda è appunto una valutazione complessiva -necessariamente espressa e motivata- degli interessi coinvolti secondo la direttrice tracciata dalla ricordata decisione.
La sentenza impugnata si muove esattamente nel solco tracciato dalla Corte costituzionale e il motivo sub A è perciò da respingere globalmente, con conferma della declaratoria di illegittimità degli atti oggetto del ricorso.

APPALTI: Avvalimento infragruppo.
In tema di avvalimento, la mera appartenenza al medesimo gruppo imprenditoriale non può certo esonerare l’ausiliaria dall’obbligo di porre a disposizione dell’ausiliata le specifiche risorse necessarie per l’esecuzione dell’appalto.
Ricorda il TAR che nel caso di avvalimento “infragruppo” la giurisprudenza amministrativa afferma che l’onere di prova documentale del rapporto tra concorrente e ausiliaria é semplificato, nel senso che per esso non è richiesta la stipula di un contratto, essendo sufficiente una dichiarazione unilaterale attestante tale l’avvalimento.
Per contro, questa modalità semplificata di prova del fatto costitutivo su cui si fonda il rapporto tra concorrente e ausiliario non si riverbera sul piano sostanziale dei contenuti dell’avvalimento; essa in particolare non semplifica gli obblighi di indicare in modo quanto meno determinabile gli obblighi assunti dall’ausiliario
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.12.2019 n. 2598 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Sul punto giova premettere che, per pacifica giurisprudenza, l’avvalimento si distingue in avvalimento di garanzia, concernente i requisiti di capacità economica e finanziaria ed avvalimento operativo, che concerne invece i requisiti di capacità tecnica.
Se nel primo caso l’impresa ausiliaria svolge un ruolo di garante dell’impresa ausiliata partecipante alla gara, nel secondo caso devono essere messe a disposizione di quest’ultima le effettive risorse umane e materiali necessarie per lo svolgimento del singolo appalto (sulla distinzione fra le due forme di avvalimento, si veda, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. VI, 03.08.2018, n. 4798).
Nel caso di specie nessun dubbio sussiste che si tratti di avvalimento operativo, data la chiara dizione del contratto di avvalimento (cfr. il doc. 77 della ricorrente), nel quale la società esponente dichiara espressamente di essere priva dei requisiti di capacità tecnica richiesti dal bando (cfr. pag. II del contratto di avvalimento, lettera “j”).
Trattandosi di avvalimento operativo, appare necessario che il contratto ed in ogni caso i documenti probatori dell’avvalimento indichino in maniera specifica le risorse umane e materiali messe a disposizione, necessarie per l’esecuzione della prestazione oggetto dell’appalto o della concessione.
In mancanza di tale specifica indicazione il rapporto negoziale di avvalimento deve reputarsi nullo e l’impresa ausiliata non può partecipare alla gara, non essendovi prova della sua idoneità all’adempimento delle prestazioni oggetto dell’appalto (cfr. da ultimo, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 05.04.2019, n. 2243, che ha ribadito «l'esigenza, riconosciuta dalla consolidata giurisprudenza al fine di evitare che il rapporto di avvalimento si trasformi in una sorta di "scatola vuota", che l'ausilio contrattualmente programmato e prefigurato sia effettivo e concreto, essendo inidonei impegni del tutto generici, che svuoterebbero di significato l'essenza dell'istituto», oltre ad affermare che: «L'indicazione puntuale dei mezzi, del personale, del know-how, della prassi e di tutti gli altri elementi aziendali qualificanti in relazione all'oggetto dell'appalto e ai requisiti per esso richiesti dalla stazione appaltante sono indispensabili per rendere determinato l'impegno dell'ausiliario tanto nei confronti di quest'ultima che del concorrente aggiudicatario»).
Le conclusioni sopra riportate debbono valere anche nel caso di avvalimento c.d. infragruppo, vale a dire l’avvalimento nei confronti di una impresa che appartiene al medesimo gruppo, come nel caso di specie, nel quale l’ausiliaria controlla interamente la società partecipante alla procedura.
Per tale ipotesi, infatti, l’art. 49, comma 2, lettera “g” del D.Lgs. 163/2006 consente di non presentare alla stazione appaltante il vero e proprio contratto di avvalimento di cui alla pregressa lettera “f”, ma solo una dichiarazione sostitutiva attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo.
Restano però salve le previsioni ulteriori del comma 2 dell’art. 49, che impongono la puntuale indicazione dei requisiti (si vedano lettere “a”, “c” e “d” del comma citato).
D’altronde la mera appartenenza al medesimo gruppo imprenditoriale non può certo esonerare l’ausiliaria dall’obbligo di porre a disposizione dell’ausiliata le specifiche risorse necessarie per l’esecuzione dell’appalto; si veda sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 30.10.2017, n. 4973, per cui: «Tuttavia, nel caso di avvalimento “infragruppo” la giurisprudenza amministrativa afferma che l’onere di prova documentale del rapporto tra concorrente ed ausiliaria é semplificato, nel senso che per esso non è richiesta la stipula di un contratto, essendo sufficiente una dichiarazione unilaterale attestante tale l’avvalimento (cfr. da ultimo: Cons. Stato, III, 13.09.2017, n. 4336).
Per contro, questa modalità semplificata di prova del fatto costitutivo su cui si fonda il rapporto tra concorrente ed ausiliario non si riverbera sul piano sostanziale dei contenuti dell’avvalimento. Essa in particolare non semplifica gli obblighi di indicare in modo quanto meno determinabile gli obblighi assunti dall’ausiliario
».

EDILIZIA PRIVATA: Sanzione pecuniaria per mancata ottemperanza ad ordine di demolizione.
Ciò che viene sanzionato in via pecuniaria dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato, bensì la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate: il disvalore (ex se rilevante) colpito è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che l’abuso fosse stato realizzato prima dell’entrata in vigore della norma, giacché la mancata esecuzione dell’ordinanza di demolizione, proseguita dopo l’entrata in vigore della menzionato comma 4-bis, impone l’applicazione della sanzione da quest’ultimo prevista, senza che ciò implichi violazione del principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.12.2019 n. 2588 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
In merito la giurisprudenza di questa Sezione (da ultimo TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.08.2019 n. 1909; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088) ha chiarito che ciò che viene sanzionato -nella misura massima di € 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato, bensì la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che l’abuso fosse stato realizzato prima dell’entrata in vigore della norma, giacché la mancata esecuzione dell’ordinanza di demolizione, proseguita dopo l’entrata in vigore della menzionato comma 4-bis, “imponeva l’applicazione della sanzione da quest’ultimo prevista, senza che ciò implicasse violazione dell’invocato principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie” (Consiglio di Stato, VI, 16.04.2019, n. 2484; altresì 24.07.2019, n. 5242).
Il carattere permanente dell’illecito giustifica inoltre l’applicazione della disciplina esistente al momento dell’ultimo accertamento di inottemperanza, con la conseguenza che risulta applicabile, ai fini della quantificazione della sanzione, la Determinazione dirigenziale n. 212/2017. L’abuso contestato non rientra però tra quelli soggetti alla sanzione minima di € 2000,00 prevista per le contestazioni di mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione accertate tra l’entrata in vigore della L. 11.11.2014 n. 164 e l’esecutività della determinazione stessa, in quanto il sopralluogo avvenuto in data 13/03/2018, all’esito del quale è stata definitivamente appurata l’omessa rimozione delle opere abusive e irrogata la sanzione pecuniaria, si colloca in un periodo successivo.

EDILIZIA PRIVATALa mancata indicazione nell’ordine di demolizione della sanzione prevista dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 non ne preclude l’applicazione in quanto si tratta di sanzione introdotta da una legge successiva e comunque la norma non prevede che la sua applicabilità sia condizionata al preventivo ammonimento contenuto nella diffida a demolire.
Infatti il comma 4-bis stabilisce che “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, escludendo quindi che la consapevolezza ab initio delle conseguenze giuridiche dell’inottemperanza sia elemento costitutivo dell’elemento soggettivo della colpa necessario per l’applicazione della sanzione, purché l’inottemperanza sia proseguita sotto il nuovo regime normativo e sia quindi la stessa interessata dalle misure sanzionatorie proprie di tale fase temporale.
A ciò si aggiunge che la norma fa salva l’applicazione “di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, con la conseguenza che l’ammonimento circa l’applicabilità di altre sanzioni non costituisce un autovincolo idoneo ad escludere l’applicazione della sanzione in parola.
In merito è stato chiarito che “la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso reale) a tutte le altre sanzioni e misure eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come sopra definito, con la sola eccezione delle eventuali previsioni che dovessero comminare una sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è giustificata dal termine “altre” contenuto nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il principio di specialità, qualora ne ricorressero in concreto i presupposti di operatività”.
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2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
La mancata indicazione nell’ordine di demolizione della sanzione prevista dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 non ne preclude l’applicazione in quanto si tratta di sanzione introdotta da una legge successiva e comunque la norma non prevede che la sua applicabilità sia condizionata al preventivo ammonimento contenuto nella diffida a demolire.
Infatti il comma 4-bis stabilisce che “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, escludendo quindi che la consapevolezza ab initio delle conseguenze giuridiche dell’inottemperanza sia elemento costitutivo dell’elemento soggettivo della colpa necessario per l’applicazione della sanzione, purché l’inottemperanza sia proseguita sotto il nuovo regime normativo e sia quindi la stessa interessata dalle misure sanzionatorie proprie di tale fase temporale.
A ciò si aggiunge che la norma fa salva l’applicazione “di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, con la conseguenza che l’ammonimento circa l’applicabilità di altre sanzioni non costituisce un autovincolo idoneo ad escludere l’applicazione della sanzione in parola.
In merito è stato chiarito (C.G.A.R.S., parere 15.04.2015 n. 322) che “la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso reale) a tutte le altre sanzioni e misure eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come sopra definito, con la sola eccezione delle eventuali previsioni che dovessero comminare una sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è giustificata dal termine “altre” contenuto nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il principio di specialità, qualora ne ricorressero in concreto i presupposti di operatività” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.12.2019 n. 2588 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIFallimento della società che ha affittato il ramo di azienda.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Clausole a pena di esclusione – Applicabilità.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Fallimento società affittante ramo di azienda – Conseguenza.
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Fallimento società affittante ramo di azienda – Recesso condizionato – Conseguenza.
  
La previsione del bando di gara che sanzioni un obbligo dichiarativo con l’esclusione, non può valere a escludere la disciplina del soccorso istruttorio che, sancito dall’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, costituisce attuazione dei principi di concorrenza, del favor partecipationis e di proporzionalità (1).
  
Qualora l’impresa partecipante a una gara d’appalto affitti un ramo di un’altra azienda onde raggiungere il requisito del fatturato minimo, il fallimento della società affittante non rileva quale causa di esclusione dell’affittuaria; l’art. 105, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, prevede che tale conseguenza operi solo nei rapporti tra subappaltatore e appaltatore e non è possibile adottare un’interpretazione che estenda l’operatività dell’esclusione a ipotesi non espressamente previste in quanto la cause di esclusione sono soggette al principio di tassatività (art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016,) e di stretta interpretazione (2).
  
Il negozio unilaterale di recesso dal contratto di affitto di azienda effettuato dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 79, r.d. n. 16.03.1942, n. 267 (l. fall.), qualora operato in modo tale da garantire all’affittuaria che stia partecipando a una gara d’appalto tanto la costante disponibilità del compendio aziendale quanto la possibilità di presentare un’offerta di acquisto del ramo di azienda nell’ambito della procedura fallimentare, deve ritenersi condizionato sospensivamente alla mancata formulazione dell’offerta di acquisto da parte dell’affittuaria e, poi, al mancato perfezionamento dell’acquisto medesimo; conseguentemente, l’esercizio del diritto di recesso, in tal modo condizionato, non determina il venir meno del requisito di partecipazione in capo all’impresa che, al fine di ottenere il requisito medesimo, si sia giovata dell’affitto del ramo di un’azienda poi fallita, che abbia conservato la piena disponibilità del ramo di azienda senza soluzione di continuità e che sia in procinto di acquistarlo nell’ambito della procedura fallimentare (3).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che ragionare diversamente equivale a rendere facoltativa, per le stazioni appaltanti, l’applicazione del soccorso istruttorio che potrebbe essere evitata semplicemente munendo gli obblighi dichiarativi della sanzione dell’esclusione nell’ambito della documentazione di gara, il che costituisce un esito non accettabile sul piano interpretativo; l’obbligo del soccorso istruttorio, infatti, deriva direttamente dalla legge e costituisce attuazione dei principi di concorrenza, del favor partecipationis e di proporzionalità.
La disciplina è, ormai, orientata nel senso che, qualora siano posseduti i requisiti sostanziali per partecipare alla gara e sempre che le mancanze non riguardino l’offerta, le omissioni dichiarative, anche essenziali, possano essere sanate.
   (2) Ad avviso del Tar la disciplina è, anzi, orientata nel senso di salvaguardare la possibilità di impiego del compendio aziendale anche nel settore delle gare pubbliche mediante istituti quali l’autorizzazione al curatore per l’esercizio dell’impresa (onde proseguire l’esecuzione della prestazione, art. 110, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016) e la possibilità di partecipazione dell’impresa che sia ammessa al concordato preventivo (artt. 110, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016; 161 e 186 bis, r.d. n. 16.03.1942, n. 267, l. fall.).
   (3) Giova rammentare che il recesso è un atto negoziale unilaterale che non sfugge alle regole di interpretazione del contratto, pur nei limiti della compatibilità (artt. 1324 e 1362 e ss. c.c.); ebbene, l’indagine sulla effettiva volontà del recedente (art. 1362 c.c.), l’interpretazione complessiva delle espressioni utilizzate nella nota con cui si è esercitato il recesso (art. 1363 c.c.) nonché lo stesso principio di interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.) inducono, appunto, a concludere che il recesso non fosse immediatamente operativo, ma, piuttosto, condizionato all’eventuale formulazione e, poi, al perfezionamento dell’acquisto dell’azienda.
Nello stesso senso, è l’indagine della causa del negozio (unilaterale) di recesso; essa va intesa quale “causa concreta” e, quindi, non tipica e immutabile, ma da collegarsi alla concreta finalità posta in essere dal recedente che, nel caso di specie, è senz’altro quella di consentire e, anzi, di favorire il consolidamento della detenzione del compendio aziendale e la sua trasformazione in possesso (cd. traditio brevi manu). Anche da questo punto di vista, quindi, il recesso è da intendersi condizionato sospensivamente al perfezionamento della vendita del compendio aziendale all’affittuaria (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.12.2019 n. 5684 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ambito di operatività articolo 21-octies, comma 2, l. 241/1990.
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L’istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis l. 241/1990 si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza presentata dall’interessato che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo.
Altresì, “l'istituto del preavviso di rigetto, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda”.
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Le due previsioni racchiuse all’interno dell’articolo 21-octies, comma 2, della l. 241/1990 presentano elementi strutturali distinti che ne consentano la contestuale operatività ove si consideri che:
   a) la disposizione del secondo periodo contiene un elemento aggiuntivo rispetto a quella del primo periodo (consistente nella ricomprensione nella propria area operativa dei provvedimenti a natura non vincolata) e un elemento specializzante (consistente nel riferimento alla sola violazione delle regola sulla comunicazione di avvio del procedimento);
   b) sussiste, pertanto, una specialità unilaterale per aggiunta e per specificazione della disposizione del secondo periodo rispetto a quella contenuta nel primo periodo;
   c) le due fattispecie affidano, però, la declaratoria di non annullabilità a meccanismi distinti che le connotano in termini di specialità reciproca per aggiunta consistenti, nel primo caso, nell’evidenza della inidoneità dell'intervento dei soggetti ai quali è riconosciuto un interesse ad interferire sul contenuto del provvedimento e, nel secondo caso, alla prova da parte dell'Amministrazione che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso anche in caso di intervento di detti interessati;
   d) la reciproca eterogeneità del meccanismo di non invalidazione del provvedimento comporta l’interferenza delle due previsioni rispetto ad un’unica fattispecie potendosi, quindi, non invalidare un provvedimento di natura discrezionale nel caso in cui l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato anche in caso di violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.12.2019 n. 2566 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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9.1. I ricorrenti deducono la violazione della previsione di cui all’articolo 10-bis della L. 241 del 1990 in ragione dell’omesso invio di una comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
9.2. Osserva il Collegio come, secondo la recente giurisprudenza, “l’istituto del preavviso di rigetto di cui al succitato art. 10-bis si appli[chi] anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza presentata dall’interessato che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2018, n. 2615; id., 01.03.2018, n. 1269; TAR Sardegna, sez. II, 20.09.2018, n. 797; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 08.09.2017, n. 2137)” (TAR per la Lombardia – sede di Brescia, sez. II, 04.05.2019, n. 434).
Dello stesso avviso si mostra il Giudice d’appello secondo cui “l'istituto del preavviso di rigetto, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda” (Consiglio di Stato, sez. VI, 18.01.2019, n. 484; cfr., inoltre, nella giurisprudenza della Sezione, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 22.01.2019, n. 123).
9.3. Nel caso di specie, non risulta neppure invocabile la previsione di cui all’articolo 21-octies della L. 241 del 1990, secondo la quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
9.4. Come spiegato da questa Sezione, le due previsioni racchiuse all’interno dell’articolo 21-octies, comma 2, della l. 241/1990 presentano elementi strutturali distinti che ne consentano la contestuale operatività ove si consideri che:
   a) la disposizione del secondo periodo contiene un elemento aggiuntivo rispetto a quella del primo periodo (consistente nella ricomprensione nella propria area operativa dei provvedimenti a natura non vincolata) e un elemento specializzante (consistente nel riferimento alla sola violazione delle regola sulla comunicazione di avvio del procedimento);
   b) sussiste, pertanto, una specialità unilaterale per aggiunta e per specificazione della disposizione del secondo periodo rispetto a quella contenuta nel primo periodo;
   c) le due fattispecie affidano, però, la declaratoria di non annullabilità a meccanismi distinti che le connotano in termini di specialità reciproca per aggiunta consistenti, nel primo caso, nell’evidenza della inidoneità dell'intervento dei soggetti ai quali è riconosciuto un interesse ad interferire sul contenuto del provvedimento, e, nel secondo caso, alla prova da parte dell'Amministrazione che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso anche in caso di intervento di detti interessati (cfr., Cassazione, sezioni unite, 05.04.2012, n. 5445);
   d) la reciproca eterogeneità del meccanismo di non invalidazione del provvedimento comporta l’interferenza delle due previsioni rispetto ad un’unica fattispecie potendosi, quindi, non invalidare un provvedimento di natura discrezionale nel caso in cui l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato anche in caso di violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento (TAR per la Lombardia – sezione II, 30.11.2018, n. 2706; Id., 26.03.2019, n. 660).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Edilizia ed Urbanistica - pertinenze - impianti tecnologici - immobili già esistenti- immobili sottoposti a vincoli paesaggistici e ambientali - permesso di costruire pertinenze - è necessario.
   2. Edilizia e Urbanistica - provvedimento di demolizione di un immobile abusivo - natura vincolata - ricorrenza dei presupposti in fatto e in diritto - motivazione delle ragioni di pubblico interesse - non sono necessarie.
  
1. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 7, comma 2, del decreto legge 23.01.1982, n. 9, convertito con modificazioni con legge 25.03.1982, n. 94, le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti sono anch’esse assoggettate a permesso di costruire nel caso in cui le opere stesse ricadano in zone soggette a vincoli paesaggistici e ambientali, atteso che la presenza di tali vincoli comporta, di per sé, uno specifico carico urbanistico determinato dall’alterazione, anche se non vulnerante, dello specifico contesto.
   2. Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
1. In primo luogo, la ricorrente sostiene che i lavori oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata consisterebbero in mere opere interne eseguite in un manufatto già esistente. E tuttavia tale assunto non trova riscontro nel Verbale n. 6243/2007 del 23.04.2007, redatto dalla Polizia Municipale del Comune di Frascati e dei relativi allegati, atto che fa piena prova di quanto ivi affermato fino a querela di falso e nel quale si parla di un volume realizzato ex novo in prossimità del muro di contenimento e di confine.
2. In secondo luogo, l’opera, in ragione delle sue dimensioni, non può essere considerata un volume tecnico: il manufatto risulta avere misure planimetriche di ml. 9,30 x 3,50 (esterne) con altezze al colmo di ml. 2,60 e all’imposta di ml. 2,10 (misure interne).
Come noto, infatti, la giurisprudenza, sul punto, è ferma nel ritenere che “Rientrano nella nozione di pertinenza, sotto il profilo urbanistico, solo quei manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto all'edificio a cui sono annessi, mentre non può essere permessa la costruzione di opere di rilevante importanza soltanto perchè destinate al servizio ed all'ornamento del bene principale; è perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione di opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico, sono da considerarsi come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano aree e volumi diversi” (si legga, tra le molte, Cons. Stato, Sez. V, 30.11.2000, n. 6358).
Inoltre, ai sensi di quanto previsto dall’art. 7, comma 2, del decreto legge 23.01.1982, n. 9, convertito con modificazioni con legge 25.03.1982, n. 94, le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti sono anch’esse assoggettate a permesso di costruire nel caso in cui le opere stesse ricadano in zone soggette a vincoli paesaggistici e ambientali, atteso che la presenza di tali vincoli comporta, di per sé, uno specifico carico urbanistico determinato dall’alterazione, anche se non vulnerante, dello specifico contesto (Consiglio di Stato, Sez. V – Sentenza 13.05.2002 n. 2575), per cui nel caso di specie, essendo l’area oggetto di due vincoli, sarebbe stato comunque necessario l’ottenimento del permesso del costruire.
3. La ricorrente solleva il vizio di difetto di motivazione del provvedimento impugnato.
Come è noto, in relazione alla motivazione dell’ordinanza di demolizione (sulla quale peraltro già esisteva una copiosa giurisprudenza nei termini della doverosità dell’ordinanza demolitoria) è intervenuta la sentenza n. 9/17 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha affermato il principio di diritto per cui: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”, per cui il vizio è destituito di fondamento (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 02.12.2019 n. 13763 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 4 della legge n. 13 del 1989, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previste dall’art. 2 della stessa legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate, dovendosi intendere come tali non solo quelle portatrici di disabilità, ma anche le persone che soffrono di disagi fisici e difficoltà motorie, possono essere effettuati anche su edifici sottoposti a vincolo come beni culturali, sicché l'autorizzazione può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza pregiudizio del bene tutelato.
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Considerato in diritto che:
   - l’appello è prima facie infondato, con conseguente applicabilità dell’art. 74 cod. proc. amm.;
   - sotto il primo profilo dedotto, il diniego opposto all’istanza dell’odierno appellante costituisce una adeguata esplicazione delle ragioni sottese all’insussistenza dei profili dedotti;
   - al riguardo l’amministrazione ha motivato il proprio diniego sulla base di un duplice richiamo, per un verso, alle consulenze tecniche di ufficio acquisite all’esito del giudizio civile pendente fra le parti private e, per un altro verso, alla relazione istruttoria prot. n. 106/UTC del 19.03.2007, resa da tecnici incaricati del procedimento amministrativo;
   - per ciò che concerne le consulenze tecniche, depositate la prima il 15.12.2005 e la seconda il 18.09.2006, esse risultano all’evidenza preminenti rispetto a quella invocata da parte appellante, risalente al 31.10.2001 e quindi anteriore;
   - orbene, dinanzi a tali elementi, il vizio dedotto in appello risulta destituito di fondamento, in quanto, limitandosi a contestare la sufficienza di tali elementi, nulla deduce di specifico in senso contrario, al fine di evidenziare le solo genericamente lamentate difformità;
   - sotto il secondo profilo, valgono considerazioni analoghe a quelle sopra svolte in merito alle risultanze degli approfondimenti tecnici svolti in sede giurisdizionale, nonché alla genericità delle deduzioni di parte appellante, prive di concreti elementi in base ai quali anche solo ipotizzare le misure invocate e quelle contestate;
   - al riguardo, assume rilievo dirimente l’esito del giudizio civile conclusosi con la sentenza n. 9101 del 2018 della Cassazione, depositata nel giudizio ed al cui contenuto si rinvia;
   - invero, relativamente alla natura delle opere in contestazione, la rilevanza del tema è nota anche alla giurisprudenza di questo Consiglio, come emerge, a titolo esemplificativo, dall’orientamento secondo il quale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 18.10.2017, n. 4824), ai sensi dell’art. 4 della legge n. 13 del 1989, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previste dall’art. 2 della stessa legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate, dovendosi intendere come tali non solo quelle portatrici di disabilità, ma anche le persone che soffrono di disagi fisici e difficoltà motorie, possono essere effettuati anche su edifici sottoposti a vincolo come beni culturali, sicché l'autorizzazione può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza pregiudizio del bene tutelato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.12.2019 n. 8225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 523/1904, ha carattere assoluto ed inderogabile.
Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto non sono suscettibili di sanatoria.
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6. L’appello è infondato.
6.1 Quanto al supposto condono tacito, va ribadito che, ai sensi degli artt. 31 e 33 l. 47/1985, non sono suscettibili di sanatoria le opere edilizie realizzate in contrasto con i vincoli imposti da leggi statali.
I manufatti realizzati sul terreno di proprietà del ricorrente ricadono nella fascia di rispetto lungo l’argine di un corso d’acqua (Torrente Baganza), area soggetta al vincolo di inedificabilità assoluta ex art. 96, lett. f), regio decreto 523/1904.
Testualmente l’art. 96 r.d. 523/1904, a prescindere dalla disciplina vigente nelle diverse località, include (sotto la dizione onnicomprensiva “fabbriche”) gli interventi edilizi che comportino alterazioni o modificazioni dello stato dei luoghi della fascia di rispetto.
Il divieto obbedisce ad interessi pubblici di rango primario quali la tutela delle acque e la sicurezza dei luoghi sì da non consentire di dare rilievo alla conformazione del corpo superficiario, e cioè al fatto che esso si presenti con argini o sponde.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già da tempo affermato, del tutto condivisibilmente, che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 523/1904, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 26.03.2009 n. 1814).
Come è chiarito costantemente dalla giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., sez. un., 30.07.2009 n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 l. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2011 n. 3781 e 12.02.2010 n. 772, Id. sez. V, 26.03.2009 n. 1814).
6.2 Quanto al rilievo della disciplina urbanistica dell’area e al dato testuale contenuto nella lettera f) dell'art. 96 r.d. cit. –laddove commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi"– va qui riaffermato il carattere eccezionale di detta normativa.
Per prevalere sulla norma generale, la disciplina locale deve avere carattere specifico, ossia compendiarsi in una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell'art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. un., 18.07.2008 n. 19813 e Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2011 n. 2544).
In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G., deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento.
Nel caso di specie, tuttavia, non vi è notizia di alcuna previsione urbanistica ovvero di alcuna normazione locale che abbia disciplinato l’ampiezza del vincolo in questione, con la conseguenza che l’ampiezza dello stesso ricade nella previsione generale dei dieci metri, contenuta nella fonte legislativa più volte sopra citata.
6.3 Quanto al rilievo di fatto sull’ individuazione dell’argine del torrente Baganza, ossia della coincidenza o meno con il piede dell’argine dal quale misurare la distanza sono dirimenti i rilievi eseguiti dall’Agenzia regionale per la Sicurezza Territoriale e la Protezione Civile.
L’Agenzia classifica le arginature esistenti lungo le sponde del torrente Baganza quali opere idrauliche di terza categoria ai sensi degli artt. 7-8 e ss. del r.d. 523/1904: ha chiarito che, in presenza di manufatto arginale, il punto di demarcazione deve identificarsi con il piede lato campagna, ovvero quello più distante dal corso d’acqua, mentre in caso di sponda naturale deve ritenersi identificato con il ciglio della stessa.
6.4 Senza che in contrario rilevi se la costruzione dell’argine sia pubblica o eseguita a cura di privati: dirimente è il rispetto della distanza di 10 metri misurati dal lato esterno rispetto al corso del fiume dell’argine, sia esso pubblico o privato.
6.5 La generica contestazione del ricorrente non supplisce all’onere probatorio gravante su di esso di fornire la prova sulle condizioni e sulla consistenza dell'abuso, spettando invece all’amministrazione il compito di controllare i dati forniti che, se non assistiti da attendibile consistenza, implicano la reiezione della relativa istanza (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2018 n. 7042).
Nel caso procedimento di condono edilizio, infatti, non è onere dell’amministrazione comprovare le circostanze richieste dalla legge per il condono, spettando all’interessato la rigorosa prova delle stesse (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2018 n. 1837). Ciò in quanto è il richiedente che versa in una situazione di illecito e che, se intende riportare alla “liceità” quanto abusivamente realizzato per il tramite dell'adozione da parte della pubblica amministrazione di una concessione edilizia in sanatoria, ha l’onere di provare la sussistenza dei presupposti e requisiti normativamente previsti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.08.2017 n. 4060).
7. Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2019 n. 8184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a presupposti diversi, non sovrapponibili fra loro, in quanto il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile sia stato realizzato secondo le norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il titolo edilizio è finalizzato all'accertamento del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche.
Il rilascio del certificato di abitabilità (o di agibilità) non preclude quindi agli uffici comunali la possibilità di contestare successivamente la presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, né costituisce rinuncia implicita a esigere il pagamento dell'oblazione per il caso di sanatoria, in quanto il certificato svolge una diversa funzione, ossia garantisce che l'edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili.

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8.2 Analogamente, non può invocarsi una deroga a fronte dell’ottenimento di un titolo, la licenza di abitabilità, avente fini diversi.
A quest’ultimo riguardo, il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a presupposti diversi, non sovrapponibili fra loro, in quanto il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile sia stato realizzato secondo le norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il titolo edilizio è finalizzato all'accertamento del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche.
Il rilascio del certificato di abitabilità (o di agibilità) non preclude quindi agli uffici comunali la possibilità di contestare successivamente la presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, né costituisce rinuncia implicita a esigere il pagamento dell'oblazione per il caso di sanatoria, in quanto il certificato svolge una diversa funzione, ossia garantisce che l'edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2019 n. 8180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole, idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata, come accade nella diversa ipotesi della autotutela decisoria su titoli edilizi illegittimamente rilasciati.
A quest’ultimo riguardo, gli oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria, non valgono per l’ordine di demolizione il quale deve ritenersi adeguatamente motivato in forza del richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato (dovendo essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, essendo la relativa ponderazione compiuta a monte dallo stesso legislatore nel senso della doverosità della demolizione (cfr. art. 31, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
Ciò in generale in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare e, in particolare, a fronte di attività abusiva in zona vincolata, oggetto di specifica e ancor più severa disciplina di tutela.
Né il principio della Plenaria risulta limitato o limitabile all’ipotesi dell’assenza di titolo in quanto anche la difformità, nella specie oltretutto qualificabile come variazione essenziale in zona vincolata, mantiene la qualifica generale di abuso, concetto unitario ai fini in esame. Ciò sia per mancata espressa limitazione formale, non ricavabile infatti dalle norme né dal diritto vivente sancito dal Supremo Consesso, sia per la piena applicabilità logico giuridica degli argomenti predetti ad entrambe le ipotesi.
Anzi, la parziale difformità, meno evidente rispetto all’abuso totale, si rende meno percepibile dagli organi deputati alla vigilanza, senza quindi che possa sorgere alcun affidamento il quale, negli eccezionali limiti ammissibili, presuppone comunque una piena conoscenza dell’abuso in capo alla stessa p.a..
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8.3 Sempre in termini generali, l’inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole, idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata, come accade nella diversa ipotesi della autotutela decisoria su titoli edilizi illegittimamente rilasciati.
A quest’ultimo riguardo, gli oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria, non valgono per l’ordine di demolizione il quale deve ritenersi adeguatamente motivato in forza del richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento.
8.4 L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato (dovendo essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21.03.2017, n. 1267), essendo la relativa ponderazione compiuta a monte dallo stesso legislatore nel senso della doverosità della demolizione (cfr. art. 31, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
Ciò in generale in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare e, in particolare, a fronte di attività abusiva in zona vincolata, oggetto di specifica e ancor più severa disciplina di tutela.
8.5 Né il principio della Plenaria risulta limitato o limitabile all’ipotesi dell’assenza di titolo in quanto anche la difformità, nella specie oltretutto qualificabile come variazione essenziale in zona vincolata, mantiene la qualifica generale di abuso, concetto unitario ai fini in esame. Ciò sia per mancata espressa limitazione formale, non ricavabile infatti dalle norme né dal diritto vivente sancito dal Supremo Consesso, sia per la piena applicabilità logico giuridica degli argomenti predetti ad entrambe le ipotesi.
Anzi, la parziale difformità, meno evidente rispetto all’abuso totale, si rende meno percepibile dagli organi deputati alla vigilanza, senza quindi che possa sorgere alcun affidamento il quale, negli eccezionali limiti ammissibili, presuppone comunque una piena conoscenza dell’abuso in capo alla stessa p.a. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2019 n. 8180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGORimborso spese legali sostenute dal pubblico dipendente per la difesa in giudizio per fatti attinenti il proprio lavoro.
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Pubblico impiego privatizzato – Spese legali – Rimborso – Presupposti - Individuazione
Presupposti per il rimborso delle spese legali sostenute dal pubblico dipendente per la difesa in giudizio per fatti attinenti il proprio lavoro sono la pronuncia di una sentenza o di un provvedimento definitivo del giudice, che abbia escluso definitivamente la responsabilità del dipendente e la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 18 sopra riportato attribuisce un peculiare potere valutativo all’Amministrazione con riferimento all’an ed al quantum, poiché essa deve verificare se sussistano in concreto i presupposti per disporre il rimborso delle spese di giudizio sostenute dal dipendente, nonché –quando sussistano tali presupposti- se siano congrue le spese di cui sia chiesto il rimborso – con l’ausilio della Avvocatura dello Stato, il cui parere di congruità ha natura obbligatoria e vincolante (Cons. St., sez. II, 31.05.2017, n. 1266; id., sez. IV, 08.07.2013, n. 3593).
Di per sé il parere –per la sua natura tecnico-discrezionale– non deve attenersi all’importo preteso dal difensore (Cons. St., sez. II, 20.10.2011, n. 2054/2012), o a quello liquidato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati per quanto rileva nei rapporti tra il difensore e l’assistito (Cons. St., sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. VI, 08.10.2013, n. 4942), ma deve valutare quali siano state le effettive necessità difensive (Cass. civ., S.U., 06.07.2015, n. 13861; Cons. St., sez. IV, 07.10.2019, n. 6736; Sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. II, 20.10.2011, n. 2054/12) ed è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità per errore di fatto, illogicità, carenza di motivazione, incoerenza, irrazionalità o per violazione delle norme di settore (Cons. St., sez. II, 30.06.2015, n. 7722).
Qualora il diniego (totale o parziale) di rimborso risulti illegittimo, il suo annullamento non comporta di per sé l’accertamento della spettanza del beneficio, dovendosi comunque pronunciare sulla questione l’Amministrazione, in sede di emanazione degli atti ulteriori.
Presupposti per il rimborso sono: a) la pronuncia di una sentenza o di un provvedimento definitivo del giudice, che abbia escluso definitivamente la responsabilità del dipendente; b) la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali.
Quanto alla pronuncia definitiva sull’esclusione della responsabilità del dipendente, qualora si tratti di una sentenza penale si deve trattare di un accertamento della assenza di responsabilità, anche quando –in assenza di ulteriori specificazioni contenute nell’art. 18- sia stato applicato l’art. 530, comma 2, del codice di procedura penale (Cons. St., sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; id., A.G., 29.11.2012, n. 20/13; id., sez. IV, 21.01.2011, n. 1713).
L’art. 18, invece, non può essere invocato quando il proscioglimento sia dipeso da una ragione diversa dalla assenza della responsabilità, cioè quando sia stato disposto a seguito dell’estinzione del reato, ad esempio per prescrizione, o quando vi sia stato un proscioglimento per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di procedibilità dell’azione (Cons. St., sez. IV, 04.09.2017, n. 4176).
Oltre alla pronuncia del giudice che espressamente abbia escluso la responsabilità del dipendente, l’art. 18 ha disciplinato un ulteriore presupposto per la spettanza del beneficio, e cioè la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali: l’art. 18 si applica a favore del dipendente che abbia agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse della Amministrazione (e cioè quando per la condotta oggetto del giudizio sia ravvisabile il ‘nesso di immedesimazione organica’).
Tale connessione sussiste –sia pure in modo peculiare- qualora sia stata contestata al dipendente la violazione dei doveri di istituto e, all’esito del procedimento, il giudice abbia constatato non solo l’assenza della responsabilità, ma che esso sia sorto in esclusiva conseguenza di condotte illecite di terzi, di natura diffamatoria o calunniosa, oppure qualificabili come un millantato credito (si pensi al funzionario, al dirigente o al magistrato accusato di corruzione, ma in realtà del tutto estraneo ai fatti, perché vittima di una orchestrata attività calunniosa o di un millantato credito emerso dopo l’attivazione del procedimento penale).
Sotto tale profilo, l’art. 18 tutela senz’altro –col rimborso delle spese sostenute- il dipendente statale che sia stato costretto a difendersi, pur innocente, nel corso del procedimento penale nel quale –esclusivamente in ragione del suo status e non per l’aver posto in essere specifici atti- sia stato coinvolto nel procedimento penale perché sostanzialmente vittima di illecite condotte altrui, che per un qualsiasi motivo illecito hanno coinvolto il dipendente, a maggior ragione se è stato designato come vittima proprio quale appartenente alle Istituzioni e per il servizio prestato.
Qualora in tali casi il giudice penale disponga il proscioglimento del dipendente statale, non rileva pertanto la natura attiva od omissiva della condotta oggetto della contestazione, perché ciò che conta è l’accertamento da parte del giudice penale dell’estraneità del dipendente ai fatti contestati, nonché il carattere diffamatorio o calunnioso delle dichiarazioni altrui (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2019 n. 8137 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione di un parere vincolante.
Non può affermarsi, in via generale, che un parere vincolante, una volta espresso, possa (anzi debba) essere oggetto di immediata e autonoma impugnazione entro il termine decadenziale previsto per il ricorso giurisdizionale; affermare il contrario significherebbe:
   - in primo luogo, negare la distinzione tra funzione di amministrazione attiva e funzione consultiva, pur mantenuta dalla norma;
   - in secondo luogo, determinerebbe un "trasferimento" di potestà provvedimentale che, per un verso, annullerebbe la categoria stessa dei pareri vincolanti (rendendo questi atti sostanziale espressione di amministrazione attiva);
   - per altro verso, svuoterebbe programmaticamente di contenuto il potere provvedimentale, di fatto trasferendolo in capo ad organi diversi da quelli individuati dalla legge, in evidente contraddizione con il principio di legalità in senso formale (fattispecie in tema di parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio reso in un procedimento di richiesta di compatibilità paesaggistica)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.11.2019 n. 2545 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. L’eccezione di irricevibilità per tardività dell’impugnazione del parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio Prot. 25066 P.G. 779614/2012 del 29.11.2012, nella parte in cui esprime, ai sensi dell’art. 167, c. 5, del D.Lgs. 42/2004, parere contrario alla formazione della copertura vetrata, di cui alla richiesta di compatibilità paesaggistica P.G. 583051/2012 del 19/09/2012, sollevata dal Comune, è infondata.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.03.2012, n. 1829) ha condivisibilmente sostenuto che affermare, in via generale, che un parere vincolante, una volta espresso, possa (anzi debba) essere oggetto di immediata ed autonoma impugnazione entro il termine decadenziale previsto per il ricorso giurisdizionale: in primo luogo, nega la distinzione tra funzione di amministrazione attiva e funzione consultiva, pur mantenuta dalla norma; in secondo luogo, determina un "trasferimento" di potestà provvedimentale che, per un verso, annulla la categoria stessa dei pareri vincolanti (rendendo questi atti sostanziale espressione di amministrazione attiva); per altro verso, svuota programmaticamente di contenuto il potere provvedimentale, di fatto trasferendolo in capo ad organi diversi da quelli individuati dalla legge, in evidente contraddizione con il principio di legalità (in senso formale).
2. In ogni caso l’impugnazione del provvedimento datato 29.07.2014 PG 487938/2014, con cui il Direttore del Settore Sportello Unico per l'Edilizia, Ufficio Tutela del Paesaggio, ha respinto la richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica è irricevibile per tardività in quanto l’atto è stato spedito dal Comune in data 26.08.2014 e la notifica si è perfezionata per compiuta giacenza.
3. L’impugnazione del provvedimento del Comune di Milano, P.G. 27.11.2014, spedito alla Società in data 22.04.2015, con cui il Comune ha ordinato il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 è inammissibile nella parte in cui contesta fatti già accertati con i precedenti provvedimenti, quali il valore paesistico della facciata e la lesività delle opere nei confronti dei beni giuridici protetti, in quanto accertati con i provvedimenti non impugnati nei termini.

APPALTILimiti quantitativi al subappalto: incompatibilità con il diritto europeo estesa alla riduzione dei prezzi applicabili dall’affidatario al subappaltatore.
La Corte di giustizia ha riaffermato la non conformità alla direttiva n. 2004/18/CE di una disciplina nazionale (nel caso di specie contenuta nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006) nella parte in cui prevede il limite quantitativo del trenta per cento alle prestazioni subappaltabili, poiché quest’ultimo è ex se inidoneo al raggiungimento dello scopo di contrastare le infiltrazioni criminali nel sistema degli appalti pubblici.
Ha, altresì, dichiarato l’illegittimità della predetta disciplina nella parte in cui vieta che i prezzi applicabili alle prestazioni affidate in subappalto siano ridotti di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione in quanto si tratta di strumento che eccede rispetto alla necessità di assicurare la tutela salariale dei lavoratori impiegati nel subappalto.
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Contratti pubblici – Subappalto – Limiti alla quota sub appaltabile e ai prezzi applicabili alle prestazioni affidate in sub appalto – Automaticità – Esclusione
La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, dev’essere interpretata nel senso che:
   – essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che limita al 30% la quota parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi;
   – essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione. (1)

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   (1) I. – Ha affermato la sentenza in rassegna che la direttiva n. 2004/18/CE, in materia di appalti pubblici, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che limita al trenta per cento la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi e al venti per cento la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
   II. – Il rinvio pregiudiziale era stato disposto da Cons. Stato, sezione VI, ordinanza 11.06.2018, n. 3553 (in Guida al dir., 2018, 29, 84, con nota di TOMASSETTI; Riv. trim. appalti, 2018, 871, con nota di FEDRIZZI e oggetto della News US in data 15.06.2018), nell’ambito di una vicenda contenziosa inerente all’affidamento di un appalto per il servizio di pulizia mediante il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa e per un importo superiore alla soglia comunitaria.
La Corte di giustizia si è limitata a scrutinare la conformità all’ordinamento UE dell’(ormai) abrogato art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006, benché il perimetro delle questioni pregiudiziali ricomprendesse l’omologo art. 105 del d.lgs. n. 50 del 2016, disposizione, quest’ultima, già oggetto di altro rinvio ex art. 267 Trattato FUE disposto da Tar per la Lombardia, sez. I, ordinanza 19.01.2018, n. 148 (in Riv. trim. appalti, 2018, 871, con nota di FEDRIZZI, nonché oggetto della News US, in data 06.02.2018), recentemente definito con sentenza della Corte di giustizia UE, 26.09.2019, C-63/18, Vitali s.p.a. (oggetto della News US in data 14.10.2019 alla quale si rinvia per ogni ulteriore approfondimento). In punto di disciplina applicabile alla vicenda procedimentale oggetto del giudizio principale, la Corte ha evidenziato che:
      a) la direttiva applicabile è, in linea di principio, quella in vigore alla data in cui l’amministrazione aggiudicatrice sceglie il tipo di procedura da seguire e sono, al contrario, inapplicabili le disposizioni di una direttiva il cui termine di recepimento sia scaduto dopo tale data (Corte di giustizia UE, sez. II, 10.07.2014, C-213/13, Impresa Pizzarotti, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, in Guida al dir., 2014, 31, 80, con nota di CASTELLANETA; Corriere trib., 2014, 3172, con nota di ROMANO, CONTI; Dir. comunitario scambi internaz., 2014, 393, con nota di STILE; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2014, 1055, con nota di FERRARO; Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2014, 1960, con nota di SCIALLA; Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2014, 2026, con nota di MERCURI; Giornale dir. amm., 2015, 53, con nota di GALLI; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2015, 917, con nota di FIGLIOLIA; Riv. dir. proc., 2016, 508, con nota di CORDOPATRI);
      b) nel caso di specie risultava applicabile la direttiva n. 2004/18/CE, abrogata dalla direttiva n. 2014/24/UE con effetto dal 18.04.2016 (termine ultimo per il suo recepimento), poiché il bando di gara era stato emanato anteriormente a tale data (ossia il 24.12.2015);
Il presupposto di fondo dal quale muoveva il rinvio pregiudiziale - in relazione alla previgente direttiva “appalti” e ai parametri degli articoli 49 e 56 Trattato FUE - era dato dall’ammissibilità e sostenibilità di un’offerta risultata aggiudicataria, il cui forte ribasso, che ha consentito l’aggiudicazione, è stato ottenuto attraverso un meccanismo che ha comportato la previsione di affidamento in subappalto di prestazioni superiori al limite del trenta per cento, con riconoscimento in favore delle imprese subappaltatrici di un compenso inferiore di oltre il venti per cento rispetto a quanto praticato in base all’offerta.
Il Consiglio di Stato aveva evidenziato, anche sulla base di propri precedenti pronunciamenti in sede consultiva (cfr. Cons. Stato, Adunanza della Commissione speciale, parere, 30.03.2017, n. 782, in Foro amm., 2017, 614 e Cons. Stato, Adunanza della Commissione speciale, parere dell’10.04.2016, n. 855, in Merito extra, n. 2016.715.1), che:
      c) le disposizioni nazionali rilevanti nel caso di specie sono contenute nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006, che al comma secondo prevede(va) che la quota subappaltabile non può essere superiore al trenta per cento dell’importo complessivo del contratto, mentre al comma quarto stabilisce che l'affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall'aggiudicazione, con ribasso non superiore al venti per cento;
      d) le suddette limitazioni quantitative al subappalto sono state introdotte per la prima volta nell’ordinamento dall’art. 18 della legge n. 55 del 1990 e sono poi confluite nelle varie leggi che si sono succedute in materia di appalti pubblici;
      e) si tratta di disciplina di particolare rigore che trova origine nella consapevolezza che il subappalto, soprattutto laddove resti confinato alla fase esecutiva dell’appalto e sfugga a ogni controllo amministrativo, può ben prestarsi ad essere utilizzato fraudolentemente, per eludere le regole di gara e acquisire commesse pubbliche indebitamente, nell’ambito di contesti criminali;
      f) nel diritto UE le previsioni espresse in materia di subappalto sono contenute nell’art. 71 della direttiva n. 2014/24/UE, la quale non contempla alcun limite quantitativo al subappalto, e nella previgente analoga disciplina dell’art. 25 della direttiva n. 2004/18/CE; ma risultano rilevanti, in termini più generali, anche gli artt. 49 e 56 Trattato FUE sulla libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione europea.

   III. – La Corte di giustizia -dopo aver esaminato la normativa interna ed europea di riferimento e dichiarato ricevibili le questioni ad essa sottoposte in considerazione della rilevanza delle stesse e dell’avvenuta corretta definizione, ad opera del giudice del rinvio, della domanda di pronuncia pregiudiziale (Corte di giustizia UE, 28.03.2019, C-101/18, Idi, punto 28 e giurisprudenza ivi citata)- ha concluso per la non conformità della disciplina nazionale alla direttiva n. 2004/18/CE sulla base delle seguenti considerazioni:
      g) sul limite del trenta per cento della quota parte dell’appalto che l’operatore economico è autorizzato a subappaltare a terzi:
         g1) obiettivo dell’ordinamento UE in materia di appalti pubblici è quello di garantire nelle procedure di affidamento l’apertura alla concorrenza, la libera circolazione delle merci, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, nonché i principi che ne derivano, quali, in particolare, quello di parità di trattamento, di non discriminazione, proporzionalità e trasparenza;
         g2) la direttiva n. 2004/18/CE sancisce la facoltà, per l’operatore economico, di ricorrere al subappalto (v. Corte di giustizia UE, sez. III, 14.07.2016, C-406/14, Wrocław – Miasto na prawach powiatu, punti da 31 a 33, in Foro it.,
2016, IV, 389) nonché la facoltà dell’amministrazione aggiudicatrice di richiedere ai partecipanti alla gara di esplicitare tale volontà nell’offerta con indicazione delle imprese subappaltatrici proposte;
         g3) ai sensi dell’art. 25, primo comma, della direttiva n. 2004/18/CE, l’amministrazione aggiudicatrice può vietare il ricorso a subappaltatori dei quali essa non sia stata in grado di verificare le capacità nella procedura di gara;
         g4) la lettura di siffatta disciplina eurounitaria deve essere improntata a canoni interpretativi di massima partecipazione (a vantaggio non solo degli operatori economici ma anche delle amministrazioni aggiudicatrici) e di garanzia di un più facile accesso delle piccole e medie imprese alle procedure (Corte di giustizia UE, sez. V, 10.10.2013, Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino, C-94/12, punto 34, in Guida al dir., 2013, 43, 94, con nota di MASARACCHIA; Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 2630; Appalti & Contratti, 2013, 11, 84 (m), con nota di TRAMONTANA; Urbanistica e appalti, 2014, 147, con nota di CARANTA);
         g5) siffatta impostazione è in linea (id est: non trova un ostacolo) nelle finalità della –ampiamente restrittiva– disciplina italiana sul subappalto la cui ratio, sin dall’origine, è quella di contrastare i tentativi dell’infiltrazione criminale, in considerazione che:
I) la direttiva n. 2004/18/CE salvaguarda le esigenze di tutela dell’ordine, della moralità e della sicurezza pubblici ed impedisce (considerando 43) l’affidamento delle commesse a operatori economici che hanno partecipato a un’organizzazione criminale;
II) la disciplina eurounitaria riconosce agli Stati membri un certo potere discrezionale nell’adozione di misure destinate a garantire il rispetto dell’obbligo di trasparenza (Corte di giustizia UE, sez. X, 22.10.2015, C-425/14, Impresa Edilux e SICEF, punti 27 e 28 (in Appalti & Contratti, 2015, 12, 90, con nota di CANAPARO; Giur. it., 2016, 1459, con nota di CRAVERO; Giornale dir. amm., 2016, 318, con nota di VINTI);
         g6) ove pure si ritenesse che una “restrizione quantitativa” al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata, una limitazione come quella imposta dall’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006 “eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo” (punto 45) in considerazione che l’amministrazione è comunque in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati, da indicarsi nella documentazione di gara;
      h) sulla remunerazione delle prestazioni subappaltate con un ribasso superiore al venti per cento rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione:
         h1) la disciplina nazionale impone il limite del venti per cento in modo imperativo, a pena di esclusione, indipendentemente da qualsiasi verifica della sua diretta correlazione con lo scopo di assicurare ai lavoratori dell’impresa subappaltatrice una tutela salariale minima;
         h2) tale limite rende meno allettante la possibilità di ricorrere al subappalto dal momento che limita l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi per il personale delle imprese subappaltatrici;
         h3) ciò contrasta con i principi di concorrenza e massima partecipazione e con lo scopo di agevolare l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici;
         h4) pur potendosi affermare che l’obiettivo della tutela dei lavoratori impiegati nel subappalto può, in linea di principio, giustificare talune limitazioni al ricorso a tale modulo contrattuale (Corte di giustizia UE, sez. IX, 18.09.2014, C-549/13, Bundesdruckerei, punto 31, in Urbanistica e appalti, 2015, 520, con nota di BARBERIS; Riv. giur. lav., 2015, II, 33, con nota di GUADAGNO; Riv. it. dir. lav., 2015, II, 550, con nota di FORLIVESI), non si può ritenere che la disciplina italiana riconosca ai lavoratori una tutela tale da giustificare tale limite del venti per cento;
         h5) quest’ultimo eccede quanto necessario per assicurare ai lavoratori impiegati nell’ambito del subappalto la tutela salariale in quanto:
I) detto limite non “lascia spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dal momento che si applica indipendentemente da qualsiasi presa in considerazione della tutela sociale garantita dalle leggi, dai regolamenti e dai contratti collettivi applicabili ai lavoratori interessati” (punto 65);
II) non tiene conto che l’impresa subappaltatrice, così come quella aggiudicataria, è tenuta ad applicare ne confronti dei propri dipendenti i contratti collettivi nazionali e territoriali di lavoro;
III) l’aggiudicatario è responsabile in solido del rispetto delle regole salariali;
         h6) il limite del venti per cento non può essere giustificato neppure dall’obiettivo di garantire la redditività dell’offerta e la corretta esecuzione dell’appalto in quanto:
I) tale limite è sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito in considerazione delle misure alternative perseguibili in tal senso (Corte di giustizia UE, sez. 05.04.2017, sez. V, C-298/15, Borta, punto 54 e giurisprudenza ivi citata, in Appalti & Contratti, 2017, 9, 76);
II) la possibilità offerta all’aggiudicatario di limitare i propri costi nel rapporto con le imprese subappaltatrici “contribuisce piuttosto a una concorrenza rafforzata e quindi all’obiettivo perseguito dalle direttive adottate in materia di appalti pubblici” (punto 74).
   IV. – Si segnala per completezza quanto segue:
      i) sui principi di parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità nell’affidamento degli appalti pubblici: tra le altre, Corte di giustizia UE, sez. IV, 23.12.2009, C-376/08, Serrantoni e Consorzio stabile edili, punto 23 (in Arch. giur. oo. pp., 2010, 217);
      j) sul subappalto in generale:
         j1) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006 si vedano: N. CENTOFANTI, M. FAVAGROSSA e P. CENTOFANTI, Il subappalto, Padova, 2012; A. GUARNIERI, D. TESSERA, commento all’art. 118, in Commentario al codice dei contratti pubblici, a cura di G. F. FERRARI, G. MORBIDELLI, Milano, 2013; A. DI RUZZA, C. LINDA, commento all’art. 118, in Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. BACCARINI, G. CHINÈ, R. PROIETTI, Milano, 2015, 1366 ss.; C. SADILE, Il subappalto dei lavori pubblici, Milano, 2014; D. GALLI e C. GUCCIONE, Contratti pubblici: «avvalimento» e subappalto in Giornale dir. amm., 2015, 127;
         j2) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 si vedano: MANCINI G., Brevi note sui limiti di ammissibilità del subappalto ai sensi dell'art. 105 del nuovo codice degli appalti in Riv. trim. appalti, 2016, 711; M. GENTILE, Il subappalto nel «nuovo» codice: aumentano limiti, vincoli e dubbi applicativi in Appalti & Contratti, 2016, 6, 43; R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1488 ss.;
         j3) con riferimento alla disciplina successiva al correttivo al Codice dei contratti pubblici si vedano: GENTILE M., Il correttivo allarga <con moderazione> le maglie del subappalto in Appalti & Contratti, 2017, 7, 15; G. BALOCCO, La riforma del subappalto e principio di concorrenza in Urbanistica e appalti, 2017, 621; G.A. GIUFFRE’, Le novità in tema di subappalto in Il correttivo al Codice dei contratti pubblici, a cura di M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI, Milano, 2017, p. 331; M. CERUTI, Alcune brevi riflessioni in tema di subappalto fra tutela della concorrenza e prevenzione dell'illegalità, in Contratti Stato e enti pubbl., 2018, 3, pp. 39-52; D. PONTE, Subappalto: al 50% il limite dell'importo e abolita la terna (D.L. 18.04.2019 n. 32), in Guida al dir., 2019, 85-87;
         j4) sulla nuova disciplina del d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici (cd. “Sblocca cantieri”), convertito con modificazioni in l. 14.06.2019, n. 55 (oggetto della News normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per approfondimenti) si veda, in particolare, il contributo di DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici recate dal d.l. n. 32/2019, ivi richiamato:
I) il d.l. n. 32 del 2019 recava nella versione originaria un parziale adeguamento dell’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 ai rilievi della Commissione europea in quanto modificava il limite generale del subappalto, innalzandolo dal trenta al cinquanta per cento dell’importo contrattuale;
II) non veniva accolto, invece, il rilievo della Commissione europea relativo al limite del subappalto per le opere di cui all’art. 89, comma 11 (art. 105, comma 5), ritenendosi tale limite giustificato dalla particolare natura delle prestazioni (secondo la Commissione europea sono consentiti limiti quantitativi del subappalto giustificati dalla particolare natura della prestazione);
III) tali previsioni non sono state convertite in legge ma in sede di conversione, la l. n. 55 del 2019 ha operato sul subappalto un intervento transitorio, senza novellare il codice e limitandosi a sospendere l’efficacia di alcune norme e a derogarne altre, con conseguente individuazione del limite quantitativo del subappalto fissato nel quaranta per cento dell’importo complessivo del contratto fino al 31.12.2020;
      k) sulla compatibilità con il diritto europeo dei limiti al subappalto posti dalla legislazione italiana:
         k1) in dottrina spunti specifici sul tema sono offerti da M. MARTINELLI, La capacità economica e finanziaria, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici a cura di R. GAROFOLI, M.A. SANDULLI, Milano, 2005, 633 (ove si evidenzia che “la giurisprudenza comunitaria appare orientata a riconoscere la possibilità di ricorrere al subappalto oltre i limiti eventualmente stabiliti dalla normativa interna, allorché i requisiti di capacità del terzo subappaltatore siano stati valutati in corso di gara dall’amministrazione aggiudicatrice…in tal caso, infatti, vi sono tutte le garanzie che l’appalto venga effettivamente eseguito da soggetti dotati di adeguata qualificazione”), M. E. COMBA, L'esecuzione delle opere pubbliche - Con cenni di diritto comparato, Torino, 2011, 61 ss., R. CARANTA, I contratti pubblici, Torino, 2012, 364, che, evidenziati i limiti al subappalto della legislazione italiana, stigmatizza che “si tratta di limiti tout court in contrasto con il diritto europeo”;
         k2) il tema è anche affrontato nell’ambito dei menzionati pareri resi dal Consiglio di Stato sul nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) e sul “correttivo” allo stesso (d.lgs. n. 56 del 2017): nel parere n. 855 del 2016, cit., il Consiglio di Stato aveva osservato, in relazione all’art. 105, che il legislatore nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non costituirebbero un ingiustificato goldplating, ma sarebbero giustificati da pregnanti ragioni di
ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro; nel parere n. 782 del 2017, cit., il Consiglio di Stato, conclude nel senso che “la complessiva disciplina delle nuove direttive, più attente, in tema di subappalto, ai temi della trasparenza e della tutela del lavoro, in una con l’ulteriore obiettivo, complessivamente perseguito dalle direttive, della tutela delle micro, piccole e medie imprese, può indurre alla ragionevole interpretazione che le limitazioni quantitative al subappalto, previste da legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il diritto europeo”;
         k3) quanto alla giurisprudenza europea si ricordano i seguenti pronunciamenti:
I) Corte di giustizia UE, sez. V, C- 63/18, cit., secondo cui la normativa europea in materia di appalti pubblici deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che limita al trenta per cento la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi;
II) sez. V, 05.04.2017, C-298/2015, Borta UAB, secondo cui “per gli appalti pubblici di rilievo transfrontaliero, anche se sotto la soglia di applicazione delle direttive europee, è interesse dell'Unione che l'apertura della procedura alla concorrenza sia la più ampia possibile, e il ricorso al subappalto, che può favorire l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo. Pertanto, una disposizione nazionale, che preveda che in caso di ricorso a subappaltatori per eseguire un appalto pubblico di lavori, l'aggiudicatario sia tenuto a realizzare l'opera principale, come descritta dall'amministrazione aggiudicatrice, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi”;
III) sez. IV, 27.10.2016, C-292/15, GmbH (oggetto della News US in data 08.11.2016), secondo la quale “l’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.10.2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia, deve essere interpretato nel senso che, nel corso di una procedura di aggiudicazione di un appalto di servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, l’articolo 4, paragrafo 7, di tale regolamento -che prevede la limitazione del ricorso al subappalto (commisurata in funzione dei chilometri tabellari)– deve ritenersi applicabile a tale appalto. L’articolo 4, paragrafo 7, del regolamento n. 1370/2007, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice stabilisca nella misura del 70% la quota di fornitura diretta da parte dell’operatore a cui è affidata la gestione e la prestazione di un servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, come quello oggetto del procedimento principale”;
IV) sez. III, 14.07.2016, C-406/14, cit., secondo cui “la direttiva 2004/18/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (Ce) 2083/2005 della commissione, del 19.12.2005, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie”;
V) sez. X, 22.10.2015, C-425/2014, cit., secondo cui “le norme fondamentali e i principi generali del Tfue, segnatamente i principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione di diritto nazionale in forza della quale un'amministrazione aggiudicatrice possa prevedere che un candidato o un offerente sia escluso automaticamente da una procedura di gara relativa a un appalto pubblico per non aver depositato, unitamente alla sua offerta, un'accettazione scritta degli impegni e delle dichiarazioni contenuti in un protocollo di legalità, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, finalizzato a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici; tuttavia, nei limiti in cui tale protocollo preveda dichiarazioni secondo le quali il candidato o l'offerente non si trovi in situazioni di controllo o di collegamento con altri candidati o offerenti, non si sia accordato e non si accorderà con altri partecipanti alla gara e non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti alla medesima procedura, l'assenza di siffatte dichiarazioni non può comportare l'esclusione automatica del candidato o dell'offerente da detta procedura”;
      l) sul “subappalto necessario”, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 (in Foro it., 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365, con nota di GALLI, CAVINA; Nuovo dir. amm., 2016, 3, 53, con nota di NARDOCCI), che ha inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, escludendo dunque l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell'offerta, anche “nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili” previste dall'art. 107, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, che disciplina i requisiti di partecipazione alla gara; cfr. anche A. SENATORE, Il subappalto necessario nella prospettiva evolutiva del d.leg. n. 50/2016 in Urbanistica e appalti, 2017, 456;
m) sul riparto della competenza legislativa fra Stato e regioni specie avuto riguardo al subappalto, Corte cost., 17.12.2008, n. 411 (in Foro amm. CDS 2009, 5, 1192 con nota di CASALINI; Corriere giur., 2009, 640, con nota di MUSOLINO; Urbanistica e appalti, 2009, 301, con nota di CONTESSA);
      n) sulla responsabilità solidale nell’ambito del subappalto: I. ALVINO, Il regime delle responsabilità negli appalti, in Giornale dir. lav. relazioni ind., 2007, 115, 507-538; L. IMBERTI, La responsabilità solidale negli appalti. alla ricerca di un'adeguata tutela delle posizioni creditorie dei lavoratori, in Argomenti dir. lav., 2008, 2, 2, 523-545; A. MINEO, Aspetti critici in tema di responsabilità solidale negli appalti e subappalti per le obbligazioni contributive, in Informaz. prev., 2008, 4, 905-934; A. GIGANTE, Orientamenti in tema di responsabilità sociale d'impresa nell'Unione europea: il regime della responsabilità solidale dei subappalti, in Dir. relazioni ind., 2009, 2, 485-489; P. GIANFORTE, La responsabilità solidale negli appalti pubblici e privati, in Appalti & contratti, 2017, 5, 51-57; V. TONNICCHI, Osservazioni sulla disciplina della responsabilità solidale tra committente ed appaltatore. Suoi riflessi nella disciplina dei contratti pubblici, in Riv. trim. appalti, 2018, 2, 623-632;
      o) sull’estensione della responsabilità solidale del committente privato a soggetti diversi dai dipendenti dell’appaltatore o del subappaltatore, si veda Corte cost., 13.12.2017, n. 254 (in Lavoro giur., 2018, 259, con nota di SITZIA; Argomenti dir. lav., 2018, 582, con nota di TAGLIENTE; Giur. cost., 2017, 2704, con nota di PRINCIPATO; Riv. it. dir. lav., 2018, II, 237, con nota di ALVINO; Guida al lav., 2018, 1, 62, con nota di ZAMBELLI; Dir. relazioni ind., 2018, 611, con nota di DEL FRATE; Riv. giur. lav., 2018, II, 298, con nota di CALVELLINI);
      p) sul tema dell’interpretazione del diritto dell’Unione e sul rinvio pregiudiziale:
         p1) sulle finalità del rinvio pregiudiziale: Corte di giustizia UE, 05.07.2018, C-544/16, Marcandi Lmd (in Foro it., IV, 544), secondo cui “l’articolo 267 TFUE istituisce un meccanismo di rinvio pregiudiziale volto a prevenire divergenze interpretative del diritto dell’Unione che i giudici nazionali devono applicare”;
         p2) sul riparto di competenza tra giudice interno e giudice comunitario nel procedimento di rinvio: tra le diverse, Corte di giustizia UE, sez. III, 29.10.2009, C-63/08, Pontin, punto 38 e giurisprudenza ivi citata (in Mass. giur. lav., 2010, 172, con nota di RATTI; Riv. it. dir. lav., 2010, II, 462, con nota di DE FALCO; Dir. relazioni ind., 2010, 279, con nota di MONACO; Famiglia e dir., 2011, 221, con nota di NUNIN), secondo cui “la Corte deve prendere in considerazione, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici comunitari e i giudici nazionali, il contesto fattuale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali, come definito dal giudice del rinvio”;
         p3) sull’obbligo di rinvio del Giudice d’appello in ipotesi di mancata condivisione di un principio espresso dall’Adunanza plenaria, si vedano: Cons. Stato, Ad. plen., 27.07.2016, n. 19 (in Foro it., 2017, III, 309, con nota di GAMBINO, nonché oggetto della News US, in data 01.08.2016, cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza; Corte di giustizia UE, 05.04.2016, C-689/13 (in Giornale dir. amm., 2016, 5, 650, con nota di SCHNEIDER; in Foro it., 2016, IV, 325 con nota critica di SIGISMONDI, nonché oggetto della News US, in data 07.04.2016);
         p4) sull’obbligo di rinvio in caso di precedenti contrasti interpretativi: Corte di giustizia UE, 09.09.2015, C-160/14, João Filipe Ferreira da Silva (in Riv. it. dir. lav., 2016, II, 232, con nota di LOZITO; Dir. relazioni ind., 2016, 888 (m), con nota di CAVALLINI);
         p5) sull’obbligo di rinvio qualora altro giudice abbia sollevato questioni interpretative analoghe dinanzi alla Corte di giustizia UE ed il giudizio dinanzi alla stessa sia pendente: Corte di giustizia UE, 09.09.2015, C-72/14 e C-197/14;
p6) sul rapporto tra questioni sollevate dalle parti e definizione dei quesiti ad opera del giudice: Corte giustizia UE, 21.07.2011, C-104/10, Kelly, in Giurisdiz. amm., 2011, III, 723;
         p7) sul rapporto fra ruolo nomofilattico assegnato alle Corti supreme italiane e obbligo di sollevare questione pregiudiziale di interpretazione innanzi alla Corte del Lussemburgo, v., oltre alla già menzionata Plenaria n. 19 del 2016: Cons. Stato, sez. V, 17.03.2016, n. 1090 (oggetto della News US in data 18.03.2016 cui si rinvia per i riferimenti alla giurisdizione ordinaria e contabile); Corte giustizia UE, 05.04.2016, C-689/13, Puligienica, cit.;
         p8) sull’obbligo di motivazione del rifiuto del rinvio: Corte eur. dir. uomo, grande camera 21.07.2015, Schipani et al. c. Italia (in Giur. it., 2015, 10, 2055-2061); id., 08.04.2014, Dhahbi c. Italia (in Foro it., 2014, IV, 289, con nota di D’ALESSANDRO), secondo cui “quando un giudice nazionale di ultima istanza disattenda la richiesta di parte di effettuare un rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del trattato Fue, è tenuto a motivare il proprio rifiuto, sussistendo in caso contrario una violazione dell’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”;
         p9) sul tema dei rapporti fra giudizi (aventi identità di oggetto e soggetti) pendenti innanzi al G.A. italiano ed al giudice europeo Cons. Stato, sez. III, ord. 21.01.2016, n. 195 (in Foro it., 2016, III, 129, con nota di LAGHEZZA – PALMIERI ivi gli ulteriori riferimenti anche a ulteriori pronunce);
         p10) sulle ipotesi di ipotesi di deroga all’obbligo di rinvio, ex art. 267 FUE, individuate dalla giurisprudenza della Corte del Lussemburgo: fra le tante, Corte giustizia UE, 09.09.2015, C-160/14, cit.; 06.10.1982, C-283/81, Cilfit (in Foro it., 1983, IV, 63, con note di TIZZANO e CAPOTORTI; Giust. civ., 1983, I, 3, con nota di CATALANO; Giur. it., 1983, I, 1, 1008, con nota di
CAPOTORTI; Rass. avv. Stato, 1983, I, 47, con nota di LAPORTA), e da quella nazionale (cfr. fra le tante, Corte cost., 15 giugno 2015, n. 110, in Foro it., 2015, I, 2618 con nota di ROMBOLI);
         p11) in dottrina: S. LA CHINA, Rapporti tra Corte di giustizia delle Comunità europee e giudice italiano, in Riv. Trim dir. proc., 1963, 1508 ss.; E. RUSSO, L'interpretazione dei testi normativi comunitari, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano 2008, p. 263 ss.; V. SCALISI, Interpretazione e teoria delle fonti nel diritto privato europeo, Riv. dir. civ., 2009, 4, 413; E. D’ALESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di Giustizia, 3-90, Torino, 2012; P. BIAVATI, Diritto processuale dell’Unione Europea, Milano, 2015; B. MAMELI, Giudicato esterno amministrativo - gli strumenti processuali del diritto nazionale dinnanzi al primato del diritto europeo, Giur. it., 2015, 1, 192; A. BRIGUGLIO, Pregiudiziale comunitaria e processo civile, Padova, 2015, 74 ss.
(Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. V, sentenza 27.11.2019 C-402/18 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Preavviso di diniego.
L’art. 10-bis della legge n. 241/1990 esprime un principio di carattere generale, applicabile a tutti i procedimenti ad istanza di parte, avendo l'istituto del c.d. preavviso di rigetto lo scopo di far conoscere alle Amministrazioni le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che ben potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale.
Si tratta, quindi, di istituto applicabile alla generalità dei procedimenti ad istanza di parte, salvo espressa eccezione, e non rileva affatto, ai fini dell’esclusione della previa comunicazione dei motivi ostativi, il carattere vincolante del provvedimento da assumere (nella fattispecie parere idraulico in una procedura di sdemanializzazione)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2019 n. 2475 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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11.1) In relazione al primo motivo, il Collegio osserva quanto segue.
Si tratta di motivo che, facendo leva sull'omissione del preavviso di rigetto, assume portata assorbente ed impedisce al Collegio l'esame degli ulteriori profili di illegittimità dedotti con il ricorso (Cons. St., sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; id., 14.01.2003, n. 98; id., 17.09.2001, n. 4877; id., 01.09.2000, n. 4649).
La necessità per il giudicante di ritenere concluso il proprio sindacato dopo la positiva definizione della censura che fa leva sulla violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 «va rinvenuta nel fatto che un esame degli ulteriori motivi di ricorso, individuando profili di legittimità o di illegittimità del provvedimento impugnato, finirebbe per vanificare l'obbligo, incombente jussu iudicis sull'Amministrazione, di reiterare il procedimento consentendo, questa volta, al privato interessato di parteciparvi per tentare, con le proprie argomentazioni, di indurre l'Amministrazione a mutare avviso» (Cons. Stato, Sez. III, Sent., 15.10.2019, n. 7019).
11.2) Per il resto, va notato come l’Agenzia del Demanio sia pervenuta alla comunicazione del 04.04.2014, di improcedibilità della domanda di sdemanializzazione, facendo leva sul decreto n. 2011 del 2014 della Regione Lombardia, recante parere negativo vincolante ai fini della summenzionata istanza di sdemanializzazione. Ciò, senza che né la Regione né l’Agenzia abbiano, «prima della formale adozione di un provvedimento negativo», comunicato all’istante, ex art. 10-bis L. 07/08/1990, n. 241, i motivi che ostano all'accoglimento della domanda di sdemanializzazione.
Sennonché, la norma da ultimo citata esprime un principio di carattere generale, applicabile a tutti i procedimenti ad istanza di parte, avendo l'istituto del c.d. preavviso di rigetto lo scopo di far conoscere alle Amministrazioni le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che ben potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale (cfr., ex multis, TAR Campania, Salerno Sez. I, Sent. 24.07.2019, n. 1399).
Si tratta, quindi, di istituto applicabile alla generalità dei procedimenti ad istanza di parte, salvo espressa eccezione (TAR Umbria, sez. I, 12/06/2014, n. 322), nella specie non rinvenibile. Va, anzi, chiarito come –contrariamente alla tesi regionale- non rilevi affatto, ai fini dell’esclusione della previa comunicazione dei motivi ostativi, il carattere vincolante del parere idraulico, atteso che, la partecipazione a presidio della quale è prevista la comunicazione di cui all’art. 10-bis ben avrebbe potuto e dovuto esplicarsi in relazione al predetto parere, stante la complessità degli accertamenti fattuali da esso implicati.
Come chiarito da tempo dalla giurisprudenza, infatti, non assume carattere dirimente, rispetto all’obbligo di comunicazione ex art. 10-bis, l’eventuale natura di atto vincolato del diniego, atteso che: «La regola di cui all'art. 10-bis, L. n. 241 del 1990 deve trovare applicazione anche ai provvedimenti che siano preceduti da un parere vincolante, determinandosi altrimenti una disparità di trattamento affatto irragionevole, poiché fondata sul modello procedimentale seguito per la formazione degli atti e non sulla loro natura; in simili situazioni è dunque onere delle Amministrazioni interessate di comunicare agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della loro domanda, applicando procedure tali da consentire di riconsiderare poi eventualmente, sulla base dell'apporto degli interessati, le proprie determinazioni prima che queste divengano definitive» (TAR Veneto, Sez. II, 03/08/2009, n. 2253; TAR Campania, Salerno, Sez. II, Sent. 05.11.2018, n. 1541, TAR, Veneto, sez. II, sentenza 06/11/2006, n. 3674; TAR Campania, Salerno, Sez. II, Sent., 22.08.2019, n. 1478).
Va, pertanto, ribadita la fondatezza del suesposto motivo, da cui consegue, sul piano conformativo, la necessità che il procedimento sia riattivato da parte dell'Amministrazione, a partire dal momento in cui, «prima della formale adozione di un provvedimento negativo», ex art. 10-bis legge n. 241/1990, è necessario comunicare i motivi che ostano all'accoglimento della domanda.
11.3) L’accoglimento del primo motivo dà luogo all’assorbimento di tutti i restanti motivi, per le ragioni sopra specificate sub n. 11.1.
12) Conclusivamente, quindi, il ricorso va accolto, limitatamente al primo motivo, con assorbimento di tutti i restanti; per l’effetto, vanno annullati i decreti impugnati, essendo l’Amministrazione tenuta a riattivare il procedimento in modo da garantire la partecipazione ad esso dell’istante.

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è concorde nel ritenere che allo stesso regime giuridico dei parcheggi –esenti dal contributo– non possono che essere assoggettati anche i relativi spazi di manovra e di accesso ai garage, secondo i normali canoni di interpretazione logica e teleologica (e niente affatto estensiva), per la semplice ragione che senza i corselli di accesso le autorimesse non sarebbe tali.
Questo stesso Tribunale, peraltro, di recente ha avuto modo di ribadire che ”Dal calcolo dei predetti oneri vanno esclusi anche gli spazi destinati all'accesso e alla manovra dei veicoli, in quanto tecnicamente e logicamente imprescindibili per l'utilizzazione dei parcheggi in relazione alla loro funzione”.
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La domanda di annullamento, parimenti proposta dalla ricorrente ed avente ad oggetto i provvedimenti comunali del 27.02.2017, prot. nn. 989 e 988, è invece fondata e va accolta per le ragioni di seguito precisate.
Sotto un primo profilo, parte ricorrente sostiene che i calcoli contenuti nei suddetti provvedimenti sarebbero errati in quanto non sarebbero stati considerati –ai fini dello scomputo di superficie- la rampa del tunnel e lo spazio di manovra per accedere ai parcheggi. Tale circostanza non è contestata tra le parti, atteso che la stessa difesa dell’Amministrazione Comunale precisa che la sentenza n. 1309/2015 fa riferimento esclusivamente ai parcheggi, senza menzionare i relativi spazi di manovra.
Ebbene, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che allo stesso regime giuridico dei parcheggi –esenti dal contributo– non possono che essere assoggettati anche i relativi spazi di manovra e di accesso ai garage, secondo i normali canoni di interpretazione logica e teleologica (e niente affatto estensiva), per la semplice ragione che senza i corselli di accesso le autorimesse non sarebbe tali (TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 11.07.2014, n. 47).
Questo stesso Tribunale, peraltro, di recente (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 11.09.2017, n. 1087) ha avuto modo di ribadire che ”Dal calcolo dei predetti oneri vanno esclusi anche gli spazi destinati all'accesso e alla manovra dei veicoli, in quanto tecnicamente e logicamente imprescindibili per l'utilizzazione dei parcheggi in relazione alla loro funzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 16.04.2015, n. 1957; TAR Emilia Romagna, Bologna, I, 13.07.2017, n. 545; TAR Lombardia , Milano, II, 21.07.2016, n. 1480)”.
Non vi è ragione per discostarsi dal suddetto orientamento, che appare del tutto logico e ragionevole, per cui sotto tale profilo risultano fondate le doglianze di parte ricorrente con conseguente illegittimità degli atti comunali impugnati (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 22.11.2019 n. 1002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti aventi natura di “atto vincolato” (come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 non essendo prevista per l’amministrazione la possibilità di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
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Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato "contra legem".
Sul punto, occorre richiamare i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 9 del 17.10.2017: “Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. […] Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”
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5. Il ricorso è infondato alla luce del pacifico orientamento giurisprudenziale, condiviso anche da questa Sezione (v. sentenza n. 222/2018), secondo il quale i provvedimenti aventi natura di “atto vincolato” (come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 non essendo prevista per l’amministrazione la possibilità di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo” (Tar Lazio, Sez. II-quater, sentenza n. 5355 del 14.05.2018; Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 2681 del 05.06.2017; Sez. V, sentenza n. 2194 del 28.04.2014).
5.1. Nel caso concreto, peraltro, l’apporto partecipativo del ricorrente, nei termini dallo stesso prospettati in ricorso, non sarebbe stato nemmeno decisivo e tale da indurre ad una rivalutazione dell’accertata abusività delle opere, non potendo al riguardo ritenersi sufficiente, in mancanza di ulteriori riscontri documentali, la sola allegazione di una dichiarazione sostitutiva di atto notorietà al fine di provare che le opere di che trattasi sarebbero state realizzate prima della costruzione del fabbricato, regolarmente assentito, cui le stesse accedono.
6. La natura vincolata del provvedimento impugnato comporta, inoltre, il rigetto della censura afferente ad una pretesa carenza di motivazione per omessa indicazione delle ragioni di interesse pubblico sottese all’ordine demolitorio, tenuto conto dell’epoca di realizzazione del fabbricato nonché della entità dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato "contra legem" (Consiglio di Stato sez. VI 03.10.2017 n. 4580).
Sul punto, occorre richiamare i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 9 del 17.10.2017: “Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. […] Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino” (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 22.11.2019 n. 677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1.- Appalti pubblici – bando di gara – clausole escludenti –identificazione.
Si qualificano come clausole escludenti, in quanto tali immediatamente impugnabili, quelle che prescrivono il possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, ovvero quelle che impongono oneri incomprensibili o sproporzionati, che rendano la partecipazione alla gara incongruamente difficoltosa, che precludano una valutazione di convenienza economica, come pure sono impugnabili i bandi che presentino gravi carenze nell’indicazione dei dati essenziali necessari per la formulazione dell’offerta.
In altri termini, ai fini della perimetrazione del concetto di “clausola escludente”, occorre considerare che è suscettibile di assumere tale connotazione qualunque disposizione, contenuta nella lex specialis di gara, che, a prescindere dal suo contenuto (e cioè indipendentemente dal fatto che abbia ad oggetto un requisito soggettivo od un adempimento da assolvere contestualmente alla presentazione della domanda di partecipazione) e della fase di concreta operatività, sia tale da precludere la partecipazione dell’impresa interessata conseguentemente a contestarla, o comunque da giustificare una prognosi, avente carattere di ragionevole certezza, di esito infausto della sua eventuale partecipazione: è infatti evidente che, ricorrendo tale ipotesi, da un lato, l’impugnazione del provvedimento che sancisca formalmente l’esclusione o la mancata aggiudicazione sarebbe tardiva, essendo ormai cristallizzate le relative vincolanti premesse nell’inoppugnata (ed inoppugnabile) lex specialis, dall’altro lato, la presentazione della domanda di partecipazione rappresenterebbe un adempimento superfluo, se non contraddittorio (con l’affermata inutilità della partecipazione), non presentando alcuna funzionalità rispetto al soddisfacimento dell’interesse perseguito (alla partecipazione e/o aggiudicazione della gara), il quale non potrebbe che avvenire, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso, mediante la rinnovazione ab imis dell’iter procedimentale
(massima free tratta da www.giustamm.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.11.2019 n. 7978 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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Il motivo è infondato.
La giurisprudenza costante qualifica come clausole escludenti, in quanto tali immediatamente impugnabili, quelle che prescrivono il possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara (Cons. Stato, V, 12.04.2019, n. 2387), ovvero quelle che impongono oneri incomprensibili o sproporzionati, che rendano la partecipazione alla gara incongruamente difficoltosa, che precludano una valutazione di convenienza economica, come pure sono impugnabili i bandi che presentino gravi carenze nell’indicazione dei dati essenziali necessari per la formulazione dell’offerta (in termini Cons. Stato, III, 05.12.2016, n. 5113; Ad. plen., 07.04.2011, n. 4; Ad. plen., 29.01.2003, n. 1; Ad. plen., 26.04.2018, n. 4).
In altre parole, ai fini della perimetrazione del concetto di “clausola escludente”, occorre considerare che è suscettibile di assumere tale connotazione qualunque disposizione, contenuta nella lex specialis di gara, che, a prescindere dal suo contenuto (e cioè indipendentemente dal fatto che abbia ad oggetto un requisito soggettivo od un adempimento da assolvere contestualmente alla presentazione della domanda di partecipazione) e della fase di concreta operatività, sia tale da precludere la partecipazione dell’impresa interessata conseguentemente a contestarla, o comunque da giustificare una prognosi, avente carattere di ragionevole certezza, di esito infausto della sua eventuale partecipazione; è infatti evidente che, ricorrendo tale ipotesi, da un lato, l’impugnazione del provvedimento che sancisca formalmente l’esclusione o la mancata aggiudicazione sarebbe tardiva, essendo ormai cristallizzate le relative vincolanti premesse nell’inoppugnata (ed inoppugnabile) lex specialis, dall’altro lato, la presentazione della domanda di partecipazione rappresenterebbe un adempimento superfluo, se non contraddittorio (con l’affermata inutilità della partecipazione), non presentando alcuna funzionalità rispetto al soddisfacimento dell’interesse perseguito (alla partecipazione e/o aggiudicazione della gara), il quale non potrebbe che avvenire, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso, mediante la rinnovazione ab imis dell’iter procedimentale (così Cons. Stato, III, 21.01.2019, n. 513).
In tale cornice sistematica di inquadramento non appare al Collegio configurabile, nella fattispecie controversa, una lex specialis con clausole escludenti, legittimante la sua immediata impugnativa, e, in relazione biunivoca, la mancata presentazione la domanda di partecipazione, altrimenti costituente il presupposto della situazione differenziata che, per regola generale, integra il requisito della condizione dell’azione (della legittimazione al ricorso).
Con la conseguenza che chi volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare ad una selezione, non è legittimato a chiedere l’annullamento della gara, ancorché possa vantare un interesse di fatto a che la competizione, per lui res inter alios acta, venga nuovamente bandita.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAUrbanizzazione a scomputo è opera pubblica, ok revoca della convenzione per interdittiva antimafia.
Con la sentenza 21.11.2019 n. 7947, la Sezione III del Consiglio di Stato ha affermato che gli atti convenzionali che prevedono l'obbligo per il privato di realizzare opere di urbanizzazione a scomputo possono (rectius, debbono) essere revocati dal Comune in presenza di una interdittiva antimafia che vada a colpire il soggetto attuatore.
Il Consiglio di Stato giunge a tale conclusione muovendo dalla considerazione per cui gli interventi di urbanizzazione posti a carico del privato costituiscono un'opera pubblica e, dunque, soggiacciono anch'essi alla disciplina di cui agli articoli 83 e 94 del DLgs n. 159/2011 (Codice antimafia) che prevedono l'obbligo dell'Amministrazione di acquisire l'informazione antimafia prima della sottoscrizione del contratto ovvero l'obbligo di revoca del contratto qualora successivamente il soggetto privato risulti destinatario di interdittiva antimafia.
La sentenza del Consiglio di Stato riforma la sentenza di primo grado con la quale il Tar Parma aveva ritenuto illegittima la revoca della convenzione urbanistica disposta dal Comune in base ad una interpretazione letterale del Codice antimafia. In particolare, ad avviso del Giudice di prime cure, gli articoli 83 e 94 del Codice antimafia:
   - fanno esclusivo riferimento agli appalti pubblici e, segnatamente, ai contratti di lavori, servizi e forniture;
   - non fanno alcun riferimento alle convenzioni urbanistiche aventi ad oggetto l'esecuzione da parte dell'attuatore di opere di urbanizzazione;
   - pertanto, non legittimano la revoca della convenzione urbanistica in presenza di una interdittiva antimafia intervenuta successivamente alla stipula della convenzione urbanistica. Dunque, ad avviso del Giudice di prime cure, la materia delle convenzioni urbanistiche sarebbe avulsa dalla disciplina degli articoli 83 e 94 del Codice antimafia.
La decisione
Nel riformare la suddetta decisione, il Consiglio di Stato ha invece affermato che il Codice antimafia costituisce un apparato normativo «del tutto idoneo a legittimare l'esercizio del potere di autotutela su atti convenzionali implicanti l'obbligo di realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo».
Il Giudice di appello giunge a tale affermazione in ragione:
   - della natura di opera pubblica degli interventi di urbanizzazione posti a carico del privato a) in quanto funzionali al conseguimento di esigenze non limitate al semplice insediamento individuale, b) la cui realizzazione è demandata al soggetto attuatore in forza di un mandato espresso conferitogli dall'Amministrazione;
   - del carattere oneroso della clausola della convenzione urbanistica che prevede lo scomputo degli oneri di urbanizzazione da quelli di concessione poiché comporta da parte dell'Amministrazione la rinuncia, totale o parziale, ai contributi concessori;
   - della definizione di cui all'articolo 32, comma 1, lett. g), del Dlgs n. 163/2006 oggi riprodotto dal vigente articolo 1, comma 2, lett. e) del Dlgs n. 50/2016 - in base al quale soggiacciono alla disciplina dei contratti pubblici, anche i «lavori pubblici da realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di permesso di costruire, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso ()».
Pertanto, la natura delle opere di urbanizzazione a scomputo non sfugge alla disciplina del Codice antimafia (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.12.2019).
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SENTENZA
2.3. Il Collegio ritiene fondato il motivo dell’appello principale.
2.4. In merito alla natura della convenzione accessoria al piano di lottizzazione, o ad altro strumento urbanistico attuativo, contemplante l'esecuzione di opere di urbanizzazione da parte del privato con scomputo dei relativi costi da quelli di concessione - si è da tempo consolidato un indirizzo interpretativo secondo il quale:
   i) gli interventi di urbanizzazione posti a carico del privato -essendo funzionali al conseguimento di esigenze non limitate al semplice insediamento individuale- danno luogo ad un'opera pubblica, la cui realizzazione è demandata al soggetto attuatore in virtù di un mandato espresso conferitogli dall'amministrazione (cfr. Corte Cost. n. 129/2006 e n. 269/2007);
   ii) la clausola che preveda lo scomputo dei relativi oneri da quelli di concessione conferisce al rapporto carattere di onerosità, poiché comporta da parte dell’amministrazione la rinuncia, totale o parziale, ai contributi concessori (cfr. Corte di Giustizia UE, sez. VI, n. 399/2011);
   iii) ne consegue che l'affidamento di tali lavori integra un appalto pubblico nella lata accezione recepita nelle direttive comunitarie e poi trasfusa normativamente nell'articolo 32, comma 1, lettera g), del d.lgs. 163/2006 (disposizione applicabile anche per le opere sotto soglia, ai sensi dell'articolo 122, comma 8, del d.lgs. 163/2006; cfr. ex multis, Cass. civ., sez. II, n. 8798/2018 e sez. I, n. 15340/2016).
2.5. Le conclusioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza trovano piena rispondenza nelle determinazioni ANAC (ex AVCP) n. 4/2008 del 02.04.2008 e n. 7 del 16.07.2009, altrettanto univoche nel segnalare che "la realizzazione di opere prevista dalle convenzioni urbanistiche rientra nella nozione di appalto pubblico di lavori" (determinazione n. 4/2008); e che "l'articolo 32, comma 1, lett. g), primo periodo, del Codice configura una titolarità "diretta", ex lege, della funzione di stazione appaltante in capo al privato titolare del permesso di costruire (ovvero titolare del piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo contemplante l'esecuzione di opere di urbanizzazione) che in quanto "altro soggetto aggiudicatore" è tenuto ad appaltare le opere di urbanizzazione a terzi nel rispetto della disciplina prevista dal Codice e, in qualità di stazione appaltante, è esclusivo responsabile dell'attività di progettazione, affidamento e di esecuzione delle opere di urbanizzazione primarie e secondarie, ferma restando la vigilanza da parte dell'amministrazione consistente, tra l'altro, nell'approvazione del progetto e di eventuali varianti" (determinazione n. 7/2009).
2.6. A ciò aggiungasi che gli artt. 83 e 94 d.lgs. n. 159/2011 delineano una nozione di “contratto relativo a lavori pubblici” del tutto compatibile con quella poc’anzi tratteggiata. Di più, è la stessa parte appellante a sostenere che l’art. 83 d.lgs. 159/2011 è da intendersi riferito ai “contratti pubblici” che trovano la propria disciplina nel d.lgs. n. 163/2006 e, oggi, nel d.lgs. n. 50/2016.
2.7. Alla luce delle premesse sin qui svolte, si può quindi ritenere che il codice antimafia appresti un apparato normativo del tutto idoneo a legittimare l’esercizio del potere di autotutela su atti convenzionali implicanti l’obbligo di realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo.

URBANISTICA: Notifica del ricorso avverso il PGT alla Regione e alla Provincia.
Va respinta l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Amministrazione comunale con la quale si eccepisce che il ricorso avvero il PGT non sia stato notificato né alla Regione né alla Provincia, atteso che il ricorso non investe, in alcun modo, atti o singole prescrizioni dettate da tali Amministrazioni ma, esclusivamente, la legittimità dell’operato comunale.
Né tali Amministrazioni assumono la qualifica di controinteressate non essendo predicabile in capo alle stesse un interesse speculare a quello fatto valere in giudizio dalla parte ricorrente e non essendo, comunque, ravvisabile la sussistenza di controinteressati in relazione ad un atto di pianificazione generale del territorio
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7. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Amministrazione comunale che osserva come il ricorso non sia notificato né alla Regione Lombardia né alla Provincia di Milano “al cui PTCP il PGT del Comune di Vittuone deve conformarsi ed attuare in ambito territoriale locale”.
7.1. L’eccezione è priva di fondamento atteso che il ricorso non investe, in alcun modo, atti o singole prescrizioni dettate da tali Amministrazione ma, esclusivamente, la legittimità dell’operato comunale. Né tali Amministrazioni assumono la qualifica di controinteressate non essendo predicabile in capo alle stesse un interesse speculare a quello fatto valere in giudizio dalla parte ricorrente e non essendo, comunque, ravvisabile la sussistenza di controinteressati in relazione ad un atto di pianificazione generale del territorio (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 20.06.2019, n. 4225; Consiglio di Stato, sez. V, 10.04.2018, n. 2164; Consiglio di Stato, sez. VI, 03.03.2004, n. 1052; Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7813; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 21.07.1997, n. 14; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 08.05.1996, n. 2). (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.11.2019 n. 2458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare”.
In sostanza, la giurisprudenza consente il controllo giurisdizionale dell’operato dell’Amministrazione avendo riguardo, ex aliis, alla coerenza della disciplina con gli “scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”, alla ragionevolezza e non arbitrarietà delle scelte, e, in ultimo (seppur costituisca, invero, il primum movens di ogni valutazione discrezionale), alla corretta disamina e verifica della situazione di fatto correlata alle esigenze che l’Amministrazione intende perseguire.

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8. Entrando in medias res, può procedersi ad esaminare congiuntamente il primo ed il secondo motivo di ricorso in quanto sostanzialmente connessi.
8.1. In linea generale va premesso che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283/2015).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza dell’intestato Tribunale secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 09.12.2016, n. 2328; cfr., inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.12.2018, n. 2715; Id., 03.12.2018, n. 2718; Id., 21.01.2019, n. 119; Id., 05.07.2019, n. 1557; Id., 16.10.2019, n. 2176).
8.2. In sostanza, la giurisprudenza consente il controllo giurisdizionale dell’operato dell’Amministrazione avendo riguardo, ex aliis, alla coerenza della disciplina con gli “scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”, alla ragionevolezza e non arbitrarietà delle scelte, e, in ultimo (seppur costituisca, invero, il primum movens di ogni valutazione discrezionale), alla corretta disamina e verifica della situazione di fatto correlata alle esigenze che l’Amministrazione intende perseguire
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.11.2019 n. 2458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo l’univoco orientamento della Sezione, il termine per l'approvazione del P.G.T. stabilito dall'articolo 13, comma 7 (e 7-bis), della L.R. n. 12 del 2005 ha carattere ordinatorio e non perentorio e che, conseguentemente, il superamento di tale scadenza non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria.
La Sezione rileva che “della disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi necessariamente un'interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l'osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l'esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l'efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l'approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell'inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione [aderisce], [evidenzia]che la previsione dell'inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell'articolo 13, comma 7, della L.R. n. 12 del 2005, il quale prevede che entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni".
Ciò consente di riferire la sanzione dell'inefficacia all'inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell'obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni.

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13. Con il settimo motivo la ricorrente osserva come il P.G.T. sia posto in pubblicazione per un numero totale di giorni pari a 55 (e, precisamente, dal 04.08.2010 al 28.09.2010), con termine per la presentazione delle osservazioni di 31 giorni (dal 29.09.2010 al 30.10.2010), risultando approvato dal Consiglio Comunale oltre i termini di cui all’articolo 13, comma 4, della L.r. 12/2005.
13.1. Il motivo è infondato.
13.2. La previsione invocata dalla parte ricorrente dispone testualmente: “Entro novanta giorni dall’adozione, gli atti di PGT sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni. Gli atti sono altresì pubblicati nel sito informatico dell’amministrazione comunale. Del deposito degli atti e della pubblicazione nel sito informatico dell’amministrazione comunale è fatta, a cura del comune, pubblicità sul Bollettino ufficiale della Regione e su almeno un quotidiano o periodico a diffusione locale”.
13.3. L’approvazione del P.G.T. è regolata dalla previsione contenuta all’interno dell’articolo 13, comma 7, della L.r. n. 12/2005 che testualmente dispone: “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
13.4. In relazione a tale disposizione va richiamato “l’univoco orientamento della Sezione, secondo il quale il termine per l'approvazione del P.G.T. stabilito dall'articolo 13, comma 7 (e 7-bis), della L.R. n. 12 del 2005 ha carattere ordinatorio e non perentorio e che, conseguentemente, il superamento di tale scadenza non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508)” (TAR per la Lombardia – sede di Milano – sez. II, 22.01.2019, n. 122).
La Sezione rileva che “della disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi necessariamente un'interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l'osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l'esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l'efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l'approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell'inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione [aderisce], [evidenzia]che la previsione dell'inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell'articolo 13, comma 7, della L.R. n. 12 del 2005, il quale prevede che entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni". Ciò consente di riferire la sanzione dell'inefficacia all'inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell'obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.02.2017, n. 572; TAR Lombardia, Milano, II, 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097)
” (TAR per la Lombardia – sede di Milano – sez. II, 22.01.2019, n. 122).
13.5. Il motivo è, pertanto, infondato e meritevole di reiezione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.11.2019 n. 2458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sull'obbligo, o meno, dell'Amministrazione Comunale ad agire nel caso di presentazione da parte dei privati di una proposta di modifica degli strumenti urbanistici vigenti.
L’istanza formulata dalla ricorrente di modifica del P.E.C. (Piano Esecutivo Convenzionato) e della relativa convenzione si atteggia necessariamente e pregiudizialmente come istanza di modifica del PRGC.
L’Amministrazione non ha dato riscontro a tale istanza in maniera legittima laddove, secondo consolidati principi giurisprudenziali, non aveva alcun obbligo di farlo.
La giurisprudenza ritiene infatti inammissibile il rimedio dell’azione sul silenzio per reagire all’inerzia della P.A. a fronte di istanze di modifiche degli atti di pianificazione.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che “In caso di presentazione da parte dei privati di una proposta di modifica degli strumenti urbanistici vigenti, l'Amministrazione non è tenuta ad attivare la relativa procedura in quanto l'interesse particolare del singolo ad ottenere una variante urbanistica di un piano urbanistico approvato, valido ed efficace è di mero fatto e, come tale, non riceve tutela giurisdizionale”.
Analogamente, è stato affermato che “Agli atti di pianificazione del territorio, proprio perché atti amministrativi generali, si applica il principio enunciato con riferimento agli atti regolamentari, in relazione ai quali è esclusa l'ammissibilità dello speciale rimedio processuale avverso il silenzio-inadempimento della p.a., in quanto strettamente circoscritto alla sola attività amministrativa di natura provvedimentale; è, pertanto, inammissibile il ricorso avverso il silenzio serbato sulla richiesta di modifica della destinazione urbanistica dei terreni, a suo tempo impressa dal Consiglio comunale con la delibera di approvazione dello strumento urbanistico generale, avverso la quale gli interessati non avevano proposto rituale ricorso".

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1. Con ricorso ex art. 31 c.p.a. notificato a mezzo posta in data 8-13.05.2019 e depositato il 20 maggio successivo, la società Fr. s.r.l. a socio unico ha premesso quanto segue:
   - la società ricorrente è subentrata nel 2010 in un P.E.C. (Piano Esecutivo Convenzionato) approvato dal Comune di Predosa nel novembre del 2009 e nella relativa convenzione attuativa stipulata il 09.04.2010 per la realizzazione su aree di proprietà privata, di circa 32.000 mq, di quattro fabbricati produttivi e delle relative opere di urbanizzazione, in conformità al P.R.G. vigente;
   - la convenzione prevede, tra l’altro, la realizzazione a carico del soggetto attuatore, in un arco temporale di dieci anni, di un raccordo ferroviario privato ad uso esclusivo dell’insediamento produttivo, così come previsto dall’art. 27 comma 5 allegato A) delle N.T.A. del P.R.G.C. del Comune di Predosa;
   - allo stato, sono stati assentiti e realizzati due dei quattro capannoni produttivi previsti dal P.E.C.;
   - con nota del 26.07.2018, la società ricorrente ha chiesto al sindaco la disponibilità dell’amministrazione ad una modifica della convenzione urbanistica, segnalando in particolare l’impossibilità per la società ricorrente di realizzare il raccordo ferroviario, anche in ragione del fatto che Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. avrebbe posto quale condizione per l’assenso all’esercizio del medesimo un numero minimo di passaggi/carro per anno economicamente insostenibile nelle attuali condizioni di mercato e di crisi economica;
   - il Sindaco ha risposto il 12.09.2018 evidenziando le ragioni di carattere ambientale che hanno indotto la Regione all’inserimento di tale vincolo in sede di approvazione della variante generale al PRGC, in considerazione dell’impatto ambientale negativo correlato al trasporto delle merci su gomma; ma nel contempo ha manifestato la disponibilità dell’amministrazione a rinunciare al raccordo ferroviario a fronte di opere compensative volte a migliorare i servizi comunali e il bilancio ambientale del territorio;
   - il 17.12.2018 la società ricorrente ha formulato una nuova istanza al Comune, chiedendo l’approvazione di una variante di PEC “intesa ad eliminare, previa o contestuale variante al PRGC (art. 27 D. di A.), la previsione del raccordo ferroviario”, con oneri economici interamente a carico della richiedente; nell’istanza la richiedente ha evidenziato, in particolare, l’esigenza di provvedere all’approvvigionamento della centrale a biomasse (realizzata in attuazione del PEC) in un raggio di non oltre 70 km, come da autorizzazione provinciale, raggio all’interno del quale sarebbero pochissimi i punti di raccordo ferroviario attrezzati, per accedere ai quali i mezzi su gomma della ricorrente dovrebbero percorrere un chilometraggio ancora maggiore di quello che percorrerebbero accedendo direttamente alla centrale produttiva, e quindi con un maggiore impatto ambientale;
   - ha esposto la ricorrente che, a distanza di circa 5 mesi dalla predetta istanza, il Comune non ha ancora dato alcun riscontro, né ha comunicato l’avvio del procedimento e il nome del relativo responsabile, nonostante due solleciti della richiedente.
2. Ciò premesso, la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 40 e 43 della L.R. n. 56/1977 in forza dei quali sulle istanze di modifica di piani esecutivi convenzionati il Comune deve deliberare entro 90 giorni dalla presentazione della domanda; ha chiesto, pertanto, che il TAR accerti l’illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione comunale e la condanni a provvedere entro breve prefiggendo termine, con riserva di separata azione per il risarcimento dei danni.
...
7. Il ricorso è inammissibile.
7.1. L’area produttiva oggetto del presente giudizio è inclusa nella nell’area “D3” del P.R.G. del Comune di Predosa, approvato con D.G.R. n. 26-10731 del 09.02.2009.
L’area D3 del PRGC è disciplinata dall’art. 27, comma 5, delle NTA, il quale prevede, tra l’altro, che “(…) l’attuazione dell’area D3, ubicata a ridosso della linea ferroviaria Ovada-Alessandria è subordinata alla realizzazione di un raccordo ferroviario al servizio dell’area stessa (…)”.
Tale prescrizione è stata richiamata sia nel P.E.C. del 2009 -lettera d) delle Premesse e Tavola III del PEC– sia nella Convenzione attuativa del 2010 (art. 3 lett. b).
Il PEC è ancora in corso di validità (scadrà nell’aprile 2020) ed è stato attuato per circa la metà.
7.2. In tale contesto, l’istanza formulata dalla ricorrente in data 17.12.2018 di modifica del PEC e della relativa convenzione, si atteggia necessariamente e pregiudizialmente come istanza di modifica del PRGC (e difatti la ricorrente l’ha chiesta espressamente nella propria istanza del 17.12.2018).
7.3. L’Amministrazione non ha dato riscontro a tale istanza; peraltro, secondo consolidati principi giurisprudenziali, non aveva alcun obbligo di farlo.
La giurisprudenza ritiene infatti inammissibile il rimedio dell’azione sul silenzio per reagire all’inerzia della P.A. a fronte di istanze di modifiche degli atti di pianificazione.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che “In caso di presentazione da parte dei privati di una proposta di modifica degli strumenti urbanistici vigenti, l'Amministrazione non è tenuta ad attivare la relativa procedura in quanto l'interesse particolare del singolo ad ottenere una variante urbanistica di un piano urbanistico approvato, valido ed efficace è di mero fatto e, come tale, non riceve tutela giurisdizionale” (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.03.2013 n. 1349).
Analogamente, è stato affermato che “Agli atti di pianificazione del territorio, proprio perché atti amministrativi generali, si applica il principio enunciato con riferimento agli atti regolamentari, in relazione ai quali è esclusa l'ammissibilità dello speciale rimedio processuale avverso il silenzio-inadempimento della p.a., in quanto strettamente circoscritto alla sola attività amministrativa di natura provvedimentale; è, pertanto, inammissibile il ricorso avverso il silenzio serbato sulla richiesta di modifica della destinazione urbanistica dei terreni, a suo tempo impressa dal Consiglio comunale con la delibera di approvazione dello strumento urbanistico generale, avverso la quale gli interessati non avevano proposto rituale ricorso" (TAR Cagliari , sez. II, 21/11/2018, n. 985).
7.4. In definitiva, la società ricorrente è subentrata in un P.E.C. e nella relativa convenzione attuativa, entrambi a loro volta attuativi di una previsione del PRGC, ed è vincolata a rispettarli.
7.5. Peraltro, alla luce di quanto esposto dal segretario comunale nella propria relazione sui fatti di causa, l’efficacia del P.E.C. è prossima a scadenza (scadrà nell’aprile 2020) e a quella data l’amministrazione valuterà se mantenere ferme le previsioni del vigente art. 27, comma 5, N.T.A del PRGC, oppure verificare la fattibilità di una variante dello strumento urbanistico secondo quanto prospettato da Fr., nel caso in cui emergessero soluzioni alternative al raccordo ferroviario, conseguenti all’eventuale decisione di consentire il non completamento della zona D3 per le parti non attuate.
7.5. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile, dal momento che la proponibilità dell’azione sul silenzio di cui all’art. 31 c.p.a. è subordinata all’esistenza di un obbligo dell’amministrazione di provvedere, che nel caso di specie non sussiste (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.11.2019 n. 1160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Regola della pubblicità della gara – Apertura delle buste – Obbligo di portare preventivamente a conoscenza dei concorrenti la data e il luogo della seduta – Possibilità effettiva di presenziare alle operazioni.
La regola generale della pubblicità della gara, segnatamente con riguardo al momento dell’apertura delle buste contenenti le offerte (economiche), implica l’obbligo di portare preventivamente a conoscenza dei concorrenti il giorno, l’ora e il luogo della seduta della commissione di gara, in modo da garantire loro l’effettiva possibilità di presenziare allo svolgimento delle operazioni di apertura dei plichi pervenuti alla stazione appaltante (cfr. TAR Puglia–Bari, Sez. II, n. 294/2018; TAR Puglia–Lecce, Sez. II, 4 n. 1434/2017; C.d.S., Sez. V, n. 3911/2016; id., n. 3471/2004) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.11.2019 n. 2450 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Obbligo di informazione sul momento di apertura delle buste economiche.
La regola generale della pubblicità della gara, segnatamente con riguardo al momento dell’apertura delle buste contenenti le offerte (economiche), implica l’obbligo di portare preventivamente a conoscenza dei concorrenti il giorno, l’ora e il luogo della seduta della commissione di gara, in modo da garantire loro l’effettiva possibilità di presenziare allo svolgimento delle operazioni di apertura dei plichi pervenuti alla stazione appaltante (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.11.2019 n. 2450 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.2.3. Nel merito, il secondo motivo del ricorso principale è fondato.
È pacifico che la ricorrente non è stata convocata alla seduta pubblica del 19.03.2019 relativa al lotto n. 4 e che, pertanto, non ha potuto presenziare alla stessa.
Nella fattispecie, quindi, risulta sicuramente violata una delle regole di pubblicità che informano le procedure ad evidenza pubblica propedeutiche all’affidamento di contratti di appalto.
Al riguardo, il Collegio ritiene condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la regola generale della pubblicità della gara, segnatamente con riguardo al momento dell’apertura delle buste contenenti le offerte (economiche), implica l’obbligo, in specie inadempiuto, di portare preventivamente a conoscenza dei concorrenti il giorno, l’ora e il luogo della seduta della commissione di gara, in modo da garantire loro l’effettiva possibilità di presenziare allo svolgimento delle operazioni di apertura dei plichi pervenuti alla stazione appaltante (cfr. TAR Puglia-Bari, Sez. II, n. 294/2018; TAR Puglia-Lecce, Sez. II, 4 n. 1434/2017; C.d.S., Sez. V, n. 3911/2016; id., n. 3471/2004).
Il motivo, pertanto, va accolto, in disparte ogni altra considerazione.

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni: la Cassazione sulla possibilità di deroghe locali. La legittimità della deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi.
In tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla disciplina stabilita dalla normativa statale, da parte degli strumenti urbanistici regionali deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati ("gruppi di edifici") che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni, considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a conformare un assetto complessivo di determinate zone.
Ciò in quanto la legittimità di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi.
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1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 9 d.m. 1444/1968 nonché degli articoli 17 e 34 delle N.T.A. del PRG del Comune di Pianoro nonché della legge regionale n. 47/1978 e particolarmente degli articoli 8,24, 25,39 nonché l'omessa ed insufficiente motivazione.
1.1. In particolare si contesta la legittimità della tesi sostenuta nella pronuncia gravata secondo cui il piano particolareggiato e la lottizzazione convenzionata esauriscono la gamma degli strumenti urbanistici nell'ambito dei quali è consentita la deroga alla previsione della distanza minima di metri 10 tra edifici con pareti finestrate prevista dall'art. 9 secondo comma d.m. 1444/1968.
Al contrario, sostiene il ricorrente, la corte distrettuale avrebbe dovuto considerare lo strumento urbanistico di dettaglio utilizzato nel caso di specie, e cioè il progetto unitario e, in base al raffronto con la previsione dell'art. 17 e 34 delle NTA, ricondurre la fattispecie concreta a quella assimilabile alla tipologia di interventi che consentono la richiamata deroga dal rispetto delle distanze.
1.2. La censura è infondata.
1.3. Premesso che l'articolo 9 ultimo comma d.m. 1444/1968 prevede che "Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche", l'interpretazione operata dalla corte bolognese è conforme a legge.
1.4. Come, infatti, chiarito anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 6/2013 avente ad oggetto la legittimità costituzionale della legge Regione Marche n. 31/1979, gli strumenti urbanistici che consentono la deroga prevista dall'art. 9, ultimo comma, d.m. 1444/1968 sono tipici, giacché il regime delle distanze fra costruzioni nei rapporti tra privati appartiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, cui le Regioni possono derogare solo con previsioni più rigorose, funzionali all'assetto urbanistico del territorio (cfr. nello stesso senso Cass. 18588/2018; id. 26518/2018).
1.5. Al di fuori di tale bilanciamento di interessi, è stato chiarito che in tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla disciplina stabilita dalla normativa statale, da parte degli strumenti urbanistici regionali deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati ("gruppi di edifici") che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni, considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a conformare un assetto complessivo di determinate zone; ciò in quanto la legittimità di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi (cfr. Cass. 27638/2018).
1.6. La conclusione della corte bolognese si inscrive in questa ricostruzione ermeneutica e correttamente ha ritenuto che lo strumento del piano unitario, non finalizzato a considerare interessi superindividuali rispetto a quelle dei due privati che l'hanno presentato, non è equiparabile ad un piano particolareggiato e ad una lottizzazione convenzionata, risolvendosi, come è stato osservato, in una istanza congiunta di concessione edilizia relativa a singole costruzioni e non concernente in alcun modo l'assetto urbanistico di un'intera area del territorio comunale (cfr. Cass. 3803/2014, in tema di strumento urbanistico definito Studio Unitario d'Ambito previsto dalla Legge Urbanistica Piemontese n. 56/1977).
1.7. La natura pubblicistica degli interessi che possono giustificare la deroga alla disciplina sulle distanze fra edifici comporta che in difetto di ciò, il preventivo assenso alla sopraelevazione attestato dalla firma congiunta non possa, nel caso di specie, esonerare l'opera di sopraelevazione posta in essere dal ricorrente dal rispetto di quelle distanze (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 18.11.2019 n. 29867).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, le “tettoie”, nel senso comune del termine ovvero quali strutture aperte, hanno natura pertinenziale e sono sottratte al regime del permesso di costruire, ove la loro conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell'immobile cui accedono.
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Per costante giurisprudenza, infatti, le “tettoie”, nel senso comune del termine ovvero quali strutture aperte, hanno natura pertinenziale e sono sottratte al regime del permesso di costruire, ove la loro conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell'immobile cui accedono (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.03.2014 n. 1272; Sez. VI, 04.03.2019, n. 1480)
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.11.2019 n. 7864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
Ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul “carico urbanistico” mediante la creazione di un “nuovo volume”; manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
“La pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui non può essere considerata tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa”.

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Per la giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, la nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico/edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
Ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul “carico urbanistico” mediante la creazione di un “nuovo volume”; manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.01.2018, n. 24; 02.02.2017, n. 694; Sez. IV, 04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 11.03.2014, n. 3952).
La pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui non può essere considerata tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa” (Consiglio di Stato Sez. IV, 26.03.2013, n. 1709, con specifico riferimento alla nozione di pertinenza indicata dalla legge regionale della Valle d’Aosta n. 1 del 2004 e alla delibera della Giunta regionale sopra citata per l’ammissibilità del condono edilizio in caso di aumento di volume)
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.11.2019 n. 7864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività per sua natura di carattere urgente e natura vincolata che non richiede l’invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
L’omissione di tale adempimento non assume del resto nella specie alcuna efficacia invalidante ove si consideri il disposto dell’articolo 21-octies della legge 241 del 1990, che prevede la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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3. La prima censura stigmatizza l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, da cui il ricorrente inferisce l’illegittimità dell’atto conclusivo del procedimento.
3.1. La doglianza non ha pregio.
3.2. L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce -infatti- attività per sua natura di carattere urgente e natura vincolata che non richiede l’invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (ex multis TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 29.03.2019, n. 4211).
3.3. L’omissione di tale adempimento non assume del resto nella specie alcuna efficacia invalidante ove si consideri il disposto dell’articolo 21-octies della legge 241 del 1990, che prevede la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.11.2019 n. 990 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di opera precaria con riferimento a un dehors.
La facile amovibilità nonché la mancanza di impianto di riscaldamento non costituiscono elementi idonei a conferire a un dehors le caratteristiche di un'opera precaria, ove tale struttura non abbia un utilizzo contingente e limitato nel tempo, ma sia destinata a soddisfare bisogni duraturi e non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione.
Va esclusa, inoltre, l’asserita valenza puramente pertinenziale del manufatto, in relazione al suo stretto collegamento con l’edificio principale, atteso che, per il suo impatto volumetrico, la veranda attrezzata nella fattispecie esaminata incide significativamente e in modo permanente sull'assetto edilizio dell’enoteca a cui è asservita, del quale amplia la superficie e la volumetria utile, così creando un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni, stabilmente destinato ad estensione, in ogni periodo dell’anno, del locale interno, e pertanto, per consistenza e funzione, deve essere qualificato come nuova opera, comportando una rilevante trasformazione edilizia del territorio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.11.2019 n. 990 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3.4. Con la seconda censura il ricorrente deduce che l’ordinanza impugnata è illegittima perché il manufatto realizzato non necessiterebbe di titolo edilizio.
3.5. L’argomento non è condivisibile.
3.6. In merito alla dedotta precarietà del manufatto, l'asserita "facile amovibilità" nonché la mancanza di impianto di riscaldamento non costituiscono elementi idonei a conferire al dehors le caratteristiche di un'opera precaria, atteso che tale struttura non ha un utilizzo contingente e limitato nel tempo, ma è destinata a soddisfare bisogni duraturi e non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione, come è dimostrato nei fatti dalla circostanza che lo stesso viene mantenuto in loco e viene utilizzato da più di 7 anni (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
3.7. Va esclusa, inoltre, l’asserita valenza puramente pertinenziale del manufatto, in relazione al suo stretto collegamento con l’edificio principale, atteso che, per il suo impatto volumetrico, la veranda attrezzata incide significativamente e in modo permanente sull'assetto edilizio dell’enoteca, del quale amplia la superficie e la volumetria utile. Il ricorrente ha creato un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni, stabilmente destinato ad estensione, in ogni periodo dell’anno, del locale interno, e pertanto, per consistenza e funzione, deve essere qualificato come nuova opera, comportando una rilevante trasformazione edilizia del territorio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. I, 06.05.2013, n. 1193).
3.8. Per le considerazioni esposte l’ordinanza gravata risulta immune dai denunciati vizi di legittimità, donde l’infondatezza del ricorso principale.

EDILIZIA PRIVATA: Circa il diniego di rilascio del permesso di costruire in sanatoria, va evidenziata la fondatezza della censura relativa alla violazione dell’articolo 10-bis della legge 241 del 1990, per omissione del preavviso di rigetto.
Detta violazione procedimentale, che preclude al soggetto interessato la piena partecipazione al procedimento, invalida infatti il provvedimento finale di diniego, in quanto, dato il suo carattere non vincolato, non risulta applicabile la sanatoria processuale ex articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990.
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Merita accoglimento anche la censura di difetto di motivazione dell’avversato diniego, atteso che la determinazione avversata è totalmente priva dell’indicazione dei presupposti in fatto e delle ragioni giuridiche che precludono il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria, non rendendo palese al destinatario dell’atto l’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione procedente.
Infatti costituisce ius receptum che “il provvedimento di diniego del rilascio della concessione di costruzione in sanatoria deve compiutamente motivare l’effettivo contrasto tra l’opera realizzata e gli strumenti urbanistici e tale contrasto deve essere evidenziato in maniera intelligibile, così da consentire al soggetto interessato di impugnare l’atto davanti al G.A., denunziando non solo i vizi propri della motivazione, ma anche le errate interpretazioni delle norme urbanistiche valutate col giudizio di non conformità.
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4. I motivi aggiunti, diretti a censurare il diniego di rilascio del permesso di costruire in sanatoria, meritano invece accoglimento.
4.1. In primo luogo va evidenziata la fondatezza della censura relativa alla violazione dell’articolo 10-bis della legge 241 del 1990, per omissione del preavviso di rigetto. Detta violazione procedimentale, che preclude al soggetto interessato la piena partecipazione al procedimento, invalida infatti il provvedimento finale di diniego, in quanto, dato il suo carattere non vincolato, non risulta applicabile la sanatoria processuale ex articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990.
4.2. Merita accoglimento anche la censura di difetto di motivazione dell’avversato diniego, atteso che la determinazione avversata è totalmente priva dell’indicazione dei presupposti in fatto e delle ragioni giuridiche che precludono il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria, non rendendo palese al destinatario dell’atto l’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione procedente.
4.3 Infatti costituisce ius receptum che “il provvedimento di diniego del rilascio della concessione di costruzione in sanatoria deve compiutamente motivare l’effettivo contrasto tra l’opera realizzata e gli strumenti urbanistici e tale contrasto deve essere evidenziato in maniera intelligibile, così da consentire al soggetto interessato di impugnare l’atto davanti al G.A., denunziando non solo i vizi propri della motivazione, ma anche le errate interpretazioni delle norme urbanistiche valutate col giudizio di non conformità (cfr. ex multis TAR Lazio Roma, sez. II, 19.07.2005 , n. 5736)” (TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 23.03.2010, n. 1578).
4.4. All’accoglimento dei motivi aggiunti consegue la pronuncia di annullamento del diniego di sanatoria, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rideterminarsi sulla corrispondente istanza, nel rispetto dell’effetto conformativo proprio della presente pronuncia (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.11.2019 n. 990 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATALa giurisdizione sulla ordinanza-ingiunzione relativa agli oneri di urbanizzazione ed al contributo sul costo di costruzione appartiene al giudice amministrativo, anche quando tale atto sia emesso nella forma disciplinata dall’art. 2 r.d. 14.04.1910 n. 639.
Si tratta infatti di materia relativa alle entrate patrimoniali dello Stato, per la quale l’art. 3 r.d. n. 639/1910 non reca deroghe alle norme regolatrici della giurisdizione, in base alle quali la materia dell’edilizia ed urbanistica è attribuita nella sua interezza alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
L’art. 133, lett. f), c.p.a. recita infatti che “Le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del territorio” sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, senza prevedere alcuna esclusione, come invece preteso da parte appellante, tra fase di accertamento degli oneri concessori e fase della ingiunzione di pagamento.
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Secondo l’orientamento giurisprudenziale condivisibile, i riti speciali delineati dal d.lgs. n. 150/2011 trovano applicazione solo davanti al giudice ordinario.
Le azioni aventi ad oggetto la contestazione degli oneri di urbanizzazione attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili dinanzi al giudice amministrativo in sede esclusiva e, pertanto, non sono sottoposte ad alcun termine decadenziale potendo essere proposte entro l’ordinario termine di prescrizione decennale.

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L
a determinazione degli oneri di urbanizzazione non richiede una particolare motivazione o una puntuale verifica delle opere di urbanizzazione realizzate o realizzande: essi prescindono dall'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e vengono quantificati indipendentemente sia dall'utilità che il privato ritrae dal titolo edilizio rilasciatogli, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare le suddette opere.
Infatti, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 gli oneri di urbanizzazione sono stabiliti dal Comune in base a tabelle parametriche predefinite e sono quindi espressione di attività amministrativa vincolata: il computo degli oneri di urbanizzazione costituisce provvedimento di per sé vincolato, che va emesso sulla base di parametri prestabiliti e che pertanto non richiede una specifica motivazione sulla determinazione delle relative somme.

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6. Deve osservarsi, preliminarmente, che la giurisdizione sulla ordinanza-ingiunzione relativa agli oneri di urbanizzazione ed al contributo sul costo di costruzione appartiene al giudice amministrativo, anche quando tale atto sia emesso nella forma disciplinata dall’art. 2 r.d. 14.04.1910 n. 639.
Si tratta infatti di materia relativa alle entrate patrimoniali dello Stato, per la quale l’art. 3 r.d. n. 639/1910 non reca deroghe alle norme regolatrici della giurisdizione, in base alle quali la materia dell’edilizia ed urbanistica è attribuita nella sua interezza alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
L’art. 133, lett. f), c.p.a. recita infatti che “Le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del territorio” sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, senza prevedere alcuna esclusione, come invece preteso da parte appellante, tra fase di accertamento degli oneri concessori e fase della ingiunzione di pagamento.
7. Sempre in via preliminare, rileva il Collegio l’infondatezza dell’eccezione sollevata dal Comune resistente, secondo cui le censure mosse avverso la fondatezza della pretesa creditoria avrebbero dovuto essere proposte in sede di opposizione all’ordinanza-ingiunzione, nei trenta giorni dalla notifica della stessa ai sensi degli artt. 6, co. 6, e 32 del d.lgs. n. 150/2011.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide, i riti speciali delineati dal d.lgs. n. 150/2011 trovano applicazione solo davanti al giudice ordinario. Le azioni aventi ad oggetto la contestazione degli oneri di urbanizzazione attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili dinanzi al giudice amministrativo in sede esclusiva e, pertanto, non sono sottoposte ad alcun termine decadenziale potendo essere proposte entro l’ordinario termine di prescrizione decennale (cfr. CGA sentenza n. 334 del 17.04.2019 e giurisprudenza ivi richiamata).
8. Nel merito il ricorso è infondato.
8.1. Secondo un costante orientamento giurisprudenziale dal quale non vi è ragione di discostarsi, “la determinazione degli oneri di urbanizzazione non richiede una particolare motivazione o una puntuale verifica delle opere di urbanizzazione realizzate o realizzande: essi prescindono dall'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e vengono quantificati indipendentemente sia dall'utilità che il privato ritrae dal titolo edilizio rilasciatogli, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare le suddette opere (Cons. Stato, n. 462/1977). Infatti, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 gli oneri di urbanizzazione sono stabiliti dal Comune in base a tabelle parametriche predefinite e sono quindi espressione di attività amministrativa vincolata (TAR Toscana, III, 14.09.2004, n. 3782): il computo degli oneri di urbanizzazione costituisce provvedimento di per sé vincolato, che va emesso sulla base di parametri prestabiliti e che pertanto non richiede una specifica motivazione sulla determinazione delle relative somme (Cons. Stato, V, 22.01.2015, n. 251)” (TAR Firenze, sez. III, sentenza n. 1043 del 05.06.201908/07/2019).
8.2. Né le spese per le opere che la società asserisce di aver dovuto eseguire “al fine di realizzare l’impianto fognario a servizio del fabbricato” possono essere scomputate dagli oneri di urbanizzazione.
Sebbene sia consolidato, infatti, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione possa derivare il diritto del concessionario allo scomputo dei relativi oneri anche quando, come nel caso in esame, non vi sia stato un accordo preventivo con il Comune sulle modalità e le garanzie delle opere stesse, occorre, tuttavia che, in tal caso, il privato dimostri l’utilizzazione pubblica di quanto realizzato.
Al contrario, nella fattispecie in esame, non solo non è dimostrata l’utilizzabilità pubblica delle opere e la natura non esclusivamente privata delle stesse, ma è la stessa società ricorrente a chiarire di aver dovuto sostenere un “notevole esborso economico, al fine di realizzare l’impianto fognario a servizio del fabbricato” (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 18.11.2019 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea di diritto, se, da un lato, l'art. 27 d.p.r. n. 380 del 2001 prevede l'azionabilità del procedimento sanzionatorio edilizio anche sulla scorta di denunzia di soggetti privati, dall'altro lato, la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che il proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi da parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la definitiva conseguenza che il silenzio serbato sull'istanza e sulla successiva diffida dell'interessato integra gli estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente.
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Diversamente, con riguardo al primo punto della diffida come sopra ricordato, è pacifico che il Comune resistente non abbia dato seguito alle richieste di vigilanza formulate dai ricorrenti.
Ai sensi dell’art. 27, d.p.r. n. 380 del 2001, <<1. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
2. Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi..
3... Ferma rimanendo l'ipotesi prevista dal precedente comma 2, qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d’ufficio o su denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, ordina l'immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere….
>>.
La doverosità del procedere alla vigilanza e ai controlli, in particolar modo qualora ciò sia richiesto da una istanza del privato cittadino, titolare di un interesse qualificato a che il Comune provveda agli accertamenti del caso, impone che il Comune proceda ai controlli medesimi e concluda il procedimento mediante l’adozione delle determinazioni conseguenti, sia che risulti accertata l’inosservanza delle prescrizioni edilizie o urbanistiche, sia che non sia emersa alcuna irregolarità.
L’intestato Tar ha già avuto modo di sottolineare che <<in linea di diritto, se, da un lato, l'art. 27 d.p.r. n. 380 del 2001 prevede l'azionabilità del procedimento sanzionatorio edilizio anche sulla scorta di denunzia di soggetti privati, dall'altro lato, la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che il proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi da parte dell'organo preposto avverso abusi edilizi, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la definitiva conseguenza che il silenzio serbato sull'istanza e sulla successiva diffida dell'interessato integra gli estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente (cfr. ad es. TAR Liguria sez. I n. 804 del 2005 e Consiglio Stato, sez. V, 07.11.2003, n. 7132)>> (TAR Liguria, sez. I, 17/06/2005, n. 922).
Nel caso di specie, poiché, come detto, l'amministrazione non risulta aver concluso l'avviato procedimento, in contrasto con il dovere sopra richiamato, il ricorso in parte qua deve essere accolto, disponendo che il Comune resistente provveda a concludere il procedimento adottando un provvedimento in ordine all’istanza presentata dai ricorrenti con la diffida per la quale è causa (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 16.11.2019 n. 862 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIGravi illeciti professionali in sede di gara pubblica.
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Contratti della pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Provvedimenti interdittivi amministrativi – Periodo – Massimo tre anni.
In sede di gara pubblica, ai provvedimenti interdittivi amministrativi, salvo che essi rechino una maggiore durata della inibizione a contrarre, può riconoscersi valenza ostativa per un periodo in ogni caso non superiore a tre anni, “decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo” (1).
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   (1) L’art. 80, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016, delimita e circoscrive l’efficacia temporale della valenza ostativa delle sentenze di condanna e degli atti di “accertamento definitivo”; si è in presenza, in questi casi, del fenomeno, ben noto alla teoria generale, della cd. digressione dell’atto in fatto: la sentenza o il provvedimento amministrativo di accertamento della violazione sono presi in considerazione da altra norma, e ad altri fini, per inferirne un giudizio normativo di “incapacità” o di “inaffidabilità” per un determinato periodo temporale.
Di talché, ai provvedimenti interdittivi amministrativi, salvo che essi rechino una maggiore durata della inibizione a contrarre, può riconoscersi valenza ostativa per un periodo in ogni caso non superiore a tre anni, “decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo”. In questo caso la potenziale rilevanza di tali provvedimenti, ai fini dell’esercizio della discrezionale potestas di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, è effettuata in via generale ed astratta dalla norma ed è, pertanto, pienamente percepibile e conoscibile dall’operatore professionale; di qui la esigibilità del relativo obbligo dichiarativo.
Al di fuori delle dette circostanze –tipizzate dalla legge in quanto irrimediabilmente ostative, ovvero potenzialmente rilevanti ai fini della valutazione discrezionale circa la esistenza di gravi illeciti professionali- la chiara delimitazione delle ulteriori informazioni necessarie alla formulazione del giudizio di piena “affidabilità” ed “integrità” del partecipante non può che essere effettuata dalla medesima stazione appaltante con la legge di gara, in guisa:
   – da preventivamente apprestare, secondo la qualificata diligenza esigibile anche dalla Amministrazione ed in ossequio al principio di autoresponsabilità, i “mezzi adeguati” per acquisire un compiuto patrimonio informativo;
   – poter consapevolmente ed effettivamente assolvere all’onere, in capo ad essa Amministrazione gravante, di dimostrare la esistenza di quelle gravi violazioni professionali, idonee ad incrinare il giudizio di affidabilità ed integrità della impresa;
   – consentire a tutti i concorrenti di percepire, ex ante e secondo la professionale diligenza da loro esigibile, la effettiva portata degli obblighi di informazione “ulteriori” di cui la stazione appaltante abbisogna (ulteriori rispetto a quelli naturaliter discendenti dalle prescrizioni di legge ed afferenti alle circostanze che ex se valgono ad integrare i motivi di esclusione tipizzati all’art. 80 del d.lgs. 50/2016).
Le informazioni da fornire alla stazione appaltante –ed i correlati obblighi gravanti in capo ai concorrenti- sono quelle che, anche solo in linea di principio, l’Amministrazione dovrebbe ottenere per poter esplicare appieno, plena cognitio, la propria potestas di conduzione della gara e di aggiudicazione della pubblica commessa all’offerente “migliore”, anche perché pienamente affidabile sotto il profilo della onorabilità e professionalità.
In questa ottica l’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. n. 50 del 2016 munisce di espressa sanctio iuris, il generale obbligo di clare loqui –a sua volta espressione dei canoni fondamentali di buona fede e correttezza che devono sempre e comunque informare i rapporti tra le parti, sin dal momento del loro primo “contatto”- allo scopo di rendere effettivo il flusso di informazioni che deve pervenire alla stazione appaltante ad opera dei partecipanti, sancendo l’autonoma rilevanza escludente della veridicità delle dichiarazioni rese nella domanda di partecipazione.
La natura “non veritiera” o “falsa” di una dichiarazione rilevante ex art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. n. 50 del 2016 può realizzarsi anche attraverso la omissione o la incompletezza (reticenza) delle informazioni fornite, quando l’informazione omessa o resa in modo parziale o incompleto attribuisce al tenore della dichiarazione un senso diverso, così che l’enunciato descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un significato contrario al vero o negativo dell’esistenza di fatti rilevanti”; e tuttavia ciò presuppone la esistenza:
   – a latere oggettivo, di un obbligo di informazione e di dichiarazione, sufficientemente specifico e determinato, e relativo a fatti (e non già a giudizi o “qualificazioni”);
   – a latere soggettivo, della coscienza e volontà di rendere una dichiarazione falsa e, dunque, il dolo generico dell’agente e non già il dolo specifico, irrilevanti essendo le concrete intenzioni dell’agente, non essendo richiesto l’animus nocendi o decipiendi;
Gli obblighi di collaborazione (e di dichiarazione) del partecipante alla gara non possono che attestarsi alle soglie della ragionevole “esigibilità” del contegno, da escludersi in nuce nel caso in cui la esistenza stessa dell’obbligo sia oggettivamente non percepibile, in quanto non discendente dalle norme né, tampoco, individuata o lumeggiata nella lex specialis. Oltrepassata tale soglia, invero, si entra nel terreno:
   – della scusabilità della condotta, in quanto indotta dalla scarsa chiarezza ovvero dalla equivocità delle prescrizioni di gara, suscettibili di diversa significanza e interpretazione;
   – del potere-dovere per la stazione appaltante di consentire ai partecipanti –indotti in incolpevole errore dalla equivocità delle prescrizioni- di “presentare, integrare, chiarire, o completare le informazioni o la documentazione asseritamente incomplete, errate o mancanti entro un termine adeguato” (CGUE, 02.05.2019, C-309/18, cit., § 23, con il pregnante richiamo ivi contenuto all’art. 56, par. 3, della direttiva 2014/24/UE) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 15.11.2019 n. 2421 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il ricorso, i cui plurimi motivi ben sono suscettibili di congiunta disamina, è fondato.
2. Va in via liminare rilevato che il contegno ascritto all’Ati ricorrente –e che ha giustificato il “ritiro” della aggiudicazione definitiva già disposta in suo favore- è stato dalla stazione appaltante sussunto nel paradigma normativo di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. 50/2016, a tenore del quale “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto (…) l’operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazioni o dichiarazioni non veritiere”.
2.1. La stazione appaltante, indi, ha:
   - qualificato il contegno omissivo tenuto dalla ricorrente nei termini di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. 50/2016 (dichiarazioni non veritiere); e ciò per avere reso “false dichiarazioni in merito a circostanze utili” ai fini di una corretta e consapevole valutazione della stazione appaltante circa la sussistenza:
i) per quanto attiene ai provvedimenti a carico della mandante Research (provvedimento di sospensione di due mesi; esclusione da una gara d’appalto per violazione del divieto di partecipazione simultanea di consorzio stabile e consorziata) dei presupposti per l’esercizio della potestà discrezionale di esclusione ex art. art. 80, comma 5, lett. c) (eventuale idoneità dei fatti “celati” ad integrare un “grave illecito professionale” idoneo ad incidere sulla affidabilità ed integrità della impresa);
ii) per quanto concerne il provvedimento interdittivo a carico della consorziata Kairos, della causa ostativa ex lege contemplata all’art. 80, comma 5, lett. f) (provvedimento di interdizione a contrarre e a partecipare a gare pubbliche), oltre che della “possibile” causa di esclusione di cui alla lett. c);
   - da siffatta qualificazione ha fatto discendere –quale portato di un’actio vincolata- la esclusione dell’Ati dalla gara; e ciò in quanto “La disposizione della lettera f-bis) non consente, in caso di omessa o falsa dichiarazione alcuna valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante, e si riferisce sia alle informazioni false o fuorvianti che all’omissione di informazioni dovute (cfr. Cons. Stato, V, n. 6576/2018)” (CdS, III, 22.05.2019, n. 3331; Id., id, 23.08.2018, n. 5040; CdS, parere 2042/2017).
2.2. La norma applicata da En.RE, introdotta dall’art. 49, comma 1, lett. d), del d.lgs. 56/2017 (cd. correttivo al codice degli appalti):
   - munisce di espressa sanctio iuris, il generale obbligo di clare loqui –a sua volta espressione dei canoni fondamentali di buona fede e correttezza che devono sempre e comunque informare i rapporti tra le parti, sin dal momento del loro primo “contatto”- allo scopo di rendere effettivo il flusso di informazioni che deve pervenire alla stazione appaltante ad opra dei partecipanti, sancendo l’autonoma rilevanza della veridicità delle dichiarazioni rese nella domanda di partecipazione;
   - riecheggia in parte la disposizione dell’art. 57, paragrafo 4, lett. h), della direttiva 2014/24/UE, che attribuisce alle amministrazioni aggiudicatrici la potestà di esclusione del partecipante alla gara che “si è reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire le informazioni richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione o il rispetto dei criteri di selezione, non ha trasmesso tali informazioni o non è stato in grado di presentare i documenti complementari di cui all’articolo 59”.
2.3. Orbene, lo scrutinio della legittimità dell’operato della intimata società –e, segnatamente, della qualificazione della condotta tenuta dalla ricorrente- non può che prendere le mosse dalla retta individuazione e delimitazione dell’obbligo dichiarativo (asseritamente infranto) gravante in capo ai partecipanti alla procedura.
2.3.1. E’ evidente, invero, la necessità di circoscrivere la effettiva latitudine dell’obbligo di dichiarazione de quo agitur, con riferimento a tutti i fatti e le circostanze che anche solo in abstracto siano suscettibili di incidere sul processo decisionale della stazione appaltante, e ciò al fine:
   - a latere oggettivo, di “causalmente orientare” e, per così dire, di selezionare le informazioni in abstracto suscettibili di arrecare una propria utilitas all’azione della Amministrazione, scongiurando il rischio di un profluvio di informazioni inidonee alla bisogna (plasticamente rappresentato dalla massima di comune esperienza, per cui “troppe informazioni, nessuna informazione”);
   - a latere soggettivo, di puntualmente individuare il contegno ragionevolmente esigibile in capo all’operatore che partecipa alla gara, pur tenendo conto della soglia di diligenza particolarmente elevata che ne deve informare l’agere (art. 1176, comma 2, c.c.).
2.3.2. A tal fine, non possono non venire in rilievo, in limine, le ipotesi suscettibili di determinare la esclusione del partecipante dalla gara: necessarie, ed esigibili dal partecipante alla gara, sono tutte le informazioni utili all’esercizio, da parte della stazione appaltante, di tale indefettibile munus di esclusione “in qualunque momento della procedura” dell’operatore economico che “si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5” (art. 80, comma 6).
2.3.3. La natura ancillare e strumentale dell’obbligo di informazione, rispetto alle ipotesi legittimanti la esclusione, vale dunque a disvelarne l’effettivo contenuto.
Le informazioni da fornire alla stazione appaltante –ed i correlati obblighi gravanti in capo ai concorrenti- sono quelle che, anche solo in linea di principio, la Amministrazione dovrebbe ottenere per poter esplicare appieno, plena cognitio, la propria potestas di conduzione della gara e di aggiudicazione della pubblica commessa all’offerente “migliore”, anche perché pienamente affidabile sotto il profilo della onorabilità e professionalità.
2.4. Nulla quaestio, in proposito, sulle cause di esclusione tipicamente contemplate dalla legge, laddove viene assegnata normativa rilevanza ex se (senza che residui alcun margine di discrezionalità in capo alla stazione appaltante) a provvedimenti pel tramite dei quali è stata accertata da Autorità “altre” (rispetto alla stazione appaltante) la violazione di precetti penalmente rilevanti (sentenze di condanna penale) ovvero la commissione di illeciti amministrativi (ad opra delle competenti Autorità amministrative).
2.4.1. Anche lo spatium temporis di durata della “valenza” inibitoria è puntualmente individuato:
   - dallo stesso provvedimento giurisdizionale (durata della pena accessoria della incapacità a contrattare) ovvero dal provvedimento amministrativo (durata del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione discendente dai provvedimenti interdittivi, compreso quello ex art. 14 d.lgs. 81/08 che qui viene in rilievo);
   - ovvero, dallo stesso art. 80 del d.lgs. 50/2016, che al comma 10 (siccome modificato con il d.lgs. 56/2017), puntualmente delimita e circoscrive la efficacia temporale della valenza ostativa delle sentenze di condanna e degli atti di “accertamento definitivo”; si è in presenza, in questi casi, del fenomeno, ben noto alla teoria generale, della cd. digressione dell’atto in fatto: la sentenza o il provvedimento amministrativo di accertamento della violazione sono presi in considerazione da altra norma, e ad altri fini, per inferirne un giudizio normativo di “incapacità” o di “inaffidabilità” per un determinato periodo temporale.
Tale limitazione temporale, per vero, risulta chiaramente contenuta all’art. 57, § 7, della direttiva 2014/24/UE, al fine attuata con il decreto “correttivo” n. 56/17 e le modifiche all’uopo apportate all’art. 80, comma 10, del codice.
2.4.2. Di talché, per quel che qui viene in rilievo, ai provvedimenti interdittivi amministrativi, salvo che essi rechino una maggiore durata della inibizione a contrarre, può riconoscersi valenza ostativa per un periodo in ogni caso non superiore a tre anni, “decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo” (art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016).
Siccome da ultimo affermato in una pronunzia puntualmente richiamata da parte ricorrente, “La giurisprudenza amministrativa ha, invero, ritenuto contrastante con il principio di proporzionalità una esclusione che trovi fondamento in una risoluzione in danno dell’impresa adottata più di tre anni prima della pubblicazione del bando di gara, ed ha individuato nel lasso temporale triennale un limite coerente con l’applicazione di tale principio di derivazione eurounitaria (Tar Lombardia, sez. IV, 23.03.2017, n. 705)” (CdS, V, 06.05.2019, n. 2895; TAR Toscana, III, 26.06.2019, n. 955).
2.4.3. E’ questa la tesi che si reputa preferibile (contra, CdS, V, 1644/2019; Id., id. 6530/2018), volta a legare indissolubilmente il limite temporale di cui all’art. 80, comma 10 (e all’art. 57, par. 7) anche alla potestà discrezionale di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), in conformità:
   - del dettato sovranazionale, atteso che l’art. 80, comma 10, costituisce attuazione dell’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24, che demanda giustappunto agli Stati membri la fissazione del “periodo massimo di esclusione”, con omnicomprensivo riferimento a tutte le cause di esclusione contemplate “dal presente articolo”, sia quelle “obbligatorie” che quelle “facoltative”, demandate cioè alla discrezionale valutazione dell’amministrazione aggiudicatrice;
   - delle statuizioni da ultimo rese dai Giudici dell’Unione, secondo cui il periodo massimo di tre anni entro cui la stazione appaltante può –nell’esercizio della sua discrezionalità- escludere da una gara il partecipante che si sia reso “colpevole” di violazioni del diritto della concorrenza, è da rinvenire nel momento di adozione del provvedimento sanzionatorio da parte della competente Autorità (CGUE, 24.10.2018, causa C-124/17);
   - di qui la rilevanza del limite temporale anche per le ipotesi di “esclusione facoltativa” (rimessa alla autonoma valutazione della stazione appaltante), nel novero delle quali indubitabilmente rientrano quelle afferenti agli illeciti “anticoncorrenziali”, come ancora da ultimo chiarito dalla Corte di Lussemburgo, per cui “una decisione di un’autorità nazionale garante della concorrenza, che accerta una violazione delle norme in materia di concorrenza, non può comportare l’esclusione automatica di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico. Infatti, conformemente al principio di proporzionalità, l’accertamento della sussistenza di un ‘errore grave’ necessita, in linea di principio, dello svolgimento di una valutazione specifica e concreta del comportamento dell’operatore economico interessato (v., in tal senso, sentenza del 13.12.2012, Forposta e ABC Direct Contact, C-465/11, EU:C:2012:801, punto 31)” (CGUE, 04.06.2019, causa C-425/18, § 34).
2.4.4. Trattasi di ipotesi in cui il divisamento degli interessi, e la valutazione di “inaffidabilità” (o di carenza dei requisiti di “onorabilità”), ovvero la valutazione di potenziale rilevanza delle informazioni ai fini dell’esercizio della discrezionale potestas di cui all’art. 80, comma 5, d.lgs. 50/2016, è effettuata in via generale ed astratta dalla norma ed è, pertanto, pienamente percepibile e conoscibile dall’operatore professionale; di qui la esigibilità del relativo obbligo dichiarativo.
La tipicità delle cause di esclusione e della rilevanza giuridica assegnata a determinati fatti per un certo arco temporale (ai fini della autonoma e discrezionale valutazione della P.A. sulla esistenza di gravi illeciti professionali), depone per la chiarezza ed intellegibilità dei relativi precetti, e non consente di nutrire dubbi di sorta sulla:
   - effettiva esistenza dell’obbligo “dichiarativo” gravante in capo al concorrente, che non potrà non estendersi a tutte le situazioni ostative ovvero a quelle tipicamente rilevanti ai fini della valutazione discrezionale di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 50/2016 (sentenze penali di condanna, provvedimenti amministrativi di accertamento di violazioni tributarie o previdenziali, ovvero della normativa in tema di tutela della concorrenza; provvedimenti interdittivi della capacità di contrattare e di partecipare a gare indette dalla P.A.), fintantoché tali situazioni perdurino nella loro giuridica rilevanza, avuto riguardo anche allo spatium temporis siccome delimitato in via residuale dalla clausola di “chiusura” di cui all’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016 (in ossequio all’art. 57, par. 7, della direttiva);
   - piena percepibilità della esistenza di tali obblighi informativi in capo alla impresa partecipante e, dunque, sulla piena esigibilità di una condotta improntata alla massima trasparenza su tutti profili astrattamente idonei ad essere sussunti nelle suddette cause di esclusione, ex lege divisate ovvero demandate al munus delibativo e decisorio della Autorità aggiudicatrice.
2.5. Più problematica, d’altra parte, si appalesa la individuazione del contenuto dell’obbligo dichiarativo in relazione alla atipica e residuale clausola di esclusione contemplata all’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. 50/2016, nella sua omnicomprensiva formulazione ratione temporis applicabile (id est, prima delle modifiche intervenute per effetto del d.l. 135/2018, conv. in l. 12/2019).
2.5.1. La norma in esame, invero, attribuisce alla Amministrazione aggiudicatrice la potestà di regolazione e di divisamento degli interessi, e dunque di disposizione dell’effetto giuridico, stabilendo che ad essa compete la esclusione dalla gara allorquando sia data dimostrazione con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.
2.5.2. All’uopo, vengono enumerate una serie di condotte che la stazione appaltante, nell’esercizio della propria discrezionalità, può sussumere nella nozione di “gravi illeciti professionali” incidenti sulla affidabilità ed “onorabilità” del partecipante:
   - risoluzione di un precedente contratto di appalto per carenze nella esecuzione, al di là ed a prescindere dalla pendenza di un giudizio, siccome chiarito da ultimo dalla CGUE (sentenza 19.06.2019, causa C-41/18), per cui la “contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico, assunta da un’amministrazione aggiudicatrice per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione” non vale a precludere alla stazione appaltante in altra gara, di valutare i fatti cui detta risoluzione afferisce al fine di formulare un compiuto giudizio circa la affidabilità dell’operatore ai sensi dell’art. 57, par. 4, lett. c) e g) della direttiva 2014/24/UE;
   - tentativo di influenzare il processo decisionale della Amministrazione, o di ottenere informazioni riservate;
   - trasmissione, anche per negligenza, di informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione, ovvero omessa dichiarazione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
2.5.3. Trattasi di una elencazione meramente esemplificativa, potendo la stazione appaltante desumere il compimento di gravi illeciti da ogni altra vicenda pregressa dell’attività professionale dell’operatore economico.
Ciò che rileva, invero, è la idoneità delle condotte poste in essere in passato dalla impresa a minare o a mettere in dubbio la sua “integrità ed affidabilità” (CdS, V, 12.04.2019, n. 2407; Id., id., 586/2019; Id. id., 72/2019; CdS, III, 7231/2018).
2.5.4. Già in relazione alla previgente direttiva, i Giudici dell’Unione hanno chiarito, invero, che la nozione di “errore nell’esercizio della propria attività professionale comprende qualsiasi comportamento scorretto che incide sulla credibilità professionale dell’operatore economico di cui trattasi (sentenza del 13.12.2012, Forposta e ABC Direct Contact, C-465/11; EU:C:2012:801, punto 27), la sua integrità o affidabilità” (CGUE, 04.06.2019, C-425/18).
2.5.5. E’ in tale discrezionale valutazione che risiede l’ubi consistam del delicato officium demandato alla stazione appaltante nel rapporto con i partecipanti alla procedura, al fine di:
   - valutarne, in via autonoma, la affidabilità sulla quale poter fondare la fiducia che deve necessariamente riporsi nel soggetto di poi chiamato a realizzare i lavori o servizi pubblici, in ossequio altresì al dettato della direttiva (art. 57, par. 4, direttiva 2014/24);
   - agire in ossequio al principio di proporzionalità che, secondo il considerando 101 della direttiva 2014/24, “implica in particolare che, prima di decidere di escludere un operatore economico, una simile amministrazione aggiudicatrice prenda in considerazione il carattere lieve delle irregolarità commesse o la ripetizione di lievi irregolarità”; e, invero, se anche nell’esercizio di tale discrezionale potestà “un’amministrazione aggiudicatrice dovesse essere automaticamente vincolata da una valutazione effettuata da un terzo, le sarebbe probabilmente difficile accordare un’attenzione particolare al principio di proporzionalità al momento dell’applicazione dei motivi facoltativi di esclusione” (CGUE, 19.06.2019, cit., § 32).
2.5.6. La elasticità della norma di attribuzione e la ampiezza della discrezionalità all’uopo demandata alla stazione appaltante -prestando “particolare attenzione” all’esercizio della proporzionalità, coerentemente ad una valutazione effettuata “caso per caso” dalla Amministrazione, e non già “una tantum” dal legislatore- non possono non riverberarsi sulla latitudine dell’obbligo di dichiarazione e di informazione gravante in capo al partecipante alla procedura.
In altre parole, la latitudine dell’obbligo dichiarativo è specularmente legata a quella della cause di esclusione, ovvero di “potenziale” esclusione (cfr., CdS, V, 05.05.2016, n. 1812).
Così che, la natura atipica della causa di esclusione in esame –avente ad oggetto tutte le condotte astrattamente idonee ad incidere sul ridetto giudizio di affidabilità- rende meno agevole, già sul piano oggettivo:
   - la individuazione dell’effettivo contenuto del correlato obbligo informativo gravante in capo al partecipante alla gara; non è chi non veda, invero, che si verte in tema non già di fatti e/o circostanze empiricamente percepibili, bensì di qualificazioni giuridiche (“illeciti professionali”) e in giudizi di (dis)valore (“gravi”);
   - la selezione delle informazioni effettivamente dovute alla stazione appaltante, al fine di consentirle l’esplicazione del proprio officium di valutazione discrezionale.
2.5.7. Orbene, assumono rilievo le circostanze in appresso:
   - l’onere di provare la esistenza di situazioni idonee a minare la “affidabilità” ovvero ad incrinare o a mettere in dubbio la affidabilità del partecipante incombe in capo alla Amministrazione attributaria della potestà di esclusione; sul punto la dictio legis, in conformità delle prescrizioni sovranazionali, è inequivocabile nel condizionare l’esercizio di detta potestà alla dimostrazione con mezzi adeguati del grave illecito, lesivo della onorabilità (“se l’amministrazione può dimostrare con mezzi adeguati”: art. 57, par. 4, lett. c) direttiva; “qualora (…) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati”);
   - i reciproci obblighi di buona fede, correttezza e solidarietà (artt. 2 e 97 Cost., art. 1175 c.c.) connotanti il rapporto tra consociati dal momento del loro primo contatto sociale qualificato (Cass., I, 12.07.2016, n. 14188; TAR Lombardia, I, 06.11.2018, n. 2501), all’istesso modo ed a fortiori caratterizzano il rapporto tra la stazione appaltante e gli aspiranti aggiudicatari, sin dal momento della emanazione del bando e della presentazione della domanda;
   - la tutela dell’affidamento legittimo, su cui fonda il diritto dell’Unione, parimenti deve improntare l’azione amministrativa (art. 1, l. 241/1990; cfr., nella giurisprudenza dei Giudici di Lussemburgo, CGUE 03.05.1978, C-12/77, Topfer; da ultimo, sulla valenza di regola generale, fondante il diritto dell’Unione, da attribuire al principio della tutela dell’affidamento, CGUE, 20.12.2017, C-322/16, Global Starnet; cfr., CGUE 14.03.2013 C-545/11, Agrargenossenschaft Neuzelle) in vista –con la predisposizione della legge di gara- e nel corso della procedura di evidenza pubblica;
   - il principio della parità di trattamento, in virtù del quale gli operatori partecipanti (o che intendono partecipare) ad una pubblica gara devono disporre delle stesse opportunità ed essere messi nelle condizioni di conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi requisiti valgono per tutti (CGUE, IV, 14.12.2016, causa C-171-15);
   - il principio di trasparenza, che implica che “tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, così da permettere a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l’esatta portata e di interpretarle allo stesso modo” (CGUE, 14.12.2016, cit.), sì da eliminare in nucei rischi di favoritismo e di arbitrio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice” (CGUE, 02.05.2019, causa C-309/18);
   - l’inveterato insegnamento dei Giudici di Lussemburgo, a mente del quale “il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito del mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente” (CGUE, 02.05.2019, cit.).
2.5.8. Di talché, salvo quanto sopra esposto in relazione alle circostanze irrimediabilmente ostative tipizzate in via generale ed astratta dalla legge, ovvero a quelle giuridicamente rilevanti ai fini della valutazione discrezionale circa la sussistenza degli illeciti professionali (fin quando perduri la loro rilevanza giuridica, a’ sensi dell’art. 80, comma 10) –in relazione alle quali non possono residuare dubbi sulla esistenza dell’obbligo dichiarativo, e sulla sua percepibilità in capo all’operatore professionale- la chiara delimitazione delle ulteriori informazioni necessarie alla formulazione del giudizio di piena “affidabilità” ed “integrità” non può che essere effettuata dalla medesima stazione appaltante con la legge di gara, in guisa:
   - da preventivamente apprestare, secondo la qualificata diligenza esigibile anche dalla Amministrazione, i “mezzi adeguati” (è questa la nozione foggiata dal diritto dell’Unione e pedissequamente recepita nel nostro ordinamento) per acquisire un compiuto patrimonio informativo, al di là ed a prescindere dalla possibilità di officiosamente avvalersi delle informazioni contenute nel casellario tenuto dall’Anac;
   - poter consapevolmente ed effettivamente assolvere all’onere, in capo ad essa Amministrazione gravante, di dimostrare la esistenza di quelle gravi violazioni professionali, idonee ad incrinare il giudizio di affidabilità ed integrità della impresa;
   - consentire a tutti i concorrenti di percepire, ex ante e secondo la professionale diligenza da loro esigibile, la effettiva portata degli obblighi di informazione “ulteriori” di cui la stazione appaltante abbisogna (ulteriori rispetto a quelli naturaliter discendenti dalle prescrizioni di legge ed afferenti alle circostanze che ex se valgono ad integrare i motivi di esclusione tipizzati all’art. 80 del d.lgs. 50/2016).
E ciò in coerenza con l’insegnamento giurisprudenziale per cui, a mente dei principi del diritto dell’Unione, il concorrente può legittimamente essere escluso dalla gara anche per “una lacuna di carattere formale e dichiarativo” sempre che la relativa prescrizione –fonte dell’obbligo inadempiuto- sia percepibile e conoscibile ex ante da un soggetto professionalmente qualificato, secondo la diligenza da lui normativamente esigibile (CGUE, 06.11.2014, C-42/13, Cartiera dell’Adda).
2.5.9. Di qui l’onere per la stazione appaltante di chiarire nella disciplina di gara la effettiva portata e natura delle informazioni all’uopo richieste, che possono anche variare a seconda della natura dell’appalto, del contesto economico e sociale di riferimento, della presumibile composizione della platea degli aspiranti aggiudicatari, delle stesse valutazioni di opportunità ex ante formulate dalla Amministrazione. E ciò anche in ossequio al principio di auto responsabilità, precipitato degli obblighi di buona fede e correttezza che reciprocamente gravano sulle parti del rapporto o del contatto.
2.6. Orbene, nella fattispecie in esame, all’art. 15, parte III, del bando di gara (pag. 20) è testualmente dato leggere che il “concorrente deve dichiarare di non trovarsi in una delle condizioni ostative previste dall’art. 80 del d.lgs. 50/2016 o dalle ulteriori disposizioni normative che precludono soggettivamente gli affidamenti pubblici”, nel mentre nella parte V si dispone che “il possesso dei requisiti di cui all’art. 80 del d.lgs. 50/2016 deve essere dichiarato dal legale rappresentante/procuratore dell’operatore economico che presenta il DGUE con riferimento a tutti i soggetti indicati al comma 3 del medesimo art. 80”.
E’ evidente, indi, che la lex specialis ribadisce il contenuto di un obbligo dichiarativo già discendente dalle previsioni di legge, in quanto limitato ai fatti e alle circostanze qualificate dalla norma come irrimediabilmente ostative, senza veruna richiesta di informazioni ulteriori e/o aggiuntive.
2.6.1. Ora, le informazioni la cui “omissione” è stata ascritta da Enpam RE all’Ati ricorrente –cui si imputa, in forza di tale omissione, un contegno mendace a’ sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. 50/2016- afferiscono a fatti che pacificamente, ciò che non è contestato ed è anzi apertamente riconosciuto dalla stazione appaltante:
   - non costituiscono oggetto di specifici obblighi dichiarativi foggiati dalla stazione appaltante, e di poi trasfusi nella lex specialis, nonché nei moduli predisposti per la partecipazione alla gara;
   - non rientrano nelle ipotesi ostative contemplate dalla legge.
Sotto tale ultimo profilo, invero, va rilevato che le circostanze non dichiarate dalla ricorrente si concretano:
   a) in un provvedimento inibitorio non più esistente, in quanto caducato dal Giudice amministrativo già nel 2009;
   b) in un provvedimento di esclusione da una gara, parimenti risalente al 2009, per un fatto che da lungo tempo ormai non è più considerato antigiuridico (partecipazione contestuale alla gara di consorzio e consorziata non designata);
   c) in un provvedimento interdittivo della durata di 8 giorni, adottato ex art. 14 d.lgs. 81/2008 dal Ministero delle infrastrutture in data 08.07.2014 (annotato in data 07.02.2015), comunicato in data 15.07.2014 e la cui efficacia è cessata, pertanto, in data 23.07.2014.
2.6.2. In particolare, anche tale ultimo provvedimento elencato sub lett. c), invero, non mai varrebbe ad integrare una ipotesi di esclusione dalla partecipazione a gare, stante:
   - la durata assai esigua dello spatium temporis (di appena 8 giorni, spirato in data 23.07.2014) di “interdizione” dalla contrattazione e dalla partecipazione a procedure di evidenza pubblica recato da tale provvedimento; di qui la inesistenza della causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. f), al momento della indizione della gara e della presentazione della domanda da parte della ricorrente;
   - il chiaro disposto dell’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/16 che –siccome sopra ampiamente esposto e conformemente a quanto statuito dall’art. 57, comma 7, della direttiva 2014/24/UE- fissa nel periodo massimo di tre anni la (possibile) valenza ostativa riveniente dall’accertamento definitivo, “nei casi di cui commi 4 e 5 ove non sia intervenuta sentenza di condanna”, e, dunque, anche per il provvedimento adottato nei confronti della consorziata Ka.Re. (interdizione ex art. 14 d.lgs. 81/2008) rientrante appieno nella previsione di cui all’art. 80, comma 5, lett. f), d.lgs. 50/2016.
E, invero, il decorso del triennio vale a deprivare ex se di rilevanza giuridica il fatto oggetto dell’accertamento definitivo, la cui conoscenza è in nuce non utile per la stazione appaltante, giammai potendo rientrare nel processo decisionale prodromico alla esclusione ex art. 80, comma 5, lett. c).
2.6.3. Ne discende la inesistenza del presupposto stesso su cui si fonda la qualificazione di “falsità” attribuita dalla stazione appaltante alle dichiarazioni “omesse” dall’Ati ricorrente, id est l’essere le stesse riferite (pag. 3, provvedimento di revoca) a “circostanze utili… ai fini di una corretta e consapevole valutazione”, vale a dire “quelle prescritte”:
   - “dall’art. 80, comma 5, lett. c)”, stante la inesistenza del fatto (sospensione di due mesi di Research, annullata in sede giurisdizionale), la attuale mancanza di antigiuridicità del fatto (in ogni caso assai risalente) cagionante la esclusione da un appalto di Re., il decorso di oltre un triennio dall’adozione del provvedimento interdittivo a carico di Ka.;
   - “dall’art. 80, comma 5, lett. f)”, atteso che il provvedimento interdittivo a carico di Ka. (della durata di soli 8 giorni) ha compiutamente dispiegato la sua efficacia già nel luglio 2014.
Né, tampoco la dichiarazione di tali circostanze è stata espressamente imposta dalla lex specialis, che ben poteva all’uopo partitamente ed inequivocabilmente indicare i fatti e le informazioni all’uopo reputate necessarie (con una prescrizione, ad esempio e per quel che qui rileva, che obbligasse apertis verbis i partecipanti della procedura a dichiarare tutti i provvedimenti sanzionatori amministratori applicati nei loro confronti in un più o meno ampio lasso temporale).
2.6.4. Né può assumere alcun rilievo la circostanza –che pure è valorizzata nel provvedimento di revoca della aggiudicazione e nelle stesse difese di En.RE- per cui i fatti de quibus fossero annotati nel casellario informatico Anac, ciò che avrebbe determinato ex se un obbligo dichiarativo in capo all’operatore.
E, invero:
   - le annotazioni di fatti e circostanze nel casellario Anac –e la loro perduranza nel tempo- non mai possono valere di per sé sole ad integrare un obbligo di dichiarazione in capo al partecipante, astretto esclusivamente alle disposizioni di legge nonché alle prescrizioni di gara; ciò che solo assume rilevanza, ai fini che ci occupano, è la valenza intrinseca delle informazioni, anche solo potenzialmente “incidente” sul processo decisionale della stazione appaltante, e non già la circostanza estrinseca della loro annotazione nel casellario;
   - in ogni caso, se la stazione appaltante avesse davvero inteso assegnare rilevanza a tale dato estrinseco ben avrebbe potuto e dovuto chiaramente estrinsecarlo nella lex specialis.
E ciò anche a voler obnubilare ogni considerazione circa la dubbia ragionevolezza di una previsione siffatta che –in quanto volta ad addossare in capo ai concorrenti obblighi dichiarativi di fatti che agevolmente possono essere acquisiti dalla stazione appaltante, mercé la mera consultazione della banca dati- avrebbero invero potuto assumere connotazioni altresì violative del principio di proporzionalità.
2.7. Di talché, la omissione di comunicazione ascritta all’Ati ricorrente -proprio perché avente ad oggetto circostanze non mai integranti ipotesi ostative e, dunque, non mai rientranti nel contenuto dell’obbligo di informazione e dichiarazione gravante in capo ai concorrenti ai sensi della legge ovvero delle specifiche prescrizioni contenute nel bando di gara- non può assumere valenza:
   - di omissione giuridicamente rilevante, in assenza del correlato obbligo, sia esso nascente dalla legge ovvero dalle regole speciali che governano la procedura;
   - men che mai, di contegno mendace, siccome di contro reputato dalla stazione appaltante.
2.7.1. E’ ben vero, infatti, che la natura “non veritiera” o “falsa” di una dichiarazione può realizzarsi anche attraverso la omissione o la incompletezza (reticenza) delle informazioni fornite, quando la informazione omessa o resa in modo parziale o incompleto attribuisce al tenore della dichiarazione un senso diverso, così che “l’enunciato descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un significato contrario al vero o negativo dell’esistenza di fatti rilevanti” (tra le tante, Cass. Pen. V, 04.11.2014, n. 48755; in senso diverso sembra andare CdS, V, 12.04.2019, n. 2407, che distingue tra dichiarazione omessa e reticente e dichiarazione falsa, quest’ultima consistente in una immutatio veri e ricorrente solo nel caso in cui “l’operatore rappresenta una circostanza di fatto diversa dal vero”).
2.7.2. E, tuttavia, già in base alle generali categorie penalistiche che non possono non venire in rilievo anche in subiecta materia, la “non veridicità” delle dichiarazioni fornite dalla impresa alla stazione appaltante presuppone la esistenza:
   - a latere oggettivo, di un obbligo di informazione e di dichiarazione, sufficientemente specifico e determinato, e relativo a fatti (e non già a giudizi o “qualificazioni”);
   - a latere soggettivo, nella coscienza e volontà di rendere una dichiarazione falsa e, dunque, il dolo generico dell’agente e non già il dolo specifico, irrilevanti essendo le concrete intenzioni dell’agente, non essendo richiesto l’animus nocendi o decipiendi; di guisa che non potrà parlarsi di contegno mendace in caso di mera negligenza, leggerezza o disattenzione, essendo sconosciuta al nostro ordinamento la figura del falso documentale colposo.
2.7.3. Nella fattispecie che ne occupa, mancano entrambi gli elementi sopra individuati, stante:
   - la oggettiva inesistenza dell’obbligo di dichiarare i fatti e le circostanze de quibus, in quanto non qualificabili come ostativi alla partecipazione, né rilevanti ai fini del giudizio ex art. 80, comma 5, lett. c), né tampoco oggetto di una specifica richiesta all’uopo contenuta nelle prescrizioni della lex specialis, siccome sopra argomentato;
   - in ogni caso, la assenza dell’elemento soggettivo in capo all’Ati ricorrente che, ragionevolmente confidando sulla univoca significanza delle previsioni del bando (che imponeva l’obbligo dichiarativo relativo alla eventuale sussistenza delle tipiche “condizioni ostative previste dall’art. 80 d.lgs. 50/2016 o dalle ulteriori disposizioni normative che precludono soggettivamente gli affidamenti pubblici”) non ha provveduto a fare menzione di fatti e circostanze: i) non più esistenti, perché travolte da un giudicato di annullamento; ii) risalenti nel tempo, ben oltre il triennio contemplato all’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016, oltre che deprivate di valenza antigiuridica.
3. Questo TAR non ignora la esistenza di statuizioni giurisdizionali, in forza delle quali i concorrenti “devono dichiarare ogni episodio della vita professionale astrattamente rilevante ai fini della esclusione, pena la impossibilità per la stazione appaltante di verificare l’effettiva rilevanza di tali episodi sul piano della ‘integrità professionale’ dell’operatore economico” (CdS, III, 22.05.2019, n. 3331; CdS, V, 24.01.2019, n. 591; Id. id., 03.09.2018, n. 5142); di talché “non è configurabile in capo all’impresa alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo l’obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, in modo da permettere alla stazione appaltante di espletare, con piena cognizione di causa, le valutazioni di sua competenza (cfr. Cons. Stato, V, n. 4532/2018; n. 3592/2018; n. 6530/2018); vale a dire, non è possibile che la relativa valutazione sia eseguita, a monte, dalla concorrente la quale autonomamente giudichi irrilevanti i propri precedenti negativi, omettendo di segnalarli con la prescritta dichiarazione (cfr. Cons. Stato, V, n. 1935/2018), così da nascondere alla stazione appaltante situazioni pregiudizievoli, rendendo false o incomplete dichiarazioni al fine di evitare possibili esclusioni dalla gara (cfr. Cons. Stato, III, n. 4192/2017; n. 6787/2018); al contrario, affinché la valutazione della stazione appaltante possa essere effettiva è necessario che essa abbia a disposizioni quante più informazioni possibili, e di ciò deve farsi carico l’operatore economico, il quale se si rende mancante in tale onere può incorrere in un grave errore professionale endoprocedurale” (cfr. Cons. Stato, V, n. 5142/2018).
Né può non rammentarsi la corrente giurisprudenziale favorevole alla inapplicabilità del limite temporale di cui all’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016 ai fini dell’obbligo dichiarativo strumentale alla valutazione sulla esistenza di illeciti professionali (CdS, V, 1644/2019; Id., id. 6530/2018).
3.1. E, tuttavia, la latitudine ed intensità degli obblighi di collaborazione del partecipante alla gara -funzionali pur sempre a consentire l’esercizio della potestà discrezionale di esclusione, condizionato alla prova di gravi illeciti professionali pur sempre gravante in capo alla stazione appaltante- e che si inscrivono nell’alveo dei generali principi di buona fede, correttezza, lealtà e trasparenza, non può che attestarsi alle soglie:
   - della ragionevole “esigibilità” del contegno, da escludersi in nuce nel caso in cui la esistenza stessa dell’obbligo sia oggettivamente non percepibile, in quanto non discendente dalle norme né, tampoco, individuata o lumeggiata nella lex specialis.
3.2. Oltrepassata tale soglia, invero, si entra nel terreno:
   - della scusabilità della condotta, in quanto indotta dalla scarsa chiarezza ovvero dalla equivocità delle prescrizioni di gara, suscettibili di diversa significanza e interpretazione;
   - del potere-dovere per la stazione appaltante di consentire ai partecipanti –indotti in incolpevole errore dalla equivocità delle prescrizioni- di “presentare, integrare, chiarire, o completare le informazioni o la documentazione asseritamente incomplete, errate o mancanti entro un termine adeguato” (CGUE, 02.05.2019, C-309/18, cit., § 23, con il pregnante richiamo ivi contenuto all’art. 56, par. 3, della direttiva 2014/24/UE)).
3.3. Soccorre, in proposito, anche la disamina delle dichiarazioni rese dalla Ati ricorrente nel DGUE, atteso che dalla compilazione del modello emerge:
   - la risposta affermativa alla domanda relativa alla sussistenza “di gravi illeciti professionali di cui all’artt. 80, comma 5, lett. c), del codice” con la indicazione della risoluzione di un contratto di appalto e delle susseguenti misure di autodisciplina e di prevenzione adottate; la piena informazione quivi resa dalla Ati, ben si giustifica in ragione della chiara riconducibilità della vicenda risolutoria nel novero degli exempla di gravi illeciti professionali indicate dalla norma nazionale (cfr., altresì, art. 57 della direttiva); ragionevole, per contro e in ogni caso “scusabile”, si appalesa la scelta della Ati ricorrente di non indicare, invece, fatti non più esistenti (contraddetti da un giudicato amministrativo) ovvero risalenti al 2009 e da anni non più considerati quali illecito (partecipazione contestuale a gare da parte di consorzio e consorziata non designata);
   - la risposta negativa fornita al quesito posto nel riquadro “D1” del DGUE, relativo alla esistenza di sanzioni comportanti “il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, compresi i provvedimenti interdittivi di cui all’art. 14 d.lgs. 81/2008 [art. 80, comma 5, lett. f)]”; e, invero, trattasi di un quesito che ragionevolmente può essere interpretato, ed in concreto in tal guisa è stato interpretato, nel senso di acquisire contezza circa la esistenza della causa “tipizzata” di esclusione (ostativa ex lege) contemplata all’art. 80, comma 5, lett. f), essendo peraltro contenuto nel riquadro D del modello, che fa espresso riferimento ai “motivi di esclusione previsti esclusivamente dalla legislazione nazionale [art. 80, comma 2 e comma 5, lett. f), f-bis), f-ter), g), h), i), l), m) del Codice e art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001]”; e nella fattispecie non è dubbio che non ricorre la causa di esclusione di cui alla lett. f), attesa la cessazione di efficacia del provvedimento interdittivo (peraltro pari a soli 8 giorni) a far data dal 23.07.2014; né la circostanza poteva assumere rilievo ai fini della valutazione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), stante il decorso anche del triennio di giuridica rilevanza normativamente contemplato al comma 10 (oltre che all’art. 57, par. 7, della direttiva); di talché la negativa risposta ivi fornita ben può intendersi come riferita alla inesistenza di cause di esclusione (tenuto, altresì, conto, che lo stesso art. 15 del bando di gara, parte III, correla le dichiarazioni alle esistenza di cause ostative ex lege) id est alla inesistenza di un provvedimento sanzionatorio (accertamento definitivo risalente al luglio 2014) assumente valenza ostativa, ovvero alla inesistenza di fatti potenzialmente rilevanti ai fini della valutazione della esistenza di illeciti professionali gravi, stante in ogni caso il decorso del triennio contemplato all’art. 80, comma 10, d.lgs. 50/2016.
E, invero –anche in ragione dei cennati orientamenti giurisprudenziali non univoci sulla effettiva portata della limitazione temporale di cui al citato art. 80, comma 10- in mancanza di espresse indicazioni contenute nella legge di gara (le cui prescrizioni, anzi, potevano essere lette in tutt’altro modo, come sopra esposto) il contegno dell’Ati ricorrente è quanto meno incolpevole, riposando su di una lettura del quadro normativo:
   - affatto ragionevole; siccome sopra argomentato, la norma in esame (in ossequio all’art. 57, par. 7) nel disciplinare il divieto legale di contrarre (incapacità giuridica) –circoscrivendone lo spatium temporis, in mancanza di limiti temporali discendenti dalle sentenze o dai provvedimenti amministrativi- vale, altresì, a delimitare nel tempo la rilevanza giuridica dei fatti oggetto di quelle sentenze di condanna o di accertamento amministrativo;
   - avente una sua propria dignità, in quanto adottata anche in giurisprudenza, e peraltro maggiormente aderente alle prescrizioni della direttiva 2014/24/UE, siccome interpretati dalla Corte di Giustizia (sentenza 24.10.2018, C-124/17 e 04.06.2019, C-425/18, citt.).
3.4. Anche sotto il profilo soggettivo, pertanto, non può imputarsi all’Ati ricorrente la presentazione di dichiarazioni non veritiere o false, atteso che il carattere equivoco ed oggettivamente opinabile della stessa formulazione dei quesiti siccome riprodotti nel modello di DGUE, e le peculiari modalità attraverso cui è possibile fornirvi risposta, vale ad escludere a carico della ricorrente il giudizio di colpevolezza (sub specie di dolo generico, dovendo necessariamente rientrare nel “fuoco” della volontà dell’agente il carattere non veritiero e falso della dichiarazione) e di riprovevolezza, immancabilmente sotteso alla causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), del d.lgs. 50/2016.
3.4.1. Ciò che, peraltro, è confermato dalle stesse affermazioni di parte resistente circa la “incertezza del dato normativo e dell’interpretazione giurisprudenziale” (pag. 5, memoria di replica, En.RE).
3.4.2. D’altra parte, non può non rimarcarsi che una forma di condotta decettiva del partecipante alla gara è testualmente contemplata anche all’art. 80, comma 5, lett. c), tra le ipotesi suscettibili di integrare illecito professionale: “fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni …ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
3.4.3. Di talché, è già il criterio ermeneutico della “coerenza intrinseca” al medesimo testo normativo, secondo cui il significato delle scelte e delle proposizioni normative va desunto anche alla luce delle altre scelte e disposizioni del medesimo e unitario “complesso normativo”, a militare nel senso della distinzione tra le due ipotesi:
   - la prima, relativa al contegno consistente anche solo nell’“omettere le informazioni dovute” ai fini del corretto svolgimento della procedura, anche solo per negligenza (oltre che a fornire informazioni false o fuorvianti suscettibili di incidere sulle decisioni della stazione appaltante);
   - la seconda, nel mendacio tout court, che implica la sussistenza del dolo generico.
3.4.4. In tal senso conduce anche il criterio interpretativo per cui magis ut valeat quam ut pereat e, dunque, che nel dubbio, l’interpretazione di una proposizione normativa –promani essa da una fonte eteronoma ovvero pattizia e negoziale- deve operarsi nel senso in cui essa assuma una sua propria significanza ed efficacia, piuttosto che in quello che la deprivi di efficacia, rendendola inutiliter data (imponendosi all'interprete “di attribuire un senso a tutti gli enunciati del precetto legislativo”; Cass. SS.UU., 29.04.2009, n. 9941; TAR Lombardia, I, 13.05.2019, n. 1067).
3.4.5. E’ evidente, indi, che la condotta di cui alla lett. f-bis) costituisce un quid pluris rispetto a quella contemplata all’art. 80, comma 5, lett. c) e, in quanto connotata da maggior grado di disvalore:
   - determinante la esclusione ex lege;
   - implicante la segnalazione all’Anac, che valuterà poi il dolo o la colpa grave ai fini dell’annotazione nel casellario informatico (art. 80, comma 12; CdS, III, 7173/2018);
   - avente carattere, per così dire residuale, limitata ai “soli casi di mancata rappresentazione di circostanze specifiche, facilmente e oggettivamente individuabili e direttamente qualificabili come [possibili] cause di esclusione” (CdS, III, 23.08.2018, n. 5040, cit.).
3.4.6. Di qui la illegittimità dell’azione della stazione appaltante che su tale norma, residuale e di chiusura, ha fondato il gravato provvedimento vincolato di esclusione (recte, di revoca della aggiudicazione).
3.5. Infine, non senza rilievo è il fatto che, nel caso di specie, si verte in tema di revoca della aggiudicazione, dapprincipio disposta in favore della ricorrente.
Ciò che ha consentito anche il dispiegarsi di una previa interlocuzione procedimentale, all’esito della quale, anche a voler tenere in non cale quanto sopra esposto in punto di inesistenza ex se dell’obbligo dichiarativo che si assume infranto, l’Ati ricorrente aveva in ogni caso formulato deduzioni idonee:
   - quantomeno a lumeggiare la “incolpevolezza” ovvero la “scusabilità” del contegno asseritamente mendace o non veritiero;
   - ad escludere in nuce, indi, anche per tale esclusivo aspetto, il giudizio di grave disvalore correlato all’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. 50/2016, e al necessitato provvedimento di esclusione ivi contenuto, volto a sanzionare il contegno mendace tenuto dal partecipante alla gara.
3.6. Non possono non venire in rilievo, al fine, i principi di trasparenza, ragionevole affidamento, certezza del diritto, parità di trattamento e proporzionalità, come elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE, 02.06.2016, Pizzo, C-27/15; CGUE 02.05.2019, C-309/18), in ossequio ai quali, in mancanza di espresse e inequivoche disposizioni della lex specialis:
   - l’offerente deve poter essere messo nelle condizioni di chiarire la propria posizione in sede procedimentale;
   - la stazione appaltante ha l’obbligo di valutare i chiarimenti all’uopo forniti dall’operatore, al di là di qualsivoglia automatismo “espulsivo”, in ossequio altresì al principio di proporzionalità, che costituisce un principio generale del diritto dell’Unione e che dunque milita nel senso per cui la normativa nazionale finalizzata a garantire la parità di trattamento “non deve eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo conseguito (v. in tal senso, sentenza dell’08.02.2018, Lloyd’s of London, C-144/17, EU:C:2018:78, punto 32 e giurisprudenza ivi citata)” (CGUE, 02.05.2019, C-309/18, cit.).
3.7. Tale opzione esegetica, peraltro, appare essere stata da ultimo fatta propria dal Supremo Consesso nella (per certi versi simile a quella che ci occupa) vexata quaestio afferente alla effettiva latitudine e valenza degli obblighi dichiarativi dei costi della manodopera e degli oneri di sicurezza (CdS, V, 6688/2019) per cui:
   - si sono valorizzate le stesse osservazioni effettuate dalla Adunanza plenaria nella ordinanza n. 3/2019, da cui è scaturita la più volte citata sentenza della Corte di Giustizia del 02.05.2019;
   - si è ribadita la cogenza del principio in fora del quale “in caso di equivocità delle disposizioni, deve essere preferita l’interpretazione che, in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla partecipazione” (secondo l’orientamento già assunto da certa parte della giurisprudenza: CdS, III, 2554/18; CdS, V, 2064/13; TAR Lombardia, I, 10.09.2018, n. 2056; TAR Lombardia, I, 07.05.2018, n. 1223).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Tutela del paesaggio – Principio fondamentale della Costituzione – Previsione degli strumenti urbanistici – Coordinamento con le norme sottese alla difesa dei valori paesaggistici.
La tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa di tali valori.
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BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Difesa del paesaggio ed esigenze legate allo sviluppo edilizio del territorio – Disciplina urbanistica – Contemperamento.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia; non par dubbio che gli interventi di antropizzazione connessi alla trasformazione territoriale con finalità residenziali, finiscono per alterare la percezione visiva dei tratti tipici dei luoghi, incidendo sul loro aspetto esteriore e sulla godibilità del paesaggio nel suo insieme.
Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E’ proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio; vicendevolmente, il potere di pianificazione urbanistica, via via evoluto in senso propulsivo di miglioramento della vivibilità del suolo (si pensi alla tutela dei centri storici e, più settorialmente ma in maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di legge speciale che hanno valorizzato il potere di limitare in senso qualitativo gli insediamenti, anche commerciali, per migliorare il “decoro” e la vivibilità delle città) può rafforzare i limiti, anche conservativi, ampliando la soglia della tutela, ma mai prescinderne, condizionandola.

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BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Bellezze naturali, artistiche o storiche – Piano regolatore – Vincoli conservativi – Competenze statali e regionali – Valutazione autonoma dell’autorità titolare del potere di pianificazione, nel rispetto dei vincoli posti dalle autorità competenti.
L’art. 1 della l. 19.11.1968, n. 1187, modificando l’art. 7 della l. n. 1150/1942, ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche all’indicazione dei vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, con ciò assurgendo al rango di norma primaria su tale possibile intersecarsi di tutele, alla scopo di enfatizzarne gli effetti di ordinato sviluppo del territorio.
Si è cioè espressamente legittimata l’autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti alla relativa tutela, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni. Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali o artistiche o storiche non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita anche in sede di adozione e approvazione dello strumento urbanistico comunale
(v. Cons. Stato, sez. IV, 05.10.1995, n. 781).
Parimenti, il piano regolatore generale, nell’indicare i limiti da osservare per l’edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli imposti dalle autorità istituzionalmente preposte alla salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico o ambientale (Cons. Stato, sez. IV, 14.02.1990, n. 78, e 24.04.2013, n. 2265)
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.11.2019 n. 7839 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Urbanistica e poteri pianificatori – Funzione di sviluppo complessivo e armonico – Compenetrazione di vincoli – Protezione e valorizzazione del bene tutelato.
Il potere di pianificazione urbanistica non è limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle stesse e ai limiti che incontrano tali potenzialità.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato, nel quadro del rispetto e dell’attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, nella stesura dell’art. 117 della Costituzione conseguita alla riforma del 2001 si è inteso sostituire il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione sottese alla relativa attività programmatoria degli enti territoriali.
In definitiva, l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non sono intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone un’inaccettabile visione minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Per tale ragione è possibile una compenetrazione di vincoli che, senza esautorare lo Stato dai compiti di tutela che gli sono propri, ne rafforzi le finalità ed estenda la portata in una visione di valorizzazione, oltre che di protezione del bene tutelato.

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BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio dall’amministrazione regionale – Modifiche obbligatorie, facoltative e concordate – Obbligo di ripubblicazione – Mutamento delle caratteristiche essenziali.
Le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell’ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche –in conformità a quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n. 1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980– nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.03.2008, n. 927; id., 30.09.2002, n. 4984; 05.09.2003, nn. 2977 e 4984).
Occorre, in merito, distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
La necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Deve escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree
(Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.11.2019 n. 7839 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICATutela del paesaggio e del patrimonio storico e previsioni degli strumenti urbanistici.
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Urbanistica – Piano regolatore – Rapporto con la tutela paesaggio e del patrimonio storico e artistico – Individuazione.
La tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto alla tutela degli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa di tali valori.
E' dunque possibile l’intersecarsi dei livelli di tutela, purché nel rispetto della ripartizione delle competenze sancito dalla Costituzione, rafforzando con misure in materia di edificabilità dei suoli il regime vincolistico “puntiforme” (1).

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   (1) La Sezione affronta il problema del rapporto tra vincoli imposti ai sensi della normativa nazionale (nel caso di specie, la l. n. 1089 del 1939) e vincoli urbanistici, ribadendo la possibilità attraverso questi ultimi di rafforzare e coordinare la tutela del territorio attraverso misure di edificabilità del suolo.
In particolare, spetta allo strumento urbanistico trovare il difficile punto di equilibrio tra l’interesse alla tutela del territorio e l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio. Ove tale competenza non potesse arricchirsi dei richiamati elementi contenutistici che le sono propri, purché nel rispetto della sfera delle competenze costituzionalmente declinate, essa finirebbe per essere svuotata della sua essenza più tipica, ovvero la regolazione del regime di edificabilità dei suoli (anche) in relazione al vincolo riscontrato.
Ha aggiunto la Sezione che la conclusione alla quale è pervenuta risponde all’evoluzione del concetto di urbanistica verso la più ampia nozione di “governo del territorio” introdotta con la riforma del Titolo V della Costituzione, anche con l’obiettivo di consentire attraverso gli strumenti di pianificazione rimessi alla competenza degli Enti territoriali una sintesi delle tutele attribuite allo Stato e delle esigenze di miglioramento della qualità del territorio. La funzione di tutela e la funzione di valorizzazione appaiono, infatti, appaiono autonome, ancorché complementari.
Il “governo del territorio”, infatti, è nozione più ampia dell’“urbanistica” e risponde anche all’esigenza propulsiva di miglioramento della vivibilità del suolo (si pensi alla tutela dei centri storici e, più settorialmente ma in maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di legge speciale che hanno valorizzato il potere di limitare in senso qualitativo gli insediamenti, anche commerciali, per migliorare il “decoro” e la vivibilità delle città).
In tale contesto la previsione contenuta nella legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, che impone alle Regioni di intervenire sui Piani regolatori per finalità di tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico non può essere letta in senso riduttivo, ma implica sia la ricognizione del vincolo che il rafforzamento della relativa tutela con le misure limitative dell’edificabilità dei suoli che gli sono consoni. La natura necessitata dell’esercizio di tale potere (anche) rafforzativo implica che non occorre procedere a nuova pubblicazione del piano regolatore generale che sia stato integrato, senza stravolgerne il contenuto complessivo, con indicazioni procedurali funzionali ad estendere la zona di rispetto al fine di tutelare il complesso nel quale si trova il singolo bene.
Per tale ragione l’intervento della Regione nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le fasce di rispetto estendendo l’area degli effetti della tutela “puntiforme” del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del territorio, non comporta l’obbligo dell’ente locale di ripubblicare il Piano regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati interessati.
Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell’ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall’art. 10, comma 2, lett. c), l. n. 1150 del 1942- nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio (Cons. St., sez. IV, 05.03.2008, n. 927; id. 30.09.2002, n. 4984) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.11.2019 n. 7839 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9. La quaestio iuris sottesa all’odierna controversia attiene all’esatta estensione del potere pianificatorio degli Enti territoriali avuto riguardo alla tutela degli interessi paesaggistici, storici e ambientali che la Costituzione assegna allo Stato. In sintesi, occorre scrutinare da un lato l’estensione del potere vincolistico riconosciuto agli stessi, senza invadere competenze statali; dall’altro, al suo interno, le ricadute delle scelte regionali sulla discrezionalità decisionale del Comune e le garanzie procedurali funzionali a garantire il rispetto delle relative prerogative.
10. Al fine dunque di correttamente perimetrare i confini della vicenda, occorre chiarire la natura del vincolo imposto sui beni di proprietà dei ricorrenti, in quanto potenzialmente esteso oltre quello caratterizzante il fabbricato ottocentesco, a tutela del “complesso” rappresentato dal contesto globale nel quale esso si inserisce. In ragione, cioè, dell’insistenza sul terreno di un bene (“villa Boccuzzi”) individuato come di interesse storico architettonico ex art. 16/r delle N.T.A. del P.R.G., l’intera zona nella quale esso si colloca è assoggettata ad un particolare regime edificatorio, mirato a tutelarne la riconosciuta valenza di pregio.
11. Giova premettere che
la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa di tali valori.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia; non par dubbio che gli interventi di antropizzazione connessi alla trasformazione territoriale con finalità residenziali, soprattutto quando siano particolarmente consistenti per tipologia e volumi edilizi da realizzare, finiscono per alterare la percezione visiva dei tratti tipici dei luoghi, incidendo (quasi sempre negativamente) sul loro aspetto esteriore e sulla godibilità del paesaggio nel suo insieme. Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E’ proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio; vicendevolmente, il potere di pianificazione urbanistica, via via evoluto in senso propulsivo di miglioramento della vivibilità del suolo (si pensi alla tutela dei centri storici e, più settorialmente ma in maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di legge speciale che hanno valorizzato il potere di limitare in senso qualitativo gli insediamenti, anche commerciali, per migliorare il “decoro” e la vivibilità delle città) può rafforzare i limiti, anche conservativi, ampliando la soglia della tutela, ma mai prescinderne, condizionandola.
Da qui l’affermazione del giudice di prime cure per cui la tutela ex l. n. 1089/1939, vigente ratione temporis, riguarda il singolo bene (tutela “puntiforme”), laddove quella del luogo nel quale esso si inserisce può essere estesa in sede di pianificazione urbanistica al complesso che da quel singolo bene trae la sua esigenza di conservazione, ovvero di sviluppo controllato.
11.1.
Costituisce peraltro ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui il potere di pianificazione urbanistica non è limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle stesse e ai limiti che incontrano tali potenzialità.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato, nel quadro del rispetto e dell’attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni,
nella stesura dell’art. 117 della Costituzione conseguita alla riforma del 2001 si è inteso sostituire il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione sottese alla relativa attività programmatoria degli enti territoriali.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, tuttavia, già trovavano consacrazione nei principi generali della cosiddetta legge urbanistica fondamentale, ovvero la legge 17.08.1942, n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’“assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva,
l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non sono mai stati intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone un’inaccettabile visione minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Per tale ragione è possibile una compenetrazione di vincoli che, senza esautorare lo Stato dai compiti di tutela che gli sono propri, ne rafforzi le finalità ed estenda la portata in una visione di valorizzazione, oltre che di protezione del bene tutelato.
Nel caso in esame peraltro il vincolo che riguarda il “villino” di proprietà delle ricorrenti -così come quello imposto sugli altri immobili ritenuti di particolare pregio storico-architettonico, in maniera generalizzata ed uniforme, tale pertanto da scongiurare qualsiasi ipotesi di disparità di trattamento- non comporta effetti di natura espropriativa, ma si limita a prevedere che gli interventi edilizi concernenti tali immobili vengano realizzati nel rispetto della specifica disciplina di tutela dettata dallo strumento generale di governo del territorio.
12. Per costante orientamento giurisprudenziale, ormai risalente nel tempo,
l’art. 1 della l. 19.11.1968, n. 1187, modificando l’art. 7 della l. n. 1150/1942, ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche all’indicazione dei vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, con ciò assurgendo al rango di norma primaria su tale possibile intersecarsi di tutele, alla scopo di enfatizzarne gli effetti di ordinato sviluppo del territorio. Si è cioè espressamente legittimata l’autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti alla relativa tutela, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni.
Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali o artistiche o storiche non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita anche in sede di adozione e approvazione dello strumento urbanistico comunale
(v. Cons. Stato, sez. IV, 05.10.1995, n. 781).
Si è del pari ritenuto che il piano regolatore generale, nell’indicare i limiti da osservare per l’edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli imposti dalle autorità istituzionalmente preposte alla salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico o ambientale (Cons. Stato, sez. IV, 14.02.1990, n. 78, e 24.04.2013, n. 2265).
13.
Ove tale competenza non potesse arricchirsi dei richiamati elementi contenutistici che le sono propri, purché nel rispetto della sfera delle competenze costituzionalmente declinate, essa finirebbe per essere svuotata della sua essenza più tipica, ovvero la regolazione del regime di edificabilità dei suoli (anche) in relazione al vincolo riscontrato.
14.
Appare cioè indubbio che “tutela” e “valorizzazione” esprimano -per esplicito dettato costituzionale e, in epoca più recente, per disposizione del Codice dei beni culturali (artt. 3 e 6, secondo anche quanto riconosciuto sin dalle sentenze n. 26 e n. 9 del 2004 della Corte costituzionale)- aree di intervento diversificate. E che, rispetto ad esse, è necessario che restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l’esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale, storico o artistico nonché alla loro protezione e conservazione; mentre alle Regioni, ai fini della valorizzazione, spettino la disciplina e l’esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza, utilizzazione e fruizione di quel patrimonio (sentenza n. 194 del 2013 della Corte costituzionale), ivi compresa la loro inclusione nelle previsioni urbanistiche locali.
Tuttavia,
nonostante tale diversificazione, l’ontologica e teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale dinamica della produzione legislativa, la possibilità (come nella specie) che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio storico o artistico si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso; ciò comportando una situazione di concreto concorso della competenza esclusiva dello Stato con quella concorrente dello Stato e delle Regioni.

URBANISTICA: Le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell’ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n. 1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980- nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio.
Proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che
occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale.
La necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Altresì,
la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Infine,
deve escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; i
n altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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15. Gli appellanti lamentano dunque un utilizzo anomalo dei propri poteri da parte della Regione, cui avrebbe fatto da contraltare l’indebita acquiescenza del Comune alla proposta di vincolo riveniente da una delibera regionale, senza una oggettiva valutazione in concreto del pregio dell’edificio destinato ad attrarre nel suo regime di limitata edificabilità anche le aree a contorno.
15.1. La tesi non è condivisibile.
Una corretta lettura del combinato disposto degli artt. 7 e 10 della l. n. 1150/1942, da un lato, e degli artt. 14 e 16 della L.R. n. 56/1980 confermano sia il dovere della Regione di intervenire per esigenze di salvaguardia dei beni storici e artistici e del paesaggio, sia l’innesto di tali esigenze nel contenuto della pianificazione urbanistica. Ed è proprio la doverosità della disciplina, pur discrezionale nei suoi contenuti concreti, che ne implica l’innesto nelle scelte pianificatorie originarie del Comune, ovviamente coinvolto nel procedimento, senza necessità di un azzeramento della procedura con conseguente nuova pubblicazione del Piano.
16. Ciò posto, il Collegio è dell’avviso che vada confermato il principio correttamente posto a base di pronunce risalenti del Consiglio di Stato (concernenti pure altre analoghe vicende svoltesi nella Regione Puglia) secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell’ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n. 1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980- nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.03.2008, n. 927; id., 30.09.2002, n. 4984; 05.09.2003, nn. 2977 e 4984).
Proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
16.1. La necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
16.2. Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880).
Il che è quanto accaduto nel caso di specie, che ha riguardato, come già precisato, le aree a contorno di ville storiche disseminate nel territorio comunale.
A ciò si aggiunga che al riguardo la parte ricorrente si è limitata a contestare la indebita natura di variante generale delle modifiche apportate al P.R.G. in recepimento della delibera di G.R. n. 7557/1996, senza tuttavia dimostrare che vi sia stata una rielaborazione complessiva del piano adottato dal Comune, id est un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono. Anche a prescindere, pertanto, dall’avvenuta accettazione formale delle indicazioni regionali da parte del Comune, il motivo è privo di base (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.11.2019 n. 7839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione dell’art. 13 della L. n. 47 del 1985 (riprodotta dal successivo art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) attribuisce sì significato provvedimentale di rigetto al silenzio serbato dall’Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità (secondo la corretta prospettazione di parte ricorrente e correlata infondatezza dell’eccezione in rito formulata dall’amministrazione comunale), ma non dispone espressamente che il decorso del termine ivi indicato rappresenti, sul piano procedimentale, la chiusura del procedimento e specularmente determini, sul piano sostanziale, la definitiva consumazione del potere, con conseguente cristallizzazione della natura abusiva delle opere.
Per vero, la previsione in subiecta materia di un’ipotesi di silenzio-significativo è stata dettata nell’interesse precipuo del privato, cui è stata in tal modo consentita una sollecita tutela giurisdizionale; peraltro, come nella specie, il successivo, eventuale atto espresso di diniego non è inutiliter dato, posto che il relativo (e doveroso) corredo motivazionale individua le ragioni della decisione amministrativa e consente di meglio calibrare le difese dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse alla regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì sine titulo ma comunque nel rispetto della disciplina urbanistica –cd. abusività formale–.
La condivisibile giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito che il provvedimento adottato dall’amministrazione successivamente al silenzio-rigetto formatosi sull’istanza di sanatoria presentata ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 non può assumere le caratteristiche dell’atto meramente confermativo del precedente silenzio con valore legalmente tipico di diniego ovvero di precedenti determinazioni amministrative quando si innesti su di un mutato scenario effettuale, ma costituisce atto di conferma in senso proprio a carattere rinnovativo, il quale –per la sua idoneità ad incidere sulla realtà giuridica, modificandola– non potrà che riaprire i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale da parte di quanti ne vogliano contestare la legittimità.
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Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che seguono, risultando condivisibile ed assorbente il dedotto vizio di difetto di istruttoria in relazione alla contestata legittimazione procedimentale.
La disposizione dell’art. 13 della L. n. 47 del 1985 (riprodotta dal successivo art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) attribuisce sì significato provvedimentale di rigetto al silenzio serbato dall’Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità (secondo la corretta prospettazione di parte ricorrente e correlata infondatezza dell’eccezione in rito formulata dall’amministrazione comunale), ma non dispone espressamente che il decorso del termine ivi indicato rappresenti, sul piano procedimentale, la chiusura del procedimento e specularmente determini, sul piano sostanziale, la definitiva consumazione del potere, con conseguente cristallizzazione della natura abusiva delle opere (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, 17.05.2018, n. 3249).
Per vero, la previsione in subiecta materia di un’ipotesi di silenzio-significativo è stata dettata nell’interesse precipuo del privato, cui è stata in tal modo consentita una sollecita tutela giurisdizionale; peraltro, come nella specie, il successivo, eventuale atto espresso di diniego non è inutiliter dato, posto che il relativo (e doveroso) corredo motivazionale individua le ragioni della decisione amministrativa e consente di meglio calibrare le difese dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse alla regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì sine titulo ma comunque nel rispetto della disciplina urbanistica –cd. abusività formale– (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 02.10.2017, n. 4574).
La condivisibile giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito che il provvedimento adottato dall’amministrazione successivamente al silenzio-rigetto formatosi sull’istanza di sanatoria presentata ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 non può assumere le caratteristiche dell’atto meramente confermativo del precedente silenzio con valore legalmente tipico di diniego ovvero di precedenti determinazioni amministrative quando si innesti su di un mutato scenario effettuale, ma costituisce atto di conferma in senso proprio a carattere rinnovativo, il quale –per la sua idoneità ad incidere sulla realtà giuridica, modificandola– non potrà che riaprire i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale da parte di quanti ne vogliano contestare la legittimità (TAR Lazio, Latina, 02.07.2012, n 528).
Ciò –in tal guisa superandosi il rilievo di cui all’avviso ex art. 73 c.p.a.– appare tanto più rilevante nel caso di specie a fronte dei rilevi sopravvenuti rappresentati dall’odierna parte ricorrente all’amministrazione in correlazione al superamento dei dubbi sulla proprietà del mappale 1546 per effetto della prodotta sentenza 287/2008 emessa dal Tribunale di Vicenza, passata in giudicato, (ns. doc. 7) e dell’ivi richiamato atto di permuta.
Da ciò consegue la fondatezza della censura di difetto di istruttoria non avendo il comune valutato e posto a fondamento della propria determinazione tale elemento giuridico-fattuale portato alla sua attenzione (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 14.11.2019 n. 1230 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn giurisprudenza è pacifico che, dalla lettura delle richiamate norme contenute negli art. 11, comma 1, e 36 DPR 380/2001, nell’ottica della necessaria conformità degli interventi edilizi alla disciplina urbanistica, nell’esclusivo interesse pubblico ad una programmata e disciplinata trasformazione del territorio, l’impulso ad effettuare tale trasformazione debba provenire da un soggetto, che si trovi in posizione di detenzione qualificata del bene, anche nell’ambito di un rapporto di locazione.
Quanto alla necessità che sia chiara e incontestabile la proprietà dell’immobile sul quale è stato realizzato l’abuso, sembra opportuno sottolineare che il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce, pertanto, nell’assetto dei rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per l’Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice civilistica, per la realizzazione dell’intervento edilizio da assentire.
Non appare casuale, tuttavia, che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. cit.) ammetta la proposizione dell’istanza da parte non solo del proprietario, ma anche del “responsabile dell’abuso”, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva (ivi compresi, evidentemente, concessionari o conduttori dell’area interessata, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi –oltre che dei proprietari– nei confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base dei rapporti interni intercorsi).
La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile –ove coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive– l’utilizzo di uno strumento giudiziario utile al fine di evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi.
Con la formula utilizzata nella redazione dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 il legislatore ha voluto ricomprendere la legittimazione a chiedere la sanatoria in capo a più soggetti che, astrattamente, possono aver concorso a realizzare l’abuso, fermo restando che non tutti, indifferenziatamente, possono richiedere, senza il consenso dell’effettivo titolare del bene sul quale insistono le opere (il quale potrebbe essere completamente estraneo all’abuso ed avere anzi un interesse contrario alla sua sanatoria), una concessione che potrebbe risolversi in danno dello stesso.
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Nel caso di specie inoltre il Collegio rileva, quanto al successivo seguito conformativo, che, per un verso, dalla lettura degli atti emerge che, in seguito al rigetto della prima istanza di accertamento in conformità ed all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, è stato depositato in data 09/11/10 ricorso innanzi a questo Tar con RG 1892/10 ancora pendente e, diversamente da quanto dedotto dall’amministrazione resistente, non dichiarato perento; per altro verso, che, sotto il profilo legislativo e con riferimento alla legittimazione a chiedere il rilascio di un titolo abilitante alla realizzazione di un intervento edilizio, l’art. 11, comma 1, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”; quanto poi alla sanatoria di un abuso edilizio il successivo art. 36 del medesimo testo unico prevede che l’accertamento di conformità –da rapportare sia al momento di realizzazione delle opere che a quello di presentazione della domanda– possa essere richiesto dal “responsabile dell’abuso”, o da “l’attuale proprietario dell’immobile”.
In giurisprudenza è, quindi, pacifico che, dalla lettura delle richiamate norme contenute negli art. 11, comma 1, e 36 DPR 380/2001, nell’ottica della necessaria conformità degli interventi edilizi alla disciplina urbanistica, nell’esclusivo interesse pubblico ad una programmata e disciplinata trasformazione del territorio, l’impulso ad effettuare tale trasformazione debba provenire da un soggetto, che si trovi in posizione di detenzione qualificata del bene, anche nell’ambito di un rapporto di locazione (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 26.01.2015 n. 316).
Quanto alla necessità che sia chiara e incontestabile la proprietà dell’immobile sul quale è stato realizzato l’abuso, sembra opportuno sottolineare che il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce, pertanto, nell’assetto dei rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per l’Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice civilistica, per la realizzazione dell’intervento edilizio da assentire (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. Stato, Sez. IV, 05.06.2012 n. 3300, 04.04.2012 n. 1990, 16.03.2012 n. 1488).
Non appare casuale, tuttavia, che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. cit.) ammetta la proposizione dell’istanza da parte non solo del proprietario, ma anche del “responsabile dell’abuso”, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva (ivi compresi, evidentemente, concessionari o conduttori dell’area interessata, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi –oltre che dei proprietari– nei confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base dei rapporti interni intercorsi: cfr. anche, per il principio, mai più messo in discussione, Cons. Stato, Sez. V, 08.06.1994 n. 614 e Cons. giust. amm. Sic. 29.07.1992 n. 229).
La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile –ove coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive– l’utilizzo di uno strumento giudiziario utile al fine di evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi (cfr., ancora sulla sussistenza della legittimazione a presentare la domanda di sanatoria in capo all’autore dell’abuso, Cons. Stato, Sez. IV, 08.09.2015 n. 4176).
Con la formula utilizzata nella redazione dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 il legislatore ha voluto ricomprendere la legittimazione a chiedere la sanatoria in capo a più soggetti che, astrattamente, possono aver concorso a realizzare l’abuso, fermo restando che non tutti, indifferenziatamente, possono richiedere, senza il consenso dell’effettivo titolare del bene sul quale insistono le opere (il quale potrebbe essere completamente estraneo all’abuso ed avere anzi un interesse contrario alla sua sanatoria), una concessione che potrebbe risolversi in danno dello stesso (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 14.11.2019 n. 1230 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer opera di carattere precario deve intendersi quella, agevolmente rimuovibile, funzionale a soddisfare un’esigenza fisiologicamente e oggettivamente temporanea (es. baracca o pista di cantiere, manufatto per una manifestazione ecc.) destinata a cessare dopo il tempo, normalmente breve, entro cui si realizza l'interesse finale che la medesima era destinata a soddisfare.
E’ stato, inoltre, chiarito che il suddetto carattere deve essere escluso allorquando vi sia un'oggettiva idoneità del manufatto a incidere stabilmente sullo stato dei luoghi, essendo l'opera destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, ancorché a termine, in relazione all'obiettiva e intrinseca natura della costruzione.
Da ciò discende, pure, che la natura precaria di un’opera non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente assegnatagli dal costruttore, rilevando piuttosto la sua oggettiva idoneità a soddisfare un bisogno non provvisorio attraverso la perpetuità della funzione.

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In base ad una pacifica giurisprudenza, per opera di carattere precario deve intendersi quella, agevolmente rimuovibile, funzionale a soddisfare un’esigenza fisiologicamente e oggettivamente temporanea (es. baracca o pista di cantiere, manufatto per una manifestazione ecc.) destinata a cessare dopo il tempo, normalmente breve, entro cui si realizza l'interesse finale che la medesima era destinata a soddisfare (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 11/01/2018, n. 150; Sez. V, 25/05/2017, n. 2464).
E’ stato, inoltre, chiarito che il suddetto carattere deve essere escluso allorquando vi sia un'oggettiva idoneità del manufatto a incidere stabilmente sullo stato dei luoghi, essendo l'opera destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, ancorché a termine, in relazione all'obiettiva e intrinseca natura della costruzione (Cons. Stato, Sez. IV, 07/12/2017, n. 5762).
Da ciò discende, pure, che la natura precaria di un’opera non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente assegnatagli dal costruttore, rilevando piuttosto la sua oggettiva idoneità a soddisfare un bisogno non provvisorio attraverso la perpetuità della funzione (Cass. Pen., Sez. III, 08/02/2007 n. 5350) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.11.2019 n. 7792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordinanza di demolizione ha natura vincolata e, pertanto, non è assistita da particolari garanzie partecipative, non essendo dunque necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all' art. 7 e ss. della L. n. 241/1990.
L'art.  27, co. 2, del d.lgs. n. 380/2001 (secondo cui “Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali …, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi") neppure distingue tra opera edilizia eseguita in difformità o in assenza di titolo edilizio ai fini dell’applicazione della sanzione demolitoria, ritenendo quest’ultima sempre doverosa, allorché sia incontestato che gli interventi siano stati effettuati senza aver ottenuto alcun titolo edilizio ovvero in difformità dallo stesso.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “In base all'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 quando i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione sussiste un ipotesi di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, per la quale è prevista la sanzione della demolizione, sussistendo invece una difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione"
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L'attività della P.A. inerente la repressione degli abusi edilizi consiste in attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo infatti la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole intervallo dall'epoca della commissione dell'abuso.
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Il ricorso è infondato.
1. – Imprendendo l’esame dalla dedotta violazione delle garanzie partecipative è sufficiente far richiamo alla giurisprudenza consolidata secondo cui “L'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordinanza di demolizione ha natura vincolata e, pertanto, non è assistita da particolari garanzie partecipative, non essendo dunque necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all' art. 7 e ss. della L. n. 241/1990” (Consiglio di Stato, sez. II , 13/06/2019 , n. 3968).
Visto l’art. 27, co. 2, del d.lgs. n. 380/2001 intitolato “Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia e responsabilità edilizia” secondo cui “Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali …, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi".
La su estesa disposizione neppure distingue tra opera edilizia eseguita in difformità o in assenza di titolo edilizio ai fini dell’applicazione della sanzione demolitoria, ritenendo quest’ultima sempre doverosa, allorché sia incontestato che gli interventi siano stati effettuati senza aver ottenuto alcun titolo edilizio ovvero in difformità dallo stesso.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “In base all'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 quando i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione sussiste un ipotesi di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, per la quale è prevista la sanzione della demolizione, sussistendo invece una difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione" (TAR, Milano, sez. II, 08/07/2019, n. 1572).
Dalla relazione di sopralluogo emerge inequivocabilmente che il fabbricato realizzato risulta in totale difformità rispetto a quanto assentito; nello specifico dalla comparazione della consistenza e della destinazione (variata da non residenziale a residenziale) emerge che il piano terra -che nelle previsioni del progetto doveva essere interrato per tre lati- risulta invece totalmente “fuori terra”, con sagoma di ingombro maggiorata.
Ne consegue che anche la seconda censura deve essere parimenti respinta.
Analogamente priva di pregio deve ritenersi l’ulteriore censura a mezzo della quale parte ricorrente adombra il ritardo da parte dell’autorità di vigilanza nel riscontrare l’abuso, tenuto conto del carattere permanente dell’illecito edilizio. L'attività della P.A. inerente la repressione degli abusi edilizi consiste in attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo infatti la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole intervallo dall'epoca della commissione dell'abuso (TAR Campania Napoli Sez. III, 26/01/2018, n. 594).
In conclusione il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Latina, sentenza 13.11.2019 n. 676 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione dell’ordine di demolizione – Alienazione del manufatto abusivo a terzi – Accertata edificazione in violazione di norme urbanistiche – Rapporto con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi – Diritto di rivalsa dell’acquirente estraneo all’abuso – Giurisprudenza.
In materia edilizia, l’esecuzione dell’ordine di demolizione, impartito dal giudice a seguito dell’accertata edificazione in violazione di norme urbanistiche, non è escluso dall’alienazione del manufatto abusivo a terzi, anche se intervenuta anteriormente all’ordine medesimo, ciò in quanto tale ordine, avendo carattere reale, ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi, con la sola conseguenza che l’acquirente, se estraneo all’abuso, potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell’avvenuta demolizione (così Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi Conf. Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Curcio; Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni; Sez. 3, n. 39322 del 13/07/2009, Berardi e altri; Sez. 3, n. 22853 del 29/03/2007, Coluzzi; Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli).
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Reati urbanistici – Opere destinate alla demolizione – Domanda di sanatoria – Condono edilizio – Poteri del giudice dell’esecuzione – Ampio potere-dovere di controllo sulla legittimità dell’atto concessorio – Verifica dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura – Requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge – Fattispecie.
In materia urbanistica, è riconoscita al giudice dell’esecuzione in presenza di una domanda di sanatoria, un ampio potere-dovere di controllo sulla legittimità dell’atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio.
Inoltre, è anche attribuita al giudice dell’esecuzione, con riferimento alla mera pendenza di una richiesta di sanatoria, la verifica dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura.
Tali principi sono stati ribaditi anche recentemente, affermando che il giudice dell’esecuzione, in presenza di una domanda di sanatoria, non deve limitarsi a prenderne atto ai fini della sospensione o revoca dell’ordine di demolizione impartito con la sentenza di condanna, ma deve esercitare il potere-dovere di verifica della validità ed efficacia del titolo abilitativo, valutando la sussistenza dei presupposti per l’emanazione dello stesso e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio oltre, ovviamente, alla rispondenza di quanto autorizzato con le opere destinate alla demolizione.
Fattispecie: assenza di una effettiva corrispondenza tra l’immobile da demolire e quello oggetto della richiesta di condono edilizio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.11.2019 n. 45848 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATADeve ribadirsi il principio, più recentemente affermato, secondo cui, essendo illegittimi i provvedimenti di sanatoria "atipica" che prescindano dal requisito della doppia conformità, il giudice penale non può attribuire ad essi alcun effetto, non soltanto con riguardo all'estinzione del reato urbanistico, ma pure rispetto alla non irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva previsto dall'art. 31, comma 9, T.U.E., ovvero alla revoca dello stesso qualora il provvedimento amministrativo contra legem sia eventualmente stato emanato successivamente al passaggio in giudicato della sentenza.
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2.2.1. Ciò premesso, va innanzitutto osservato come sia del tutto generica, e concerna comunque un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, la doglianza secondo cui l'opera abusiva oggetto dell'ordine di demolizione non avrebbe ecceduto la volumetria consentita all'epoca della sua edificazione nell'anno 2004.
2.2.2. Quanto alla deduzione -che, peraltro, sconfessa quella poco sopra riportata- secondo cui, effettivamente, anche il consulente della difesa aveva rilevato un'eccedenza della volumetria destinata ad uso residenziale anche al momento della richiesta di sanatoria a cui, tuttavia, si sarebbe potuto ovviare con una modifica di destinazione d'uso (in tesi, par di capire, connessa alla richiesta integrazione di documentazione da parte del Comune), rileva il Collegio come il ricorrente evochi, sul punto, il possibile rilascio di un provvedimento di sanatoria c.d. "atipico", che sancisca la compatibilità ex post con le previsioni urbanistiche di un manufatto che non era invece conforme alla disciplina vigente al momento della sua realizzazione.
Benché la legittimità di tali provvedimenti sia stata in passato affermata dalla giurisprudenza amministrativa, sì che questa Corte -sia pur non attribuendo loro effetti estintivi del reato urbanistico per la mancanza del requisito della doppia conformità richiesto dal combinato disposto di cui agli artt. 36 e 45, comma 3, T.U.E.- ne aveva affermato la rilevanza ai fini di escludere l'adozione (o l'esecuzione) dell'ordine di demolizione previsto dall'art. 31, comma 9, T.U.E. (cfr. Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008, Iacono Ciulla, Rv. 239708; Sez. 3, n. 40969 del 27/10/2005, Olimpio, Rv. 232371), l'orientamento in parola può dirsi oggi certamente superato.
2.2.3. Ed invero, proprio con riguardo al problema in esame, postosi in sede di giudizio di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna, questa Corte ha già affermato che
la sanatoria, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 T.U.E. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e a., Rv. 260973).
Nella motivazione della richiamata decisione si pone in luce come,
a far tempo dalla seconda metà del decennio scorso, la giurisprudenza amministrativa (si cita Cons. St. Sez. 4, n. 4838 del 17.09.2007) abbia escluso l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale sul presupposto che la sua applicazione contrasta con il principio di legalità, dal momento che non vi è stata alcuna espressa previsione di tale istituto allorquando l'art. 36 T.U.E. ha riproposto la corrispondente disciplina contenuta nella I. 47/1985, avendo il legislatore delegato, nella redazione del d.P.R. 380/2001, disatteso il parere del 29.03.2001 con cui l'Adunanza generale del Consiglio di Stato ne aveva sollecitato l'introduzione nell'emanando testo unico in materia edilizia.
Lo stesso giudice amministrativo -si rimarca, citando Cons. St. Sez. 4, n. 6784 del 02.11.2009- ha poi ritenuto che
l'art. 36 T.U.E., in quanto norma derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile di applicazione analogica né di interpretazione riduttiva e (cfr. Cons. St. Sez. 5, n. 3220 del 11.06.2013) che la sanatoria giurisprudenziale non può ritenersi applicabile in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa non potendosi ritenere ammessi nell'ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri non previsti dalla legge e non surrogabili in via giudiziaria.
Ancora, la citata decisione di questa Corte osservava come
il Consiglio di Stato avesse ulteriormente confermato la propria posizione in tema d'illegittimità della sanatoria giurisprudenziale sul rilievo che il divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria anche quando dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico sia giustificato della necessità di «evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)» oltre che dall'esigenza di «disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico» (Cons. St. Sez. 5, n. 1324 del 17.03.2014; conf. Cons. St. Sez. 5, n. 2755 del 27.05.2014).
Si rilevava -da ultimo- come questo consolidato orientamento del giudice amministrativo avesse trovato conferma nella decisione con cui la Corte Costituzionale (sent. 22-29/05/2013, n. 101), esaminando la compatibilità costituzionale della legislazione adottata dalla Regione Toscana in materia di governo del territorio e rischio sismico, aveva affermato che
il principio fondamentale della legislazione statale in materia di provvedimento di sanatoria delle opere abusive ricavabile dall'art. 36 T.U.E., che esige il rispetto del requisito della doppia conformità, «risulta finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità» (Corte cost., sent. n. 101/2013).
Richiamando l'orientamento del giudice amministrativo che esclude la legittimità di provvedimenti atipici di sanatoria che prescindano da tale doppia conformità, nella citata decisione la Corte costituzionale ha ulteriormente osservato che,
diversamente dal condono, la sanatoria ordinaria «è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi "formali", ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, "anche di natura preventiva e deterrente", finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture "sostanzialiste" della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell'istanza per l'accertamento di conformità» (Corte cost., sent. n. 101/2013).
2.2.4. Queste argomentazioni e conclusioni -con cui il ricorrente in alcun modo si confronta- sono integralmente condivise dal Collegio, dovendosi inoltre osservare come
il citato orientamento del giudice amministrativo abbia trovato in questi ultimi anni ulteriori, ripetute, conferme tanto da potersi oramai considerare ius receptum nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr., da ultimo: Sez. IV, sent. n. 1874 del 21.03.2019; Sez. VI, sent. n. 5319 del 11.09.2018; Sez. VI, sent. n. 2496 del 24.04.2018; Sez. VI, sent. n. 1087 del 20.02.2018; Sez. VI, sent. n. 3018 del 21.06.2017; Sez. VI, sent. n. 3194 del 18.07.2016).
Superandosi definitivamente il contrario precedente indirizzo di questa Corte,
deve, pertanto, ribadirsi il principio, più recentemente affermato, secondo cui, essendo illegittimi i provvedimenti di sanatoria "atipica" che prescindano dal requisito della doppia conformità, il giudice penale non può attribuire ad essi alcun effetto, non soltanto con riguardo all'estinzione del reato urbanistico, ma pure rispetto alla non irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva previsto dall'art. 31, comma 9, T.U.E., ovvero alla revoca dello stesso qualora il provvedimento amministrativo contra legem sia eventualmente stato emanato successivamente al passaggio in giudicato della sentenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.11.2019 n. 45845).

COMPETENZE PROGETTUALI: Reati edilizi – Competenze professionali – Architetti, Ingegneri, Geometri – Limiti di competenze del geometra – Progettazione e direzione dei lavori di costruzioni civili – Opere in cemento armato – Opere eccezionalmente progettabili dai geometri – R.D. 274/1929 e Legge 1086/1971 – Legge n. 64/1974 – Giurisprudenza.
La disposizione secondo la quale i geometri non siano abilitati a redigere “progetti di massima” ove riguardanti, fuori dalle ipotesi eccezionalmente consentite dalla lett. l), dell’art. 16, del R.D. 274/1929, costruzioni richiedenti l’impiego di strutture in cemento armato, risponde ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all’interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell’assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito, e cioè la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai geometri anche nei casi di impiego di cemento armato.
Inoltre, deve ritenersi inammissibile l’interpretazione estensiva ed evolutiva della previsione sub lett. m), dell’art. 16, del R.D. 274/1929, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme –articolo 2 della legge n. 1086/1971 ed articolo 17 della legge n. 64/1974– che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale
(Cass. 1157/1996; id. 3046/1999; id. 3021/200; id. 27441/2006; id. 19292/2009).

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Contratti d’opera professionale stipulati anteriormente all’abrogazione dell’art. 1 del R.D. 2229/1939 – Legge del tempo e conclusione del contratto – Abrogazione successiva – Effetti retroattivi – Esclusione.
Nonostante l’art. 1 del R.D. 2229/1939 tratti di disposizione abrogata ad opera del d.lgs. n. 212 del 2010, per i contratti stipulati da un geometra anteriormente all’abrogazione non viene meno la nullità per contrarietà a norme imperative perché l’introduzione di una disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa vigente non produce effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non influisce, dunque, sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso (Cass. 19989/2013; id. 6402/2011).
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Progettazione di costruzione civile “modesta” – Criteri di accertamento e criterio distintivo – Violazione di norme imperative – Nullità del contratto d’opera professionale – Intervento nella fase esecutiva o di direzione dei lavori di professionista abilitato – Insanabilità del vizio.
Il criterio, contenuto alla lett. m) dell’art. 16, del R.D. 274/1929, per accertare se una costruzione civile sia da considerare “modesta” consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le attività occorrenti per superarle, precisando che assume significativa rilevanza, secondo il criterio tecnico-qualitativo fondato sulla valutazione della struttura dell’edificio e delle relative modalità costruttive, la circostanza che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64/1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri (Cass. 8543/2009).
Sicché, la pregnanza di tale criterio distintivo comporta che neppure l’eventuale intervento nella fase esecutiva o di direzione dei lavori di un professionista di categoria a ciò abilitato può sanare la nullità, per violazione di norme imperative, del contratto d’opera professionale di progettazione sottoscritto da un geometra al di fuori dei casi di sua competenza (cfr. Cass. 19292/2009; id. 17028/2006)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 12.11.2019 n. 29227 - link a www.ambientediritto.it).
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SENTENZA
   - con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 16, lett. l) ed m), r.d. 274/1929 per avere la corte territoriale interpretato la norma in esame nel senso di escludere la legittimazione dei geometri alla progettazione, direzione e vigilanza di costruzioni civili in cemento armato;
   - si censura che tale legittimazione sia stata ammessa limitatamente all'ipotesi contemplata nell'art. 16, lett. l), r.d. 274/1929, secondo un'interpretazione restrittiva della previsione normativa in collegamento alla lettera m), che ricomprende nell'oggetto e nei limiti dell'esercizio professionale del geometra "il progetto, la direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili" senza alcun riferimento al cemento armato;
   - tale mancato riferimento avallerebbe, secondo il ricorrente, la tesi secondo la quale il geometra potrebbe progettare e dirigere costruzioni civili in cemento armato purché "modeste", concentrandosi solo su tale limite la definizione del perimetro delle sue competenze e non anche sulla natura "civile" delle stesse;
   - in tale prospettiva interpretativa, il ricorrente censura poi l'interpretazione di "modesta costruzione civile" come intesa nella pronuncia gravata, e cioè secondo un criterio quantitativo piuttosto che secondo un criterio tecnico-qualitativo, ed in ogni caso denuncia la mancata valutazione della circostanza che il ricorso al cemento armato era limitato alle cordonature perimetrali dei solai;
   - il motivo non merita accoglimento;
   - l'ermeneutica alternativa proposta dal ricorrente si fonda su una lettura della disciplina normativa contenuta nel r.d. 724/1929 in materia di competenze professionali dei geometri contraria alla sua ratio così come sistematicamente ricostruita dalla giurisprudenza e puntualmente richiamata dal giudice d'appello;
   - appare opportuno ricordare che l'oggetto ed i limiti dell'esercizio professionale di geometra sono regolati dall'art. 16, che all'attività di progettazione, direzione e vigilanza (o sorveglianza) dedica le lettere l) ed m), rispettivamente riconprendendovi:
alla lett. l) l'attività di progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso di industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; nonché piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza rilevanti opere d'arte, lavori di irrigazione di bonifica (omissis) esclusa, comunque, la redazione di prospetti generali di bonifica idraulica ed agraria e relativa direzione;
alla lett. m) l'attività di progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili;
   - occorre, altresì, richiamare per completezza le norme disciplinanti l'esecuzione delle opere di conglomerato cementizio semplice od armato di cui al r.d. 2229 del 1939, il cui articolo 1 prevedeva che ogni opera in conglomerato semplice od armato, la cui stabilità potesse comunque interessare l'incolumità delle persone, dovesse essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere ovvero da un architetto iscritto nell'albo nei limiti delle rispettive attribuzioni;
   - va chiarito poi che, benché si tratti di disposizione abrogata ad opera del d.lgs. n. 212 del 2010, per i contratti stipulati da un geometra anteriormente all'abrogazione non viene meno la nullità per contrarietà a norme imperative perché, come ritenuto da questa Corte, l'introduzione di una disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa vigente non produce effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non influisce, dunque, sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso (cfr. Cass. 19989/2013; id. 6402/2011);
   - nell'ambito del quadro normativo in cui si inserisce la questione posta dal ricorrente, rientra anche la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, contenuta nella successiva legge n. 1086/1971, che all'articolo 2, intitolato "Progettazione, direzione ed esecuzione", stabilisce -per quanto qui di interesse- che la costruzione ed esecuzione delle opere deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze;
   - inoltre, l'art. 17 della legge 64/1974, in relazione alle costruzioni nelle zone sismiche, dispone che chi intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso (omissis) e che alla domanda deve essere unito il progetto, in doppio esemplare e debitamente firmato da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive competenze, nonché dal direttore dei lavori;
   - ebbene, ritiene il collegio che il complessivo quadro regolamentare frutto del coordinamento delle sin qui descritte disposizioni normative delinei un sistema coerente la cui consolidata interpretazione debba essere qui ribadita, mentre l'interpretazione alternativa proposta dal ricorrente si fonda, a fronte del mancato riferimento per le costruzioni civili di cui alla lett. m) al cemento armato, su una conclusione interpretativa estensiva del silenzio normativo che non trova conferma né nella disposizione originaria del r.d. 274 del 1929 né nei successivi interventi legislativi;
   - la disposizione secondo la quale i geometri non siano abilitati a redigere "progetti di massima" ove riguardanti, fuori dalle ipotesi eccezionalmente consentite dalla lett. l), costruzioni richiedenti l'impiego di strutture in cemento armato (cfr. Cass. 19292/2009; id. 17028/2006) risponde ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito, e cioè la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai geometri anche nei casi di impiego di cemento armato;
   - ne consegue l'inammissibilità di un'interpretazione estensiva ed evolutiva della previsione sub lett. m), che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -articolo 2 della legge n. 1086/1971 ed articolo 17 della legge n. 64/1974- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale (cfr. Cass. 1157/1996; id. 3046/1999; id. 3021/200; id. 27441/2006; id. 19292/2009);
   - sempre con riguardo alla lett. m), si è ritenuto che il criterio per accertare se una costruzione civile sia da considerare "modesta" consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le attività occorrenti per superarle, precisando che assume significativa rilevanza, secondo il criterio tecnico-qualitativo fondato sulla valutazione della struttura dell'edificio e delle relative modalità costruttive, la circostanza che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64/1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri (cfr. Cass. 8543/2009);
   - la pregnanza di tale criterio distintivo comporta per la giurisprudenza di legittimità che neppure l'eventuale intervento nella fase esecutiva o di direzione dei lavori di un professionista di categoria a ciò abilitato può sanare la nullità, per violazione di norme imperative, del contratto d'opera professionale di progettazione sottoscritto da un geometra al di fuori dei casi di sua competenza (cfr. Cass. 19292/2009; id. 17028/2006);
   - risulta altresì assorbita la contestazione riguardante il requisito della modesta costruzione civile, dal momento che la valutazione presuppone che non ci sia impiego di cemento armato, giacché la sua presenza esclude ipso facto la competenza del geometra;
   - nel caso di specie, il geometra aveva sostenuto che l'impiego del cemento armato era limitato alle cordonature perimetrali dei solai e che le iniezioni di cemento liquido servivano solo a ricostituire l'eventuale malta tra i conci carenti di legante;
   - tuttavia, tale prospettazione non era stata ritenuta dalla corte territoriale idonea ad escludere l'incidenza sulla struttura portante dell'edificio sicché le verifiche statiche dovevano essere effettuate da un tecnico abilitato (cfr. pag. 11 della sentenza) ;
   - si tratta di interpretazione delle circostanze di fatto coerente con i principi giurisprudenziali vigenti e, pertanto, esente dalla censura mossa (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 12.11.2019 n. 29227).

CONSIGLIERI COMUNALILegittimazione ad impugnare la proroga dello scioglimento del Consiglio comunale.
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Processo amministrativo – Legittimazione – Attiva - Proroga scioglimento Consiglio comunale – Impugnazione – Singolo elettore – Inammissibilità.
L’impugnazione dello scioglimento dell’organo consiliare ai sensi dell’art. 143 del T.U.E.L., come anche della sua proroga, non è annoverabile tra le azioni proponibili dai singoli elettori ai sensi dell’art. 9 del T.U.E.L., e ciò in quanto la misura dissolutoria di cui all’art. 143, mentre incide sulle situazioni soggettive dei componenti degli organi elettivi che, per effetto di essa, vengono a subire una perdita di status, non altrettanto incide su quella dell’ente locale, titolare di posizioni autonome e distinte, che, anzi, nella misura vede uno strumento di tutela e di garanzia della pubblica amministrazione (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che è inammissibile per difetto di legittimazione l’azione popolare proposta per impugnare lo scioglimento del consiglio comunale e la nomina di una commissione straordinaria per la provvisoria gestione del medesimo, perché lo strumento offerto dall’art. 9 del T.U.E.L. non può essere utilizzato per far valere azioni che non sono di spettanza dell’ente locale nell’interesse del quale si dichiara di agire.
Il provvedimento di proroga è, sì, contestabile in sede giurisdizionale avanti al giudice amministrativo da parte dei componenti del disciolto organo consiliare, ma solo se e nella misura in cui tale contestazione, per vizi propri del medesimo provvedimento –ad esempio per la sua tardività– o per vizî derivati dallo scioglimento medesimo, possa condurre al reinsediamento dei soggetti eletti, risultato da escludersi, nella vicenda esaminata, per l’accertata definitiva legittimità del predetto scioglimento, e non già al fine di ottenere la fissazione di nuove, più ravvicinate nel tempo, elezioni.
Non sussiste dunque legittimazione dei componenti della disciolta amministrazione comunale, nemmeno quali cittadini-elettori, ad impugnare il provvedimento di proroga per far valere un siffatto interesse.
Il presupposto dell’eccezionalità, previsto dall’art. 143, comma 10, T.U.E.L., atto a giustificare la proroga dello scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa si lega all’eccezionalità della situazione che ha determinato lo scioglimento del consiglio comunale, non dovendo ipotizzarsi una c.d. doppia eccezionalità, la prima, tale da determinare la misura dissolutoria, e la seconda, del tutto diversa dalla prima, tale da giustificarne la proroga.
È insita nella stessa natura della proroga, infatti, l’esigenza di proseguire gli effetti dell’originario provvedimento al fine di consentire che questo possa continuare ad esplicare la propria efficacia per tutte le ragioni che ne hanno giustificato l’iniziale adozione e non è logicamente sostenibile che i motivi della prolungata efficacia debbano essere del tutto diversi e avulsi rispetto a quelle originarie ragioni al cospetto di una misura, come quella straordinaria dello scioglimento del consiglio comunale, adottata proprio al fine di contrastare l’infiltrazione mafiosa negli organi politici e amministrativi dell’ente locale.
La proroga non è, cioè, una misura straordinaria che si assomma ad una misura straordinaria, ma la mera prosecuzione temporale dell’unica misura straordinaria in presenza di stringenti ragioni finalizzate al regolare funzionamento dei servizi affidati alle pubbliche amministrazioni (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.11.2019 n. 7762 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Attività di certificazione delle SOA – Accessibilità – Fondamento.
Le SOA, pur avendo natura giuridica di società per azioni di diritto speciale, svolgono una funzione pubblicistica di certificazione, che sfocia nel rilascio di un’attestazione con valore di atto pubblico, sicché la loro attività configura un “esercizio privato di pubblica funzione” (Cons. Stato, sez. VI, 02.03.2004, n. 991; id. 02.03.2004, n. 993; id. 30.03.2004, n. 2124) e le attestazioni di qualificazione, risultato dell’attività di certificazione delle SOA, sono peculiari atti pubblici, destinati ad avere una specifica efficacia probatoria. Ne discende che gli atti posti in essere nell’ambito della suddetta attività sono certamente accessibili (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 11.11.2019 n. 12937 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Accesso agli atti amministrativi – Autonomia della legittimazione all’accesso rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
La disciplina dell’accesso agli atti amministrativi non condiziona l’esercizio del relativo diritto alla titolarità di una posizione giuridica tutelata in modo pieno, essendo sufficiente il collegamento con una situazione giuridicamente riconosciuta anche in misura attenuata.
La legittimazione all’accesso va quindi riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita, distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
L’actio ad exhibendum prescinde comunque dalla lesione in atto di una posizione giuridica, che non compete al giudice dell’accesso accertare verificando la meritevolezza del relativo interesse, stante la sopradetta autonomia del diritto di accesso rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, 19.02.2016, n. 696; TAR Lazio, Roma, Sez. III-bis, 11.10.2019, n. 11793) (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 11.11.2019 n. 12937 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATARisulta dirimente, ai fini della infondatezza della censura sollevata, il riferimento alla natura assoluta del divieto di costruzione previsto dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523 del 1904.
La norma così dispone: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti:…f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento di terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Dunque, in mancanza di diverse prescrizioni da parte dei regolamenti locali, vi è divieto di realizzare fabbriche e scavi a distanza inferiore di dieci metri dal piede degli argini, espressamente sancendo la norma che tale divieto ha carattere “assoluto”.
Pertanto, una deroga a tale limite normativo è consentita solo da differenti prescrizioni dei regolamenti locali, non potendo la stessa essere rimessa alla determinazione individuale dell’autorità amministrativa.
Orbene, la giurisprudenza costantemente ritiene che il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’articolo 96, lett. f), del T.U. 25.07.1904, n. 523, ha carattere legale, assoluto ed inderogabile.
Si afferma, in proposito, che tale vincolo di inedificabilità è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle stesse, garantendo le operazioni di ripulitura e manutenzione ed impedendo le esondazioni delle acque.
Dunque, la ratio della disposizione va individuata nella finalità di scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e per le cose che potrebbero derivare da esondazioni.
Ciò posto, dal carattere assoluto del richiamato vincolo di inedificabilità discende la natura vincolata (in termini repressivi) dell’azione amministrativa conseguente all’accertamento della violazione della distanza legale.
A tanto consegue che una eventuale mancata repressione di altra opera realizzata a distanza inferiore ovvero, a maggior ragione, l’avvenuta autorizzazione della stessa pur in mancanza della distanza di 10 metri prevista dalla norma, dando luogo a condotte contra legem, costituiscono elementi che non possono in alcun modo fondare l’illegittimità di una sanzione demolitoria irrogata in presenza di violazione della distanza legale.
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La sopravvenuta circostanza della copertura del torrente e dell’incanalamento delle relative acque non appare elemento dirimente per ritenere che l’ordine di demolizione non possa essere emesso, per essere i manufatti non violativi della normativa in materia di distanze.
Deve, in proposito, in primo luogo essere evidenziato che la copertura del corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero, affermato che i vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.

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I
l divieto recato dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904 concerne, per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e “scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Invero, la fascia di rispetto non è finalizzata esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento sormontato da inferriata costituisce certamente opera rientrante nel concetto di “fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e, dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente (sia pur tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le operazioni di pulitura e manutenzione.

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Viene, invero, lamentata l’intima contraddizione del comportamento della Regione, la quale, da una parte ha ingiunto la demolizione delle opere realizzate dal privato a distanza inferiore a 10 metri, mentre dall’altra ha consentito la completa sistemazione dell’area da parte del Comune attraverso la canalizzazione del ruscello tramite tubi in cemento armato, la sistemazione della strada interpoderale (sita al lato opposto del ruscello rispetto alla proprietà Gi.) e la realizzazione sulla stessa di opere di messa in sicurezza quali guard rail.
La doglianza non è meritevole di favorevole considerazione, non risultando assolutamente comparabili le situazioni messe a raffronto dall’appellante per dedurre la contraddittorietà e l’illogicità dell’azione amministrativa.
Invero, a differenza dei manufatti realizzati dalla signora Gi., gli interventi eseguiti dal Comune ed autorizzati dalla Regione risultano essere opere pubbliche e di interesse pubblico, delle quali è stata previamente verificata, da parte dell’autorità competente, la compatibilità con le esigenze di tutela della risorsa idrica.
Va, inoltre, considerato che la strada era preesistente e, dunque, per quanto emerge dalle stesse affermazioni dell’appellante, si è trattato di sistemazione di un’opera che già insisteva al margine del torrente Mandrelle.
In disparte a quanto sopra rilevato, risulta, poi, dirimente, ai fini della infondatezza della censura sollevata, il riferimento alla natura assoluta del divieto di costruzione previsto dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523 del 1904.
La norma così dispone: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti:…f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento di terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Dunque, in mancanza di diverse prescrizioni da parte dei regolamenti locali, vi è divieto di realizzare fabbriche e scavi a distanza inferiore di dieci metri dal piede degli argini, espressamente sancendo la norma che tale divieto ha carattere “assoluto”.
Pertanto, una deroga a tale limite normativo è consentita solo da differenti prescrizioni dei regolamenti locali, non potendo la stessa essere rimessa alla determinazione individuale dell’autorità amministrativa.
Orbene, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 22.06.2011 n. 3781; Trib. sup. acque, 24.06.2010, n. 104) costantemente ritiene che il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’articolo 96, lett. f), del T.U. 25.07.1904, n. 523, ha carattere legale, assoluto ed inderogabile.
Si afferma, in proposito, che tale vincolo di inedificabilità è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle stesse, garantendo le operazioni di ripulitura e manutenzione ed impedendo le esondazioni delle acque.
Dunque, la ratio della disposizione va individuata nella finalità di scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e per le cose che potrebbero derivare da esondazioni.
Ciò posto, osserva il Collegio che dal carattere assoluto del richiamato vincolo di inedificabilità discende la natura vincolata (in termini repressivi) dell’azione amministrativa conseguente all’accertamento della violazione della distanza legale.
A tanto consegue che una eventuale mancata repressione di altra opera realizzata a distanza inferiore ovvero, a maggior ragione, l’avvenuta autorizzazione della stessa pur in mancanza della distanza di 10 metri prevista dalla norma, dando luogo a condotte contra legem, costituiscono elementi che non possono in alcun modo fondare l’illegittimità di una sanzione demolitoria irrogata in presenza di violazione della distanza legale.
Per le ragioni sopra esposte, dunque, non è configurabile il lamentato vizio di contraddittorietà dell’azione amministrativa.
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Osserva, di poi, la Sezione, in disparte a quanto sopra rilevato, che in ogni caso la sopravvenuta circostanza della copertura del torrente e dell’incanalamento delle relative acque non appare, allo stato degli atti, elemento dirimente per ritenere che l’ordine di demolizione non dovesse essere emesso, per essere i manufatti non violativi della normativa in materia di distanze.
Deve, in proposito, in primo luogo essere evidenziato che la copertura del corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero affermato (cfr. Trib. sup. acque, 18.02.2014, n. 44) che i vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.
...
Osserva il Collegio che il divieto recato dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904 concerne, per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e “scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Invero, come sopra già esposto, la fascia di rispetto non è finalizzata esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento sormontato da inferriata (quale evincibile dalla documentazione fotografica versata in atti) costituisce certamente opera rientrante nel concetto di “fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e, dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente Mandrelle (sia pur tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le operazioni di pulitura e manutenzione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.11.2019 n. 7695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un titolo edilizio rilasciato a terzi, viene individuata nel momento in cui i lavori hanno avuto inizio nel caso si contesti in radice l’edificabilità dell’area, mentre per le altre censure con la conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo.
Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata.
Peraltro, tali affermazioni vengono anche contemperate con la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere considerato libero di decidere, se e quando accedere agli atti. La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa.
Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso. Nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall’altra.
Infatti, il principio di trasparenza, sostanzia e rende effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla piena conoscenza della documentazione amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente.
Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali.
La giurisprudenza ha, quindi, individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori.
In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per la impugnazione di un titolo edilizio viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), al completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione; mentre la vicinitas di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori e comunque chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso documentale.
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In base alla consolidata giurisprudenza, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un titolo edilizio rilasciato a terzi, viene individuata nel momento in cui i lavori hanno avuto inizio nel caso si contesti in radice l’edificabilità dell’area, mentre per le altre censure con la conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 29.07.2011, n. 15; Sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; Sez. V n. 3777 del 27.06.2012; Sez. IV, 10.06.2014, n. 2959).
Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata (Cons. Stato, Sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Cons. Stato, Sez. IV, 20.01.2014, n. 264).
Peraltro, tali affermazioni vengono anche contemperate con la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere considerato libero di decidere, se e quando accedere agli atti. La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa.
Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso. Nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall’altra.
Infatti, il principio di trasparenza, sostanzia e rende effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla piena conoscenza della documentazione amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente (Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013, n. 322).
Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (Cons. Stato, IV Sez., 28.10.2015, n. 4909).
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, quindi, individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori (Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3191).
In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per la impugnazione di un titolo edilizio viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), al completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione (Cons. Stato, Sez. II, 12.08.2019, n. 5664; Sez. IV, 26.07.2018, n. 4583; id., 23.05.2018, n. 3075); mentre la vicinitas di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori e comunque chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso documentale (Cons. Stato, Sez. II, 26.06.2019, n. 4390).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie non può che essere confermata la sentenza di primo grado che ha dichiarato la irricevibilità del ricorso straordinario notificato il 09.06.1992 avverso la concessione edilizia rilasciata il 20.07.1990 e la successiva variante del 20.12.1991.
Infatti, anche a prescindere dalla prova di una conoscenza anteriore degli interventi edilizi censurati, dagli atti di causa risulta, comunque, che i lavori relativi almeno al titolo edilizio del 20.07.1990 siano stati completati almeno nel dicembre 1991, essendo stato rilasciato il certificato di abitabilità il 23.12.1991. Tale certificato dà espressamente atto della conclusione dei lavori il 23.12.1991. Inoltre, in base alla relazione di sopralluogo del 01.02.1992 ed alla conseguente ordinanza di sospensione dei lavori, a tale data risulta realizzato anche il muretto di recinzione (se anche in difformità dalla concessione).
Infatti sia la relazione di sopralluogo che l’ordinanza di sospensione fanno riferimento all’“innalzamento della quota di imposta del fabbricato di metri 1,60” e alla “sopraelevazione del muro di confine” di circa 1 metro. Ne deriva che il 23.12.1991, o al più tardi il 01.02.1992, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, era perfettamente percepibile dal vicino interessato la lamentata violazione delle distanze e delle altezze, con conseguente tardività del ricorso straordinario notificato il 09.06.1992.
Rispetto a tali circostanze di fatto, è irrilevante quanto sostenuto dall’appellante con riferimento alla mancata conoscenza della relazione di sopralluogo del 01.02.1992; questa, infatti, anche se non ancora conosciuta dall’appellante, dà atto che a quella data erano stati realizzati l’innalzamento del terreno e il muretto di recinzione sopraelevato rispetto al progetto approvato. Il vicino era quindi in grado di percepire l’avvenuta realizzazione delle opere.
Sostiene poi l’appellante che nella relazione del coordinatore dell’ufficio tecnico del 19.05.1992 sarebbe attestata la prosecuzione dei lavori ancora a tale data. Tale circostanza è irrilevante rispetto alla tardività della impugnazione dei titoli edilizi, in quanto la relazione del 19.05.1992, si riferisce a lavori in difformità dai titoli edilizi, che non possono dunque rilevare rispetto alla impugnazione dei titoli stessi.
Né può rilevare la relazione del tecnico di fiducia della parte ricorrente del 02.04.1992, trattandosi di un incarico peritale affidato privatamente dalla parte, che avrebbe avuto l’onere comunque di impugnare nel termine di sessanta giorni dalla “piena conoscenza” interpretata secondo la giurisprudenza sopra citata, dunque eventualmente esercitando tempestivamente l’accesso agli atti o comunque facendo nei termini esaminare i progetti al proprio tecnico di fiducia, circostanza che non giustifica, quindi, il ritardo nella presentazione del ricorso straordinario.
Il ricorso straordinario non può, dunque, che essere considerato irricevibile per tardività con conferma della sentenza appellata sul punto (cfr. Cass. civ., Sez. III, 12.07.2019, n. 18745) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 11.11.2019 n. 7692 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Curatela fallimentare e disciplina dell’accesso agli atti.
Il curatore fallimentare è sì un pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 30 del R.D. 16/03/1942, n. 267, ma ciò non fa di lui un soggetto privato esercente una funzione di pubblico interesse assimilabile ad una pubblica amministrazione e non soggiace pertanto alla disciplina prevista dagli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990 in materia di accesso agli atti, trattandosi piuttosto di un ausiliario del giudice, nominato con la sentenza di fallimento o con decreto del Tribunale, che amministra il patrimonio del fallito nell’ambito di una procedura concorsuale disciplinata dalla legge, sotto la vigilanza del giudice delegato.
La stessa legge fallimentare, del resto, disciplina specificatamente l’accesso da parte dei terzi, agli atti e ai documenti per i quali sussiste un loro specifico e attuale interesse, prevedendo all’uopo la previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il curatore
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 11.11.2019 n. 2374 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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È utile rammentare che, ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990:
   - per «documento amministrativo» s’intende «ogni rappresentazione grafica fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale»;
   - per «pubblica amministrazione» s’intendono «tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario».
Ciò posto, reputa il Collegio che l’Amministrazione Provinciale, non soltanto, non è tenuta ad esibire documenti da essa non detenuti, ma, neppure essa è tenuta –come adombra la difesa ricorrente- a trasmettere l’istanza di accesso a soggetti terzi, ad essa estranei, quali le curatele fallimentari di AF. S.p.a. e Do. S.r.l., allo scopo di richiedere ad esse i documenti non detenuti.
Ciò, poiché, contrariamente all’assunto di parte ricorrente, dal riconoscimento dello status di pubblico ufficiale al curatore fallimentare non discende affatto l’assimilazione del curatore stesso ad una «pubblica amministrazione», sia pure intesa nei sensi di cui all’art. 22, co. 1, lett. e) legge n. 241/1990.
Il curatore fallimentare, a ben vedere, è sì un pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 30 del R.D. 16/03/1942, n. 267, ma ciò non fa di lui «un soggetto privato esercente una funzione di pubblico interesse… assimilabile ad una pubblica amministrazione, di talché soggiace alla disciplina prevista dagli artt. 22 e seguenti della Legge n. 241/1990 in materia di accesso agli atti» (pagina 8 su 9 della memoria di replica di parte ricorrente), trattandosi piuttosto di un ausiliario del giudice, nominato con la sentenza di fallimento o con decreto del Tribunale (art. 27 R.D. 267/1942), che amministra il patrimonio del fallito nell’ambito di una procedura concorsuale disciplinata dalla legge, sotto la vigilanza del giudice delegato (art. 31 R.D. 267/1942).
La stessa legge fallimentare, del resto, disciplina specificatamente l’accesso da parte dei «terzi», agli atti e ai documenti «per i quali sussiste un loro specifico ed attuale interesse» prevedendo all’uopo la «previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il curatore» (art. 90, u.co., R.D. cit.).
Per il resto, osserva il Collegio come le censure di eccesso di potere svolte dall’esponente siano inammissibili, trascendendo il piano dell’accesso ed appuntandosi sull’operato dell’Amministrazione nel procedimento ex art. 244 TUA, tuttora in itinere.
Conclusivamente, quindi, il ricorso come in epigrafe proposto va respinto.

EDILIZIA PRIVATA: In pendenza di domande di condono l'Amministrazione non può adottare provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi prima di aver definito, con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in sanatoria.
Invero, una volta presentata un'istanza di concessione in sanatoria o di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima e in pendenza del relativo procedimento, è preclusa l'adozione di provvedimenti sanzionatori dell'abuso che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria
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10. Con riferimento al contestato mutamento della destinazione d’uso da garage a cantina, deve ritenersi fondato il rilievo secondo il quale l’omessa definizione della pratica di condono edilizio presentata dall’originario proprietario ai sensi dell'art. 39, comma 4, l. 23.12.1994 n. 724 determina l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione nella parte che riguarda tali opere.
In pendenza di domande di condono, infatti, l'Amministrazione non può adottare provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi prima di aver definito, con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in sanatoria (TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.02.2018, n. 1581).
Invero, una volta presentata un'istanza di concessione in sanatoria o di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima e in pendenza del relativo procedimento, è preclusa l'adozione di provvedimenti sanzionatori dell'abuso che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria (ex plurimis: TAR Lazio, Roma, Sezione II-bis, 11.01.2018, n. 333; 06.12.2017, n. 12038; 24.11.2017, n. 11667; 02.03.2017, n. 3060; Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.10.2013 n. 5090; TAR Campania, 14.01.2016, n. 176; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 18.02.2014 n. 2012; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 05.03.2014 n. 13) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'attività di repressione degli abusi edilizi, tramite l'emissione dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, costituisce attività di natura vincolata e, pertanto, la stessa non è assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui agli articoli 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990 agli interessati.
In tale contesto, deve parimenti escludersi che ai destinatari del provvedimento recante l'ordine di demolizione, debbano essere riconosciute le prerogative connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di presentare osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale.
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Il potere comunale di sanzionare gli interventi eseguiti in contrasto con la normativa urbanistica ed edilizia, oltre ad essere doveroso e rigorosamente vincolato, è esercitabile dal comune in ogni tempo.
È, invece, l’intervento sostitutivo delle Regioni che può essere esercitato entro cinque anni dalla dichiarazione di agibilità dell’intervento, come previsto, dall’art. 40 del DPR 380/2001.

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La mera inerzia da parte dell'amministrazione, nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico, non è idonea a far divenire legittima un’edificazione sine titulo sin dall'origine illegittima.
Pertanto, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento tutelabile in capo al proprietario dell'immobile abusivo che, per altro, nel caso di specie, non è mai stato destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo ad ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
In circostanze quali quelle all’esame è, infine, del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato ed evidente carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria.

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4.1. Quanto alla censurata violazione del diritto della ricorrente di partecipare al procedimento, costante giurisprudenza amministrativa (da ultimo Consiglio di Stato sezione II 13.06.2019 n. 3791) evidenzia come l'attività di repressione degli abusi edilizi, tramite l'emissione dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, costituisce attività di natura vincolata e, pertanto, la stessa non è assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui agli articoli 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990 agli interessati.
In tale contesto, deve parimenti escludersi che ai destinatari del provvedimento recante l'ordine di demolizione, debbano essere riconosciute le prerogative connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di presentare osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale.
...
4.3. Anche il motivo di ricorso afferente la ritenuta prescrizione dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 40 del DPR 380/2001, non coglie nel segno.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente, infatti, il potere comunale di sanzionare gli interventi eseguiti in contrasto con la normativa urbanistica ed edilizia, oltre ad essere doveroso e rigorosamente vincolato, è esercitabile dal comune in ogni tempo (in termini TAR Liguria 09.04.2013 n. 611).
È, invece, l’intervento sostitutivo delle Regioni che può essere esercitato entro cinque anni dalla dichiarazione di agibilità dell’intervento, come previsto, dall’art. 40 del DPR 380/2001.
4.4. Quanto, da ultimo, all’affidamento che la ricorrente avrebbe tratto dalla mancata contestazione dell’abuso ed al contestato difetto di motivazione del provvedimento gravato, va osservato che la mera inerzia da parte dell'amministrazione, nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico, non è idonea a far divenire legittima un’edificazione sine titulo sin dall'origine illegittima (in termini, Consiglio di Stato sez. VI, 05.09.2018, n. 5204).
Pertanto, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento tutelabile in capo al proprietario dell'immobile abusivo che, per altro, nel caso di specie, non è mai stato destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo ad ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. In circostanze quali quelle all’esame è, infine, del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato ed evidente carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.11.2019 n. 643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICADivieto in Liguria ai comuni di apportare varianti ai PRG ultradecennali fino all’approvazione del nuovo strumento di governo del territorio PUC.
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Urbanistica – Piano regolatore – Ultradecennale – Liguria – L.reg. n. 36 del 1997 – Fino all’approvazione del nuovo strumento di governo del territorio PUC - Manifesta infondatezza.
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della l.reg. Liguria n. 36 del 1997, che ha vietato ai comuni di apportare varianti ai Piani regolatori generali ultradecennali fino a che non si approva il nuovo strumento di governo del territorio PUC (1).
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   (1) La Sezione ha ritenuto non rilevante, ai fini della declaratoria di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della l.reg. Liguria n. 36 del 1997, la sentenza della Corte cost. n. 179 del 2019, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge regionale Lombardia secondo cui i comuni non potevano apportare varianti ai piani sino alla approvazione del nuovo piano territoriale regionale.
La sezione ha rilevato la profonda differenza dei due casi: in Lombardia la potestà dei comuni era paralizzata fino a un termine indefinito e nelle mani potestative della Regione stessa; in Liguria, invece i comuni, approvando il puc, potevano agevolmente rimuovere il divieto.
In sintesi, mentre nel caso della norma regionale lombarda veniva rimesso integralmente alla potestà regionale di allungare illimitatamente il termine di durata della compressione della potestà di pianificazione dei comuni, senza che nulla questi ultimi potessero fare per disinnescare la disposizione transitoria, la norma regionale ligure attribuisce proprio ai singoli comuni la responsabilità di far cessare l’efficacia del divieto di ius variandi, adottando i nuovi strumenti urbanistici comunali previsti dall’art. 5, l.reg. n. 36 del 1997, da sottoporre alla approvazione regionale nei termini previsti dall’art. 38 della medesima legge (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.11.2019 n. 7667 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3.1 Con il secondo motivo, l’appellante censura la decisione impugnata proponendo un’interpretazione sistematica e teleologica della disciplina contenuta nella novella regionale, secondo la quale la limitazione alla potestà di pianificazione dei comuni liguri non attingerebbe le varianti “riduttive” del consumo di risorse paesistico-ambientali e quelle precauzionali rispetto a pregiudizi ambientali.
A tale conclusione condurrebbero i principi informatori della pianificazione scolpiti nell’art. 2 della legge regionale n. 36 del 1997, come il canone del minimo consumo di risorse territoriali e paesistico-ambientali disponibili, con particolare riguardo a quelle irriproducibili, i principi di matrice europea di precauzione ed azione preventiva, nonché il principio di interpretazione costituzionalmente orientata che imporrebbe di accedere ad una lettura restrittiva della novella regionale, nel senso che essa incide sulle potestà comunali di pianificazione, ma non le annulla e svuota completamente.
Secondo l’appellante, sulla base della suggerita lettura del dato normativo il TAR avrebbe dovuto accertare la piena legittimità della variante impugnata dall’appellato, in quanto variante riduttiva della potestà edificatoria del titolare del diritto dominicale ed avente finalità di riduzione del consumo del suolo e di tutela del paesaggio.
3.2 In primo luogo, non appare corretto il riferimento dell’appellante ai principi informatori della pianificazione quali recepiti nell’art. 2 della legge urbanistica regionale della Liguria, in quanto in seguito alla novella introdotta con la l.r. 18.11.2016, n. 29, la lettera a) del comma 3 del citato art. 2 è stata modificata, eliminando ogni richiamo al canone del “minimo consumo di risorse territoriali e paesistico-ambientali disponibili”, sostituito con il principio “della conservazione e della valorizzazione delle risorse ambientali e paesaggistiche disponibili”.
3.3 In secondo luogo, l’appellante, articolando il motivo in esame, patrocina una interpretazione “creativa” degli artt. 47-bis e 47-ter, introducendo una distinzione, sul piano degli effetti prodotti, tra varianti riduttive del consumo di risorse paesistico-ambientali e, pertanto, legittime e varianti ampliative della potestà edificatorie dei privati, come tali vietate dalla norma regionale. Ma di questa distinzione non vi è traccia nella lettera degli articoli di legge citati, ed anzi essa sembra difficilmente coniugabile con la già evidenziata ratio acceleratoria della novella legislativa.
3.4 Sebbene per giurisprudenza costante, anche della Sezione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.06.2016, n. 3233), l’art. 12 delle Preleggi, laddove stabilisce che nell’applicare la legge non si può attribuire alla stessa altro significato che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del Legislatore, non privilegia il criterio letterale ma pone un dualismo tra lettera e spirito o ratio della norma, non può certamente consentirsi all’interprete di pervenire ad una correzione della disposizione normativa nel significato tecnico delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che, in assenza di correzione, la disposizione non coglierebbe le finalità per le quali è stata forgiata (cfr. Cass. 04.10.2018, n. 24265; Id. 14.10.2006, n. 20808).
E proprio questo sembra essere il tentativo dell’appellante nel caso di specie, giacché:
   - la lettera degli artt. 47-bis e 47-ter, come si è evidenziato, limita la potestà di pianificazione dei comuni, senza distinguere sul piano oggettivo tra varianti riduttive e varianti ampliative del consumo di territorio e paesaggio;
   - la ratio dei citati articoli non è quella di ridurre il consumo di territorio o paesaggio, bensì di indurre i comuni a dotarsi quanto prima dei nuovi strumenti urbanistici territoriali (P.U.C.);
   - i principi informatori della pianificazione regionale ligure, come enunciati nell’art. 2 della legge n. 36 del 1997, non possono integrare e correggere l’ambito applicativo degli artt. 47-bis e 47-ter nel senso patrocinato dall’appellante, in quanto essi “ispirano” la pianificazione territoriale (cfr. art. 2, comma 3), pertanto di essi dovrà anzitutto tenersi conto in sede di predisposizione dei nuovi P.U.C. di cui all’art. 5 della citata legge urbanistica regionale.
3.4 Anche il secondo motivo si palesa pertanto infondato.
4.1 Con il terzo ed ultimo motivo, proposto in via subordinata per l’ipotesi di reiezione dei primi due motivi, il Comune appellante eccepisce l’incostituzionalità degli artt. 47-bis e 47-ter della l.r. n. 36 del 1997 per violazione delle norme e dei principi in materia di prerogative pianificatorie comunali, di violazione del canone di sussidiarietà verticale di cui agli artt. 5 e 118 della Costituzione e di violazione del principio di leale collaborazione tra amministrazioni.
Secondo la prospettazione dell’appellante, la questione sarebbe del tutto analoga a quella già delibata positivamente dalla Sezione con la sentenza non definitiva n. 5711 del 04.12.2017, che ha devoluto alla Corte costituzionale la verifica di costituzionalità, tra l’altro, dell’art. 5, comma 4, ultimo periodo, della legge regionale Lombardia n. 31 del 2014.
In pendenza del giudizio di appello, l’appellante, in data 05.09.2019, ha prodotto la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 22.07.2019, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della l.r. Lombardia 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo del suolo e per la riqualificazione del suolo degradato), nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge della Regione Lombardia 26.05.2017, n. 16, recante “Modifiche all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31”, nella parte in cui non consente ai comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente.
4.2 Lo scrutinio dell’eccezione di incostituzionalità proposta dall’appellante deve necessariamente prendere le mosse dall’esame della pronuncia della Consulta n. 179 del 2019, con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della l.r. Lombardia 28.11.2014, n. 31, per violazione del combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali, e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio di sussidiarietà verticale.
Con la predetta norma regionale lombarda dichiarata incostituzionale, era stata introdotta una disciplina transitoria nel periodo occorrente alla integrazione dei contenuti del Piano Territoriale Regionale (PTR) e al successivo adeguamento dei Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale (PTCP) e dei Piani di Governo del Territorio (PGT), per rendere i citati piani coerenti con i nuovi principi in materia di governo del territorio e di riduzione del consumo di suolo e di paesaggio introdotti dalla l.r. Lombardia n. 31 del 2014.
In particolare, dopo aver precisato che “successivamente all’integrazione del PTR e all’adeguamento dei PTCP e degli strumenti di pianificazione territoriale della città metropolitana, di cui ai commi 1 e 2, e in coerenza con i contenuti dei medesimi, i comuni adeguano, in occasione della prima scadenza del documento di piano, i PGT alle disposizioni della presente legge” (art. 5, comma 3), la legge regionale lombarda stabiliva che “Fino a detto adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente” (art. 5, comma 4, ultimo periodo).
In sintesi, la legge regionale lombarda aveva introdotto un divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano sino alla conclusione del processo di adeguamento degli strumenti urbanistici regionale, provinciali e comunali ai principi introdotti dalla medesima legge. Tale divieto, come sottolineato dalla Consulta, era stato “effettivamente declinato secondo due distinte scadenze temporali: la prima prevista dal comma 6 assegnando ai privati il termine di trenta mesi per la presentazione delle istanze di attuazione del programma edificatorio; la seconda stabilita dal comma 9 per le ipotesi di cui a) entro il termine di trenta mesi non siano stati presentati progetti da parte dei soggetti interessati alla realizzazione di un piano attuativo ovvero b) se presentati, non sia stata stipulata la relativa convenzione entro dodici mesi dall’approvazione. Anche in queste ultime due ipotesi, comunque, il Comune è vincolato al vigente documento di piano sino all’esito del procedimento di adeguamento di cui al comma 3” (cfr. C. Cost. n. 179 del 2019, 12.2).
4.3 Prendendo le mosse dal principio secondo cui la competenza concorrente in materia di governo del territorio abilita fisiologicamente la legislazione regionale a intervenire nell’ambito di disciplina della pianificazione urbanistica, la Consulta afferma che, nel rispetto dell’autonomia dei comuni nella materia urbanistica (riconosciuta dall’art. 14, comma 27, lettera d), del decreto legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010), è richiesto uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove “la normativa regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo temporale” (cfr. C. cost. n. 179 del 2019, 12.5).
In tali casi, costatato che “il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione”, secondo la Consulta il giudizio di verifica della legittimità costituzionale dell’intervento regionale non passa tanto su di una valutazione in astratto, quanto sulla valutazione in concreto in ordine all’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali.
Segnatamente, occorrerà valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., “quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone”.
Si tratta di un giudizio di proporzionalità, da svolgersi “dapprima in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale, successivamente in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza ed al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti” (cfr. C. Cost. n. 179 del 2019, 12.5).
4.4 All’esito del giudizio di proporzionalità compiuto in astratto, la Corte enuncia il principio che il livello di intervento regionale “è strutturalmente quello più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo, perché in grado di porre limiti ab externo e generali alla pianificazione urbanistica locale”, di talché “lo scopo perseguito dal legislatore regionale rientra, senza dubbio, nell’ambito del legittimo esercizio della competenza regionale e di per sé appare compatibile con la pianificazione urbanistica locale”.
Passando al giudizio di proporzionalità compiuto in concreto, la Corte evidenzia che il divieto di ius variandi, come introdotto dalla norma regionale lombarda, da un lato, paralizza la potestà di pianificazione comunale anche quando i comuni intendessero esercitarla nella stessa direzione dei principi di coordinamento enunciati dal legislatore regionale, dall’altro non reca alcun termine certo e congruo per limitarne l’effetto, giacché - in ultima analisi - rimette la delimitazione del periodo di sottrazione della potestà di pianificazione comunale alla discrezionalità della regione nell’approvare l’adeguamento al Piano Territoriale Regionale.
Di qui la conclusione che “la norma impugnata non supera, ai sensi del legittimo esercizio del principio di sussidiarietà verticale, il test di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr. C. Cost. n. 179 del 2019, 12.7).
4.5 Facendo applicazione dei suesposti principi enunciati dal Giudice delle leggi all’odierno gravame, l’eccezione di legittimità costituzionale proposta dall’appellante si palesa manifestamente infondata.
Ed invero, la norma contenuta negli artt. 47-bis e 47-ter della l.r. Liguria n. 36 del 1997 introduce, fino all’approvazione dei nuovi P.U.C., un divieto di ius variandi per i comuni dotati di strumento urbanistico generale vigente da oltre un decennio, disciplinando specifiche e ben limitate ipotesi derogatorie.
Tale limitazione alla potestà di pianificazione dei comuni liguri, come già sopra evidenziato, trova ratio nell’esigenza avvertita dal legislatore regionale di accelerare il processo di sostituzione dei vecchi strumenti urbanistici territoriali con i nuovi modelli di pianificazione (P.U.C.), da predisporsi a cura dei comuni in attuazione degli innovativi principi informatori scolpiti negli artt. 2 e 5 della citata legge urbanistica regionale. Si tratta di uno scopo pienamente legittimo alla luce delle funzioni di programmazione e di coordinamento spettanti alla regione nelle materie di cui all’articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione.
Focalizzando l’attenzione sul profilo della durata della predetta sottrazione di potestas variandi, rilevante per il giudizio di proporzionalità “in concreto” nei termini indicati dalla Consulta, la norma contenuta negli artt. 47-bis e 47-ter paralizza lo ius variandi dei comuni “fino all’approvazione del PUC”, cosi introducendo un termine finale di efficacia della misura che dipende in larga parte dalle scelte di ciascun comune. Ne discende che, a differenza della norma regionale lombarda dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 179 del 2019 –che faceva dipendere l’efficacia della limitazione della potestà comunale di pianificazione anzitutto dalla scelta regionale di approvare o meno il nuovo Piano Territoriale Regionale– la norma della l.r. n. 36 del 1997, al contrario, rimette sostanzialmente a ciascun comune interessato di predisporre ed adottare il nuovo P.U.C. e, per tale via, di determinare la cessazione dell’efficacia della misura limitativa.
In sintesi, mentre nel caso della norma regionale lombarda, veniva rimesso integralmente alla potestà regionale di allungare illimitatamente il termine di durata della compressione della potestà di pianificazione dei comuni, senza che nulla questi ultimi potessero fare per disinnescare la disposizione transitoria, la norma regionale ligure attribuisce proprio ai singoli comuni la responsabilità di far cessare l’efficacia del divieto di ius variandi, adottando i nuovi strumenti urbanistici comunali previsti dall’art. 5 della l.r. n. 36 del 1997, da sottoporre alla approvazione regionale nei termini previsti dall’art. 38 della medesima legge.
L’assenza di margini di discrezionalità in capo alla Regione Liguria con possibili ricadute sul termine di durata della misura limitativa transitoria, ed anzi l’aver rimesso la cessazione della misura ad una scelta di ogni singolo comune avente uno strumento generale di pianificazione ultradecennale, evidenzia come nella specie i comuni non sono soggetti passivi di una valutazione rimessa al livello di governo superiore, bensì principali responsabili dell’ambito temporale di applicazione della disposizione.
Ne consegue, secondo le direttrici indicate dalla Consulta con la sentenza n. 179 del 2019, lo scrutinio positivo in termini di piena proporzionalità della misura rispetto al tipo di interessi coinvolti ed alle finalità perseguite dalla legge regionale in esame.
4.6 In conclusione, l’eccezione di incostituzionalità degli artt. 47-bis e 47-ter della l.r. n. 36 del 1997, come formulata con il terzo motivo di appello, si palesa manifestamente infondata.
5. L’accertata infondatezza di tutti i motivi di appello, impone la reiezione del gravame.

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Inoltre, “Ai fini della legittimità dell'ingiunzione demolitoria è necessaria l'affermazione della accertata abusività dell'opera, mediante la descrizione della stessa, la constatazione dell'esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo e l'individuazione della norma applicata”.
L’individuazione delle opere ben può essere effettuata attraverso i riferimenti catastali, di cui vi è menzione nell’impugnata ordinanza, la quale inoltre contiene una precisa descrizione delle opere sanzionate nelle loro caratteristiche dimensionali.
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I provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili, dovendosi prescindere dagli eventuali rapporti interprivati tra gli autori degli abusi e i proprietari; l'ordine di demolizione è legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso.
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Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario– che il responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi all’impugnazione della sanzione.
D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio di proprietà.
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13.1. Non risulta fondato il primo motivo d’appello, in quanto l’ordinanza demolitoria impugnata è ampiamente suffragata dal verbale di sopralluogo con il quale le opere abusive sono state accertate, tanto più che i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia non richiedono alcun apprezzamento in punto di interesse pubblico.
Infatti, come rilevato di recente da questo Consiglio “L’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (cfr. sentenza, sez. II, 19.06.2019, n. 4184; v. anche sez. VI, 15.10.2018, n. 5915).
Inoltre, come pure è stato osservato di recente, “Ai fini della legittimità dell'ingiunzione demolitoria è necessaria l'affermazione della accertata abusività dell'opera, mediante la descrizione della stessa, la constatazione dell'esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo e l'individuazione della norma applicata” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2019, n. 903).
L’individuazione delle opere ben può essere effettuata attraverso i riferimenti catastali, di cui vi è menzione nell’impugnata ordinanza, la quale inoltre contiene una precisa descrizione delle opere sanzionate nelle loro caratteristiche dimensionali.
13.2. Infondato è il secondo motivo, in quanto la legittimazione passiva all’ordine di demolizione si radica anche sulla mera disponibilità materiale e giuridica delle opere.
Questo Consiglio ha infatti affermato che “I provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili, dovendosi prescindere dagli eventuali rapporti interprivati tra gli autori degli abusi e i proprietari; l'ordine di demolizione è legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso” (cfr. Cons Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4571).
...
13.4. E’ infondato anche il quarto mezzo, in quanto, fermo restando che la mancata pronuncia su una o più domande non comporta la rimessione della causa al primo giudice, non è ravvisabile il lamentato difetto di istruttoria, non avendo l’Amministrazione l’onere di accertare chi sia il responsabile delle opere abusive accertate.
Questo Consiglio ha infatti di recente ribadito che “Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario– che il responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi all’impugnazione della sanzione. D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio di proprietà” (sez. VI, 11.12.2018, n. 6983). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.11.2019 n. 7616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se in astratto l’installazione dell’antenna di un impianto radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, la realizzazione di simili manufatti va però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli impianti, richiedendosi il rilascio del titolo edilizio in caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con annessi altri manufatti accessori.
Nel caso di specie, le caratteristiche dimensionali dell’opus, ed in particolare la sua rilevante altezza (circa 12/13 ml), consentono quindi di ritenerlo attratto al regime concessorio.
Del resto, la qualificazione di opere edilizie quali “nuove costruzioni” discende dalla legge statale e segnatamente dall’art. 3, lett. e.4), del d.P.R. n. 380 del 2001, laddove si è riferito alla “installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”.
Anche a voler ritenere tale disciplina implicitamente abrogata dall’entrata in vigore del Codice delle comunicazione elettroniche, gli artt. 87 e ss. di tale compendio normativo richiedono comunque la presentazione di un’istanza (o di una Scia per gli impianti di potenza fino a 20 Watt) agli organi comunali competenti, che quindi esclude che possano essere realizzati in assenza di qualsiasi vaglio degli uffici preposti al rilascio dei titoli edilizi.
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13.3. Infondato è il terzo mezzo, in quanto la disciplina in materia di comunicazioni elettroniche non esclude la necessità di conseguire i titoli edilizi e ambientali.
Come affermato dalla condivisibile giurisprudenza, se in astratto l’installazione dell’antenna di un impianto radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, la realizzazione di simili manufatti va però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli impianti, richiedendosi il rilascio del titolo edilizio in caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con annessi altri manufatti accessori (Cons. Stato, sez. V, 28.12.2007, n. 6714; Cons. Stato, sez. III, 26.02.2019, n. 1326).
Le anzidette caratteristiche dimensionali dell’opus, ed in particolare la sua rilevante altezza (circa 12/13 ml), consentono quindi di ritenerlo attratto al regime concessorio.
Del resto, la qualificazione di opere edilizie quali “nuove costruzioni” discende dalla legge statale e segnatamente dall’art. 3, lett. e.4), del d.P.R. n. 380 del 2001, laddove si è riferito alla “installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”. Anche a voler ritenere tale disciplina implicitamente abrogata dall’entrata in vigore del Codice delle comunicazione elettroniche, gli artt. 87 e ss. di tale compendio normativo richiedono comunque la presentazione di un’istanza (o di una Scia per gli impianti di potenza fino a 20 Watt) agli organi comunali competenti, che quindi esclude che possano essere realizzati in assenza di qualsiasi vaglio degli uffici preposti al rilascio dei titoli edilizi (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.11.2019 n. 7616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel processo amministrativo la regolazione delle spese giudiziali non richiede, in via generale, una ampia motivazione, posto che esse, per principio generale, seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.), ovvero si tratta di evenienza emergente dalla stessa sentenza (soccombenza reciproca trattata, mutamento della giurisprudenza), ponendosi invece un onere di più specifica motivazione laddove la regolazione delle spese prescinda dalla vittoria in giudizio e risponda ad esigenze differenti (art. 92 comma 1, c.p.c.).
Comunque resta fermo che, in sede di regolazione delle spese, il giudice è attributario di ampia discrezionalità, da esercitarsi nella considerazione, oltre che della intervenuta soccombenza, degli ulteriori elementi indicati dagli artt. 91 ss., c.p.c., cui rinviano gli artt. 26, 39 e 88 c.p.a.
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13.5. Infondato è, infine, l’ultimo mezzo laddove si contesta il capo della sentenza relativo alle spese di giudizio, in quanto le relative statuizioni sono frutto di valutazioni discrezionali del giudice di primo grado.
Ha infatti rilevato questo Consiglio che “Nel processo amministrativo la regolazione delle spese giudiziali non richiede, in via generale, una ampia motivazione, posto che esse, per principio generale, seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.), ovvero si tratta di evenienza emergente dalla stessa sentenza (soccombenza reciproca trattata, mutamento della giurisprudenza), ponendosi invece un onere di più specifica motivazione laddove la regolazione delle spese prescinda dalla vittoria in giudizio e risponda ad esigenze differenti (art. 92 comma 1, c.p.c.); comunque resta fermo che, in sede di regolazione delle spese, il giudice è attributario di ampia discrezionalità, da esercitarsi nella considerazione, oltre che della intervenuta soccombenza, degli ulteriori elementi indicati dagli artt. 91 ss., c.p.c., cui rinviano gli artt. 26, 39 e 88 c.p.a.” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.07.2016, n. 3430) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.11.2019 n. 7616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’illegittimità dell’ordine demolitorio di una "pergotenda" in quanto non necessitante di alcuna preventiva autorizzazione né di natura urbanistico-edilizia né di natura paesaggistico-ambientale.
La copertura di cui si discute è costituita dai seguenti elementi:
   - una tenda flessibile sorretta da profili longitudinali in profilo di alluminio elettrocolorato bianco che consentono l’impacchettamento della stessa durante la sua chiusura;
   - n. 4 elementi binari obliqui in profilato metallico elettrocolorato bianco, che hanno la funzione di far scorrere la tenda, per tutta la sua superficie;
   - n. 6 pilastrini di cm. 10 x 10 di larghezza, in profilato metallico elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di sostenere le travi orizzontali di spess. cm. 10 x 10 ed i binari obliqui sopra descritti. Tali travi orizzontali hanno il duplice scopo di far poggiare il cassonetto per lo scorrimento delle tende laterali verticali del registro superiore nonché di essere elemento su cui sono fissate le tende perimetrali verticali del registro inferiore;
   - n. 2 pilastrini di cm. 3 x 10, fissati al muro perimetrale di divisione con lo spazio interno, di altezza pari a mt. 3,70, in profilato metallico elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di essere guida per le tende perimetrali verticali del registro inferiore.
Orbene, l’opera de qua è qualificabile in termini di “pergotenda” in quanto opera “precaria”, sia dal punto di vista costruttivo –tanto da essere facilmente rimuovibile- che funzionale.
Siffatta opera è, inoltre, caratterizzata dalla inequivocabile prevalenza dell’elemento “tenda” -peraltro perfettamente retraibile e, quindi, priva di elementi di fissità, stabilità e permanenza- rispetto alla “servente” struttura metallica di sostegno; una struttura che, a ben vedere, risulta quasi mimetizzata dalla preesistente balaustra metallica condominiale, con conseguente esclusione di significative alterazioni dei prospetti e della sagoma dell’edificio.
Quanto sopra trova conforto in quel consolidato orientamento del Consiglio di Stato, pienamente condiviso dal Collegio, secondo cui “Per configurare una c.d. "pergotenda", in quanto tale non necessitante di titolo abilitativo, occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda; non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio”.
Ed ancora: “L'installazione sul terrazzo di un'unità abitativa proprietaria -non soggetta a vincolo paesaggistico- di una struttura realizzata con teli facilmente amovibili in materiale plastico, utilizzati sia per la copertura che per le chiusure laterali, sostenuta da elementi leggeri in alluminio anodizzato ancorati al muro e destinata a rendere meglio vivibile lo spazio esterno in cui è collocata, costituisce una "pergotenda", ovvero un'opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessita di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della sua funzione. L'opera principale non è, infatti, l'intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l'intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda. Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una "nuova costruzione", anche laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio"..
La piena qualificabilità dell’intervento in questione in termini di “pergotenda” determina, innanzitutto, la riconducibilità dello stesso nell’ambito della cd. attività edilizia di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), D.P.R. n. 380/2001 e all’all. 1 del D.M. 02.03.2018, la cui realizzazione non necessita del preventivo rilascio di un provvedimento abilitativo di natura urbanistico-edilizia, attesa l’assenza di qualsivoglia alterazione dell’assetto del territorio, considerata la mancata creazione di nuovi volumi ovvero superfici.
Inoltre, siffatta pergotenda, la cui struttura di sostegno è priva di parti in muratura nonché di stabili fissaggi al pavimento (“non si riscontrano viti e/o bulloni di fissaggio al pavimento” afferma il verificatore), giusta il disposto di cui al comma 1, lett. a), dell’art. 149 D.lgs. n. 42/2004, non necessita nemmeno del preventivo assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, in quanto opera “di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che”, per come sopra chiarito, “non altera lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici”.
Ed invero, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 31/2017 che richiama l’allegato A del medesimo decreto -avente natura regolamentare attuativa della disposizione primaria di cui al sopra citato art. 149 D.lgs. n. 42/2004- non sono soggette ad autorizzazione paesaggistica le “installazioni esterne poste a corredo di attività economiche quali esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, costituite da elementi facilmente amovibili quali tende, pedane, paratie laterali frangivento, manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di copertura, e prive di parti in muratura o strutture stabilmente ancorate al suolo”.
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1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato, la società ricorrente, quale proprietaria di un ristobar sito alla via ..., n. 4/A del Comune di Salerno, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale, ove la stessa esercita l’attività di somministrazione di bevande e alimenti, ha impugnato l’ordinanza n. 64 del 07.12.2017, con cui il Comune di Salerno, ai sensi dell’art. 27, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, le ha ingiunto la demolizione di una struttura in P.V.C., bullonata a terra alla ringhiera ed al muro, con tenda di tipo elettrico con chiusura ad impacchettamento e pannelli di pellicola trasparenti a caduta di tipo "cristal", avente dimensioni di base mt. 10.80 X 6.20 ed altezza variabile da mt. 2.60 a mt. 3.70 circa, realizzata sul terrazzo a livello del fronte est del fabbricato.
2. Il gravame risulta affidato ai motivi di diritto appresso sintetizzati e raggruppati per censure omogenee.
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L’intervento edilizio oggetto di demolizione sarebbe qualificabile in termini di “pergotenda” e, come tale, rientrerebbe nell’ambito di operatività dell’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), D.P.R. n. 380/2001 (cd. attività edilizia libera) e dell’allegato A al D.M. 02.03.2018, per la cui realizzazione non sarebbe necessario nessun provvedimento abilitativo di natura urbanistico-edilizia, attesa l’assenza di qualsivoglia alterazione dell’assetto del territorio.
Inoltre, siffatta pergotenda non necessiterebbe del preventivo assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, in quanto opera “di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non altera lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici” ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.lgs. n. 42/2004 e dell’art. 2 D.P.R. n. 31/2017 e relativo allegato A, sub A.17.
...
6. Il ricorso è fondato.
7. L’intervento edilizio oggetto di causa è stato posto in essere dalla ricorrente nel terrazzo esterno all’unità immobiliare ove quest’ultima esercita l’attività di somministrazione di bevande e alimenti.
7.1 Siffatto terrazzo, per come ictu oculi evincibile dalla stessa documentazione fotografica ritraente lo stato di fatto preesistente, risulta ex se delimitato da una balaustra condominiale (cfr. foto n. 4 allegata alla relazione di verificazione depositata in data 06.06.2018), costituita da una struttura metallica di colore grigio che funge da ringhiera, fissata al pavimento per il mezzo di piastre metalliche bullonate, la cui altezza è di poco inferiore alla linea di gronda dell’opera oggetto di causa (cfr. verificazione e fotografie allegate nr. 11 e 13).
7.2 Ciò premesso, per come accertato dal Verificatore, l’intervento edilizio in questione, realizzato nel contesto sopra descritto, è costituito da una tenda che copre l’intero spazio esterno, composta da un telo flessibile in materiale plastico di colore bianco che, mediante un sistema elettrificato, scorre in binari laterali (cfr. foto 8, 9 e 10) poggianti sulle travi perimetrali in profilo metallico elettrocolorato bianco (cfr. foto 6 e 9), quest’ultime collegate ai pilastrini (cfr. foto 11), anch’essi in profilo metallico di colore bianco.
7.3 Più precisamente, la copertura di cui si discute è costituita dai seguenti elementi:
   - una tenda flessibile sorretta da profili longitudinali in profilo di alluminio elettrocolorato bianco che consentono l’impacchettamento della stessa durante la sua chiusura;
   - n. 4 elementi binari obliqui in profilato metallico elettrocolorato bianco, che hanno la funzione di far scorrere la tenda, per tutta la sua superficie;
   - n. 6 pilastrini di cm. 10 x 10 di larghezza, in profilato metallico elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di sostenere le travi orizzontali di spess. cm. 10 x 10 ed i binari obliqui sopra descritti. Tali travi orizzontali hanno il duplice scopo di far poggiare il cassonetto per lo scorrimento delle tende laterali verticali del registro superiore nonché di essere elemento su cui sono fissate le tende perimetrali verticali del registro inferiore;
   - n. 2 pilastrini di cm. 3 x 10, fissati al muro perimetrale di divisione con lo spazio interno, di altezza pari a mt. 3,70, in profilato metallico elettrocolorato bianco, aventi lo scopo di essere guida per le tende perimetrali verticali del registro inferiore.
8. Orbene, l’opera de qua, per come dedotto dal ricorrente con i motivi di gravame sub I, II e VII, il cui accoglimento determina l’assorbimento di tutti gli altri, è qualificabile in termini di “pergotenda” in quanto opera “precaria”, sia dal punto di vista costruttivo –tanto da essere facilmente rimuovibile- che funzionale.
Siffatta opera è, inoltre, caratterizzata dalla inequivocabile prevalenza dell’elemento “tenda” -peraltro perfettamente retraibile e, quindi, priva di elementi di fissità, stabilità e permanenza- rispetto alla “servente” struttura metallica di sostegno; una struttura che, a ben vedere, risulta quasi mimetizzata dalla preesistente balaustra metallica condominiale, con conseguente esclusione di significative alterazioni dei prospetti e della sagoma dell’edificio.
8.1 Quanto sopra trova conforto in quel consolidato orientamento del Consiglio di Stato, pienamente condiviso dal Collegio, secondo cui “Per configurare una c.d. "pergotenda", in quanto tale non necessitante di titolo abilitativo, occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda; non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio” (così Consiglio di Stato sez. IV, 01/07/2019, n. 4472).
Ed ancora: “L'installazione sul terrazzo di un'unità abitativa proprietaria -non soggetta a vincolo paesaggistico- di una struttura realizzata con teli facilmente amovibili in materiale plastico, utilizzati sia per la copertura che per le chiusure laterali, sostenuta da elementi leggeri in alluminio anodizzato ancorati al muro e destinata a rendere meglio vivibile lo spazio esterno in cui è collocata, costituisce una "pergotenda", ovvero un'opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessita di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della sua funzione. L'opera principale non è, infatti, l'intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l'intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda. Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una "nuova costruzione", anche laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio” (così Consiglio di Stato sez. VI, 03/04/2019, n. 2206; in termini, Consiglio di Stato sez. VI, 09/07/2018, n. 4177; Cons. Stato, Sez. VI, 25.12.2017 n. 306, Id., Sez. VI, 27.04.2016 n. 1619).
9. La piena qualificabilità dell’intervento in questione in termini di “pergotenda” determina, innanzitutto, la riconducibilità dello stesso nell’ambito della cd. attività edilizia di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), D.P.R. n. 380/2001 e all’all. 1 del D.M. 02.03.2018, la cui realizzazione non necessita del preventivo rilascio di un provvedimento abilitativo di natura urbanistico-edilizia, attesa l’assenza di qualsivoglia alterazione dell’assetto del territorio, considerata la mancata creazione di nuovi volumi ovvero superfici.
9.1 Inoltre, siffatta pergotenda, la cui struttura di sostegno è priva di parti in muratura nonché di stabili fissaggi al pavimento (“non si riscontrano viti e/o bulloni di fissaggio al pavimento” afferma il verificatore), giusta il disposto di cui al comma 1, lett. a) dell’art. 149 D.lgs. n. 42/2004, non necessita nemmeno del preventivo assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, in quanto opera “di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che”, per come sopra chiarito, “non altera lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici”.
9.2 Ed invero, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 31/2017 che richiama l’allegato A del medesimo decreto -avente natura regolamentare attuativa della disposizione primaria di cui al sopra citato art. 149 D.lgs. n. 42/2004- non sono soggette ad autorizzazione paesaggistica le “installazioni esterne poste a corredo di attività economiche quali esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, costituite da elementi facilmente amovibili quali tende, pedane, paratie laterali frangivento, manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di copertura, e prive di parti in muratura o strutture stabilmente ancorate al suolo”.
10. Da quanto sopra consegue l’illegittimità dell’ordine demolitorio ingiunto dal Comune di Salerno, sull’erroneo presupposto del carattere abusivo dell’intervento in questione che, invece, si appalesa legittimo, per come dedotto dalla ricorrente, in quanto non necessitante di alcuna preventiva autorizzazione né di natura urbanistico-edilizia né di natura paesaggistico-ambientale.
11. In conclusione, il ricorso è fondato e, per l’effetto, deve essere accolto, con conseguente annullamento dell’ordinanza n. 64 del 7.12.2017 adottata dal Comune di Salerno (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 07.11.2019 n. 1934 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di opere precarie – Installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, tettoie – Disciplina autorizzatoria – Fattispecie: gazebo aperto, facilmente smontabili su ruote e carattere non precario del manufatto – Ordine di demolizione – Artt. 3, 6-bis, 64 e 71, 65 e 72, 93 e 95 d.P.R. n. 380/2001 – Giurisprudenza.
Al fine di farle rientrare, un manufatto nella nozione di edilizia libera, di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le opere di cui si tratta non solo siano comunque realizzate in conformità con i vigenti strumenti urbanistici (cfr., infatti, l’art. 6 del d.P.R. n. 380 cit. in principio), ma è anche necessario che esse consistano in sole opere destinate a soddisfare esigenze temporanee e contingenti e suscettibili di essere rimosse al cessare della necessità che le ha determinate (Cass. Sez. 3, n. 27528 del 08/03/2019, Serio; cfr. in tema di affermata precarietà del manufatto, Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro).
Sicché, tra gli interventi di nuova costruzione rientrano i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo (in specie in quanto stagionale, così Cons. Stato Sez. VI n. 2842 del 03/06/2014).
In definitiva quindi la precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell’opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.11.2019 n. 44955 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di nuova costruzione – Nozione di costruzione – Destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile – Permesso di costruire – Assenza degli elementi di assoluta precarietà.
Sono da considerare interventi di nuova costruzione, quindi soggetti a permesso di costruire, tutte le strutture, di qualsiasi genere, tra le quali quelle elencate a titolo di esempio, dall’art. 3, alla lettera e5) d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che siano destinate ad una stabile utilizzazione, non meramente transitoria.
L’esplicita menzione di detta tipologia di interventi ha così codificato la figura giuridica di “costruzione”, nella quale rientrano tutti quei manufatti che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, modificano lo stato dei luoghi, in quanto, difettando obiettivamente del carattere di assoluta precarietà, sono destinati almeno potenzialmente a perdurare nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a riguardo la distinzione tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo tecnico con cui sia assicurata la stabilità del manufatto al suolo (o al muro perimetrale di quello esistente), in quanto la stabilità non va confusa con l’irrevocabilità della struttura, o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare un bisogno non temporaneo.
Né risulta determinante l’incorporazione nel suolo indispensabile per identificare il bene immobile, essendo sufficiente la destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.11.2019 n. 44955 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Sul ricorso dell'A.C. dove si richiede l’accertamento del diritto della stessa Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della convenzione urbanistica affinché il sottoscrittore sia condannato ad adempiere alle obbligazioni rimaste inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le opere di urbanizzazione rimaste incompiute.
Con riferimento a detta azione di accertamento va confermata la giurisdizione del G.A. in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò, considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.
Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo, eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.
Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n. 1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria).

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Di recente si avuto modo di confermare che, in caso di mancata esecuzioni di lavori inerenti la realizzazione di un piano di lottizzazione di iniziativa privata, l'Amministrazione può agire dinanzi al Giudice amministrativo, competente in via esclusiva per la materia (atteso che agli accordi amministrativi de quo si applicano le disposizioni civilistiche in materia di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932 c.c. onde accertare l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita.
E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative, costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa sostanziale dedotta in giudizio.
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L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della L. 29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà”.
Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e, ciò, ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica.
In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà.
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1. Il ricorso è da accogliere.
1.1 In primo luogo è necessario precisare come il ricorso di cui si tratta vede quale parte attrice l’Amministrazione comunale, nell’ambito di un giudizio c.d. a parti invertite, dove si richiede l’accertamento del diritto della stessa Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della Convenzione del 2009 sottoscritta con la società Ca. del Po., affinché quest’ultima sia condannata ad adempiere alle obbligazioni rimaste inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le opere di urbanizzazione rimaste incompiute entro il 10.12.2013.
1.2 Con riferimento a detta azione di accertamento va confermata la Giurisdizione di questo Tribunale, in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò, considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege (Cass. n. 6792 del 08/08/1987; Cass. n. 7157 del 15/04/2004; Cass. n. 13403 del 23/05/2008)”.
1.3 Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo, eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Cass. civ., Sez. Un., 12.11.2001, n. 14031; 29.01.2001, n. 29; 20.04.2007, n. 9360)”.
1.4 Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n. 1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria).
1.5 Anche questo Tribunale di recente ha avuto modo di confermare che, in caso di mancata esecuzioni di lavori inerenti la realizzazione di un piano di lottizzazione di iniziativa privata, l'Amministrazione può agire dinanzi al Giudice amministrativo, competente in via esclusiva per la materia (atteso che agli accordi amministrativi de quo si applicano le disposizioni civilistiche in materia di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932 c.c. onde accertare l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita (TAR Toscana Firenze Sez. III, 17/01/2018, n. 68).
1.6 E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative, costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa sostanziale dedotta in giudizio.
1.7 Applicando detti principi è evidente la fondatezza dell’attuale ricorso.
E’ dirimente constatare che l’art. 1 della convenzione del 2009 impegnava la società lottizzante a realizzare le previsioni del piano attuativo approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 12 del 20/03/2002 e, quindi, a eseguire le opere di urbanizzazione primaria e secondaria e, da ultimo a cedere gratuitamente entro il 20/12/2013 le aree destinate alla realizzazione delle onere di urbanizzazione e secondaria.
1.8 Si consideri, inoltre, che il Comune, con sopralluogo tecnico del 15.04.2010, aveva avuto modo di verificare l’effettiva realizzazione del primo stralcio delle opere di urbanizzazione primaria, oggetto della prima concessione edilizia n. 15 del 2004, svincolando parzialmente la garanzia fideiussoria.
1.9 L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della L. 29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà (TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815; TAR Calabria Catanzaro, Sezione I, 09.03.2012 n. 245)”.
2. Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16 comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e, ciò, ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica.
2.1 In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.11.2019 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sanzioni penali.
Si è soliti identificare due distinte fattispecie di lottizzazione:
   - la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste “
materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa in rapporto agli standards apprestabili;
   - l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “
cartolare” quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti;
   - va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa;
   - è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
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Quanto all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria.
Su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso.
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Ritenuto in diritto che:
   - la sentenza di primo grado deve essere confermata;
   - § in termini generali, l’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, prevedono che si abbia «lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio»;
   - a partire da tale disposizione si è soliti identificare due distinte fattispecie di lottizzazione;
   - la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste “materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa in rapporto agli standards apprestabili (Consiglio di Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416);
   - l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “cartolare” quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108);
   - va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa (Consiglio Stato, sez. IV, 08.01.2016 n. 26);
   - è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie (Consiglio di Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196);
   - § applicando le coordinate ermeneutiche appena passate in rassegna, nel caso di specie deve ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva materiale in relazione alle circostanze di fatto, desumibili da tutti gli accertamenti effettuati, e segnatamente: il numero dei fabbricati; il frazionamento della gran parte di essi in separate unità immobiliari; l’insistenza in loco di due locali a vocazione commerciale;
- tali elementi, letti unitariamente, dimostrano la trasformazione del terreno a fini residenziali, in contrasto con la normativa urbanistica;
   - § l’imputabilità della suddetta lottizzazione materiale realizzata in via ... in capo al Ca. è stata poi correttamente desunta dalla seguenti evidenze:
      i) in primo luogo il signor Ca.Sa. risultava sempre presente nel terreno oggetto dell’intervento edilizio (quando in data 23.04.2007 operanti di P.G. accertavano l’esecuzione di opere edilizie tali da determinare la trasformazione urbanistica del terreno a fini residenziali; quando in data 18.05.2007, alla presenza del Ca., si svolgeva un sopralluogo, all’esito del quale emergeva la presenza, in totale, di 11 fabbricati, ospitanti 29 alloggi e 2 locali commerciali, analiticamente descritti);
      ii) il sig. Ca.Sa. risultava altresì destinatario di ogni atto per la sospensione dei lavori emesse dal Comune di Cerveteri già a partire dal 1995;
      iii) le richieste del titolo abilitativo in sanatoria del 25.03.2005, 09.09.2004 e del 10.12.2004 risultano sempre presentate dal Sig. Ca.Sa. e dalla Sig.ra An.Ka.;
   - a confermare il diretto coinvolgimento quale autore del Sig. Ca.Sa. nell’abusiva attività edilizia sanzionata è poi dirimente la circostanza che il giorno 18 maggio lo stesso –titolare fin dal 2003 di procura irrevocabile a vendere avente ad oggetto il terreno, rilasciatagli dai proprietari Ce. e Ma.– lo alienava, in nome e per conto di questi ultimi, alla s.r.l. con unico socio So.ag.fo. La Ti. de. Ma., anch’essa costituita quello stesso giorno dall’Anello, che interveniva nell’atto quale rappresentante legale dell’acquirente;
   - § sotto altro profilo, essendo stato il signor Ca. identificato anche quale responsabile materiale degli abusi in questione (come tale autonomamente soggetto all’ordine di sospensione dei lavori), non coglie nel segno il motivo di impugnazione incentrato sulla mancata notificazione dell’ordinanza ai proprietari Ce. e Ma.;
   - l’ulteriore obiezione relativa alla mancata realizzazione delle opere di urbanizzazione è anch’essa priva di fondamento, giacché la mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione non vale ad elidere l’illecito contestato;
   - § quanto poi all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115);
   - su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381; Consiglio di Stato sez. II, 07.08.2019, n. 5607);
   - a ciò si aggiunge che, come già affermato dal giudice di prime cure, la censura è stata dedotta genericamente in quanto non accompagnata dall’identificazione degli immobili che sarebbero stati “sanati”;
   - § per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.11.2019 n. 7530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come deve comportarsi l'amministrazione in caso di interventi edilizi realizzati sulla base di un permesso di costruire poi annullato?
Circa la corretta interpretazione dell’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 si è statuito che:
   - secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa, la disciplina dettata dall’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 si ispira a un principio di tutela degli interessi del privato, prevedendo un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi a un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto agli altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo (o in parziale difformità) e al trattamento ordinariamente previsto per tali ipotesi (dagli artt. 31, comma 2, 33 e 34 d.P.R. n. 380/2001), per tutelare un certo affidamento del privato basato sulla presunzione di legittimità ed efficacia del titolo assentito;
   - a tal fine, l’amministrazione è tenuta a verificare se i vizi formali o sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari, e, in presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l’atto, la disposizione all’esame (art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001) prevede che «l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36»;
   - la richiamata disciplina prevede dunque i seguenti possibili rimedi:
i) la sanatoria della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della procedura amministrativa, con la conseguenza che, in tal caso, non si applica alcuna sanzione edilizia;
ii) nei casi in cui non sia possibile la sanatoria mediante la rimozione di vizi di natura procedimentale, in quanto ricorrono vizi di natura sostanziale, l’amministrazione è, in linea di principio, bensì tenuta ad applicare la sanzione ripristinatoria, ma, «qualora [questa] non sia possibile, in base a motivata valutazione […], applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite [ossia, eseguite sulla base del titolo annullato; n.d.e.], valutato dall’agenzia del territorio»;
   - secondo l’interpretazione della norma, coerente alla ricordata ratio, il concetto di impossibilità di ripristino non va inteso esclusivamente come impossibilità tecnica –ciò, a differenza dalla previsione del precedente art. 34, comma 2, laddove è espressamente specificato che l’impossibilità della demolizione ricorre solo qualora questa non possa avvenire «senza pregiudizio della parte eseguita in conformità», prevedendo dunque un’ipotesi di esclusiva impossibilità tecnica–, ma involge anche una componente valutativa di opportunità/equità, improntata al bilanciamento dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata con le posizioni giuridiche soggettive del privato che incolpevolmente abbia confidato nella legittimità dell’esercizio del potere amministrativo;
   - deve dunque ritenersi che la scelta di escludere la sanzione demolitoria, laddove adeguatamente motivata e aderente, in termini di coerenza, alle indicazioni contenute nella pronuncia di annullamento (onde non incorrere nella violazione dei principi della separazione dei poteri e di effettività della tutela giurisdizionale dei ricorrenti vittoriosi), appare in astratto –laddove possibile– quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti nella singola controversia e del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, di diretta derivazione eurounitaria, e che quindi, nel caso di opere realizzate sulla base di un titolo edilizio annullato, la loro demolizione deve essere considerata quale extrema ratio.

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1. Con la sentenza in epigrafe, il Tar per il Veneto respingeva il ricorso n. 1877 del 2013, proposto dagli odierni appellanti –nella loro qualità di proprietari, nel Comune di Malcesine, di immobili situati in riva al Lago di Garda, posti a confine, sul lato nord e sud, con l’Hotel Ve. di proprietà del controinteressato Ma.Da., all’interno della fascia compresa fra la sponda del lago e viale Roma– avverso il provvedimento n. 14870 del 17.10.2013, con il quale il Comune di Malcesine aveva applicato al controinteressato la sanzione pecuniaria amministrativa di euro 143.035,00 ai sensi dell’art. 38 d.P.R. n. 380/2001, in luogo della demolizione, e il provvedimento successivo n. 16317 del 20.11.2013, con il quale lo stesso Comune aveva dato atto del pagamento di tale sanzione e dichiarato «ad ogni effetto sanata» la corrispondente opera, realizzata sulla base di permesso di costruire annullato in sede giudiziale.
1.1. In precedenza, nel dicembre del 2011, l’amministrazione comunale aveva rilasciato al controinteressato il permesso di costruire n. 84/2011, sulla cui base erano stati realizzati una serie di interventi di ristrutturazione e ampliamento dell’albergo (sulla base della c.d. legge casa della Regione Veneto), sia sul fronte lago che lungo i lati confinanti con le proprietà degli odierni appellanti.
1.2. Su ricorso proposto da questi ultimi avverso il menzionato permesso di costruire, il Tar per il Veneto con la sentenza n. 642/2012, confermata in sede di appello dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 5620/2012, aveva annullato il premesso di costruire.
Nelle more del giudizio di primo grado i lavori erano stati ultimati (agli inizi del 2012).
1.3. L’amministrazione comunale dava esecuzione alle sentenze di annullamento del titolo edilizio, intimando con atto del 27.12.2012 la riduzione in pristino dell’ampliamento realizzato con il permesso di costruire annullato entro il termine di 90 giorni, salva, in caso di inottemperanza, l’acquisizione gratuita dell’immobile.
1.4. Sopravveniva, tuttavia, la richiesta del proprietario dell’Hotel Venezia di applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38 d.P.R. 380/2001, in quanto l’esecuzione dell’ordine di demolizione delle opere realizzate in forza del titolo annullato avrebbe compromesso la porzione dell’edificio preesistente.
A suffragio di tale istanza veniva presentata una perizia di parte, redatta dall’ing. Du..
Gli odierni appellanti, informati dell’istanza, provvedevano a loro volta a presentare all’amministrazione una perizia, redatta dalla prof.ssa Mu., con la quale veniva contestata l’impossibilità di dare esecuzione all’ordine di ripristino senza compromettere la parte preesistente all’intervento.
Il Comune di Malcesine dava quindi incarico a un perito terzo (il prof. Mo.), affinché venisse valutato lo stato delle opere realizzate e al fine di verificare le risultanze della perizia depositata a sostegno della richiesta di applicazione della sanzione pecuniaria, richiedendo altresì all’Agenzia delle Entrate di provvedere alla stima del valore delle opere realizzate in base al permesso annullato.
All’esito degli accertamenti effettuati, il Comune si determinava in termini favorevoli alla richiesta del proprietario, dichiarando che la demolizione delle opere realizzate in forza del permesso di costruire annullato avrebbe potuto compromettere la porzione dell’edificio alberghiero precedentemente realizzata.
Conseguentemente, con provvedimento del 17.10.2013 veniva calcolata la sanzione pecuniaria da corrispondere ai sensi dell’art. 38, nell’ammontare di euro 143.035,00.
Quindi, dato atto del versamento effettuato dall’interessato, con provvedimento del 20.11.2013 il Comune dichiarava sanato ad ogni effetto l’intervento edilizio realizzato.
...
5. L’appello è infondato.
5.1. In reiezione del primo motivo d’appello, si osserva che l’impugnata sentenza poggia su una corretta interpretazione dell’art. 38 d.P.R. n. 380/2001, in quanto:
   - secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa (v., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 28.11.2018, n. 6753; id., 09.04.2018, n. 2155), la disciplina dettata dall’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 si ispira a un principio di tutela degli interessi del privato, prevedendo un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi a un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto agli altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo (o in parziale difformità) e al trattamento ordinariamente previsto per tali ipotesi (dagli artt. 31, comma 2, 33 e 34 d.P.R. n. 380/2001), per tutelare un certo affidamento del privato basato sulla presunzione di legittimità ed efficacia del titolo assentito;
   - a tal fine, l’amministrazione è tenuta a verificare se i vizi formali o sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari, e, in presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l’atto, la disposizione all’esame (art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001) prevede che «l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36»;
   - la richiamata disciplina prevede dunque i seguenti possibili rimedi:
i) la sanatoria della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della procedura amministrativa, con la conseguenza che, in tal caso, non si applica alcuna sanzione edilizia;
ii) nei casi in cui non sia possibile la sanatoria mediante la rimozione di vizi di natura procedimentale, in quanto ricorrono vizi di natura sostanziale, l’amministrazione è, in linea di principio, bensì tenuta ad applicare la sanzione ripristinatoria, ma, «qualora [questa] non sia possibile, in base a motivata valutazione […], applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite [ossia, eseguite sulla base del titolo annullato; n.d.e.], valutato dall’agenzia del territorio»;
   - secondo l’interpretazione della norma, coerente alla ricordata ratio, il concetto di impossibilità di ripristino non va inteso esclusivamente come impossibilità tecnica –ciò, a differenza dalla previsione del precedente art. 34, comma 2, laddove è espressamente specificato che l’impossibilità della demolizione ricorre solo qualora questa non possa avvenire «senza pregiudizio della parte eseguita in conformità», prevedendo dunque un’ipotesi di esclusiva impossibilità tecnica–, ma involge anche una componente valutativa di opportunità/equità, improntata al bilanciamento dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata con le posizioni giuridiche soggettive del privato che incolpevolmente abbia confidato nella legittimità dell’esercizio del potere amministrativo;
   - deve dunque ritenersi che la scelta di escludere la sanzione demolitoria, laddove adeguatamente motivata e aderente, in termini di coerenza, alle indicazioni contenute nella pronuncia di annullamento (onde non incorrere nella violazione dei principi della separazione dei poteri e di effettività della tutela giurisdizionale dei ricorrenti vittoriosi), appare in astratto –laddove possibile– quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti nella singola controversia e del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, di diretta derivazione eurounitaria, e che quindi, nel caso di opere realizzate sulla base di un titolo edilizio annullato, la loro demolizione deve essere considerata quale extrema ratio.
5.2. Posta con ciò la corretta interpretazione, nell’impugnata sentenza, della previsione normativa di cui all’art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, si osserva che destituiti di fondamento sono anche i motivi d’appello sub 2.b) e 2.c), tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente, avendo l’amministrazione comunale fatto corretta applicazione delle sopra enunciate coordinate ermeneutiche alla fattispecie sub iudice, non incorrendo nei dedotti vizi di difetto d’istruttoria e di travisamento dei fatti, correttamente esclusi dal Tar.
Infatti, nel caso di specie il Comune nell’atto gravato del 17.10.2013, per un verso ha richiamato la motivazione posta a base del rilascio provvisorio del certificato di agibilità, in attesa della definizione del procedimento ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 di ‘conversione’ della sanzione ripristinatoria in sanzione pecuniaria avviato su istanza del proprietario dell’Hotel Ve. –motivazione, per cui l’opera non era difforme dal progetto autorizzato, «l’antigiuridicità del costruito deriva[va] dall’annullamento in sede giurisdizionale del titolo autorizzatorio», ed era stata offerta «garanzia del mantenimento dell’offerta turistica e dei livelli occupazionali»–, e, per altro verso, ha richiamato le conclusioni cui era pervenuta la relazione tecnica conclusiva del prof. Mo., svolta in contraddittorio con i periti di parte ing. Du. (incaricato dal signor Ma.) e prof.ssa Mu. (incaricata dai signori Za.), del seguente tenore: «Il quesito rivoltomi era se nel caso sia possibile la demolizione delle opere realizzate in forza del permesso di costruire annullato senza pregiudizio della preesistente parte conforme. Anche dopo aver letto la perizia della prof. Mu. confermo che, a mio giudizio, l’intervento di demolizione della parte costruita in virtù del rilasciato permesso di costruzione poi annullato senza un complesso intervento di modifica strutturale dell’edificio preesistente la cui struttura è stata modificata dai nuovi lavori, potrebbe provocare crolli nella parte preesistente».
Ebbene, ritiene il Collegio che il provvedimento comunale di applicazione delle sanzioni pecuniarie ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 si basa su una motivazione che prende in debita considerazione tutti gli interessi coinvolti, rilevanti ai fini della decisione sulla ‘conversione’ della sanzione demolitoria in sanzione pecuniaria e, al contempo, si basa su un’approfondita istruttoria, in particolare sulla perizia del prof. Mo. svolta in contraddittorio con i consulenti di parte e le cui conclusioni si muovono nel rispetto dei limiti dell’attendibilità tecnico-scientifica del settore dell’ingegneristica civile che qui viene in rilievo, non ulteriormente sindacabili nel merito, con la conseguente superfluità di disporre una consulenza tecnica d’ufficio nella presente sede giudiziale (la quale equivarrebbe a una sostanziale duplicazione dell’istruttoria procedimentale e, attraverso la ‘trasposizione’ del merito amministrativo alla sede processuale, all’inammissibile sostituzione dell’organo giurisdizionale, tramite l’ausiliario tecnico, all’amministrazione nel compimento delle valutazioni discrezionali riservate a quest’ultima, le quali peraltro, come innanzi esposto, nel caso specie sono di tipo misto e non di mera natura tecnica).
Infatti, ritiene il Collegio che le censure degli odierni appellanti involgano non già una mera contestazione di fatti materiali –che, in tesi, potrebbe (e dovrebbe, a garanzia dell’effettività del diritto di azione) essere risolta attraverso il ricorso ai mezzi di prova ammessi nel processo amministrativo–, bensì una contestazione della ‘correttezza tecnica’ delle valutazioni peritali poste a base della determinazione del Comune, sindacabile sub specie di eventuale violazione dei limiti di attendibilità tecnico-scientifica, nella specie per le sopra esposte ragioni da escludere; valutazioni tecniche, alle quali si aggiungono le valutazioni discrezionali amministrative immanenti al giudizio di ‘conversione’ della sanzione ripristinatoria in una sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 38, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, che per definizione sono sottratte a un diretto sindacato di merito.
A ciò si aggiunge che, come correttamente dato atto nell’appellata sentenza, alla luce della documentazione fotografica prodotta in giudizio dall’originario controinteressato deve ritenersi comprovato che gli interventi di ampliamento eseguiti sul fronte lago (attuati mediante l’utilizzazione delle logge esistenti nella facciata dell’albergo e il prolungamento dell’aggetto dei poggioli esistenti) siano stati effettivamente ridotti allo stato pristino, con la conseguente infondatezza del correlativo profilo di censura dedotto nell’ambito del terzo motivo d’appello.
5.3. Per le considerazioni tutte sopra svolte, in reiezione dell’appello s’impone la conferma dell’impugnata sentenza, con assorbimento di ogni altra questione, ormai irrilevante ai fini decisori (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.11.2019 n. 7508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Contratto di appalto.
Nella peculiare ipotesi di avvalimento "ad abundantiam" l'eventuale inadeguatezza o invalidità dell'avvalimento -dichiarato in sede di gara- non configura un mutamento della domanda di partecipazione, né un'inammissibile contraddizione con quanto dichiarato nell'istanza, nel momento in cui il concorrente prova di essere comunque in possesso dei requisiti in relazione ai quali aveva dichiarato di far ricorso all'avvalimento.
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Questa Sezione ha avuto modo di rilevare con la sentenza n. 4301 del 12.09.2017 richiamata dalle difese dell’Acquedotto Pugliese che “nella peculiare ipotesi di avvalimento "ad abundantiam" l’eventuale inadeguatezza o invalidità dell'avvalimento –dichiarato in sede di gara- non configura un mutamento della domanda di partecipazione, né un'inammissibile contraddizione con quanto dichiarato nell'istanza, nel momento in cui il concorrente prova di essere comunque in possesso dei requisiti in relazione ai quali aveva dichiarato di far ricorso all’avvalimento.”
Dunque la fattispecie non può essere configurata all’interno dei canoni legislativi vigenti all’epoca dell’indizione della gara e quindi nell’impossibilità di sostituire un’impresa ausiliaria cui era sopraggiunta la perdita di uno o più requisiti di qualificazione, con la conseguenza pressoché automatica dell’esclusione dell’offerta complessiva: l’avvalimento era sotto il previgente codice dei contratti pubblici e tale è rimasto con il d.lgs. 50 del 2016, un rinforzo o meglio ancora un’integrazione di determinate capacità finanziarie o tecniche di un’impresa che intende concorrere ad una pubblica gara e l’autonomia dei requisiti dell’ausiliato rende inequivocabilmente irrilevante, anzi ininfluente volendo adottare proprio i termini dell’appellante, la sussistenza di un avvalimento dichiarato in offerta in aggiunta alle proprie capacità, di per sé sufficienti rispetto a quanto richiesto dalle norme di gara.
Il fatto che il venire a mancare dei requisiti necessari dell’ausiliare in corso di gara non può portare a differenti conclusioni, poiché i requisiti sufficienti del concorrente o dei concorrenti riuniti in a.t.i. restano sempre e comunque adeguati a quanto richiesto dal bando senza che le modificazioni in peius vengano a portare conseguenze deteriori per il concorrente.
Né a differenti conclusioni può giungersi sulla base dell’art. 37, comma 19, del d.lgs. 163 del 2006 ed indicato proprio dall’appellante Bastone, per il quale “In caso di fallimento di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.11.2019 n. 7498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione di un certificato di destinazione urbanistica.
Secondo una consolidata giurisprudenza, il certificato di destinazione urbanistica, di cui all’art. 30, commi 2 e ss., del D.P.R. n. 380 del 2001, si configura come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione; gli eventuali errori in esso contenuti potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest’ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base dell’erroneo certificato di destinazione urbanistica.
Altresì, eventuali danni discendenti dall’erroneo contenuto del certificato possono essere risarciti adendo il giudice ordinario, munito di giurisdizione sulla materia
(TAR Lombardia- Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2019 n. 2296 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1.1. Secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, il certificato di destinazione urbanistica, di cui all’art. 30, commi 2 e ss., del D.P.R. n. 380 del 2001, si configura come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori in esso contenuti potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest’ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base dell’erroneo certificato di destinazione urbanistica (ex multis, Consiglio di Stato, IV, 04.02.2014, n. 505; TAR Sicilia, Catania, II, 03.07.2019, n. 1696; TAR Lombardia, Milano, I, 24.03.2016, n. 586; TAR Lombardia, Brescia, I, 24.04.2012, n. 687; 21.12.2011, n. 1779; TAR Lombardia, Milano, II, 14.03.2011, n. 729; IV, 06.10.2010, n. 6863).
Va precisato che eventuali danni discendenti dall’erroneo contenuto del certificato –di cui, come già evidenziato in precedenza, la parte privata può chiedere la rettifica (TAR Toscana, I, 21.07.2017, n. 946)– possono essere risarciti adendo il giudice ordinario, munito di giurisdizione sulla materia (cfr. Cass. civ., III, 05.07.2017, n. 16496; Consiglio di Stato, IV, 04.02.2014, n. 505).
1.2. Alla stregua delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione deve ritenersi adeguatamente motivata con l’indicazione delle opere abusive realizzate (v. giurisprudenza consolidata sul carattere vincolato dell’ordine di demolizione emanato in mera dipendenza dall'accertamento di un abuso edilizio che non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione delle opere abusive).
Va, poi, ricordato che, conformemente alla prevalente giurisprudenza, i provvedimenti repressivi, quale è quello in questione, non necessitano di particolare motivazione, né della previa comunicazione di avvio di procedimento in quanto atti vincolati che non potrebbero avere un contenuto diverso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato “contra legem”.
Ne consegue che il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e non assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso, con la precisazione che il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso.

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6.1. Non merita accoglimento il motivo del ricorso concernente il presunto difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata (anche con riferimento al richiamo ritenuto generico al d.p.r. n. 380/2001 e alla legge n. 47/1985) poiché essa risulta adeguatamente motivata con l’indicazione delle opere abusive realizzate (v. giurisprudenza consolidata sul carattere vincolato dell’ordine di demolizione emanato in mera dipendenza dall'accertamento di un abuso edilizio che non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione delle opere abusive, cfr., tra le tante, Cons. Stato Sez. IV, 01.08.2017, n. 3840; 28.02.2017, n. 908; Sez. VI, 06.09.2017, n. 4243 e 23.10.2015, n. 4880; C.G.A., 17.06.2014, n. 1173; 08.05.2014, n. 243; 08.04.2014, n. 788; TAR Catania sez. II 23.03.2018, n. 599).
Le opere abusive, in particolare, risultano descritte, localizzate e riprodotte nei rilievi planimetrici e fotografici prodotti in allegato al verbale di sopralluogo (dell’01.02.2013), che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, risulta depositato dall’amministrazione (in data 18.03.2013).
Va, poi, ricordato che, conformemente alla prevalente giurisprudenza, i provvedimenti repressivi, quale è quello in questione, non necessitano di particolare motivazione, né della previa comunicazione di avvio di procedimento in quanto atti vincolati che non potrebbero avere un contenuto diverso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato “contra legem”.
Ne consegue che il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e non assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso, con la precisazione che il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso (cfr., da ultimo, TAR Campania Napoli Sez. III, 06.09.2018, n. 5406) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.11.2019 n. 631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl soggetto che contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo ha l’onere di fornire perlomeno un principio di prova … in ordine al tempo dell’ultimazione di quest’ultimo ove asserisca che esso è stato realizzato prima dell’entrata in vigore della Legge 06.08.1967 n. 765, ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia.
In merito, la perizia tecnica (perizia giurata) costituisce un documento proveniente dalla parte e, in quanto tale, inidonea a dimostrare da sola la preesistenza delle opere nella loro interezza, essendo, per giunta, qui smentita anche dalle dichiarazioni testimoniali assunte nel processo civile.
Nessuna rilevanza probatoria possono poi assumere le fotografie prodotte laddove prive di riferimenti temporali certi.
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Secondo affermata giurisprudenza, “i provvedimenti aventi natura di atto vincolato (come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, non essendo prevista per l’amministrazione la possibilità di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene”.
Tra l’altro “il procedimento finalizzato ad ottenere la sanatoria degli abusi edilizi, essendo avviato ad istanza di parte, non necessita della comunicazione di avvio del procedimento essendone la parte già a conoscenza, in qualità di autore materiale nell’illecito, ragionevolmente non può che considerarsi rientrante nella sua sfera di controllo”.
Dalla natura vincolata del provvedimento di riduzione in pristino discende, poi, il rigetto della censura afferente ad una pretesa carenza di motivazione per omessa indicazione delle ragioni di interesse pubblico sottese all’ordine demolitorio.
Al Collegio appare sufficiente richiamare il principio per cui “Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato contra legem”, principio vieppiù consolidato dalla sentenza n. 9 del 17.10.2017 dell’Adunanza Plenaria che, come noto, ha chiarito che “Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell’Amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole, idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata”.
Per le ragioni su esposte, la natura permanente di tale illecito ammette l’esercizio del potere repressivo della P.A. anche a distanza di molto tempo, non derivando dal suo decorso né una sanatoria dell’opera né un affidamento legittimo in capo all’autore dell’abuso, integrando quest’ultimo il presupposto indispensabile e sufficiente che legittima l’ingiunzione alla demolizione, presente in re ipsa nella motivazione del provvedimento medesimo.
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10. Non è innanzitutto condivisibile la doglianza articolata con il primo motivo di ricorso, in quanto l’affermazione secondo la quale per i manufatti della cui abusività si discute non troverebbe applicazione l’art. 7 della L. n. 47/1985, data la loro anteriorità rispetto al 01.09.1967 allorquando non era necessario alcun titolo abilitativo, è rimasta indimostrata.
A nulla vale la prova di tale anteriorità tramite perizia giurata di parte, allegata al ricorso e però puntualmente contestata dall’Amministrazione resistente.
Invero, per costante giurisprudenza anche di questo TAR: “il soggetto che contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo ha l’onere di fornire perlomeno un principio di prova … in ordine al tempo dell’ultimazione di quest’ultimo ove asserisca che esso è stato realizzato prima dell’entrata in vigore della Legge 06.08.1967 n. 765, ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia” (cfr. TAR Catanzaro, 19.01.2016, n. 102; TAR Reggio Calabria, 29.01.2019, n. 56).
Tuttavia, la perizia tecnica costituisce un documento proveniente dalla parte e, in quanto tale, inidonea a dimostrare da sola la preesistenza delle opere nella loro interezza, essendo, per giunta, qui smentita anche dalle dichiarazioni testimoniali assunte nel processo civile.
Nessuna rilevanza probatoria possono poi assumere le fotografie prodotte all’allegato n. 4 del ricorso, in quanto prive di riferimenti temporali certi.
Poiché la ricorrente non ha provato che l’edificazione dei manufatti per cui è causa è avvenuta in epoca antecedente al 1967, il motivo va respinto.
11. Non merita apprezzamento nemmeno la doglianza relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. n. 241/1990.
Ed invero, secondo affermata giurisprudenza dalla quale questo Collegio non ha ragione di discostarsi: “i provvedimenti aventi natura di atto vincolato (come l’ordinanza di demolizione), non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, non essendo prevista per l’amministrazione la possibilità di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene” (cfr. TAR Reggio Calabria n. 376/2019 e n. 222/2018).
Tra l’altro “il procedimento finalizzato ad ottenere la sanatoria degli abusi edilizi, essendo avviato ad istanza di parte, non necessita della comunicazione di avvio del procedimento (TAR Lazio sez. II, 17.10.18 n. 10055) essendone la parte già a conoscenza, in qualità di autore materiale nell’illecito, ragionevolmente non può che considerarsi rientrante nella sua sfera di controllo” (cfr. TAR Reggio Calabria 24.08.2019 n. 511).
12. Dalla natura vincolata del provvedimento impugnato, discende poi il rigetto della censura afferente ad una pretesa carenza di motivazione per omessa indicazione delle ragioni di interesse pubblico sottese all’ordine demolitorio.
Al Collegio appare sufficiente richiamare il principio per cui “Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, neanche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato contra legem” (cfr. Cons. Stato sez. VI 03.10.2017 n. 4580), principio vieppiù consolidato dalla sentenza n. 9 del 17.10.2017 dell’Adunanza Plenaria che, come noto, ha chiarito che “Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell’Amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole, idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata”.
Per le ragioni su esposte, la natura permanente di tale illecito ammette l’esercizio del potere repressivo della P.A. anche a distanza di molto tempo, non derivando dal suo decorso né una sanatoria dell’opera né un affidamento legittimo in capo all’autore dell’abuso, integrando quest’ultimo il presupposto indispensabile e sufficiente che legittima l’ingiunzione alla demolizione, presente in re ipsa nella motivazione del provvedimento medesimo (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.11.2019 n. 630 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia con ampliamento di volumetria – Ristrutturazione c.d. “pesante” – Ipotesi di totale difformità cd. “qualitativa” – Reati di pericolo – Trasformazioni del territorio – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Zona sottoposta a vincolo paesistico ambientale – Ristrutturazione edilizia con ampliamento di preesistente fabbricato dichiarato bene storico-culturale – Artt. 2, 3, 10, 31, 32, 44 T.U.E. – Art. 10 L.R. Veneto n. 14/2009 – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Nei casi in cui sia stato rilasciato un permesso di costruire per un intervento di ristrutturazione edilizia con ampliamento di volumetria, non è consentita – ed integra l’ipotesi di reato di costruzione in totale difformità dal permesso – l’integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio.
Ricorre, in particolare, l’ipotesi della totale difformità cd. “qualitativa” di cui all’art. 31, comma 1, prima parte, T.U.E., per essere stato realizzato un «organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche…da quello oggetto del permesso stesso».
Di fatti, quando si tratti di intervento edilizio che abbia ad oggetto l’esecuzione di opere su un preesistente manufatto, la difformità “tipologica” tra l’opera consentita e quella di fatto realizzata va in primo luogo apprezzata rispetto alle categorie edilizie definite ex lege dall’art. 3 T.U.E.
Del resto, essendo le contravvenzioni previste dall’art. 44, comma 1, T.U.E. reati di pericolo rispetto al bene tutelato –ravvisabile nell’esigenza di impedire trasformazioni del territorio in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia– è evidente che l’ottenimento di un permesso di costruire per ristrutturazione edilizia in ampliamento, che non preveda, non essendo ciò consentito dalla legge, la totale demolizione e ricostruzione del manufatto, non legittima che si proceda in tal modo (per di più, come nella specie, su un immobile tutelato in quanto bene storico-culturale), realizzando una nuova costruzione che integralmente si sostituisca all’edificio storico che si sarebbe invece dovuto strutturalmente, quantomeno in parte, conservare
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44523 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Intervento di totale demolizione e ricostruzione – Ampliamento di volume – Qualificazione come intervento di “nuova costruzione” – Trasformazione edilizia e urbanistica del territorio – Giurisprudenza.
Un intervento di totale demolizione e ricostruzione di un edificio con ampliamento di volume non è riconducibile alla categoria della ristrutturazione edilizia, vale a dire all’opera oggetto del permesso rilasciato. Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), T.U.E., pertanto, «nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente».
Laddove tale ultimo requisito non sia soddisfatto, la demolizione e ricostruzione di un manufatto è riconducibile alla categoria degli interventi di nuova costruzione ai sensi della lett. e) del T.U.E., la cui generale definizione –che, quanto agli interventi su edifici esistenti, ha carattere residuale– abbraccia «quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti».
Inoltre, le definizioni degli interventi edilizi di cui all’art. 3 T.U.E. rientrano tra i principi fondamentali della legislazione statale che vincolano il legislatore regionale ai sensi dell’art. 2 T.U.E.
(cfr., ex multis, proprio con riguardo alla definizione di ristrutturazione edilizia, Corte cost. n. 309 del 18/10/2011)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44523 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Deposito incontrollato e abbandono di rifiuti – Differenza – Natura permanente e natura istantanea – Rilevanza della condotta – Artt. 183, 256, c. 2, d.lgs. n. 152/2006 – Testo Unico Ambientale.
Il reato di deposito incontrollato ha natura permanente se l’attività illecita è prodromica al successivo recupero o smaltimento delle cose abbandonate e, quindi, la condotta cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella del rilascio, mentre l’abbandono, propriamente detto, ha natura istantanea con effetti eventualmente permanenti se l’attività illecita si connota per una volontà esclusivamente dismissiva dei rifiuti, che, per la sua episodicità, esaurisce gli effetti della condotta fin dal momento dell’abbandono e non presuppone una successiva attività gestoria volta al recupero o allo smaltimento.
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RIFIUTI – Abbandono, discarica abusiva ed immissione – Elementi sintomatici e differenze – Condotta abituale – Quantità di rifiuti – Unicità della condotta di abbandono – Mera occasionalità – Rilascio episodico di rifiuti (solidi o liquidi) in acque superficiali e sotterranee.
L’abbandono, si distingue dalla discarica abusiva, in quanto, è caratterizzato dalla “mera occasionalità” desumibile da elementi sintomatici quali le modalità della condotta (ad es. la sua estemporaneità o il mero collocamento dei rifiuti in un determinato luogo in assenza di attività prodromiche o successive al conferimento), la quantità di rifiuti abbandonata, l’unicità della condotta di abbandono.
Mentre, la discarica richiede una condotta abituale, come nel caso di plurimi conferimenti, ovvero un’unica azione ma strutturata, anche se in modo grossolano e chiaramente finalizzata alla definitiva collocazione dei rifiuti in loco.
Infine, l’immissione, definita come il rilascio episodico di rifiuti (solidi o liquidi) in acque superficiali e sotterranee. Elemento distintivo specifico dell’immissione è il luogo di destinazione del rifiuto e le caratteristiche tipiche dell’azione dell’immetterlo nelle acque superficiali (che si differenzia, a sua volta, dallo scarico come definito nella Parte Terza del d.lgs. 152/2006) e che ne evidenzia la occasionalità, comune, quindi all’abbandono.

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RIFIUTI – Deposito temporaneo – Deposito preliminare – Messa in riserva – Abbandono – Discarica abusiva – Momento consumativo del reato – Riferimento alle condotte accertate in concreto.
Il deposito temporaneo, in difetto anche di uno dei requisiti normativi, non può ritenersi tale ma deve essere qualificato, a seconda dei casi, come “deposito preliminare” se il collocamento di rifiuti è prodromico ad un’operazione di smaltimento, come “messa in riserva” se il materiale è in attesa di un’operazione di recupero, come “abbandono” quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero o come “discarica abusiva” nell’ipotesi di abbandono reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi, dovendosi, anche in questo caso, determinare il momento consumativo con riferimento alle condotte accertate in concreto.
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RIFIUTI – Ignoranza inevitabile della legge penale – Esclusione della colpevolezza – Corretta applicazione dell’art. 5 cod. pen. - Criterio dell’ordinaria diligenza – Svolgimento di determinata attività professionali – Obbligo di informarsi con diligenza sulla normativa esistente.
L’ignoranza inevitabile della legge penale che esclude la colpevolezza per il comune cittadino sussiste, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica.
Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. Tali principi sono stati affermati anche con riferimento specifico alla gestione di rifiuti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44516 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Circolare interpretativa – Natura di atto interno – Effetti e limiti.
In linea generale, la natura di atto interno alla pubblica amministrazione della circolare interpretativa, la quale si risolve in un mero ausilio e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo (v. Sez. 3, n. 6619 del 07/02/2012, Zampano, Rv. 252541; Sez. 3, n. 19330 del 27/04/2011, Santoriello, con riferimento alla circolare ministeriale n. 2699 del 07.12.2005 in materia di condono edilizio; Sez. U, n. 10424 del 18/01/2018, Del Fabro in tema di contributi previdenziali).
Tali principi devono ribadirsi, a maggior ragione, per ciò che concerne le “circolari” diffuse da una associazione di categoria, mero soggetto privato, peraltro volto unicamente a rappresentare e tutelare gli interessi degli appartenenti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44516 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di reati edilizi, la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti.
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Quanto ai reati in materia antisismica,
secondo il consolidato orientamento, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché, addirittura, dalla natura precaria o permanente dell'intervento.
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3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
3.1. Quanto al reato urbanistico, la sentenza ha fatto corretta applicazione del consolidato principio secondo cui, in tema di reati edilizi, la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi e a., Rv. 261156, fattispecie in cui è stata esclusa la natura precaria della chiusura di due verande mediante mattoni forati legati da malta cementizia, caso simile a quello qui in esame; Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237533).
3.2. Quanto ai reati in materia antisismica, secondo il consolidato orientamento, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché, addirittura, dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti, Rv. 269303; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio, Rv. 266033; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011, dep. 2012, D'Onofrio, Rv. 252441).
A fronte della descrizione del manufatto effettuata dai giudici di merito, non è pertanto dato comprendere perché, secondo la ricorrente, nel caso di specie tale disciplina non dovesse essere seguita, non potendo certo richiamarsi una mera disposizione di servizio dell'autorità amministrativa (Capo del Genio civile di Messina), peraltro avente ad oggetto pergolati o gazebo, vale a dire opere ben diverse da quella in esame.
La sentenza impugnata dà inoltre atto che una nota del Genio civile acquisita al fascicolo processuale ha confermato che le caratteristiche dell'opera in esame la rendevano senz'altro soggetta al rispetto della normativa in parola.
3.3. Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, la sentenza impugnata (pag. 5) reca non illogica motivazione, valorizzando il fatto che l'imputata realizzò opere ben diverse da quelle precarie oggetto del progetto presentato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44510).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di abusi edilizi, grava sul ricorrente che intende retrodatare la data di prescrizione l'onere di fornire prova dell'ultimazione del manufatto.
Invero,
per consolidato orientamento, ai fini del decorso del termine di prescrizione, l'ultimazione dei lavori che segna il dies a quo coincide proprio con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, che comprendono anche gli intonaci.
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4. Il quarto motivo è generico e manifestamente infondato: la sentenza impugnata è del 10.10.2018 e risulta la sospensione del corso della prescrizione per 129 giorni, sicché, il reato sarebbe stato in allora prescritto se commesso anteriormente ai primi giorni di giugno 2013.
Trattandosi di reato accertato il 15.05.2014 ed avendo il tecnico comunale riferito che l'opera "era di recentissima fattura", la conclusione circa la non prescrizione del reato al momento del giudizio d'appello è corretta e logicamente argomentata.
Grava, di fatti, sul ricorrente che intende retrodatare la data di prescrizione l'onere di fornire prova dell'ultimazione del manufatto (Sez. 3, n. 27061 del 05/03/2014, Laiso, Rv. 259181; Sez. 3, n. 19082 del 24/03/2009, Cusati, Rv. 243765), e la deduzione fatta in ricorso è del tutto generica e non viene evidenziato il travisamento della prova.
Anzi, la stessa ricorrente -pur escludendo di aver effettuato modifiche strutturali dopo l'anno 2011- riconosce di aver successivamente realizzato "piccoli interventi estetici (pitturazione, intonaci)".
Osserva, al proposito, il Collegio che, per consolidato orientamento, ai fini del decorso del termine di prescrizione, l'ultimazione dei lavori che segna il dies a quo coincide proprio con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, che comprendono anche gli intonaci (Sez. 3, n. 46215 del 03/07/2018, n., Rv. 274201; Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44510).

EDILIZIA PRIVATACon riguardo alla modifica delle aperture sulla parete esterna dell'edificio, l'intervento non è riconducibile né alla categoria della manutenzione straordinaria, né a quelle del restauro o risanamento conservativo, dovendo invece essere qualificato come ristrutturazione edilizia c.d. "pesante", per la quale è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E., che detto titolo prevede anche quando le opere portino ad un organismo edilizio in parte diverso da quello precedente perché comportante la modifica dei prospetti.
Si tratta, del resto, di interpretazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte
essendosi affermato che l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività.
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2.1. Quanto al permesso di costruire -in disparte il fatto che la ricorrente è stata condannata per il reato urbanistico anche in relazione alle altre opere abusive di cui al capo 1 d'imputazione, essendo al proposito intervenuta sentenza di improcedibilità per estinzione soltanto con riguardo al reato paesaggistico di cui al capo 2- quel titolo era necessario anche con riguardo alla modifica delle aperture effettuata sulla parete esterna dell'edificio, sul lato est.
Diversamente da quel che sostiene la ricorrente, di fatti, l'intervento non è riconducibile né alla categoria della manutenzione straordinaria, né a quelle del restauro o risanamento conservativo, dovendo invece essere qualificato come ristrutturazione edilizia c.d. "pesante", per la quale è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E., che detto titolo prevede anche quando le opere portino ad un organismo edilizio in parte diverso da quello precedente perché comportante la modifica dei prospetti.
Si tratta, del resto, di interpretazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte -con cui la ricorrente non si confronta- essendosi affermato che l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, Rv. 259905; Sez. 3, n. 38338 del 21/05/2013, Cataldo, Rv. 256381; Sez. 3, n. 834 del 04/12/2008, dep. 2009, Rv. 242160).
2.2. Oltre ad essere certamente soggetta al rilascio del permesso di costruire, stante il pacifico vincolo paesaggistico, l'intervento richiedeva anche il previo rilascio della relativa autorizzazione (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44503).

EDILIZIA PRIVATA: E' noto che l'illecito di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, trattandosi di reato di pericolo, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, tali certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto esteriore degli edifici..
Va peraltro osservato come
la qualificazione dell'intervento quale ristrutturazione edilizia non solo esclude l'applicabilità dell'art. 149 d.lgs. 42 del 2004
ma proprio tale disposizione -nel prevedere che non è richiesta l'autorizzazione paesaggistica per gli «interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conversativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici»- conferma l'assoggettabilità al procedimento di valutazione della compatibilità paesaggistica di qualsiasi opera che appunto incida sull'estetica dei fabbricati.
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E' noto che l'illecito di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, trattandosi di reato di pericolo, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato (Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon e a., Rv. 254493), tali certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto esteriore degli edifici (Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli, Rv. 251244).
Va peraltro osservato come la qualificazione dell'intervento quale ristrutturazione edilizia non solo esclude l'applicabilità dell'art. 149 d.lgs. 42 del 2004, che la ricorrente invoca con evidente riferimento alla lett. a), ma proprio tale disposizione -nel prevedere che non è richiesta l'autorizzazione paesaggistica per gli «interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conversativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici»- conferma l'assoggettabilità al procedimento di valutazione della compatibilità paesaggistica di qualsiasi opera che appunto incida sull'estetica dei fabbricati.
Del tutto generico, poi, è il riferimento al disposto di cui all'art. 2 d.P.R
. 13.02.2017, n. 31 ("Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata"), che, avendo natura secondaria, è peraltro subordinato al rispetto della legislazione primaria più sopra richiamata (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44503).

EDILIZIA PRIVATA: L'individuazione del proprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, ricavabili dalla presentazione della domanda di sanatoria, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra il materiale responsabile dell'abuso ed il proprietario.
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3. Manifestamente infondato è anche il quarto motivo di ricorso.
La sentenza impugnata -come già quella, conforme, di primo grado- argomenta le ragioni a sostegno del riconosciuto concorso della ricorrente nella commissione del reato e la decisione non è manifestamente illogica ed è conforme ai principi di diritto applicabili in materia.
Quanto a questi ultimi, va ribadito che l'individuazione del proprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, ricavabili dalla presentazione della domanda di sanatoria, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra il materiale responsabile dell'abuso ed il proprietario (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a., Rv. 261522; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a., Rv. 253065).
Nel caso di specie -dopo aver rilevato l'inverosimiglianza delle dichiarazioni al proposito rese dal padre dell'imputata, che, non già nella fase delle indagini preliminari, ma soltanto nel corso del giudizio si era assunto la responsabilità dell'abuso sostenendo che la figlia non ne fosse partecipe- la sentenza impugnata ha ritenuto che l'imputata, avendo piena disponibilità giuridica e di fatto dell'immobile ed avendo mostrato interesse alla conservazione delle opere abusive presentando plurime istanze di sanatoria, era da ritenersi corresponsabile dell'abuso quantomeno a titolo di concorso morale.
Si tratta di valutazione di merito non manifestamente illogica e qui non sindacabile, in assenza, peraltro, di specifica deduzione del motivo di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.10.2019 n. 44503).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9, comma 2, del DPR n. 380/2001 è norma generale ed imperativa in materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio, sicché, in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa né surrogare l’assenza del piano attuativo con l’imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio.
L’obbligo dell’interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, infatti, è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere, ma non è in grado di colmare l’assenza dello strumento esecutivo.
Pertanto l’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall’interessato con gli strumenti consentiti dal sistema.

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12. Attraverso il quinto motivo, gli appellanti hanno sostenuto che il piano esecutivo, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, sarebbe necessario soltanto qualora si tratti di asservire per la prima volta un’area non ancora urbanizzata ad insediamento edilizio, mentre il lotto di terreno su cui insiste il fabbricato oggetto di causa sarebbe ubicato in una zona dotata di infrastrutture e servizi ed inserita in un contesto di totale urbanizzazione, in cui già al momento del rilascio del permesso di costruire vi erano di tutte le opere di urbanizzazione primaria e necessaria, con un’ampiezza tale da rendere non necessario il preventivo piano attuativo di zona, con conseguente legittimità del titolo edilizio.
Siffatto motivo è infondato, poiché non vi è stata dimostrazione che le opere di urbanizzazione primaria e secondaria siano qualitativamente e quantitativamente sufficienti a soddisfare le esigenze della comunità locale.
In ogni caso, il Collegio rileva che l’art. 9, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 è norma generale ed imperativa in materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio, sicché, in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa né surrogare l’assenza del piano attuativo con l’imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; l’obbligo dell’interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, infatti, è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere, ma non è in grado di colmare l’assenza dello strumento esecutivo.
Pertanto l’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall’interessato con gli strumenti consentiti dal sistema.
Neppure gli appellanti hanno dimostrato di trovarsi nella condizione c.d. di “interclusione del lotto”, che è l’unica, secondo la condivisibile giurisprudenza amministrativa, che potrebbe legittimare un penetrante sindacato giudiziale sulla scelta programmatoria di imporre l’adozione del c.d. piano attuativo (ex aliis TAR per la Sicilia, sede di Catania, sez. IV, 18/01/2019, n. 64) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 31.10.2019 n. 7463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 380 del 2001, il regolamento edilizio “deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi”.
La giurisprudenza si è già espressa nel senso che anche in relazione all’ampio contenuto del citato art. 4 non sussista una netta e radicale distinzione tra le disposizioni del regolamento edilizio e le N.T.A. al P.R.G., in quanto l’uno, di natura normativo-regolamentare, le altre, di carattere programmatorio-pianificatorio, recano prescrizioni destinate a integrarsi reciprocamente.
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In entrambi i giudizi, con il primo motivo di appello, si sostiene l’errore del giudice di primo grado nel ritenere l’intervento realizzato in contrasto con l’art. 58 del Regolamento edilizio, in quanto le disposizioni del regolamento edilizio sarebbero rivolte solo a disciplinare il cd. “ornato” degli edifici ovvero l’aspetto estetico degli stessi e non potrebbero incidere sullo ius aedificandi.
Il Collegio non condivide tale ricostruzione difensiva.
Ai sensi dell’art. 58 del Regolamento edilizio, rubricato “Terrazzi, casotti, accessori e sovrastrutture di servizio (volumi tecnici)”, “Quando un fabbricato è coperto a terrazzo sopra il lastrico solare non sarà consentita nessuna costruzione o impianto. Quando la copertura a terrazzo è visibile da strade o altri luoghi pubblici sovrastanti da una distanza inferiore a mt. 60 il lastrico solare e tutti gli elementi soprastanti dovranno essere sistemati in modo decoroso ed in armonia con l’insieme architettonico. Potranno essere previsti giardini pensili, tratti e fioriere, pavimentazioni con ciottoli a mosaico o mattoni”.
In base al dato testuale, tale disposizione restringe le facoltà di sopraelevazione in presenza di un lastrico solare, né può essere interpretata diversamente essendo inequivocabile il riferimento contenuto nella disposizione alle “nuove costruzioni”, riferimento che l’interpretazione degli appellanti elide dalla disposizione ritenendola riferita solo agli impianti.
La circostanza che tale disposizione sia contenuta nel Regolamento edilizio non ne diminuisce la rilevanza, in quanto, pur essendo dettata in funzione dell’ordinato assetto esteriore della edificazione comunale, costituisce, comunque, espressione del potere comunale di disciplina del territorio comunale attribuito in relazione ad un interesse ritenuto meritevole di tutela dalla norma primaria.
Infatti, ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 380 del 2001, il regolamento edilizio “deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi”.
La giurisprudenza di questo Consiglio si è già espressa nel senso che anche in relazione all’ampio contenuto del citato art. 4 non sussista una netta e radicale distinzione tra le disposizioni del regolamento edilizio e le N.T.A. al P.R.G., in quanto l’uno, di natura normativo-regolamentare, le altre, di carattere programmatorio-pianificatorio, recano prescrizioni destinate a integrarsi reciprocamente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17.02.2014, n. 747).
Nel caso di specie, inoltre, il Regolamento edilizio era stato emanato in base all’art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, che tra i contenuti del regolamento edilizio prevedeva: “4) l’altezza minima e quella massima dei fabbricati secondo le zone;
8) l’aspetto dei fabbricati e il decorso dei servizi ed impianti che interessano l’estetica dell’edilizia urbana, tabelle stradali, mostre e affissi pubblicitari, impianti igienici di uso pubblico ecc.;
10) le particolari prescrizioni costruttive da osservare in determinati quartieri cittadini o lungo determinate vie o piazze
”;
Ne deriva che la prescrizione contenuta nell’art. 58 del Regolamento non può avere altro significato che la limitazione della facoltà di sopraelevazione sul lastrico solare.
Né può rilevare la eventuale prassi applicativa differente del Comune che oltre che non provata sarebbe comunque illegittima (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.10.2019 n. 7457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: È integrato il reato di falso materiale o ideologico in atto pubblico nel caso in cui le false attestazioni siano state effettuate “ora per allora”.
Il reato di falso consiste nell'indicazione di una data di emissione delle autorizzazioni e delle attestazioni di conformità, diversa da quella reale della formazione del documento.
Il rilievo dell'immutazione della realtà, per la precisione della risalenza temporale ad un'epoca non rispondente al vero, tale, peraltro, da giustificare la condotta del soggetto interessato, in questo caso l'odierno ricorrente, fa sì che si ravvisi il falso, penalmente rilevante, esclusivamente su tale riscontro fattuale.
In giurisprudenza il suddetto principio trova conferma.
Ed invero, secondo un orientamento specifico,
ben può ben essere ipotizzato il delitto di falso materiale o ideologico in atto pubblico nel caso in cui le false attestazioni siano state effettuate "ora per allora".
A ciò si aggiunga, a titolo confermativo, che
la giurisprudenza di legittimità, in materia di falso documentale riguardante il registro di protocollo, ha ribadito la sussistenza dell'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, mediante l'apposizione del timbro, della data di ricezione del documento, oltre che della numerazione attribuita in tal modo. Ogni elemento strutturale dell'atto pubblico, compresa la data di ricezione, è suscettibile di una falsità punibile ex art. 476 c.p., il che, pur prescindendosi nella fattispecie in esame da un falso in protocollo, avvalora ulteriormente il principio sopra enunciato.
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La formazione, ex novo, di una copia autentica, sia pure di un atto inesistente, utilizzata come un originale, non può che essere ricondotta alla diversa fattispecie di reato, ex art. 476-482 c.p., trattandosi di atto provvisto di fede privilegiata.

Segnatamente, secondo la giurisprudenza di legittimità,
l'alterazione della copia autentica di un atto non rientra nella previsione di cui all'art. 478 cod. pen. (falsità materiale commessa da un pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti), che punisce la formazione di copie false, ma integra il reato di cui all'art. 476 cod. pen. in relazione all'art. 482 dello stesso codice (falsità materiale commessa dal privato in atto pubblico), poiché tale norma, pur non applicabile agli atti derivativi, comprende certamente l'alterazione della copia dopo il rilascio della stessa in forma legale, atteso che questa incide sull'autenticazione, che è atto pubblico originale -(fattispecie relativa ad alterazione, commessa da un privato, di copia notarile di un contratto)-.
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Alla stessa conclusione si deve pervenire sulle censure, relative al travisamento di prova connesso all'accertamento dell'esistenza di un protocollo cartaceo e alle considerazioni giuridiche relative all'inconfigurabilità del falso.
Anche ammessa la validità della tesi sostenuta dall'odierno ricorrente, circa l'autenticità delle sottoscrizioni di provenienza apparente del prof. St., comunque l'apposizione della firma, in data successiva a quelle apparenti, renderebbe falsa l'attestazione sulla data, emergente dal documento, come formato all'epoca di svolgimento delle prestazioni professionali oggetto di verifica, costituendo atto di fede privilegiata l'attestazione stessa relativa alla formazione temporale del documento.
Tale conclusione è resa necessitata dall'attestazione, resa dal pubblico ufficiale, mediante l'apposizione del timbro del protocollo, dell'avvenuta ricezione del documento, nella data indicata, secondo la numerazione progressiva che compare sul documento, in un contesto denotante necessariamente l'unitarietà dell'operazione.
Va enunciato, a questo proposito, il principio generale, affermato dalla giurisprudenza, secondo il quale il reato di falso consiste, per l'appunto, nell'indicazione di una data di emissione delle autorizzazioni e delle attestazioni di conformità, diversa da quella reale della formazione del documento.
Il rilievo dell'immutazione della realtà, per la precisione della risalenza temporale ad un'epoca non rispondente al vero, tale, peraltro, da giustificare la condotta del soggetto interessato, in questo caso l'odierno ricorrente, fa sì che si ravvisi il falso, penalmente rilevante, esclusivamente su tale riscontro fattuale.
In giurisprudenza il suddetto principio trova conferma.
Ed invero, secondo un orientamento specifico, ben può ben essere ipotizzato il delitto di falso materiale o ideologico in atto pubblico nel caso in cui le false attestazioni siano state effettuate "ora per allora" (Sez. 5, n. 6685 del 14/04/1992 - dep. 04/06/1992, P.M. in proc. Martinelli ed altri, Rv. 190512).
A ciò si aggiunga, a titolo confermativo, che la giurisprudenza di legittimità, in materia di falso documentale riguardante il registro di protocollo, ha ribadito la sussistenza dell'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, mediante l'apposizione del timbro, della data di ricezione del documento, oltre che della numerazione attribuita in tal modo. Ogni elemento strutturale dell'atto pubblico, compresa la data di ricezione, è suscettibile di una falsità punibile ex art. 476 c.p., il che, pur prescindendosi nella fattispecie in esame da un falso in protocollo, avvalora ulteriormente il principio sopra enunciato.
L'infondatezza dei motivi va quindi affermata anche su tali profili di natura giuridica.
4.. Altrettanto infondata è l'ulteriore tesi, prospettata da parte ricorrente, circa la qualificazione giuridica del fatto, secondo lo schema di cui agli art. 478 e 482 c.p., pertinente alla falsità in copie, commessa da privati.
La formazione, ex novo, di una copia autentica, sia pure di un atto inesistente, utilizzata come un originale, non può che essere ricondotta alla diversa fattispecie di reato, ex art. 476-482 c.p., trattandosi di atto provvisto di fede privilegiata.
Segnatamente, secondo la giurisprudenza di legittimità, l'alterazione della copia autentica di un atto non rientra nella previsione di cui all'art. 478 cod. pen. (falsità materiale commessa da un pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti), che punisce la formazione di copie false, ma integra il reato di cui all'art. 476 cod. pen. in relazione all'art. 482 dello stesso codice (falsità materiale commessa dal privato in atto pubblico), poiché tale norma, pur non applicabile agli atti derivativi, comprende certamente l'alterazione della copia dopo il rilascio della stessa in forma legale, atteso che questa incide sull'autenticazione, che è atto pubblico originale -(fattispecie relativa ad alterazione, commessa da un privato, di copia notarile di un contratto)- (Sez. 5, n. 12731 del 06/11/2000 - dep. 06/12/2000, Ninivaggi P., Rv. 218117).
Tale orientamento giurisprudenziale è stato richiamato dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata.
Non vale, al riguardo, osservare che il caso esaminato riguarda l'alterazione di una copia effettivamente rilasciata, mentre nella fattispecie, oggetto di disamina, la copia autentica è stata integralmente falsificata.
Ciò che va desunto dall'orientamento sopra riportato è l'incidenza della copia conforme sull'autenticazione dell'atto pubblico, non riconducibile sic et simpliciter al disposto dell'art. 478 c.p., riguardante l'alterazione e la falsificazione di copie semplici, pena un'inammissibile interpretazione analogica del disposto penale.
Se poi si considera, come sopra argomentato, che costituisce falso punibile anche la formazione ex novo di un atto, va confermata la qualificazione giuridica, adottata dalla Corte territoriale, in relazione alle copie conformi, prodotte dall'odierno ricorrente alla Guardia di Finanza.
A ciò si aggiunga, a livello soggettivo, che, mentre, nell'ipotesi prevista dall'art. 478 c.p., è espressamente previsto il rilascio di copie ("conformi") di atti supposti come esistenti, nella fattispecie in esame le autorizzazioni sono state falsificate, con le modalità sopra indicate, simulandosi, non già una "copia", ma un "originale".
Emerge così la differenziazione, anche a livello soggettivo, rispetto alla qualificazione giuridica indicata da parte ricorrente, ricorrendo, nel caso in esame, il dolo, tipico del delitto di falso in atto pubblico, commesso da privato, ex art. 476, 482 c.p. (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 30.10.2019 n. 44300).

EDILIZIA PRIVATACome affermato dalla condivisibile giurisprudenza, se in astratto l’installazione dell’antenna di un impianto radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, la realizzazione di simili manufatti va però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli impianti, richiedendosi la concessione edilizia in caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con annessi altri manufatti accessori.
Sicché, la realizzazione  di un traliccio metallico dell’altezza di circa 30 metri con alla base un box metallico di mt. 1,50 x 1,50 ed h. 2,20 è da ritenersi attratta al regine concessorio.

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1. Con ricorso n. 9 del 2006, proposto innanzi al Tar per il Friuli Venezia Giulia, la s.p.a. El. chiedeva l’annullamento del provvedimento del Sindaco del Comune di Bordano (UD), del 14.10.2005, con cui era stata negata l’autorizzazione, ex art. 87 d.lgs. n. 259 del 2003, per l’installazione di un impianto di radiodiffusione su un traliccio preesistente di proprietà di terzi, nonché l’ingiunzione a demolire, citata nel predetto provvedimento e meglio specificata al capo che segue, relativa al medesimo traliccio.
2. Con ricorso n. 10 del 2006, proposto innanzi al Tar per il Friuli Venezia Giulia, la ditta Me.Pu. di Ca.An. e la s.r.l. Da.Pr. chiedevano l’annullamento dell’ingiunzione a demolire del 30.09.2005, emessa dal medesimo Comune, riguardante un traliccio metallico con base triangolare di cm. 30 per lato ed altezza di circa ml. 20, nonché una porzione di traliccio di mt. 3 per ospitare un impianto radio base.
...
10.1. Infondato è il primo motivo di gravame, col quale si insiste nel contestare la riconducibilità dell’intervento alla disciplina rilevante ratione temporis sulla necessità del rilascio di una concessione edilizia, in quanto trattasi della realizzazione di un traliccio metallico dell’altezza di circa 30 metri con alla base un box metallico di mt. 1,50 x 1,50 ed h. 2,20.
Orbene, come affermato dalla condivisibile giurisprudenza, se in astratto l’installazione dell’antenna di un impianto radiofonico non costituisce trasformazione del territorio comunale agli effetti delle leggi urbanistiche, la realizzazione di simili manufatti va però considerata anche in concreto ed in relazione alla obiettiva consistenza degli impianti, richiedendosi la concessione edilizia in caso di installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni, con annessi altri manufatti accessori (Cons. Stato, sez. V, 28.12.2007, n. 6714; Cons. Stato, sez. III, 26.02.2019, n. 1326).
Le anzidette caratteristiche dimensionali dell’opus, ed in particolare la sua rilevante altezza, consentono quindi di ritenerlo attratto al regime concessorio
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.10.2019 n. 7422 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale.
Con la conseguenza che la ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale.
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal ricordato d.l. n. 69/2013, giacché, per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da consentire di determinarne l’effettiva consistenza.
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2.1.1. L’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 definisce interventi di ristrutturazione edilizia quelli “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, e, nel testo modificato dal d.l. n. 69/2013, vi include il ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza e, per gli immobili sottoposti a vincoli, all’ulteriore condizione che sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Correlativamente, la legge regionale toscana qualifica oggi come interventi di “ristrutturazione edilizia ricostruttiva” quelli consistenti nel “ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione”, dai quali distingue “il ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione, attraverso interventi di ricostruzione comportanti modifiche della sagoma originaria, laddove si tratti di immobili sottoposti ai vincoli di cui al Codice” (art. 134, co. 1, lett. h), n. 4 e lett. i) l.r. n. 65/2014).
Secondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2016, n. 5106, e i numerosi precedenti ivi citati; id., sez. V, 21.10.2014, n. 5174 id., sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal ricordato d.l. n. 69/2013, giacché, per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da consentire di determinarne l’effettiva consistenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2018, n. 1725; id., sez. V, 15.03.2016, n. 1025; TAR Toscana, sez. III, 22.02.2019, n. 286) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.10.2019 n. 1457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo l’espletamento a porte chiuse della prova orale di un concorso pubblico.
L'’espletamento a porte chiuse della prova si pone in aperto in contrasto con la regola generale, immanente a qualunque procedura concorsuale, della pubblicità della prova orale e, quindi, con i principi di trasparenza e imparzialità, di cui all’art. 97 Cost..
Affinché un'aula o sala sia aperta al pubblico, occorre che durante le prove orali del concorso sia assicurato il libero ingresso al locale ove esse si tengono a chiunque voglia assistervi e, quindi, anche ai candidati che abbiano già sostenuto il colloquio o che non vi siano stati ancora sottoposti, atteso che ogni candidato è titolare di un interesse qualificato a presenziare alle prove degli altri, onde verificare di persona il corretto operare della Commissione esaminatrice
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Il concetto di garanzia della "pubblicità" della seduta deve necessariamente estendersi (soprattutto) a "tutti" i soggetti che hanno un reale interesse ad assistere alle prove, primi fra tutti i partecipanti alla selezione, sia che abbiano già sostenuto il colloquio sia che ancora lo debbano compiere. Il tutto al fine di permettere la verifica, di persona, del corretto svolgimento delle prove orali degli altri partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità. Valori essenziali garantiti dall'ordinamento tramite la fissazione di regole e di norme di garanzia "preventiva".
In caso di omesso rispetto di tali imprescindibili principi risulterebbe frustrata anche la sfera di possibile tutela dei partecipanti, i quali hanno la possibilità concreta di formulare eventuali contestazioni solo tramite la (previa) attribuzione della facoltà di poter assistere alla fase sostanziale e finale della procedura selettiva di assunzione
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MASSIMA
21.4) Quanto ai restanti due motivi di ricorso, riguardanti entrambi la prova orale, il Collegio ritiene, sotto un profilo logico, prioritario e assorbente lo scrutinio dell’ultimo, il quinto, che è quello con cui si denuncia il vizio più grave, derivante dallo svolgimento della predetta prova a porte chiuse anziché, come riportato nel relativo verbale, a porte aperte.
Il motivo è fondato.
Con sentenza n. 712/2017, del 23/12/2017, in atti, il Tribunale di Lecco ha accertato la falsità del verbale della commissione del concorso per cui è causa, «nella parte in cui attesta la presenza dei candidati nel locale d’esame durante lo svolgimento delle prove orali».
Sennonché, l’espletamento a porte chiuse della prova si pone in aperto in contrasto con la regola generale, immanente a qualunque procedura concorsuale, della pubblicità della prova orale e, quindi, con i principi di trasparenza e imparzialità, di cui all’art. 97 Cost.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare, secondo argomenti del tutto condivisi dal Collegio, che, affinché un'aula o sala sia aperta al pubblico, occorre che durante le prove orali del concorso sia assicurato il libero ingresso al locale ove esse si tengono a chiunque voglia assistervi e, quindi, anche ai candidati che abbiano già sostenuto il colloquio o che non vi siano stati ancora sottoposti, atteso che ogni candidato è titolare di un interesse qualificato a presenziare alle prove degli altri, onde verificare di persona il corretto operare della Commissione esaminatrice (TAR Lombardia, Milano, III, 05.04.2019, n. 759, TAR Toscana, Firenze, I, 05.05.2016, n. 805; Consiglio di Stato, Sez. III, 07.04.2014, n. 1622).
Il concetto di garanzia della "pubblicità" della seduta deve necessariamente estendersi (soprattutto) a "tutti" i soggetti che hanno un reale interesse ad assistere alle prove, primi fra tutti i partecipanti alla selezione, sia che abbiano già sostenuto il colloquio sia che ancora lo debbano compiere. Il tutto al fine di permettere la verifica, di persona, del corretto svolgimento delle prove orali degli altri partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità. Valori essenziali garantiti dall'ordinamento tramite la fissazione di regole e di norme di garanzia "preventiva". In caso di omesso rispetto di tali imprescindibili principi risulterebbe frustrata anche la sfera di possibile tutela dei partecipanti, i quali hanno la possibilità concreta di formulare eventuali contestazioni solo tramite la (previa) attribuzione della facoltà di poter assistere alla fase sostanziale e finale della procedura selettiva di assunzione (TAR Cagliari sez. II 13.03.2019, n. 227).
Nella fattispecie in esame, la "speciale" modalità ideata dalla Commissione per lo svolgimento delle prove orali, di sottoporre ai candidati la stessa domanda, ha indubbiamente violato le basilari regole di trasparenza, imparzialità e buon andamento, creando anomalie lesive della posizione dei concorrenti non ammessi ad assistere.
22) L’illegittimità delle modalità di svolgimento del colloquio travolge irrimediabilmente le ulteriori fasi del procedimento concorsuale, ed in particolare la graduatoria finale di merito, e la relativa approvazione.
22.1) Dall’annullamento consegue l’obbligo dell’Amministrazione di procedere alla rinnovazione del segmento procedimentale della fase della prova orale, che dovrà essere svolta davanti ad una Commissione in diversa composizione con il pieno rispetto della regola della pubblicità della prova (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 29.10.2019 n. 2272 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cartello di cantiere – Obbligo di apposizione o mancata esposizione – Lavori sospesi o cantiere inoperante – Responsabilità del titolare del permesso a costruire, committente, costruttore o direttore dei lavori – Artt. 27, 36, 44, 45, 70, 83, 93, 95 d.P.R. n. 380/2001 ( T.U.E.) e 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004.
In costanza d’efficacia del titolo, l’obbligo di apposizione del cartello perdura sino all’ultimazione dei lavori, anche se gli stessi siano stati momentaneamente sospesi o il cantiere sia inoperante.
Sicché, la violazione dell’obbligo di esposizione del cartello (così come quello, parimenti previsto dalla norma, di esibire il titolo edilizio) è penalmente sanzionata a condizione che quegli obblighi risultino espressamente previsti anche dai regolamenti edilizi o dal titolo
(Cass. Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, Aramini e a.).
Principio, recente riaffermato con la precisazione che la violazione dell’obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, è tuttora punita dall’art. 44, lett. a) del d.P.R. n. 380 del 2001 se commessa dal titolare del permesso a costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore dei lavori (Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini e aa.), essendo detti soggetti responsabili, giusta il principio ricavabile dall’art. 29, comma 1, T.U.E., di conformarsi alle previsioni urbanistiche ed esecutive risultanti dalla normativa, dalla pianificazione, dal titolo edilizio.

...
Attività di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia – Violazione sull’obbligo di affiggere il cartello di cantiere – Contravvenzione di omessa affissione del cartello di cantiere.
L’attività di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia di cui all’art. 27 T.U.E., concerne tutte le opere che ancora non siano state ultimate, ben potendo l’attività costruttiva riprendere in qualsiasi momento prima che sia stata formalmente comunicata la dichiarazione di conclusione dei lavori perdurando l’eventuale consumazione degli illeciti sino all’ultimazione delle opere.
Pertanto, rispondono della contravvenzione in parola, sia il titolare del permesso a costruire, il committente, il costruttore o direttore dei lavori, posto che la violazione penale sussiste ogni qual volta il regolamento edilizio preveda l’apposizione del cartello, anche se il titolo rilasciato non sia il permesso di costruire.
Di fatti, soltanto le ipotesi di reato contenute nell’art. 44, comma 1, lett. b) e c), T.U.E. –salva la diversa fattispecie di lottizzazione abusiva prevista da tale ultima disposizione– si riferiscono esclusivamente allo svolgimento di lavori in assenza o in totale difformità o variazione essenziale dal permesso di costruire e, nel caso di opere assoggettate al regime della s.c.i.a., sono state a quelle parificate nei limiti in cui si tratti di titolo alternativo al permesso ai sensi dell’art. 23, comma 01, T.U.E. (cfr. art. 44, comma 2, T.U.E.).
Ulteriori informazioni da contenersi nel cartello di cantiere riguardano, poi, la diversa materia del rispetto delle prescrizioni sulla sicurezza del lavoro nei cantieri edili (si pensi all’indicazione del “Coordinatore della sicurezza in fase di progettazione e Coordinatore della sicurezza in fase di escuzione” e agli “estremi della notifica preliminare”).
La violazione sull’obbligo di affiggere il cartello di cantiere, dunque, riguarda beni giuridici diversi (e ulteriori) rispetto a quello, tipico delle contravvenzioni urbanistiche, della mera conformità dell’opera alle previsioni di piano e agli standards urbanistici, sicché la contravvenzione non può dirsi sanata nel caso di rilascio del permesso di costruire in sanatoria. La riprova della correttezza di tale conclusione si ha constatando che la contravvenzione di regola sussiste indipendentemente dall’esistenza di una delle “classiche” ipotesi di illecito urbanistico che sono sanate dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Ed invero, nel caso di abuso c.d. “totale”, vale a dire allorquando si è posto mano alla modifica del territorio assoggettata al rilascio del permesso di costruire senza richiede alcun titolo abilitativo, l’unico reato configurabile è quello di costruzione in assenza di permesso, posto che la contravvenzione di omessa affissione del cartello di cantiere presuppone che un titolo edilizio sia stato rilasciato e che ci si trovi di fronte ad un iter amministrativo quantomeno ab origine regolare; se, d’altro canto, la contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), T.U.E. riguardi –come si è visto essere ben possibile– un intervento non assoggettato a permesso di costruire, sarebbe irrazionale legare la possibilità di estinguere il reato al rilascio di un provvedimento che non sarebbe possibile né richiedere, né ottenere. In sostanza, l’inosservanza di cui qui si discute si muove su un piano diverso da quello della mera compatibilità urbanistica tra pianificazione ed opera eseguita sul quale invece opera l’accertamento di conformità di cui all’art. 36 T.U.E. che produce effetti estintivi a norma del successivo art. 45, comma 3, del testo unico.
Nel caso di specie, peraltro, da un lato non risultava che la previsione del regolamento edilizio comunale non si riferiva pure a detto titolo semplificato e, d’altro lato, la sentenza impugnata attestava che il titolo rilasciato era una s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire, sicché nessun dubbio poteva porsi sulla sussistenza della contravvenzione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.10.2019 n. 43698 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio in sanatoria del permesso di costruire – Effetti sui reati – Disciplina urbanistica ed edilizia – Inosservanze della normativa antisismica – Rispetto della normativa tecnica in tema di costruzioni – Tutela della pubblica incolumità – Giurisprudenza.
In materia di urbanistica ed edilizia, per il combinato disposto di cui agli artt. 36 e 45, comma 3, T.U.E., il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
L’ambito di applicazione della speciale causa di estinzione del reato dipende, in primo luogo, dalla tipologia di accertamento di conformità che la disposizione richiama (che si limita alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell’opera ed al momento di presentazione della domanda in sanatoria: cfr. art. 36, comma 1, T.U.E.), sicché, ad es., lo stesso non spiega ovviamente alcun effetto con riguardo ai reati paesaggistici previsti dall’art. 181 d.lgs. 42 del 2004
(Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017, dep. 2018, Franchino e aa.6; Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015, Casalanguida e a.).
D’altro canto, per espressa previsione normativa, la sanatoria opera soltanto per le contravvenzioni urbanistiche e non anche per quelle edilizie, sicché, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non comporta l’estinzione dei reati previsti, dallo stesso testo unico, con riguardo alle inosservanze della normativa antisismica e di quelle sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n. 19196 del 26/02/2019, Greco; Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.10.2019 n. 43698 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività edificatoria unitara – Individuazione del regime abilitativo applicabile – Valutazione delle opere nel suo complesso – Lavori eseguiti in difformità – Area vincolata in zona sismica – Autorizzazione paesaggistica.
I lavori connessi nell’ambito dell’unico, complessivo, intervento per cui era stata rilasciata la s.c.i.a. (peraltro eseguiti in difformità dal titolo) non sono certo suscettibili di separata valutazione, sicché, la valutazione dell’opera, ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, deve riguardare il risultato dell’attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i singoli componenti, salvo che questi siano lecitamente determinati, in tempi successivi, ad eseguire singole opere, non programmate sin dall’inizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.10.2019 n. 43698 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIE' legittima l’esclusione dalla gara, ai sensi dell’art. 95, comma 10, del D.Lgs. n. 50/2016, dell’impresa che non abbia indicato nell’offerta economica i costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
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Il ricorso è fondato.
La ricorrente deduce che l’aggiudicataria non ha indicato all’interno della busta relativa all’offerta economica i costi della manodopera e del personale.
Per l’art. 95, comma 10, codice dei contratti pubblici “nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all’articolo 97, comma 5, lettera d)”, e per l’art. 83, comma 9, il soccorso istruttorio è escluso per le carenze dichiarative relative all’offerta economica e all’offerta tecnica.
L’Adunanza Plenaria, nel rimettere la questione alla Corte di giustizia UE, ha precisato “che il pertinente quadro giuridico nazionale imponga di aderire alla tesi secondo cui, nelle circostanze rilevanti ai fini del decidere, la mancata puntuale indicazione in sede di offerta dei costi della manodopera comporti necessariamente l'esclusione dalla gara e che tale lacuna non sia colmabile attraverso il soccorso istruttorio” e che “ai sensi del diritto nazionale, siccome l'obbligo di separata indicazione di tali costi è contenuto in disposizioni di legge dal carattere sufficientemente chiaro per gli operatori professionali, la mancata riproduzione di tale obbligo nel bando e nel capitolato della gara non potrebbe comunque giovare a tali operatori in termini di scusabilità dell'errore”, ritenendosi poi “l'esclusione del concorrente che non abbia ottemperato all'obbligo legale di indicare separatamente i costi della manodopera e della sicurezza dei lavoratori, senza che possa essere invocato il beneficio del c.d. soccorso istruttorio” (Ad. Pl., 24.01.2019, n. 3).
La sentenza citata evidenzia inoltre che, stante la chiara previsione delle disposizioni citate, “nessun argomento sembra sostenere la tesi secondo cui una clausola escludente potrebbe operare solo se espressamente richiamata dal bando o dal capitolato e non anche direttamente in base alla forza di una legge adeguatamente chiara, come l’articolo 95 comma 10, citato”, in quanto “se si aderisse a tale impostazione) si determinerebbe l’effetto, evidentemente contrario al generale principio di legalità, per cui sarebbe la stazione appaltante a scegliere quali disposizioni imperative di legge rendere in concreto operanti e quali no, semplicemente richiamandole ovvero non richiamandole nei bandi e nei capitolati”.
È poi da rilevare che, sulla questione in esame, la Corte di Giustizia si è già pronunciata (Corte di Giustizia UE del 02.05.2019, n. 309/2018) statuendo che “i principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un'offerta economica presentata nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l'esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell'ipotesi in cui l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d'appalto, sempre che tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione”.
Posti questi principi, il ricorso deve essere accolto stante la mancata indicazione, da parte dell’aggiudicataria, dei costi della manodopera e del personale (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 25.10.2019 n. 12323 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia – Modifiche volumetriche – Apprezzabilità o meno dell’aumento o diminuzione di volumetria – Criteri – Norma statale inderogabile dalla normativa regionale – Zona sismica – Disciplina applicabile – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Immobili vincolati o assoggettati al vincolo paesaggistico – Autorizzazione paesaggistica – Necessità – Artt. 10, 32, 44, 94, 95 d.P.R. n. 380/2001 – Artt. 135, 143, 149, 156, 181 d.lgs. n. 42/2004.
In materia edilizia, le “modifiche volumetriche” previste dall’art. 10 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per le attività di ristrutturazione edilizia (assentibili, a scelta dell’interessato, o con permesso di costruire o con DIA) devono consistere in diminuzioni o trasformazioni dei volumi preesistenti ovvero in incrementi volumetrici modesti, tali da non configurare apprezzabili aumenti di volumetria, perché altrimenti verrebbe meno la linea di distinzione tra la ristrutturazione edilizia e la nuova costruzione (Cass., Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Soldano).
Nel caso in cui i lavori abbiano ad oggetto immobili vincolati (nella specie assoggettati al vincolo paesaggistico per essere nel centro storico della cittadina), si applica l’art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, che esclude che le opere possano considerarsi delle variazioni non essenziali. Tale norma statale non è derogata né è derogabile dalla normativa regionale.
Nella specie, l’art. 17 della L.regionale Lazio n. 15/2008 che reca la nozione di variazioni essenziali si riferisce ad ipotesi aggiuntive, ma non sostitutive, e comunque in parte sovrapponibili a quelle della norma statale.
Inoltre, nell’ipotesi in esame la ristrutturazione abbisognava anche dell’autorizzazione paesaggistica. Trattandosi di opere in zona sismica è integrato anche il reato relativo alla violazione degli art. 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.

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Rifacimento di una copertura – Definizioni degli interventi edilizi – Titolo abilitativo – Aumento delle altezze interne – Difformità delle opere.
L’intervento di rifacimento di una copertura di un edificio non può qualificarsi come manutenzione ordinaria, rientrando piuttosto nella nozione di manutenzione straordinaria, di cui all’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.
Nella specie, in ogni caso lo stato dei luoghi è stato certamente alterato rispetto a quello originario, essendo aumentate le altezze interne
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.10.2019 n. 43530 - link a www.ambientediritto.it).
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SENTENZA
3. I ricorsi sono manifestamente infondati.
I Giudici di merito hanno accertato che gli imputati, nel ristrutturare il fabbricato di loro proprietà nel centro storico di Pico, avevano sostituito gli elementi portanti della copertura con una quota al colmo di m 2,37 in luogo di m 2,20 ed ai lati di m 1,15 e di m 1,20. Si tratta di opere in difformità di quelle assentite perché la sostituzione degli elementi portanti della copertura non era prevista del progetto, vi era stato un aumento dell'altezza di cm 17 e non era possibile valutare le altre altezze siccome nel progetto non erano state riportate le misure ante operam.
Gli imputati ritengono che non sussistono i reati contestati perché si trattava di un intervento che non necessitava di permesso a costruire e perché le variazioni non erano state essenziali.
L'assunto difensivo è in contrasto con il dato normativo come interpretato dalla giurisprudenza.
Innanzi tutto, vi è stata una modifica volumetrica, sia pure senza modifica della sagoma esterna del fabbricato.
Questa Sezione ha affermato che in materia edilizia, le "modifiche volumetriche" previste dall'art. 10 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per le attività di ristrutturazione edilizia (assentibili, a scelta dell'interessato, o con permesso di costruire o con DIA) devono consistere in diminuzioni o trasformazioni dei volumi preesistenti ovvero in incrementi volumetrici modesti, tali da non configurare apprezzabili aumenti di volumetria, perché altrimenti verrebbe meno la linea di distinzione tra la ristrutturazione edilizia e la nuova costruzione (Cass., Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Soldano, Rv. 238462).
Nella specie la modifica, da considerarsi non irrilevante, è avvenuta in difformità dalla DIA.
In secondo luogo, nel caso in cui i lavori abbiano ad oggetto immobili vincolati (nella specie assoggettati al vincolo paesaggistico per essere nel centro storico della cittadina), si applica l'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, che esclude che le opere possano considerarsi delle variazioni non essenziali. Tale norma statale non è derogata né è derogabile dalla normativa regionale.
Pertanto l'art. 17 della L. regionale n. 15/2008 che reca la nozione di variazioni essenziali si riferisce ad ipotesi aggiuntive, ma non sostitutive, e comunque in parte sovrapponibili a quelle della norma statale.
Gli imputati ritengono inoltre che l'immobile, sebbene vincolato, non necessitava dell'autorizzazione paesaggistica sulla base dell'art. 11 del piano paesistico territoriale della Regione Lazio che esclude la richiesta di autorizzazione per gli interventi di manutenzione ordinaria e consolidamento statico che non alterino lo stato dei luoghi ed il prospetto degli edifici.
Sennonché nella specie, non pare possa qualificarsi l'intervento di rifacimento della copertura come manutenzione ordinaria, rientrando piuttosto nella nozione di manutenzione straordinaria di cui all'art. 3 d.P.R. n. 380/2001 ed in ogni caso lo stato dei luoghi è stato certamente alterato rispetto a quello originario, essendo aumentate le altezze interne.
Pertanto, nell'ipotesi in esame la ristrutturazione abbisognava anche dell'autorizzazione paesaggistica (Cass., Sez. 3, n. 8739 del 21/01/2010, Perna, Rv. 246218 e n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto, Rv. 267190). Trattandosi di opere in zona sismica è integrato anche il reato relativo alla violazione degli art. 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
Corretta è l'esclusione della causa di non punibilità dell'art. 131-bis cod. pen. per la violazione della norma antisismica perché tale violazione si iscrive in un contesto illecito più ampio per il collegamento con gli altri reati.
D'altra parte i ricorrenti non hanno dedotto alcun utile elemento a loro favore se non quello della modestia dell'illecito commesso, che tale non è alla luce di tutti gli elementi di fatto adeguatamente apprezzati dai Giudici di merito.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.10.2019 n. 43530).

EDILIZIA PRIVATA: Sul permesso di costruire in deroga.
Sulla scorta di quanto affermato dalla costante giurisprudenza:
   a) il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (rubricato “Permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici”) è un istituto di carattere eccezionale rispetto all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale;
   b) in particolare, in tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo;
   c) peraltro, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l'Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall’evidente travisamento dei fatti;
   d) invero, la eventuale sussistenza dei presupposti di cui all'art. 14, commi 1-bis, 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001 per il rilascio dei permessi di costruire in deroga costituisce condizione minima necessaria, ma non sufficiente, per l’assentibilità dell'intervento, permanendo in capo all'Amministrazione un’ampia discrezionalità circa l'an e il quomodo dell'eventuale assenso.
Nell’ambito del procedimento per l’adozione del permesso di costruire in deroga, deve pertanto essere distinta la competenza del Consiglio comunale, che è soggetto chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo, e la competenza degli uffici tecnici, che devono invece istruire la pratica.
In conclusione, ferma l’insindacabilità nel merito della decisione del Consiglio comunale, risulta condivisibile la tesi (già affermata dal primo giudice) secondo cui la valutazione della compatibilità con gli strumenti urbanistici, ai fini del rilascio del permesso in deroga, rientra nella competenza dell’ufficio tecnico, il quale, nell’esercizio della propria verifica in ordine alla fattibilità tecnica dell’opera, non è pertanto vincolato dalla precedente delibera del Consiglio comunale, espressosi nei limiti della valutazione della sussistenza dell’interesse pubblico dell’intervento.

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Ai sensi del comma 5 dell’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, nonché, nei casi di cui al comma 1-bis, le destinazioni d'uso, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444.”.
Ne consegue che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, il perimetro della nozione di permesso di costruire in deroga viene circoscritto esclusivamente ai limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi.
Peraltro, con riferimento alle destinazioni d'uso, l’ammissibilità della deroga è limitata, fermo il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, ai soli casi di cui al comma 1-bis del medesimo art. 14, secondo cui “Per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d'uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell'intervento di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall'articolo 31, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive modificazioni”.
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6.2. Occorre infatti considerare, sulla scorta di quanto affermato dalla costante giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2018, n. 5277; id., 26.07.2017, n. 3680), che:
   a) il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (rubricato “Permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici”) è un istituto di carattere eccezionale rispetto all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale;
   b) in particolare, in tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo;
   c) peraltro, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l'Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall’evidente travisamento dei fatti;
   d) invero, la eventuale sussistenza dei presupposti di cui all'art. 14, commi 1-bis, 2 e 3, d.P.R. n. 380 del 2001 per il rilascio dei permessi di costruire in deroga costituisce condizione minima necessaria, ma non sufficiente, per l’assentibilità dell'intervento, permanendo in capo all'Amministrazione un’ampia discrezionalità circa l'an e il quomodo dell'eventuale assenso.
6.3. Nell’ambito del procedimento per l’adozione del permesso di costruire in deroga, deve pertanto essere distinta la competenza del Consiglio comunale, che è soggetto chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo, e la competenza degli uffici tecnici, che devono invece istruire la pratica.
In conclusione, con riferimento al caso in esame, ferma l’insindacabilità nel merito della decisione del Consiglio comunale del Comune di San Nicola Arcella, risulta condivisibile la tesi (già affermata dal primo giudice) secondo cui la valutazione della compatibilità con gli strumenti urbanistici, ai fini del rilascio del permesso in deroga, rientra nella competenza dell’ufficio tecnico, il quale, nell’esercizio della propria verifica in ordine alla fattibilità tecnica dell’opera, non è pertanto vincolato dalla precedente delibera del Consiglio comunale, espressosi nei limiti della valutazione della sussistenza dell’interesse pubblico dell’intervento.
7. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso, sviluppato nei termini anzidetti.
7.1. Al riguardo, il Collegio rileva in primo luogo che, ai sensi del comma 5 dell’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, nonché, nei casi di cui al comma 1-bis, le destinazioni d'uso, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444.”.
Ne consegue che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, il perimetro della nozione di permesso di costruire in deroga viene circoscritto esclusivamente ai limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi.
Peraltro, con riferimento alle destinazioni d'uso, l’ammissibilità della deroga è limitata, fermo il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, ai soli casi di cui al comma 1-bis del medesimo art. 14, secondo cui “Per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d'uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell'intervento di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall'articolo 31, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive modificazioni” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.10.2019 n. 7228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce jus receptum il principio generale a mente del quale in materia edilizia la vicinitas, ossia l’esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall’intervento edilizio, è circostanza sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell’interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell’attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo.
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Preliminarmente il Collegio deve farsi carico dell’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse sollevata dalla difesa del controinteressato.
L’eccezione è infondata.
Invero, «costituisce jus receptum il principio generale a mente del quale in materia edilizia, la vicinitas, ossia l’esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall’intervento edilizio, è circostanza sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell’interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell’attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 10/09/2018, n. 5307)» (così, testualmente, C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 3386/2019).
Il ricorrente è proprietario dell’appartamento sottostante a quello ove è stato effettuato l’intervento edilizio abusivo e come tale ha, quindi, interesse e legittimazione a ricorrere avverso il provvedimento che ha sanato il predetto abuso (TAR Lombardia-Miulano, Sez. IV, sentenza 24.10.2019 n. 2221 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cessione di cubatura tra fondi non contigui – Edificio in zona agricola vincolata in assenza di permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica – Responsabilità del proprietario/committente e del progettista/direttore dei lavori.
La legittimità della cessione di cubatura tra fondi non contigui deve escludersi, oltre che nei casi in cui gli stessi siano lontani, oppure esprimano diversi indici di fabbricabilità quando più elevato sia quello del fondo cedente, ovvero abbiano diversa destinazione urbanistica, anche laddove l’atto negoziale abbia consentito di realizzare una assai maggiore volumetria in un terreno paesaggisticamente vincolato.
Quest’ultimo elemento –che per quanto detto incide sulla valutazione circa la legittimità della cessione di cubatura ai fini urbanistici e, dunque, sulla legittimità del permesso di costruire che sia ciò nondimeno stato rilasciato– consente di comprendere come risulti certamente compromessa anche la legittimità dell’accertamento di compatibilità paesaggistica laddove, ciò che nella specie è avvenuto, lo stesso sia espresso sull’errato presupposto del rispetto degli standards urbanistici di zona quanto alla volumetria legittimamente edificabile.

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Cessione di cubatura – Indice di edificabilità – Elusione dei vincoli – Requisito della reciproca prossimità – Assenza del necessario requisito della “contiguità” dei fondi – Effettiva e significativa vicinanza.
La cessione di cubatura è un istituto di fonte negoziale, in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la “cessione” della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, il legittimo ricorso a tale meccanismo è tuttavia soggetto a determinate condizioni, una delle quali è costituita dall’essere i terreni in questione, se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità, perché altrimenti, attraverso l’utilizzazione di tale strumento, astrattamente legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, contrastanti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
Laddove si ritenesse legittima la “cessione di cubature” fra terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di “affollamento edilizio” in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situati i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l’attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici.
Pur essendo spesso stata detta ratio decidendi associata all’ulteriore rilievo –ritenuto parimenti ostativo ad una legittima cessione di cubatura– dell’essere i terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi si è ritenuto che anche in ipotesi di aree entrambe tipizzate come zona agricola ed aventi il medesimo indice di fabbricabilità non può essere esclusa la illegalità dell’operazione effettuata.
Sicché, l’assenza del necessario requisito della “contiguità” dei fondi, intesa nel senso che gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, devono pur sempre essere caratterizzati da una effettiva e significativa vicinanza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.10.2019 n. 43253 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati urbanistici e paesaggistici – Opere edilizie – Manufatti completamente diversi da quelli eseguibili – Vocazione agricola (e non residenziale) dell’area paesaggisticamente vincolata – Assenza di validi titoli autorizzativi – Requisito della c.d. doppia conformità – Configurabilità dei reati – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 – Art. 44, D.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato previsto dall’art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 la realizzazione di un immobile in assenza di valido permesso di costruire, perché ottenuto mediante illegittima cessione di cubatura a scopo edificatorio tra terreni non reciprocamente prossimi, aventi un indice di fabbricabilità differente o una diversa destinazione urbanistica.
Quanto alla sussistenza dell’illecito paesaggistico, il reato di cui all’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, giusta la chiara formulazione del precetto contenuta nel primo comma della disposizione, si configura rispetto a lavori di qualsiasi genere eseguiti sui beni muniti di tutela paesaggistica, in assenza della prescritta autorizzazione o in difformità da essa, senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.10.2019 n. 43253 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante orientamento della giurisprudenza, il ricupero o la ricostruzione di un rudere è riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia qualora sia possibile accertarne la preesistente consistenza, ovvero, in mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da ricuperare, in quello della nuova costruzione.
In nessun caso, pertanto, la ricostruzione di un rudere può rientrare nella categoria del restauro e risanamento conservativo.
Come più volte precisato dalla giurisprudenza, la mancata conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente, tra cui la sagoma, comporta che l’intervento fuoriesca dalla categoria della ristrutturazione edilizia, configurando una nuova costruzione.
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Infatti, pur in assenza di puntuali descrizioni dell’edificio preesistente e di rappresentazioni fotografiche che consentano di apprezzarne la consistenza, è agevole ritenere che si trattasse di una costruzione in rovina, ossia di rudere, come comprovato:
   (i) dall’affermazione, contenuta alla pag. 2 del ricorso, secondo cui esso era “in gran parte coperto dalle serre agricole presenti sul terreno”;
   (ii) dalla definizione di “edificio fatiscente” contenuta alla pag. 1 della memoria difensiva datata 18.10.2007;
   (III) dal verbale di sopralluogo del 02.07.2007, in atti, nel quale si afferma che “non è possibile determinare l’altezza del fabbricato preesistente”.
Per costante orientamento della giurisprudenza, il ricupero o la ricostruzione di un rudere è riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia, qualora sia possibile accertarne la preesistente consistenza (TAR Campania, Napoli, sez. III, 11.06.2019, n. 3162), ovvero, in mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da ricuperare, in quello della nuova costruzione (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 26.09.2017, n. 1167).
In nessun caso, pertanto, la ricostruzione di un rudere può rientrare nella categoria del restauro e risanamento conservativo (TAR Toscana, Firenze, sez. I, 16.05.2017, n. 692; TAR Campania, Salerno, sez. I, 28.07.2015, n. 1764).
Va soggiunto che, pur in assenza di aumenti volumetrici, le opere oggetto dell’istanza di sanatoria hanno sicuramente comportato incisive modifiche della sagoma dell’edificio, in ragione della modifica della copertura nonché della sopraelevazione dell’intero corpo di fabbrica.
Come più volte precisato dalla giurisprudenza, la mancata conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente, tra cui la sagoma, comporta che l’intervento fuoriesca dalla categoria della ristrutturazione edilizia, configurando una nuova costruzione (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. II, 12.08.2019, n. 5663) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.10.2019 n. 782 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla necessità del permesso di costruire la giurisprudenza, tra l'altro, ha così statuito:
   a) costituisce trasformazione soggetta a permesso di costruire la realizzazione di piste all’esito di ripetuti passaggi con mezzi meccanici, nonché per quanto attiene al previsto ampliamento della stradella;
   b) in materia edilizia sono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì costituiscano manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione -quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorrette da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno- in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà), per quanto attiene alla recinzione formata da un muretto in cemento armato;
   c) ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, si deve valutare l'opera medesima alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale), per quanto attiene ai due box prefabbricati (uno dei quali, tra l’altro, destinato a servizio WC con allaccio alla pubblica fognatura) e per quanto attiene ai macchinari, anche tenuto conto che il progetto contemplava la realizzazione di idonee opere di fondazione per il posizionamento delle attrezzature necessarie per lo svolgimento dell’attività, costituite da piastre di fondazione in cemento armato e massetto debolmente armato.
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Non può condividersi la tesi di parte ricorrente secondo cui l’impianto di betonaggio sarebbe stato realizzato tramite mera collocazione sul suolo di macchinari e senza esecuzione di lavori comportanti trasformazioni permanenti del suolo stesso.
Come risulta dal progetto dell’intervento versato in atti dall’Amministrazione resistente (allegato 005 alla memoria di costituzione del 03.03.2019), la ditta ricorrente, al fine di realizzare il previsto impianto di betonaggio, intendeva, tra l’altro, effettuare le seguenti opere:
   - “sistemazione del terreno, mediante la realizzazione di terrazzamenti, disposti secondo l’andamento naturale dello stesso e la realizzazione di idonee opere di mitigazione e consolidamento per l’impianto di betonaggio”;
   - “rinterri effettuati mediante il riutilizzo della terra naturale proveniente dai modesti scavi di sbancamento in loco per la realizzazione dei terrazzamenti previsti in progetto, per le opere di fondazione, per l’ampliamento della stradella di accesso e per la collocazione della cisterna totalmente interrata in cemento armato”;
   - “completamento della recinzione esistente, formata da muretto in cemento armato, con sovrastante paletti e rete metallici”;
   - “realizzazione di idonee opere di fondazione per il posizionamento delle attrezzature necessarie per lo svolgimento dell’attività, costituite da piastre di fondazione in cemento armato, massetto debolmente armato e per la successiva collocazione di due piccoli box prefabbricati da destinare rispettivamente a ufficio e locale WC”;
   - realizzazione di uno “scarico per il servizio igienico” che sarebbe “stato recapitato direttamente nella fognatura pubblica, servita da appositi pozzetti di ispezione”.
Nel suo complesso si tratta chiaramente di un intervento per il quale risultava necessario il permesso di costruire.
Al riguardo è sufficiente citare le seguenti pronunce (in parte menzionate anche dall’Amministrazione resistente nella propria memoria):
   a) TAR Lazio, Roma, II-quater, n. 10017/2018 (in cui si afferma che costituisce trasformazione soggetta a permesso di costruire la realizzazione di piste all’esito di ripetuti passaggi con mezzi meccanici), per quanto attiene al previsto ampliamento della stradella);
   b) TAR Bari, III, n. 714/2013 e Consiglio di Stato, VI, n. 5380/2019 (nella quale ultima decisione si precisa che in materia edilizia sono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì costituiscano manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione -quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorrette da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno- in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà), per quanto attiene alla recinzione formata da un muretto in cemento armato;
   c) TAR Firenze, III, n. 481/2002, TAR Torino, I, n. 1143/2013 e TAR Campania, Napoli, III, n. 3863/2008 (nella quale ultima decisione si afferma che, ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, si deve valutare l'opera medesima alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale), per quanto attiene ai due box prefabbricati (uno dei quali, tra l’altro, destinato a servizio WC con allaccio alla pubblica fognatura) e per quanto attiene ai macchinari, anche tenuto conto che il progetto contemplava la realizzazione di idonee opere di fondazione per il posizionamento delle attrezzature necessarie per lo svolgimento dell’attività, costituite da piastre di fondazione in cemento armato e massetto debolmente armato (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 18.10.2019 n. 2438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE: Forniture di beni e necessità che gli stessi abbiano già in sede di offerta le caratteristiche essenziali per il loro utilizzo.
Appare rispondente ad un’appropriata gestione delle modalità di scelta del contraente privato pretendere che un bene abbia già in sede di offerta tutte le caratteristiche essenziali per il suo utilizzo (nella fattispecie il requisito della registrazione nel «Repertorio dei dispositivi medici» di determinate protesi), posto che, da un lato, i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa e di libertà di iniziativa economica e di concorrenza impongono la parità di trattamento fra i concorrenti in gara, e quindi la necessità che tutti i prodotti offerti siano contestualmente valutati secondo le caratteristiche e i requisiti posseduti e attestati dall’offerente al medesimo momento di presentazione dell’offerta, e che, dall’altro lato, è financo legittimo dubitare che l’immissione in commercio di un prodotto coincida con la sottoscrizione del contratto per la fornitura dello stesso, per potersi invece ragionevolmente sostenere che l’offerta di un prodotto in una pubblica gara costituisca un’ipotesi di commercializzazione, intesa come presentazione al mercato di un bene avente tutte le caratteristiche essenziali per il suo utilizzo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.10.2019 n. 2191 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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   - che è pur vero che l’immissione in commercio potrebbe anche farsi coincidere con la fase di esecuzione del rapporto negoziale, e quindi con il successivo momento della stipulazione del contratto, sennonché appare rispondente ad un’appropriata gestione delle modalità di scelta del contraente privato pretendere che il requisito sia già presente al momento dell’offerta al potenziale acquirente, posto che, da un lato, i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa e di libertà di iniziativa economica e di concorrenza impongono la parità di trattamento fra i concorrenti in gara, e quindi la necessità che tutti i prodotti offerti siano contestualmente valutati secondo le caratteristiche ed i requisiti posseduti ed attestati dall’offerente al medesimo momento di presentazione dell’offerta (v. Cons. Stato, Sez. III, 03.10.2019 n. 6658), e che, dall’altro lato, è financo legittimo dubitare che l’immissione in commercio di un prodotto coincida con la sottoscrizione del contratto per la fornitura dello stesso, per potersi invece ragionevolmente sostenere che l’offerta di un prodotto in una pubblica gara costituisca un’ipotesi di commercializzazione, intesa come presentazione al mercato di un bene avente tutte le caratteristiche essenziali per il suo utilizzo (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 14.01.2019 n. 52);

EDILIZIA PRIVATAL'attività di spargimento di ghiaia deve ritenersi riconducibile alla categoria degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380/2001, da realizzarsi unicamente previo rilascio, ad opera del Comune, di un obbligatorio permesso di costruire ai sensi dell'art. 33 del richiamato d.p.r. 380/2001.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, anche il mero spargimento di ghiaia senza titolo edilizio, su un’area che in precedenza ne era priva, può essere oggetto dell'ordine di reintegrare il pregresso stato dei luoghi, allorché sia preordinato alla modifica della precedente destinazione d'uso. Non ha rilievo la circostanza che la ricorrente non abbia realizzato alcuna opera di impermeabilizzazione definitiva del fondo agricolo in oggetto, in quanto lo spargimento di uno strato di ghiaia produce di fatto l’isolamento del suolo.
Occorre, pertanto, il permesso di costruire anche a fronte della modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo -pur in assenza di opere di muratura e di infrastrutture- per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua originaria qualificazione.

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6. Con riferimento alla consistenza dell’intervento, lo stesso è descritto dall’amministrazione come “posa di nuova e spessa pavimentazione, composta da ghiaia e petrisco, di spessore di circa 40-50 cm, con lunghezza di mt. 21 circa e larghezza di mt. 3,00. Pavimentazione (…) posata e rullata direttamente sul terreno”.
7. Al fine di individuarne il regime edilizio va richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “L'attività di spargimento di ghiaia deve ritenersi riconducibile alla categoria degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380/2001, da realizzarsi unicamente previo rilascio, ad opera del Comune procedente, di un obbligatorio permesso di costruire, ai sensi dell'art. 33 del richiamato d.p.r. 380/2001.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, anche il mero spargimento di ghiaia senza titolo edilizio, su un’area che in precedenza ne era priva, può essere oggetto dell'ordine di reintegrare il pregresso stato dei luoghi, allorché sia preordinato alla modifica della precedente destinazione d'uso. Non ha rilievo la circostanza che la ricorrente non abbia realizzato alcuna opera di impermeabilizzazione definitiva del fondo agricolo in oggetto, in quanto lo spargimento di uno strato di ghiaia produce di fatto l’isolamento del suolo (in questo senso, Cons. Stato, sez. V, 27.04.2012, n. 2450).
Occorre, pertanto, il permesso di costruire anche a fronte della modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo -pur in assenza di opere di muratura e di infrastrutture (Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6519)- per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua originaria qualificazione (cfr: Cons. Stato n. 2450/2012, n. 6756/2008; n. 7343/2005; n. 7324/2004; 6519/2003; TAR Lombardia, Milano, n. 2086/2012; TAR Toscana, Firenze, n. 6437/2010)
” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 27.07.2015, n. 3948).
8. Nella specie l’intervento contestato, sottraendo una porzione di terreno alla sua vocazione agricola per destinarlo al transito dei mezzi, richiedeva un idoneo titolo edilizio, rilasciato sulla base di un documentato titolo di disponibilità dell’area (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.10.2019 n. 902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Assenza del permesso di costruire e dell’autorizzazione ambientale – Responsabilità del direttore dei lavori in concorso con il proprietario – Subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione – Artt. 29, 31, 44 d.P.R. n. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati edilizi, è legittima la sentenza con cui il giudice subordina la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione dell’opera abusiva, senza procedere a specifica motivazione sul punto, essendo questa implicita nell’emanazione dell’ordine di demolizione disposto con la sentenza, che, in quanto accessorio alla condanna del responsabile, è emesso sulla base dell’accertamento della persistente offensività dell’opera stessa nei confronti dell’interesse protetto.
Deve aggiungersi che la subordinazione della sospensione condizionale della pena all’ordine di demolizione, sebbene in sé legittima, tuttavia richiede la condizione che l’eliminazione delle opere abusive sia esigibile da parte del condannato, ovvero che questi abbia la disponibilità giuridica del bene da demolire.

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Reati edilizi ed urbanistici – Direttore dei lavori – Responsabilità per l’attività edificatoria non conforme – Vigilanza irregolare sull’esecuzione delle opere edilizie – Responsabilità tecnica – Esonero.
In tema di reati edilizi ed urbanistici, il direttore dei lavori è penalmente responsabile, per l’attività edificatoria non conforme alle prescrizioni del permesso di costruire in caso di irregolare vigilanza sull’esecuzione delle opere edilizie, in quanto questi deve sovrintendere con continuità alle opere della cui esecuzione ha assunto la responsabilità tecnica, fatta salva l’ipotesi di esonero prevista dall’art. 29, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Tuttavia, il giudice, nel disporre la condanna dell’esecutore dei lavori e/o del direttore dei lavori per il reato ex art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. prima citato, può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all’ordine di demolizione.
Nel caso in specie, l’ipotesi di esonero di responsabilità non era ravvisabile, non essendo emerso che il direttore dei lavori abbia contestato al committente e al costruttore le violazioni edilizie in corso o, in mancanza di ciò, abbia rinunciato all’incarico una volta venuto a conoscenza della tipologia dei lavori da lui seguiti, lavori la cui natura abusiva non poteva certo essere ignorata da una persona di qualificata esperienza professionale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.10.2019 n. 42566 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di volumi tecnici – Esigenze tecniche di funzionalità degli impianti – Rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione.
In tema di reati edilizi, sono “volumi tecnici” quelli strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell’impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda), che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.10.2019 n. 42566 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Revoca implicita di una variante urbanistica.
Dall’atto con cui il Comune dichiara di adottare il nuovo progetto di variante urbanistica senza, tuttavia, né rispettare le previsioni della legge da un punto di vista sia procedimentale sia contenutistico, né in alcun modo manifestare espressamente l’intenzione di revocare precedenti decisioni, non può trarsi l’implicita volontà di privare di efficacia pregresse deliberazioni formalmente assunte.
Invero, la revoca della deliberazione di adozione della variante generale consegue esclusivamente:
   - o alla legittima adozione di una nuova variante generale, giacché la disciplina della stessa materia (la pianificazione del territorio comunale) non può che trovare un’unica sedes materiae;
   - o all’espressa e formale manifestazione della volontà consiliare, esternata con una apposita deliberazione di voler privare di efficacia la precedente deliberazione di adozione della variante generale.
Invero, mentre con la prima evenienza il Comune sostanzialmente determina l’inizio di un nuovo procedimento pianificatorio, nella seconda, al contrario, il Comune chiude il procedimento a suo tempo iniziato con la deliberazione revocata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.10.2019 n. 7051 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
5.1. Va premesso che, in linea di principio, il consiglio comunale con una successiva delibera può implicitamente revocare una sua precedente delibera, quando il contenuto dispositivo e motivazionale del secondo provvedimento contrasti con il contenuto dell’atto precedente.
In passato, alcune disposizioni dei testi unici sugli enti locali affermavano il principio opposto.
L’art. 303 del testo unico sugli enti locali approvato col regio decreto del 04.02.1915, n. 148 (riproduttivo dell’art. 291 del testo unico approvato col regio del 21.02.1908, n. 269) disponeva infatti che “le deliberazioni dei consigli, importanti modificazioni o revoca di deliberazioni esecutorie, si hanno come non avvenute, ove esse non facciano espressa e chiara menzione della revoca e della modificazione”.
Tale disposizione (a sua volta trasfusa con modifiche lessicali nell’art. 282 del testo unico approvato con il regio decreto 03.03.1934, n. 383) è stata più volte interpretata da questo Consiglio nel senso che la revoca poteva essere disposta anche in assenza di ‘formule sacramentali’ e senza menzionare la parola ‘revoca’ nella delibera successiva, purché risultasse del tutto chiara la determinazione del Comune ‘di sostituire l’una all’altra deliberazione’ (Sez. IV, 27.05.1977, n. 533, riguardante la modifica di uno strumento urbanistico; Sez. V, 28.09.1973, n. 656).
Entrambe tali disposizioni, poi, sono state abrogate dall’art. 64 della legge n. 142 del 1990, con la conseguente affermazione della regola generale per la quale una delibera comunale può essere revocata implicitamente da una successiva delibera avente un contenuto incompatibile.
5.2. Pur se la revoca può essere disposta con un successivo provvedimento incompatibile, in materia urbanistica continuano, comunque, ad avere un rilievo centrale le esigenze di certezza e di chiarezza, già sottolineate da questo Consiglio.
Invero, la materia urbanistica, strutturalmente connotata dalla contestuale compresenza di plurimi interessi, pubblici e privati, spesso in conflitto tra loro, si caratterizza, tra l’altro, per due tratti fondamentali: l’ampia discrezionalità riconosciuta all’Autorità titolare del potere di pianificazione (specie con riferimento alle scelte di massima) ed il vincolo procedimentale e, più in generale, formale che avvince l’operato dell’Amministrazione, per evidenti ragioni di certezza.
In particolare, lo strumento più importante della pianificazione urbanistica a livello comunale, ossia il PRG (o il diverso atto previsto dalla legislazione regionale), è l’esito di una serie rigidamente procedimentalizzata di atti, in cui intervengono, a vario titolo ed in momenti diversi, i singoli cittadini, gli uffici comunali, le Amministrazioni competenti a dare i pareri e gli assensi eventualmente necessari nonché, in sede di approvazione finale, la Regione.
E’ certamente vero, come sostiene il Tar che il Comune riveste “centralità sostanziale” nel procedimento che conduce alla formulazione del PRG e delle relative varianti, posto che al Comune sono riservate l’iniziativa e la formulazione delle scelte di merito.
E’, inoltre, altrettanto vero che il potere pianificatorio può essere esercitato anche incidendo negativamente sull’affidamento dei privati al mantenimento delle pregresse previsioni urbanistiche.
Ciononostante, tale “centralità sostanziale” e tale prevalenza sui contrapposti affidamenti dei privati si svolgono e si esprimono esclusivamente nell’ambito delle forme previste dalla legge: la tipicità del potere, del resto, si manifesta anche e soprattutto con la tipicità delle forme di esteriorizzazione del potere e, a monte, dei propedeutici procedimenti.
La rigida procedimentalizzazione vigente in subiecta materia –la cui rilevanza e la cui specialità sono evidenziate dall’esclusione dell’applicazione degli istituti apprestati dalla legge generale sul procedimento amministrativo– e le esigenze di certezza e stabilità che la pervadono impongono di ascrivere rilievo giuridico alle sole manifestazioni del potere svolte secondo le forme, i tempi ed i modi previsti dalla legge.
Ne consegue, per quanto qui di interesse, che dall’atto con cui il Comune dichiari di adottare il nuovo progetto di variante urbanistica senza, tuttavia, né rispettare le previsioni della legge da un punto di vista sia procedimentale sia contenutistico (questione, questa, passata in giudicato, stante l’assenza di impugnazione comunale sul punto), né in alcun modo manifestare espressamente l’intenzione di revocare precedenti decisioni, non può trarsi l’implicita volontà di privare di efficacia pregresse deliberazioni formalmente assunte.
Invero, la revoca della deliberazione di adozione della variante generale consegue esclusivamente:
   - o alla legittima adozione di una nuova variante generale, giacché la disciplina della stessa materia (la pianificazione del territorio comunale) non può che trovare un’unica sedes materiae;
   - o all’espressa e formale manifestazione della volontà consiliare, esternata con una apposita deliberazione, emanata prima dell’esercizio del potere della Regione ed a questa tempestivamente comunicata, di voler privare di efficacia la precedente deliberazione di adozione della variante generale.
Si osserva, in proposito, che mentre con la prima evenienza il Comune sostanzialmente determina l’inizio di un nuovo procedimento pianificatorio, nella seconda, al contrario, il Comune chiude il procedimento a suo tempo iniziato con la deliberazione revocata.

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di annullamento in autotutela della CILA è illegittimo perché il Comune non dispone del potere di annullamento di una comunicazione relativa ad attività di edilizia libera, ma può unicamente verificare che tale attività sia conforme alle prescrizioni urbanistiche ed agire di conseguenza.
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Va premesso che il provvedimento gravato è composto da due distinte parti dispositive: sotto un primo profilo, è disposto l’annullamento in autotutela della CILA n. 578/2017 per cambio di destinazione d’uso per false dichiarazioni e falsa rappresentazione dello stato dei luoghi; sotto distinto profilo, è ordinato il ripristino dello stato dei luoghi come rappresentato nella PE 578/2017, comprensivo della destinazione urbanistica originaria (negozio).
Ebbene, il Collegio ritiene (aderendo all’orientamento espresso da ultimo da TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 29.11.2018, n. 2052) che il provvedimento di annullamento in autotutela della CILA -in disparte il difetto di motivazione e la incertezza sui presupposti di assunzione connessi alle asserite false rappresentazioni ed a prescindere da ogni altra considerazione– sia illegittimo perché il Comune non dispone del potere di annullamento di una comunicazione relativa ad attività di edilizia libera, ma può unicamente verificare che tale attività sia conforme alle prescrizioni urbanistiche ed agire di conseguenza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 17.10.2019 n. 895 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione di un edificio in parte diruto.
Perché un intervento possa essere qualificato di ristrutturazione edilizia occorre che sussista la possibilità di procedere, con sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur in parte diruto, ovvero non “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale in relazione anche alla sua destinazione.
Ne consegue che un fabbricato, seppur in precarie condizioni, identificabile nella sua struttura originaria e nel suo volume, essendo presenti le mura su tre lati e parte della volta di copertura non può considerarsi un rudere privo di sostanziale identità, con conseguente possibilità di procedere ad un intervento di ristrutturazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.10.2019 n. 7046 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
Con un unico motivo di gravame la parte appellante deduce l’errore in cui sarebbe incorso il Tribunale nel ritenere che, malgrado il precario stato manutentivo, il fabbricato mostrasse “intatta la sua struttura originaria ed il suo volume” mantenendo “le mura sui tre lati perimetrali e parte della volta di copertura”.
E invero, diversamente da quanto opinato dal giudice di prime cure l’immobile di che trattasi avrebbe le caratteristiche di un rudere privo di sostanziale identità, essendo costituito da semplici brandelli delle mura perimetrali relative a tre lati (semisepolti da folata vegetazione), dalla totale assenza della muratura del lato sud e dalla sostanziale mancanza della copertura.
Il motivo è infondato.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide e che trae conforto dall’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 06/06/2001, n. 380, la ristrutturazione edilizia presuppone, come elemento indispensabile, la preesistenza di un fabbricato ben identificabile nella sua consistenza e nelle sue caratteristiche planivolumetriche e architettoniche.
Perché un intervento possa essere qualificato di ristrutturazione edilizia occorre, dunque, che sussista la possibilità di procedere, con sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur in parte diruto, ovvero non “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale in relazione anche alla sua destinazione (Cons. Stato, Sez. VI, 05/12/2016, n. 5106; 12/04/2013, n. 1995; Sez. IV, 19/03/2018, n. 1725).
Nel caso di specie, il manufatto del sig. Di Crescenzo presentava le caratteristiche essenziali minime per poter essere oggetto di un intervento di ristrutturazione.
Infatti, come si ricava incontrovertibilmente dagli allegati fotografici depositati in giudizio (si fa riferimento alle foto. nn. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19 depositate nel giudizio di primo grado), su cui si è basato anche l’iter motivazionale del primo giudice, il fabbricato, seppur in precarie condizioni, era perfettamente identificabile nella sua struttura originaria e nel suo volume, essendo presenti le mura su tre lati e parte della volta di copertura, con conseguente qualificazione dell’intervento come di mero recupero.
L’appello va, pertanto, respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Ricorso incidentale di una Comunità Montana in un giudizio promosso da un privato avverso un'ordinanza comunale di demolizione.
Deve escludersi che la Comunità Montana, essendo portatrice di interessi diversi da quelli urbanistico/edilizi, possa rivestire la posizione di controinteressato all’impugnazione dell’ordine di demolizione emesso da parte di un Comune appartenente a detta Comunità e, in assenza di impugnazione di provvedimenti emanati dall’Ente Montano, nemmeno quella di parte resistente.
Deve quindi concludersi che la Comunità Montana possa assumere nel giudizio esclusivamente la posizione di interveniente e proprio per tale posizione processuale deve escludersi che la Comunità Montana possa proporre ricorso incidentale (nella fattispecie la Comunità Montana aveva impugnato una autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune che aveva emesso l’ordine di demolizione oggetto di gravame).
L'intervento nel processo amministrativo, a differenza di quello regolato dalla disciplina processualcivilistica, può infatti essere spiegato unicamente a sostegno delle ragioni di una o di altra parte (adesivo dipendente), e non per far valere un interesse proprio nei confronti di tutte le parti (intervento principale) o di una di esse (intervento litisconsortile autonomo)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.10.2019 n. 2171 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. In secondo luogo deve dichiararsi inammissibile il ricorso incidentale proposto dalla Comunità Montana Valli del Lario e del Ceresio.
Ai sensi dell’art. 42, c. 1, del c.p.a. solo le parti resistenti e i controinteressati possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale.
In merito bisogna precisare che, non essendo stati impugnati provvedimenti emanati dalla Comunità Montana, deve ritenersi che tale ente non possa assumere la posizione di resistente, nonostante spesso nelle memorie insista sulla mancata formazione dei titoli paesaggistici e di tipo ambientale.
Inoltre la Comunità Montana non può rivestire la posizione di controinteressato all’impugnazione dell’ordine di demolizione.
Infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione dei controinteressati nel processo amministrativo deriva dalla simultanea compresenza di un presupposto formale, consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale, derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato dal ricorrente (cfr. Cons. St., sez. IV, 01/08/2018, n. 4736; TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.12.2018 n. 7333).
Nel caso di specie la Comunità Montana è citata nell’ordine di sospensione e demolizione n. 1/2018 del Comune di Carlazzo in quanto autore di un atto di opposizione emesso in qualità di terzo estraneo al procedimento, sebbene parte di procedimenti connessi, e quindi non può assumere la posizione di controinteressato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04/09/2017 n. 4174).
Né tanto meno la Comunità Montana può essere controinteressata nell’azione di accertamento della formazione del titolo edilizio per silenzio assenso, essendo portatrice di interessi diversi da quelli urbanistico/edilizi tutelati con la procedura in esame.
Deve quindi concludersi che la Comunità Montana possa assumere nel giudizio esclusivamente la posizione di interveniente.
È pacifico in giurisprudenza (da ultimo TAR Campania, Salerno, 29/03/2019 n. 500) che l'intervento nel processo amministrativo, a differenza di quello regolato dalla disciplina processualcivilistica, può essere spiegato unicamente a sostegno delle ragioni di una o di altra parte (adesivo dipendente), e non per far valere un interesse proprio nei confronti di tutte le parti (intervento principale) o di una di esse (intervento litisconsortile autonomo).
Nel caso di specie l’intervento deve ritenersi ad adiuvandum del Comune, come confermato dalla memoria del Comune, nella quale si afferma, a giustificazione del conferimento dell’incarico defensionale dei due enti ai medesimi avvocati, che “nessun conflitto d’interesse sussiste fra i due enti pubblici, ma anzi una piena unità d’intenti”. In data 9.06.2018 è stata poi depositata memoria congiunta del Comune di Carlazzo e della Comunità Montana.
Proprio per tale posizione processuale, deve escludersi che la Comunità Montana possa proporre ricorso incidentale.
Ne consegue che la Comunità Montana non è legittimata ad impugnare gli atti emessi dal Comune, per farne accertare l’illegittimità, in quanto, così facendo, assume una posizione contraria a quella del Comune, addirittura di interessato all’eliminazione degli atti emessi dal suddetto ente, del tutto incompatibile con quella di interventore ad adiuvandum.
L’accoglimento di questa eccezione rende superfluo l’esame delle eccezioni di tardività dell’impugnazione dell'autorizzazione paesaggistica (P.E. 138/2015) rilasciata dal Comune di Carlazzo in data 22.04.2016.
In definitiva quindi il ricorso incidentale dev’essere dichiarato inammissibile.

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire, silenzio-assenso e autorizzazione paesistica.
Con sentenza 16.10.2019, n. 2171, il TAR Milano fissa il principio secondo cui
il permesso di costruire su’un area soggetta a vincolo paesistico che è anche sito di interesse comunitario (SIC) può costituirsi mediante silenzio-assenso.
Nel caso di specie, i ricorrenti avevano presentato domanda di permesso di costruire, previa acquisizione dell’autorizzazione paesistica dall’Amministrazione Comunale la quale conteneva anche la presa d’atto dell’autorizzazione da parte della Comunità Montana ente gestore del SIC.
Il TAR chiarisce che, in questo caso, per la valutazione paesistica è sufficiente l’autorizzazione acquisita dal Comune, potendosi dunque escludere l’applicazione delle disposizioni previste dall’art. 14 della l. 241/1990 sulla conferenza dei servizi che impone la conclusione dell’iter procedimentale necessariamente con provvedimento espresso
nella fattispecie specifica la mancanza della necessità di altri pareri ed autorizzazioni di altri enti giustifica l’applicazione della normativa in materia di silenzio assenso.
Altresì, una volta che l’Amministrazione abbia preso conoscenza della formazione del silenzio-assenso, con la pubblicazione sull’albo comunale della dichiarazione dei ricorrenti in merito all’avvenuta formazione del permesso di costruire, tale pubblicazione soddisfa la disposizione di cui all’art. 20, co. 6, DPR 380/2001:
deve infatti ritenersi che tale pubblicazione sia stata effettuata per assegnare ad essa il significato di presa d’atto della formazione del titolo edilizio.
Ciò comporta che l’Amministrazione se vuole incidere sull’efficacia del titolo edilizio formatosi tacitamente può farlo solo attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela ai sensi dell’art 20, co. 3, l. 241/1990 (commento tratto da e link a https://studiospallino.blogspot.com)
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SENTENZA
3. Venendo all’esame del primo motivo del ricorso principale, esso è fondato.
3.1 Dall’esame degli atti risulta che il Comune non ha mai concluso il procedimento per il rilascio del permesso di costruire con provvedimento espresso.
Ciò comporta la necessità di verificare in primo luogo se la domanda di rilascio del permesso di costruire oggetto del ricorso sia soggetta alla disciplina in materia di silenzio assenso.
In merito occorre precisare che secondo il comma 8 dell’art. 20 del DPR 380/2001 (L) Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui agli articoli da 14 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241.
Come chiarito dalla giurisprudenza (da ultimo TAR Calabria, Reggio Calabria, 24/05/2019 n. 361) l’art. 20, comma 8, d.P.R. n. 380/2001, infatti, nell’escludere dalla formazione del silenzio assenso gli atti ed i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, ovvero ove sussistano vincoli (tra gli altri) culturali e/o paesaggistici (tra cui si intendono ovviamente compresi anche i vincoli archeologici ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004), rinvia alle disposizioni dell’art. 14 della L. n. 241/1990 sulla conferenza dei servizi, rimandando così ad un più articolato iter procedimentale ed alla sua conclusione con un provvedimento espresso.
Nel caso di specie la domanda di permesso di costruire dei ricorrenti, benché avente ad oggetto un’area soggetta a vincolo paesistico che è anche Sito di interesse comunitario (area SIC), è stata presentata il 09.08.2016 dopo aver acquisito dal Comune di Carlazzo il 21.04.2016 l’autorizzazione paesistica P.E. n. 138/2015 che contiene anche la presa d’atto dell’acquisizione dell’autorizzazione della Comunità Montana ente gestore del SIC.
Ne consegue che nella fattispecie specifica la mancanza della necessità di altri pareri ed autorizzazioni di altri enti giustifica l’applicazione della normativa in materia di silenzio-assenso.
Né in contrario può valere l’eccezione sollevata dalla difesa della Comunità Montana con la memoria in data 20.05.2019, sostenuta anche dal Comune, secondo la quale il silenzio assenso non si sarebbe formato in quanto al parere della Comunità Montana non si applicherebbe il comma 4 dell'art 17-bis legge 241/1990, anche per essere mancata l’allegazione dello studio di incidenza sul maneggio con conseguente impedimento alla conclusione dell’istruttoria. Tale circostanza, infatti, può incidere semmai sulla legittimità dell’autorizzazione paesistica ma non sulla sua esistenza.
Né d’altro canto può assumere rilievo il successivo parere negativo assunto dalla Comunità Montana in data 25 agosto 2016 in quanto espresso su diversa e successiva istanza che non ha comportato l’annullamento della precedente autorizzazione paesistica.
A sua volta la domanda di annullamento dell’autorizzazione paesistica comunale da parte della Comunità Montana è inammissibile in questo giudizio, per la posizione processuale assunta dalla Comunità, come sopra statuito.
3.2 Accertata quindi l’esistenza dei presupposti per la formazione del silenzio-assenso, cioè di un procedimento per il quale non sia necessaria per la sua conclusione una decisione in conferenza dei servizi, occorre ora affrontare il primo motivo di ricorso, che è diretto nei confronti dell’ordine di demolizione, in quanto adottato senza il previo annullamento del permesso di costruire formatosi tacitamente.
In merito il Collegio ritiene che l’amministrazione abbia preso atto della formazione del silenzio-assenso, sia con la pubblicazione all’albo comunale della dichiarazione del procuratore della parte ricorrente in merito all’avvenuta formazione del permesso di costruire per silenzio assenso, accompagnata dalla dicitura “formazione di silenzio assenso”, sia citando la suddetta circostanza nell’ordinanza di demolizione n. 1/2018 successivamente emanata.
La pubblicazione con la sopradetta dicitura, infatti, soddisfa la previsione dell’art. 20, c. 6, del DPR 380/2001 secondo la quale dell’avvenuto rilascio del permesso di costruire è data notizia al pubblico mediante affissione all’albo pretorio.
La norma prevedendo l’obbligo di pubblicazione dei titoli edilizi permette di attribuire un significato pregnante al comportamento dell’amministrazione. Deve infatti ritenersi che tale pubblicazione sia stata effettuata per assegnare ad essa il significato di presa d’atto della formazione del titolo edilizio, al pari dei titoli edilizi rilasciati in forma espressa.
La citazione della pubblicazione nell’ordinanza di demolizione, sebbene priva di alcuna valutazione sul significato che l’amministrazione ha assegnato a tale fatto, a sua volta conferma che tale pubblicazione non costituisce un fatto irrilevante avente per oggetto “una nota privata”, come affermato dalla Comunità Montana nella memoria del 20.05.2019, bensì un elemento costitutivo del procedimento di rilascio del permesso a costruire da parte dell’amministrazione.
E’ chiaro quindi l’eccesso di potere per contraddittorietà in cui è incorsa l’amministrazione la quale, prima ha considerato rilevante la dichiarazione di parte dell’avvenuta formazione del silenzio-assenso, tanto da farne oggetto di pubblicazione in deroga all’obbligo di segreto d’ufficio previsto dall’art. 15 del testo unico di cui al d.P.R. 10.01.1957, n. 3, così come modificato dall’art. 28 della L. 241/1990, e poi ha ritenuto, con l’ordinanza di demolizione impugnata, che il procedimento di formazione del silenzio-assenso non fosse ancora concluso, senza fornire alcuna motivazione in proposito.
Né tanto meno può ritenersi che alla formazione del titolo per silenzio-assenso possano ostare le opposizioni proposte dalla Comunità Montana con nota prot. 9414 del 03.11.2017 e da Legambiente con nota prot. 9685 del 09.11.2017. Infatti si tratta di soggetti che sono intervenuti i qualità di terzi nel procedimento amministrativo in questione e, di conseguenza, essi non sono forniti di alcun potere di opporsi alla realizzazione delle opere, come invece ha riconosciuto loro il Comune con il preavviso di diniego prot. 10130 del 20.11.2017.
Infatti ai sensi dell’art. 10 della L. 241/1990 le osservazioni proposte da coloro che partecipano al procedimento sono interventi di tipo collaborativo che debbono formare oggetto di valutazione dell’amministrazione ove siano presentate da soggetti che hanno titolo a partecipare al procedimento e siano pertinenti all’oggetto del procedimento, mentre nel caso di specie nessuna valutazione è stata fatta dal Comune e neppure le motivazioni delle opposizioni sono state riportate nel preavviso di diniego.
Una volta riconosciuta la formazione del silenzio-assenso, l’amministrazione può incidere sulle attività di esecuzione del titolo tacito solo previo esercizio dei poteri di autotutela ai sensi dell’art. 20, c. 3, della L. 241/1990 secondo il quale “Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”.
Ne consegue che l’adesione tardiva e immotivata alle osservazioni presentate dai terzi non può giustificare il cambio di prospettiva del Comune il quale, dopo aver preso atto della formazione del silenzio assenso, ha poi ritenuto tale fatto del tutto irrilevante senza esercitare il potere di autotutela ed ha esercitato il potere sanzionatorio sul presupposto erroneo che il titolo non si fosse ancora formato.
Il primo motivo di ricorso va quindi accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.10.2019 n. 2171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Comune non risponde dei danni da diffida informale.
Una diffida informale proveniente dagli uffici del Comune è, come tale, posta in essere in violazione del principio di legalità che porta la Pa ad agire solo con atti tipici e nominati. Questa diffida è quindi un «non-atto» che si colloca nella sfera del giuridicamente inesistente. Di conseguenza qualsivoglia danno subito dal cittadino per essersi conformato alla stessa non è imputabile al Comune ma al cittadino stesso. Ciò è tanto più vero per il fatto che il danno per essere imputabile a un ente pubblico deve essere comprovato, effettivo e reale.

A volte il danno può essere persino futuro, se vi sia ragionevole possibilità del suo realizzarsi, ma mai può essere astratto ovvero potenziale o persino addirittura «sperato», come ha asserito il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, nella sentenza 16.10.2019 n. 1602 che traccia nuove sfumature del «danno da ritardo» del Comune nel portare avanti i procedimenti avviati su richiesta di cittadini e utenti.
La vicenda
I titolari di una struttura sportiva hanno chiesto al Tar il risarcimento del danno subito in conseguenza della tardiva adozione del provvedimento di autorizzazione al mantenimento degli spogliatoi e dei locali tecnici/igienici funzionali ai campi da calcetto di loro proprietà.
L'autorizzazione alla costruzione degli impianti sportivi prevedeva che gli spogliatoi e i servizi igienici fossero amovibili e temporanei, aggiungendo che allo scadere dell'autorizzazione i titolari dovevano provvedere alla rimozione. I titolari avevano dunque chiesto e ottenuto ogni anno il rinnovo dell'autorizzazione al mantenimento degli spogliatoi.
Alla presentazione dell'ultima istanza annuale il Comune è rimasto a lungo inerte, per poi trasmettere un preavviso di rigetto. Nelle more, secondo il ricorso, ai titolari della struttura era pervenuta una «diffida informale» del Comune a rimuovere i manufatti, diffida alla quale hanno ottemperato. Dopodiché l'istruttoria si è conclusa favorevolmente con il rilascio dell'autorizzazione.
La decisione
Il giudice ha valutato il comportamento complessivo delle parti e ha escluso il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza anche attraverso gli strumenti di tutela previsti. Il Tar ha seguito la logica che vede l'omessa impugnazione non come preclusione processuale, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
A seguito dell'istanza volta al rinnovo dell'autorizzazione al mantenimento degli spogliatoi e dei servizi, il Comune è rimasto inerte. Ma i titolari in presenza di questa inerzia, ai sensi della vigente normativa processuale amministrativa, avrebbero dovuto proporre ricorso contro il «silenzio». Sarebbe stato un rimedio snello, poco costoso e dunque giuridicamente «esigibile».
Va aggiunto che l'ampiezza del generale riferimento ai mezzi di tutela e al comportamento complessivo delle parti, consente di valutare «esigibile» non solo la mancata impugnazione del dannoso silenzio del Comune, ma anche l'omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei a evitare il danno, quali la via dei ricorsi amministrativi e l'assunzione di atti di iniziativa finalizzati anche solo alla stimolazione dell'autotutela amministrativa (il cosiddetto «invito all'autotutela»).
Invece i ricorrenti hanno tenuto una condotta che si colloca al di fuori di qualsivoglia schema giuridico, smontando la struttura in pendenza del procedimento volto rinnovo dell'autorizzazione. E ciò, nonostante avessero pieno titolo a mantenerla sino alla concreta conclusione del procedimento istruttorio.
A ben vedere i titolari della struttura hanno fatto ciò non già in virtù di un atto tipico e nominato proveniente da parte del Comune ma in quanto (secondo ricorso) «informalmente diffidati». In assenza di qualsivoglia presupposto logico, prima ancora che giuridico, i ricorrenti non possono che imputare a sé stessi l'asserito danno subito per aver smontato le strutture (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.12.2019).
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SENTENZA
2. Il ricorso è infondato.
2.2. Premette anzitutto il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, “
Anche se l'art. 2-bis l. 07.08.1990 n. 241 rafforza la tutela risarcitoria del privato nei confronti dei ritardi delle Pubbliche amministrazioni, stabilendo che esse sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, la domanda deve essere comunque ricondotta nell'alveo dell'art. 2043 c.c., per l'identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità; di conseguenza l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi “iuris tantum”, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante)” (C.d.S, V, 09.03.2015, n. 1182).
In particolare, in punto di condotta del danneggiato nella causazione del danno, si è condivisibilmente chiarito che: “
Anche in tema di danno da ritardo è necessario valutare il comportamento dell'Amministrazione unitamente alla condotta dell'istante, il quale riveste il ruolo di parte essenziale e attiva del procedimento e in tale veste dispone di poteri idonei a incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e giurisdizionali riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra cui il rito del silenzio che deve essere attivato con tempestività rilevando, in difetto, come comportamento causalmente orientato ai sensi dell'art. 1227 c.c. (art. 30 c.p.a.) in ordine all'accertamento della spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del danno risarcibile” (TAR Liguria, II, 08.01.2016, n. 4. Cfr, altresì, per un esame approfondito della tematica del concorso di colpa del danneggiato nella causazione del danno, C.d.S, AP n. 3/11).
In uno al fatto ingiusto e alla colpa (di apparato) dell’Amministrazione, occorre infine che il danneggiato fornisca prova del danno subito: danno che deve essere effettivo e reale (ancorché futuro, qualora vi sia una ragionevole chance di conseguimento), e non, invece, meramente astratto e/o potenziale, ovvero, addirittura, sperato.
3. Ciò premesso, e venendo ora al caso di specie, emerge dalla narrazione dei fatti esposta dai ricorrenti che, a seguito dell’istanza 21.2.2017, volta al rinnovo dell’autorizzazione al mantenimento degli spogliatoi e servizi tecnici/igienici, il Comune si è mostrato inerte.
Orbene, in presenza di tale inerzia da parte del civico ente, incombeva sui ricorrenti, ai sensi degli artt. 30 c.p.a. e 1227 c.c, proporre ricorso avverso il silenzio (artt. 31-117 c.p.a.), trattandosi di rimedio snello, non implicante costi eccessivi, e dunque giuridicamente esigibile.
In tal senso i ricorrenti non hanno operato, sicché è evidente, sotto tale profilo, la loro esclusiva responsabilità nella produzione dell’asserito danno.
4. Né ciò basta.
Avendo proposto in termini istanza di rinnovo del suddetto titolo autorizzatorio, i ricorrenti erano per ciò solo legittimati al mantenimento delle strutture sin quando il Comune non si fosse pronunciato, non potendo certamente la durata del relativo procedimento andare a loro detrimento. Il tutto senza sottacere che essi si erano visti rinnovare ininterrottamente il titolo autorizzatorio per circa un decennio (e segnatamente, dal 2007 al 2016), sicché in assenza di qualsivoglia mutamento del quadro fattuale e normativo di riferimento (mutamento in alcun modo emergente dagli atti di causa), essi potevano senz’altro vantare una ragionevole aspettativa di mantenimento delle strutture in questione anche nell’anno 2017.
Invece, con condotta che si colloca al di fuori di qualsivoglia schema giuridico, i ricorrenti hanno smontato la struttura in pendenza del procedimento volto al rilascio del titolo autorizzatorio –nonostante, si ribadisce, essi avessero pieno titolo a mantenerla sino alla conclusione dello stesso– e ciò hanno fatto non già in virtù di un atto tipico e nominato da parte dell’Amministrazione, ma in quanto “diffidati informalmente” (cfr. ricorso, p. 4) da quest’ultima.
In sostanza, un non-atto da parte della p.a. (tale dovendosi qualificare una “diffida informale”), e in particolare una condotta che si colloca nella sfera del giuridicamente inesistente –in quanto posta in essere in violazione del basilare principio di legalità, che porta la p.a. ad agire solo con atti tipici e nominati– ha costituito la causa esclusiva dello smontaggio delle strutture da parte dei ricorrenti. Ricorrenti che invece, nel decennio precedente, si erano visti puntualmente assentire il rilascio del suddetto titolo autorizzatorio.
È evidente, allora, che i ricorrenti non potranno che imputare a sé stessi l’asserito danno da loro subito, avendo smontato la struttura in esame in assenza di qualsivoglia presupposto logico, prima ancora che giuridico.
5. In definitiva, e concludendo sul punto:
   a) la mancata attivazione del rimedio del silenzio avverso l’inerzia del Comune, nonché
   b) la scelta di smontaggio della struttura in pendenza del procedimento volto al rilascio del titolo autorizzatorio, e in assenza di qualsivoglia atto tipico e nominato da parte dell’Amministrazione, la quale nel decennio precedente aveva sempre provveduto al rinnovo del chiesto titolo,
costituiscono elementi che depongono nel senso della responsabilità esclusiva dei ricorrenti nella causazione del danno in esame.
Per tali ragioni, va escluso il chiesto passaggio di riparazione ad equivalente monetario.
6. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è infondato.
Ne consegue il suo rigetto.

EDILIZIA PRIVATACirca la compatibilità paesaggistica di un abuso edilizio soggetto a condono, per quanto riguarda l’effettuata schermatura con siepi e piante rampicanti, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di statuire che non rileva la circostanza che l'opera non sia percepibile da uno spazio pubblico o che l’opera sia in gran parte occultata alla vista, poiché "la finalità del vincolo paesaggistico è quella di apprestare una tutela che non può ritenersi limitata al mero aspetto esteriore, o immediatamente visibile dell'area vincolata.
Pertanto è soggetta alle prescrizioni imposte dal vincolo qualsiasi modificazione dell'assetto del territorio, anche se non è visibile dalla strada pubblica.
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La società Im.Ge. di Ma.Si. & c. s.a.s., proprietaria di un edificio e dell’annesso giardino ricadente in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, vi realizzò alcune opere abusive, tra cui un magazzino per ricovero di attrezzi agricoli (m. 8,40 X 9,20, per un totale di mq. 77,28); essa, in data 26.09.1986, presentò domanda di condono ai sensi dell’art. 31 della legge n. 47/1985 avente ad oggetto anche il suddetto manufatto.
La Commissione edilizia integrata del Comune di Firenze, in data 22.09.2003, espresse parere contrario in ordine alla regolarizzazione del citato magazzino, sull’assunto che il medesimo era fonte di alterazione dello stato dei luoghi.
Il Comune recepì tale parere (confermato nella sua validità dalla Soprintendenza con provvedimento del 02.02.2004) con atto del 14.11.2003.
In data 06.06.2012 il Comune ha quindi preannunciato il diniego parziale di condono, ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, limitatamente al magazzino abusivo, ma prima ancora la ricorrente, in data 16.11.2007, aveva presentato denuncia di inizio attività concernente la realizzazione di una tettoia, nel giardino di proprietà, munita di pannelli fotovoltaici. La soluzione progettuale è stata poi modificata nel senso di prevedere l’installazione della tettoia con i pannelli fotovoltaici sulla copertura dell’esistente magazzino (di cui veniva evidenziata la pendenza della domanda di condono).
In data 15.04.2008 la commissione comunale per il paesaggio si è espressa favorevolmente in ordine al progettato intervento, talché il Comune, con provvedimento datato 02.05.2008, lo ha autorizzato.
La società istante, venuta a conoscenza del preavviso di diniego di condono del magazzino, con missiva del 23.05.2013 ha chiesto all’Amministrazione di rinnovare la valutazione di compatibilità paesaggistica, richiamandosi all’autorizzazione paesaggistica del 02.05.2008, relativa all’impianto fotovoltaico, e documentando il fatto che il manufatto era circondato da alte siepi e piante, occultato alla vista.
Il Comune, con atto di diniego datato 23.01.2014, ha dato che la commissione comunale, in data 30.09.2013, aveva espresso parere contrario, ritenendo l’intervento “per dimensioni e materiali, incompatibile con i valori monumentali e paesaggistici del luogo”.
Avverso il suddetto diniego di condono edilizio e gli atti connessi (a partire dal parere negativo del 22.09.2003) la ricorrente è insorta deducendo: ...
...
Con la prima censura la società istante deduce che i giudizi negativi della commissione edilizia integrata e della commissione del paesaggio recano una motivazione apparente, in particolare la commissione per il paesaggio si è limitata ad affermare che per dimensione e materiali il magazzino de quo sarebbe incompatibile col paesaggio, tanto più che si tratta di struttura occultata da siepi e piante; secondo la ricorrente il suddetto manufatto non comporta alcun rilevante impatto paesaggistico, stanti le sue caratteristiche e le schermature naturali.
La doglianza è infondata.
Il parere contrario sulla compatibilità paesaggistica, da ultimo espresso dalla commissione comunale, faceva leva sull’incompatibilità scaturente dalle dimensioni e dai materiali del magazzino. Trattasi infatti di un immobile avente superficie di 77 metri quadrati e realizzato in lamiera (si vedano il documento n. 1 depositato in giudizio dal Comune di Firenze e il documento n. 9 prodotto dalla deducente).
Anche alla luce delle rappresentazioni fotografiche depositate dalle parti risulta che l'amministrazione ha dato contezza degli elementi dell’opera abusiva ritenuti in conflitto con i valori paesaggistici tutelati, soddisfacendo, sia pure con formulazione succinta, l'obbligo di motivazione (TAR Toscana, III, 13.05.2011, n. 843).
Per quanto riguarda l’effettuata schermatura con siepi e piante rampicanti, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di statuire che non rileva la circostanza che l'opera non sia percepibile da uno spazio pubblico o che l’opera sia in gran parte occultata alla vista, poiché "la finalità del vincolo paesaggistico è quella di apprestare una tutela che non può ritenersi limitata al mero aspetto esteriore, o immediatamente visibile dell'area vincolata; pertanto è soggetta alle prescrizioni imposte dal vincolo qualsiasi modificazione dell'assetto del territorio, anche se non è visibile dalla strada pubblica" (Cons. Stato, VI, 12.10.2018, n. 5894; Cons. Stato, 05.08.2013 n. 4079; TAR Veneto, II, 17.09.2019, n. 991) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 16.10.2019 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICARelativamente alla valenza da attribuire al piano di lottizzazione scaduto, il Collegio rammenta che la condivisibile giurisprudenza, formatasi sul punto, ha più volte chiarito come, dopo la scadenza, si determini un‘ultrattività del piano.
Invero, ai sensi dell'art. 17, comma 1, l. n. 1150 del 1942, decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano particolareggiato (cui è assimilabile il piano di lottizzazione), questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione; tuttavia, rimane fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona in esso stabiliti.
In particolare, poi, non viene meno l'obbligo dei lottizzanti, assunto con la convenzione di lottizzazione, di realizzare le opere di urbanizzazione, in quanto si deve ritenere che la scadenza dell'efficacia del piano attuativo non possa incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi, in quanto correlate alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione.
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica "alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile "ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione".
Ne segue che l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione.
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Anche relativamente alla valenza da attribuire al piano di lottizzazione scaduto (recante previsioni ostative, nella fattispecie, alla realizzazione del passo carrabile) il Collegio rammenta che la condivisibile giurisprudenza, formatasi sul punto, ha più volte chiarito come, dopo la scadenza, si determini un‘ultrattività del piano.
Invero, ai sensi dell'art. 17, comma 1, l. n. 1150 del 1942, decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano particolareggiato (cui è assimilabile il piano di lottizzazione), questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione; tuttavia, rimane fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona in esso stabiliti (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 22/01/2019, n. 536).
In particolare, poi, non viene meno l'obbligo dei lottizzanti, assunto con la convenzione di lottizzazione, di realizzare le opere di urbanizzazione, in quanto si deve ritenere che la scadenza dell'efficacia del piano attuativo non possa incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi, in quanto correlate alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.03.2019 n. 2084).
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica "alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile "ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione" (Consiglio di Stato sez. II, 29/07/2019, n. 5304; id., Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278).
Ne segue che l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. ibidem Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 16.10.2019 n. 432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e operatività della sanatoria – Presupposti e limiti – Requisito della “doppia conformità” delle opere – Confisca dei terreni abusivamente lottizzati – Artt. 15, 30, 36, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il necessario requisito della “doppia conformità” delle opere di cui all’art. 36, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 è ostativo già in astratto della applicabilità della sanatoria al reato di lottizzazione, atteso che, nel caso di lottizzazione abusiva, le opere non possono mai considerarsi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro costruzione.
Pertanto, sia che la sanatoria non operi già in astratto, sia che la stessa non operi per impossibilità di ravvisare in concreto i requisiti dell’art. 36 T.U.E., la confisca dei terreni abusivamente lottizzati è legittima –in quanto obbligatoria ai sensi dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001,- anche in presenza della sanatoria delle opere edilizie.

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Reati urbanistici – Dolo intenzionale – Elemento psicologico – Criteri di valutazione della sussistenza – Macroscopiche violazioni di legge – Rilascio o proroghe del provvedimento abilitativo – Esperienza professionale – Art. 323 cod. pen. DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Limiti del sindacato della Cassazione – Valutazione delle risultanze processuali.
In materia urbanistica, la sussistenza dell’elemento psicologico può emergere, essenzialmente, dalla reiterazione proseguita nell’arco degli anni, nel rilascio del provvedimento abilitativo e delle susseguenti proroghe pur nella consapevolezza, derivante dalla conoscenza dei luoghi e dalla indubbia esperienza professionale, delle macroscopiche violazioni di legge derivanti dal contrasto con le n.t.a. e con il vincolo di in edificabilità e dalle caratteristiche dell’opera assentita.
A ciò si aggiunga che, il sindacato della Cassazione continua a restare quello di sola legittimità sì che esula dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più adeguata valutazione delle risultanze processual
i (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2019 n. 42106 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Reato di lottizzazione – Concorso nel reato urbanistico – Componente della commissione edilizia – Responsabilità a titolo di concorso dell’extraneus nel reato proprio – Parere favorevole al rilascio della concessione edilizia – Elementi oggettivi e soggettivi necessari – Artt. 27, 29, 30 e 44 del d.P.R. n. 380/2001.
E’ indubbio che nel reato “proprio” di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 – i cui autori sono individuati, dall’art. 29 d.P.R. n. 380 del 2001, e, anteriormente, dall’art. 6 della In. 47 del 1985, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori – ben possa concorrere anche l’extraneus, ovvero colui che non rivesta le qualifiche richieste dalla legge.
E’ tuttavia necessario, che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato, dovendosi cioè verificare che l’extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e consapevole. Pertanto, la partecipazione deve configurarsi, al pari della condotta degli altri, in forma dolosa, quale “cosciente e volontaria partecipazione al piano lottizzatorio”, rimanendo escluso un contributo meramente colposo ad un’attività certamente dolosa delle parti principali
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2019 n. 42105 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di edilizia la maggiore altezza impressa ad un edificio (a seguito dell’effettuazione di lavori) comporta la modificazione della sagoma dell’intero edificio, concetto che identifica il suo perimetro inteso sia in senso verticale sia orizzontale in quanto relativo al “contorno” che l’edificio stesso viene ad assumere, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti.
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Nel merito, risultano fondate le censure, articolate con il primo ed il secondo motivo di ricorso, relative alla violazione dell’art. 3, comma 1, lett. e), DPR n. 380/2001 e dell’art. 23-bis, comma 4, DPR n. 380/2001, tenuto conto della circostanza che il terreno, dove è stato costruito il fabbricato della controinteressata, si trova in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico (e ciò risulta anche dall’autorizzazione paesaggistica, rilasciata alla controinteressata) e dell’orientamento giurisprudenziale, secondo cui “in materia di edilizia la maggiore altezza impressa ad un edificio (a seguito dell’effettuazione di lavori) comporta la modificazione della sagoma dell’intero edificio, concetto che identifica il suo perimetro inteso sia in senso verticale sia orizzontale in quanto relativo al “contorno” che l’edificio stesso viene ad assumere, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti” (sul punto cfr. TAR L’Aquila Sent. n. 72 del 05.02.2014; vedi pure TAR Basilicata Sent. n. 771 del 22.11.2018), con la puntualizzazione che un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente, intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione (cfr. Corte Costituzionale Sent. n. 309 del 23.11.2011; C.d.S. Sez. VI Sent. n. 5863 del 13.12.2017, C.d.S. Sez. IV Sent. 1763 del 07.04.2015; TAR L’Aquila Sent. n. 226 del 30.05.2018, TAR Milano Sez. II Sent. n. 1679 del 15.09.2016), che doveva essere autorizzato con il rilascio del permesso di costruire, in quanto con la SCIA non possono essere innalzati, come nella specie, il canale di gronda e la linea di colmo del tetto rispettivamente di 60 cm. e di 30 cm. (TAR Basilicata, sentenza 12.10.2019 n. 750 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Trasformazione urbanistica ed edilizia di terreno destinato ad uso agricolo – Area adibita a campeggio e piazzole con sovrastanti roulottes – Confisca dell’area – Artt. 3, 10, 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001 – Artt. 169 e 181 del d.lgs. n. 42/42004 – Artt. 54, 55 e 1161 c. nav.
Si configura il reato di lottizzazione abusiva la realizzazione, all’interno di un’area adibita a campeggio, di una struttura ricettiva che presenta le caratteristiche di un insediamento residenziale stabile, posto che il campeggio presuppone allestimenti e servizi finalizzati alla sosta o ad un soggiorno occasionale e limitato nel tempo, comportando di contro una siffatta struttura il sostanziale stravolgimento dell’originario assetto definito mediante pianificazione e ciò indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati, dalle caratteristiche costruttive o dalla agevole rimovibilità dell’opera (Cass., Sez. 3, n. 8970 del 23/01/2019, Scifoni).
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La condotta nel reato di lottizzazione abusiva materiale – Presupposti – Modifica urbanistica dei terreni in zona non adeguatamente urbanizzata – Assenza di qualunque intervento programmatorio.
Integra il reato di lottizzazione abusiva materiale “qualunque condotta che comporti una modificazione edilizia od urbanistica dei terreni in una zona non adeguatamente urbanizzata, la quale conferisca ad una porzione di territorio comunale un assetto differente in assenza di qualunque intervento programmatorio da parte della competente Autorità” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2019 n. 41941 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un manufatto abusivo, non risulta agevole per l’Amministrazione preposta al controllo in ordine alla regolarità edilizia del predetto manufatto stabilirne la data di realizzazione e gli autori, con la conseguenza che grava in capo al privato la prova in ordine agli elementi costitutivi della fattispecie e alla regolarità dell’intervento edilizio.
Pertanto, va applicata la consolidata giurisprudenza secondo la quale l’ingiunzione ripristinatoria deve essere rivolta a coloro che hanno la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano i responsabili dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
Del resto, il proprietario del compendio immobiliare dove si collocano gli abusi è il soggetto che ha sicuramente l’obbligo di eseguire l’ordine di demolizione, al fine di ripristinare lo stato dei luoghi in cui è stato commesso l’abuso, trovandosi nella possibilità giuridica e materiale di reintegrare l’assetto urbanistico ed edilizio originario.
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2. Con il primo motivo si assume l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione poiché la stessa sarebbe stata notificata al ricorrente non in quanto proprietario, ma quale soggetto costruttore del manufatto abusivo, realizzato invece dalla sua dante causa, oltre quaranta anni prima.
2.1. La doglianza è infondata.
Va sottolineato come, in presenza di un manufatto abusivo, non risulta agevole per l’Amministrazione preposta al controllo in ordine alla regolarità edilizia del predetto manufatto stabilirne la data di realizzazione e gli autori, con la conseguenza che grava in capo al privato la prova in ordine agli elementi costitutivi della fattispecie e alla regolarità dell’intervento edilizio (cfr., sull’onere della prova in materia di abusi edilizi, Consiglio di Stato, V, 14.05.2019, n. 3133; TAR Lombardia, Milano, II, 27.05.2019, n. 1199); nella specie il ricorrente non ha dimostrato in maniera incontrovertibile che il garage da demolire sia quello realizzato originariamente e che non sia stato sostituito o ampliato nel corso del tempo.
In ogni caso, a prescindere dalla qualifica formale attribuita al ricorrente nel provvedimento impugnato (ossia di costruttore), questi risulta attuale proprietario del manufatto e quindi è il soggetto tenuto a provvedere al ripristino dello stato dei luoghi. L’eventuale errata qualificazione effettuata dall’Amministrazione, anche se davvero sussistente, è vizio meramente formale che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, non è in grado di invalidare il provvedimento impugnato, considerato che lo stesso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso.
Pertanto, va applicata la consolidata giurisprudenza secondo la quale l’ingiunzione ripristinatoria deve essere rivolta a coloro che hanno la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano i responsabili dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2018, n. 2098; 03.05.2018, n. 1198; 27.02.2018, n. 574).
Del resto, il proprietario del compendio immobiliare dove si collocano gli abusi è il soggetto che ha sicuramente l’obbligo di eseguire l’ordine di demolizione, al fine di ripristinare lo stato dei luoghi in cui è stato commesso l’abuso, trovandosi nella possibilità giuridica e materiale di reintegrare l’assetto urbanistico ed edilizio originario (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 18.06.2019, n. 1410; 18.01.2019, n. 106; 03.05.2018, n. 1198; 03.11.2016, n. 2013; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n. 2588).
2.2. Ciò determina il rigetto della prima doglianza di ricorso (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.10.2019 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento e a prescindere dalle sue concrete modalità di realizzazione, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare un suo –invero inesistente– affidamento.
A tal fine è stato evidenziato come nelle ipotesi “di edificazioni radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
   - da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico;
   - dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti”.
Di conseguenza, anche la risalenza nel tempo dell’abuso, che ha carattere permanente, non configura in capo al privato alcuna posizione di affidamento in ordine alla sussistenza dell’opera, risultando quindi legittimo l’ordine di demolizione adottato.

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3. Con la seconda e la quarta censura di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si deduce l’illegittimità dell’ordine di demolizione, atteso il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione degli abusi, che avrebbe creato un legittimo affidamento in capo al ricorrente sul mantenimento delle opere realizzate: inoltre, la demolizione non risponderebbe ad alcun interesse pubblico, e comunque nel provvedimento gravato non sarebbe evidenziato il contrasto tra il manufatto realizzato e le caratteristiche della zona tutelata.
3.1. Le doglianze sono infondate.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuta realizzazione di un’opera abusiva –baracca in lamiera adibita a box e di dimensioni m 4,00 x 2,40, altezza m 2,00– in una zona in cui sono vietate le nuove costruzioni, ai sensi dell’art. 70 delle N.T.A. del P.R.G., e che è sottoposta ad un vincolo paesaggistico, ai sensi del D.Lgs. n. 490 del 1999 (ora D.Lgs. n. 42 del 2004), con conseguente violazione della disciplina sia edilizia e urbanistica che paesaggistica.
Tale motivazione appare satisfattiva degli obblighi di legge, atteso che il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento e a prescindere dalle sue concrete modalità di realizzazione, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare un suo –invero inesistente– affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 11.06.2019, n. 1320).
A tal fine è stato evidenziato come nelle ipotesi “di edificazioni radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
   - da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico;
   - dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti
” (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
Di conseguenza, anche la risalenza nel tempo dell’abuso, che ha carattere permanente, non configura in capo al privato alcuna posizione di affidamento in ordine alla sussistenza dell’opera, risultando quindi legittimo l’ordine di demolizione adottato (cfr. Consiglio di Stato, VI, 21.03.2019, n. 1892).
3.2. Pertanto, anche tali censure vanno respinte (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.10.2019 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ambito urbanistico, la nozione di pertinenza è più limitata di quella afferente all’ambito civilistico; un’opera può definirsi accessoria rispetto a un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme.
Di conseguenza, in ambito edilizio, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dall’edificio principale, ovvero quando sia realizzata una qualsiasi opera che ne alteri la sagoma.
Più nello specifico, la realizzazione di una baracca in lamiera (adibita a box e di dimensioni m 4,00 x 2,40, altezza m 2,00), stabilmente appoggiata su pavimentazione di calcestruzzo, pur nella precarietà dei materiali e nella funzione pertinenziale cui è destinata, costituisce permanente alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio, non essendo esclusa peraltro una sua autonoma utilizzazione in carenza di un formale atto di asservimento rispetto al bene assunto come principale.

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4. Con la terza doglianza si assume che il manufatto di proprietà del ricorrente rientrerebbe nella nozione di opera pertinenziale, cui non potrebbe applicarsi la sanzione demolitoria.
4.1. La censura è infondata.
Va premesso che, in ambito urbanistico, la nozione di pertinenza è più limitata di quella afferente all’ambito civilistico; un’opera può definirsi accessoria rispetto a un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme.
Di conseguenza, in ambito edilizio, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dall’edificio principale, ovvero quando sia realizzata una qualsiasi opera che ne alteri la sagoma (Consiglio di Stato, II, 04.07.2019, n. 4586; TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1907; 17.10.2017, n. 1987).
Più nello specifico, la realizzazione di una baracca in lamiera (adibita a box e di dimensioni m 4,00 x 2,40, altezza m 2,00), stabilmente appoggiata su pavimentazione di calcestruzzo, pur nella precarietà dei materiali e nella funzione pertinenziale cui è destinata, costituisce permanente alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio, non essendo esclusa peraltro una sua autonoma utilizzazione in carenza di un formale atto di asservimento rispetto al bene assunto come principale (cfr. Consiglio di Stato, VI, 24.12.2018, n. 7210) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.10.2019 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva “mista” – Natura di reato progressivo – Individuazione del momento consumativo del reato – Compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita – Stipulazione di atti di trasferimento – Esecuzione di opere di urbanizzazione – Ultimazione dei manufatti – Computo dei termini prescrizionali – Fattispecie – Artt. 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il momento consumativo del reato di lottizzazione abusiva “mista” (consistente, come nel caso di specie, nella formazione di singoli lotti, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione e nella vendita delle unità abitative), si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano nel reato, nel compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione o nell’ultimazione dei manufatti che compongono l’insediamento, con la conseguenza che, trattandosi di reato progressivo cui si applica la disciplina del reato permanente, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, non è rilevante per il concorrente il momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può intervenire anche a notevole distanza di tempo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.10.2019 n. 41609 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Titolo abilitativo illegittimo – Condotta concorsuale dolosa con i funzionari comunali – Reato paesaggistico – VIA VAS AIA – Omessa la procedura di V.I.A. – Omessa vigilanza – Art. 734 cod. pen. – Artt. 29 e 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il reato di costruzione sine titulo (lo stesso vale per quello di lavori svolti in assenza di autorizzazione paesaggistica) è configurabile non soltanto quando l’intervento sia stato realizzato in base a provvedimento illecito, ma anche quando ciò sia avvenuto sulla base di provvedimento illegittimo.
In tali casi, la “macroscopica illegittimità” del permesso di costruire non costituisce condizione essenziale per l’oggettiva configurabilità del reato, ma rappresenta soltanto un significativo indice sintomatico della sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito.
Nel caso di specie è stato ritenuto inutile disquisire se la mancata attivazione della prescritta procedura di V.I.A fosse o meno immediatamente percepibile, sì da integrare un vizio macroscopico, perché con riguardo gli imputati, gli elementi deponevano sulla consapevolezza da parte loro della necessità della V.I.A. e, dunque, dell’illegittimità dei provvedimenti amministrativi rilasciati in assenza di tale procedura
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.10.2019 n. 41591 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche per l’istanza di condono relativa ad opere abusive realizzate prima dell'imposizione del vincolo paesaggistico, o idrogeologico, è comunque necessaria l'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 47 del 1985, in quanto, anche se l'articolo 32 citato non precisa in quale momento il vincolo debba essere stato imposto perché sorga la necessità di acquisire il suddetto parere, in applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene che debba essere applicata la normativa vigente al momento del rilascio della concessione in sanatoria.
A tale ultimo riguardo, non può non citarsi la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999, la quale ha enunciato il principio secondo cui “la disposizione dell'art. 32 l. 28.02.1985 n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente”.
Nondimeno, la condivisibile giurisprudenza ha altresì evidenziato come, in relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla-osta paesaggistico, l'Amministrazione sia certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare una generica insanabilità delle opere, o anche nel caso in cui il diniego di "condono" intervenga dopo molto tempo dalla presentazione della relativa domanda.
Ed invero non può non sottolinearsi come la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo sia propriamente quella di consentire al destinatario del provvedimento stesso di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato.

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Orbene, il Collegio non ignora come, secondo un orientamento della giurisprudenza formatosi sul punto, anche per l’istanza di condono relativa ad opere abusive realizzate prima dell'imposizione del vincolo paesaggistico, o idrogeologico, sia comunque necessaria l'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 47 del 1985, in quanto, anche se l'articolo 32 citato non precisa in quale momento il vincolo debba essere stato imposto perché sorga la necessità di acquisire il suddetto parere, in applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene che debba essere applicata la normativa vigente al momento del rilascio della concessione in sanatoria; a tale ultimo riguardo, non può non citarsi la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999, la quale ha enunciato il principio secondo cui “la disposizione dell'art. 32 l. 28.02.1985 n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente”.
Nondimeno, la condivisibile giurisprudenza ha altresì evidenziato come, in relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla-osta paesaggistico, l'Amministrazione sia certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare una generica insanabilità delle opere, o anche nel caso in cui il diniego di "condono" intervenga dopo molto tempo dalla presentazione della relativa domanda (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 08.05.2008, n. 2111).
Ed invero non può non sottolinearsi come la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo sia propriamente quella di consentire al destinatario del provvedimento stesso di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato (Cons. Stato, sez. V, 04.04.2006, n. 1750; sez. IV, 22.02.2001 n. 938, sez. V, 25.09.2000 n. 5069).
Nella specie, la Soprintendenza, con riferimento alle indicazioni adottate dalla commissione e dal Responsabile del Procedimento nella relazione tecnica illustrativa, non chiarisce le concrete caratteristiche dell’intervento contrastanti con gli atti e le prescrizioni indicate, peraltro genericamente – in assenza di specifici elementi e parametri urbanistici; quanto agli obiettivi del vincolo e alla disciplina paesaggistica attualmente in vigore, non vengono indicati gli specifici vincoli presi in esame, oppure la natura assoluta o relativa degli stessi.
Ciò evidenzia il palese deficit motivazionale del provvedimento soprintendentizio al quale non può sopperire quanto argomentato dall’Avvocatura dello Stato, rilevando che “Il ricorso va dunque respinto in quanto l'opera abusiva in esame, per la quale era stata presentata domanda di condono edilizio da parte della ricorrente, è stata realizzata su un'area sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi degli artt. 33 legge n. 47/1985 e 51, comma 1, lett. f), legge Regione Puglia n. 56/1980 (i.e. entro la fascia di 300 metri dal confine del demanio marittimo o dal ciglio più elevato sul mare). In altri termini, il carattere assoluto del vincolo di inedificabilità in esame è ostativo al rilascio della concessione edilizia in sanatoria.”.
Invero, la circostanza della inedificabilità assoluta dell’area non risulta affatto specificata nel diniego di nulla osta impugnato e l’integrazione postuma della motivazione non è consentita nel nostro ordinamento atteso che, in via di principio la motivazione deve essere comunicata al soggetto interessato contestualmente all’adozione del provvedimento amministrativo e la sua mancanza non può essere sanata attraverso la conoscenza dei motivi della decisione nel corso di un procedimento giurisdizionale.
Parimenti, le “osservazioni tecniche” riportate nelle difese dell’Amministrazione resistente non possono essere utilizzate per colmare la lacuna motivazionale evidenziata.
La illegittimità del diniego di nulla osta paesaggistico comporta la illegittimità del successivo provvedimento comunale, in quanto consequenziale e vincolato al contenuto del primo (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 10.10.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn base al principio tempus regit actum trova applicazione, in assenza di diversa statuizione del legislatore, la norma vigente al momento dell’adozione del provvedimento finale.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il principio tempus regit actum, applicabile anche nelle materie dell'urbanistica e dell'edilizia, impone che l'amministrazione debba applicare le disposizioni vigenti al momento di approvazione del provvedimento e non quelle vigenti al momento di proposizione dell'istanza.
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In base al principio tempus regit actum trova applicazione, in assenza di diversa statuizione del legislatore, la norma vigente al momento dell’adozione del provvedimento finale: secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il principio tempus regit actum, applicabile anche nelle materie dell'urbanistica e dell'edilizia, impone che l'amministrazione debba applicare le disposizioni vigenti al momento di approvazione del provvedimento e non quelle vigenti al momento di proposizione dell'istanza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 11.11.2014, n. 5525; id., 11.04.2014, n. 1763; TAR Sicilia, Catania, I, 04.05.2017, n. 945)
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza 08.10.2019 n. 1314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico urbanistico quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente differenti e deve quindi essere annoverato tra gli interventi di tipo oneroso.
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Per il resto, occorre osservare che il mutamento di destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico urbanistico quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente differenti e deve quindi essere annoverato tra gli interventi di tipo oneroso (TAR Toscana, III, 27.02.2018, n. 309; idem, 23.01.2017, n. 132; idem, 14.10.2015, n. 1387; idem, 08.07.2019, n. 1043; TAR Lazio, Roma, II, 17.05.2013, n. 4994) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 08.10.2019 n. 1314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso
Il riconoscimento del diritto di accesso e la legittimazione alla correlata pretesa ostensiva postulano, in quanto riferiti a “soggetti privati” (ancorché portatori di interessi superindividuali) la sussistenza di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” (cfr. art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990).
Si deve, per tal via, trattare di un interesse:
   a) diretto, cioè a dire correlato alla sfera individuale e personale del soggetto richiedente, dovendosi, con ciò, escludere una legittimazione generale, indifferenziata ed inqualificata, che darebbe la stura ad una sorta di azione popolare;
   b) concreto, e quindi specificamente finalizzato, in prospettiva conoscitiva, alla acquisizione di dati ed informazioni rilevanti ed anche solo potenzialmente utili nella vita di relazione, palesandosi immeritevole di tutela la curiosità fine a se stessa, insufficiente un astratto e generico anelito al controllo di legalità, precluso un “controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (cfr. art. 24, comma 3, l. n. 241/1990 cit.);
   c) attuale, cioè non meramente prospettico od eventuale, avuto riguardo alla attitudine della auspicata acquisizione informativa o conoscitiva ad incidere, anche in termini di concreta potenzialità, sulle personali scelte esistenziali o relazionali e sulla acquisizione, conservazione o gestione di rilevanti beni della vita;
   d) strumentale, avuto riguardo sia, sul piano soggettivo, alla necessaria correlazione con situazioni soggettive meritevoli di protezione alla luce dei vigenti valori ordinamentali, sia, sul piano oggettivo, alla specifica connessione con il documento materialmente idoneo ad veicolare le informazioni: non essendo, con ciò, tutelate iniziative, per un verso, ispirate da mero intento emulativo (peraltro di per sé espressive, sotto concorrente profilo, di un uso distorto ed abusivo della pretesa ostensiva) e, per altro verso, finalizzate alla raccolta, elaborazione o trasformazione di dati conoscitivi destrutturati e non incorporati in “documenti” (nel senso lato di cui all’art. 22 cit.).

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Ai sensi dell'art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990, l'accesso agli atti amministrativi deve essere riconosciuto e garantito nella sua strumentalità rispetto ad ogni forma di "tutela", sia giudiziale che stragiudiziale, anche solo meramente prospettica e potenziale: e ciò perché, per un verso, l'accesso costituisce di per sé un bene della vita, meritevole di riconoscimento e salvaguardia indipendentemente dalla lesione della correlata e sottostante posizione giuridica e, per altro verso, l'opzione in ordine ai rimedi da attivare ove l'interessato ritenesse, nella sua autonomia decisionale, lesa la propria situazione giuridica soggettiva non può essere rimessa, per giunta in via anticipata, all'Amministrazione o al soggetto depositario dei documenti.
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Come è noto, il riconoscimento del diritto di accesso e la legittimazione alla correlata pretesa ostensiva postulano, in quanto riferiti a “soggetti privati” (ancorché portatori di interessi superindividuali) la sussistenza di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” (cfr. art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990).
Si deve, per tal via, trattare (cfr., ex permultis, Cons. Stato, sez. III, 12.03.2018, n. 1578), di un interesse:
   a) diretto, cioè a dire correlato alla sfera individuale e personale del soggetto richiedente, dovendosi, con ciò, escludere una legittimazione generale, indifferenziata ed inqualificata, che darebbe la stura ad una sorta di azione popolare;
   b) concreto, e quindi specificamente finalizzato, in prospettiva conoscitiva, alla acquisizione di dati ed informazioni rilevanti ed anche solo potenzialmente utili nella vita di relazione, palesandosi immeritevole di tutela la curiosità fine a se stessa, insufficiente un astratto e generico anelito al controllo di legalità, precluso un “controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (cfr. art. 24, comma 3 l. n. 241/1990 cit.);
   c) attuale, cioè non meramente prospettico od eventuale, avuto riguardo alla attitudine della auspicata acquisizione informativa o conoscitiva ad incidere, anche in termini di concreta potenzialità, sulle personali scelte esistenziali o relazionali e sulla acquisizione, conservazione o gestione di rilevanti beni della vita;
   d) strumentale, avuto riguardo sia, sul piano soggettivo, alla necessaria correlazione con situazioni soggettive meritevoli di protezione alla luce dei vigenti valori ordinamentali, sia, sul piano oggettivo, alla specifica connessione con il documento materialmente idoneo ad veicolare le informazioni: non essendo, con ciò, tutelate iniziative, per un verso, ispirate da mero intento emulativo (peraltro di per sé espressive, sotto concorrente profilo, di un uso distorto ed abusivo della pretesa ostensiva) e, per altro verso, finalizzate alla raccolta, elaborazione o trasformazione di dati conoscitivi destrutturati e non incorporati in “documenti” (nel senso lato di cui all’art. 22 cit.).
Va chiarito, peraltro, che –come fatto palese dall’art. 24, comma 7 della l. cit.– l’accesso deve essere riconosciuto e garantito nella sua strumentalità rispetto ad ogni forma di “tutela”, sia giudiziale che stragiudiziale, anche solo meramente prospettica e potenziale: e ciò perché, per un verso, l’accesso costituisce di per sé un bene della vita, meritevole di riconoscimento e salvaguardia indipendentemente dalla lesione della correlata e sottostante posizione giuridica (cfr. Cons. Stato, sez. III, 17.03.2017, n. 1213) e, per altro verso, l’opzione in ordine ai rimedi da attivare ove l’interessato ritenesse, nella sua autonomia decisionale, lesa la propria situazione giuridica soggettiva non può essere rimessa, per giunta in via anticipata, all’Amministrazione o al soggetto depositario dei documenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.06.2018, n. 3953, nonché Id., sez. IV, 20.10.2016, n. 4372, nel senso che l'accesso serva anche solo a valutare se una certa azione sia proponibile con successo o meno) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2019 n. 6603 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAAl di là della predicata natura pertinenziale, tre casette in legno (pollai) e la tettoia in lamiera contestate, precipuamente in quanto riguardate nel loro complesso, si rivelano suscettibili di arrecare un apprezzabile impatto volumetrico e una corrispondente trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio; cosicché per la loro realizzazione si imponeva il previo rilascio del permesso di costruire, in assenza del quale è da reputarsi legittimamente irrogata la sanzione demolitoria.
Del pari, si imponeva il rilascio del permesso di costruire per la realizzata recinzione, siccome costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica e suscettibile, quindi, per le relative caratteristiche dimensionali e strutturali, di incidere in modo permanente e non precario sull'assetto urbanistico del territorio.
In ogni caso, anche in disparte la necessità o meno del permesso di costruire, trattandosi di area paesaggisticamente vincolata, si imponeva, nella specie, indefettibilmente il previo rilascio del titolo paesaggistico, in mancanza del quale le opere eseguite restavano pur sempre sanzionabili in via demolitoria, ai sensi degli artt. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 e 167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004.
Ed invero, a norma sia dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 sia dell’art. 167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, nonché in omaggio al canone generale di indifferenza della richiesta tipologia di titolo abilitativo rispetto all’individuazione del regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi commessi in zone vincolate, gli interventi abusivi, a prescindere dalla relativa qualificazione edilizia, non sfuggono alla misura demolitorio-ripristinatoria, allorquando siano stati eseguiti in zone paesaggisticamente vincolate, senza che la stessa possa pretermettersi in ragione della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi, scrutinabile dall’autorità tutoria solo in seguito ad apposita istanza dell’interessato e non, di certo, ex officio, in sede di adozione della misura repressivo-ripristinatoria.
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Premesso che:
   - col ricorso in epigrafe, Lo.Lu. impugnava, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza di demolizione n. 19 (r.g. n. 56) del 03.03.2011, emessa dal Funzionario di Unità Operativa Complessa, Titolare di Posizione Organizzativa del Settore Governo del Territorio e Servizi Manutentivi del Comune di Cava de’ Tirreni, unitamente alla nota della Polizia Locale di Cava de’ Tirreni prot. n. 7616 del 18.12.2010 ed al verbale di accertamento della Polizia Locale di Cava de’ Tirreni del 15.11.2010;
   - gli abusi contestati consistevano nella realizzazione sine titulo, sul fondo in proprietà della ricorrente, ubicato in Cava de’ Tirreni, frazione Li Curti, via ..., n. 40, nonché ricadente in zona assoggettata a vincolo paesaggistico: -- di una recinzione costituita da un muretto in mattoni sormontato da una rete metallica sostenuta da paletti in ferro e interposto da un cancelletto in ferro; -- di tre casette in legno (pollai) e di una tettoia in lamiera all’interno della recinzione anzidetta;
...
Considerato, innanzitutto, che:
   - al di là della predicata natura pertinenziale, le casette in legno (pollai) e la tettoia in lamiera contestate, precipuamente in quanto riguardate nel loro complesso, si rivelano suscettibili di arrecare un apprezzabile impatto volumetrico e una corrispondente trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio; cosicché per la loro realizzazione si imponeva il previo rilascio del permesso di costruire, in assenza del quale è da reputarsi legittimamente irrogata la sanzione demolitoria;
   - del pari, si imponeva il rilascio del permesso di costruire per la realizzata recinzione, siccome costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica e suscettibile, quindi, per le relative caratteristiche dimensionali e strutturali, di incidere in modo permanente e non precario sull'assetto urbanistico del territorio (cfr., ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, n. 1601/2018; n. 270/2019; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 5777/2018; Salerno, sez. II, n. 1760/2018; Napoli, sez. III, n. 1154/2019);
   - in ogni caso, anche in disparte la necessità o meno del permesso di costruire, trattandosi di area paesaggisticamente vincolata, si imponeva, nella specie, indefettibilmente il previo rilascio del titolo paesaggistico, in mancanza del quale le opere eseguite restavano pur sempre sanzionabili in via demolitoria, ai sensi degli artt. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 e 167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004;
   - ed invero, a norma sia dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 sia dell’art. 167, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, nonché in omaggio al canone generale di indifferenza della richiesta tipologia di titolo abilitativo rispetto all’individuazione del regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi commessi in zone vincolate, gli interventi abusivi, a prescindere dalla relativa qualificazione edilizia, non sfuggono alla misura demolitorio-ripristinatoria, allorquando siano stati eseguiti in zone paesaggisticamente vincolate (sul punto, cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, n. 2644/2012; sez. III, n. 1093/2018; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, n. 539/2018), senza che la stessa possa pretermettersi in ragione della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi, scrutinabile dall’autorità tutoria solo in seguito ad apposita istanza dell’interessato e non, di certo, ex officio, in sede di adozione della misura repressivo-ripristinatoria (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.10.2019 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
In quanto, come detto, atto dovuto e rigorosamente vincolato, essa rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore.
La misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive, nonché l’individuazione delle norme applicate (artt. 27 e 31 del d.p.r. n. 380/2001, 167 del d.lgs. n. 42/2004) e delle violazioni accertate (interventi eseguiti in assenza di idoneo titolo abilitativo edilizio e paesaggistico).
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L'ordinanza di demolizione non necessita di valutazione in ordine alla conformità o meno delle opere abusive agli strumenti urbanistici, posto che, una volta accertata l'esecuzione di interventi privi di permesso di costruire, ne deve essere disposta la rimozione indipendentemente dalla verifica della loro eventuale conformità allo strumento urbanistico e della loro ipotetica sanabilità: infatti, l'abusività di un'opera edilizia costituisce, già di per sé, presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
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Ai sensi degli artt. 31, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001 e 107 comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive rientra nella competenza del dirigente comunale, ovvero, nei Comuni sprovvisti di detta qualifica, dei responsabili degli uffici e dei servizi.
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Considerato, altresì, che:
   - l’emessa ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez. VI, n. 2873/2013; n. 4075/2013; sez. V, n. 3438/2014; sez. III, n. 2411/2015; sez. VI, n. 3620/2016; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 107/2015; Salerno, sez. II, n. 69/2015; Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez. II, n. 1534/2015; Salerno, sez. II, n. 664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez. III, n. 4392/2015; n. 4968/2015; sez. VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n. 4495/2016; n. 4574/2016; sez. III, n. 121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n. 995/2017; sez. IV, n. 2320/2017; sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5967/2017; Salerno, sez. II, n. 24/2018; Napoli, sez. III, n. 898/2018; n. 1093/2018; sez. IV, n. 1434/2018; n. 1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 2098/2015; n. 10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1708/2016; n. 1552/2017);
   - in quanto, come detto, atto dovuto e rigorosamente vincolato, essa rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore (cfr., ex multis, Cons. Stato, ad. plen., n. 9/2017; sez. IV, n. 3955/2010; sez. V, n. 79/2011; sez. IV, n. 2592/2012; sez. V, n. 2696/2014; sez. VI, n. 3210/2017; TAR Campania, sez. VI, n. 17306/2010; sez. VII, n. 22291/2010; sez. VIII, n. 4/2011; n. 1945/2011; sez. III, n. 4624/2016; n. 5973/2016; sez. VI, n. 2368/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1962/2010; n. 2631/2010; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 4164/2010; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 35404/2010; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 432/2011);
   - l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie– sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive (cfr. retro, in premessa), nonché l’individuazione delle norme applicate (artt. 27 e 31 del d.p.r. n. 380/2001, 167 del d.lgs. n. 42/2004) e delle violazioni accertate (interventi eseguiti in assenza di idoneo titolo abilitativo edilizio e paesaggistico) (cfr., ex multis, Cons. Stato sez. IV, n. 2441/2007; n. 2705/2008; sez. V, n. 4926/2014; TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 367/2008; sez. VI, n. 49/2008; sez. IV, n. 57/2008; sez. VIII, n. 4556/2008; sez. III, n. 5255/2008; sez. IV, n. 7798/2008; sez. VI, n. 8761/2008; sez. IV, n. 9720/2008; sez. II, n. 13456/2008; sez. IV, n. 11820/2008; sez. VI, n. 18243/2008; sez. III, n. 19257/2008; sez. IV, n. 20564/2008; n. 20794/2008; sez. VI, n. 21346/2008; n. 1032/2009; n. 1100/2009; sez. IV, n. 1304/2009; n. 1597/2009; n. 3368/2009; sez. VI, n. 5672/2014; sez. III, n. 1770/2015; n. 677/2017; Salerno, sez. II, n. 397/2017; Napoli, sez. III, n. 1303/2017; sez. IV, n. 1434/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; sez. VII, n. 3447/2017; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 57/2008; n. 1318/2009; n. 1768/2009; TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 475/2008; Palermo, sez. II, n. 866/2015; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 8117/2008; n. 2358/2009; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 781/2009; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1601/2016; TAR Basilicata, Potenza, n. 951/2016; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 1435/2016);
   - l’emessa ordinanza di demolizione n. 19 del 03.03.2011 non necessitava di valutazione in ordine alla conformità o meno delle opere abusive agli strumenti urbanistici, posto che, una volta accertata l'esecuzione di interventi privi di permesso di costruire, ne doveva essere disposta la rimozione indipendentemente dalla verifica della loro eventuale conformità allo strumento urbanistico e della loro ipotetica sanabilità: infatti, l'abusività di un'opera edilizia costituisce, già di per sé, presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 416/2017);
   - premesso, che, ai sensi degli artt. 31, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001 e 107 comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive rientra nella competenza del dirigente comunale, ovvero, nei Comuni sprovvisti di detta qualifica, dei responsabili degli uffici e dei servizi, esplorativo si rivela il motivo di gravame che assume la qualifica non dirigenziale del soggetto promanante il provvedimento impugnato, che non dimostra la sussistenza di tale qualifica nell’apparato organizzativo comunale di Cava de’ Tirreni e che tralascia l’ipotesi di delega di poteri, agevolmente inferibile dal richiamo espresso –contenuto nell’ordinanza di demolizione n. 19 del 03.03.2011– al decreto dirigenziale n. 187/U del 18.03.2002 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.10.2019 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAlle Sezioni Unite l’incompatibilità degli incarichi. Da valutare se si applica anche per i rapporti di lavoro autonomo.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza interlocutoria 26.09.2019 n. 24083 ha rimesso alle Sezioni unite la materia del divieto per i dipendenti del settore pubblico di svolgere altre attività lavorativa se non previo consenso del datore di lavoro.
La decisione è nata a seguito del contenzioso tra una banca e l’agenzia delle Entrate in quanto l’istituto di credito ha conferito l’incarico di presidente del consiglio di amministrazione, senza preventiva autorizzazione, al direttore generale di una Asl.
La Cassazione rileva che il direttore generale dell’Asl è un organo che rappresenta l’azienda; è nominato con provvedimento della Regione (perché l’Asl ne è ente strumentale); con il direttore viene stipulato un contratto di diritto privato e di lavoro autonomo esclusivo. Che il rapporto di lavoro sia di tipo autonomo è condiviso da diverse pronunce precedenti e ciò escluderebbe l’applicazione del Dlgs 165/2001.
Tuttavia la Suprema corte evidenzia che, in base all’articolo 3 del Dlgs 502/1992, il rapporto del direttore generale è esclusivo. Inoltre il quadro normativo conferisce il potere al datore di lavoro pubblico di individuare specifiche fattispecie di incompatibilità di incarichi oltre quanto già previsto dalla legge.
Si pone però la questione se la disciplina di incompatibilità definita dall’articolo 53 del Dlgs 165/2001 vale anche per gli incarichi che, in base all’articolo 7, comma 6, dello stesso Dlgs, sono attribuiti a persone dipendente di altra amministrazione pubblica o esterne.
In conclusione l’ordinanza evidenzia come «la disciplina delle incompatibilità presenti problemi di coordinamento nell’armonizzarsi con la riforma dell’ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e con la qualificazione dei rapporti di lavoro in termini esclusivamente privatistici».
Situazione che, secondo i giudici, potrebbe essere risolta applicando l’istituto delle incompatibilità riferendolo non allo status di dipendente pubblico «ma alla diversità dei fini perseguiti dal datore pubblico rispetto al datore privato».
Si tratta di «tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina delle incompatibilità con la diversa natura dei rapporti di lavoro che possono essere, allo stato, instaurati con la pubblica amministrazione, facendo convivere detta disciplina con gli specifici fini perseguiti dal datore di lavoro pubblico» (articolo Il Sole 24 Ore del 27.09.2019).
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ORDINANZA
Passando all'esame delle norme raccolte nel D.Lgs. 30.03.2001 n. 165, il primo comma dell'art. 53 pone il principio generale relativo al tema delle incompatibilità assolute e, sostanzialmente, non apporta modifiche alle norme previgenti, affermando esplicitamente per tutti i dipendenti pubblici la perdurante vigenza degli articoli da 60 a 65 del D.P.R. n. 3 del 1957.
Al fine di armonizzare tale affermazione con le proprie previsioni, il testo specifica che sono fatte salve le deroghe di cui all'art. 23 bis del medesimo decreto legislativo e le norme sul part-time.
L'art. 23-bis prevede la possibilità che i dirigenti pubblici svolgano periodi di lavoro presso soggetti pubblici o privati, per un periodo massimo di 5 anni, in regime di aspettativa, senza perdere la qualifica e con possibilità di ricongiunzione previdenziale. La disposizione non risulta direttamente connessa al tema delle incompatibilità anche tenendo conto del fatto che, comunque, siamo in assenza sia di prestazione che di retribuzione.
Venendo alle linee generali della disciplina delle incompatibilità disegnata dal legislatore delegato in attuazione della riforma, lo stesso richiama l'art. 60 del Dpr n. 3 del 1957 che impone ai pubblici dipendenti il divieto di esercitare il commercio, l'industria e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro. Il successivo art. 61 esclude dal divieto le società cooperative e prevede che sia autorizzabile lo svolgimento dell'incarico di arbitro o perito, mentre l'art. 62 ammette che il dipendente, previa previsione di legge o autorizzazione, "partecipi all'amministrazione o ai collegi sindacali di società o enti ai quali lo Stato partecipi o comunque contribuisca, in quelli che siano concessionari dell'amministrazione di cui l'impiegato fa parte o che siano sottoposti alla vigilanza di questa".
Si tratta, dunque, di un sistema in cui, a fianco di un generale divieto del tutto inderogabile, si prevede che l'amministrazione datrice di lavoro possa autorizzare i propri dipendenti a svolgere alcune specifiche attività estranee a quanto da loro dovuto in base al rapporto lavorativo.
Il sistema, strettamente coerente con una definizione rigorosamente pubblicistica del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, prevedeva dunque una limitata possibilità di deroga da parte delle pubbliche amministrazioni (c.d. incompatibilità relative o superabili) a fronte di un generale divieto (c.d. incompatibilità assoluta) di svolgere attività extraistituzionali.
Il legislatore delegato ha trasportato la disciplina del 1957 nell'ambito del lavoro pubblico privatizzato e ha voluto conservarla invariata anche nel nuovo contesto.
Il testo dell'art. 53 ha, innanzitutto, fatto propri gli elementi del tradizionale sistema normativo (pubblicistico) recante divieti assoluti parzialmente derogabili. Ha poi individuato un ambito di attività che, seppure con qualche incertezza rispetto alla portata, si possono ritenere del tutto liberalizzate.
Il legislatore ha quindi preso in considerazione gli incarichi retribuiti, cioè quelle attività che il pubblico dipendente potrebbe svolgere dietro compenso a beneficio di un soggetto diverso dal proprio datore di lavoro ovvero quelle attività che lo stesso datore, al di fuori delle mansioni dedotte in contratto e dietro compenso ulteriore rispetto a quello ordinario, può decidere di assegnargli.
Con riferimento a tale categoria di attività il legislatore non ha provveduto a determinare una specifica e puntuale disciplina, ma ha costruito un sistema in base al quale lo stesso datore pubblico provvede ad autorizzare o meno l'assunzione/conferimento degli incarichi. Tale sistema delle autorizzazioni appare a prima vista una sorta di "espansione" del meccanismo previgente, ma presenta in realtà una enorme portata innovativa.
Infatti, essa non risponde ad una logica di tipo amministrativo né, stanti i suoi legami con il rapporto (contrattuale) di lavoro, può ritenersi sottratto alla privatizzazione. Tuttavia esso conferisce al datore pubblico un controllo assai pregnante sulla vita e sul tempo extralavorativo dei propri dipendenti ed è evidente che un simile potere (di autorizzare o meno il lavoratore a utilizzare in modo remunerativo il proprio tempo, libero dalla prestazione di lavoro dedotta in contratto) è sconosciuto all'imprenditore privato.
L'art. 53 da un lato conserva alla legge, attraverso il rinvio al Dpr n. 3/1957 e ad altre norme speciali, la definizione delle incompatibilità assolute e delle relative eccezioni, dall'altro però attribuisce al datore di lavoro il potere di indicare singole e specifiche fattispecie di incompatibilità al di fuori del confine del vietato ex lege.
Con riferimento a tale contesto, il legislatore delegato, pur confermando alcune indicazioni generali in merito ai limiti di tale potere, attribuisce alle determinazioni del singolo datore, ma non alla previsione normativa, la definizione del lecito e mantiene a quest'ultima soltanto la definizione degli aspetti procedurali e sanzionatori conseguenti.
Si può ritenere che la scelta del legislatore delegato sia legittima e non consenta la formulazione di censure relative alla mancata o eccessiva attuazione della delega. Infatti la definizione per legge delle incompatibilità assolute è di per sé sufficiente a integrare il precetto di cui all'art. 2 della legge n. 421/1992.
Risulta piuttosto evidente che il fatto di avere sottratto alla regolazione legislativa la materia delle autorizzazioni relative agli incarichi retribuiti e di aver ricondotto la specificazione dei divieti ad un inedito potere del soggetto datoriale pubblico, pone il problema della sua eventuale disponibilità, in quanto egli agisce con i poteri del datore comune.
E' cioè opportuno chiedersi se, nonostante la legge delega abbia voluto inequivocabilmente sottrarre alla contrattazione la disciplina delle materia in parola, in seguito alla scelta effettuata dal legislatore delegato di affidare la individuazione degli incarichi retribuiti leciti al datore di lavoro, sia possibile per quest'ultimo (che non è certamente obbligato in tal senso) definire contrattualmente la materia o, quantomeno, farne oggetto di confronto in sede sindacale.
Infatti da un lato -stante la disponibilità del potere dell'imprenditore privato- parrebbe lecito che anche il datore 9 pubblico possa decidere in tal senso, vincolandosi poi, ovviamente, nei termini eventualmente fatti oggetto di accordo sindacale. Dall'altro, tuttavia, una simile soluzione parrebbe allontanare un po' troppo gli esiti concreti e finali dello spirito e delle evidenti intenzioni del delegante che ha voluto inequivocabilmente sottrarre la materia alla contrattazione e che ha inteso conferire una certa unità alla disciplina delle incompatibilità in tutto il campo del pubblico impiego.
La tematica in parola si interseca in maniera significativa con un altro e differente problema, quello costituito dalla disciplina che regola l'assegnazione di incarichi di lavoro autonomo a soggetti ad esse estranei da parte della pubbliche amministrazioni.
La delicata tematica viene affrontata dall'art. 7, comma 6, del medesimo D.Lgvo n. 165/2001, che è stato oggetto di numerose riscritture e che, attualmente, definisce in maniera piuttosto rigorosa sia i presupposti oggettivi in presenza dei quali le amministrazioni possono attribuire a personale esterno incarichi lavorativi sia i requisiti soggettivi che debbono avere gli "esterni", per poter essere destinatari di tali incarichi. E' evidente che la disciplina di cui all'art. 7 richiamato risponde a necessità sia di contenimento sia di razionalizzazione della spesa pubblica, cui si affianca la volontà di garantire, attraverso una serie di rilevanti obblighi di pubblicità in merito agli incarichi attribuiti e alle somme per ciò impiegate, un buon livello di trasparenza dell'azione amministrativa.
Come si accennava, la disciplina in parola si potrebbe sovrapporre a quella delle incompatibilità di cui all'art. 53, non solo quando gli incarichi di cui all'art. 7 comma 6 vengano attribuiti a soggetti che siano dipendenti di amministrazione pubblica diversa rispetto a quella di appartenenza, ma anche a soggetti totalmente esterni.
Ferma la natura amministrativa dei provvedimenti in parola, occorre chiedersi se, con riferimento alle categorie di dipendenti i cui rapporti di lavoro sono stati privatizzati, ci si trovi di fronte a provvedimenti privatistici o meno. E' tuttavia evidente che con tale tipo di autorizzazioni si pone un problema di coerenza del sistema e rimane possibile interpretare la previsione dell'art. 2 della legge n. 421/1992 nel senso di sottrarre alla riforma la materia delle incompatibilità. Tuttavia si può ritenere che, sebbene siano ancora fortemente connotati in senso pubblicistico, gli atti in parola vadano comunque ricondotti alla privatizzazione del rapporto per esplicita previsione legislativa (art. 5, comma 2, del D.lgvo n. 165/2001).
L'art. 53, comma 1, infatti, prevede, esplicitamente, che mantengono vigore alcune discipline speciali relative a particolari categorie di dipendenti. Precisamente, gli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 del D.Lgvo n. 297 del 1994 161; l'articolo 9, commi 1 e 2, della legge n. 498 del 1992; l'art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991. Tali previsioni si riferiscono a specifiche categorie di dipendenti pubblici.
In particolare, per il personale sanitario (art. 4, comma 7, della legge 412 del 1991), la norma afferma il principio della unicità del rapporto di lavoro con il SSN e l'incompatibilità con altri rapporti di lavoro dipendente ovvero con ulteriori rapporti anche convenzionali con il medesimo SSN.
La norma afferma, quindi, l'incompatibilità "con l'esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso". Si specifica inoltre che l'avvio dell'accertamento può avvenire "su iniziativa di chiunque vi abbia interesse".
Solo per completezza argomentativa, si osserva che nell'ambito della previsione in esame è intervenuto il legislatore che ha inserito, con l'art. 52 del D.Lgvo n. 150 del 27.10.2009, attuativo della legge n. 15/2009, un comma 1-bis nell'art. 53 del D.lgvo n. 165/2001, il quale prevede che siano preclusi gli incarichi "di direzione di strutture deputate alla gestione del personale a soggetti che rivestano o abbiano rivestito negli ultimi due anni cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano avuto negli ultimi due anni rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza con le predette organizzazioni".
Chiaramente la previsione non individua una incompatibilità in senso stretto, ma prevede un esplicito divieto in merito all'individuazione di soggetti cui attribuire specifici incarichi direttivi.
La ratio della previsione è espressione della preoccupazione del Legislatore che soggetti che assumono un ruolo di rilievo, in quanto svolgono funzioni direttive, e in un ambito di particolare delicatezza per l'efficienza dell'amministrazione (quale è la gestione del personale) possano essere influenzati nella loro azione da condizionamenti derivanti dalle proprie relazioni personali che trovano radici nella vita personale extralavorativa.
La scelta non solo è pienamente rispondente al bisogno di assicurare all'azione amministrativa i requisiti individuati dall'art. 97 della Costituzione, ma è anche idonea ad avviare un ripensamento generale sul tema delle incompatibilità nel pubblico impiego. Infatti, nonostante la sua apparente limitatezza, la disposizione ha una grande vastità di applicazione e incide su un aspetto della vita personale dei dipendenti, quale la vita politica e/o sindacale, da sempre oggetto di una tutela (giustamente) estesissima e non necessariamente di natura economica.
Quanto finora osservato mette in luce come la disciplina delle incompatibilità presenti problemi di coordinamento nell'armonizzarsi con la riforma dell'Ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e con la qualificazione dei rapporti di lavoro in termini esclusivamente privatistici, sistema che potrebbe essere ricondotto ad unità riferendo la "specialità" non già allo status di dipendente pubblico, ma alla diversità dei fini perseguiti dal datore pubblico rispetto al datore privato.
In altri termini, l'applicazione dell'istituto delle incompatibilità dovrebbe tenere conto della diversità degli scopi dei datori di lavoro per spiegare e conseguentemente giustificare le diversità normative, senza che questo implichi in alcun modo (almeno in termini sistematici) una alterazione del rapporto contrattuale tra datori e lavoratori; sulla scorta della specificità soggettiva del datore pubblico andrebbe valutata la riconducibilità della materia al settore della pubblica amministrazione in ragione della interferenza delle prestazioni rese con i compiti istituzionali.
Per siffatte ragioni ritiene il Collegio che il più recente orientamento meriti di essere rimeditato nella sua portata, trattandosi di tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina delle incompatibilità con la diversa natura dei rapporti di lavoro che possono essere, allo stato, instaurati con la pubblica amministrazione, facendo convivere detta disciplina con gli specifici fini perseguiti dal datore di lavoro pubblico.
Poiché la questione investe un tema di notevole impatto pratico, tenuto conto dell'evoluzione che ha avuto e continua ad avere nel settore dell'impiego pubblico privatizzato e non solo,
il Collegio ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
P.Q.M.
La Corte, dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

APPALTI SERVIZIRaccolta rifiuti: illegittima l'ordinanza sindacale contingibile e urgente di proroga senza indizione di una «gara ponte»
I Comuni sono tenuti ad affidare il servizio di raccolta rifiuti con una gara unitaria e, per non rimanere sforniti del servizio rifiuti nelle more dell’avvio del servizio unitario affidato a seguito di “gara accentrata”, devono espletare un’apposita “gara-ponte” per contratti di durata biennale aventi clausola di risoluzione immediata in caso di avvio del servizio unitario.

È quanto afferma il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la sentenza 20.09.2019 n. 1483.
L’approfondimento
Il Tar Lecce è intervenuto sui profili di legittimità dell’ordinanza contingibile e urgente di indizione di una gara unitaria per il servizio di raccolta rifiuti con proroga del rapporto con il precedente affidatario.
La decisione
Nell’accogliere il ricorso, il Collegio ha avuto modo di rilevare come, se è vero che, ai sensi della normativa regionale pugliese (art. 24, commi 1 e 2, Lr 24/2012), i Comuni sono tenuti ad affidare il servizio di raccolta rifiuti con una gara unitaria (comma 1), è altrettanto vero che ciascun Comune, per non rimanere sfornito del servizio rifiuti nelle more dell’avvio del servizio unitario affidato a seguito di “gara accentrata”, deve espletare la “gara-ponte” per “contratti di durata biennale aventi clausola di risoluzione immediata in caso di avvio del servizio unitario” (comma 2).
Il Comune, infatti, nelle more dell’entrata a regime del servizio unitario, con l’ordinanza impugnata anziché procedere all’affidamento del servizio rivolgendosi al mercato tramite la “gara-ponte” biennale che nel frattempo non ha indetto, avrebbe invece reiterato la scelta di prorogare il contratto già in essere per la durata di un ulteriore anno, motivando la propria scelta sulla base del fatto che sarebbe in corso di svolgimento la procedura di gara per l’affidamento del servizio a livello unitario, trasformando di fatto trasformato l’istituto della proroga da strumento eccezionale a mezzo ordinario di affidamento del servizio.
Per il Collegio, tuttavia, non risultando alcuna indizione della “gara-ponte” alla luce dei principî generali in tema di procedure ad evidenza pubblica, deriverebbe l’illegittimità dell’ordinanza perché in violazione di cui al citato comma 2, articolo 24, della normativa regionale applicabile.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che, l’ordinanza di proroga impugnata è illegittima nelle parti in cui non ha contestualmente disposto l’espletamento della “gara-ponte” e non ha assoggettato la disposta proroga a risoluzione anticipata ed immediata nel caso di avvio del servizio unitario ovvero, se anteriore, di avvio del servizio a seguito di “gara-ponte” (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.10.2019).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi pubblici, legittima la scelta organizzativa di esonerare i candidati interni dalle preselettive.
L’esonero del personale interno del Comune dalla prova preselettiva costituisce di per sé scelta organizzativa discrezionale in materia di politiche assunzionali non manifestamente irragionevole, in relazione all’intuitiva riconducibilità a profili esperienziali ricoperti dai candidati esonerati.

È quanto afferma il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con l’ordinanza 20.09.2019 n. 375.
L’approfondimento
Il Tar Bari è intervenuto sui profili di legittimità della scelta di un ente locale, operata in sede di indizione di un concorso, di esonerare il personale interno dalla prova preselettiva e di ammetterlo di diritto alle prove d’esame.
La decisione
Nel respingere l’istanza cautelare, il Collegio ha avuto modo di rilevare come questa non appaia essere assistita da un sufficiente fumus boni iuris.
Per il Collegio, infatti, il ricorso in esame mirerebbe -in estrema sintesi- alla contestazione delle scelte discrezionali del Comune di Bari in materia di politiche assunzionali del proprio personale, laddove, in particolare, l’esonero del personale interno del Comune dalla prova preselettiva costituisce di per sé scelta organizzativa non manifestamente irragionevole, in relazione all’intuitiva riconducibilità a profili esperienziali;
Per il Collegio, inoltre, l’Amministrazione avrebbe potuto alternativamente procedere con concorsi interni riservati esclusivamente al personale già in servizio, in tal modo diminuendo in radice e “a monte” le chances selettive di tutti i partecipanti alla procedura, che, viceversa, appaiono essere state incrementate dall’attuale scelta organizzativa del Comune di Bari, anche al netto della relativa agevolazione costituita dal contestato esonero dalla prova preselettiva.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che, ad un sommario esame proprio della fase cautelare, che l’istanza così come introdotta non appare essere assistita da un sufficiente fumus boni iuris e, in quanto tale, debba essere respinta in attesa della definizione nel merito della controversia (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.10.2019).

TRIBUTIIMU, paga la società di leasing dopo la scadenza del contratto.
Il contratto di locazione finanziaria di beni immobili rappresenta il titolo in base al quale si determina la soggettività passiva ai fini Imu e non, invece, sulla base della disponibilità materiale del bene. Infatti, per il legislatore fiscale, la soggettività passiva del locatario finanziario si realizza addirittura quand’anche il bene da concedere non sia ancora venuto ad esistenza (immobili da costruire o in corso di costruzione), anche qualora lo stesso non sia stato consegnato dal concedente all’utilizzatore. Ciò che rileva per il sorgere della soggettività passiva Imu non è l’adempimento della consegna del bene (e di converso per la sua cessazione la riconsegna) ma esclusivamente la sottoscrizione del contratto.
Questo il principio affermato dalla sentenza 19.09.2019 n. 3512 della Ctr Lombardia.
La vicenda esaminata
Ritorna la questione all’esame dei giudici della Ctr Lombardia che considerano chiaro il dettato normativo da leggersi nel senso che «in caso di risoluzione del contratto di leasing la soggettività passiva ai fini Imu si determina in capo alla società di leasing, anche se essa non ha ancora acquisito la materiale disponibilità del bene per mancata riconsegna da parte dell’utilizzatore» (conforme Cassazione 13793/2019).
La decisione
«Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanziaria soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto» (articolo 9 del Dlgs 23/2011). Questo il precetto che porta i giudici regionali a non avere dubbi circa la soggettività passiva Imu in capo al locatore alla scadenza o alla risoluzione del contratto di leasing finanziario e indipendentemente dalla materiale consegna del bene da parte del locatario.
In concreto, chiosa il collegio, è il titolo (cioè il contratto stipulato) che determina la soggettività passiva del locatario finanziario e non certo la disponibilità materiale del bene.
Infatti, per il legislatore fiscale, la soggettività passiva del locatario finanziario si realizza addirittura quand’anche il bene da concedere non fosse ancora venuto ad esistenza (per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione) e pure quand’anche fosse che il bene non sia stato ancora consegnato dal concedente all’utilizzatore, essendo rilevante, per il sorgere della soggettività passiva Imu, non già l’adempimento della consegna del bene (e di converso per la sua cessazione la riconsegna), ma la sola sottoscrizione del contratto (soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula).
Richiamando la disciplina civilistica e sovrapponendola a quella fiscale i giudici evidenziano come il momento della cessazione del contratto si determina all’atto del pagamento dell’ultimo canone in base alla durata stabilita nello stesso ovvero, nelle ipotesi di risoluzione anticipata per inadempimento, dal momento in cui esso è stato risolto.
Con questa lettura la Ctr ritiene altresì infondato il richiamo in via analogica alla disciplina Tasi in quanto è un diverso tributo, con presupposti impositivi differenti (detenzione del bene), non potendo pertanto avere valenza interpretativa. Riconoscendo comunque il contrasto giurisprudenziale sul tema i giudici ambrosiani giustificano l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.
Lo scenario
In attesa di un intervento delle Sezioni Unite il dibattito giurisprudenziale continua ad alimentarsi con interpretazioni ondivaghe circa la soggettività passiva Imu nelle ipotesi di contratti di locazione finanziaria di immobili con sopravvenuta risoluzione contrattuale senza che vi sia stata la materiale riconsegna del bene (si veda Il Quotidiano del Fisco del 13.09.2019) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2019).

PUBBLICO IMPIEGOSocietà in house, nulle le progressioni verticali senza procedura selettiva.
L'omesso esperimento di procedure concorsuali o selettive per il reclutamento di personale nelle società in house non genera soltanto una fattispecie di responsabilità contabile a carico del dirigente che ha disposto l'assunzione irregolare, ma determina anche la nullità del contratto di lavoro per la violazione di un principio di carattere imperativo.
Inoltre, l'omissione di queste procedure non condiziona solamente la validità delle nuove assunzioni, ma rende nullo, parimenti, un inquadramento superiore avvenuto in violazione delle regole prescritte.

Affermando questi principi, la Corte d'appello di Catania, Sez. lavoro, con la sentenza n. 780/2019 ha confermato un'interpretazione rigorosa delle vigenti disposizioni di legge in tema di reclutamento del personale nelle società a controllo pubblico.
L'analisi dei giudici
La Corte muove dall'assunto secondo cui se è vero, da un lato, che la disciplina del pubblico impiego non è applicabile tout court alle partecipate, in quanto le norme a carattere nazionale non operano un rinvio generalizzato a detta disciplina, ma si limitano a richiamare i principi per il reclutamento del personale cui le società a controllo pubblico devono uniformarsi, è altrettanto vero, d'altro lato, che per queste società l'obbligo di assumere previa selezione incide in modo essenziale sulla fase propedeutica di individuazione del personale e di instaurazione del rapporto di lavoro, fermo restando che la fase successiva del medesimo rapporto è rimessa al diritto comune.
Basandosi su queste argomentazioni il collegio rigetta l'appello avverso la decisione del Tribunale di Catania che, in tema di gestione di personale alle dipendenze di una società in house, aveva respinto il ricorso contro il provvedimento con cui la società stessa revocava gli atti di una progressione verticale ritenuta contra jus, in quanto disposta senza previa procedura selettiva.
La pronuncia è meritevole di interesse, perché la Corte ricostruisce il tessuto normativo sottostante la disciplina del personale nelle società partecipate, facendo luce su un ambito organizzativo che non di rado si presta a vedute divergenti ed è fonte di contenziosi giudiziali.
Le assunzioni
Un primo punto affrontato dalla pronuncia riguarda il fatto che, in tema di assunzioni, l'omesso esperimento delle procedure selettive non comporta soltanto la responsabilità contabile per il soggetto inadempiente, ma implica necessariamente la nullità del contratto di lavoro.
A questo riguardo, la giurisprudenza ha più volte messo in luce la natura imperativa dell'obbligo di procedura selettiva, la cui violazione comporta la nullità del rapporto di lavoro costituito violando la legge e l'invalidità della relativa assunzione, salvo il diritto del lavoratore alla retribuzione per l'attività svolta (articolo 2126 del codice civile).
Secondo il collegio, una sanzione così grave non discende soltanto da quanto previsto dall'articolo 19, comma 4, del Dlgs 175/2016 (che, sul punto, non reca una portata innovativa) ma si ricollega all'articolo 1418 del codice civile, in quanto «la violazione attiene al momento genetico della fattispecie negoziale».
Di conseguenza, scrivono i giudici, «se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell'atto per ragioni (...) ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell'atto medesimo».
È utile rammentare, sul punto, che già a suo tempo il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5643/2015, in epoca antecedente al Dlgs 175/2016, ossia in vigenza dell'articolo 18 del Dl 112/2008, convertito in legge 133/2008, aveva affermato che se una società in house incorre nella violazione delle regole previste da questo principio, «il rapporto (…) è sanzionato con la nullità, intesa come invalidità improduttiva di effetti giuridici, imprescrittibile, insanabile e rilevabile di ufficio e non già alla stregua di un mero vizio di violazione di legge, secondo i principi generali regolanti il regime di annullabilità degli atti amministrativi illegittimi».
In ragione di ciò, può ritenersi pacifica e incontrovertibile la nullità del contratto di lavoro instaurato senza l'esperimento di procedura concorsuale (Consiglio di Stato, sentenza n. 2270/2014; Tribunale di Roma, ordinanza n. 56947/2016; Tribunale di Monza, sentenza n. 420/2015).
Le progressioni di carriera
Un secondo aspetto degno di nota è il corollario in base al quale se è nullo il contratto di lavoro stipulato per una nuova assunzione in assenza delle procedure di reclutamento, parimenti deve considerarsi affetta da nullità l'attribuzione di un inquadramento superiore al di fuori di queste procedure.
L'obbligo di procedura selettiva per le assunzioni trova piena applicazione anche alle promozioni, alle progressioni verticali e ai passaggi di categoria nell'organico delle partecipate.
E questo perché, come ha da tempo chiarito la Corte Costituzionale, «il passaggio a una fascia funzionale superiore comporta l'accesso a un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (Corte Costituzionale sentenze n. 320/1997 e n. 1/1999).
D'altra parte, è agevole intuire che il superamento di una singola selezione non può essere un «lasciapassare» per l'ingresso nei ruoli della società pubblica, bensì legittima l'esercizio delle sole funzioni inerenti al posto di lavoro messo a concorso.
Per inciso, il rispetto delle regole esige la massima cura anche per il fatto che la violazione dei principi selettivi e di concorsualità per l'accesso all'impiego presso le società a controllo pubblico si configura quale fattispecie suscettibile di ingenerare un danno erariale (Corte dei conti del Lazio, sentenza n. 399/2017) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.09.2019).

APPALTIEffetti della sentenza Cgue Lombardi in caso di esclusione disposta all’amministrazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Controllo documentazione prodotta anche se proveniente da terzo – Obbligo.
  
Processo amministrativo – Rito appalti – Concorrente terza graduata – Offerta non regolare – Interesse ad impugnare prima e seconda graduata – Condizione.
  
Sull’operatore economico che partecipa a una gara d’appalto incombe l’onere di verificare se il contenuto dei documenti e delle dichiarazioni prodotti corrisponda al vero pure nell’ipotesi che si tratti di un atto (certificazione di qualità) proveniente dal terzo (1).
  
Un’impresa che si è classificata in terza posizione nella graduatoria di gara, che è stata in seguito esclusa dalla stazione appaltante e che ha proposto il ricorso contro il provvedimento espulsivo e contro l’altrui aggiudicazione dev’essere riconosciuto l’interesse all’esclusione dell’aggiudicatario e del concorrente collocato in seconda posizione, anche se la sua offerta sia giudicata non regolare, sempre che, nel frattempo, la relativa statuizione non passi in giudicato (2).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’esclusione disposta ai sensi dell’art. 80, lett. f-bis), del codice dei contratti pubblici (per la quale le stazioni appaltanti escludono “l’operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”) è atto vincolato, discendente direttamente dalla legge (Cons. St., sez. III, 23.08.2018, n. 5040).
Dall’altro, anche a voler valorizzare (per mera ipotesi, considerato che l’ammissione rappresenta un atto meramente procedimentale, qualificazione tradizionale significativamente confermata dall’abrogazione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.) il dato che l’esclusione si contrapponga, smentendola, all’originaria ammissione, rimane il fatto che non è configurabile, in capo alla cooperativa, alcun legittimo affidamento all’aggiudicazione della gara, essendosi collocato al terzo posto della graduatoria.
Ha aggiunto il Tar che la falsa dichiarazione consiste in una immutatio veri (ricorre, cioè, se l’operatore rappresenta una circostanza di fatto diversa dal vero), senza che, oltretutto, rilevi la provenienza della dichiarazione o della documentazione, se dallo stesso operatore ovvero da un terzo (Cons. St., sez. V, 12.04.2019, n. 2407; 20.03.2019, n. 1820).
   (2) Ha chiarito il Tar che la norma che definisce la posizione qualificata, differenziandola dall’interesse di mero fatto, anche nell’ipotesi di un concorrente già escluso (ma non definitivamente) dalla stazione appaltante, è pur sempre l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 (inalterato anche dopo l’entrata in vigore della direttiva 2007/66/CE), il cui significato è stato ulteriormente chiarito dalla recente sentenza della Corte di giustizia, decima sezione, 05.09.2019, Lombardi, C-333/18, ECLI:EU:C:2019:675.
Il Giudice europeo, chiamato ad interpretare tale norma (per la quale “Gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”) ha affermato: “Infatti, l’offerente che, come nel presente caso, si sia classificato in terza posizione e che abbia proposto il ricorso principale deve vedersi riconoscere un legittimo interesse all’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario e dell’offerente collocato in seconda posizione, in quanto non si può escludere che, anche se la sua offerta fosse giudicata irregolare, l’amministrazione aggiudicatrice sia indotta a constatare l’impossibilità di scegliere un’altra offerta regolare e proceda di conseguenza all’organizzazione di una nuova procedura di gara.
In particolare, qualora il ricorso dell’offerente non prescelto fosse giudicato fondato, l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la decisione di annullare la procedura e di avviare una nuova procedura di affidamento a motivo del fatto che le restanti offerte regolari non corrispondono sufficientemente alle attese dell’amministrazione stessa
”.
Sono note al proposito le perplessità che ha destato un percorso giurisprudenziale che, partendo dalla sentenza 19.06.2003, Hackermüller, C-249/01, ECLI:EU:C:2003:359, su impulso dei ripetuti rinvii pregiudiziali del Consiglio di Stato e del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, è giunta a fondare l’accesso al ricorso sull’incerta prospettiva del futuro esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione, potere ampiamente discrezionale già nell’an.
Ugualmente ampio è il dibattito sull’impatto di queste pronunce sul modello del processo amministrativo, se, cioè, esse comportino uno spostamento verso una giurisdizione di diritto oggettivo o se, invece, semplicemente adottino un concetto di legittimazione più ampio e più sostanziale, anche per favorire il meccanismo del private enforcement; a ciò si aggiunge un certo scetticismo nei confronti della funzionalità del processo come ridefinito dalla Corte e sulla stessa proporzionalità dei principi affermati rispetto alla finalità dell’attuale articolo 114 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (corrispondente all'art. 100 A del trattato CEE e all’art. 95 del trattato CE) che costituisce la base giuridica delle direttive 89/665 e 2007/66.
L’art. 114 TFUE invero consente l’adozione di “misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno ad oggetto l’installazione e il funzionamento del mercato interno”, ovvero di “uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei trattati”, come definito dall’articolo 26 TFUE, o ancora di “un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata”, come esplicitato dal protocollo n. 27 annesso al trattato di Lisbona.
In questo quadro, sorge il sospetto che un siffatto modello processuale, il quale inevitabilmente produce l’allungamento della durata dei giudizi (potenzialmente contenuto, in alcuni casi, anche per le ragioni appresso indicate, dall’ormai abrogato l’art. 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo), il dilatarsi dei tempi di assegnazione degli appalti, l’allontanamento dall'obiettivo della convenienza per l’amministrazione, a seguito del riscontro di vizi anche meramente formali, e il rischio che il “ricorso efficace” sia utilizzato strumentalmente, possa costituire esso stesso un ostacolo all’esplicarsi delle dinamiche del mercato e della concorrenza.
Queste riflessioni però evidentemente non possono incidere sull’esito dell’eccezione e, a monte, sulla chiara posizione espressa dalla Corte di giustizia nella sentenza Lombardi, che, concretizzata, porta a concludere che la società Bar Ge.In.Com., la quale, nel presente caso, si è classificata in terza posizione e che ha proposto il ricorso, deve vedersi riconoscere un legittimo interesse all’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario e dell’offerente collocato in seconda posizione, anche se la sua offerta fosse giudicata irregolare.
Né è invocabile poi l’art. 2-bis, paragrafo 2, della direttiva 89/665 (introdotto dall'art. 1 della direttiva 2007/66/CE), secondo cui “Gli offerenti sono considerati interessati se non sono già stati definitivamente esclusi. L’esclusione è definitiva se è stata comunicata agli offerenti interessati e se è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente o se non può più essere oggetto di una procedura di ricorso”.
La Corte di giustizia (ottava sezione, 21.12.2016, Bietergemeinschaft, C-355/15, EU:C:2016:988, punti 24-36; 11.05.2017, Archus, C-131/16, EU:C:2017:358, punto 57) ha infatti ribadito che l’esclusione, per essere considerata definitiva, qualora sia stata impugnata, dev’essere stata dichiarata esente da vizi con una sentenza passata in giudicato prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto statuisca (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 16.09.2019 n. 1670 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIViola il principio di rotazione la stazione appaltante che invita l'operatore uscente alla gara Mepa.
Viola il principio della rotazione la stazione appaltante quando invita l'operatore economico uscente, che abbia manifestato interesse a partecipare ad una richiesta di offerta sul Mepa.

Con la sentenza 16.09.2019 n. 376 del TAR Friuli Venezia Giulia prende posizione su una tematica ancora controversa.
Il principio di rotazione, in base all'articolo 36, comma 1, del Dlgs 50/2016 si applica non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, per i contratti sotto soglia, anche in ogni caso di ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione articolo 63, comma 6, del Dlgs 50/2016).
Esso serve a evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente, che ha una posizione di vantaggio, in forza delle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento, soprattutto nei mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è elevato ed occorre ampliare le possibilità di aggiudicazione per gli altri concorrenti.
Giurisprudenza
Secondo la giurisprudenza la procedura di selezione del contraente non deve risolversi in una mera rinnovazione del rapporto contrattuale scaduto. Ciò che conta è l'identità e continuità, nel corso del tempo, della prestazione principale o, nel caso in cui non sia possibile individuare una chiara prevalenza delle diverse prestazioni dedotte in rapporto (tanto più se aventi contenuto tra loro non omogeneo), che i successivi affidamenti abbiano comunque ad oggetto, in tutto o parte, queste ultime (decisione Consiglio di Stato decisione n. 1524/2019).
La stazione appaltante deve motivare qualora intenda, comunque, invitare il gestore uscente, facendo in particolare riferimento al numero eventualmente ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento.
Esclusioni
Le linee guida Anac n. 4 hanno escluso dall'ambito di applicazione del principio di rotazione talune fattispecie, individuano, tra l'altro, l'ipotesi in cui l'affidamento avvenga con procedura aperta al mercato, nella quale la stazione appaltante non limiti il numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione. Un'applicazione di questo criterio in tal caso potrebbe determinare pregiudicare la tutela della concorrenza ( ordinanza Tar Brescia n. 332/2019).
È stato però rilevato che non compensano la mancata osservanza del principio di rotazione gli accorgimenti procedurali adottati dalla stazione appaltante, quali l'esperimento della procedura in via telematica attraverso la piattaforma digitale, la pubblicazione di un apposito avviso pubblico, l'espletamento di una preventiva indagine di mercato.
Tale avviso attiva un'indagine di mercato non vincolante, per individuare operatori economici da invitare alla successiva procedura negoziata e nella fase successiva dell'invito, si innesta la regola dell'esclusione del gestore uscente. Lo strumento della manifestazione di interesse, pur strumentale a garantire la più ampia partecipazione possibile agli operatori economici da invitare, non rende affatto superflua la rotazione (Consiglio di Stato n. 3831/2019).
Però non si può estendere l'applicazione del principio di rotazione quando l'operatore economico sia stato invitato a differenti gare, per le quali è stata richiesta una diversa qualificazione. Per esempio quando è invitato ad una precedente procedura, per la quale è obbligatorio il possesso di una categoria di qualificazione diversa (attestazione Soa OS28 invece che OG1), nel caso esaminato dalla sentenza del Tar Catania 1380/2019).
Pareri discordi
Va però considerato che altra giurisprudenza ha considerato il principio di rotazione servente e strumentale rispetto a quello di concorrenza, evidenziando che deve trovare applicazione nei limiti in cui non incida su quest'ultimo e si può derogare per raggiungere il numero minimo di offerte da sottoporre a selezione. (sentenza Tar Firenze n. 816/2017, con riferimento ad un caso in cui all'avviso esplorativo cui avevano risposto solo due operatori di cui uno era il gestore uscente).
La violazione del principio di rotazione importa l'immediata impugnazione dell'ammissione del concorrente. Il termine di impugnazione decorre, in base all'articolo 120, comma 2-bis, Cpa, dalla data di pubblicazione dell'atto di ammissione, o comunque dal giorno in cui l'atto stesso è reso in concreto disponibile, secondo la nuova formulazione dell'articolo 29, comma 1, del Dlgs n. 50/2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.10.2019).
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SENTENZA
Quanto al primo motivo, il caso all’esame appare sovrapponibile a quello, deciso con la condivisibile pronuncia del Consiglio di Stato, sez. V, n. 3831 del 2019.
Giova anzitutto richiamare la norma di cui all'art. 36 del D.Lgs. n. 50 del 2016, secondo la quale "l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese".
Ebbene, nella citata pronuncia del Consiglio di Stato si osserva che “il principio ivi affermato mira ad evitare il crearsi di posizioni di rendita anticoncorrenziali in capo al contraente uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il precedente affidamento) e di rapporti esclusivi con determinati operatori economici, favorendo, per converso, l'apertura al mercato più ampia possibile sì da riequilibrarne (e implementarne) le dinamiche competitive”.
Conseguentemente “il principio di rotazione si riferisce propriamente non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da interpellare e da invitare per presentare le offerte ed assumendo quindi nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al carattere "fiduciario" della scelta del contraente allo scopo di evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo.”
Inoltre, “risultano condivisibili i rilievi mossi all'operato dell'Amministrazione comunale, nella misura in cui non ha palesato le ragioni che l'hanno indotta a derogare a tale principio: ciò in linea con i principi giurisprudenziali per cui, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all'invito di quest'ultimo (il gestore uscente), dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; id., Sez. V, 03.04.2018, n. 2079; id., Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125)”.

ATTI AMMINISTRATIVI: Protezione dati, il responsabile deve far parte dell'organico della società esterna incaricata.
Qualora la funzione di responsabile per la protezione dei dati personali sia svolta da una persona giuridica, è indispensabile che il soggetto (persona fisica) operante come Rpd sia "appartenente" alla persona giuridica e soddisfi tutti i requisiti applicabili come fissati nella sezione 4 del regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali.
Lo afferma la Sez. III del TAR Puglia-Lecce con la sentenza 13.09.2019 n. 1468.
Il caso
Il ricorso riguarda l'annullamento della graduatoria degli ammessi al conferimento dell'incarico per l'attuazione del Regolamento Ue n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali e l'individuazione del responsabile per la protezione dei dati (Rpd), formulata all'esito di una procedura di gara informale. Incarico conferito a una Srl ma sospeso dallo stesso Tar Puglia secondo cui, pur non essendovi dubbi circa il fatto che una persona giuridica può partecipare alla gara, l'incarico di Rpd era stato poi affidato a un soggetto fisico di cui non era chiaro il legame con la società aggiudicataria.
La sezione di Lecce ha respinto diversi motivi di ricorso ma ha accolto l'ultimo, relativo proprio al fatto che non viene evidenziato il legame fra la società e il soggetto incaricato delle funzioni di Rpd, che non risulta essere socio e neanche dipendente, venendo a configurare una sorta di subappalto in cui non è riscontrabile quale possa essere la responsabilità della società nel caso di inadempimenti e/o danni provocati da detto soggetto.
Le indicazioni europee
Nel merito, i giudici hanno esaminato la questione alla luce delle necessarie conoscenze e qualità professionali che deve possedere il responsabile e della sua posizione all'interno di una persona giuridica qualora la funzione venga da svolta da quest'ultima. Il riferimento è ai requisiti fissati nella sezione 4 del Capo IV del Rgpd, il regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali, secondo cui il Rpd deve essere designato in funzione delle qualità professionali e in particolare della conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione dei dati e può assolvere i suoi compiti in base a un contratto di servizi (articolo 37).
Indicazioni specifiche per il Rpd sono contenute nelle «Linee guida sui responsabili della protezione dati», adottate il 13.12.2016 dal Gruppo di lavoro europeo per la protezione dei dati, secondo cui qualora la funzione venga svolta da un fornitore esterno, è indispensabile che ciascun soggetto "appartenente" a detto fornitore soddisfi tutti i requisiti fissati nel regolamento. Nel caso di specie la società aggiudicataria non ha dato prova dell'appartenenza soggetto incaricato di svolgere le funzioni di Rpd alla propria struttura o al proprio organico, essendo legato da un contratto di prestazione professionale, per cui la funzione da questi svolta non può essere riferita alla società.
Lost in translation
È singolare la contromossa difensiva della società, che ha evidenziato come nel testo (originale) in inglese delle linee guida non sia rinvenibile la parola "appartenente" e quindi viene solo richiesto che il soggetto incaricato soddisfi tutti i requisiti previsti dal regolamento.
Ragionamento respinto dal Tar Lecce, che anzi lo usa per confermare la correttezza della propria posizione, in quanto da un lato la traduzione italiana delle linee guida non ha alcun valore legale, a differenza della versione italiana che costituisce versione ufficiale e, dunque, vincolante; dall'altro la traduzione proposta risulta non veritiera, in quanto la dizione «each member of organisation exercising the functions of DPO…» non si riferisce a ogni soggetto (esterno) cui la persona giuridica incaricata fa svolgere le funzioni di Rpd ma a ogni membro interno che la svolge (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2019).

APPALTI: Ripubblicazione degli atti di gara e termine di impugnazione.
La ripubblicazione integrale degli atti contenenti la disciplina di gara e non solamente delle parti modificate determina un effetto sostitutivo dei nuovi atti ai corrispondenti adottati in precedenza; al contempo, la riapertura dei termini per la presentazione dell’offerta rinnova l’interesse del potenziale concorrente a censurare la lex specialis nella sua interezza.
Ne consegue che, in questo caso, il termine decadenziale per impugnare i nuovi atti contenenti la disciplina di gara, anche nella parte non oggetto di modifica, riprende a decorrere dalla pubblicazione degli stessi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2019 n. 1958 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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5.2. E’, di contro, infondata l’eccezione di irricevibilità del ricorso principale sollevata dalla Centrale di committenza, in ragione del fatto che le modifiche alla disciplina di gara contenute negli atti ivi impugnati non attengono alle parti censurate dalla ricorrente.
La ripubblicazione integrale degli atti contenenti la disciplina di gara e non solamente delle parti modificate determina un effetto sostitutivo dei nuovi atti ai corrispondenti adottati in precedenza; al contempo la riapertura dei termini per la presentazione dell’offerta rinnova l’interesse del potenziale concorrente a censurare la lex specialis nella sua interezza.
Ne consegue che il termine decadenziale per impugnare i nuovi atti contenenti la disciplina di gara, anche nella parte non oggetto di modifica, ha ripreso a decorrere dalla pubblicazione degli stessi: e rispetto a tale dies a quo il ricorso principale risulta tempestivo.

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTIIn un sistema a giurisdizione soggettiva, quale è quello scelto dal nostro ordinamento, il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi non è finalizzato alla soddisfazione dell’astratto interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa, bensì alla tutela dell’interesse concreto e attuale di colui che esercita l’azione caducatoria.
L’interesse a ricorrere, quale specifica utilità che il ricorrente può trarre dalla pronuncia favorevole dell’Autorità giudiziaria in relazione alla propria posizione giuridica soggettiva, che si assume lesa dal provvedimento amministrativo impugnato, costituisce, quindi, una condizione dell’azione, che –come tale- deve sussistere al momento della proposizione del ricorso e perdurare per tutta la sua durata.
Di regola, l’interesse a ricorrere sorge con la conclusione del procedimento amministrativo, perché è solamente con l’adozione del provvedimento che la lesione alla posizione giuridica soggettiva del ricorrente diviene attuale.
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Nelle procedure ad evidenza pubblica di regola la lesione è collegata alla aggiudicazione del contratto.
Nondimeno nel tempo la giurisprudenza ha enucleato una serie di eccezione alla suvvista regola, ribadite dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 4/2018.
In particolare, il bando e in genere gli atti contenenti la legge di gara vanno impugnati immediatamente, anziché unitamente al provvedimento conclusivo del procedimento (i.e. l’aggiudicazione), quando contengono clausole in qualche modo preclusive della partecipazione alla procedura concorrenziale. Tali sono quelle che pongono requisiti di partecipazione di cui il potenziale concorrente non è in possesso o che fissano oneri che rendono difficile se non impossibile la formulazione di un’offerta o ancora che non consentono di presentare un’offerta remunerativa.
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5.1. Sempre preliminarmente e sempre in accoglimento di specifica eccezione formulata dalla difesa di parte resistente, il ricorso principale e il ricorso per motivi aggiunti vanno dichiarati inammissibili, ai sensi dell’articolo 35, comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., per carenza di interesse nella parte in cui censurano alcuni dei requisiti premiali fissati dalla legge di gara (segnatamente, quelli contraddistinti dalle lettere (g), (h) e (i) al punto 2.3.).
Invero, in un sistema a giurisdizione soggettiva, quale è quello scelto dal nostro ordinamento, il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi non è finalizzato alla soddisfazione dell’astratto interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa, bensì alla tutela dell’interesse concreto e attuale di colui che esercita l’azione caducatoria (cfr., TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 307/2018).
L’interesse a ricorrere, quale specifica utilità che il ricorrente può trarre dalla pronuncia favorevole dell’Autorità giudiziaria in relazione alla propria posizione giuridica soggettiva, che si assume lesa dal provvedimento amministrativo impugnato (cfr., TAR Puglia–Bari, Sez. II, sentenza n. 1316/2018), costituisce, quindi, una condizione dell’azione, che –come tale- deve sussistere al momento della proposizione del ricorso e perdurare per tutta la sua durata (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. III, sentenza n. 1713/2019).
Di regola, l’interesse a ricorrere sorge con la conclusione del procedimento amministrativo, perché è solamente con l’adozione del provvedimento che la lesione alla posizione giuridica soggettiva del ricorrente diviene attuale. Nelle procedure ad evidenza pubblica, quale quella oggetto del presente giudizio, di regola la lesione è collegata alla aggiudicazione del contratto.
Nondimeno nel tempo la giurisprudenza ha enucleato una serie di eccezione alla suvvista regola, ribadite dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 4/2018.
In particolare, per quanto qui di interesse, il bando e in genere gli atti contenenti la legge di gara vanno impugnati immediatamente, anziché unitamente al provvedimento conclusivo del procedimento (i.e. l’aggiudicazione), quando contengono clausole in qualche modo preclusive della partecipazione alla procedura concorrenziale. Tali sono quelle che pongono requisiti di partecipazione di cui il potenziale concorrente non è in possesso o che fissano oneri che rendono difficile se non impossibile la formulazione di un’offerta o ancora che non consentono di presentare un’offerta remunerativa (cfr., C.d.S., Sez. III, sentenza n. 1331/2019)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2019 n. 1958 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La stazione appaltante gode di ampia discrezionalità nel predeterminare i requisiti tecnico-professionali di partecipazione alla gara, con il solo limite che si tratti di requisiti attinenti all’oggetto dell’appalto da aggiudicare e proporzionati alla prestazione da rendere, in modo tale da non restringere ingiustificatamente la concorrenza e precostituire situazioni di assoluto privilegio a favore di uno o più operatori economici del settore.
Nell’ambito dell’ampia discrezionalità che le è riconosciuta, la stazione appaltante può pure pretendere requisiti di qualificazione eccedenti quelli minimi di legge, purché coerenti con l’obiettivo di interesse pubblico avuto di mira.

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5.3. Del pari infondata è l’ulteriore eccezione di inammissibilità delle doglianze avversarie perché finalizzate a sindacare scelte discrezionali dell’Amministrazione.
Non vi è dubbio che la stazione appaltante goda di ampia discrezionalità nel predeterminare i requisiti tecnico-professionali di partecipazione alla gara, con il solo limite che si tratti di requisiti attinenti all’oggetto dell’appalto da aggiudicare e proporzionati alla prestazione da rendere, in modo tale da non restringere ingiustificatamente la concorrenza e precostituire situazioni di assoluto privilegio a favore di uno o più operatori economici del settore (cfr., C.d.S., Sez. III, sentenza n. 3352/2017; C.d.S., Sez. V, sentenza n. 9/2017).
Nell’ambito dell’ampia discrezionalità che –come detto- le è riconosciuta, la stazione appaltante può pure pretendere requisiti di qualificazione eccedenti quelli minimi di legge, purché coerenti con l’obiettivo di interesse pubblico avuto di mira.
Entro i suddetti limiti è ammesso il sindacato giurisdizionale sulla legge di gara. Ed è questo tipo di controllo giurisdizionale che la società Al. S.r.l. ha sollecitato, lamentando l’irragionevolezza di alcuni requisiti di partecipazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2019 n. 1958 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAtto illegittimo se alla votazione partecipa il consigliere obbligato all'astensione.
Nel caso in cui sia stata approvata una deliberazione con la partecipazione di un consigliere che non ha rispettato l'obbligo di astensione, l'atto non può essere oggetto di convalida, in quanto si limiterebbe a emendare il vizio in modo solo formale e apparente e non a eliminare il fatto storico della partecipazione alla seduta del soggetto e dell'influenza che tale partecipazione ha determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri componenti.
Lo afferma il TAR Abruzzo-Pescara con la sentenza 09.09.2019 n. 209.
Il fatto
È stata impugnata la deliberazione consiliare di approvazione del progetto preliminare dei lavori per la realizzazione di un'area polifunzionale, con contestuale adozione di variante semplificata al vigente piano regolatore edilizio, per diversi motivi tra i quali la partecipazione di un consigliere comunale che non si sarebbe astenuto dal prendere parte alla discussione e avrebbe altresì votato a favore della deliberazione, pur riguardando interessi propri. Con motivi aggiunti il ricorrente ha poi chiesto l'annullamento della delibera, nel frattempo intervenuta, con cui il consiglio comunale ha convalidato la delibera.
L'articolo 78, comma 2, del Tuel impone agli amministratori di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai soli provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
L'astensione
Il Tar Abruzzo accoglie il ricorso e annulla i provvedimenti impugnati, sulla base della considerazione che la violazione dell'obbligo di astensione mira a evitare che la partecipazione alla seduta e alla votazione del soggetto portatore di un interesse egoistico possa influenzare le decisioni dell'organo collegiale «a prescindere dall'accertamento in concreto di tale influenza». Il pericolo, cioè, è valutato in astratto e in via presuntiva dallo stesso legislatore, per questo il vizio non appare emendabile con una mera nuova votazione priva della presenza del soggetto che ha partecipato e votato nella prima riunione.
Infatti la convalida, la cui funzione è quella di emendare il vizio originario e mantenere il provvedimento con efficacia retroattiva, si limita a rimuovere il vizio in modo solo formale e apparente, in quanto non può eliminare il fatto storico della partecipazione alla seduta del soggetto interessato e soprattutto l'influenza che tale partecipazione ha ormai determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri. Talché, concludono i giudici abruzzesi, l'atto convalidato resta comunque adottato con la partecipazione del consigliere che si sarebbe dovuto astenere.
La via maestra per «recuperare» quanto deciso dal Consiglio comunale allora non è la convalida, posto che il vizio non è emendabile, ma secondo il Tar Abruzzo sarebbe stato necessario provvedere ad una nuova e autonoma delibera, annullando in autotutela la precedente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.09.2019).

EDILIZIA PRIVATAÈ implicito l'interesse pubblico nel provvedimento regionale che annulla il permesso di costruire illegittimo.
I poteri di annullamento d'ufficio delle concessioni edilizie illegittime, conferiti, rispettivamente, al sindaco ed alla Regione, differiscono tra loro nei contenuti, oltre che per la natura o per l'entità degli interessi da prendere in considerazione.

È quanto afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.09.2019 n. 10795.
Il caso
Il Tribunale amministrativo per il Lazio, sez. II-quater, ha rigettato il ricorso presentato da un privato con il quale si chiedeva l'annullamento di una delibera regionale recante l'annullamento del permesso di costruire a sanatoria, precedentemente rilasciato dal Comune. Al vaglio del Giudice di prime cure venivano proposti dieci motivi di ricorso, ritenuti tutti privi di fondamento.
In via preliminare il ricorrente lamentava la mancata diffida al Comune, da parte della struttura regionale, a provvedere entro un congruo termine sull'annullamento in autotutela del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 34, comma 3, legge regionale n. 15 del 2008, con la conseguenza che la Giunta regionale, saltando un passaggio procedurale, ha potuto emanare la delibera di annullamento impugnata.
Il Giudice, nel ritenere del tutto infondato tale motivo di ricorso, si è avvalso di un principio di diritto molto importante nell'ordinamento italiano, ad avviso del Tribunale, infatti «la Regione ha operato sulla base di un ragionevole principio di economia procedimentale, saltando una fase del tutto inutile alla stregua della normativa vigente». Il ricorrente, poi, dopo aver evidenziato che il procedimento di annullamento era stato avviato oltre i termini di diciotto mesi, indicati dall'articolo 21-nonies della legge 241/1990, lamentava che tale termine non vale esclusivamente per l'Amministrazione che ha emesso l'atto amministrativo illegittimo, ma anche per ogni altro organo previsto dalla legge, quindi anche per la Regione.
Il Giudice, nel ricordare che il potere di annullamento straordinario regionale «differisce da quello attribuito all'amministrazione comunale perché non costituisce esercizio di attività di controllo in funzione di riesame, bensì esercizio di una competenza (concorrente) di pianificazione e programmazione dell'uso del territorio», ha ribadito la costante giurisprudenza amministrativa in merito alla diversità delle discipline in esame.
Infatti, il Tar ha evidenziato le differenze tra i poteri di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi illegittimi conferiti al Sindaco e quelli conferiti alla Regione: mentre per il primo il potere di annullamento consiste nella valutazione dell'interesse pubblico alla rimozione dell'atto invalido, alla stregua di tutte le altre effettive possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio riscontrato, per la Regione si manifesta nella valutazione dell'interesse pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della situazione esistente, in ragione del fatto che in tale materia la ragione ha meri poteri di indirizzo, di vigilanza e di controllo, ma non anche la facoltà di sostituirsi all'Ente locale nell'adozione di scelte particolari circa i modi e le forme di utilizzazione urbanistico-edilizia di una parte del territorio.
Alla luce di quanto emerso, essendo ascrivibile alla Regione, quindi, un'attività di vigilanza e controllo e non una facoltà sostitutiva dell'Ente territoriale, ne consegue che la competenza regionale in materia di pianificazione urbanistica ha carattere straordinario, eccezionale, cosicché la prevalenza delle scelte regionali su quelle comunali è da intendersi come una clausola di salvaguardia «in un sistema che vede i due Enti concorrere in modo paritario al corretto esercizio della gestione del territorio».
Per di più, ne discende poi la non doverosità dell'annullamento regionale, essendo un atto assolutamente discrezionale (si veda sul punto, Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.12.2006, n. 7594), tale che appare del tutto inapplicabile il su menzionato termine di diciotto mesi nell'ipotesi di annullamento straordinario.
Circa la possibilità di sanatoria, la Sezione ha confermato la sua costante giurisprudenza in tema di terzo condono edilizio in area vincolata, secondo cui «è possibile la sanatoria in tutto il territorio nazionale, mentre nelle aree sottoposte a vincolo è ammessa solo per le opere di restauro e risanamento conservativo, opere di manutenzione straordinaria, opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o di volume».
In altre parole, il condono edilizio di opere abusivamente realizzate in aree vincolate è possibile solo per gli interventi di minore rilevanza, tra i quali non rientra il caso specifico in esame. Il Tar Lazio, nel ricordare l'ampia giurisprudenza amministrativa, ma anche penale, ha quindi ribadito che «non possono essere sanate quelle opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici o nuova volumetria assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque di inedificabilità, anche relativa».
Conclusioni
In conclusione, il Giudice di prime cure si è anche espresso in merito all'istituto del riesame, rilevando che quando l'Amministrazione comunale riesamina la legittimità degli atti precedentemente emessi, entro un termine ragionevole, oggi stabilito in diciotto mesi, dovrà mettere a bilanciamento degli interessi contrapposti sia l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto quanto l'interesse del privato al mantenimento dello stesso.
Diversamente, la Regione, essendo, come anticipato, titolare di poteri di vigilanza e controllo, in ragione della concorrente competenza di pianificazione dell'uso del territorio, è tenuta a valutare l'interesse pubblico con esclusivo riferimento alla conservazione della situazione esistente rispetto agli strumenti urbanistici vigenti, senza tener conto di alcun bilanciamento di interessi tra quelli pubblici e privati (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.09.2019).
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SENTENZA
8. Il Collegio ritiene di dover esaminare a questo punto il decimo motivo di ricorso, che riveste anch’esso carattere sostanzialmente pregiudiziale rispetto alle ulteriori questioni di merito.
Con esso la ricorrente lamenta che nella specie il procedimento di annullamento sia stato avviato oltre il predetto termine di diciotto mesi previsto dall’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 nel testo modificato dalla L. n. 124/2015, a nulla rilevando i diversi termini prescritti da altre normative in materia (art. 39, DPR 380/2001 - art. 34, 1.r. 15/2008), posto che il termine di diciotto mesi vale non solo per l'Amministrazione che ha emesso l'atto amministrativo illegittimo ma anche per ogni "..altro organo previsto dalla legge", ampliando così la portata della norma e ricomprendendo anche la Regione.
8.1 Il motivo è infondato, alla luce di quanto affermato dal Supremo Consesso in perito al potere di annullamento straordinario regionale, il quale “differisce da quello attribuito all'amministrazione comunale perché non costituisce esercizio di attività di controllo in funzione di riesame, bensì esercizio di una competenza (concorrente) di pianificazione e programmazione dell'uso del territorio. Si conferma anche, in tal modo, la piena compatibilità della previsione rispetto all'impianto costituzionale, che per l'appunto prevede nella materia del governo del territorio una competenza concorrente (art. 117 Cost.)".
Il discrimine è stato chiarito, per la prima volta, in sede di Adunanza Plenaria, con la fondamentale sentenza 20.05.1980, n. 18: "I poteri di annullamento di ufficio delle licenze (ora concessioni) edilizie illegittime, conferiti, rispettivamente, al sindaco dagli art. 10 l. 06.08.1967 n. 765 e 1 l. 28.01.1977 n. 10 ed alla regione dagli art. 7 l. n. 765 cit. e 1 d.P.R. 15.01.1972 n. 8 (n.d.r., oggi art. 39 d.p.r. n. 380/2001) differiscono tra loro nei contenuti, oltre che per la natura o per l'entità degli interessi da prendere in considerazione, consistendo il primo nella valutazione dell'interesse pubblico alla rimozione dell'atto invalido alla stregua di tutte le altre effettive possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio riscontrato (modifica dello strumento urbanistico generale, formazione di un piano particolareggiato, invito ai soggetti interessati a presentare un progetto di lottizzazione, esecuzione o integrazione a carico dell'amministrazione di talune opere di urbanizzazione, etc.); il secondo, nella valutazione dell'interesse pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della situazione esistente, atteso che la ragione in detta materia ha soltanto poteri di indirizzo, di vigilanza e di controllo e non anche la facoltà di sostituirsi all'ente locale nell'adozione di determinate scelte circa i modi e le forme di utilizzazione urbanistico-edilizia di una parte del territorio".
Con un precedente specifico più recente, invece, questo Consiglio di Stato ha affrontato funditus la questione della natura giuridica del potere di annullamento regionale, così chiarendo che "lo stesso non è assimilabile all'attività di controllo (ontologicamente vincolata nell'an) ma va invece ricondotto alla concorrente competenza dell'autorità regionale in materia di pianificazione urbanistica. Ne consegue da un lato che l'esercizio di detto potere ha carattere eccezionale, in quanto la prevalenza della scelta della Regione su quella del comune rappresenta la clausola di salvaguardia in un sistema che vede i due Enti concorrere in modo paritario al corretto esercizio della gestione del territorio; dall'altro che l'annullamento regionale non è in alcun modo doveroso ma resta sempre -come rilevato dal Tribunale- assolutamente discrezionale. Ciò comporta, in sostanza, che in materia non è configurabile un obbligo della Regione di provvedere sull'istanza di terzi che sollecitano l'esercizio di quel potere" (Consiglio di Stato sez. IV, 18.12.2006, n. 7594).
Dalla diversa natura giuridica dei due poteri di annullamento d'ufficio (regionale e comunale) questo Consesso ha tratto, inoltre, importanti considerazioni quanto all'ambito applicativo e ai presupposti di esercizio del potere.
Quando l'amministrazione comunale riesamina, infatti, la legittimità dei propri titoli ai sensi dell'art. 21-nonies della l. n. 241/1990, essa è tenuta a valutare l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto invalido nel bilanciamento comparativo con l'interesse del privato al mantenimento del bene ed entro un termine ragionevole (oggi, a seguito della modifica apportata dall'articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1), della Legge 07.08.2015, n. 124, positivamente stabilito in diciotto mesi), soprattutto qualora la caducazione avvenga a notevole distanza di tempo e l'edificazione risulti completata.
Di converso, la regione (e qui, per delega, la provincia), risulta titolare soltanto di poteri di vigilanza e di controllo nell'esercizio della concorrente competenza di pianificazione dell'uso del territorio, sicché la stessa è tenuta a valutare l'interesse pubblico con esclusivo riferimento alla conservazione della situazione esistente rispetto agli strumenti urbanistici vigenti, secondo la scansione temporale disegnata dall'art. 39 del d.p.r. n. 380/2001 e, in precedenza, dall'art. 27, della l. 17.08.1942, n. 1150 e, soprattutto, senza che vengano in rilievo problemi di bilanciamento comparativo tra l'interesse pubblico al ristabilimento della legalità violata e l'interesse privato al mantenimento della costruzione.
L'esercizio del potere sostitutivo di annullamento regionale delle concessioni di costruzione, infatti, a differenza dei poteri di autotutela del comune, non comporta un riesame del precedente operato, ma è finalizzato a ricondurre le amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia, onde l'interesse pubblico all'annullamento è "in re ipsa" (così, con affermazione nitida, Consiglio di Stato, sez. IV, 16.03.1998 n. 443).
La considerazione è avvalorata, peraltro, dallo stesso dettato normativo, il quale conferma, anche nell'attuale versione, che "Il provvedimento di annullamento è emesso entro diciotto mesi dall'accertamento delle violazioni di cui al comma 1, ed è preceduto dalla contestazione delle violazioni stesse al titolare del permesso al proprietario della costruzione, al progettista, e al comune, con l'invito a presentare controdeduzioni entro un termine all'uopo prefissato (art. 39, d.p.r. n. 380/2001)” (Cons. Stato, sez. IV, 16.08.2017, n. 4010).
Da queste condivisibili considerazioni discende l’inapplicabilità del termine generale di diciotto mesi all’ipotesi di annullamento straordinario disciplinata dall’art. 39 del D.P.R. n. 380/2001 e dall’art. 34 della L.R. n. 15/2008.

ATTI AMMINISTRATIVINon è possibile riqualificare come accesso civico l'istanza già rigettata.
Se il richiedente ha invocato un preciso modello d'accesso agli atti, la pubblica amministrazione non può qualificare diversamente l'istanza, nemmeno per rendere possibile l'applicazione di una diversa disciplina e quindi accogliere la richiesta. Ciò indistintamente sia in sede di eventuale riesame della richiesta, sia per ricorso giurisdizionale che fa seguito a rigetto, o persino per forma «interpretativa» orale nel corso della discussione della causa nelle udienze. Resta semmai aperta in sede procedimentale la possibilità di strutturare in termini alternativi, cumulativi o condizionati la richiesta d'accesso.

Con la sentenza 06.09.2019 n. 1522, il TAR Campania-Salerno, Sez. I, fa nuova luce sulle possibilità offerte agli enti di soddisfare il diritto d'accesso del privato agli atti pubblici.
La vicenda
Una società di costruzioni aveva inoltrato istanza di accesso agli atti della procedura a un ente pubblico in qualità di stazione appaltante. L'ente aveva rigettato l'istanza adducendo in corso la procedura di validazione propedeutica all'adozione del provvedimento finale.
La società richiedente ha dunque proposto ricorso reclamando che l'ente avrebbe dovuto fare applicazione dei principi espressi dal codice dei contratti pubblici, non potendo differire l'accesso in ragione della mancata conclusione del procedimento di verifica del progetto. Nel corso della discussione orale del merito della controversia, il procuratore della società ricorrente ha richiamato l'applicabilità della disciplina dell'accesso civico.
La decisione
L'accesso alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni si declina oggi in quattro diversi istituti ognuno dei quali caratterizzato da propri presupposti, limiti, eccezioni e rimedi. Vige l'ordinario accesso documentale che consente ai soggetti interessati, in quanto portatori di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata, di prendere visione e di estrarre copia di dati incorporati in supporti documentali formati o comunque detenuti da soggetti pubblici.
A questa tipologia si affianca l'accesso procedimentale che garantisce l'ostensione degli atti e dei documenti acquisiti al procedimento amministrativo, garantendo una partecipazione informata e, come tale, effettiva. Più giovane è l'accesso civico di chiunque, a documenti, informazioni o dati di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente imposta. Infine vige oggi l'accesso civico generalizzato a dati, informazioni o documenti, sebbene non assoggettati all'obbligo di pubblicazione, parimenti concesso al singolo in qualità di cittadino, senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva e senza necessità di apposita motivazione giustificativa (il cosiddetto Freedom of Information Act).
Si tratta a ben guardare di istituti che non configurano un diritto unico, ma realizzano un insieme di sistemi di garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza da parte dei soggetti pubblici. In questa prospettiva, l'asse valoriale di volta in volta preso a riferimento condiziona sul piano operativo, i termini e le modalità del bilanciamento tra la trasparenza e gli altri interessi pubblici e privati con essa confliggenti. Sul piano organizzativo muta, l'assetto delle competenze. Sul piano rimediale muta la strutturazione degli strumenti a disposizione del privato in caso di rifiuto o compressione delle aspettative ostensive.
Va quindi rimarcata la necessità di tenere saldamente distinte le fattispecie, al fine di calibrare i diversi interessi in gioco, allorché si renda necessario un bilanciamento tra questi interessi. A giudizio del Tar non è dunque possibile riqualificare l'istanza formulata dal ricorrente, veicolandola nei più comprensivi ambiti dell'accesso civico generalizzato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.10.2019).
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SENTENZA
4. Il ricorso è infondato.
4.1 Va, preliminarmente, precisato che l’istanza di accesso agli atti è stata formulata dalla interessata ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 241 del 1990.
La vicenda va, dunque, esaminata con rifermento all’assetto disciplinato da tale norma cui deve essere affiancata –in ragione della specifica procedura– la norma contenuta nell’art. 53 del d.lgs 50 del 2016.
Non può, infatti, trovare applicazione la diversa disciplina dell’accesso civico –disciplinata dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33 del 2013- cui ha fatto riferimento nella discussione orale del merito della controversia il procuratore costituito della ricorrente proprio perché, nel caso di specie, non è stata formulata una istanza di accesso civico.
Ritiene, pertanto, il Collegio che non ricorrano i presupposti per estendere alla presente controversia i principi espressi dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato nella sentenza n. 3780 del 2019 poiché in tale controversia, diversamente che nel caso in esame, l’istanza fu formulata originariamente proprio ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33 del 2013.
Nel caso in cui l’opzione dell’istante sia espressa per un determinato modello, resta precluso alla pubblica amministrazione –fermi i presupposti di accoglibilità dell’istanza- di diversamente qualificare l’istanza stessa al fine di individuare la disciplina applicabile; in correlazione, l’opzione preclude al privato istante la conversione in sede di riesame o di ricorso giurisdizionale (cfr., per l’inammissibilità dell’immutazione in corso di causa dell’actio ad exhibendum, pena la violazione del divieto di mutatio libelli e di ius novorum, Cons. Stato, IV, 28.03.2017, n. 1406 e id., V, n. 1817/2019 cit.).
4.2 Dispone l’art. 53 del d.lgs 50 del 2016 che “salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”-
La stessa norma, al comma 2, prevede specifiche ipotesi di differimento giustificate dalla necessità di salvaguardare la posizione dei concorrenti di una gara, relativamente a profili di tutela della privacy e della concorrenza.
Ritiene il Collegio che nelle ipotesi di differimento possa farsi rientrare anche quella relativa alla validazione del progetto in quanto atto avente natura endoprocedimentale.
La validazione, infatti, chiude il processo di progettazione e di verifica e, di fatto, attesta che il progetto può essere posto a base di gara: essa è fase prodromica alla selezione del soggetto a cui affidare l’esecuzione oppure l’ulteriore sviluppo e il completamento della progettazione e l’esecuzione dell’opera.
Ciò posto, in considerazione della natura endoprocedimentale degli atti oggetto della richiesta di accesso, risulta legittimo il diniego di accesso opposto dalla stazione appaltante che dovrà, tuttavia, mettere a disposizione dell’interessato gli atti del procedimento allorquando esso si sia concluso con eventuale validazione del progetto.

APPALTI:  La soglia di anomalia si cristallizza dopo la definizione del perimetro dei concorrenti.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 02.09.2019 n. 6013 chiarisce che la cosiddetta cristallizzazione della soglia di anomalia e quindi la sua immodificabilità (comma 15 dell'articolo 95 del codice dei contratti) si verifica dopo la chiusura della fase di ammissione delle offerte, e che solo le «modifiche soggettive successive all'esperimento del soccorso istruttorio sono soggette al canone di invarianza».
Il ricorso
Il ricorrente ha impugnato la pronuncia di primo grado per una, presunta, scorretta interpretazione del principio di invarianza della soglia di anomalia come disciplinato nel comma 15 dell'articolo 95 del codice dei contratti.
La norma precisa che «ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
Nella seduta pubblica, per l'aggiudicazione di una procedura negoziata preordinata all'affidamento di lavori di manutenzione da aggiudicarsi al ribasso previa esclusione automatica delle offerte anomale, la commissione di gara procedeva al sorteggio del criterio di individuazione della soglia di anomalia, ante modifica apportata dalla legge 55/2019, congelando il procedimento in attesa della regolarizzazione documentale di un concorrente.
Solo dopo l'esclusione di questo concorrente, che non ha regolarizzato secondo le richieste, la commissione di gara ha proceduto con la determinazione della soglia di anomalia.
Secondo il ricorrente questa modalità deve ritenersi illegittima in quanto la commissione di gara avrebbe dovuto calcolare la soglia della potenziale anomalia considerando tutte le offerte ammesse comprese quelle introdotte nel procedimento con riserva.
In questo modo, se la «soglia fosse stata calcolata immediatamente, ne sarebbe discesa l'aggiudicazione in proprio favore, avendo formulato una offerta migliore».
La sentenza
Sotto il profilo pratico, quindi, al giudice di Palazzo Spada viene posta la questione della corretta individuazione del momento del procedimento di gara in cui si determina il «congelamento» della soglia di anomalia.
Il giudice rammenta che il cosiddetto principio di invarianza «è stato introdotto (…) per evitare che le variazioni sulle ammissioni/esclusioni dalle gare, ancorché accertate giurisdizionalmente, sortiscano effetti in punto di determinazione delle medie e delle soglie di anomalia, da ritenersi ormai cristallizzate, (…), al momento dell'aggiudicazione».
La regola mira a «sterilizzare» l'alterazione della trasparenza e della oggettività del confronto tra appaltatatori dovute a mere partecipazioni «di fatto» rendendo irrilevante «la promozione di controversie meramente speculative e strumentali da parte di concorrenti» che non sono collocati utilmente in graduatoria e che sono mossi dalla sola finalità, «una volta noti i ribassi offerti e quindi gli effetti delle rispettive partecipazioni in gara sulla soglia di anomalia, di incidere direttamente su quest'ultima traendone vantaggio (Consiglio di Stato sentenza n. 4664/2018)». Questo criterio costituisce espressione del principio più generale di conservazione degli atti giuridici.
Secondo il giudice, la norma è chiara nell'individuare il momento della «cristallizzazione» della soglia di anomalia «nella definizione, in via amministrativa, della fase di ammissione», momento questo che riguarda anche le eventuali fasi di regolarizzazione relative alle situazioni in cui sia stato attivato il soccorso istruttorio.
In questo senso, discende, dalla norma, che l'eventuale «fase di regolarizzazione rientra ancora nella fase di ammissione (tanto che l'offerta ammessa al soccorso istruttorio deve ritenersi ammessa "con riserva")» e solo le modifiche soggettive «successive all'esperimento del soccorso istruttorio sono soggette al canone di invarianza».
Nel caso concreto, pertanto, la fase di ammissione non è risultata ancora conclusa proprio per effetto delle ammissioni con «riserva» che ovviamente prolungano questa fase fino all'esito del soccorso istruttorio. Solo dopo quel momento, e quindi solo dopo aver definito chiaramente il perimetro dei competitori è possibile procedere alla determinazione della soglia di anomalia con l'effetto della cristallizzazione/invarianza.
Più in generale, si legge in sentenza, si è affermato che la fase di ammissione non possa ritenersi conclusa «almeno finché non sia spirato il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni» e comunque «finché la stessa stazione appaltante non possa esercitare il proprio potere di intervento di autotutela (…) e, quindi, sino all'aggiudicazione (Consiglio di Stato sentenza n. 2579/2018)» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2019).
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SENTENZA
Come è noto, il c.d. principio di invarianza (a tenore del quale, nella formulazione risultante prima della, non rilevante, integrazione operata con il d.l. n. 32/2019, conv. con modifiche dalla l. n. 55/2019, “ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo delle medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte”), è stato introdotto con l'art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 e riprodotto nel vigente Codice dei contratti pubblici, all'art. 95, comma 15, per evitare che le variazioni sulle ammissioni/esclusioni dalle gare, ancorché accertate giurisdizionalmente, sortiscano effetti in punto di determinazione delle medie e delle soglie di anomalia, da ritenersi ormai cristallizzate, alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, al momento dell'aggiudicazione.
La regola mira a sterilizzare, per comune intendimento, l’alterazione della trasparenza e della correttezza del confronto concorrenziale, potenzialmente correlata alla partecipazione di fatto di un concorrente solo successivamente estromesso della gara (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22.02.2017, n. 841, rendendo irrilevante “la promozione di controversie meramente speculative e strumentali da parte di concorrenti non utilmente collocatisi in graduatoria mossi dall'unica finalità, una volta noti i ribassi offerti e quindi gli effetti delle rispettive partecipazioni in gara sulla soglia di anomalia, di incidere direttamente su quest'ultima traendone vantaggio” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.07.2018, n. 4664).
Il criterio, che, come tale, traduce anche il principio di conservazione degli atti giuridici, ha dovuto confrontarsi con la regola, introdotta con l’art. 120, commi 2-bis e 6-bis c.p.a., dell’onere di immediata impugnazione delle ammissioni (e delle esclusioni). Invero, la giurisprudenza ha precisato che l'autonomia della fase di ammissione e esclusione e la previsione di un apposito rito accelerato impediscono l'immediata “cristallizzazione delle medie”, giacché l'accoglimento dell'impugnazione delle ammissioni “non può non retroagire”, e che, diversamente opinando, “la stabilizzazione della soglia sarebbe ‘sterilizzata’ da ogni eventuale illegittimità di una ammissione o esclusione tempestivamente contestata” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 27.04.2018, n. 2579).
Ciò posto, quanto alla individuazione del momento temporale idoneo a cristallizzare le offerte, la norma è chiara nell’individuarlo nella definizione, in via amministrativa, della fase di ammissione (che, naturalmente, riguarda anche la non ammissione, cioè la esclusione), includendovi, peraltro, anche la fase di regolarizzazione, che si riferisce alle situazioni in cui sia stato attivato il soccorso istruttorio.
Ne discende che, nella logica della norma, la eventuale fase di regolarizzazione rientra ancora nella fase di ammissione (tanto che l’offerta ammessa al soccorso istruttorio deve ritenersi ammessa “con riserva”), di tal che solo modifiche soggettive successive all’esperimento del soccorso istruttorio sono soggette al canone di invarianza.
Risulta dunque corretto nel caso di specie l’operato della stazione appaltante, che ha ritenuto “non conclusa” la fase di ammissione fino alla definizione del soccorso, con ciò sottraendo la vicenda alla applicazione della regola in questione.
Del resto, si è più in generale ritenuto che la ridetta fase non possa ritenersi conclusa “almeno finché non sia spirato il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni” e comunque “finché la stessa stazione appaltante non possa esercitare il proprio potere di intervento di autotutela ed escludere ‘un operatore economico in qualunque momento della procedura’ (art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016) e, quindi, sino all'aggiudicazione (esclusa, quindi, l'ipotesi di risoluzione "pubblicistica" di cui all'art. 108, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, successiva alla stipula del contratto)” (cfr. Cons. Stato sez. III, 27.04.2018, n. 2579).
La sentenza impugnata, essendosi conformata al riassunto principio, deve perciò ritenersi, sul punto, esente da censure.

APPALTI SERVIZIOk all'affidamento parziale se lo prevede il bando.
È legittimo l'affidamento parziale del servizio, per un importo e durata inferiori a quelli preventivati con la gara, se la stazione appaltante ha previsto l'ipotesi nel capitolato d'appalto –in relazione alla particolare tipologia dell'appalto– e abbia adeguatamente motivato la decisione.

In questo senso, il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, con la sentenza 30.08.2019 n. 4428.
La vicenda
Il ricorrente, aggiudicatario di una gara per la gestione del servizio nido/micro-nido per l'anno scolastico 2018/2019, ha impugnato la determinazione di affidamento che ha assegnato la gestione solo parziale del servizio (per un importo pari a 66.620,01 euro a fronte di un valore a basa d'asta pari a 501.006,95 euro) e per un periodo inferiore rispetto all'anno scolastico (l'affidamento avveniva per soli tre mesi). Ritenendo l'aggiudicazione parziale illegittima, il censurante si rivolge al giudice per ottenere la gestione dell'intero servizio appaltato (aggiudicato) o, in alternativa, il risarcimento del danno per l'equivalente.
La stazione appaltante convenuta (un Comune) ribadisce –in difesa– che l'assegnazione parziale del servizio è stata determinata dal numero di iscritti all'asilo nido nettamente inferiore a quello prospettato.
In relazione al tempo di gestione (per soli tre mesi), l'ente ha rilevato che il ritardo nella stipula del contratto risultava interamente addebitabile a comportamenti dello stesso aggiudicatario restio «ad inviare i documenti completi nonostante le richieste del Comune, con particolare riferimento alla cauzione».
Con ulteriore annotazione –che il collegio campano ha ritenuto dirimente– la stazione appaltante ha evidenziato che il capitolato d'appalto ben esplicitava la possibilità, in presenza di motivate ragioni come quelle esposte, di affidare un servizio ridotto rispetto alla durata e importo preventivati.
La sentenza
Il giudice ha condiviso il ragionamento espresso dalla stazione appaltante e respinto il ricorso. In più parti, effettivamente, il capitolato d'appalto (articoli 2, 3 e 4 ) ha puntualizzato le prerogative correlate a una aggiudicazione parziale e che eventuali ritardi nell'inizio delle attività, conseguenti alle occorrenti procedure amministrative, non avrebbero potuto a nessun titolo essere fatti valere dall'organismo aggiudicatario.
Non solo, la stazione appaltante, con il documento citato, si è dimostrata particolarmente avveduta prevendendo che «in caso di prestazioni di servizio di durata inferiore a quella prevista nel periodo di affidamento per obiettive esigenze sopravvenute , sia in fase di avvio sia in fase di svolgimento, rispetto ai presupposti in base ai quali si è provveduto all'affidamento, l'aggiudicataria non» avrebbe potuto «avanzare alcuna richiesta risarcitoria di nessun genere, neanche di mancato utile, né potrà ricorrere alla risoluzione del contratto».
Analoghe precisazioni venivano indicate anche in relazione alla base d'asta configurata come importo indicativo, variabile (al ribasso evidentemente) «in dipendenza della durata dell'appalto, della particolare tipologia e necessità dell'utenza e nello specifico con riferimento alla richiesta dell'utenza medesima di avvalersi del servizio a domanda individuale di cui al presente capitolato nonché alla conseguente composizione dei moduli in base al rapporto educatore/bambini». Lo stesso numero degli iscritti, poi, poteva condizionare la base d'asta.
In definitiva, gli atti di gara fin dall'origine risultano piuttosto chiari nel prevedere una assegnazione del servizio «potenzialmente variabile, in ragione di fattori (quale quello del numero di iscrizioni, chiaramente incerto) che non era possibile predeterminare se non quanto al limite massimo ma non a quello minimo».
La stessa base d'asta, pertanto, è stata strutturata come di importo calibrato e calibrabile sulla reale situazione che si sarebbe venuta a creare dopo le iscrizioni degli utenti.
Per la stessa ragione, inoltre, il servizio poteva non essere attuato in alcune strutture laddove il numero di iscrizioni non fosse stato sufficiente. In difetto, il servizio avrebbe dovuto essere assegnato addirittura in "perdita" per la stazione appaltante, considerato che l'appalto era condizionato da un ipotizzato "rapporto prestazione/pagamento del tutto basato sulle effettive iscrizioni" al servizio di asilo nido (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.09.2019).

URBANISTICA: Reiterazione del vincolo espropriativo e onere motivazionale.
La previsione di un’esclusiva iniziativa comunale nell’attuazione delle misure per realizzare i servizi pubblici (parcheggi), conferendo natura espropriativa e non conformativa al vincolo, rende necessaria una specifica motivazione in ordine alla reiterazione del predetto vincolo, oltre alla previsione di una forma di indennizzo a ristoro del sacrificio imposto alla proprietà privata (TAR Lombardia-Milano, Sez II, sentenza 20.08.2019 n. 1896 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.1. La doglianza è fondata.
Va premesso che il P.G.T. approvato dal Comune di Livigno ha classificato, diversamente da quanto stabilito dal previgente P.R.G., una parte delle aree di proprietà dei ricorrenti in ambito “T2- zone per nuove attrezzature turistico alberghiere” (per circa 2.000 mq di superficie) e a verde privato vincolato “Zona Vpv” (per circa 1.700 mq di superficie), mantenendo invece sostanzialmente inalterata la destinazione residenziale (area “B1– zone residenziali, pedonali e commerciali”) e la destinazione a zona “AC – Aree per attrezzature di interesse collettivo”, sebbene quest’ultima in misura ridotta rispetto al passato (pari a 1.117 mq).
La predetta classificazione è stata motivata, in linea generale, con la necessità di delocalizzazione di tutte le attività artigianali e annonarie in area già urbanizzata, collocandole in un’area periferica a ciò destinata, essendo questo uno dei macro-obiettivi strategici del nuovo strumento urbanistico. Quanto alla natura del vincolo relativo alla zona “AC – Aree per attrezzature di interesse collettivo”, reiterato rispetto al passato, va segnalato che il Comune ha manifestato l’intenzione di procedere di propria (esclusiva) iniziativa per dar corso ad un intervento diretto alla realizzazione dei parcheggi, in continuità con i terreni assoggettati alla medesima normativa presenti nell’area (cfr. art. 12 delle Norme di attuazione del P.d.S.: all. 12 e 15 al ricorso).
La previsione di un’esclusiva iniziativa comunale nell’attuazione delle misure per realizzare i servizi pubblici (parcheggi), conferendo natura espropriativa e non conformativa al vincolo (cfr., sulla distinzione, Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 20.05.1999; Consiglio di Stato, IV, 31.08.2018, n. 5125), avrebbe reso necessaria una specifica motivazione in ordine alla reiterazione del predetto vincolo, oltre alla previsione di una forma di indennizzo a ristoro del sacrificio imposto alla proprietà privata: nella fattispecie de qua, oltre a non essere stato previsto alcun indennizzo, non risulta nemmeno essere stata fornita una motivazione specifica e puntuale, in grado di giustificare l’attualità dell’interesse pubblico alla reiterazione del vincolo espropriativo.
Ciò appare in linea con la consolidata giurisprudenza, che chiarisce come la reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti, di cui all’art. 9 del D.P.R. n. 327 del 2001, «non può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta relativa alle singole aree finalizzata a modulare e considerare le differenti esigenze, pubbliche e private, in quanto l’amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti, è tenuta ad accertare che l’interesse pubblico sia ancora attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre l’accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell’indennità di espropriazione, per cui “l’obbligo di motivazione in materia di reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione del vincolo sia disposta in occasione dell’adozione di variante generale al p.r.g.” (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.05.2000, n. 2706; in termini Consiglio di Stato, sez. IV, 07.06.2012 n. 3365)» (Consiglio di Stato, IV, 11.03.2013, n. 1465; si veda, altresì, IV, 28.10.2013, n. 5197; TAR Toscana, I, 25.06.2018, n. 923; TAR Piemonte, I, 20.02.2015, n. 347).
Del resto, l’onere motivazionale specifico richiesto per il caso di reiterazione dei vincoli espropriativi decaduti –pur costituendo un’eccezione nella materia della pianificazione urbanistica generale, in relazione alla quale, in ragione dell’ampia discrezionalità di cui gode l’Amministrazione, l’onere di motivazione può essere assolto anche in termini complessivi– è finalizzato a garantire la perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati, in misura idonea ad escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti (in tal senso, Consiglio di Stato, IV, 28.05.2019, n. 3466).
2.2. Da quanto esposto in precedenza, discende l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con il conseguente annullamento della reiterazione del vincolo espropriativo e della classificazione a zona “AC – Aree per attrezzature di interesse collettivo” della corrispondente parte dell’area di proprietà dei ricorrenti.

URBANISTICASecondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione.

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In ordine al mancato riconoscimento di quanto richiesto dai ricorrenti in sede di presentazione delle osservazioni, va ribadito l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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I ricorrenti contestano la scelta del Comune, non condividendo le destinazioni assegnate alle aree di loro proprietà, anche in ragione della asserita non coerenza delle previsioni comunali poste alla base delle scelte pianificatorie e relative alle prospettive di sviluppo del turismo nella zona, con conseguente grave penalizzazione dei settori produttivi come quello in cui essi operano.
Tuttavia le contestazioni formulate dai ricorrenti riguardano il merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede.
Difatti, secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 751; 27.02.2017, n. 451).
Come già rilevato in precedenza, lo strumento urbanistico previgente classificava le aree per la gran parte in zona Ac (Aree per attrezzature di interesse comune) ed in zona P (Aree per i parcheggi pubblici) e, in misura minore, in zona B2 (Zone residenziali, già edificate).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 17.04.2019, n. 868; 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
In ordine, poi, al mancato riconoscimento di quanto richiesto dai ricorrenti in sede di presentazione delle osservazioni, va ribadito l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393)
(TAR Lombardia-Milano, Sez II, sentenza 20.08.2019 n. 1896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDal Consiglio di Stato nuovo «no» all'accesso civico generalizzato sugli atti delle gare.
Per ritenere ammissibile l'accesso civico agli atti del procedimento d'appalto è necessario un intervento esplicito del legislatore non essendo sufficiente evidenziare un mancato coordinamento tra norme (tra il decreto trasparenza e il codice dei contratti).

In questo senso, la sentenza 02.08.2019 n. 5503 del Consiglio di Stato, Sez. V.
Il caso
La quinta sezione è pervenuta, quindi, a soluzioni differenti rispetto alla terza sezione (sentenza n. 3780/2019) che ha ammesso l'accesso civico generalizzato anche nella materia (e quindi agli atti della fase pubblicistica e civilistica) degli appalti.
Si premette in sentenza che nell'ambito delle tre fattispecie di accesso (documentale in base alla legge 241/1990, accesso civico "semplice" e accesso civico generalizzato previsti nel decreto legislativo 33/2013) non è rinvenibile alcuna posizione di superiorità in quanto ciascuna fattispecie ha una specifica disciplina. In particolare, l'accesso civico generalizzato non può essere considerato come fattispecie di "chiusura" che subentra qualora le altre fattispecie non possano essere applicate.
Nei rapporti reciproci, si rileva, «ciascuno opera nel proprio ambito, sicché non vi è assorbimento dell'una fattispecie in un'altra; e nemmeno opera il principio dell'abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva nel tempo (…) tale che l'un modello di accesso sostituisca l'altro, o gli altri, in attuazione di un preteso indirizzo onnicomprensivo che tende ad ampliare ovunque i casi di piena trasparenza dei rapporti tra pubbliche amministrazioni, società e individui».
Le eccezioni
L'aspetto che distingue la pronuncia tanto da giungere a soluzioni opposte (rispetto alla sentenza n. 3780/2019), è che nell'ambito del comma 3 dell'articolo 5-bis del decreto legislativo 33/2013 (in cui si prevedono i limiti all'accesso civico generalizzato) non opera una esclusione per materie ma, letteralmente, la norma individua in realtà dei casi –ovvero eccezioni assolute- in cui la trasparenza è costretta a recedere. Si tratta di casi la cui individuazione è espressamente rimessa –per volontà del legislatore- «ad altre disposizioni di legge, direttamente o indirettamente, richiamate dallo stesso comma 3 (sicché l'ampiezza dell'eccezione dipende dalla portata della normativa cui l'art. 5-bis, comma 3, rinvia)».
In specie, devono ritenersi sottratte «dall'accesso generalizzato: i casi di segreto di Stato ed i casi di divieti di accesso o di divulgazione previsti dalla legge, i casi elencati nell'art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (che, al suo interno, ricomprende intere materie), i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti».
In tutti questi casi, non deve operare alcun bilanciamento tra contrapposti interessi per verificare se l'accesso civico generalizzato debba o meno essere ammesso. Sono situazioni che in realtà trovano «altrove» una specifica disciplina e a questa occorre rifarsi. Più nel dettaglio, nel caso dell'accesso agli atti dell'appalto, è l'articolo 53 che contiene la specifica indicazione dei dati/elementi che, esclusivamente, possono legittimare l'ostensione.
Nella sentenza si chiarisce che le eccezioni riguardano «tutte le ipotesi in cui vi sia una disciplina vigente che regoli specificamente il diritto di accesso, in riferimento a determinati ambiti o materie o situazioni, subordinandolo a "condizioni, modalità o limiti" peculiari», come nel caso degli appalti appunto.
Il diritto di accesso agli atti della gara, pertanto, risulta espressamente perimetrato «mediante il rinvio agli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 e, quindi, mediante la fissazione delle deroghe del comma 2 (che elenca ipotesi di mero differimento) e del comma 5 (che elenca diverse ipotesi di esclusione assoluta ed un'ipotesi di esclusione relativa – quest'ultima dovuta all'eccezione alla lettera "a" posta dal comma 6)».
Conclusioni
Si tratta di limiti che rispondono a scopi connaturati alla particolare tipologia di procedimento a evidenza pubblica, quale quello di preservarne la fluidità di svolgimento (tanto da sottrarre i documenti procedimentali, mediante il differimento, anche all'accesso che l'articolo 10 della legge n. 241 del 1990 riconosce in ogni momento e fase ai partecipanti) e di limitare la possibilità di collusioni o di intimazioni degli offerenti. Per giungere, infine, anche al divieto di divulgazione secondo l'articolo 53, comma 3.
Importanti anche le ulteriori considerazioni. Tra queste, l'affermazione secondo cui ammettere (sempre) l'accesso civico generalizzato in tema di appalti avrebbe per effetto quello di annullare le potenzialità (e i limiti) dell'articolo 53 del codice. In sostanza, ogni soggetto avrebbe comunque accesso agli atti attraverso un utilizzo distorto della fattispecie del Foia.
Ulteriore conseguenza è che le stesse stazioni appaltanti, se si affermasse la prevalenza dell'accesso civico generalizzato, subirebbero un notevole «incremento dei costi di gestione del procedimento di accesso» considerato che l'attuale «applicazione della normativa sull'accesso generalizzato, (…) si basa sul principio della gratuità (salvo il rimborso dei costi di riproduzione)».
Infine, si ribadisce che la materia degli appalti risulta ben presidiata –sotto il profilo dei controlli e degli obblighi di trasparenza– dalle funzioni dell'Anac e dalla previsioni (contenute nel decreto legislativo 33/2013) dell'obbligo di pubblicare, sostanzialmente, ogni atto/dato afferente i procedimenti di gara (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.09.2019).

APPALTI SERVIZIObbligo di verifica di congruità anche su affidamenti ad aziende speciali.
Un Comune può costituire un'azienda speciale alla quale affidare in house un servizio pubblico precedentemente gestito da una società fallita, partecipata dall'ente, ma l'affidamento è comunque assoggettato alla verifica di congruità economica.

La vicenda
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 31.07.2019 n. 5444 ha preso in esame il caso di un'amministrazione che, dopo il fallimento di una società da essa interamente partecipata alla quale aveva affidato il servizio di gestione del ciclo integrato dei rifiuti, ha costituito un'azienda speciale in base all'articolo 114 del Tuel, alla quale ha affidato lo stesso servizio.
Al Comune era stata contestata la violazione dell'articolo 14 del Dlgs 175/2016 secondo il quale nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita.
La decisione
Il Consiglio di Stato ha chiarito che la pubblica amministrazione controllante può gestire il servizio pubblico, in precedenza affidato alla società a partecipazione pubblica dichiarata fallita, mediante la costituzione di un'azienda speciale e, più in generale, attraverso forme di gestione diverse dalla società a partecipazione pubblica, come pure decidere di rivolgersi al mercato con una procedura di gara.
Nella sentenza, infatti, i giudici amministrativi hanno evidenziato che il divieto ha a oggetto la costituzione di nuove società (nonché l'acquisizione di partecipazioni societarie e il loro mantenimento), per cui l'espresso riferimento a una delle modalità di gestione del servizio pubblico (la società a partecipazione pubblica) porta a escludere dal divieto le altre modalità, per la presunzione dell'uso preciso e consapevole da parte del legislatore dell'espressioni contenute nelle norme.
Secondo il Consiglio di Stato, l'estensione del divieto ad altre modalità di gestione del servizio pubblico potrebbe avvenire solo attraverso un'interpretazione analogica, ma la norma è derogatoria dell'ordinaria capacità d'agire delle amministrazioni pubbliche e, per questo, ne è vietata l'interpretazione analogica secondo l'articolo 14 delle preleggi: pertanto, il divieto non può essere esteso a casi diversi da quello cui espressamente si riferisce.
L'azienda speciale
I giudici amministrativi hanno evidenziato come l'azienda speciale abbia del resto caratteri diversi da quelli della società a partecipazione pubblica, in quanto è un ente pubblico, appartenente alla categoria degli enti strumentali, con un'articolazione di organi ben differente da quelli societari (mancando l'assemblea), nonché con un regime normativo per i beni e le risorse umane di tipo pubblicistico. Quel che differenzia l'azienda speciale dalla società a partecipazione pubblica non è la natura dell'attività, che consiste pur sempre nella produzione in forma imprenditoriale di beni e servizi, e, piuttosto, nella condizione di più organico collegamento dell'azienda speciale all'ente locale.
I giudici amministrativi hanno chiarito inoltre che, essendo l'azienda speciale il modello di gestione del servizio pubblico più vicino alla completa internalizzazione o autoproduzione del servizio stesso, essa è un soggetto in house, al pari della società a partecipazione pubblica cosiddetta in house, inteso come longa manus dell'amministrazione pubblica per la realizzazione di lavori o opere o per l'espletamento di servizi. L'affidamento del servizio pubblico a un'azienda speciale configura, pertanto, un cosiddetto affidamento in house.
Sulla base di questa configurazione del rapporto con l'azienda speciale affidataria, l'amministrazione è tenuta a effettuare la valutazione sulla congruità economica dell'offerta di soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, secondo quanto stabilito dall'articolo 192, comma 2, del Dlgs 50/2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.09.2019).

APPALTI: Soccorso istruttorio
Nelle gare di appalto, il c.d. soccorso istruttorio ha come finalità quella di consentire l’integrazione della documentazione già prodotta in gara, ma ritenuta dalla stazione appaltante incompleta o irregolare sotto un profilo formale, non anche di consentire all’offerente di produrre atti in data successiva a quella di scadenza del termine di presentazione delle offerte, in violazione del principio di immodificabilità e segretezza dell’offerta, imparzialità e par condicio delle imprese concorrenti.
Il c.d. soccorso istruttorio consente, infatti, di completare dichiarazioni o documenti già presentati, non di introdurre documenti nuovi; conseguentemente esso non può essere utilizzato per supplire a carenze dell’offerta successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di errori materiali o refusi.
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2.5. Né è possibile sostenere l’ammissibilità del soccorso istruttorio venendo in rilievo carenze riferite all’offerta tecnica.
Come chiarito, infatti, dalla univoca giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche) nelle gare di appalto, il c.d. soccorso istruttorio ha come finalità quella di consentire l’integrazione della documentazione già prodotta in gara, ma ritenuta dalla stazione appaltante incompleta o irregolare sotto un profilo formale, non anche di consentire all’offerente di produrre atti in data successiva a quella di scadenza del termine di presentazione delle offerte, in violazione del principio di immodificabilità e segretezza dell’offerta, imparzialità e par condicio delle imprese concorrenti.
Ed, infatti, il c.d. soccorso istruttorio consente di completare dichiarazioni o documenti già presentati, non di introdurre documenti nuovi; conseguentemente esso non può essere utilizzato per supplire a carenze dell’offerta successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di errori materiali o refusi.
2.6. L’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede espressamente che le carenze formali possono essere sanate attraverso la procedura del c.d. soccorso istruttorio “… con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica ed all’offerta tecnica”, con la conseguenza che nella fase precedente all’esame dell’offerta tecnica ed economica la stazione appaltante, in caso di carenze formali, ha l’alternativa tra l’esclusione dalla gara della concorrente o il c.d. soccorso istruttorio, mentre nella fase dell’esame di dette offerte –già ammesse– l’amministrazione non può consentire integrazioni.
Tale limite all’operatività dell’istituto del soccorso istruttorio è, dunque, disposto in modo inequivocabile dalla legge e sostenuto dalla giurisprudenza secondo cui nell’ambito di una procedura di gara pubblica, la predetta disposizione di cui all’ art. 83, co. 9 del d.lgs. n. 50/2016, non include dal beneficio del c.d. soccorso istruttorio le carenze relative all’offerta tecnica presentata dall’operatore economico partecipante alla gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.02.2019, n. 1030), ciò perché non può essere consentita al concorrente la possibilità di completare l’offerta successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di semplici errori materiali o di refusi, impedendo così l’applicazione dell’istituto per colmare carenze dell’offerta tecnica al pari di quella economica.
3. Alla stregua delle considerazioni sopra svolte, pertanto, la circostanza che le dichiarazioni di partenariato fossero state tempestivamente acquisite da Parsifal non è suscettibile di determinare un apprezzamento favorevole delle deduzioni di parte ricorrente, risultando dirimente l’omessa allegazione di tali dichiarazioni entro i termini prescritti dalla lex specialis. Ed è appena il caso di soggiungere che, come correttamente rilevato dalla difesa delle parti resistenti, le lettere di partenariato non sono meramente riproduttive di elementi già contenuti nell’offerta, recandone di ulteriori, indispensabili per la individuazione del reale contenuto del partenariato oltre all’effettivo impegno dei partner a svolgere la relativa attività.
4. L’esiguità del tempo intercorso tra l’adozione della determinazione di affidamento in favore della ricorrente ed il suo annullamento –ampiamente inferiore al temine generale di diciotto mesi di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990– e la già evidenziata rilevanza del vizio riscontrato, incidente in senso pregiudizievole sugli inderogabili principi di parità di trattamento, trasparenza ed imparzialità, oltre che sulle esigenze connesse ad una piena affidabilità dell’operatore quanto alla puntuale esecuzione del progetto, determinano l’infondatezza delle deduzioni dirette a contestare la carenza di motivazione e l’irragionevolezza della determinazione impugnata (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 24.07.2019 n. 9932 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGOPerde l'indennità Inps il dipendente malato che esce di casa nelle fasce di reperibilità per ritirare le analisi.
La lettura corretta dell’articolo 5, comma 14, del Dl 463/1983 convertito dalla legge 638/1983, consente al lavoratore in malattia di assentarsi dal domicilio durante le fasce di reperibilità solamente se ricorre un giustificato motivo con onere della prova a suo carico.
In caso contrario, non ricorrendo cioè l’ipotesi dell’indifferibilità e dell’urgenza dell’attività da svolgere, ivi compresa quella di recarsi a ritirare i referti delle analisi cliniche alle quali si era sottoposto in precedenza e di recarsi dall’odontoiatra per farsi curare risultando in tal modo assente durante due visite mediche di controllo, il dipendente perde il diritto all’identità di malattia stabilita dalla norma in commento.

Così ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 22.07.2019 n. 19668.
La questione
L’Inps ha ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello che, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva accolto l’impugnazione del dipendente volta al riconoscimento dell’indennità di cui si discute, assumendo che il Giudice di Seconde Cure avrebbe violato sia l’articolo 5, comma 14, Dl 463/1983 che gli articoli 2697 Cc e 115 Cpc.
Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale di merito si sarebbe limitata a verificare la sussistenza dei fatti dichiarati dal dipendente, senza erroneamente accertare la ricorrenza nel caso di specie di un giustificato motivo da ritenersi giuridicamente e socialmente apprezzabile.
In particolare, il ricorrente ha osservato come la giurisprudenza di legittimità considera il giustificato motivo quale:
   - “… clausola elastica che implica la necessità di accertare la sussistenza o di una causa di forza maggiore o di una situazione che, ancorché non insuperabile e nemmeno tale da comportare la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza personale dell’assicurato” (Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 3921/2007);
   - onere per il lavoratore di reperibilità alla visita medica di controllo “… che non contrasta con il carattere pubblico dell’assicurazione, tanto più che può essere fornita con un minimo di diligenza e disponibilità, atteso l’ambito molto limitato delle fasce di reperibilità per cui non risulta nemmeno gravoso o vessatorio” (Corte Costituzionale, sentenza 78/1988).
La sentenza
Gli Ermellini hanno accolto il ricorso cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione, affinché la stessa proceda all’accertamento delle circostanze sulle quali si fonda il diritto del lavoratore, assente dal proprio domicilio in occasione delle visite di controllo, a mantenere intero l’importo dell’’indennità di malattia, alla luce dei seguenti principi di diritto.
L’articolo 5, comma 14, Dl 463/1983 prevede testualmente che il lavoratore ingiustificatamente assente alla visita medico-fiscale decade dal trattamento economico di malattia per l’intero periodo sino a 10 giorni e nella misura della metà per l’ulteriore periodo.
Ciò posto, secondo la sentenza in rassegna, il lavoratore viola il proprio dovere di cooperazione con l’Ente previdenziale, non solo se durante le fasce di reperibilità non è presente nella propria abitazione, ma anche se, pur presente, serba una condotta che impedisce l’esecuzione del controllo per incuria, negligenza od altro motivo non giuridicamente e non socialmente apprezzabile e ad egli imputabile (cfr. Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 5000/1999, la quale ha espresso detto principio, in uno con il riconoscimento del diritto del lavoratore a poter fornire la prova dell’osservanza del dovere di diligenza).
Diversamente opinando, il potere del debitore Inps di verificare positivamente, prima di pagare, la ricorrenza del fatto generatore del debito, in ragione del fine pubblico di impedire abusi di tutela, sarebbe vanificato dalla facoltà del lavoratore di sottrarsi alla verifica se non per serie e comprovate ragioni. Ad esempio, per l’esigenza improcrastinabile di recarsi presso l’ambulatorio del medico curante (cfr. Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 18718/2006).
Per giunta, la violazione dell’obbligo di reperibilità è giustificabile unicamente se il lavoratore comunica tempestivamente agli organi di controllo l’allontanamento dall’abitazione: in caso di omessa o tardiva comunicazione, infatti, anche se il diritto all’indennità non viene meno, spetterà al lavoratore, preteso creditore, giustificare tale omissione o ritardo (cfr. Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 15766/2002) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.08.2019).

EDILIZIA PRIVATANel caso di specie, l’art. 91 del Regolamento edilizio è attuativo della previsione contenuta nell’art. 28, comma 1, lett. d), della legge regionale n. 12 del 2005, secondo la quale “il regolamento edilizio comunale disciplina, in conformità alla presente legge, alle altre leggi in materia edilizia ed alle disposizioni sanitarie vigenti: (…);
   d) le modalità per l’esecuzione degli interventi provvisionali di cantiere, in relazione alla necessità di tutelare la pubblica incolumità e le modalità per l’esecuzione degli interventi in situazioni di emergenza”.
Dall’esame del dato letterale della disposizione regolamentare comunale non emerge in maniera inequivocabile che gli interventi urgenti debbano consistere soltanto in attività di demolizione, ricavandosi piuttosto, da una interpretazione complessiva del testo normativo, coerente anche con l’ambito disciplinato, ovvero quello edilizio, che l’intervento urgente può essere finalizzato anche a ricostruire ciò che è fatiscente, essendo obiettivo rilevante soltanto la necessità di eliminare definitivamente la causa di pericolo.
Del resto, l’utilizzo del termine “intervento”, non ulteriormente specificato, appare onnicomprensivo sia delle attività di demolizione in senso stretto, che di quelle di ricostruzione; inoltre il riferimento nel testo della disposizione al permesso di costruire –evidentemente necessario per interventi non temporanei di messa in sicurezza– costituisce un indice aggiuntivo delle conclusioni raggiunte in precedenza, essendo peraltro controversa la necessità del previo ottenimento di un permesso di costruire per opere di semplice demolizione.
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2. Con il primo motivo, contenuto in entrambi i ricorsi e di identico tenore, si assume l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, poiché l’intervento di urgenza effettuato in ragione della precarietà strutturale del manufatto e dei connessi pericoli troverebbe il proprio fondamento nell’art. 91 del Regolamento Edilizio di Cornaredo, contrariamente all’assunto dell’Ufficio tecnico comunale che avrebbe ricondotto la fattispecie alla sanatoria di un abuso di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001.
2.1. La doglianza è fondata.
Dalla documentazione prodotta in giudizio dai ricorrenti risulta che il manufatto edilizio oggetto della presente controversia si trovasse, prima dell’intervento contestato, in un pessimo stato di manutenzione e a rischio crollo (cfr. materiale fotografico in seno al ricorso e relazioni tecniche: all. 7-9 e 14-15 al ricorso).
Parimenti è stato dimostrato che nel periodo di riferimento –giugno/agosto 2016– la zona è stata interessata da rilevanti e consistenti fenomeni atmosferici, che certamente hanno contribuito ad aggravare i rischi di crollo del manufatto, chiaramente fatiscente (cfr. all. 5 - 5-novies al ricorso).
L’art. 91 del Regolamento edilizio del Comune di Cornaredo prevede, al comma 1, che “gli interventi, che si rendono necessari al fine di evitare un pericolo imminente per la incolumità delle persone possono essere eseguiti senza preventivo permesso di costruire, nei limiti indispensabili per l’eliminazione del pericolo, ma sotto la responsabilità personale del committente, anche per quanto riguarda l’effettiva esistenza del pericolo”, mentre al comma 2, dispone che “è fatto obbligo al proprietario di dare segnalazione dei lavori entro due giorni lavorativi alla struttura competente e di presentare entro 15 giorni dall’inizio dei lavori, in caso di interventi soggetti a permesso di costruire, la richiesta di permesso di costruire, in relazione alla natura dell’intervento”.
Il provvedimento comunale di diniego del permesso di costruire è stato motivato, in primo luogo, con la circostanza che l’area in cui è collocato il manufatto è classificata dal P.G.T. come zona ‘di ridefinizione funzionale’, disciplinata dall’art. 18 delle N.T.A., a mente del quale sugli edifici esistenti “sono consentiti unicamente interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria” (all. 1 del Comune).
La difesa comunale ha chiarito che nella specie non sarebbe applicabile l’art. 91 del Regolamento edilizio sia perché lo stesso autorizzerebbe soltanto interventi di demolizione –al fine di scongiurare pericoli imminenti per l’incolumità delle persone– e non di ricostruzione, sia perché la richiesta di titolo edilizio non sarebbe stata presentata entro 15 giorni dall’inizio dei lavori (avviati il 20.08.2016: all. 2 del Comune), ma dopo ben due mesi (ossia il 19.10.2016: all. 1-bis al ricorso).
L’art. 91 del Regolamento edilizio è attuativo della previsione contenuta nell’art. 28, comma 1, lett. d), della legge regionale n. 12 del 2005, secondo la quale “il regolamento edilizio comunale disciplina, in conformità alla presente legge, alle altre leggi in materia edilizia ed alle disposizioni sanitarie vigenti: (…);
   d) le modalità per l’esecuzione degli interventi provvisionali di cantiere, in relazione alla necessità di tutelare la pubblica incolumità e le modalità per l’esecuzione degli interventi in situazioni di emergenza
”.
Dall’esame del dato letterale della disposizione regolamentare comunale non emerge in maniera inequivocabile, come ritenuto dalla difesa dell’Amministrazione, che gli interventi urgenti debbano consistere soltanto in attività di demolizione, ricavandosi piuttosto, da una interpretazione complessiva del testo normativo, coerente anche con l’ambito disciplinato, ovvero quello edilizio, che l’intervento urgente può essere finalizzato anche a ricostruire ciò che è fatiscente, essendo obiettivo rilevante soltanto la necessità di eliminare definitivamente la causa di pericolo.
Del resto, l’utilizzo del termine “intervento”, non ulteriormente specificato, appare onnicomprensivo sia delle attività di demolizione in senso stretto, che di quelle di ricostruzione; inoltre il riferimento nel testo della disposizione al permesso di costruire –evidentemente necessario per interventi non temporanei di messa in sicurezza– costituisce un indice aggiuntivo delle conclusioni raggiunte in precedenza, essendo peraltro controversa la necessità del previo ottenimento di un permesso di costruire per opere di semplice demolizione (non è necessario per TAR Lazio, Roma, II-bis, 27.03.2018, n. 3416 e Cass. penale, III, 17.06.2011, n. 24423).
In ogni caso, né l’ordinanza impugnata né gli atti endoprocedimentali comunali hanno preso posizione espressa in ordine all’applicabilità alla fattispecie dell’art. 91 del Regolamento Edilizio e alla sussistenza dei relativi presupposti, avendola invece del tutto ignorata, benché tale questione fosse stata sollevata dalle parti ricorrenti già nella relazione del 19.10.2016 (all. 10 al ricorso).
Ne discende che il contenuto delle memorie prodotte dalla difesa comunale, rappresentando una motivazione postuma, non può essere preso in considerazione, visto che di norma è inammissibile l’integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento amministrativo, salvo casi eccezionali tuttavia non ricorrenti nelle specie (più approfonditamente sul punto, Consiglio di Stato, VI, 11.05.2018, n. 2843; da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 08.07.2019, n. 1571)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2019 n. 1695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha sottolineato come “l’elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell’edificio”, poiché “gli interventi di manutenzione straordinaria sono caratterizzati da un duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, e l’altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione”.
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3. Con la seconda censura, di identico tenore in entrambi i ricorsi, si assume l’illegittima classificazione dell’intervento effettuato dai ricorrenti quale ristrutturazione edilizia, vietata nella zona, piuttosto che di manutenzione straordinaria, essendosi proceduto alla sostituzione di materiali e strutture ammalorate, senza tuttavia dar luogo ad una modifica sostanziale dell’organismo edilizio.
3.1. La doglianza è fondata.
La qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia effettuata dagli Uffici comunali appare non del tutto corretta, visto che dal verbale di sopralluogo dell’08.09.2016 emerge la “realizzazione di nuove pareti perimetrali (su tre lati), in blocchi di cemento, realizzazione di pilastri di sostegno della struttura sempre in blocchi di cemento e rifacimento completo della copertura con nuova struttura in legno e copertura in pannelli coibentati di lamiera. Della vecchia struttura risulta mantenuto un cordolo in muratura avente altezza di circa 80 cm” (all. 3 del Comune).
Va precisato che nei mesi di febbraio-aprile 2016 è stata effettuata la “sostituzione del manto di copertura del deposito, attualmente con lastre in eternit e posa di nuove lastre sandwich in lamiera preverniciata color coppo” (all. 3-4 al ricorso), che quindi alla data dell’intervento di messa in sicurezza –ossia il 20.08.2016– risultava già sostituito. Tale modifica perciò non poteva essere contestata nell’ambito del procedimento edilizio avviato dai ricorrenti all’esito degli eventi atmosferici del periodo giugno/agosto 2016. Inoltre, la circostanza che il tetto non sia stato oggetto di intervento in tale ultimo periodo impedisce di dare per pacifica, come ritenuto da parte del Comune, l’avvenuta completa demolizione del manufatto e la successiva integrale ricostruzione, ad eccezione del cordolo di 80 cm.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380 del 2001 negli “interventi di manutenzione straordinaria” sono ricomprese le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso; gli “interventi di ristrutturazione edilizia” sono invece rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente (art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001).
La giurisprudenza ha sottolineato come “l’elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell’edificio” (TAR Campania, Napoli, IV, 03.07.2015, n. 3563), poiché “gli interventi di manutenzione straordinaria sono caratterizzati da un duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, e l’altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione” (Consiglio di Stato, IV, 13.05.2019, n. 3058; in argomento anche Consiglio di Stato, VI, 26.10.2016, n. 4267).
Nella fattispecie de qua non è intervenuta alcuna modifica di carattere funzionale o di conformazione del manufatto, essendo stati effettuati degli interventi finalizzati esclusivamente all’eliminazione del pericolo di crollo e alla messa in sicurezza; nella relazione tecnica del 17.10.2016, si è evidenziato oltretutto che “la muratura di rinforzo ha addirittura ridotto la superficie interna del locale mirando soprattutto a rendere più rigida la muratura perimetrale e di conseguenza tutta la struttura portante del tetto” (all. 9 al ricorso). Ugualmente risulta ridotta l’altezza del manufatto da 4,50 m a 4,18 m (cfr. Tavola all. 15 al ricorso), in ragione del materiale utilizzato per la sostituzione della preesistente struttura, notevolmente ammalorata.
Trattandosi di modeste difformità, peraltro giustificate dal tenore degli interventi effettuati e dalla necessità che gli stessi risultassero idonei a garantire l’effettiva messa in sicurezza del bene, non può ritenersi corretta la qualificazione dell’intervento quale ristrutturazione edilizia sostenuta dal Comune di Cornaredo (similmente, TAR Campania, Napoli, IV, 03.07.2015, n. 3563).
Va altresì, aggiunto, che la struttura del manufatto –composto sostanzialmente da lamiere o materiale assimilabile (cfr. allegati fotografici agli atti)– non permette di assimilarlo ad una costruzione in senso stretto, nella quale gli eventuali interventi di rifacimento devono essere inevitabilmente preceduti dalla demolizione delle originarie componenti.
3.2. Ne discende l’accoglimento anche della seconda doglianza, identica per entrambi i ricorsi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2019 n. 1695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi conservativi su immobili oggetto di condono edilizio.
Con riguardo alla possibilità di effettuare interventi conservativi su immobili oggetto di condono edilizio, non è compatibile con i principi, anche costituzionali, dell’ordinamento la privazione della possibilità, per il titolare del diritto di proprietà su di un immobile, di procedere ad interventi di manutenzione, aventi quale unica finalità la tutela della integrità della costruzione e la conservazione della sua funzionalità, senza alterare l’aspetto esteriore (sagoma e volumetria) dell’edificio.
Ciò rappresentando certamente una lesione al contenuto minimo della proprietà che incide addirittura sulla essenza stessa e sulle possibilità di mantenere e conservare il bene, producendo un inevitabile deterioramento di esso, con conseguente riduzione in cattivo stato e un progressivo abbandono e perimento del medesimo.
Pertanto, non si può impedire al proprietario di intervenire sul proprio bene, al fine di evitare la progressiva inutilizzabilità e distruzione dell’edificio, in rapporto alla destinazione inerente alla sua natura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2019 n. 1695 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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4. Con la terza censura, contenuta unicamente nel ricorso introduttivo, si assume l’illegittimità del provvedimento di diniego comunale, laddove ha stabilito il divieto di effettuare interventi di sostituzione edilizia in relazione ad un immobile oggetto di condono ai sensi dell’art. 35 della legge n. 47 del 1985, dovendosi invece ritenere sempre ammissibili interventi di manutenzione finalizzati a rendere fruibile un immobile.
4.1. La doglianza è fondata.
Con riguardo alla possibilità di effettuare interventi conservativi su immobili oggetto di condono edilizio è stato chiarito che non è compatibile con i principi, anche costituzionali, dell’ordinamento la privazione della possibilità, per il titolare del diritto di proprietà su di un immobile, di procedere ad interventi di manutenzione, aventi quale unica finalità la tutela della integrità della costruzione e la conservazione della sua funzionalità, senza alterare l’aspetto esteriore (sagoma e volumetria) dell’edificio, ciò rappresentando certamente una lesione al contenuto minimo della proprietà che incide addirittura sulla essenza stessa e sulle possibilità di mantenere e conservare il bene, producendo un inevitabile deterioramento di esso, con conseguente riduzione in cattivo stato e un progressivo abbandono e perimento del medesimo.
Pertanto, non si può impedire al proprietario di intervenire sul proprio bene, al fine di evitare la progressiva inutilizzabilità e distruzione dell’edificio, in rapporto alla destinazione inerente alla sua natura (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 238 del 2000; in termini anche Consiglio di Stato, IV, 14.07.2015, n. 3505).
Avendo i ricorrenti effettuato un intervento finalizzato alla conservazione del bene –oltre che all’eliminazione del pericolo– ne risulta l’illegittimità anche della ulteriore ragione posta a supporto del provvedimento di diniego impugnato, ovvero l’impossibilità di effettuazione di opere edilizie su un immobile condonato.
4.2. Ciò determina l’accoglimento anche della suesposta doglianza.

EDILIZIA PRIVATALa nozione generale di “pertinenza” è contenuta nell’ 817 c.c. (cose destinate, in modo durevole, a servizio o ad ornamento di un’altra cosa), tuttavia la nozione urbanistico-edilizia assume delle peculiarità, data la specificità della materia e la differente finalità pubblica posta a base della relativa normativa.
Il concetto di pertinenza urbanistica è ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa meno ampio di quello definito dall’art. 817 c.c., tale da non poter consentire la realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come principale.
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile solo quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico.
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21.2. Inoltre deve essere esclusa la natura pertinenziale degli interventi realizzati.
Infatti, la nozione generale di “pertinenza” è contenuta nell’ 817 c.c. (cose destinate, in modo durevole, a servizio o ad ornamento di un’altra cosa), tuttavia la nozione urbanistico-edilizia assume delle peculiarità, data la specificità della materia e la differente finalità pubblica posta a base della relativa normativa. Il concetto di pertinenza urbanistica è ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa meno ampio di quello definito dall’art. 817 c.c., tale da non poter consentire la realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come principale (cfr. Cons. St. sez. IV, 17/05/2010, n. 3127).
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile solo quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. Cons. St., sez. VI, 29/01/2015, n. 406; Cons. St., sez. VI, 05/01/2015, n. 13)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.07.2019 n. 9223 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di costruzioni abusive.
In caso di mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 31, D.P.R. n. 380/2001, l’acquisizione concerne ordinariamente non solo il bene e la relativa area di sedime, ma anche l’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive (nel limite massimo, tuttavia, del decuplo della complessiva superficie utile abusivamente costruita).
Nella chiara configurazione normativa l’acquisizione di tale area ulteriore è una sanzione che l’ordinamento pone come conseguenza automatica e doverosa dell’inottemperanza all’ordine demolitorio dell’opera abusiva (salvo i casi in cui venga ad incidere sui diritti dei terzi o sulle porzioni di manufatti legittimi, nel qual caso l’acquisizione è limitata al manufatto abusivo e alla sua sola area di sedime) e non è, come tale, soggetta a specifici obblighi motivazionali in ordine alle ragioni di pubblico interesse.
L’applicazione della norma in esame impone, tuttavia, all’Amministrazione comunale di assolvere all’obbligo motivazionale in ordine alle modalità del calcolo (in relazione ai parametri urbanistici in astratto applicabili per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con cui perviene all’individuazione di tale “area ulteriore”.
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22. Infine occorre esaminare il ricorso 8607/2012 avente ad oggetto il provvedimento n. 619 in data 28.8.2012 di acquisizione gratuita delle particelle n. 861, 862, 863, per una superficie complessiva pari a mq 8810 (mq 7798 + mq 945 + mq 67). Secondo la ricorrente infatti tale provvedimento avrebbe determinato un’acquisizione superiore al decuplo della superficie relativa all’area di sedime dei manufatti abusivi “che avrebbe dovuto esser pari a mq. 364,90”. La ricorrente ha in ogni caso lamentato la carenza di un’adeguata motivazione in ordine all’acquisizione dell’“area ulteriore”.
22.1. Sul punto occorre precisare che, ai sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380/2001, l’acquisizione concerne ordinariamente non solo il bene e la relativa area di sedime, ma anche l’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive (nel limite massimo, tuttavia, del decuplo della complessiva superficie utile abusivamente costruita).
Nella chiara configurazione normativa l’acquisizione di tale area ulteriore è una sanzione che l’ordinamento pone come conseguenza automatica e doverosa dell’inottemperanza all’ordine demolitorio dell’opera abusiva (salvo i casi in cui venga ad incidere sui diritti dei terzi o sulle porzioni di manufatti legittimi, nel qual caso l’acquisizione è limitata al manufatto abusivo e alla sua sola area di sedime) e non è, come tale, soggetta a specifici obblighi motivazionali in ordine alle ragioni di pubblico interesse.
L’applicazione della norma in esame impone, tuttavia, all’Amministrazione comunale di assolvere all’obbligo motivazionale in ordine alle modalità del calcolo (in relazione ai parametri urbanistici in astratto applicabili per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con cui perviene all’individuazione di tale “area ulteriore”.
In sostanza, l’Amministrazione procedente deve indicare la classificazione urbanistica e il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
La dettagliata descrizione e precisa individuazione della superficie oggetto di acquisizione è richiesta laddove il Comune intenda acquisire non solo la res abusiva e la relativa area di sedime, ma anche la superficie ulteriore, non superiore al decuplo di quella occupata con l’immobile abusivo, necessaria a realizzare opere analoghe a quella abusivamente realizzata
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.07.2019 n. 9223 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Danno da demansionamento all'ente che «svuota» il lavoro del dipendente impegnato da incarichi politici.
Non è giustificabile la destinazione ad altre mansioni del dipendente -perché indisponibile al lavoro in certi orari dopo la sua nomina a consigliere comunale- se la misura abbia comportato il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa. Il dirigente che motiva il cambio del servizio e l'ente che non utilizzi proficuamente il dipendente si espongono al risarcimento del danno per demansionamento.

Queste sono le indicazioni della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, contenute nell'ordinanza 10.07.2019 n. 18560.
Il fatto
Un dirigente regionale ha chiesto il trasferimento di un proprio dipendente ad altro servizio motivando la sua richiesta «per indisponibilità ad eseguire prestazioni lavorative in orario antimeridiano in quanto Consigliere Municipale nonché Presidente di una Commissione Municipale». Al dipendente messo a disposizione, tuttavia, non venivano affidati compiti operativi.
A causa di questa inattività il dipendente si è rivolto al giudice del lavoro per ottenere il risarcimento del danno biologico e professionale subito in conseguenza del demansionamento nel periodo di disponibilità presso altro servizio regionale. Il Tribunale di primo grado ha, tuttavia, respinto il ricorso del dipendente per non aver prodotto la prova del demansionamento né il nesso di causalità tra il pregiudizio lamentato e le condotte addebitate all'amministrazione ed escludendo che il provvedimento di messa a disposizione del ricorrente potesse configurare un atto vessatorio.
La Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha invece invertito l'onere della prova, precisando che l'amministrazione non ha dimostrato che gli impegni del lavoratore, come consigliere municipale, fossero incompatibili con le mansioni svolte e che la prova in ordine all'orario di lavoro fosse risultata contraddittoria.
I giudici di appello, pertanto, hanno certificato favorevolmente le conclusioni del demansionamento rassegnate dal consulente tecnico di ufficio, confermando la percentuale del danno biologico rilevata. Nel ricorso in Cassazione la Regione ha evidenziando come la Corte d'appello avesse invertito l'onere della prova ponendo, in modo inammissibile, a suo carico l'onere di dimostrare che gli impegni del lavoratore come consigliere municipale fossero incompatibili con le mansioni svolte.
La decisione della Cassazione
Secondo il giudice di legittimità, la sentenza della Corte d'appello ha correttamente accertato che, dalle risultanze di causa, fosse emersa la prova, con riferimento al periodo preso a riferimento, della dedotta dequalificazione e anzi della totale mancanza di attribuzione di mansioni, per di più con modalità vessatorie. Pertanto, sono state correttamente prese in considerazione le risultanze dei fatti così come sono avvenuti e in particolare sulla pretesa indisponibilità del dipendente ad eseguire le prestazioni lavorative in orario antimeridiano.
In altri termini, la sentenza è stata logicamente articolata e priva di errori di diritto avendo i giudici di appello esposto in modo ordinato e coerente le ragioni che la hanno giustificato. Infine, la formale assegnazione del dipendente alle mansioni proprie della categoria contrattuale non sono censurabili, ma lo diventano, come nel caso di specie, quando la destinazione ad altre mansioni abbia comportato il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa.
In quest'ultimo caso, infatti, non si è nell'ipotesi di verificare l'equivalenza delle mansioni, ma si è in presenza della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.07.2019).

PUBBLICO IMPIEGOIl licenziamento illegittimo causa danno erariale pari al risarcimento accertato in sede civile.
Il licenziamento illegittimo e la mancata reintegrazione del lavoratore sono causa di danno erariale in misura pari al risarcimento accertato nel giudizio civile. Non viola i limiti esterni della giurisdizione il giudice contabile che abbia dati per acquisiti gli accertamenti compiuti in sede civile e passati in giudicato, ritenendo superflua un'istruttoria specifica. Il giudice contabile, infatti, non può non tenere conto del giudicato di condanna, civile o penale che sia.

Lo ha chiarito la Suprema Corte, S.U. civili, con sentenza 26.06.2019 n. 17126.
La vicenda Il direttore generale di un'azienda sanitaria locale ha proceduto al licenziamento di un dirigente senza avere acquisito previamente il parere preventivo del Comitato dei Garanti. Impugnato il provvedimento, il giudice del lavoro ha dichiarato la nullità del recesso condannando l'azienda sanitaria a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno subito. La sentenza è stata confermata in appello e il danno complessivamente quantificato in 1.760.951,73. Nelle more il lavoratore non è stato reintegrato.
La Procura regionale della Corte di conti, passata in giudicato la pronuncia del giudice del lavoro, ha avviato un'azione risarcitoria per danno erariale nei confronti del direttore generale che aveva proceduto al licenziamento illegittimo e del suo successore, che aveva mancato di reintegrare il lavoratore benché vi fossero l'ordine del giudice e la diffida ad adempiere. La pronuncia veniva confermata in grado d'appello ed il danno erariale determinato (pro quota) in misura del risarcimento liquidato nel giudizio civile, sede in cui non fu mai motivatamente contestato.
Per la cassazione della suddetta sentenza ricorre l'ex direttore generale affidandosi ad un unico motivo di ricorso: il travalicamento dei limiti della giurisdizione da parte del giudice contabile, in quale avrebbe inopinatamente (in assenza di una legge che lo consenta) tenuto conto delle statuizioni compiute in seno ad altra giurisdizione. Il ricorso in Cassazione è stato dichiarato inammissibile poiché, invero, paventando vizi che attengono al modo in cui la Corte dei conti ha esercitato la propria giurisdizione, può ricondursi nell'ambito degli "error in judicando" (tra le altre Cass. SU n. 17014/2003, Cass. SU n. 28653/2008, Cass. SU n. 29285/2018) mentre l'art. 111, ultimo comma, della Costituzione, stabilisce che "Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione".
Nel caso di specie si tratta di una tipica ipotesi di danno erariale cd indiretto, che è quel danno che amministratori o dipendenti della Pubblica Amministrazione hanno cagionato a "terzi" e che l'Amministrazione ha dovuto risarcire in esecuzione di un accordo transattivo o in ottemperanza ad una sentenza di condanna, così sopportandone l'onere (si vedano Corte dei conti, Sez. giur. app. n. 271/2015 nonché Cass. SU n. 22251/2017) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.07.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Un vano caldaia dalle ridotte dimensioni è un volume tecnico.
Con riguardo al vano caldaia, va detto che per la dimensione minima e la destinazione a servizio dell’attività, tale manufatto costituisce un volume tecnico e rientra nella nozione urbanistica di pertinenza rispetto alla quale non è comminabile la sanzione della demolizione.
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In materia, la giurisprudenza spiega che la nozione di pertinenza ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica, trattandosi infatti di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata di un volume minimo; si tratta quindi di qualifica applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia.
Inoltre, si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all'interno dell'edificio.
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   - Con riguardo al vano caldaia, va detto che per la dimensione minima e la destinazione a servizio dell’attività, tale manufatto costituisce un volume tecnico e rientra nella nozione urbanistica di pertinenza rispetto alla quale non è comminabile la sanzione della demolizione;
   - In materia, la giurisprudenza spiega che la nozione di pertinenza ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica, trattandosi infatti di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata di un volume minimo; si tratta quindi di qualifica applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia (Consiglio di Stato sez. V 24.07.2014 n. 3952);
   - Inoltre, si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all'interno dell'edificio (Consiglio di Stato sez. VI 21.01.2015 n. 175) (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.06.2019 n. 429 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, risulta oggi permeato dai principi di correttezza, buona amministrazione, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento. Principi integralmente desumibili dalla previsione di cui all’articolo 97 della Costituzione che costituisce il pilastro su cui si edifica il nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione.
Un simile modello impone chiarezza da parte dell’Amministrazione in ordine alla effettiva portata dei propri atti incidenti sulla sfera giuridica dei privati non potendosi, invero, ritenere conforme al modello descritto un comportamento che si presti a letture alternative ingenerando equivoci e alimentando contenziosi privi di sostanziale significato.
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6.1 Osserva il Collegio come le difese comunali paiano svuotare di sostanziale rilievo la controversia in esame. Il Comune ritiene che gli atti impugnati siano meramente ricognitivi di una situazione di fatto e non implicanti alcuna alterazione della natura privata del bene. L’Amministrazione deduce, inoltre, che ove si ritenessero i provvedimenti impugnati muniti di portata effettuale espropriativa, il ricorso dovrebbe ritenersi inammissibile (rectius: improcedibile) per sopravvenuta carenza di interesse stante la scadenza del termine.
6.2. Deve, tuttavia, rilevarsi come il modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, risulta oggi permeato dai principi di correttezza, buona amministrazione, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento. Principi integralmente desumibili dalla previsione di cui all’articolo 97 della Costituzione che costituisce il pilastro su cui si edifica il nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.03.2018, n. 1457).
Un simile modello impone chiarezza da parte dell’Amministrazione in ordine alla effettiva portata dei propri atti incidenti sulla sfera giuridica dei privati non potendosi, invero, ritenere conforme al modello descritto un comportamento che si presti a letture alternative ingenerando equivoci e alimentando contenziosi privi di sostanziale significato.
Emblematica appare la vicenda in esame in cui l’Amministrazione rigetta l’osservazione del privato ritenendo sussistente una consolidata consuetudine di uso pubblico che, nelle difese, diviene, tuttavia, un dato privo di rilevanza giuridica. Affermazione che, invero, avrebbe imposto al Comune di modificare le previsioni degli atti impugnati quanto meno dopo la ricezione del ricorso giurisdizionale piuttosto che dedurre la mancata comprensione della mancanza di una reale portata effettuale dei propri atti. Portata che non è, però, integralmente negata dal comune di Brivio secondo cui, assegnando un vincolo espropriativo alle previsioni, le stesse dovrebbero ritenersi prive di effetto in ragione del decorso del termine quinquennale prescritto dalla legge (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.06.2019 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTINelle gare pubbliche accesso agli atti con confini allargati. Possibile consultare anche i preventivi di spesa e le fatture dei lavori svolti.
Chi partecipa ad una gara ha accesso ai preventivi di spesa altrui: lo sottolinea il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con la sentenza 25.03.2019 n. 630, relativa a un incarico professionale conferito da un ente locale ad una cooperativa per i servizi di assistenza legale.
La novità riguarda sia l’accesso che il procedimento, incerto tra l’articolo 22 della legge 241/1990 (che esige un interesse al documento cui si chiede accesso) e l’articolo 5, comma 2, Dlgs 33/2013 (accesso civico generalizzato, senza motivazione). Il Tar propende per la prima soluzione mentre il Consiglio di Stato (3780/2019) per l’accesso civico generalizzato, perché le materie sottratte all’accesso sono tassative e non tollerano analogie interpretative: se non si ricada in una materia esplicitamente sottratta (quale la sicurezza nazionale), possono esservi solo specifici casi di limitazione.
Escludendo l’accesso per mera curiosità o per accaparrarsi dati sensibili coperti dall’ordinaria segretezza aziendale, tutto il resto è accessibile, perché prevalgono le esigenze generali di «controllo diffuso sul perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (articolo 5, comma 2, Dlgs 33/2013) come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione. Il settore è in continua evoluzione, perché anche l’impresa che non ha partecipato a una gara ha diritto ad accedere agli atti della procedura di appalto (Consiglio di Stato 3780/2019), senza che possa rappresentare un ostacolo l’asserita voluminosità della documentazione di gara.
Ad esempio, il principio è stato applicato ad una gara per manutenzione di automezzi Ausl, concedendo l’accesso non solo al contratto stipulato con l’aggiudicatario, ma anche ai documenti attestanti i singoli interventi, i preventivi dettagliati, i collaudi ed i pagamenti, anche con la relativa documentazione fiscale dettagliata (le fatture pagate all’aggiudicatario). La documentazione fiscale, in particolare, è stata resa accessibile perché non avrebbe potuto compromettere segreti del processo industriale della società aggiudicataria dell’appalto. Il servizio prestato, infatti, riguardando la manutenzione e riparazione di veicoli (prestazione standardizzata e altamente ripetitiva, con tecniche ed interventi desumibili dai libretti di manutenzione), poteva avere ben pochi segreti commerciali o industriali.
In sintesi, non solo vi è accesso indipendentemente dalla partecipazione ad una gara o dalla sua impugnazione (Tar Napoli 2379/2019), ma si può ottenere an che accesso ai preventivi altrui ed alle fatture relative ai lavori svolti, rendendo accessibile e controllabile, oltre la procedura di gara, anche l’esecuzione dell’appalto. Fino a poco tempo fa, al di fuori della gara, l’accesso agli atti di esecuzione di un contratto pubblico era stato, al più, consentito ai subappaltatori creditori dell’aggiudicataria (Tar Lazio 8639/2013), ma ora l’accesso si estende anche agli imprenditori in potenziale concorrenza, nonché ai momenti successivi alla gara stessa (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2019).
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SENTENZA
2. Il ricorso è infondato; di seguito le motivazioni della sentenza.
2.1. Il sig. Pi. ha chiesto al Comune di Brugherio di accedere, in sostanza, ai “preventivi di spesa per i servizi di assistenza legale” per il recupero dell’evasione ed elusione tributaria richiamati nella determina dirigenziale n. 957/2017.
L’interessato ha inizialmente proposto l’istanza facendo generico riferimento all’accesso civico senza ulteriori specificazioni; successivamente, a fronte della prima risposta del Comune, di sostanziale diniego all’accesso, ha formulato istanza di riesame al Segretario generale del Comune, nella qualità di Responsabile del potere sostitutivo del Responsabile della Trasparenza, riconducendo la propria richiesta alla fattispecie di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013, di accesso civico “generalizzato”.
2.2. L’istanza non è stata accolta in quanto, secondo l’Amministrazione comunale (in ciò avallata dall’interpretazione del Difensore civico regionale, cui il ricorrente si è rivolto dopo il secondo diniego del Comune), l’interessato, per ottenere copia dei preventivi di spesa in questione, deve presentare una richiesta motivata ai sensi dell’art. 22 della l. n. 241/1990, dimostrando di avere un interesse diretto, concreto e attuale “corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
2.3. L’Amministrazione, ad avviso del Collegio, ha operato correttamente.
Al riguardo, come efficacemente osservato dal Difensore civico regionale nella nota del 5 ottobre 2018, è sufficiente rilevare che:
   - i preventivi oggetto di richiesta non sono allegati alla determinazione n. 957/2017, sicché non sono soggetti all’accesso civico semplice di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013;
   - i preventivi de quibus, semmai, si sostanziano in documenti afferenti alla “procedura di affidamento ed esecuzione” dell’incarico affidato alla Cooperativa Sociale Fraternità, avente ad oggetto, tra l’altro, anche “il recupero dell’evasione ed elusione tributaria in materia di ICI ed IMU”, che, in quanto tali, sono sottoposti alla disciplina di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 50/2016;
   - ne consegue che tali documenti, come affermato da un orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio (TAR Emilia Romagna–Parma, n. 197/2018), restano esclusi dall’accesso civico c.d. “generalizzato” di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013;
   - i preventivi richiesti, quindi, potranno essere oggetto di richiesta di accesso documentale ai sensi della l. n. 241/1990.
2.4. In definitiva, il ricorso è infondato e va respinto.

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) è subordinata al rilascio di tre distinti provvedimenti, quali il permesso di costruire, l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco (con la conseguenza che questi ultimi due atti amministrativi mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando  siano attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico, chiamato a compiere una duplice valutazione in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette).
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4.2. In proposito, da un lato è stata in via generale richiamata la costante giurisprudenza in forza della quale la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) è subordinata al rilascio di tre distinti provvedimenti, quali il permesso di costruire, l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco (con la conseguenza che questi ultimi due atti amministrativi mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando  siano attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico, chiamato a compiere una duplice valutazione in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette) (ad es. Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261152).
D'altro canto il provvedimento impugnato (sia pure facendo uso non del tutto coerente dei concetti di modificazione del territorio, di incisione del medesimo, di carico urbanistico e di permanenza della predetta modificazione) ha osservato che la misura cautelare è stata disposta al fine di accertare se le opere realizzate, per dimensioni e tipologia di materiali utilizzati, abbiano inciso sul territorio  comportandone un carico urbanistico ed una modificazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.05.2018 n. 20739).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività edilizia privata all’interno delle aree demaniali è soggetta alla disciplina di cui al D.P.R. 380 del 2001: in tal senso dispone l’art. 8 (“Attività edilizia dei privati su aree demaniali”) e, ancor prima, l’art. 31, comma 3, della legge 17.08.1942, n. 1150.
In materia edilizia, infatti, per le opere eseguite da privati in aree del demanio marittimo sono necessari sia l'autorizzazione demaniale sia il permesso di costruire assolvendo i due provvedimenti a diverse finalità di tutela in quanto la prima è diretta a salvaguardare gli interessi pubblici connessi al demanio marittimo, mentre il secondo ha la funzione di consentire all'ente locale di esercitare il controllo urbanistico del territorio.
La mancanza di titolo edilizio di un manufatto realizzato sulla base delle sole concessioni demaniali, quindi, comporta la configurazione dell’opera come abusiva ai fini urbanistico-edilizi.
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Ribadito che l'ordine di demolizione per difetto di titolo edilizio, e non per difetto di titolo autorizzatorio all'occupazione di suolo demaniale, ricade ai sensi dell'art. 35 dpr 380/2001 nella competenza provvedimentale ed esecutiva del Comune, va condivisa la giurisprudenza secondo la quale l’art. 35 de quo -che dispone che qualora sia accertata la realizzazione di interventi realizzati "sine titulo" ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi- non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie poiché trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda opere abusive su suoli pubblici: la norma, dunque, non lascia all'ente locale alcun spazio per valutazioni discrezionali e impone di ordinare la demolizione a spese del responsabile dell'abuso.
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1. Con il ricorso in epigrafe, ritualmente notificato e depositato, è impugnata l'ordinanza n. 6 del 18.02.2016 con la quale il Comune di Alcamo ha ordinato la rimozione delle seguenti opere, eseguite alla data del 06.03.2015, perché realizzate senza l’autorizzazione di cui all’ art. 5 della l.r. 37/1985:
   1. stradella ricoperta di materiale inerte di collegamento, attraverso la spiaggia (arenile demaniale) tra la strada comunale e il fabbricato insistente sul terreno in catasto al fg. 1, p.lle 381 e 3 (in parte);
   2. spiazzo antistante il predetto fabbricato, sulla spiaggia (arenile demaniale);
   3. barra di legno (longitudinale posta su due pilastrini) che ostruisce l’accesso pedonale alla stradella di cui al punto 1.
Trattasi di opere insistenti sull’aerea demaniale marittima di mq 248 concessa con atto n. 520 del 16.12.2004, per mq 65 (spazio antistante in fabbricato) in uso esclusivo e per i restanti mq 183 in uso non esclusivo.
Nella motivazione dell’atto è spiegato che:
   - nella suddetta concessione demaniale non è previsto il collocamento della sbarra di legno;
   - ai sensi dell’art. 23 del R.E. per le opere realizzate era necessario il titolo abilitativo;
   - l’area di che trattasi ricade in Z.T.O. Fp6 nella quale l’edilizia libera può concernere la realizzazione di strada poderali con caratteristiche di ruralità, di cui sarebbe priva l’opera in questione;
   - la concessione demaniale n. 520 del 16.12.2004, all’art. 2, obbligava il concessionario a richiedere al Comune il titolo edilizio prima dell’inizio dei lavori.
Il sig. Si.Pi., in qualità di comproprietario, ne chiede l’annullamento previa sospensione cautelare, deducendone l’illegittimità per i motivi di violazione degli artt. 4, 5, 6, 7 e 9 della legge regionale n. 37/1985, degli artt. 31, 34 e 37 del D.P.R. 380 del 2001 e dell’art. 23 del regolamento edilizio, nonché per eccesso di potere e difetto di motivazione, in quanto sia la stradella sia lo spiazzo esisterebbero almeno dal 1968, come accertato in fatto dal Tribunale di Trapani con la sentenza n. 47/2014 (relativa a controversia tra proprietari, in cui il ricorrente era parte) e di cui l’A.R.T.A. ha preso atto con la nota n. 44856 del 02.10.2014.
Le opere eseguite, quindi, sarebbero di mera manutenzione e come tali rientranti nella tipologia dell’edilizia libera di cui all’art. 6 della l.r. 37/1985 che, invero, riguarderebbe anche le strade poderali e non solo quelle rurali; parimenti non rileverebbe il fatto che le opere ricadono in zona Fp6 poiché l’area ricade nel demanio marittimo; non troverebbe applicazione l’art. 23 del regolamento edilizio che disciplina la costruzione di strade interpoderali assoggettandola ad autorizzazione, poiché quella oggetto di lite servirebbe soltanto l’abitazione del ricorrente.
Quanto alla sbarra in legno, si sostiene che la sua collocazione –comunque da ricondurre alla fattispecie dell’edilizia libera di cui all’art. 6 della l.r. 37/1985- sarebbe stata autorizzata dall’A.R.T.A. con la concessione demaniale marittima n. 520/2014 oltre che imposta dallo stesso assessorato con la nota n. 23634/2014 (1° motivo).
Trattandosi di opere soggette a autorizzazione l’unica sanzione applicabile sarebbe quella pecuniaria e comunque la demolizione non sarebbe attuabile per la stradella, esistente ab immemorabile (2° motivo).
Lamenta anche la violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale di cui alla legge 241 del 1990 a causa dell’omessa valutazione delle controdeduzioni presentate e il difetto di istruttoria e di motivazione (3° motivo).
Con l’ordinanza collegiale n. 759 del 04.07.2016, è stata accolta la domanda di sospensione cautelare dell'esecuzione del provvedimento impugnato.
Il Comune di Alcamo si è costituito in giudizio con memoria, il 10.05.2017, controdeducendo che ai sensi dell’art. 74 (“Fp6 zona delle dune e della spiaggia”) delle N.T.A. del P.R.G. –che espressamente disciplina sia le aree private, sia le aere demaniali- nella zona Fp6 non sono ammesse opere stabili come la sbarra sorretta da pilastrini, né la copertura di un sentiero naturale in terra battuta con misto granulometrico calcareo in quanto “nella zona Fp6 sono consentiti soltanto interventi con applicazione di tecniche naturalistiche volti a ristabilire l’equilibrio delle dune e dello specifico habitat dunale.
Nella spiaggia lungo il litorale sono ammesse solo attività per la diretta fruizione del mare che non comportino installazioni o impianti stabili, al fine di garantire l’azione eolica di ripascimento delle dune.
Nelle aeree di proprietà privata ricadenti in zona Fp6 sono ammesse destinazioni d’uso relative a giardini e verde privato, purché compatibili con le finalità e gli interventi della zona Fp6
”.
...
2. Il ricorso è fondato solo in parte, nei limiti e nei sensi di seguito spiegati.
In primo luogo, ritiene il Collegio che, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, l’attività edilizia privata all’interno delle aree demaniali –come quella contestata nel caso in esame- è soggetta alla disciplina di cui al D.P.R. 380 del 2001: in tal senso dispone l’art. 8 (“Attività edilizia dei privati su aree demaniali”) e, ancor prima, l’art. 31, comma 3, della legge 17.08.1942, n. 1150.
In materia edilizia, infatti, per le opere eseguite da privati in aree del demanio marittimo sono necessari sia l'autorizzazione demaniale sia il permesso di costruire assolvendo i due provvedimenti a diverse finalità di tutela in quanto la prima è diretta a salvaguardare gli interessi pubblici connessi al demanio marittimo, mentre il secondo ha la funzione di consentire all'ente locale di esercitare il controllo urbanistico del territorio (Cassazione penale sez. III, 04.12.2013 n. 5461).
La mancanza di titolo edilizio di un manufatto realizzato sulla base delle sole concessioni demaniali, quindi, comporta la configurazione dell’opera come abusiva ai fini urbanistico-edilizi.
Conformemente a ciò, la concessione demaniale marittima n. 520/2014, rilasciata dall’A.R.T.A. a favore dell’odierno ricorrente “allo scopo di ripristinare un piccolo spiazzo e una stradella esistente presso ex casello ferroviario”, all’art. 2 dispone che “il concessionario non potrà iniziare i lavori autorizzati con il presente provvedimento, se prima non avrà ottenuto ove pertinente:
   a) la concessione edilizia comunale;
   b) il nulla osta ai fini paesaggistici e d ambientali ove prescritto (…):
   c) nulla osta ai fini sismici (…);
2-bis) tutte le autorizzazioni, nulla osta, licenze previste dalle leggi vigenti ancorché non espressamente richiamate (…)
”.
Nel caso di specie, risulta dal preambolo della concessione stessa che il ricorrente ha ottenuto i pareri favorevoli dell’Agenzia delle Dogane, del competente Ufficio del Genio civile, della competente Soprintendenza BB.CC.AA. e della Capitaneria di Porto; il Comune di Alcamo invece si era espresso sfavorevolmente con nota n. 37666 del 29.07.2014, quanto agli aspetti strettamente urbanistici -che soltanto a tale Ente sono attribuiti- invocando l’art. 74 delle NTA disciplinante la ZTO Sp6, come ostativo all’intervento di rifacimento della stradella perché ritenuta non esistente come manufatto dal 1968, se non sotto forma di sentiero di fatto con percorso variato e variabile nel tempo.
Risulta, altresì, che la stradella era stata oggetto di consolidamento per consentirne il transito da parte dei mezzi di trasporto per lavori edili da eseguirsi nell’immobile dell’odierno ricorrente in forza di concessione demaniale marittima temporanea n. 33/2009 per la durata di soli quattro mesi e con obbligo di ripristino alla scadenza; la successiva richiesta di mantenimento della predetta stradina veniva respinta dall’Assessorato regionale con nota n. 40914 del 21.06.2011.
La rimessione al pristino stato antecedente alla concessione demaniale temporanea n. 33/2009 avvenne ad opera di altri proprietari di immobili siti nella zona alla quale il ricorrente si oppose instaurando un giudizio possessorio innanzi al G.O. ottenendo in quella sede, in via provvisoria, l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi così come modificato in forza della concessione demaniale temporanea n. 33/2009.
La vicenda sottostante all’atto per il quale è lite, dunque, si protrae già da diversi anni e coinvolge una pluralità di interessi pubblici, alla cui tutela sono posti enti distinti.
Se, dunque, l’Assessorato regionale ha ritenuto discrezionalmente di potere concedere l’area demaniale per l’uso e con i limiti di cui all’atto n. 520 del 2014, per quanto sua competenza, ciò ovviamente non esclude che il Comune, al fine della tutela, di sua esclusiva spettanza, degli interessi urbanistici-edilizi parimenti coinvolti, possa essere giunto a valutazioni non favorevoli rispetto agli interessi legittimi vantati dal privato.
L’ampia istruttoria che ha preceduto l’emanazione degli atti connessi a quello impugnato, nel corso della quale sono state analiticamente sviscerate tutte le problematiche sottostanti nel confronto tra il Comune, l’Assessorato regionale e il privato interessato odierno ricorrente, a parere del Collegio esclude che possa configurarsi, in sostanza, il denunciato vizio formale di violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale, il difetto di istruttoria e di motivazione (3° motivo).
Resta, quindi, da accertare in quali tipologie di interventi edilizi vadano ricondotti la realizzazione e/o manutenzione della stradella e dello spiazzo e il posizionamento della sbarra di legno, al fine di stabilire quale sia il regime autorizzatorio di riferimento.
Quanto alla stradella, è evidente che, a prescindere dalla sua preesistenza al 1968 come tracciato sterrato di fatto, parte ricorrente ne ha modificato la struttura in forza della precedente concessione demaniale temporanea del 2009 con intervento che poi è stato dismesso da parte di terzi e che adesso ha ripristinato in forza della sola concessione demaniale ottenuta.
Ritiene il Collegio che trattandosi ab origine, e prima delle modifiche del 2009, di un sentiero sterrato insistente sul demanio, non sia nemmeno qualificabile come strada poderale ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6 della l.r. n. 37 del 1985, per la quale non necessita concessione, autorizzazione, o comunicazione al sindaco.
L’intervento attuato di fatto ha comportato una modifica stabile e permanente dell’originario assetto dell’area, caratterizzata dalla presenza di un sentiero e da un spiazzo in terra battuta, e non da una strada percorribile anche da automezzi e da uno spazio destinato alla sosta e parcheggio di autovetture, così come è adesso consentito grazie al tipo di intervento messo in atto da parte ricorrente in forza della concessione demaniale marittima n. 520/2009, ma in assenza del titolo edilizio che avrebbe dovuto essere previamente richiesto al Comune resistente, al fine di accertarne la conformità allo strumento urbanistico vigente, in particolare all’art. 74 delle N.T.A. (“Fp6 zona delle dune e della spiaggia”).
Riguardo alla spiazzo destinato alla sosta dell’autoveicolo di parte ricorrente giova precisare che con sentenza della sezione prima di questo Tribunale n. 2436 del 21.10.2016 il provvedimento prot. n. 15906 del 07.04.2015 adottato dal Dirigente del Servizio 5 Demanio Marittimo - Contenzioso dell'Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente, Dipartimento Regionale dell'Ambiente -con il quale "ad integrazione" della concessione demaniale marittima n. reg. 520/2014 rilasciata al ricorrente si determina che l'area demaniale marittima (mq 65) assentita per uso esclusivo non potrà essere utilizzata per la sosta di autovetture se non per il tempo necessario per consentire l'accesso all'abitazione e lo scarico di merci e di altro- è stato annullato perché doveva essere adottato dalla stessa autorità che aveva emanato l’atto di primo grado, dopo aver dato comunicazione di avvio del procedimento e comunque seguendo lo stesso iter procedimentale imposto per l’adozione del provvedimento favorevole su cui si intendeva incidere e, dunque, per vizi di forma.
In parte qua, perciò, l’atto impugnato è legittimo.
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Quanto alla sanzione amministrativa della demolizione, ossia della rimozione delle opere di consolidamento del sentiero e dello spiazzo in terra battuta al fine della restituzione al pristino stato, ritiene il Collegio che essa sia stata correttamente irrogata ai sensi e per gli effetti dell’art. 35 del D.P.R. 380 del 2001.
Ribadito che l'ordine di demolizione per difetto di titolo edilizio, e non per difetto di titolo autorizzatorio all'occupazione di suolo demaniale, ricade ai sensi del predetto l'art. 35 nella competenza provvedimentale ed esecutiva del Comune, va condivisa, anche riguardo al caso di specie, la giurisprudenza secondo la quale l’art. 35 del D.P.R. n. 380 del 2001 -che dispone che qualora sia accertata la realizzazione di interventi realizzati "sine titulo" ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi- non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie poiché trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda opere abusive su suoli pubblici: la norma, dunque, non lascia all'ente locale alcun spazio per valutazioni discrezionali e impone di ordinare la demolizione a spese del responsabile dell'abuso (TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 23.10.2015, n. 2687; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 10.10.2014, n. 5261; TAR Liguria, sez. I, 05.06.2014, n. 873; TAR Campania, Salerno, sez. I, 06/09/2013, n. 1820).
In parte qua, pertanto, il ricorso è infondato e va rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 28.11.2017 n. 2758 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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